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INTRODUZIONE
FONTI DEL DIRITTO IN ETA’ ARCAICA E REPUBBLICANA
Origini di Roma. In epoca arcaica, in territorio Liatium vetus si fonda sulla produzione agricola e pastorizia.
Dall’agregazione di villaggi contadini nasce (metà VIII sec. a.C.) il nucleo più antico di Roma, guidata da un
capo (rex) e da un consiglio di anziani formato dai patres (si regge su costumanze familiari sociali ispirate
all’assoluto rispetto per gli avi. Fondamentali è l’osservanza dei mores maiorum, gli usi degli antenati.
I pontefici. I membri delle comunità, i cives, osservano dei precetti su cui si può scorgere il nucleo originario
dello ius legato alla sfera magico-astrale del fas. Il controllo dei comportamenti cittadini è affidato ai
pontefici i quali: organizzano il calendario, stabiliscono i giorni fasti e nefasti, elaborano formule per
invocazioni agli dei e registrano gli eventi più importanti; garantisco poi la pax deorum e interpretano il
volere degli dei, fungendo da intermediari coi cittadini.
Oralità, formalismo e superstizio caratterizzano la mentalità arcaica. I pontefici stabiliscono ciò che è lecito
(fas) e ciò che non lo è (nefas), elaborano congegni e pratiche rituali, che i cittadini devono compiere
affinché si producano determinati effetti e attraverso i responsum rispondo ai quesiti dei cittadini
interpretando i mores maiorum ed elaborando la scientia iuris.
Responsa dei pontefici. In cui si concentra la conoscenza del divino e dell’umano; il ius tocca entrambe le
sfere. Esso scaturisce dai mores l’esigenza della pax deorum.
Leges regiae. Per tutta l’epoca regia l’ordinamento giuridico di Roma si fonda sui mores. Le leges regiae
sono complessi normativi emanate dai monarchi succedutosi dal governo cittadino.. le delibere adottate
dalle singole gentes, i decreta gentilicia, riguardavano solo i membri della gens. Gentes: ceto dirigente
composto dai membri più autorevoli delle stesse, si assiste poi alla immissione in senato di altri patres
familiarum, ossia l’ascesa al potere di nuovi ceti emergenti, le minores gentes. Genesi della Repubblica. Nel
509 a.C. s’instaura l’ordinamento repubblicano con i primi due consoli passaggio dal governo di un solo
uomo a quello di una coppia di magistrati, i consules (praetores).
Per le vicende più complesse abbiamo un complesso normativo composto da una commissione di dieci
uomini, decenviri legibus scribundis (legge delle XII Tavole).
Le XII Tavole. Emanato tra 451-50 a.C. con un testo a carattere generale ed uniforme , li limitava a
raccogliere e riordinare le consuetudini e le costumanze della società: novità fu la scrittura con cui si
attribuì certezza alle norme da osservare. Agli inizi del IV sec a.C. andò perduto in un incendio, ma i
contenuti vennero aggiornati e tramandati nel tempo, e si riconobbe in esso, per secoli, la fonte di diritto
pubblico e privato.
Il popolo e i comitia. Sulle XII Tav. comincia a svilupparsi un interpretatio da parte dei pontefici e poi dai
giuristi laici. Abbiamo il consolidamento del regime repubblicano: ha il suo fulcro nel popolo e nella
organizzazione comiziale, con funzione legislativa: i cittadini, divisi in 5 classi in base alla ricchezza
posseduta, si riunivano nel comitiatus maximus dove votano le leggi su proposta del magistrato.
Il pretore. Si concentra nella figura del magistrato la giurisdizione, prima affidata al re e poi ai consoli. Il
pretore, eletto annualmente, era titolare di imperium, e venne istituito nel 367 a.C.. Alla figura del pretore
urbano (preposto alla giurisdizione tra cittadini), fu affiancata nel 242 a.C. quella del pretore peregrino (per
le controversie tra cittadini e stranieri). Tuttavia anche i cittadini potevano rivolgersi al pretore peregrino.
L’editto pretorio. Non dovette avere una cadenza fissa e periodica, ma tra II e I sec. la cadenza si stabilizzò:
all’inizio dell’anno di carica, il pretore pubblicava nel foro il suo programma annuale dove si configuravano
specifici mezzi processuali da impiegare per far valere diritti e poteri, obblighi e doveri, nelle ipotesi
delineate a coloro che ne avrebbero fatto richiesta. Tale massa precettiva, edictum perpetuum, restava in
vigore per tutto l’anno di carica, non era immutabile ma si aggiornava anno dopo anno. Si aggiungevano
anche statuizioni, edictum repentinum, per far fronte ad istanze emerse in seguito alla sua carica.
Ius honorarium. Il ruolo di questo diritto fu quello di aiutare, integrareo correggere il diritto civile per il
pubblico interesse (Papiniano).
Ius civile. Formato dagli antichi mores, dalle XII tav e dall’interpretazione pontificale, dai responsa dei
giuristi, dalle leges comizialo; dall’altro lato, sempre per la disciplina tra i rapporti provati, il ius honorarium,
che offriva sia ai cives che agli stranieri, efficace protezione giudiziaria fu chiamato ius gentium quella
parte di ius honorarium applicabile anche agli stranieri.
IUS CONTOVERSUM
Chiamiamo controverso il diritto, quando all’interno di un ordinamento giuridico in vigore si
contrappongono punti di vista differenti. Un diritto instabile ed iperstabile allo stesso tempo in linea con la
funzione principale dei giuristi, quella di dare responsi. Il giureconsulto era esperto nel:
- Àgere: agire processuale, sfera in cui i giuristi elaborano le formule necessarie per l’introduzione e
lo svolgimento del giudizio.
- Cavere: allestire i congegni verbali necessari ai privati per compiere affari e concludere contratti;
- Respondere: rispondere alle sollecitazioni e alle domande rivolte da costoro. Pone la sua sapienza
al servizio della comunità. I suoi responsa formano nuove generazioni di giuristi
IL PROCESSO PRIVATO
LA REALIZZAZIONE DEL DIRITTO
Coattività del diritto: dalla violazione della norma discendono la sanzione (con accertamento della
violazione lamentata) e la sua applicazione. Gli organi si attivano nel momento in cui ricevono una
domanda di giustizia da parte di un individuo il quale eserciti un’azione (diritto soggettivo). L’ordinamento
mette a disposizione mezzi di difesa dei diritti ai cives riconosciuti e sanzioni per la loro inosservanza.
L’interessato aveva l’onere di assumere l’iniziativa. Si procede poi all’individuazione della norma
applicabile al caso concreto. Ma le norme erano assai scarse: quando mancava una norma svolgevano
un’operazione di interpretazione della norme estensiva (assegnare un significato più ampio di quello
strettamente letterale) oppure analogica (applicazione ad una fattispecie analoga non identica a quella
della norma). Ove poi avessero constato l’assenza di una norma, dovevano concludere che qual
comportamento umano fosse lecito, in quanto non vietato. Il cittadino romano doveva agire in giudizio,
rivolgendosi al rex (monarchia) o al magistrato (repubblica) affinchè essi effettuassero l’accertamento del
diritto vantato.
LEGIS ACTIONES
LEGE AGERE: caratteri e struttura delle cinque azioni di legge
Il processo più antico fu quello per legis actiones. Caratterizzate da espressioni solenni che i litiganti
dovevano pronunciare al cospetto del magistrato indicate da tali leggi, una minima deviazione rispetto alla
terminologia conduceva alla perdita della causa. Le legis actio erano cinque: l.a.sacramento, l.a. per iudicis
arbitrive postulationem, l.a. per condictionem (sono azioni di accertamento con un processo bifasico); l.a.
per manus inectionem, l.a. per pignoris capionem (sono azioni esecutive di una sentenza già pronunciata
dove non aveva luogo la fase apud iudicem). Caratteristiche comuni: formalismo orale che rendeva rigido
il procedimento, tipicità delle azioni. Le più antiche, presenti nelle XII Tav. sono la l.a. sacramenti in rem e
l.a. pe rmanus inectio. Struttura del processo di cognizione: Gaio lo descrive come bifasico con la fase in
iure e poi fase apud iudicem (in iudicio). Quindi la procedura relativa alle prime tre azioni precìvedeva:
- Introduzione del procedimento in iure mediante la chiamata in giudizio del convenuto, il quale
doveva recarsi al cospetto del magistrato per ascoltare le affermazine dell’attore. Qualora non si
presentasse, l’attore doveva effettuare la manus iniectio stragiudiziale, ossia afferrare fisicamente il
reus e trascinarlo con la forza, possibilità per sottrarsi con la presenza di un vindex (un garante
solvibile) il quale garantisce la sua comparsa in giudizio in un dato giorno. Se poi il convenuto
rifiutava di collaborare si passava alla manus inectio esecutiva.
- Lo svolgimento della fase in iure del processo, davanti al magistrato il quale poi procedeva alla
nomina del giudice privato che avrebbe dovuto decidere la lite emanando la sentenza.
- Svolgimento della fase apud iudicem (presso il giudice).
Nella fase in iure si doveva impostare la controversia e le parti dovevano inscenare gestualità solenni e
pronunciare i certa verba, quindi i litigandi prendono parte attiva al processo. Il giusdicente doveva
constatare che i litiganti pronunciassero in sua presenza le frasi solenni prescritte e poi ordinare o negare la
prosecuzione del processo. Ad essere ammessi in giudizio erano soltanto i cittadini romani, liberi e sui
iuris. La donna, l’infans e l’impubere dovevano essere sostituiti da un tutor o curator, al di fuori da queste
ipotesi non erano ammesse sostituzioni a meno che non si presentasse un vindex. In prima battuta, era
l’attore che dichiarava il diritto di cui voleva ottenere il riconoscimento nei confronti del convenuto.
Quest’ultimo doveva poi prendere parola con una affermazione incompatibile alla prima e il magistrato
provvedeva alla nomina del giudice privato e si apriva la seconda fase apud iudicem, alla fine della quale
veniva emanata la sentenza. Se invece il convenuto non ribatteva si procedeva direttamente alla
esecuzione. Quindi fase apud iudicem affidata ad un giudice o ai collegi permanenti dei decenviri. Compito
del giudice erano l’esame delle dimostrazioni fornite dalle parti in ordine alle circostanze affermate nella
fase in iure. Una volta formatosi un proprio convincimento, doveva emanare sentenza che poteva essere
dichiarativa, di assoluzione, di condanna. La condanna, a partire dall’età repubblicana, si allontana
dall’esecuzione specifica, ma divenne pecuniaria. Una volta conclusosi il processi con la sententia del
giudice, non poteva avere luogo un’altra legis actio sulla medesima lite. A seguito di una sentenza di
condanna, qualora il soccombente non ottemperasse all’obbligazione, l’attore poteva esercitare l’azione
esecutiva.
PROCESSO FORMULARE
DALLE AZIONI DI LEGGE AL PROCESSO PER FORMULAS
Implicavano il ricorso alle formule edittali previste dall’editto pretorio. Per formula si intende lo schema
astratto dell’azione e il contenuto dell’atto scritto che concludeva la fase in iure (formula iudicii). Nel corso
degli anni si verificò una moltiplicazione delle formule , sicchè ad ogni tipo di pretesa venne a corrispondere
una formula specifica. Agere per concepta verba litigare mediante ricorso a regole di giudizio elaborate
per ciascun caso. Si diffuse in Roma partire dal III sec a.C., inizialmente solo per le liti con e tra stranieri, in
quanto non potevano accedere al processo per l.a.
Il conseguimento dello ius commercii implicava la facoltà di utilizzare gli atti negoziali dello ius civile anche
quella di ricorrere alla tutela delle l.a., al pari dei cittadini romani. Le liti tra mercanti e stranieri si
moltiplicarono e il pretore adottò il meccanismo processuale delle fictio civitatis (finzione di cittadinanza
romana) qualora si presentasse in tribunale un peregrino non dotato di ius commercii, il magistrato quindi
rivolgeva al giudice la richiesta di far finta che entrambe le parti fossero dotate di cittadinanza romana.
Porta l’effetto di attirare in tribunale numerose controversie e per questo motivo nel 242 aC fu istituito il
secondo pretore. Il pretore peregrino (non vincolato alle logiche civilistiche) avrà il compito di statuire il
diritto tra stranieri e tra romani e stranieri; e pretore urbano esercita la iurisdictio tra i cittadini romani.
I magistrati dovevano emanare l’editto all’inizio dell’anno di carica come programma di governo,
enunciando i criteri con i quali avrebbero amministrato la giustizia. Il contenuto di tutti gli editti pretori
costituì ius honorarium. Nel I sec a.C., 67 a.C., con la Lex Cornelia si stabilì che i magistrati dovessero
attenersi a quanto da loro stessi disposto con il proprio edictum perpetuum (che rimaneva in vigore sino
alla fine della carica magistratuale), i successivi pretori poi potevano mutarne il contenuto correggendo o
integrando il testo edittale. Ma poteva apportare modificazioni ad esso anche nel corso dell’anno di carica
con iudicia decretali (formula di giudizio emanata quando gli si fosse sottoposta in concreto una situazione
giuridica che ritenesse meritevole di tutela concedendo azioni decretali) e con iudicia repentina (integrava
l’editto perpetuo con una nuova azione o altro mezzo processuale necessario a tutelare una situazione
giuridica anteriormente irrilevante per ius honorarium). compresenza dei due sistemi di ius civile e
honorarium a partire dal III sec a.C..
Ai cittadini romani poteva e doveva essere applicato lo ius civile . nei processi peregrini il pretore peregrino
doveva introdurre nuove procedure rispetto alle vecchie azioni di legge: nuovi schemi negoziali diversi da
quelli previsti dallo ius civile, quali compraventita (emptio venditio), locazione, mandato e società. Tali atti
sono basati sul consenso e sulla buona fede dei contraenti. Il contenuto dell’editto peregrino, non trovava
fondamento sui mores, ma da l’imperium magistratuale e dai valori morali quali l’aequitas e la bona fides.
Buona fede intesa in senso oggettivo (come correttezza nella vita di relazione); per equità si intende
equilibrio tra le prestazioni e senso del giusto nel comune sentire.
Correzione del vecchio ius civile alla luce dei valori della buona fede e dell’equità. Inizialmente i cittadini
romani non potevano avvalersi di iurisdictio peregrina poi, constatando la modernità, snellezza, libertà
delle forme, e il due nuovi valori, presero ad invidiare agli stranieri il loro processo, perciò, con una Lex
Aebutia del 130 a.C. consentì ai cittadini romani la scelta tra le legis actiones e il processo formulare. Perciò
il contenuto dei due editti finì per diventare quasi coincidente e nel 17 a.C. si soppressero tutte le azione di
legge di accertamento, cadono in disuso anche quelle esecutive nel III sec. dC.
Perfezionamento del processo formulare, con la codificazione dell’editto perpetuo con la stabilizzazione del
testo edittale, promosso da Adriano, per irriggidire l’editto pretorio ed evitarne l’evoluzione (età dei Severi
(fine I sec a.C. – III sec dC).
essere consegnato al giudice privato per ottenere l’emanazione di una sentenza ed era necessario che ogni
iudicium si componesse di alcune parti tipiche:
1- Datio iudicis: che si trovava in testa alla formula a veniva espressa con parole Titius iudex esto, per la
nomina del giudice e dei recuperatores destinatari dello iudicium formulare.
2- Demonstratio (descrizione) si esponeva il fatto, il rapporto giuridico su cui si era accesa la controversia,
non era parte essenziale dello iudicium, ma se veniva inserita precedeva l’intentio, e rivestiva la
funzione di premessa chiarificatrice (introdotta da un quod dimostrativo).
3- L’intentio era la parte della formula in cui l’attore racchiudeva la propria pretesa nei confronti del
convenuto. Non poteva mancare nello iudicium, poteva essere certa (era nella actiones in rem, certo era
l’oggetto) o incerta (quando il giudicante doveva quantificare la summa condemnationis o accertare
l’estensione del diritto affermato dalla parte attrice). Quando la intentio era incerta esse veniva
preceduta da una demonstratio.
4- La adiudicatio e/o la condemnatio costituivano le parti finali della formula e almeno una delle due
doveva essere inserita. Parte più frequente era la condemnatio. Condemnatio: va intesa la parte dello
iudicium con cui il magistrato conferisce al giudice il potere di condannare o di assolvere; poteva essere
certa (se nella formula era fissata la somma di denaro cui il convenuto doveva essere eventualmente
condannato) o incerta (il magistrato poteva aggiungere alcune indicazioni circa i criteri che il giudice
avrebbe potuto seguire per procedere alla litis aestimatio per quantificare la summa condemnationis; il
giudice poteva considerare il valore della cosa litigiosa al momento della litis contestatio, della sentenza
oppure precedentemente alla litis contestatio; sottraeva l’attore al rischio di pluris petitio).
Il magistrato poteva porre in favore del convenuto una taxatio, cioè un limite non superabile dal giudice
nel determinare l’ammontare di una condanna pecuniaria a finalità di beneficium del convenuto.
Per adiudicatio (aggiudicazione), che non manca mai nei giudizi divisori, con la quale il magistrato
conferiva al giudice il potere-dovere di attribuire a ciascuno le parti spettanti della cosa litigiosa.
La condemnatio poteva non comparire nello iudicium soltando quando al suo posto vi era la clausola
adiudicatio, ma subiva delle eccezioni da parte delle formule pregiudiziali, consistenti in iudicia
formulari con cui il magistrato invitava il giudice ad effettuare un mero accertamento, senza
pronunciare sentenza.
I pretori arricchirono progressivamente gli scarni schemi delle formule-tipo appena descritti con una serie
di altri parti utili per la caratterizzazione della fattispecie litigiosa, il magistrato aggiunge quindi altre
clausole, a vantaggio dell’attore o del convenuto.
Tra le parti accessorie della formula vi erano l’exceptio (concessa e richiesta a favore del convenuto) e la
prescriptio (a vantaggio dell’attore).
EXCEPTIO: collocata subito dopo l’intentio, con la quale il convenuto non si limitava a negare quanto
asserito dall’attore, strumento di difesa del convenuto per correggere le iniquità presenti nello ius civile;
rende inoperante il diritto dell’attore bloccando la sua azione e togliendogli efficacia (esempi a pag. 81-82
per exceptio doli e exceptio pacti conventi).
Si distinguevano le eccezioni a seconda che fossero dilatorie (temporales e erano le eccezioni che potevano
essere efficacemente sollevate soltanto in dati periodi di tempo oppure nei confronti di persone
determinate) o perentorie (mortifere e in quanto corrispondevano a una circostanza che il convenuto
poteva sempre opporre all’attore, ottenendo l’assoluzione: exceptio doli e exceptio pacti de non petendo),
distinzioni: l’attore doveva evitare del tutto di promuovere l’azione nei confronti del convenuto (che
avrebbe potuto paralizzarla) se l’eccezione a disposizione del convenuto era di tipo perentorio, mentre
avrebbe potuto esperire con successo l’azione avendo cura di scegliere il momento giusto se l’accezione era
dilatoria, ma qui l’attore deve stare attento ad esperire l’azione nel momento giusto altrimenti avrebbe
dovuto desistere, senza giungere a litis contestatio, aspettando il momento opportuno (es. pag. 83)
In favore dell’attore era prevista la replicatio con cui esso poteva ribattere al convenuto circa i contenuti
dell’exceptio sollevata, poteva quindi paralizzarla. A sua volta il convenuto poteva contestare la replicatio
dell’attore, chiedendo al magistrato una triplicatio, e così di seguito (es. pag. 84).
Un’altra parte non essenziale era la prescriptio (premessa/prescrizione):
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- Prescriptio pro reo ( in favore del convenuto) inserita dal magistrato nella formula quando gli pareva
opportuno indirizzare al giudice alcuni avvertimenti, si rivolgeva con l’invito al giudice di considerare
avvenuta la litis contestatio soltanto ove il convenuto non fosse riuscito a dimostrare il fatto allegato a
propria difesa, vicersa il giudice avrebbe dovuto considerare non avvenuta la litiscontestazione.
- Prescriptio pro actore che aveva la funzione di evitare, a certe condizioni, la consumazione processuale
conseguente a litiscontestazione e veniva inserita all’inizio della formula (premessa in favore
dell’attore), esempio a pag. 86.
la prima cadde in disuso e fu sostituita dell’exceptio, la seconda rimase in vigore
Gli effetti conservativi, modificativi ed estintivi della litiscontestazione: una volta accettato lo iudicium
dalle parti, queste risultavano vincolate al suo contenuto e le sue conseguenze erano triplici
- La litiscontestazione fissava definitivamente il rapporto giuridico controverso, rendendo lo iudicium
irretrattabile e immodificabile e i termini della controversia rimanevano cristallizati; tale effetto
conservativo implicava l’irrilevanza di eventi successivi.
- Con la litiscontestazione l’azione si consumava: non è consentito un secondo processo sullo stesso
affare, era quindi uno dei modi di estinzione dell’obbligazione (estintivo).
- Effetti modificativi: a seguito della litis contestatio l’obbligazione civile del debitore si intendeva estinta
e novata in una obbligazione del convenuto di subire la sentenza del giudice. Dopo la litis contestatio, il
convenuto non era più tenuto in forza della obbligazione originaria, ma della litiscontestazione.
La litis contestatio non poteva implicare l’estinzione né dei diritti reali né dei rapporti non riconosciuti da
ius civile, perciò in questi casi l’azione era riproponibile, ma il convenuto poteva bloccarla mediante la
richiesta di inserimento nella formula di una exceptio rei in iudicium deductae, che avrebbe indotto il
giudice privato ad assolvere il convenuto; percui era onere del convenuto reppresentare l’avvenuta litis
contestatio, altrimenti avrebbe subito la sentenza di condanna. L’identità di causa (aedem res) si ritenne
sussistente quando si riproponeva la stessa formula fra le medesime parti in causa in ordine agli stessi fatti.
Effetti consuntivi della litis cont. vi era l’ipotesi di pluris petitio (richiesta eccessiva) da parte dell’attore,
qualora nell’intentio della formula inserisse una richiesta superiore a quanto realmente gli spettava. Si
poteva incorrere a pluris petitio per quattro aspetti: re, tempore, loco, causa (vedi esempi pag. 89). L’attore
non potendo più ridurre le proprie pretese e davanti al giudice perdeva la lite e non poteva più riproporre
l’azione con successo per l’effetto estintivo della litis contestatio.
Dal momento della litiscontestazione cominciavano a decorrere i tempi ai fini della mors litis: la fase apud
iudicem doveva concludersi entro 18 mesi dalla litis cont., e se lo iudicium era legitimum, entro l’anno di
carica del magistrato. Decorsi questi termini senza la una sententia emanata si verificava la morte della lite,
ma veniva concesso all’attore di chiedere allo stesso magistrato che aveva emanato la formula o al suo
successore una reinterazione o una conferma dello iudicium con relativo iussum iudicandi.
La translatio iudici consisteva nella sostituzione di una delle parti in causa con altra persona, doveva essere
accettata dalla controparte e disposta dal magistrato mediante decreto.
La mutatio iudicis consistava nel mutamento della persona del giudicante alla quale si doveva addivenire in
caso di morte o sopravvenutà incapacità del giudicante nominato nella formula.
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chiamato a fornire prove soltanto in ordine ad eventuali affermazioni su circostanze di fatto o di diritto,
cioè per le eccezioni inserite nella formula.
LA SENTENZA
Una volta formatosi un suo convincimento, il giudice doveva elaborare la sentenza. Soltanto in via di
eccezione gli era consentito rifiutarsi di addivenire a sentenza affermando non liquet (la questione non mi è
chiara) e si procedeva a sostituzione dello iudex con mutatio iudicis.
Nel formulare la sentenza il giudice era posto di fronte all’alternativa se condannare o assolvere il
convenuto. La clausola dello iudicium contrariorum consentiva al giudice di infliggere una condanna
pecuniaria all’attore, in favore del convenuto assolto.
Se si emanava sentenza di condanna, era pecuniaria, non era ammessa in forma specifica. Nell’indicazione
della summa condemnationis doveva attenersi allo iudicium, se era certa non doveva discostarsi, così come
in presenza di taxatio, a pena il giudice sarebbe stato responsabile di un illecito. La sentenza aveva forma
scritta ad probationem e non erano ammessi ulteriori gradi di giudizio: la possibilità di appello fu prevista
solo nelle cognitiones extra ordinem.
Gli effetti della sentenza: poteva essere di condanna si aveva nascita di rapporto obbligatorio intercorrente
tra l’attore vittorioso e il convenuto soccombente. Conseguenza della sentenza era la res iudicata, che
implicava la preclusione processuale in ordine alle aedem res, rendeva così definitivo l’esito del processo.
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Quest’ultimo succedeva quindi a tutte le situazioni giuridiche trasmissibili, di cui doveva pagare debiti e
qualora non pagasse, quei creditori potevano procedere con le stesse azioni di esecuzione patrimoniale.
Se l’esecutato era in vita, il pretore dava una formula di trasposizione di soggetti, scrivendo nell’intentio il
nome del debitore originario e nella condemnatio il nome del bonorum emptor; se invece era morto, il
pretore inseriva nella formula una fictio, invitando il giudice a fare finta che il bonorum emptor fosse erede
del debitore. Ma l’acquirente (bonorum emptor) poteva anche pretendere gli eventuali crediti che poteva
vantare l’espropriato usando gli stessi metodi sottolineati.
Al debitore che fosse incorso nell’insolvenza senza sua colpa, si consentì di evitare la conseguenza
dell’infamia abbandonando volontariamente i propri beni (cessio bonorum) in vantaggio dei creditori e poi
si procedeva alla venditio bonorum.
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- Le azioni onorarie erano temporanee, a differenza dell’età arcaica, ossia che la loro concessione
dipendeva dalla durata in carica del magistrato che le aveva inserite nel suo editto, e se erano penali
potevano essere date entro un anno dalla commissione del fatto illecito.
- In età arcaica non vi era limite di tempo all’esercizio dell’azione, si poteva dare impulso al processo
anche molti anni dopo la lesione lamentata in quanto le situazioni giuridiche soggettive erano ritenute
eterne azioni perpetue
Contrapposizione tra iudicia legitima e iudicia imperio continentia: i primi dovevano essere conformi a tra
requisiti: 1- svolgimento della lite tra soli cives romani; 2- celebrazione del processo a Roma; 3- rimessione
della decisione ad un giudice unico e cittadino romano. Qui la mors litis si verificava se il giudicante non
emanava la sentenza entro i 18 mesi; i secondi erano qualificati tali in quanto il giudizio in essi risultava
contenuto nell’imperium del magistrato che lo aveva emanato, e limitato ad esso. Qui la parte interessata
aveva l’onere di promuovere la fase apud iudicem e il giudice doveva sentenziare prima che scadesse l’anno
di carica del magistrato.
Distinzione tra azioni di stretto diritto, azioni di buona fede, azioni arbitrarie atteneva ai compiti assegnati
al giudice nella fase apud iudicem:
- Azioni di stretto diritto: erano sempre e soltanto azioni in personam, si caratterizzavano per uno
iudicium in cui l’obbligo del convenuto risultava descritto in modo certo e determinato, con indicazione
dell’importo pecuniario. Il giudice doveva quindi procedere all’accertamento dei fatti seguendo
rigidamente le indicazioni dello iudicium.
- Azioni di buona fede: il giudicante godeva di maggior discrezionalità nella valutazione della controversia
sottopostagli, riceveva dal magistrato, l’incarico di applicare principi di equità e di buona fede e sulla
base del suo apprezzamento condannare o assolvere il convenuto.
INTERESSE POSITIVO: principio secondo ciu la litis aestimatio dovesse corrispondere all’interesse
dell’attore all’adempimento. Nel calcolo dell’interesse positivo si facevano rientrare perdite sofferte
(danno emergente) e il mancato guadagno (lucro cessante).
INTERESSE NEGATIVO: cui si faceva ricordo quando si voleva fare valere la responsabilità del convenuto
per dolus in contrahendo. Il giudice considerava la situazione patrimoniale in cui si sarebbe trovato
l’istante se non avesse concluso il contratto, paragonandola con la situazione in cui concretamente si
trovava, avendolo invece concluso a seguito delle malizie della controparte.
Sottospecie delle azioni di buona fede:
1. Azioni in bonum et aequum conceptae: il giudice non aveva il compito di effettuare valutazione
equitative ai fini della decisione, ma il potere di determinare l’ammontare della condanna
pecuniaria secondo equità.
- Azioni arbitrarie: davano luogo ad uno iudicium in cui il magistrato incaricava il giudice, che si
convincesse del torto del convenuto, di comunicare a quest’ultimo, prima di emanare sentenza di
condanna, le conclusioni cui era giunto a seguito della fase probatoria e di porgli un’alternativa:
ripristinare spontaneamente la situazione giuridica alterata , evitando così la sentenza di condanna,
oppure soggiacere alle conseguenze di essa (scelta c.d. arbitrium de restituendo.
Fin qui si sono illustrate le azioni private, concesse ai singoli individui al fine di tutelare i propri interessi.
Ma nell’editto abbiamo anche azioni popolari, riconosciute a qualunque cittadino per la tutela di interessi
di pubblica rilevanza.
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- Interdetti: ad ordine spesso negativo, consisteva in un ordine pretorio (ordinanza d’urgenza) con cui il
magistrato ingiungeva all’avversariodi tenere determinati comportamenti, banchè non fossero prescritti
da ius civile né esigibili mediante azioni formulari. La ratio era quella di porre rapidamente rimedio ad
una situazione che rischiava di pregiudicarsi in tempi brevi. Gli interdetti poteva concederli o negarli
purchè rientrassero negli schemi astratti previsti nell’editto, e si dividevano in tre categorie:
1. Interdetti esibitori ingiungevano al destinatario dell’ordine l’esibizione in giudizio di cose o persone;
2. Interdetti restitutori si ordinava l’immediato ripristino della situazione di fatto alterata dal
destinatario dell’ingiunzione;
3. Interdetti proibitori con cui il magistrato ordinava di astenersi da un dato comportamento; alcuni
potevano essere proibitori chiamati interdicta duplicia quando l’ordine interdittale si rivolgeva ad
entrambe le parti interessate, in modo che poi soltanto colui che si fosse trovato nella situazione
descritta dovesse ottemperare all’ordine edittale.
Quindi una volta emanato un interdetto, il contrasto tra i privati coinvolti si risolveva subito soltanto se il
destinatario dell’ordine interdittale obbediva spontaneamente. In caso contrario la lite continuava.
Per ipotesi di mancata ottemperanza, l’editto pretorio previde l’instaurazione di un processo di
accertamento (processo ex interdicto), mirato alla verifica della fondatezza dell’ordine interdittale
ACTIO DE INTERDICTO. Il vincitore del processo ex interdicto esercitasse un’ulteriore azione volta
all’esecuzione.
- Stipulazioni pretorie: su richiesta dell’interessato il magistrato ordinava a taluno di obbligarsi mediante
stipulatio (il promittente si obbligare a pagare allo stipulans una somma di denaro, per l’ipotesi che
avesse compiuto o che si fosse astenuto da un’attività; serviva ad indurre il promittente a svolgere
l’attività richiesta) nei confronti del postulante, in caso di rifiuto si ricorreva alla missio in possessionis,
pignoramento e multe.
- Integrum restituiones: provvedimento magistratuale idoneo a ripristinare lo stato di diritto anteriore
rispetto a un determinato fatto o atto, che il pretore faceva risultare rescisso. La ratio consisteva
nell’invalidare i fatti giuridici che ingiustamente compromettessero situazioni giuridiche soggettive. Si
intende la restituzione dello stato di ripristino. Il magistrato nella composizione dello iudicium ricorreva
alla formula ficticia, con la quale invitava il giudicante a non tenere conto dell’atto su cui si fondava
l’azione promossa dall’attore; se invece gli veniva richiesto dal convenuto, il pretore poteva concedergli
un’apposita exceptio.
- Missiones in possessionem: con decreto il pretore poteva immettere il richiedente nella disponibilità di
fatto di un singolo bene altrui o di un intero patrimonio appartenente alla persona.
- Datio bonorum possessionis: (concessione del possesso dei beni) era un provvedimento con cui il
pretore concedeva a taluni soggetti il potere di possedere il compendio ereditario e di disporre
dell’intero patrimonio del defunto come se fossero stati suoi eredi. Erano successori universali per il
diritto onorario ma non per il diritti civile.
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LA SENTENZA
Redatta per iscritto e il giudice doveva leggerla alle parti in pubblica udienza, pena la nullità. EFFETTI: avvio
della procedura esecutiva/ effetto estintivo o esclusorio. Poteva essere affetta da nullità: per violazione
delle norme imperiali o contrasto con un precedente giudicato.
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L’APPELLO
La sentenza poteva essere oggetto di riesame. L’appello ha effetto di sospendere l’secutorietà. Il principe
poteva cassare la sentenza o mutarne il contenuto, ma più avanti fu costretto a delegare il giudizio
d’appello a funzionari a lui subordinati. È la facoltà della parte soccombente di ottenere un riesame della
causa da un giudice di grado superiore. L’appello di proponeva, da chi vi aveva interesse, con libelli
appellatori, indicanti i motivi di gravame. Doveva essere presentata dalla parte soccombente al giudice che
aveva pronunciato la sentenza: il giudice a quo era obbligato a ricevere l’appello, a verificare
esclusivamente la sussistenza dei presupposti di ricevibilità e di ammissibilità o rilevarne l’infondatezza per
omissione di motivi di gravame. Ricevuto l’appello, entro 30gg doveva consegnare all’appellante, uno
scritto con le sue osservazioni.
La regolare proposizione dell’impugnazione produce un duplice effetto: determinava la sospensione della
esecutorietà della sentenza impugnata;e investiva il giudice di grado superiore di emettere nuova sentenza;
il giudizio presupponeva la presenza di entrambe le parti: in mancanza dell’appellato il giudice dovevaa
decidere in modo imparziale, tenendo conto anche le ragioni dell’assente; se assente fosse stato
l’appellante, il giudice doveva pronunciare sentenza contro di lui, e punito con una sanzione.
Anche le sentenze di appello erano impugnabili, ma non per chi avesse subito due sentenze sfavorevoli.
LA PROCEDURA ESECUTIVA
L’esecuzione continuava a potersi esercitare sulla persona del debitore, si attuava tramite l’arresto del
debitore.
Esecuzione patrimoniale sui singoli beni: veniva pignorate singole cose del debitore e, dopo due mesi,
qualora questi non avesse adempiuto, si procedeva alla loro vendita all’asta su disposizione del magistrato.
Con il ricavato della vendita veniva pagato il creditore e l’eventuale residuo veniva restituito al debitore, in
mancanza di compratore si poteva procedere ad assegnazione in proprietà al creditore stesso.
Procedura concorsuale: poteva essere sottoposta ad esecuzione forzata l’intero patrimonio del debitore
insolvente in caso di pluralità di creditori, i quali se insoddisfatti potevano richiedere la missio in bona e in
debitore per evitare infamia poteva fase cessio honorum. Abbiamo ancora la divisione tra creditori
privilegiati e chirografari.
Esecuzione in forma specifica: la restitutio era possibile.
LE PERSONE
LA SOGGETTIVITA’ GIURIDICA
Il soggetto di diritto per i romani fi colui che veniva sottoposto a forma di coercizione fisica esercitate da un
potere esterno, per subiectus si indicava uno stato di soggezione materiale. Abbiamo una netta divisione di
tutti gli individui in liberi e schiavi. Con il termine ‘persona’ si intendeva la maschera teatrale.
Per il termine caput si intendeva individuo. In età classica non doveva ancora essere maturata l’idea che
con caput ci si potesse riferire ad un insieme di relazioni giuridiche attinenti alla capacità del singolo. Tale
mutamento si verificò in età bizantina, con riguardo allo schiavo che non può essere considerato come un
individuo, ci si avvicina al concetto moderno di capacità.
CAPACITAS: possibilità di ricevere per via di successione mortis causa, con potere di acquistare un credito o
di ricevere un pagamento. I romani richiedono requisiti specifici costituiti dalla cittadinanza e
dall’indipendenza familiare, cioè di non essere sottoposto a potestà altrui. si tratta del PATER FAMILIAS:
uomo libero, cittadino romano, sui iuris (di proprio diritto), ma essere limitato nel suo agire per cause come
l’età o patologie mentali. Poteri di cui gode: ius commerci, testamentio factio attiva e passiva, titolare di
diritti reali e potestas esercitata su figli e schiavi.
Il conubium è il diritto di contrarre matrimonio secondo diritto secondo i romani, ponendo la differenza tra
Latini e peregrini: hanno il connubio solo cittadini romani con cittadini romani. Per quelli di stirpe diversa ci
vuole apposita concessione.
Dal versante del diritto pubblico, diversamente dal privato, non è richiesta la posizione sui iuris, per cui in
età adulta i filii familias, possono partecipare alle assemblee, hanno diritto di voto e possono candidarsi.
Il diritto pubblico è ciò che attiene all’aspetto organizzativo della comunità romana.
Il diritto privato è ciò che concerne l’interesse dei singoli.
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Al centro della vita sociale e politica romana si collocavano la familia romana e il suo capo, il pater familia.
L’acquisto di condizione di soggetto di diritto avviene all’atto della nascita.
In Roma antica, i soggetti sono esclusivamente i liber, gli schiavi sono oggetti, è negata la soggettività a
neonato che non abbia sembianze umane, il mostrum, il quale poteva essere ucciso dal padre o
abbandonato; viceversa se al neonato corrispondevano fattezze umane gli era riconosciuta la qualità di
soggetto purchè sia vivo.
Protezione giuridica del feto: si dava importanza al momento del concepimento, si nnominava un curatos
ventris per controllare il regolare andamento di una gestazione in caso di divorzio. Il nascituro era
giuridicamente considerato come se fosse già nato: una finzione per imputare in capo al soggetto non
ancora nato effetti favorevoli subordinati alla nascita, mancando la quale non si producevano. Fino al parto,
il curator, amministrava i beni spettanti al nascituro.
La possibilità di agire incontra un limite naturale nella minore età o in talune patologie: in quanto all’età si
fa distinzione fra infantes (minori che non hanno ancora compiuto il settimo anno) sono totalmente privi di
capacità, e gli infantia maiores (tra i sette e il raggiungimento della maturità), considerati parzialmente
incapaci, superata l’infantia si è impuberes e per costoro il problema della piena capacità di agire si pone
solo per i sui iuris. La capacità fisiologica alla procreazione è raggiunta ai anni 12 per la donna e 14 per
i maschi (facevano ispezioni corporali).
PUBERI: raggiunta la pubertà si è capaci di compiere validamente atti giuridici. Si proteggono i minori dai
possibili raggiri, qualora fosse stato convenuto in giudizio in base al contratto concluso. In caso di patologie
come infermità mentale e la prodigalità, si faceva ricorso all’assistenza prestata da altri.
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Tuttavia, nel tempo si formano principi tendenti al riconoscimento della natura di essere umano, e vengono
repressi gli abusi disciplinari attraverso una serie di disposizioni tendenti proteggere gli schiavi dal
maltrattamento del dominus
IL PECULIUM: ossia si riconosce al servo la possibilità di amministrare un gruzzolo, formato dai frutti del
proprio lavoro. Il peculium era di proprietà del padrone, che poteva revocarlo in qualsiasi momento. Lo
schiavo ne aveva solo la gestione di fatto e non poteva disporne mortis causa.
LIBERAZIONE DELLO SCHIAVO: possibilità di passare alla condizione di libero per volontà del dominus: gaio
divide i liberi in due categorie:
- INGENUI: i nati liberi;
- LIBERTINI: coloro che, nati servi, sono stati affiancati da iusta servitus. La manumissio è l’atto con cui il
dominus concede la libertà al proprio schiavo, essa appartiene a ius gentium;
Il diritto civile conosce tre forme solenni di liberazione dello schiavo:
1. Manomissione testamentaria: il dominus esprimeva solennemente la volontà che il proprio sevus fosse
libero ed erede, ma doveva attendere l’atto di accettazione dell’eredità da parte di chi fosse stato
nominato erede.
2. Manumissio vindicta: finto processo di libertà che si svolge dinanzi al magistrato, mediante un rito che
prevede gesti formali e la pronuncia di determinate parole.
3. Manumissio censu: si registra lo schiavo nelle liste dei cittadini romani, su autorizzazione del padrone,
come persona di condizione libera all’atto del censimento della popolazione
In altri modi era possibile manifestare tale intento in via informale, tra amici o nel corso di un banchetto: il
servus acquistava di fatto la libertà, pur restando schiavo secondo il diritto civile, e l’eventuale azione di
rivendica in schiavitù del dominus sarebbe stata rigettata. A costoro veniva attribuita non la cittadinanza
romana, ma quella Latina, chiamati Latini Iuniani, morivano come se fossero ancora schiavi e il loro
patrimonio era devoluto al loro vecchio dominus.
LIMITI ALLE MANOMISSIONI allo scopo di impedirne l’accesso massiccio e incontrollato di schiavi alla
cittadinanza romana.
Una volta liberati si diventava liberti o libertini: ex schiavo detto libertus in rapporto al suo patrono,
libertinus in confronto con chi sin dalla nascita ha goduto della libertà. Con la manomissione non cessa ogni
legame con il manomissore (obsequium): si deve la gratitudine al padrone con obbligo di prestare alimenti
in caso di necessità. Gli obblighi sono fissati prima della manomissione, poi ripetuto e confermato dopo la
liberazione con una promessa formale (iusurandum liberti), se poi non esegue quanto promesso, si può
ripristinare lo stato schiavile precedente.
Postilium: Se un romano viene fatto schiavo come prigioniero di guerra, appena rientra su territorio
romano riacquista lo status libertatis. Se il riscatto della prigionia era avvenuto con pagamento da parte di
un terzo, colui che era stato riscattato restava sottoposto al potere di costui fin quando non gli avesse
rimborsato il prezzo versato. In caso di morte in stato di prigionia in testamento veniva annullato, ma il
problema fu risolto con una finzione in cui si stabilì che il prigioniero fosse da considerarsi morto al omento
della cattura.
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PEREGRINI: distinzione tra: peregrini alicuius civitatis (di una data città alla quale Roma riconoscesse
autonomia); peregrini nullius civitatis (di nessuna città, sui diritti dei quali le autorità romane potevano
intervenire); in posizione svantaggiata sono i peregrini dedicticii (per cui non era neppure possibile per
costoro vantare il proprio originario ordinamento giuridico).
Esisteva anche una condizione giuridica tra cives e peregrini, quella dei Latini:
- Latini prisci: godevano in territorio romano, di un trattamento speciale, purchè fosse garantita la
reciprocità per i romani che si fossero trovati in una comunità latina. Godevano di ius commercii e ius
connubii e di ius migrandii (diritto di acquistare la cittadinanza romana stabilendosi a Roma). I Latini
prisci scomparvero con l’estensione della cittadinanza romana a tutti gli italici, inizi I sec a.C..
- Latini coloniarii: membri delle colonie latine fondate da Roma, godevano di ius commercii, talvolta di ius
conubium e ius suffragi.
Dopo la constitutio Antoniniana: Caracalla nel 212 dC estende la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’impero.
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Una volta superata l’età infantile, può compiere validamente atti aventi efficacia giuridica, purchè vi sia
l’assenso del tutore, prestato tramite auctoritas interpositio.
Per gli atti compiuti nel corso della gestione il tutore risponde di dolo e colpa: trattandosi di un rapporto
fondato sulla fides, la violazione degli obblighi è sanzionata, e si possono esperire azioni contro di lui.
La tutela gravava anche sulle donne sui iuris individuato nella profonda leggerezza d’animo della donna
tutela mulieris. non avevano bisogno di tutore le donne che abbiano ricevuto una concessione
dall’imperatore avendo partorito tre figli. Un favor sulla donna è la c.d. optio tutoris: su autorizzazione
maritale, alle mogli era data facoltà di scegliersi una persona di loro fiducia come tutore.
La cura era prevista per individui sui iuris adulti con insanità di mente e tendenza allo sperpero
(prodigalità): per il pazzo serve a fini di vigilanza sulla persona e gestire il patrimonio; per il prodigo solo per
la gestione del matrimonio. La cura nasce come potestà, poteva essere legittima o dativa in cui è il
magistrato a nominare il curatore, per la gestione degli affari altrui.
Curatore per i minori di 25 anni per la difesa da eventuali raggiri approfittando della sua inesperianza e
l’efficacia di atti negoziali posti in essere potevano essere neutralizzati.
Impedimenti a singoli atti aventi rilievo giuridico:
- condizioni personali del soggetto, discriminazioni a carico di plebei, o criminali
- comportamenti da lui tenuti: ADDICTI erano individui condannati per debiti contro i quali fosse stata
avviata la manus iniectio, venivano trasferiti in potere del creditore, decorso il quale potevano essere
uccisi o venduti. NEXI erano i soggetti che a causa del debito contratto si erano dati volontariamente in
pegno al creditore
- mestieri esercitati o impedimenti derivanti da professioni (il pretore vietava di rappresentare le
persone che svolgevano attività riprovevoli dal punto di vista della stima sociale come prostitute, attori
di teatro e girovaghi)
- credenze religiose: persecuzione dei martiri cristiani, ma nel 313 Costantino stabilì la libertà di culto per
tutte le religioni, fino al monoteismo cristiano con Teodosio I nel 380 dando avvio ad un netto discrimine
per chi non osservasse il credo cristiano, stabilendo delle limitazioni a costoro; sono perseguitati gli
ebrei, pagani, eretici.
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LA FAMIGLIA E IL MATRIMONIO
FAMIGLIA COMMUNIIURE, RAPPORTI DI PARENTELA, GENS
Familiacomunità di persone legate da vincoli di sangue o di diritto alla figura di un capo; a volte si usa
anche in riferimento al patrimonio del de cuius o come sinonimo di gens. Distinzione:
- Familia proprio iurecomposta da coloro che si trovano sotto la potestà di un pater vivente e che
spesso vivono all’interno del focolare domestico;
- Familia communi iureformata da liberi attualmente sui iuris, essendo deceduto il capofamiglia, ma
che sarebbero sotto la potestà di costui se egli fosse ancora in vita; comprendeva: figlie divenute sui
iuris e figlia maschi divenuti capifamiglia.
Il consortium ercto non cito consentiva di mantenere intatta l’unione familiare senza procedere alla
divisione del patrimonio paterno, si costituiva tra gli eredi una specie di società insieme legittima e
naturale, indivisa. Tra i figli resta il vincolo di rapporto di parentela in linea retta.
Adgnatio: legame giuridico tra le generazioni all’interno di una famiglia, è una forma di parentela civile
basata sulla soggezione della medesima potestà.
Adgnatio naturalis: rapporto di parentela fondato sul sangue; per cognatio recta si intende parentela in
linea retta (ascendenti e discendenti); cognatio transversa per quella in linea collaterale.
I gradi di parentela si computano in base al nesso tra le generazioni di una stessa famiglia, risalendo fino al
capostipite per poi eventualmente discendere sull’altro versante (es. pag.189), di regola la cognatio
naturalis non si estende oltre il settimo grado.
Affinità legame intercorrente tra uno dei coniugi e i parenti dell’altro.
La famiglia romana forma una comunità di tipo patriarcale: in età arcaica costutuiva un organismo con
funzioni politico-militari fino alla grande federazione di gruppi familiari.
LA GENS E I GENTILES
La gens si distingue dalla famiglia communi iure per il fatto che quest’ultima, il capofamiglia, pur defunto, è
ancora vivo nella memoria di coloro che gli erano sottoposti; nella prima invece i vincoli di appartenenza si
vanno allentando fino a diventare flebili e a ridursi al nomen. Si pone in rilievo la comunanza di stirpe e del
nomen al fine di individuare i gentiles, appartenenti alla medesima gens.
moglie, figli legittimi e adottivi, nuore, nipoti, schiavi e persone in mancipio, sono tutte persone in stato di
soggezione. È un modello di famiglia fondato sull’affetto, solidarietà e rispetto reciproco ma con sudditanza
al capo. I voleri e comandi di costui sono incontestabili e garantiti con il ricorso di mezzi di correzione e
punizioni corporali (coercitio domestica).
- IUS EXPONENDI: alla nascita di un figlio, il pater poteva esercitare questo diritto, ossia la facoltà di
esporre/abbandonare il neonato, disconoscendone la discendenza legittima.
- IUS VENDENDI: diritto di vendita del sottoposto, attraverso lo strumento giuridico della
mancipatio, che portava ad uno stato di duplice assoggettamento, con fine di creare forza-lavoro.
- IUS NOXAE DANDI: diritto di dare a nossa, per consentire che il sottoposto fosse punito dal terzo,
veniva usato quando il figlio o lo schiavo avesse compiuto un illecito di natura delictuosa arrecando
lesioni a taluno. Modo di liberarsi dalla responsabilità.
- IUS VITAE AC NECIS: diritto di vita e di morte, che colpiva indistintamente tutti i sottoposti in base
al giudizio del pater. Diritto che venne limitato con norme a favore dei sottoposti, qualora il pater
ne abusasse (deportazione, pena cullei).
L’uomo romano sente il bisogno si far testamento e vi è l’esigenza che ogni cittadino si adoperi affinchè i
suoi culti familiari vengano trasmessi alle generazioni successive: l’heres designato come successore è
considerato custode e gestore del patrimonio familiare e dei sacri riti familiari.
I GESTA PER AES ET LIBRAM: che posso essere compiuti esclusivamente dal pater in età arcaica. L’atto
poteva dirsi effettuato quando era adempiuto il rito della pesatura del bronza (eas) su bilancia (libram) da
parte del libripens, che vi provvedeva in presenza di cinque testimoni. Al rito della pesatura del bronzo si
accompagnava la pronuncia di parole solenni; al fianco si collocavano altri atti formali quali: trasferimento
di diritti reali (in iure cessio), costituzione di vincoli obbligatori tramite la pronuncia di parole prefissate
(sponsio), e all’estinzio di quest’ultimo allo stesso modo (acceptilatio). In tutti i casi venivano esclusivi chi
non fosse maschio, cittadino romano sui iuris e pubere.
La volontà del pater era in grado di estendersi anche ai mutamenti di status. Nei confronti degli schiavi
liberati il pater acquistava la vesta di patronus, così come nei riguardi del clientes: individui estranei dalla
gens, i quali dichiaravano obbedienza al pater ponendosi al suo servizio, in cambio di protezione in forza
della fides, qualora il patronus la violi incorreva nella sanzione della sacertà, ossia rientrante nella sfera
etico-religiosa.
Trattazione delle persone alieni iuris: sotto la potestà erano i n figli e schiavi; sotto la manus le donne che
avessero fatto ingresso con matrimonio nella famiglia; sotto il mancipio coloro che fossero considerati al
pari di schiavi.
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Ma c’è un modo per liberare volontariamente il figlio dalla potestà paterna, con la c.d. emancipatio, con 7
atti formali:
occorre una persona di fiducia del pater che si presti per allestire la procedure ed ottenere l’effetto voluto.
1. Vendita del filio con una mancipatio
2. Manumissio vendicta fatta dall’acquirente fiduciario, e cosìil figlioricade sulla potestà paterna.
3. Nuova vendita da parte del padre
4. Di nuovo una manumissione da parte del fiduciario
5. Per la terza volta il padre compie la mancipatio, e il figlio, ormai libero dalle potestà paterna, cade in
quella dell’acquirente.
6. Il fiduciario lo rimancipia al padre, invece di manometterlo.
7. Il padre compie una manomissione con cui il sottoposto a mancipium è libero in quanto mancipato.
LA PERDITA DELLA POTESTA’ PATERNA: poteva derivare da accadimenti naturali o dal compimento di atti
negoziali con capitis deminutio, in questi casi rispettivamente diventavano sui iuris o passavano sotto una
nuova potestà.
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MATRIMONIO SINE MANU fondato sull’esclusiva volontà dei nubendi di instaurare il rapporto e
proseguirlo. Si conserva il vincolo agnatitio della donna con la famiglia originaria, a differenza del
matrimonio cum manu. Una volta ammessa la possibilità di sposarsi senza necessità della manus, si
consolidò l’idea, che tale rapporto si consolidasse semplicemente sull’affectio. Ma abbiamo la ferma
convinzione che il rapporto matrimoniale si radica sul consensus (manifestazione del sentimento) che si
distingue da altre situazioni per la sua irriducibilità ad una relazione sessuale. I criteri per qualificare una
unione come matrimonio sono: atto della domum dedectio (la donna entrava nella cosa coniugale
accompagnata da un corteo di amici e parenti), foggia degli abiti muliebri, dalla costituzione di dote in suo
favore alle testationes rese da terzi.
Il matrimonio cum mano viene soppiantato da questo più recente.
IL FIDANZAMENTO: il matrimonio era spesso preceduto da un periodo di fidanzamento, durante il quale
poteva essere prestata una promessa solenne di contrarre le nozze, con una forma di sponsio da qui il
termine sponsalia. La promessa consisteva nell’assunzione dell’obbligo di pagare una somma di denaro
qualora non si celebrasse il matrimonio e in caso di adempimento di dava inizio ad un’azione giudiziaria ma
quest’ultimo cade in età repubblicana così come il requisito della forma solenne e il vincolo degli sponsalia
non è produttivo di obblighi per il diritto. La promessa conserva però l’infamia per chi contragga sponsali o
si sposi con altri senza aver sciolto il fidanzamento esistente; adulterio per la fidanzata che violi la fedeltà.
Il fidanzamento è regolato anche da Donazioni reciproche intervenute tra i fidanzati a condizione che
seguano le nozze.
Conubium diritto a contrarre matrimonio, solo in presenza di questo requisito si può parlare di giuste
nozze. Possono sposarsi anche persone prive di conubium ma in questo caso il matrimonio è iniustum e
non è valido secondo l’ordinamento romano.
Gli impedimenti si distinguono in assoluti e relativi:
- Impedimenti assoluti per cause naturali: in primo luogo l’età, per avere conubium occorre essere
puberi, collegato alla capacità di avere rapporti sessuali e generar, ossia il nubendo e la nubenda devono
essere entrambi potens (la donna a 12 anni, il maschio e 14). Altro requisito è l’assenza di furor (follia),
in quanto l’insania mentale impedisce la formazione del consenso.
- Impedimenti assoluti per ragioni giuridiche: i nubendi devono possedere lo status libertatis e status
civitatis, in origine erano esclusi i matrimoni misti, divieto poi abolito nel 445 aC. Il conubium fu presto
concesso anche agli stranieri: quindi romani potevano sposarsi con stranierima ciascuno conservava la
propria cittadinanza e solo sui figli si producevano gli effetti del iussum matrimonium. Per la donna è
sempre necessario il consenso dell’avente potestà, per l’uomo solo se è alieni iuris. La bigamia (essere
sposati con più persone) comporta ad infamia; è libero di risposarsi il vedovo o divorziato, nel caso della
donna deve aspettare almeno 10 mesi.
- Impedimenti relativi: sussistenza di relazioni di parentela o affinità. Sono vietate le nozze tra ascendenti
e discendenti all’infinito, mentre tra collaterali il divieto sussiste solo entro un certo grado, vietato il
matrimonio tra affini, senza eccezioni se si trattava di ascendenti e discendenti, fino ai cognati in caso di
collaterali. Altri impedimenti per differenza di ceto o dalla carica ricoperta, impedivano il matrimonio tra
senatori e liberte o donne di bassa condizione, tra ingenui e prostitute, tra donne di rango senatorio e
liberti, tra patrona e il suo liberto, tra donna adultera e il suo amante, tra tutore e protetta. Alcuni di
questi limiti furono aboliti nel corso dei secoli.
AFFECTIO MARITALIS: (è uno degli elementi fondamentali del matrimonio)serie di fenomeni socialmente
rilevanti da cui è possibile desumere l’honor matrimonii, ossia la sussistenza di un rapporto di coniugio e
non di altro genere. L’affectio maritalis viene concepita non solo quale sacramento ma anche quale
elemento giuridico che necessita di una autonoma manifestazione di volontà formalmente riconoscibile.
Perciò il consenso esige in ogni caso un atto iniziale costitutivo dell’unione. L’affectio maritàlis, in diritto
romano, era uno degli elementi essenziali del matrimonium (insieme alla coabitazione) e che si deduceva
non soltanto dalla materiale convivenza, ma dal concorso della volontà dei coniugi. Dal
giurista Modestino apprendiamo che, in presenza di una consuetudine di vita tra due persone di sesso
diverso, l’affectio maritalis e, quindi, l’esistenza del matrimonium, si presumevano fino a prova contraria.
(dal dizionario).
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Effetti del iussum matrimonium: costituito dalla legittimità della prole nata dall’unione coniugale,
assoggettata alla potestà del pater. Mantenimento dovuto dal marito alla moglie e ai figli e all’obbligo di
fedeltà, assistenza e rispetto reciproci.
ADULTERIO: netta disparità di trattamento tra i due nel caso di violazione dell’obbligo di fedeltà.
Nell’ipotesi di adulterio la moglie è sottoposta a pene pubbliche e il marito è obbligato a ripudiarla e a
promuovere accusa di adulterio. Per l’uomo l’adulterio da luogo solo a sanzioni patrimoniali.
Restituzione della dote venne risolta dal pretore attraverso mezzi processuali e negoziali da lui predisposti:
si ritenne doveroso che il marito si obbligasse alla restituzione con una promessa in forma di stipulatio (dos
repecticia, recettizia, perché destinata a tornare eventualmente alla donna). A favore della moglie
dispongono l’actio rei uxoriae, richiesta dalla donna se era sui iuris o dal pater di origine se alieni iuris,
qualora gli oggetti dotali non fossere restituiti.
Retentiones: facoltà riconosciuta al marito di trattenere una parte della res uxoria per motivi
tassativamente previsti: come per il mantenimento dei figli.
Alla fine dell’età repubblicana si afferma il divieto di donazioni tra coniugi allo scopo di evitare
arricchimenti eccessivi in favore di uno o dell’altro. In epoca tarda si affermo la pratica di
effettuare donazioni tra fidanzati prima delle nozze perché offrivano una certa protezione economica alla
donna poi andata in sposa, in caso di decesso del coniuge o di divorzio.
I beni personali della moglie che non siano trasferiti in dote al marito sono detti parafernali, di essi è
titolare la donna, ma l’amministrazione compete al marito.
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Altre iustae causae di divorzio sono aver attentato alla vita dell’altro coniuge o aver partecipato a congiure
contro l’imperatore; riguarda il marito la relazione continuativa con altra donna, induzione della donna a
prostituirsi e accuse di falso adulterio. Altre cause per ragioni oggettive come l’impotenza, voto di castità,
assenza del marito fatto prigioniero di guerra per oltre 5 anni senza che ne abbia notizia.
Altra causa di scioglimento è la morte del coniuge, o chi fasse stato condannato a pene gravissime.
NEGOTIA GERERE
I FATTI E ATTI GIURIDICI
A Rome nei primi secoli della repubblica prese vita l’idea della necessità di tener separato il diritto da altre
ideologie e discipline precettive di natura ben diversa.
Fatti giuridici in senso ampiosi pone in rilievo che nella miriade di fatti generati dal fluire incessante della
vita, alcuni possiedono caratteristiche tali da assumere una funzione specifica in un’ottica determinata.
Figura tipizzata: attraverso un processo di astrazione tendente ad isolare e selezionare gli elementi
rilevanti. Si crearono così le fattispecie, ossia situazioni descritte mediante proposizioni ipotetiche
produttive di conseguenze giuridiche per determinati soggetti. I fatti giuridici sono oggetto di classificazione
in:
- Fatti giuridici in senso stretto: assenza di conoscenza e volontarietà nel soggetto che agisce: rientrano i
fenomeni naturali ed eventi riconducibili all’uomo (parto o la morte). Fatto giuridico di maggior rilievo è
costituito dal decorso del tempo: acquisto della capacità al compimento dell’età pubere, o acquisto di
diritto di proprietà mediante usucapione. I romani nella regola di computo civile del tempo calcolano
per intero il giorno iniziale e finale dove sono previste delle scadenze. Il tempo utile si aveva solo in
giorni i cui si potevano fare valere taluni diritti.
- Atti giuridici: condotte prese in considerazione per l’intenzionalità del soggetto agente, sono atti
commissivi e omissivi caratterizzati da consapevolezza e volontarietà, si distinguono in:
1) Atti leciti in cui lo scopo avuto di mira dall’autore è ritenuto meritevole di tutela
2) Atti illeciti in cui la volontà dell’agente si pone in contrasto con l’ordinamento che reagisce con
l’inflizione di sanzioni e con la rimozione degli effetti provocati con la condotta illecita (crimina,
ossia violazione di regole fondamentali del vivere civile; e delicta, ossia lesivi di diritti nella sfera
soggettiva del singolo
Nell’ambito degli atti illeciti si distinguono gli atti in cui la volontà è diretta a far conoscere all’esterno
l’esistenza di una data situazione (dichiarazioni di scienza) e quelli in cui la volontà si manifesta per
produrre effetti giuridici nuovi o per modificare o estinguere quelli esistenti NEGOZIO GIURIDICO con
manifestazione di volontà proveniente da soggetti privati per stabilire degli interessi.
DISTINZIONI IN ORDINE AI NEGOZI:
- Negozi dichiarativi e non dichiarativi: a secondo che la volontà sia dichiarata attraverso il linguaggio o il
comportamento.
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- Negozi unilaterali e bilaterali: secondo che la volontà necessaria alla conclusione provenga da una o più
parti;
- Atti negoziali inter vivos e mortis causa: secondo che l’atto debba produrre i suoi effetti durante la vita
delle part oppure dopo
- la morte di chi ne sia l’autore.
Per la distribuzione dell’interesse:
- Negozi a titolo oneroso: atti in cui i vantaggi e svantaggi sussistono per entrambe le parti;
- Negozi a titolo gratuito: atti in cui l’incremento patrimoniale si verifica solo in favore di un soggetto;
Negotium per i romani significa semplicemente affare, un’attività rilevante dal punto di vista economico.
I negotia potevano concludersi in quanto esistessero strumenti giuridici adeguati per farlo. Il gestire affari,
negotia agere, esprimeva l’idea di un forte nesso tra l’attività economica e l’uso di molteplici schemi
negoziali predisposti dal diritto.
FORMALISMO E TIPICITA’
Si definisce formalismo l’impiego sistematico di specifiche procedure necessarie per produrre effetti
giuridici. La forme consistono in schemi in cui si combinano l’esecuzione gestuale e la pronuncia di formula,
tutto ciò appare regolato dai mores e controllato dai giuristi pontefici. Per la conclusione di attività
negoziali doveva esserci l’accordo delle parti e l’osservazione della forma richiesta.
Forme negozialo arcaiche atti librali, si tratti dei tre gesta della mancipatio (per il trasferimento di
titolarità su una res), del nexum (costituzione di un vincolo obbligatorio), solutio per aes et libram (per lo
scioglimento del medesimo). La dichiarazione orale di una o più parti, la noncupatio, è sufficiente a creare
effetti giuridici. Occorre aggiungere la in iure cessio, finto processo che si svolge dinanzi al magistrato, a
sponsio (scambio solenne di domanda e risponsta, genera obblighi) e l’acceptilatio (accettazione contraria
alla sponsio, in grado di estinguarla).
TIPICITA’ DEI NEGOZI FORMALI: in quanto rientrano nei tipi previsti e disciplinati dall’ordinamento, invece è
astratto in quanto prescinde dalle funzioni economico-sociali che per il suo tramite possono realizzarsi.
NEGOZI DEL IUS GENTIUM: con l’ascesa militare della potenza di Roma, III sec aC, dalla prassi del
commercio internazionale nascono i negozi del ius gentium: con forme ancorate al consenso dei soggetti
comunque manifestato, non più all’osservanza di gesti e certa verba. Si punta l’attenzione sui contratti
consensuali di compravendita, locazione, mandato, società che non sono formali ma tipici in quanto
regolati dal diritto.
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Impieghi e finalità della scrittura: in età repubblicana era praticata la testatio, ossia un documento
redatto in presenza di testimoni, garantivano l’autenticità e validità del testo con appositi sigilli. In esso
si riportavano le dichiarazioni e le attività svolte dalle parti. Ha ruolo ad probationem , ma poi in età
classica si esaurisce quando alla scrittura si attribuisce efficacia costitutiva di diritti. Il valore del
documento divenne poi ad substantiam da cui dipende l’esistenza di effetti obbligatori: è sufficiente
attestare la presenza delle parti alla stesura dell’atto.
d) Causa perseguire uno scopo meritevole di tutela, la causa è la funzione economico-sociele
perseguita dai soggetti del negozio. Dalla causa devono rigorosamente essere distinti i motivi
personali. Sotto il profilo della causa si distinguono negozi causali, dove la funzione è tipizzata per
ciascun negozio, ed astratti, dove ciò non accade.
e) Oggetto è individuabile nella prestazione di dare o fare, di non dare o non fare, mediante la
quale si attua l’assetto di interessi stabilito dalle parti;
- Elementi accidentali: sono ammessi sono per alcune tipologie negoziali; e sono
Condizione significa patto/accordo (condictio). Il negozio appare condizionato quando la sua
efficacia è subordinata o viene meno se e quando si verifico un dato evento futuro e incerto:
Condizione sospensiva: gli effetti giuridici del negozio sono sospesi fino all’avverarsi o meno
dell’evento (es. pag.227-228). Poiché lo stato di incertezza dell’evento non può protrarsi all’infinito,
generalmente la condizione è accompagnata da un limite temporale alla pendenza.
Condizione risolutiva: il negozio produce effetti immediati, ma tale efficacia verrà meno se si verifichi
quel dato evento. Esempio della compravendita a pag 229
Condizioni apparenti: in cui gli eventi il cui esito non è futuro e incerto ma semplicemente ignoto alle
parti e quelli che sono futuri ma non incerti;
Condizioni illecite e impossibili: che non possono mai verificarsi, rendono nullo l’intero negozio, ad
eccezione degli atti di liberalità mortis causa come istituzione di erede, legato e fedecommesso.
Termineconsistente nella data successiva o in un evento futuro e certo, al partire dai quali
decorre l’efficacia del negozio (termine iniziale o sospensivo), ovvero alla cui scadenza viene meno
l’efficacia (termine finale o risolutivo). A differenza con la condizione, qui si ha certezza del
momento in cui l’atto inizierà a produrre i suoi effetti o cesserà di produrli;
Modo riguarda esclusivamente gli atti di liberalità come istituzione di erede, legati, donazioni,
manomissioni, e consiste nel subordinare l’efficacia della liberalità disposta in favore di taluno al
compimento, da parte di costui, di un’azione o all’osservanza di una condotta. Per il beneficiario si
tratta di un onere al quale egli deve adempiere in virtù del beneficio ricevuto. La liberalità viene
effettuata subito, l’onere può essere eseguito in un momento successivo (es pag. 231)
- Elementi naturali: in realtà sono effetti, e consistono nelle conseguenze che normalmente derivano dal
negozio concluso, ma che possono pure essere escluse per volontà delle parti, perciò riguardano
l’efficacia dell’atto negoziale, ma il cui verificarsi può essere impedito da un’espressa previsione
contraria;
INVALIDITA’ E INEFFICACIA
Nullità del negozio secondo ius civile: dicotomia di iura, ius civile e ius honorarium, che caratterizza
l’ordinemento. Nell’ottica del ius civile vi sono ipotesi che impediscono al negozio di nascere, dicono che
esso è nullo (nullus=nessuno). Quindi in negozio o c’è o non c’è, o nasce o non nasce. Se invece
l’atto fosse stato giudicato valido, perché conforme al diritto civile, avrebbe dovuto produrre tutti gli effetti
suoi propri. Qui però interveniva il ius honorarium nella sua funzione di correggere il ius civile, per le ipotesi
che esso non prendeva in considerazione ma ritenuti meritevoli di protezione da parte di ius honorarium: il
pretore concede rimedi idonei a paralizzare le pretese della controparteconcedendo l’annullabilità
dell’atto in un momento successivo alla sua nascita legittima. La nullità dell’atto si ha per difetto di un
elemento essenziale:
- È nullo l’atto posto in essere da chi non sia legittimato a compierlo per difetto di titolarità;
- È nullo il negozio concluso da impuberi, donne, furiosi e prodigi;
- Non deve essere viziata la volontà;
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Distinzione tra:
- Errore ostativo si ha quando la falsa rappresentazione della realtà riguardi la portata della propria o
altrui volontà (es. pag. 236);
- Errore vizio quando non c’è divario tra volontà e manifestazione, ma l’errore è a monte, si situa cioè
non processo di formazione della volontà (es pag. 237);
La presenza di una volontà viziata provocava la nullità del negozio se l’errore riguardava:
a. L’identità della controparte ovvero talune qualità essenziali, ma solo se determinanti in
connessione con l’atto posto in essere;
b. Il tipo di negozio concluso;
c. L’identità dell’oggetto;
d. La composizione materiale dell’oggetto; (es. pag. 237 di tutti i punti)
È irrilevante l’errore sui motivi personali che avevano spinto alla conclusione di un negozio, neppure
l’errore di diritto, per il dovere di conoscenza delle discipline giuridiche.
CARATTERISTICHE DELL’ERRORE: si dava rilievo all’errore come causa di nullità quando si provasse esser
stato determinante per le parti e oggettivamente desumibile dalle circostanze in cui si era verificato
essenzialità e riconoscibilità dell’errore e scusabilità se si sarebbe verificato anche con l’uso della normale
diligenza.
NULLITA’ DEL NEGOZIO PER DIFETTI DELLA PRESTAZIONE: la prestazione doveva essere determinata o
determinabile, possibile e lecita (quando contraria all’ordinamento e al buon costume): l’assenza di uno di
tali attributi provocava la nullità dell’atto.
NULLITA’ DEL NEGOZIO ILLECITO: nei negozi formali, la causa è irrilevante, per cui l’osservanza della forma
era requisito sufficiente per la validità del negozio: però la contrarietà al buon costume poteva farsi valere
in sede processuale, con relativa exceptio doli concessa dal pretore; nei negozi causali, dove la nullità per
contrarietà al buon costume derivava dell’illeceità della prestazione; poteva esserci anche illeceità della
causa anche quando una funzione negoziale in sé lecita venisse usata per scopi illeciti (fraus legis).
RISERVA MENTALE: consiste nell’intento occulto di un soggetto, che compie un negozio, senza che ciò
corrisponda alla sua reale volontà, tesa a perseguire altri fini;
SIMULAZIONE: si ha quando tra le parti sussista un ‘accordo, spesso fraudolento, a porre in essere un dato
negozio bilaterale, detto simulato, mentre in effetti non intendono farlo (simulazione assoluta), o vogliono
compierne uno diverso, dissimulato (simulazione relativa). L’ordinamento nega la validità del negozio
simulato e di attribuirla a quello dissimulato, purchè non fosse vietato, altrimenti si ricadeva nella fraus
legis.
IL DOLO non da luogo alla nullità, ma a concessione di rimedi pretorii: definito come ogni astuzia,
raggiro, macchinazione tendente a circuire, raggirare, ingannare altri. Si risolve da un errore praticato dalla
condotta fraudolente di una parte negoziale a danno dell’altra. Perciò si badava al comportamento di chi lo
avesse cagionato. I mezzi concessi furono: exceptio doli (con cui si paralizzava la pretesa avversaria) e actio
doli (azione penale che la vittima poteva esercitare contro l’autore del raggiro).
LA VIOLENZApressione fisica o psichica esercitata da taluno a carico della controparte, per indurre costei
a concludere un contratto. La pressione tramite forza fisica si traduceva in una costrizione materiale; per
violenza fisica si parla di timore o paura, causati attraverso la minaccia di un male serio e ingiusto che
poteva essere inflitto alla parte o ai suoi familiari (timore riverenziale). La violenza non è sanzionata con la
nullità del negozio perché comunque la vittima aveva comunque ‘voluto’ la conclusione del negozio,
optando per il male minore rispetto a quello minacciato. Rimedi previsti dal pretore: excetio metus, actio
metus; restitutio in integrum.
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- Rappresentanza indiretta: un soggetto agisce in nome proprio, ma per conto altrui: in tal caso gli
effetti giuridici nascenti dal negozio si producono in capo al rappresentante, ma vanno poi
ritrasmessi al rappresentato.
I romani non avevano conosciuto una forma generale di rappresentanza diretta, in quanto vigeva ancora il
divieto (fino a tarda età classica) di agire in nome altrui, perciò i romani hanno fatto ricorso all’istituto della
rappresentanza indiretta.
PROCURATORdesigna un soggetto cui è possibile affidare, in base ad un rapporto fiduciario, compiti di
gestione patrimoniale: era un liberto, preposto dal patrono all’amministrazione dei propri beni e alle
gestione degli affari. Il rapporto si sostanziava spesso in un mandato.
All’epoca di Gaio la figura del procuratore era costituita da un extraneus, persona libera svincolata dalla
familia del dominus ma inserita stabilmente nell’organizzazione lavorativa e domestica di costui. In epoca
tardo classica si distinguono due figure: procurator omnium bonorum (il procuratore di tutte le cose) e
procurator unius rei (procuratore di un solo affare).
Rappresentanza nel diritto civile e in quello pretorio:
Il divieto di rappresentanza diretta nel diritto civile trovava fondamento nel formalismo interno dei rapporti
giuridici, specie per taluni atti che traevano la loro forza dai verba, con la relativa pronuncia: quindi nessuno
può provvedere per altri. L’acquisto in proprio favore è possibile attraverso le persone sottoposte a
potestà, figli o schiavi, altrimenti vale il divieto per cui non si può acquistare tramite stranieri.
LA CLASSIFICAZIONE
A partire del III-II sec aC assistiamo al passaggio da un’economia agropastorale a mercantile. Anticamente
furono terra, casa, buoi, cavalli e schiavi i beni per cui i Romani chiedevano un’efficacie protezione
giuridica; con l’esplosione dei commerci, l’attenzione si volse anche sula ricchezza con l’esigenza di tutela
giuridica verso un novero più vasto di cose (merci, denaro, mezzi di trasporto…).
Distinzione tra cose in:
- Res soli e ceterae res già nelle XII tav. i fondi e fabbricati (beni immobili) venivano contrapposti
alle ceterae res (altre cose: beni mobili). Quindi fundi e res soli indicavano una porzione di superficie
terrestre, il suo sottosuolo e ciò che vi era stato sopra edificato. Ceterae res non è identificabile con il
termine moderno di beni mobili, poiché tra le altre cose i Romani includevano i compendi ereditari, le
servitù rustiche e forse le donne. Gaio invece contrapponeva i beni mobili a fondi e fabbricati.
Principio per cui i beni immobili rappresentano i beni di maggior valore sul piano economico e sociale.
- Res mancipi e res nec mancipi ossia contrapposizione tra cose oggetto di mancipio e le cose non
soggette a mancipium. È la classificazione di maggior rilievo nell’ambito dei beni privati. Sono res mancipi
(Gaio): i fondi siti sul suolo italico, le quattro antiche servitù rustiche, gli schiavi, gli animali da tiro e da
soma. Si considerano res nec mancipi le res consistenti in oggetti di uso personale, i fondi siti su suolo
provinciale, gli animali diversi da quelli prima menzionati, l’oro, il denaro, le pietre preziose e opere d’arte.
Le res mancipi potevano essere trasferite solo con l’atto formale della mancipatio, mentre per le res nec
mancipi restò sufficiente la traditio, cioè trasferimento del possesso del bene. Questa distinzione venne
soppressa la Giustiniano nel 531 d.C. data la pratica scomparsa della mancipatio e in iure cessio e subentrò
la distinzione tra beni mobili e beni immobili.
- Res in patrimonio e res extra patrimonium cose che si trovano nel nostro patrimonio, costituite
dai beni su cui è in atto un diritto di proprietà privata; cose che si trovano fuori dal nostro patrimonio
privato o perché incommerciabili, o perché al momento prive di un proprietario, distinguiamo quindi le res
nullius (cose non appartenenti a nessuno) tra cui:
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del patrimonio; il complesso delle situazioni giuridiche facenti capo a una persona sui iuris venne
denominato patrimonium;
- Patrimonium lo si intese inizialmente quale sinonimo di bona (beni), cioè quale complesso di
situazioni giuridiche attive;
- Bona in età tardoimperiale e giustinianea, si concepisce il patrimonio diversamente da bona, cioè
nel significato più ampio di complesso di situazioni giuridiche attive e passive, dunque come la totalità dei
rapporti facenti capo alla persona;
LE COSE ACCESSORIE
Intese come cose aggregate ad altre nell’ambito di un rapporto funzionale, in cui una cosa (cosa accessoria)
risultava ad un’altra di maggior valore (cosa principale).
Sul piano giuridico il rapporto di accessorietà segue un principio: una cosa accessoria segue le sorti della
cosa principale, l’acquirente della cosa principale acquista il dominio sull’intera cosa.
I FRUTTI
I beni che si possono separare dalla cosa che li ha prodotti, senza che questa perda la sua utilità. Si
considerano perciò frutti naturali della pecora il latte, lana, agnelli, ma non le parti del suo corpo, frutti i
prodotti del suolo, botanici e non; minerali estratti dal sottosuolo, selvaggina presa nei luoghi di caccia.
Fino al momento della separazione dalla cosa madre, i frutti ne costituivano parte, erano beni a se stati
soltanto al momento della separazione e diventavano proprietari della cosa madre.
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POSSESSI DI AGER PUBLICUS: terre conquistate al nemico e quindi formalmente considerate appartenenti al
popolus romanus. Le occupazioni di fatto vennero tollerate e lasciate indisturbate per lunghissimo tempo,
così pure le concessioni, si consolidarono per l’inerzia degli organi pubblici.
Ma non si era ancora delineata un chiara nozione di diritto di proprietà. La proprietà si differenziò ben
presto dalla semplice possessio.
Nella fase arcaica i Romani non ragionavano in termini di potere astratto, ma si esprimevano parlando di
res o di persone che erano di qualcuno: non si concepiva ancora l’idea di un diritto di proprietà, quanto
piuttosto la spettanza di una res o di una persona all’erus (proprietario). Quando si affermò l’idea di un
diritto spettante a qualcuno sulla cosa o sulla persona, venne in uso in vocabolo astratto mancipium.
In età repubblicana la proprietà piena ed assoluta sulle terre era ormai molto diffusa e compiutamente
regolata sul piano giuridico. Il termine dominium si completava con la locuzione ex iure Quiritium (proprietà
civilistica), che stava a significare la derivazione dei poteri proprietari dal solo ordinamento giuridico
quiritario (ius romanorum): ad oggetto furono considerate tutte le res mancipi.
Grazie al diritto onorario, sul finire del III sec. a.C., la semplice possessio faceva il suo ingresso
nell’ordinamento differenziandosi in modo chiaro e netto dal dominium, quale forma di appartenenza ben
più intensa e perciò tutelata dallo ius civile.
La qualifica di res iure Quiritium fu soppressa da Giustiniano, e si giunse ad elaborare una nozione unica e
unitaria di proprietà (dominium contrapposto al possesso).
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altri, ma i giuristi romani discussero sull’applicazione di tale principio elaborandone uno più equilibrato: si
può fare liberamente uso del proprio diritto, finchè non si arreca danno ad altriteoria moderna
dell’abuso del diritto, che veniva già previsto con l’actio pluviae arcendae come rimedio accessibile al
proprietario di un fondo invaso da acqua piovana proveniente dal fondo superiore, nel quale il proprietario
finitimo avesse deviato il deflusso naturale delle piogge: azione intentata dal proprietario del fondo invaso
al fine di ottenere dal vicino il ripristino dello status quo ante.
Oltre ai limiti civilistici costituiti dal limes e ambitus e gli altri, altre restrizioni vennero imposte ai
proprietari, tra queste figurano due iniziative pretorie intese a sventare i danni non ancora prodotti:
1. Cautio damni infecti era una garanzia relativa a un danno temuto e non ancora verificatosi,
richiesta dal proprietario di un bene immobile, sul quale minacciassero di rovinare opere site sul fondo
vicino o che si temeva potesse ricevere danno dalle attività esercitate sul fondo finitimo. Si trattava di
stipulatio e rinforzata con garanzia reale. Mediante la cautio, il proprietario del fondo dal quale partiva la
minaccia si impegnava, nei confronti del proprietario del fondo o dell’edificio vicino, a risarcirgli il danno
qualora l’evento temuto si verificasse, e il danneggiato avrebbe potuto agire con actio ex stipulatu al fine di
ottenere il risarcimento promessogli
2. Denunzia di nuova opera consisteva in una diffida orale extragiudiziale. Il civis, in quanto
proprietario o possessore di un immobile, poteva rivolgere la diffida, per tutelare i propri diritti ed evitare
danneggiamenti e chi avesse intrapreso un’opera di costruzione, o demolizione, o modifica di un edificio su
suolo privato. L’autore della diffida, nel momento in cui chiedeva la sospensione dei lavori, doveva
affermare di essere titolare di un diritto di opposizione. Tale interesse poteva derivare al nuntians dalla
mancata prestazione della cautio damni infecti da parte del costruttore. Finalità della nuntiatio era
l’immediata sospensione dei lavori e il ripristino dello status quo ante. La diffida aveva effetto inibitorio: il
nuntiatus doveva astenersi dal continuare le nuove opere.
La denuntia di nuova opera poteva avere ad oggetto soltanto opere non edificate o almeno non concluse.
All’opera ormai conclusa che non si sarebbe dovuta costruire, alla persona danneggiata dalla costruzione
era accessibile il rimedio pretorio dell’interdictum quod vi aut clam ordinanza d’urgenza concessa dal
megistrato, contro chi avesse già edificato opere illecite, nonostante una diffida (la prohibitio), con violenza
(vi) o clandestinamente (clam). Aveva carattere restitutorio.
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REI VINDICATIO
Azione di rivendica era intesa a tutelare la proprietà nel suo contenuto fondamentale. Veniva esercitata da
chi affermava di essere proprietario di un bene posseduto da altri, al fine di ottenere l’accertamento del
diritto vantato e la restituzione della cosa o il controvalore della stessa. Assunse tre diverse forme:
- La più antica fu costituita dalla legis actio in rem dove non vi era chiara differenza tra attore e
convenuto, dal momento che entrambi i litiganti affermavano il loro diritto sulla cosa controversa,
pronunciando l’identica vindicatio.
- Poi si affermò un nuovo modo di procedere in rivendica, con l’agere per sponsionem, che offrire il
vantaggio di evitare alle parti una procedura troppo complessa e il dispendioso pagamento della summa
sacramenti. Il proprietario quindi si faceva promettere solennemente da costui il pagamento di una somma
simbolica per l’eventualità che fosse riuscito a dimostrare nel corso del successivo processo il proprio
diritto di proprietà. Poi il dominus citava il possessore della res litigiosa in giudizio con actio in personam
per sponsionem per ottenere la somma promessa. Quindi qui si differenziano i ruoli dell’attore e del
convenuto.
- Una volta diffusesi le procedure formulari la rivendica assunse la forma della formula petitoria.
Legittimato attivo era il proprietario non possessore il quale chiedeva l’accertamento del proprio diritto e
la restituzione del bene controverso o il suo controvalore. Qualora la cosa fosse mobile e nascosta, il
proprietario avrebbe dovuto agire con l’azione esibitoria e se il convenuto non fosse in possesso della cosa
sarebbe stato assolto.
Legittimato passivo alla rivendica era il possessore: una volta convenuto in giudizio, il possessore restava
nel possesso del bene, previa promessa solenne di ottemperanza al giudicato (satisdatio), e nel caso si
rifiutasse di prestare la satisdatio, il possesso veniva imperativamente dato all’attore. Nel caso il convenuto
si sottrasse a processo o rifiutasse di litem contestare si aggiunsero espedienti idonei ad indurlo a
collaborare:
- Actio ad exhibendumazione esibitoria si ricorreva quando il convenuto non portava in giudizio il
bene rivendicato dall’attore, e se persisteva doveva soggiacere alle misure esecutive;
- Interdictum quem funduminterdetto restitutorio relativo ai beni immobili. In ipotesi di rifiuto di
collaborazione il magistrato ordinava di restituire il bene al rivendicante con una translatio possessionis;
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Il convenuto in rivendica poteva difendersi negando che l’attore fosse proprietario, quindi nella fase apud
iudicem la probatio diabolica ricadeva sull’attore, che doveva dimostrare i successivi passaggi tra i suoi
danti causa, fino a risalire ad un titolo d’acquisto originario. Se l’attore non ci riusciva, la cosa rimaneva
presso il convenuto, che andava assoltocommodum possessionis: comoda condizione del convenuto
possessore. Il convenuto poteva difendersi anche ammettendo la proprietà dell’avversario se affermava un
diritto a non restituire la cosa alla controparte (es. pegno), oppure che la cosa gli era stata venduta.
Se l’attore riusciva a dimostrare di essere proprietario, il giudice doveva pronunciare l’accertamento del
diritto di proprietà. Il giudicante emanava il iussum de restituendo, l’ordine rivolto al convenuto di
restituire la cosa con tutti i suoi frutti naturali. Se il convenuto si rifiutava il giudice lo condannava al
pagamento di una somma corrispondente al valore della res al momento dell’emanazione della sentenza.
La stima del bene ai fini della condanna era solitamente fatta dall’attore sotto giuramento, e se il
convenuto persisteva al rifiuto di restituzione subiva la condanna e il pagamento della summa
condemnationis diventando proprietario del bene.
Nella restituzione del bene da parte del convenuto, vige il principio per cui il proprietario doveva essere
messo nella condizione in cui si sarebbe trovato se il bene rivendicato gli fosse stato restituito al momento
della litis contestatio, il conv. doveva restituire tutti i frutti naturali percepiti dopo la litis cont. invece, per il
periodo precedente la litis si distingueva a secondo che il possesso fosse esercitato in buona fede (non
rispondeva dei frutti) o in mala fede (rispondeva dei frutti percepiti).
Il proprietario era tenuto ad indennizzare il possessore in buona fede (poi anche per il possessore in male
fede in età giustinianea) per talune spese necessarie ed utili sostenute per il bene, per non incontrarsi con
l’ingiustificato arricchimento.
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LE FATTISPECIE POSSESSORIE TUTELATE CON L’ACTIO PUBLICIANA: il caso originario di in boni esse fu
quello del compratore che avesse acquistato una res mancipi senza le formalità prescritte dallo ius civile.
Avendo ricevuto la res mancipi con semplice traditio l’acquirente si trovava nella condizione di semplice
possessore ad usucapionem con il titolo pro emptore (in qualità di compratore): avrebbe quindi dovuto
attendere il decorso dei termini richiesti per l’usucapione per potersi qualificare dominus. Nel frattempo in
caso di turbative o di spogli gli veniva concessa dal pretore la tutela pro suo. Così il magistrato introdusse
nell’editto alcuni rimedi idonei a tutelare la posizione dell’in bonis habens (compratore in buona fede),
perché si ritenne iniquo che non fosse trattato in stregua di proprietario sin dal momento dell’acquisto (non
avveniva per ius civile).
Lo strumento processuale utilizzabile per attuare la difesa passiva del proprietario bonitario era exceptio
doli, poi evolutasi in exceptio rei venditae ac traditae utilizzabile qualora l’in bonis habens fosse stato
chiamato in giudizio dal venditore con un’azione di rivendica, mirante alla restituzione della res. Il forza
dell’editto Publiciano, il proprietario bonitario una volta convenuto dal proprietario civilistico, poteva
chiedere al magistrato di inserire l’exceptio rei venditae ac tradite nel testo dello iudicium.
ACTIO PUBLICIANA ED EXCEPTIO IUSTI DOMINII: tale azione era modellata sulla rivendica civilistica e ne
seguiva le regole. Si differenziava però sulla presenza di una formula ficticia, per cui il magistrato invitava il
giudicante a fare finta che l’attore avesse già usucapito il bene e che agisce pertanto il qualità di
proprietario civilistico. L’esercizio dell’actio publiciana conduceva a successo sicuro dell’in bonis habens ma
non se la esperiva nei confronti di: colui che gli aveva venduto la cosa; o chi avesse acquistato il bene dal
proprietario civilistico dopo che costui ne aveva ripreso possesso dall’in bonis habens.
LA COMPROPRIETA’
Si ammise che più persone potessero godere della stessa cosa in guisa di proprietari, dove lo stesso diritto
di proprietà faceva capo a un pluralità di persone senza essere frazionavo in parti. Le esperienze di
condominio che la precedettero furo due:
1. La proprietà collettiva: sistema in cui i bene si reputano appartenenti alla comunità. Non era
consentito ai titolari del patrimonio di disporre dei beni privandone il gruppo. Ma il patrimonio andava
conservato e poi trasmesso alla medesima comunità. L’organizzazione gentilizia presupponeva all’interno
delle famiglie una sorta di comunanza domestica, in forza della quale i componenti liberi della famiglia
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fruivano tutti del patrimonio gentilizio. Ma con la frantumazione di ciascuna gens emerse il problema della
titolarità del patrimonio del pater.
2. Si passo allora allo stadio della proprietà indivisa, che indica una pluralità di titolari integrali del
diritto di proprietà su un dato oggetto. A seguito dello smembramento dell’organizzazione gentilizia (con a
capo il più anziano di una comunità), si applicò per prima la figura del consorzio, patrimonio non diviso
(consortium ercto non cito) passaggio ad una comunione organizzata dove all’apertura della successione
del patrimonio paterno rimaneva indiviso tra i fratelli. Ciascun consorte vantava un diritto integrale
sull’intero patrimonio e poteva disporne senza consultare i fratelli e con effetto per essi vincolante. Si
ritenne perciò che questo potere spettante a tutti i consorti fosse bilanciato da un ius prohibendi, cioè dalla
possibilità riconosciuta a ciascun condomino di porre il veto alle decisioni prese unilateralmente del
consorte. Quindi si preferiva lasciare indiviso tra gli eredi il patrimonio paterno per mantenere integra la
cifra sociale della famiglia
ALLE ORIGINI DELLA COMUNIONE CONVENZIONALE: Si cita un altro tipo di consortium erco non cito, il
consortium ad exemplum fratrum suorum che consisteva in un consorzio imitativo di quello fraterno, ma
costituito tra estranei, al fine di svolgere insieme qualche intrapresa commerciale di comune interesse. Ma
questa forma cadde in disuso e vennero preferiti due nuovi schemi giuridici:
Communio e societas corrisponde alla conquista del concetto di diritto di condominio quale diritto del
soggetto condomino come frazione del diritto di proprietà sulla cosa comune concezione di una
proprietà plurima parziaria, corrispondente alla divisione estratta della cosa, con partecipazione del singolo
condomino alla collettività rappresentato dalla quota.
Dalla visione del condonimo come proprietario del tutto, ma assoggettato ai limiti derivanti dal concorrente
diritto degli altri condomini, derivano due corollari:
1. Ius prohibendi il diritto di opposizione consisteva nella facoltà di opporre il veto ad eventuali
attività di altri condomini i quali incidessero, senza essere autorizzati dalla totalità degli aventi diritto, sulla
cosa comune.
2. Ius adcrescendiqualora uno dei comproprietari effettuasse atto di derelizione della sua quota o
vi rinunziasse, la quota non diventava nullius ma implicava l’accrescimento della quota degli altri
condomini.
SCIOGLIMENTO DELLA COMMUNIO E AZIONI DIVISORIE: la comunione si estingueva con la divisione che
poteva essere volontaria o giudiziale, dove il giudice poteva frazionare la cosa comune effettuandone
l’aggiudicazione.
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altra res, a seguito di accessio la proprietà restava la stessa, ma aumentava: la cosa accessoria acquistava la
stessa condizione giuridica della cosa principale.
- SUPERFICIEriguardo alla proprietà immobiliare e fu costituito dall’acquisto della superficie o di
tutto ciò che si trovava sulla superficie, da parte del proprietario del suolo per: inedificazione, semina,
piantagione. Il fondo fu sempre il bene principale e di maggiore rilievo, perciò ogni cosa che vi si
incorporasse ricadeva sotto la proprietà del dominus del fondo. Per superficies intensero tutto ciò che per
opera dell’uomo veniva a trovarsi sotto il suolo o sopra di esso, per cui il dominio attraeva a sé tutto ciò che
si incorporasse alla cosa. Nel caso di incrementi fluviali come per: alluvioneincremento latente e
insensibile del fondo, verificatesi qualora l’acqua corrente del fiume pubblico depositasse detriti su un
terreno privato, il tal cosa il proprietario del fondo accresciuto acquistava il dominio sui detriti;
avulsione accrescimento sensibile perché considerevole del fondo rivierasco, cagionato dal distacco, per
la forza della corrente, di una porzione di terreno facente parte di un fondo altrui. Il proprietario del fondo
cui si andasse ad aggiungere la porzione evulsa ne acquistava il dominio soltanto se la controparte non vi si
opponesse. Le stesse regole si seguivano in caso di isoletta formatasi al centro dell’alveo derelitto, la cui
proprietà spettava ai proprietari rievriaschi. Abbiamo accessio anche relativa al congiungimento di cosa
mobile solida ad altra cosa mobile solida con difficoltà nell’individuare quale, tra le due cose, fosse quella di
valore maggiore e sono: saldatura, tessitura, pittura, scrittura. Di affinità con l’occupazione abbiamo
l’acquisto del tesoro inteso come cosa mobile nascoste da tempo da persona ignota: se veniva ritrovato dal
proprietario del fondo ne sancì l’appartenenza integrale allo scopritore, mentre il tesoro scoperto
casualmente su proprietà altrui era considerato semplice ritrovamento.
- SPECIFICAZIONEconsisteva nel produrre una cosa utilizzando materia prima altrui (caso del
blocco di marmo da cui di traesse una statua), creando così una cosa diversa senza averne ricevuto incarico
dal proprietario: si poneva il problema di individuare il proprietario della cosa trasformata. Giustiniano
distingueva l’ipotesi in cui, avvenuta la specificazione, fosse diventato impossibile riportare il nuovo oggetto
allo stato della materia originaria, dalla diversa ipotesi in cui la riduzione in pristino risultasse viceversa
realizzabile: nel primo caso il nuovo oggetto era di proprietà dello specificatore (sul quale gravava l’obbligo
di indennizzare il proprietario della materia), nel secondo caso, del proprietario della materia originario.
- CONFUSIONE E COMMISTIONEnell’ipotesi di commistione di cose liquide o solide appartenenti a
differenti proprietari si costituiva la regola della communio sulla materia risultante dalla mescolanza.
- ACQUISTO ORIGINARIO DELLA PROPRIETA’ DEI FRUTTI fintantochè il frutto fosse rimasto
attaccato alla pianta esso faceva parte integrante della cosa madre e pertanto apparteneva al proprietario
di questa. Dopo il distacco dalla cosa madre il frutto spettava al proprietario di essa. In linea di massima il
possessore era tenuto a conferire i frutti al proprietario.
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Nell’età imperiale la mancipatio subì mutamenti, la cerimonia si trasformò in una imaginaria venditio,
seguita dal suo declino cadendo in disuso quando, in età giustinianea, venne meno la distinzione tra res
mancipi e res nec mancipi. Le funzioni proprie della mancipatio vennero assorbite dalla traditio.
- IN IURE CESSIO atto traslativo delle res mancipi e nec mancipi. La cessione in giudizio era un atto
di volontario giurisdizione, aveva luogo nel tribunale, dinanzi al magistrato (in iure) e l’acquirente
pronunciava la formula della vindicatio mentre l’alienante taceva e il magistrato assegnava la cosa all’unico
rivendicante. Cadde in disuso nel tardo Impero.
- TRADITIOal fine di trasferire la proprietà delle res nec mancipi, oltre la in iure cessio, era
sufficiente la traditio con il semplice trasferimento materiale del bene. Era una figura del ius gentium e
divenne l’atto traslativo normalmente usato in ordine alle res nec mancipi. Ma la consegna era un modo di
trasferimento del solo possesso che però produceva anche effetti traslativi della proprietà. Presupposti
perché trasferisse la proprietà del bene erano: la qualità di res nec mancipi del bene tradito; la qualità di
proprietario del tradente; la volontà del tradente di spogliarsi della proprietà del bene in favore
dell’accipiente e la volontà dell’accipiente di acquistare la proprietà; iusta causa traditionis ritenuta idonea
dall’ordinamento romano-
USUCAPIONE
In taluni casi l’acquisto del dominium per usucapione si prospettava del tutto autonomo ed indipendente
rispetto al diritto del dante causa, in altri casi l’acquisto della proprietà trovava il suo fondamento in un
precedente rapporto tra dominus e possessore ad usucapionem, talora interpretabile come atto traslativo.
L’usucapione consiste nell’acquisto del dominio attraverso il possesso continuato nel tempo e il precedente
proprietario perdeva il suo diritto.
L’usucapione era definita da Modestino annessione di una res al proprio dominium attraverso il possesso
continuativo, per un periodo di tempo stabilito dalla legge; si trattava, pertanto, di un modo di acquisto
della proprietà, fondato sul possesso di una res protratto per un certo periodo di tempo (tempus ad
usucapiònem) secondo le condizioni volute dal iùs civile, attraverso il quale il possessore diventava dòminus
ex iure Quiritium.
Il termine fissato dalla legge delle XII Tavole fu di due anni per i fondi e di un anno per tutte le altre res.
Poteva esservi usucapione solo:
- a favore di un soggetto che poteva diventare dominus ex iure Quiritium (cioè di cittadino romano);
- relativamente a cose che potevano essere oggetto di dominium ex iure Quiritium (non, ad es., i
fundi provinciali).
In età classica furono richiesti due ulteriori requisiti fondamentali:
- la giusta causa dell’acquisto;
- la buona fede del possessore: a tutela di quest’ultimo il pretore concesse l’àctio Publiciàna.
Si richiese inoltre che la res fosse “habilis ad usucapionem” nel senso che vi furono alcune categorie di cose
che non potevano essere usucapite, a causa di loro caratteristiche obiettive. Infatti, l’usucapione non
poteva verificarsi, secondo quanto stabilito già dalle XII Tavole, in ordine alle cose rubate.
In ordine a queste cose l’usucapione non poteva produrre effetti nei confronti di terzi, anche se il
successivo possessore fosse stato estraneo al furto o alla violenza, dal momento che alla cosa ineriva un
vizio obiettivo eliminabile solo se la cosa tornava in potere del dominus (revèrsio ad dominum). Lo stesso
divieto di usucapione sussisteva per le res alienate dalle donne senza l’autorizzazione del tutore legittimo e
per le res extra commercium.
In età postclassica l’usucapione si fuse con la præscriptio longi temporis, progressivamente poi si finì col
parlare di usucapione per le res mobiles e di præscriptio longi temporis per le res immobiles, che si
verificavano a favore del possessore ad usucapionem che possedesse la res habilis, rispettivamente, per tre
o dieci anni. .
USUS-AUCTORITAS: nell’antico ius Quiritium l’usucapione era nominata usus. L’usus doveva essere sorretto
da auctoritas per il ‘proprietario’ per un biennio in relazione ai fondi, per un anno in relazione alle altre
cose. Regola pertinente soltanto al trasferimento di beni mediante mancipatio: l’usus prolungato ed
ininterrotto del bene negoziato, cominciato a seguito della mancipazione, fosse sufficiente all’acquisto del
diritto allo scadere dei tempi. Il divieto di usucapire colpiva non soltanto l’autore del furto o della violenza,
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ma chiunque entrasse nel possesso delle res marchiate da questi vizi; vi era possibilità di purgare tali vizi
con il ritorno della cosa nelle mani del dominus. Erano escluse dall’uso acquisitivo le res extra commercium,
il limes, le res mancipi alienate dalla donna senza l’auctoritas tutoris, delle res incorporales e delle servitù.
I peregrini privi di ius commerci non potevano usucapire.
USUCAPIONE LUCRATIVA: svincolata dal requisito dell’assenza di lesione dei diritti altrui e sono due:
1. Usurecèptio (riacquisto della proprietà)Forma particolare di usucàpio, detta anche usucapio
lucrativa, consistente in ciò: nei casi in cui una cosa era stata trasferita a titolo fiduciario [vedi fiducia cum
creditore+ da un soggetto (garante) ad un altro (creditore) e quest’ultimo (pur essendo stata adempiuta o,
comunque, estinta l’obbligazione) non avesse restituito la cosa, il garante aveva il diritto di impossessarsi
della cosa e ne acquistava il domìnium ex iùre Quirìtium attraverso una sorta di “usucapione di favore”,
detta appunto usureceptio. Ai fini dell’acquisto per usureceptio non era necessaria la buona fede ed era
sufficiente (anche in riferimento a beni immobili) il possesso dei beni per un solo anno.
2. Usucàpio pro herède (Usucapione a favore dell’erede)Applicazione dell’istituto dell’usucapione
in materia ereditaria. Il possesso di una sola cosa appartenente alla eredità giacente protratto per un anno,
avrebbe fatto acquistare non solo la proprietà della cosa posseduta, ma addirittura anche la qualità di
erede e, di conseguenza, tutta l’eredità.
I REQUISITI DELL’USUCAPIONE: cittadinanza romana del possessore , res habilis ad usucapionem, buona
fede del possessore; decorso del tempo; possesso qualificato; titolo d’acquisto.
Per possesso ad usucapionem si intende il possesso esercitato pro suo, cioè con l’intenzione di tenere la
cosa per sé; inadeguata ai fini dell’usucapione era la possessio pro alieno (detenzione) perché si ha la
consapevolezza e riconoscimento di un prevalente diritto altrui.
Il possesso, a partire dal suo acquisto, doveva durare ininterrottamente per tutto il tempo prescritto
dall’ordinamento (2 anni per gli immobili, 1 per le altre cose). In ipotesi di interruzione (usurpatio), il
computo del tempo riprendeva dal momento in cui si ripristinava la possessio pro suo.
Qualora l’attore avesse poi visto riconosciute le proprie pretese, egli avrebbe ottenuto o la restituzione
della cosa o il pagamento del suo controvalore; se, viceversa, l’attore non riusciva a dimostrare la sua tesi, il
convenuto era assolto senza che il processo avesse interrotto la sua usucapione in corso.
Il requisito della buona fede soggettiva fu richiesto a partire dall’età tardorepubblicana, quindi il possesso
doveva essere iniziato in buona fede, se poi sopravveniva la male fede essa non nuoceva e non ostacolava
l’usucapione.
Successio possessiònis [Successione nel possesso] Istituto relativo all’usucapione, in forza del quale, in
caso di morte dell’usucapiente il possesso proseguiva in capo all’erede; l’erede poteva così sommare il
tempo del suo possesso con quello del suo dante causa, al fine di conseguire l’usucapione del bene in
questione.
Il consolidamento dei possessori fondiari nel mondo provinciale mediante il decorso del tempo:
Lòngi tèmporis præscrìptioIstituto di origine classica: al fine di tutelare la certezza delle relazioni
commerciali, si cominciò a concedere una limitata tutela processuale ai soggetti che avessero posseduto,
per un lungo periodo di tempo, un fundus stipendiàrius vel tributàrius . La sua origine va rinvenuta in un
istituto processuale greco analogo alla excèptio romana, detto paragraphè: in virtù di quest’ultimo, era
possibile paralizzare un’azione se il diritto vantato non fosse stato esercitato per lungo tempo. Il nome
di paragraphè si tradusse nella romana præscriptio . Ai fondi provinciali (c.d. fundi stipendiarii vel tributarii),
che non potevano essere oggetto di domìnium ex iùre Quirìtium, non era applicabile l’usucàpio . Per porre
rimedio a ciò i magistrati provinciali riconobbero, in favore di chi avesse posseduto per lungo tempo uno di
tali fondi, una sorta di eccezione processuale con la quale era possibile respingere la pretesa dell’attore che
agisse con la rèi vindicàtio o con un’azione personale. L’istituto ebbe larga applicazione e fu caratterizzato
da effetti diversi da quelli propri dell’usucapio: la longi temporis praescriptio non faceva acquistare
il dominium sul fondo provinciale, né legittimava l’esercizio di un’àctio in rem , ma difendeva il possessore
contro l’azione del proprietario. Il tempo necessario per la sua applicazione era di 10 anni se proposta
contro un proprietario residente nella stessa città (inter præsèntes) e di 20 se proposta contro il
proprietario residente in altra città (inter absèntes).
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SERVITU’ PREDIALI
le servitù si configurano come un rapporto di subordinazione di un fondo (fondo servente) nei confronti di
un altro fondo (dominante), cui il primo sia destinato a procurare un determinato vantaggio obiettivo.
ITER, VIA, ACTUS, AQUAEDUCTUS: le più risalenti furono le servitù rustiche. Iter (sentiero da percorre a
piedi o a cavallo), via (ampia strada percorribile da carri), actus (tratturo per la conduzione di bestiame o
carri), aquaeductus (canali per la scorrimento di acqua) che davano luogo ad altrettanti diritti di usufruire
parzialmente del fondo altrui. Tali diritti vengono presentati come beni corporali acquistabili con
mancipatio o in iure cessio e tutelabili mediante il ricorso alla legis actio sacramenti in rem. Inoltre
costituivano oggetto di usus acquisitivo, il che significa che il loro esercizio biennale conduceva all’acquisto
del mancipium sul bene stesso.
Iter, via, actus, aqueductus erano beni in proprietà del titolare del fondo dominante, il quale aveva
mancipium sulla striscia di terreno appartenente al vicinosoluzione: comunione solidaristica, con rapporti
interfondiari, e creazione di rapporti di servizio tra i beni immobili che consente al civis non proprietario di
godere ugualmente del bene altrui, in ordine a qualche sua determinata utilità.
Si sviluppa così la categoria degli iura praediorium in riferimento ai vantaggi che l’ordinamento consentiva
al proprietario del fondo dominante di trarre dall’altrui fondo servente.
Gli antichi iura praediorium si distinsero in: diritti di passaggio (via, iter, actus) e diritti relativi alle acque
(aqueductus, aque hautus, navigatio); diritti in materia edilizia (diritti relativi ai fondi urbani: es. pag. 350-1)
differenziati dai diritti rispondenti ad esigenze agricole (diritti relativi ai fondi rustici: vedi es. pag. 350).
Altre servitù di periodi successivi denominate irregolari:
- SERVITU’ PRETORIEnon rispondenti ai canoni civilistici, servitù costituite con semplice traditio, in
cui l’utilitas non riguardava il fondo dominante (utilità obiettiva), ma la persona dell’attuale proprietario
(utilità soggettiva);
- SERVITU’ PROVINCIALIrapporti di servitù di fondi allocati nelle provincie, si costituivano
mediante patti e stipulazioni
- SERVITU’ ANOMALEil cui contenuto era caratterizzato dal fatto di concedere al proprietario di un
fondo, non gravato da servitù, di esercitare ogni facoltà connessa al suo diritto; considerando le numerose
limitazioni circa l’altezza e le luci degli edifici introdotte dalla legislazione postclassica, e si ponevano come
deroghe apportate, a favore di questo o quel proprietario.
doveva cconsentire i adminicula servitutis, ossia facoltà di natura accessoria che risultavano indispensabili
per l’esercizio di servitù.
I PRINCIPI GENERALI
- Utìlitaspoteva nascere e sussistere soltanto se il fondo dominante ne traeva una utilitas obiettiva
- Perpetuità della causa: poiché la servitù presumeva una situazione di permanente utilità tra i fondi,
non era ammissibile una servitù temporanea. Mentre nel diritto classico non si ammise che nell’atto
costitutivo si potesse prevedere l’estinzione della servitù, il diritto giustinianeo riconobbe la validità di una
costituzione “non indefinita”: al proprietario del fondo servente fu concessa una excèptio pacti contro il
proprietario del fondo dominante che, al verificarsi della condizione o del termine, volesse continuare ad
esercitare la servitù;
- Possibilità = vicinanzasi richiedeva la vicinanza tra fondo dominante e fondo servente. La
vicinanza non doveva intendersi come mera contiguità tra fondi, quanto piuttosto come relazione
topografica, tale da consentire un effettivo rapporto di subordinazione tra gli stessi.
- Nèmini res sua sèrvit indica che il fondo dominante ed il fondo servente devono appartenere a
proprietari diversi. Se il fondo dominante e quello servente, da principio appartenenti a proprietari diversi,
diventano di proprietà della stessa persona, la servitù si estingue
- Sèrvitus in facièndo consìstere nequit in virtù di tale principio, il peso imposto al proprietario
del fondo servente, per l’utìlitas del fondo dominante, non poteva mai consistere in un’attività positiva, da
svolgersi in favore dell’altro fondo.
- Inalienabilitàla servitù si trasmetteva necessariamente con il trasferimento del fondo e non
poteva essere alienata separatamente da questo: si diceva, pertanto, che non era in bonis, non potendo il
titolare disporne;
- Indivisibilitàla servitù non poteva che sorgere od estinguersi per intero. Pertanto, la sua
costituzione da parte di un solo condomino non era efficace. Inoltre, nel caso di divisione del fondo
dominante o servente, la servitù continuava ad esistere per l’intero: ciascuna parte del fondo dominante
aveva diritto all’intera servitù, mentre ciascuna parte del fondo servente la sopportava per l’intero.
MODI DI ACQUISTO O COSTITUZIONE : per la valida costituzione di una servitù occorreva:
- che i fondi in relazione fossero siti in solo italico;
- che i proprietari dei fondi fossero dòmini ex iùre Quirìtium e quindi entrambi cives romani;
- che fosse posto in essere un modo di costituzione della servitù riconosciuto dal ius civile.
I modi di acquisto o costituzione delle servitù erano quelli con cui si trasmetteva il domìnium ex iure
Quiritium:
- mancipàtio (per le sole servitù màncipi);
- in iure cèssio servitùtis consistente in un processo fittizio di vindicàtio servitutis, esercitata da chi
intendeva acquistare la servitù, cui faceva seguito una in iure cessio del soggetto che la alienava.
- dedùctio servitutisconsistente nella riserva, a vantaggio di un proprio fondo, di una servitù, fatta
dall’alienante nell’atto di alienazione di un fondo (oppure in un legato): la riserva era, dunque, operata,
in proprio favore, dall’alienante nell’ambito di una mancipàtio o di una in iùre cèssio oppure dal de
cùius ;
- adiudicàtio Provvedimento del giudice, con il quale, in adesione alla parte della formula, denominata
anch’essa adiudicàtio, veniva assegnata in proprietà, ad un singolo soggetto, una cosa che prima
apparteneva ad un patrimonio in comunione. Attribuiva al soggetto aggiudicatario, sulla cosa
assegnatagli.
- Legatum per vindicatiònem trasmetteva direttamente la proprietà (o il diritto che ne era oggetto)
dal testatore al legatario: di conseguenza se il legatario non riceveva ciò che gli spettava, poteva
esperire contro l’erede la rèi vindicàtio
Ad essi, si aggiunsero, nel periodo post- classico:
- Pactiònes et stipulatiònes consisteva nell’accordo, in qualunque forma raggiunto, tra proprietario del
futuro fondo dominante e proprietario del futuro fondo servente. L’accordo veniva posto in essere
attraverso una stipulàtio ; il sistema si diffuse a tal punto che diventò il modo generale di costituzione
delle servitù e dell’usufrutto.
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- Patientia (tolleranza) Consisteva nella tolleranza, da parte del proprietario di un fondo (destinato a
diventare fondo servente), di attività o comportamenti corrispondenti all’esercizio, in fatto, di una
servitù da parte del proprietario di un fondo limitrofo (destinato a diventare fondo dominante).
- Destinàtio patris familiæ Non si trattava di un negozio giuridico, ma di un atto giuridico in senso
stretto che si realizzava allorché il proprietario di due fondi, dopo aver costruito opere permanenti per la
loro migliore utilizzazione, li trasferiva, inter vivos o mortis causa, a due diversi soggetti; a seguito di tale
trasferimento, sorgeva automaticamente una servitù a vantaggio e a carico, rispettivamente, dei due
fondi, ormai appartenenti a diversi proprietari.
ESTINZIONE DELLE SERVITÙ
- in virtù di un atto uguale e contrario rispetto a quello che aveva determinato la loro costituzione;
- per confùsio Come modo di estinzione delle obbligazioni diverso dall’adempimento, aveva luogo
automaticamente nei casi in cui le qualità di creditore e di debitore si riunivano nella stessa persona.
La ràtio dell’istituto va identificata nell’impossibilità logico-giuridica che una stessa persona sia, ad un
tempo, soggetto attivo e passivo di uno stesso rapporto giuridico
- per non usus;
- per rinunzia della servitù ritiene che in concreto la rinunzia alla servitù avesse luogo, attraverso
una in iùre cèssio servitutis . In diritto postclassico, si ritenne sufficiente una dichiarazione, anche priva
delle formalità prestabilite, del proprietario del fondo dominante;
- per il mutamento dello stato dei luoghi: a condizione che le modificazioni intervenute rendessero
impossibile in via definitiva l’esercizio della servitù. Si intendono il mutamento materiale e talune modifiche
relative alla condizione giuridica dei fondi.
TUTELA PROCESSUALE DELLE SERVITÙ : Tra le azioni, ricordiamo:
- la vindicàtio servitutis(Rivendica di una servitù)predisposto per la tutela delle servitutes
prædiòrum , costruito a somiglianza della vindicatio, spettava in esclusiva al proprietario del fondo
dominante, estesa nei confronti di chiunque intralciasse o impedisse l’esercizio della servitù;
- l’àctio negatòria servitutis esperita del dominus il quale asseriva che il proprio fondo non era
gravato da servitù, l’attore doveva dimostrare il suo diritto di proprietà.
USUFRUTTO
Alcuni degli altri diritti reali su cosa altrui si considerano afferenti anche ai beni mobili. L’usufrutto venne
concepito come il diritto limitato nel tempo e intrasmissibile, di usare, di godere, e di fare propri i frutti di
una cosa inconsumabile, mobile o immobile, appartenente a un'altra persona, il nudo proprietario.
L’usufruttuario non poteva mutare la destinazione economico-sociale del bene ed aveva l’obbligo di
restituirlo alla scadenza del rapporto. Il contenuto del diritto di usufrutto era individuato nell’uti (uso pieno
della cosa) e nel frui (appropriazione dei frutti mediante percezione degli stessi)
In origine (III sec. a.C.) svolgeva una funzione alimentare: il testatore imponeva all’erede, mediante
un legàtum sinendi modo (legato con prescrizione di permettere), di lasciar percepire periodicamente i
frutti di una cosa fruttifera alla vedova a cui era stato legato da matrimonium sine manu e che non poteva
succedere ab intestato al marito. In seguito si ammise che potesse essere costituito mortis
causa mediante legatum per vindicationem. Per la sua originaria funzione alimentare, l’usufrutto in un
primo momento si poteva costituire solo a favore di persone fisiche. In epoca classica si ammise che
beneficiario potesse essere anche una persona giuridica.
LIMITI TEMPORALI: era limitato nel tempo, poteva essere costituito a termine, ma se non veniva previsto,
si estingueva alla morte dell’usufruttuario, in quanto l’usufrutto non può sussistere se non in relazione ad
una persona, poi con Gaio si diffuse l’usanza di costituire usufrutto in favore ad enti immateriale, ossia
persone giuridiche, ma per risolvere il problema della perpetuità degli enti, Giustiniano stabilì che non
potesse oltrepassare i cento anni.
INTRASMISSIBILITA’: essendo un diritto personalissimo, il titolare del diritto di usufrutto non poteva
trasmettere tale diritto né inter vivos, né mortis causa. Esso si estingueva o mediante la scadenza del
termine originaria o con la morte dell’usufruttuario.
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ENFITEUSI E SUPERFICIE
CARATTERI COMUNI: inquadrate tra i diritti reali di cosa altrui e tra i rapporti assoluti in senso improprio
soltanto nell’età moderna. Non furono incluse nemmeno tra le servitù personali in quanto considerate
quale mera limitazione del diritto di proprietà. Entrambe costituiscono diritti reali, gravanti direttamente
sul fondo: non vi era alcun rapporto con il proprietario perciò sono reputate come diritti alienabili e
trasmissibili.
ENFITEUSI ll termine, designava originariamente il rapporto di concessione di terre, intercorrente fra le
città delle province orientali e i privati concessionari che si obbligavano a dissodare le terre incolte e a
migliorarle. Nel diritto romano, fino al periodo classico, non esisteva un istituto corrispondente. Scopi affini
erano perseguiti attraverso concessioni in godimento di terre da parte della città o di altri enti pubblici
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secondo uno schema analogo alla locàtio condùctio. In ogni caso non era previsto in capo al concessionario
l’obbligo del miglioramento del fondo, quanto piuttosto l’obbligo di pagare un modesto canone. Dall’età di
Costantino, si affermarono due diversi tipi di concessione:
- il ius perpetuum, che aveva ad oggetto i fondi del fisco ed il cui canone non era modificabile;
- il ius emphyteuticàrium (risalente agli ordinamenti delle libere città greche di età classica, perpetuatisi
in ambiente ellenistico) che aveva ad oggetto i fundi patrimoniales, ossia quelli della dinastia imperiale
ed il cui canone era modificabile, in quanto implicava che fosse sempre riequilibrato il rapporto tra
concedente e concessionario “al fine del mantenimento dell’equilibrio economico tra i due”.
Nel V secolo d.C. ius perpetuum e ius emphyteuticarium vennero unificati e denominati col solo nome di
ius emphyteuticarium, il quale presentava i seguenti caratteri:
- la concessione era data in perpetuo;
- il canone era considerato invariabile;
- concedente nella prassi divenne anche il privato e non più solo la comunità pubblica o l’imperatore.
Risolvendo i dubbi avanzati in dottrina sul punto, l’imperatore Zenone stabilì che, in caso di distruzione del
fondo, il danno doveva essere sopportato dal concedente, se il fondo periva totalmente, cessando l’obbligo
dell’enfiteuta, e dal concessionario nel caso di danni temporanei, dovendo questi continuare a pagare il
canone. Nel diritto giustinianeo l’enfitèusi fu configurata come un rapporto assoluto reale in senso
improprio. I giuristi dell’epoca modificarono la disciplina dell’istituto: venne imposto all’enfiteuta l’obbligo
di comunicare al proprietario ogni trasferimento che egli volesse fare del suo diritto e fu accordato al
proprietario un diritto di prelazione, grazie al quale egli, offrendo pari condizioni economiche, doveva esser
preferito, nel riscatto del fondo enfiteuticario, al terzo che intendesse acquistare, a sua volta, dall’enfiteuta,
il diritto di enfiteusi. Se il proprietario non esercitava tale diritto, gli spettava laudèmium, cioè una sorta di
indennità pari al due per cento del prezzo pagato dal nuovo enfiteuta. Il concedente poteva risolvere il
rapporto, con la c.d. devoluzione, qualora l’enfiteuta per tre anni consecutivi non avesse pagato il canone o
le imposte gravanti sul fondo, non avesse fatto la comunicazione dell’alienazione o non avesse pagato il
laudemio, oppure avesse gravemente deteriorato il fondo.
SUPERFICIE Diritto reale di godimento su cosa altrui, in virtù del quale un soggetto, diverso dal
proprietario del fondo, poteva costruire e mantenere in proprietà una costruzione su un suolo altrui.
L’istituto fu originariamente ignoto al iùs civile, nel quale vigeva incontrastato il principio dell’inseparabilità
del suolo dalla superficie (superficies sòlo cèdit). Fin dall’età repubblicana si manifestò, la tendenza al
superamento di tale principio. Si diffuse, l’uso, da parte dei magistrati, di concedere ai privati, mediante
corrispettivo (solàrium), il diritto, di costruire sul foro o sulle strade: così, ad es. era concesso agli argentarii
(banchieri) di tenere le loro tabernæ (gli uffici) nel foro. Pur in presenza della concessione, il suolo restava
pubblico, ma il costruttore aveva la piena disponibilità della bottega, che poteva anche alienare o
distruggere. L’uso di concedere il diritto di edificare sull’altrui suolo si affermò anche nei rapporti tra
privati: in tal caso si creava un rapporto derivante da un contratto di locàtio-condùctio dal quale nasceva
solo un diritto di obbligazione, vincolante per le parti ed i loro eredi e non per i loro aventi causa a titolo
particolare. Al superficiario, peraltro, il pretore concesse un interdìctum de superficièbus, il quale,
accordato sul modello degli interdetti possessori, fece sì che il condùctor, a differenza di ogni altro
locatario, potesse essere considerato e protetto come possessore della superficie: al riguardo si parlò di
quasi possessio. In diritto giustinianeo, a seguito della contaminazione del diritto romano con istituti
giuridici originari delle province ellenistiche, si iniziò a configurare la superficie quale diritto reale: il diritto
ellenistico non conosceva il principio superficies solo cedit ed ammetteva, perciò, che la proprietà potesse
essere divisa per piani orizzontali. Il diritto del superficiario fu considerato come appartenente alla
categoria degli iùra in re alièna e non come una autonoma forma di proprietà, dal momento che
Giustiniano volle mantenere, almeno formalmente, la validità del principio superficies solo cedit.
In epoca giustinianea, pertanto, il diritto di superficie assunse le caratteristiche di rapporto giuridico
assoluto in senso improprio, tutelato da un’àctio in rem superficiària.
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credito, se ciò era pattuito. Le parti solevano aggiungere alla costituzione del pegno un patto per cui,
qualora alla scadenza l’obbligazione non fosse stata adempiuta, il creditore diventava senz’altro
proprietario della res oggetto del pegno in base al convenuto ius retentiònis. Il patto commissorio fu
successivamente vietato da Costantino, perché ritenuto troppo oneroso, per il debitore.
Al creditore era inoltre riconosciuto il ius distrahèndi : se il ius possidendi, avendo funzioni di garanzia, non
importava il soddisfacimento del credito, il ius distrahendi, attribuito al creditore in età tardo classica,
aveva, invece, funzione satisfattoria. Il ius distrahendi attribuiva, in caso di inadempimento, la facoltà di
vendere la cosa data in pegno e di soddisfarsi sul ricavato, salvo l’obbligo di restituire al debitore
l’eventuale residuo. Tale diritto in origine era oggetto di una speciale convenzione (pactum de distrahendo
pìgnore), con cui il debitore all’uopo autorizzava il creditore. Successivamente la giurisprudenza classica,
preso atto dell’enorme diffusione di tale patto, ammise che il ius vendendi dovesse ritenersi tacitamente
incluso in ogni costituzione di pegno. In conseguenza della vendita, l’acquirente acquistava il dominio, dal
momento che il creditore vendeva ex pacto, cioè in base al consenso, esplicito o implicito, del debitore.
In epoca giustinianea venne fissato il principio che, se nessun compratore si presentava, il creditore poteva
chiedere all’imperatore l’attribuzione della cosa, salvo il diritto del debitore di riscattarla entro due anni.
Adempiuta l’obbligazione, se il creditore non restituiva spontaneamente la cosa, il debitore poteva agire
con l’àctio pigneratìcia in rem directa.
Contratto reale Le finalità del pegno potevano essere raggiunte attraverso la stipula di un apposito
contratto reale, che si perfezionava con la consegna della res alla controparte. Il contratto consisteva, in
particolare, nel trasferimento del possesso di una cosa dal debitore al creditore, con il patto che il creditore
tenesse presso di sé la cosa, a garanzia dell’adempimento di un suo credito, con l’obbligo di restituirla
qualora il debitore avesse eseguito esattamente la prestazione. In caso contrario, egli poteva venderla,
soddisfacendosi sul ricavato. Per la restituzione della res oggetto del pignoramento, era concessa al
debitore una actio (in factum) pigneraticia in personam ; in seguito, la giurisprudenza tardo-
classica riconobbe anche una actio in ius di buona fede. In favore del creditore (che avesse sopportato
spese per la conservazione della cosa, o per danni da evizione) fu apprestato un iudicium contrarium.
Modi di estinzione del pegno: cessava con l’estinzione del credito garantito oppure a seguito della vendita
del pegno, se in creditore era rimasto insoddisfatto; ma si aveva anche in caso di rinunzia da parte del
creditore, di perimento del bene oppignorato, di confusione, di longi tempori paescriptio (da parte del
terzo e mai dal creditore pignoratizio) o per il verificarsi della condizione risolutiva o per il sopraggiungere
del termine finale eventualmente apposti al pegno.
- IPOTECA (pìgnus convèntum): Diritto reale di garanzia su cosa altrui. era una mera convenzione in
virtù della quale, senza il materiale trasferimento del possesso del bene al creditore una cosa veniva
assegnata a quest’ultimo a garanzia di un debito. Dapprima la convenzione di garanzia intervenne
solitamente nella locazione di fondi: tra il locante e il locatario veniva stipulato un patto in base al quale i
beni complessivamente immessi da quest’ultimo nel fondo venivano destinati a garantire il pagamento del
canone. Il pretore in caso di inadempimento, concedeva un interdìctum Salviànum a mezzo del quale il
locante poteva entrare in possesso delle cose date in garanzia. In seguito si accordò al locante un’àctio in
rem, detta Serviana (o pigneratìcia) esperibile contro qualsiasi terzo. Detta azione fu poi estesa in via utilis
ad ogni altro caso di pegno nel quale mancasse il trasferimento del possesso.
In caso di locazione di fondi urbani, il pretore negava al conduttore l’interdictum de migràndo quando
questi, opponendosi al locatore, volesse asportare dal fondo gli invecta et illata senza aver pagato il
canone. La possibilità di costituire una garanzia con la sola convèntio fu estesa dalle locazioni rustiche a
tutti i tipi di obbligazione e così nacque la nuova figura di diritto reale di garanzia chiamata hypothèca. Se
sullo stesso bene gravavano più ipoteche a garanzia di crediti diversi, prevalevano le ipoteche costituite per
prime (prìor tèmpore pòtior iùre).
Nel diritto giustinianeo il pignus gravava sui beni mobili e l’hypotheca solo sui beni immobili, secondo una
distinzione che ancor’oggi caratterizza i due istituti.
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IL POSSESSO
I beni possono appartenere a una persona in virtù o di un mero rapporto materiale con la cosa (possesso) o
di un diritto sulla cosa giuridicamente riconosciuto.
DIFFERENZA TRA POSSESSO E DIRITTI SULLE COSE: il possesso, signoria di fatto sulla res, è l’apprensione
materiale del bene e viene protetto dall’ordinamento a determinate condizioni ed entro certi limiti; i diritti
sulle cose (diritti reali)che fanno perno sull’idea di una relazione giuridica astratta e prescindono dal
rapporto materiale del bene.
Il possesso, mera disponibilità di fatto era già giuridicamente rilevante dall’età delle XII tav. ma ai soli fini di
acquisizione del mancipium o della manus, poi a partire della fine del III sec a.C., fu tutelato anche
nell’ambito di ius honorarium dal pretore mediante la concessione di interdetti, intesi a tutelare la
continuazione dello stato di fatto.
Il possesso è uno stato di fatto, non un diritto, il possesso è questione di fatto e di intenzione, non è solo
materialità, ma presenta anche profili giuridici. Si afferma che qualunque possessore per il solo fatto che
possiede ha una posizione giuridica migliore di chi non possiede).
IL POSSESSO COME STATO DI FATTO E COME RAPPORTO ASSOLUTO IN SENSO PROPRIO: l’ordinamento
impone ai singoli di non intervenire arbitrariamente su una cosa che in appartenenza sia non libera e
disponibile, ma in una situazione tale da fare intendere che taluno già la abbia nella disposizione piena e
esclusiva. Perciò si prevede la repressione di atti volti a ledere, turbare, molestare in vario modo l’altrui
disponibilità di fatto dei beni.
In favore dei possessori si appresta una tutela urgente ma provvisoria, intesa a conservare o ripristinare lo
stato di fatto turbato o alterato, fatta salva la verifica di sussistenza di diritto di possesso.
Quindi il possesso va inteso come una relazione materiale con un bene, effettuata con l’intenzione di
tenere la cosa per sé in modo esclusivo: il fatto stesso che il possessore disponga di fatto della cosa obbliga
gli altri consociati e non intervenire sulla cosa stessa senza il suo consenso.
Il processo di tutela del possesso si delineò più tardi, sul finire del III sec. a.C., ad opera del pretore,
mettendo a fuoco le nozioni di proprietà e possesso come distinzione tra una situazione di fatto (materiale
disponibilità del bene) e situazione di diritto (proprietà di un bene), con degli interdetti possessori , ossia
una sorta di ordinanze di urgenza, intimazioni, che il magistrato rivolgeva all’autore di determinate
turbative o atti di spossessamento, su richiesta dell’interessato.
Attraverso gli interdetti possessori si tendeva soltanto a mantenere o a ripristinare lo stato di fatto relativo
alla materiale disponibilità della cosa. Era dunque indifferente se la persona che lamentava atti di
aggressione al suo possesso fosse proprietaria o titolare di altri diritti reali sulla cosa. Quindi la vittima di
turbative o di spoglio se era anche proprietario poteva scegliere se chiedere immediatamente un
interdetto, al fine di ottenere la mera tutela della sua disponibilità di fatto della cosa, oppure agire con la
specifica actio in rem per conseguire la tutela del diritto reali del quale fosse titolare. Il semplice possessore
non aveva altra scelta che la richiesta di protezione interdittale.
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Abbiamo tutela interdittale del possesso anomale qualora si trattasse di alcune tipologie pro alieno:
vennero concessi interdetti all’usufruttuario, al superficiario, a chi esercitasse ius praedii. Quindi abbiamo
situazioni di quasi possesso.
NOZIONE E CLASSIFICAZIONE
Nel ius civile, il termine antico per indicare il rapporto materiale con il bene cui corrispondesse un parziale e
diverso rilievo giuridico, fu usus: da usus auctoritas, ossia la signoria di fatto sul bene, se congiunta
all’auctoritas del proprietario e al decorso del tempo previsto giustificava la trasformazione della
disponibilità materiale in proprietà.
La proprietà e possesso non hanno nulla in comune, corrispondono a situazioni differenti e quindi devono
essere trattate e considerate distintamente. La possessio veniva esercitata della stesso proprietario, ma
spesso il dominium risultava disgiunto dal possesso, perché nella medesima cosa una persona poteva
essere dominus e un’altra possessor.
I giuristi individuavano nella possessio due elementi costitutivi: il corpus (relazione di fatto con il bene) e
l’animus (volontà, intenzione di tenere la cosa), intesi rispettivamente come elemento oggettivo materiale
e come elemento soggettivo psicologico. La giurisprudenza effettuò una vasta gamma di diverse possibili
situazioni possessorie:
- Possesio naturalis o pro alienopossesso materiale, intesa come la semplice detenzione
- Possessio pro suopossesso esercitato per proprio conto
- Possesio civilis coincidente con la possessio ad usucapionem: rapporto materiale con il bene
corredato di tutti i requisiti richiesti dall’ordinamento affinchè si giustificasse la trasformazione del
possesso in dominium, con il decorso del tempo, quindi doveva essere esercitata su cosa usucapibile, in
buona fede, con iusta causa.
- Possessio bonae fideipossessio esercitata in buona fede dove poteva anche non sussistere una iusta
causa, non conduce ad usucapione.
- Possessio iusta non affetta da vizi, esercitata nec vi, nec clam, nec precario; era possessio iniusta o
vitiosaesercitata con la forza o clandestinamente o a seguito di concessione èrecaria, nei confronnti
dell’avversario.
- Possessio vel usufructus
- Possessio iuris, quasi possessioesercizio di fatto di un diritto, assoluto o relativo, purchè diverso dalla
proprietà. Significato affine riveste la formula di quasi possessio.
ELEMENTI COSTITUTIVI
I due elementi della possessio: animus e corpus. L’apprensione della cosa aveva natura di fatto e perciò la
sua realizzazione avveniva senza bisogno di formalità prescritte dall’ordinamento. Si poteva considerare
acquistato il possesso e sussistente la condizione di possessore tutelato con gli interdetti pretori, qualora:
l’oggetto fosse una cosa corporale; la persona apprendesse un bene ed esercitasse una relazione con esso
in base ai due elementi possidere corpore (possedere materialmente) e del possidere animo (possedere co
l’intenzione di tenere la cosa per sé).
Il principio secondi cui il possesso erano soltanto le cose corporali indusse la giurisprudenza ad escludere
inizialmente che si potessero possedere: un uomo libero; le cose che fossero parte di un’altra; i diritti.
Quanto ai requisiti del corpus e dell’animus, il primo elemento era obiettivo e si richiamava all’essenza della
possessio naturalis, consistendo nel mero rapporto materiale con il bene. Il secondo elemento della
possessio ad interdicta era invece soggettivo, in quanto concerneva la sfera inferiore della persona del
possessore. Quindi gli elementi corpus e animus dovevano sussistere al momento dell’acquisto della
relazione possessoria con il bene.
L’elemento soggettivo possidere corpore fu inteso inizialmente strettamente materialistico, poi, si tese
progressivamente a smeterializzare o spiritualizzare tale requisito, ciò portò il possesso ad una pratica
assimilabile al diritto. Esempio pag. 426: da Labeone il possessore del fondo non perde il possesso se si
reca al mercato, sicchè l’occupante possiede clandestinamente; se poi, una volta tornato dal mercato il
possessore, l’occupante rifiuta di andarsene, il suo possesso diviene violento (vi) ed egli si espone
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all’interdictum unde vi. quindi si rilevano dei tempi di lontananza tollerabili per il mantenimento del
possesso.
Ai fini dell’acquisto e della conservazione del possesso, era necessaria anche la volontà di detenere la cosa
per possederla, ossia possidere animo. Altrimenti in assenza di animo si aveva mera detenzione. L’animus si
richiedeva sia al momento iniziale dell’apprensione del bene, per l’acquisto del possesso, sia ai fini della
continuazione di questo, come situazione psicologica permanente.
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OBBLIGAZIONI
FONTI DELLE OBBLIGAZIONI
Si intendono gli eventi, i fatti rilevanti in una prospettiva giuridica, dai quali nasce un vincolo obbligatorio.
Non si tratta necessariamente di eventi leciti e neppure voluti, si può essere obbligati per effetto di un
contratto e di un delitto, e la volontarietà dell’obbligo è esclusa per gli illeciti.
Per gli atti leciti, esiste una categoria in cui l’obbligo sorge da comportamenti in sé leciti ma non diretti alla
costituzione del vincolo, il quale però è collegato a dette situazioni dell’ordinamento. Perciò la volontarietà
dell’obbligo è propria solo di una categoria, esistente all’interno degli atti leciti e comprendente gli atti
negoziali.
Gaio, nella sua opera di Institutiones, distingue semplicemente due species: ogni obbligazione nasce da
contratto o da delitto. Questa divisione però non andava e ad accorgersene fu lo stesso Gaio, e la
bipartizione diventa una tripartizione: le obbligazioni nascono da contratto o da maleficio o da maleficio o
da varie figure di cause giuridicamente configurate in modo a se stante. Dove maleficium è sinonimo di
delictu. Le obbligazioni nascenti da contratto possono essere concluse
- re (per mezzo di una dazione di una res);
- verbis (tramite le parole);
- litteris (per mezzo di scritti);
- consensu (mediante il consenso).
PROBLEMA DELLA SOLUTIO INDEBITI, cioè il pagamento di quanto non dovuto: ossia un tale riceve da un
altro qualcosa per errore, perché quest’ultimo riteneva erroneamente di essere suo debitore. Sorge
l’obbligo per l’accipiente di restituire quanto ricevuto per errore. Gaio ritiene che tale ipotese non debbe
rientrare nei contratti reali, pur nascendo da una dazione di una res. L’errore su cui poggia la nascita
dell’obbligazione non sia solo nel solvens ma anche di colui che riceve, perché altrimenti, se costui
accettasse la consegna del bene sapendo di non dover ricevere nulla, commetterebbe furto.
Gaio crea una terza categoria in cui riversare tutte le fattispecie produttive di obbligazioni, che non
potevano rientrare né nei contratti, né nei delitti: una categoria residuale in cui l’obbligazione, pur
nascendo da atto lecito o non discendeva da una volontà bilaterale.
Nelle institutiones giustinianee l’obbligatio può nascere da contratto a da quasi contratto, da maleficio o da
quasi maleficio in cui si comprendono rispettivamente le obbligazioni nascenti dai delicta del ius civile
(quadripartizione).
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Emerge l’idea dei giuristi del perpetuarsi dell’obbligazione, nel senso che non potranno più sussistere
ragioni giustificative della mancata prestazione. Il debitore in mora dovrà corrispondere al creditore i frutti
della cosa o gli interessi del suo debito. Si riconobbe al debitore di liberarsi della mora qualora riesca a
provare che la cosa dovuta sarebbe perita ugualmente anche se l’avesse eseguita puntualmente. La mora
può essere sanata qualora il debitore si renda disponibile ad adempiere, pure tardivamente.
Criteri di imputazione in base al tipo di azione spettante al creditore e al convenuto della prestazione
dovuta.
Le obbligazioni tutelate da actiones stricti iuris possono consistere in un dare (quando lo schiavo è stato
consegnato ma ferito(comportamento commissivo) o lo schiavo oggetto di consegna è stato lasciato morire
(comportamento omissivo)) oppure in un facere.
Si parla bonae fidei iudicia per precise qualificazioni della condotta attinenti all’atteggiamento psicologico
(dulus e colpa) oppure al nesso tra l’evento e l’imputazione del medesimo in capo al debitore.
DOLUS E CULPA: sono parametri soggettivi e riflettono un preciso atteggiamento psicologico del debitore:
costui può aver voluto intenzionalmente recar danno al creditore, e si avrà il dolus; oppure può aver
causato la medesima situazione per negligenza, imprudenza o imperizia, e sarà allora responsabile per
culpa (mancanza di diligenza)
CUSTODIA: costituisce un criterio oggettivo, ossia che il debitore è considerato responsabile per
l’impossibilità sopravvenuta della prestazione, nonostante che abbia preso tutte le precauzioni necessarie
per evitare il verificarsi dell’evento.
UTILITAS CONTRAHENTIUM: la responsabilità del debitore si amplia o si restringe secondo che il rapporto
obbligatorio sua vantaggioso per lui, per il creditore o per entrambi (es. pag. 451).
DEROGHE SU ACCORDO DELLE PARTI: le parti hanno facoltà di variare il quantum di responsabilità, ma non
di escludere il dolo. Di regola invece non si risponde per eventi rientranti nel caso fortuito o nella forza
maggiore. Al medesimo risultato si perviene con AESTIMATIO: qualora il rapporto obbligatorio abbia ad
oggetto una res , le parti possono procedere alla stima preventiva del valore economico di questa,
accordandosi nel senso che nel caso di suo perimento per qualsiasi causa il debitore sia tenuto a
corrispondere il valore stabilito forma convenzionale di assunzione del rischio.
DILIGENTIAviene collegata a un parametro ideale, il bonus pater familias, in base al quale si misura la
cura e la diligenza prestata in concreto nel singolo caso.
Gli attributi bonus et diligens qualificano la figura del pater come persona dotata di equilibrio, prudenza,
saggezza, accortezza. In sintesi vi sono ipotesi in cui il debitore doveva prestare la diligenza del buon padre
di famiglia, altre in cui la misura era data dalla diligenza abitualmente prestata nelle proprie cose.
Si delineano poi i concetti di culpa in abstracto (comprendente la culpa lata, levis, levissima) e in concreto
(corrispondente all’assenza di diligentia quam suis.
Concetto di periculum per indicare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione dipendente da vis maior o
casus fortuitus e il rischio del mancato adempimento derivante da un evento inimputabile al debitore.
Sorge il problema della ripartizione del rischio contrattuale. Di solito esso ricade sul creditore, a meno che il
debitore non abbia assunto su di sé il periculum.
OBLIGATIONES CONTRACTAE
Si intesero obbligazioni costituite lecitamente. Restano fuori le obbligazioni emerse nella sfera giuridica
dopo il Principato. Quindi si intesero obbligazioni contratte solo le obbligazioni contratte verbis, litteris, re,
consensu.
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SPONSIO E STIPULATIO
Sponsiogiuramento religioso promissorio, vi si ricorreva per assumersi la responsabilità per un fatto
oggettivo, oppure per la prestazione che un terzo doveva effettuare. Si poteva avere assunzione di
responsabilità o per un dare, o un facere i un no facere. Era caratterizzata da formalismo e solennità
verbalemodalità di contrarre obbligazione mediante domanda e risposta orali. La sponsio comincio ed
essere usata affinchè lo sponsor (promittente) assumesse la responsabilità per la propria prestazione.
Era incardinata in ambito di ius civile.
Stipulatioper estendere la sponsio anche ai rapporti commerciali con e tra peregrini, si ammise che
l’obbligazione potesse nascere pure dalla pronuncia di vocaboli diversi da spondere, accessibili agli
stranieri con l’uso di altri verbistipulatio iuris gentium, in quanto contratto verbale aperto agli
stranieri.
Negli ultimi due secoli della repubblica romana, la sponsio era ormai comunemente denominata stipulatio:
forma di scambio di domanda e risposta tra lo stipulans, il creditore che rivolgeva l’interrogatio, e il
promissor, debitore che pronunciava la risposta. L’obbligazione sorgeva così in favore dello stipulans.
Per la sua validità era necessario che il debitore promittente rispondesse:
- Oralmente
- Subito dopo che gli fosse stata rivolta la domanda
- Utilizzando lo stesso verbo usato dal creditore
Conseguenze:
- Inaccessibilità della stipulatio a muti e sordi
- Invalidità del contratto a distanza (tra assenti)
- Impossibilità di costituzione dei rapporti tra soggetti diversi dallo stipulans e promissor
Ne consegue il principio per cui il negozio giuridico può regolare soltanto il rapporto tra le parti che lo
concludono. Fu esclusa la validità della stipulatio post mortem, il contratto verbale da estinguersi dopo la
morte dello stipulans o del promissor. La regola dell’invalidità della stipulatio post mortem fi poi soppressa
in età giustinianea, quando si ammise la validità delle stipulazioni con effetto post mortem, ma soltanto se
favorevoli all’erede. Gaio ritiene invalida anche la stipulazione a carico dei terzi, quando si costituisce un
obbligo a carico di un soggetto diverso dalle parti negoziali.
La stipulazione contratta a favore dei terzi invece, da cui nascessero un diritto di credito e la relativa azione
in favore di un terzo estraneo, era comunque invalida perché era incompatibile con il principio generale
della inutilitas degli atti volti a regolare rapporti facenti capo a terzi e l’oggetto della stipulazione non
offriva alcun vantaggio economico ai contraenti. Implicava che la sfera giuridica del terzo non potesse
essere invasa senza la sua accettazione, neppure con la produzione di rapporti giuridici per quest’ultimo
vantaggiosi.
Si cominciarono poi a considerare una serie di espedienti per aggirare il principio di nullità del contratto in
favore del terzo ma ciò a condizione che risultassero: l’interesse del terzo al negozio concluso in suo favore
e la sua accettazione degli effetti dell’atto.
La sponsio era un contratto verbale unilaterale (l’obbligazione nasceva soltanto a carico del promittente) e
tendenzialmente astratto (una volta soddisfatti i requisiti di forma segnalati, poteva non rilevare altro).
I verba da pronunciarsi divennero oggetto ci conventio (accordo) e si diffuse la prassi, nel I sec. a.C., di
redigere testationes (documentazioni scritte) delle stipulazioni, ma solo a fini probatori, che si collegava alla
prassi della tutela processuale della stipulatio.
Con l’avvento delle procedure formulari, l’azione nascente da stipulatio (actio ex stipulatu) si presentava
come un’azione fondata sullo ius civile. La natura astratta della stipulatio costituiva un rischio per il
promissor, come nel caso di stipulatio per la restituzione di una somma in previsione di un mutuo, il
promissor veniva convenuito il giudizio con actio ex stipulatu per una somma che non aveva mai ricevuto;
compare quindi un eccezione a favore del promissor, di mutuo non erogato, per ragioni di equità.
FAVOR PROMISSORsi osserva che il promittante, non avendo ripetuto oralmente le condizioni del
contratto, ma soltanto risposto laconicamente in senso affermativo con il verbo richiesto, poteva non evere
compreso del tutto l’oggetto dell’obbligazione contratta, quindi si elaborò il canone del favore per il
promittente, con il quale si doveva propendere per la soluzione più favorevole al promittente.
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escutere i cogaranti. Solo in età postclassica, infatti, Giustiniano accordò al garante il c.d. beneficium
excussionis.
Lex Fùria de spònsu
Legge di data incerta (ma comunque più recente rispetto alla lex Appulèia de sponsu), che stabilì per le
obbligazioni derivanti da sponsio e fidepromissio, la durata massima di due anni: se i soggetti obbligati in
garanzia erano più di uno, il creditore poteva agire contro ciascuno pro quota, mentre il garante che avesse
pagato più della quota di sua spettanza poteva agire per manus iniectiònem nei confronti del creditore.
- Fedeiussioche soppianta sponsio e fedeicommissio: Contratto verbale, di regola adoperato a
scopo di garanzia, al pari della spònsio e della fideipromìssio. Si trattava di una stipulatio, di cui costituiva
una delle possibili applicazioni. Si affermò verso la fine dell’età repubblicana ed aveva un regime diverso da
quello delle altre due figure. Essa, a differenza della sponsio e della fidepromissio, poteva essere riferita a
qualunque tipo di obligàtio, anche non ex stipulàtu. Inoltre, l’obbligo di garanzia non si estingueva con la
morte del soggetto, ma era trasmissibile agli eredi. Non era previsto il limite temporale biennale proprio
della sponsio e della fidepromissio. In epoca classica, il creditore poteva rivolgersi, indifferentemente, al
debitore principale o al fideiussore; se il fideiussore pagava non aveva diritto di rivalsa verso eventuali altri
cofideiussori, né aveva un’apposita azione contro il garantito, ma doveva agire con l’àctio mandàti o con
l’actio negotiòrum gestòrum. L’imperatore Adriano, però, stabilì che in caso di più fideiussori l’obbligazione
fosse divisa tra loro ed attribuì al singolo fideiussore un benefìcium divisiònis che poteva esser fatto valere
in via di excèptio *vedi+, contro il creditore che avesse citato lui solo per l’intero. Se poi pagava, il
fideiussore godeva del beneficium cedendàrum actiònum, per effetto del quale il creditore gli cedeva la
propria azione contro il debitore principale. In epoca giustinianea, assorbì le altre due figure e divenne
l’unica obbligazione di garanzia riconducibile allo schema dell’adpromìssio.
Lo sviluppo dell’istituto era ormai definitivamente orientato verso il carattere sussidiario dell’obbligazione
del fideiussore e ciò avveniva per effetto del beneficium excussiònis, che attribuiva la facoltà (accordata da
Giustiniano) di esigere che il creditore dirigesse la sua pretesa prima contro il debitore principale e, solo se
questi era insolvente, contro il fideiussore.
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adempimento del soggetto garantito, aveva luogo, in danno dei praedes una procedura di esecuzione
coattiva, nella quale non è dato sapere molto.
Ma i preades come i vades scomparvero presto, già all’epoca di Gaio non si faceva più ricorso.
Gaio annovera i nomina trasscripticia (crediti trascritti) collegati al sistema di contabilità familiare: il pater
usava registrare quotidianamente, mediante scritturazioni dette nomina arcaria negli adveraria (registro di
casa), ogni movimento patrimoniale. E dovevano essere copiate mensilmente il un libro contabile delle
entrate e delle uscite (codex accepti et expensi). I nomina arcaria non creavano e non estinguevano alcuna
obligatio, in quanto relative a negozi già conclusi in altro modo. Avevano rilievo giuridico esclusivamente sul
piano probatorio. La riproduzione dei movimenti patrimoniali nel codex accepti et expensi sortiva
conseguenze: o la costituzione di una obbligazione ex novo o l’estinzione di una obbligazione
precedentemente assunta o la trasmissione in obbligazione letterale di una obbligazione prima sorta in
altro modo o una novazione soggettiva.
Ciascun codex accepti et expensi era diviso in due colonne, quella dell’acceptum (colonna delle entrate con
l’indicazione della persona che aveva versato il denaro) e expensum (colonna delle uscite con l’indicazione
del soggetto cui il denaro era stato consegnato dallo scrivente). Il riconoscimento di effetti costitutivi, o
estintivi, o modificativi a queste attestazioni unilaterali va ricondotto al forte significato religioso e sociale
anticamente attribuito al codice delle entrate e delle uscite, ma le falsificazioni al suo interno divennero
frequenti. L’editto del pretore previde pertanto la concessione dell’exceptio doli nei confronti dei falsi
creditori, i quali ricorressero alla tutela giurisdizionale per fare valere le loro registrazioni fraudolente.
Già sul finire dell’età repubblicana l’expensilatio veniva usata a scopo di novazione di un’obbligazione
preesistente. La nuova espressione con cui si indicava la expensilatio fu il nomen transcripticum (credito
trascritto), per cuise si era già costituita un’obbligazione tra due soggetti, si poteva modificare, operando
un’idonea trascrizione del credito nel codex accepti et expensi. Si distingue in:
- Trascrizione reale valeva a trasformare in obbligazione letterale una obbligazione precedente
contratta in altro modo, la quale si estingueva. Questa novazione aveva lo scopo di precostituire un
semplice ed efficace mezzo di prova dell’obbligazione , oppure a facilitarne l’estinzione.
- Trascrizione personaleutilizzata per surrogare un debitore già obbligatosi litteris con un altro debitore:
si dava fittiziamente per adempiente il debitor originario registrando il suo nome nella colonna
dell’ecceptum, mentre si scriveva il nome del nuovo debitore nella colonna dell’expensum.
Pur escludendo gli stranieri dal ricorso alla transscriptio per la novazione soggettiva, si pronunciarono in
senso affermativo almeno con riguarda alla trascrizione reale.
Le obbligazioni letterali applicate in età imperiale avanzata:
Singrafe Istituto in uso, dapprima, presso i Greci e successivamente recepito in diritto romano, tra i
contratti letterali. La singrafe era, in particolare, un documento redatto in doppio originale sottoscritto
da entrambi i soggetti, contenente l’impegno a pagare una certa somma. Esse avevano efficacia
rappresentativa dell’obligatio che, in pratica, si incorporava nel documento e si estingueva con la
distruzione di questo. In età postclassica, si avvicinarono all’instrumentum stipulatorio fino a
confondersi con esso.
Chirografoera un documento redatto in un unico originale dal debitore e consegnato da questi al
creditore quale impegno di pagamento. Secondo parte della dottrina, tale documento aveva solo
efficacia probatoria relativamente ad obbligazioni preesistenti; per contro altra dottrina ritiene che esso
probabilmente avesse efficacia non solo costitutiva, ma persino rappresentativa dell’obbligazione, che si
reputava incorporata nel documento e quindi estinta con la distruzione dello stesso. Il chirografo
rientrava nell’ambito delle obbligazioni lìtteris contràctæ. L’istituto, probabilmente di derivazione
orientale (greca od egiziana), appartenne in origine al iùs gentium, che regolava i rapporti tra stranieri;
presenta notevoli punti di contatto con i moderni titoli di credito.
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Tesserae sottospecie dei chirografi. Le tessere erano piccoli quadrati o rettangoli di materiale ligneo o
metallico, che si rilasciavano, da parte della pubblica autorità o di imprenditori privati, a chi avesse
diritto a una determinata prestazione, per esempio l’ingresso in un teatro o la consegna di una certa
quantità di grano.
OBLIGAZIONE RE CONTRACTAE
Obbligazioni contratte mediante la consegna della cosa, nascevano dalla dazione di una cosa.
LA CATEGORIA DEI CONTRATTI REALI: tra le obbligazioni reali si annoverano: il mutuo, deposito, comodato,
pegno, l’indebito pagamento: secondo cui l’obbligazione reale nasceva esclusivamente quando una persona
trasferiva a un’altra proprietà di una data quantità di cose fingibili, come appunto accadeva per il mutuoe in
caso di indebito pagamento. Gaio però non annovera la fiducia tra le obligationes re contractae.
I giuristi tardo imperiali ravvisano obbligazione reali in fattispecie numerose e svariate, in cui gli obblighi
nascevano non soltanto dal passaggio di proprietà della cosa , ma anche dalla semplice consegna materiale
di questo. Così la trasmissione del possesso o la mera detenzione della cosa dettero luogo alla creazione di
obblighi: mutuo, comodato, deposito, pegno. La solutio indebiti non venne messa tra le obligationies re
contractae in quanto, a differenza delle altre figure, non si fondava sul consenso delle parti. Quindi
l’elemento centrale delle obbligationes re contractae cessò di essere il trasferimento della proprietà della
cosa, per divenire il trasferimento consensuale della cosa
FIDUCIAespediente più antico per la creazione di un dovere di restituzione a carico di chi avesse
ottenuto una cosa a fini di garanzia, custodia o prestito. La fiducia si distinse nelle due applicazioni della
fiducia cum creditore e fiducia cum amico. La fiducia cum amico costituì il precedente storico del deposito,
ma anche del comodato: si basava sul trasferimento gratuito, di dominium del fiduciante al fiduciario. La
trasmissione della proprietà del bene con patto di ritrasferimento assolveva alla funzioni di:
a) Custodia da parte di un amico
b) Prestito d’uso, nell’interesse del fiduciario
c) Donazione per causa di morte
d) Affrancazione dello schiavo
La vendita fiduciaria all’amico serviva principalmente a fare sì che una persona (amico) usasse o custodisse
transitoriamente una cosa e poi ne ritrasferisse la proprietà all’originario dominus. La vendita fiduciaria era
intesa a realizzare il trasferimento fiduciario di un bene per un certo scopo, con l’intesa che una volta
raggiunta o non realizzata la finalità prevista, la cosa fosse ritrasferita al fiducianteattuazione di un
doppio trasferimento della proprietà.
Due espedienti intervennero a compensare i difetti:
1. Usureceptio, l’usucapione abbreviata di cui si è già parlato a proposito della fiducia cum creditore;
2. Intervento pretorio, che facendo leva sul patto fiduciario, introdusse l’actio fiducae con iudicium bonae
fidei. Actio fiduciae: azione conseguente alla mancata osservanza di un contratto fiduciario
Azione concessa al fiduciante che avesse alienato una res màncipi al fiduciario con l’intesa (c.d. pactum
fiduciæ) che la stessa gli fosse restituita al verificarsi di determinate condizioni, nel caso di mancata
restituzione. Se ne conosce una formula in factum per la restituzione della cosa mancipata in relazione
al contenuto del pactum fiduciæ, cui fece ben presto seguito un’actio fiduciæ in ius ex fide bona.
MUTUO contratto unilaterale, a titolo gratuito, in virtù del quale in mutuante trasferiva la
proprietà di una certa quantità di denaro o di altre cose fungibili e consumabili al mutuatario, conl’accordo
che quest’ultimo restituisse, alla scadenza fissata, la stessa quantità di cose fungibili ricevute
approssimativamente della medesima qualità. Una volta che il mutuante effettuava la datio rei traslativa di
proprietà, a carica del mutuatario nasceva l’obbligo alla restituzione. Il mutuante diveniva creditore
dell’accipiente. Qualora non fosse stato fissato il termine perla restituzione, questa era immediatamente
esigibile dal mutuante. La funzione del mutuo fu quella del prestito di consumo.
La gratuità del mutuo, secondo i romani fu connaturata alla struttura stessa del mutuo e da essa
dipendente, in quanto era inconcepibile, a rigore di ius civile, che si fosse tenuti a restituire più di quanto si
era ricevuto.
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Per quanto riguarda la situazione giuridica del nexum (affine ma non identica a quella del mutuatario), era
la persona che, pur senza perdere la libertà e la cittadinanza romana, garantiva con il proprio corpo e con le
proprie prestazioni lavorative, l’adempimento di un obbligazione propria o altrui
Con il mutuo si trasferiva la proprietà, non il possesso o la detenzione della cosa: trattandosi di cose
fungibili e consumabili dati a fine di utilizzazione, queste res non potevano essere usate dal mutuatario se
non con la loro perdita o distruzione. Effetti del mutuo:
a) L’acquisto della proprietà della cosa mutuata in capo all’accipiente
b) La nascita dell’obbligo del mutuatario alla restituzione non della cosa stessa.
Era la datio rei, e non il consenso, a determinare la nascita dell’obbligazione. L’obbligo gravava in via
esclusiva sull’accipiente mutuatario, si parla perciò di contratto unilaterale.
Il creditore mutuante poteva agire nei confronti del mutuatario che non avesse effettuato la restituzione
entro i termini stabiliti.
L’obbligazione del mutuatario era circoscritta nei limiti della res ricevuta. La gratuità del mutuo escludeva
che si potesse concordare la restituzione di più di quanto si fosse ricevuto.
LA PRASSI DEI MUTUI FENERATIZI: il mutuo non poteva contenere in sé una valida convenzione di
corresponsione di interessi da parte del mutuatario. Ma un’ampia documentazione ci dimostra di fatto che
il mutuo non veniva concesso gratuitamente in quanto la società romana non nutriva alcun pregiudizio di
tipo morale nei confronti di chi prestava denaro ad interesse. Il mutuo feneratizio si reputava una normale
forma di commercio.
Ma una volta realizzatosi il passaggio dall’economia pastorale all’economia monetaria a diffusosi in prestito
di denaro, le usure risultavano inadeguate, in quanto il denaro non produce frutti naturali. La plebe non
riuscì più a fare fronte ai debiti accumulati e fu introdotto un limite legale, stabilendo una penale a carico
del trasgressore.
Al fine di aggirare il principio della gratuità del mutuo, i mutuanti potevano esigere legalmente gli interessi
se, all’atto della datio rei, con apposita e separata stipulatio, avessero concordato con il mutuatario il
pagamento delle usure. La stipulazione di interessi consentiva al creditore di esercitare nei confronti del
mutuatario l’actio ex stipulatu, in caso di mancato pagamento degli interessi
Per quanto riguarda l’obblifgazione naturale nascente da pactum usurarum dal quale non nasceva né
l’obbligazione né la tutela giurisdizionale. Il mutuante non poteva convenire in giudizio il mutuatario con il
quale avesse stretto un semplice pactum usurarum. Ma il pagamento spontaneo da parte di quest’ultimo,
pur non essendo giuridicamente tenuto a farlo, non poteva più chiederne la restituzione.
SOLUTIO INDEBITISi aveva nei casi in cui un soggetto eseguiva una prestazione di dare non
dovuta o perché l’obbligazione era inesistente o perché esisteva, ma in capo ad un debitore o nei confronti
di un creditore diversi: in questo caso, chi pagava poteva agire per ottenere la restituzione di quanto
indebitamente prestato, ricorrendo allo strumento della condìctio indebiti.
L’obbligo di restituire nasceva per il semplice fatto che si fosse consegnata la cosa: peraltro, poiché
l’accipiente acquistava, in seguito alla dazione, la proprietà della cosa, il solvente non poteva esperire la rèi
vindicàtio, bensì la condictio per la restituzione del tantùndem eiùsdem gèneris.
Si ritenne, inoltre, che per l’esperibilità della condictio occorressero:
- l’error solvèntis, in quanto in assenza dell’errore si riteneva che il debitore volesse gratificare
l’accipiente;
- l’error accipièntis, in quanto, se l’accipiente riceveva scientemente un indèbitum, si riteneva che si
verificasse un furtum, con la possibilità dell’esperimento della condictio ex causa furtìva.
Sia il diritto classico che quello giustinianeo non consentirono l’esercizio della condictio nel caso in cui il
pagamento dell’indebito, pur se fatto per errore, intendeva estinguere una c.d. obligàtio naturalis. In tal
caso l’accipiente aveva diritto alla solùti retèntio, cioè a trattenere quanto ricevuto.
In diritto giustinianeo, la solutio indebiti fu annoverata tra i quasi contracti.
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DEPOSITOL’istituto del deposito fu preordinato a realizzare una delle finalità della fiducia cum
amico, evitando il rischio derivante dal trasferimento della proprietà delle cose date in
custodia. Contratto reale, tipico, perfezionantesi con la consegna di una cosa mobile che una parte
(depositante) faceva all’altra (depositario), con l’obbligo per quest’ultima di custodirla gratuitamente e di
restituirla a richiesta del depositante. La consegna (tradìtio) comportava il trasferimento al depositario
della mera detenzione della cosa (possèssio naturàlis ). Oggetto del deposito doveva essere una cosa
mobile ed infungibile. Si trattava di un contratto gratuito, poiché il depositario non riceveva alcun
compenso per la custodia. Se fosse stato previsto un sia pur minimo compenso, non si aveva più deposito,
ma locazione. Differiva dal deposito il mandàtum ad custodièndum, vale a dire l’incarico di custodire una
cosa: mentre il deposito si perfezionava con la dàtio rèi (consegna della cosa), il mandatum era un
contratto consensuale, come tale perfezionantesi a seguito del mero incontro delle volontà dei contraenti.
Il depositante era tutelato da un’àctio in factum accordata dal pretore, azione poi trasformatasi in actio ex
fide bona. Al depositario, invece, era accordata un’actio contraria, con la quale egli poteva far valere,
contro il depositante, le pretese relative all’indennizzo delle spese sostenute per la manutenzione della
cosa e al risarcimento dei danni arrecati dalla cosa depositata. Le fonti romane contemplavano figure
peculiari di deposito:
- deposito necessario Figura particolare di deposito, altrimenti detto depositum miserabile,
ricorrente in casi di eccezionale gravità ed urgenza; la consegna del bene, infatti, veniva effettuata
dal depositante in occasione di tumulto, incendio, rovina, naufragio. In tale ipotesi si prevedeva
una più grave responsabilità del depositario in caso di rifiuto di restituzione del bene, infatti l’actio
in factum concessa dal pretore era in duplum.
- Sequestro convenzionale Figura particolare di deposito, ricorrente allorquando più
persone depositavano in solido la cosa, con l’obbligo per il depositario di custodirla e restituirla a
colui che, in seguito, si fosse trovato in una determinata situazione legittimante (ad es.: a chi
vinceva la lite relativa alla cosa stessa). Mentre il depositario era considerato semplice detentore,
il sequestratario era considerato possessore e poteva esercitare gli interdìcta a tutela
della possessio.
- deposito irregolareFigura peculiare di deposito consistente nella consegna di cose
fungibili (generalmente somme di danaro) effettuata dal depositante al depositario, con l’obbligo
per quest’ultimo di restituire il tantùndem eiùsdem gèneris (altrettante cose dello stesso genere) ad
una certa scadenza oppure a richiesta. Secondo i giuristi dell’età classica tale figura era da
considerarsi come contratto di mutuo, poiché si prevedeva per il depositario una facoltà (quella
di usare la cosa) estranea al contratto di deposito. Solo in epoca giustinianea fu considerato un
tipo contrattuale autonomo rispetto al mutuo ed alla stessa figura generale di deposito.
Tra i contratti reali figura anche il pegno, di cui abbiamo già trattato.
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EMPTIO VENDITIO
Compravendita: contratto consensuale con cui il contraente, il venditore, si obbligava nei confronti della
controparte, il compratore (emptor), a consegnargli una cosa mobile o immobile, mentre il compratore si
obbligava nei confronti del venditore a dargli una somma di denaro: bilateralità del rapporto che si
instaurava con il consenso dei contraenti, appunto nascevano due distinte obbligazioni, con inserimento
nell’editto pretorio di due azioni, actio empti e actio venditi.
Ai tempi più antichi, lo ius civile aveva previsto la mancipatio, in iure cessio e traditio, per il trasferimento di
cose contro un prezzo.
La emptio venditio nei rapporti tra privati cittadini si configurò come:
- Negozio ius gentium, in quanto tale accessibile ai peregrini
- Contatto che si concludeva con il semplice consenso delle parti, che potevano essere anche assenti
- È un contratto con effetti meramente obbligatori
In origine gli elementi costitutivi furono: consenso, cosa, e il prezzo.
Per consenso sulla medesima decisione si intendeva l’accordo tra le parti circa il successivo trasferimento
del possesso della cosa dal venditore al compratore e il successivo pagamento di un determinato prezzo dal
compratore al venditoreera la nuda volontà a dare vita all’emptio venditio. Ove vi fosse discordanza tra
le due volontà, la vendita non veniva ad esistenza.
In età tardo-imperiale cominciarono a richiedersi alcune formalità per il perfezionamento del contratto:
obbligo di notazione nei registri censuali, Giustiniano previde che le compravendite si dovessero redigere
per iscritto, che si perfezionassero dal momento della scrittura per produrre effetti.
La prova dell’avvenuta conventi tra le parti era data dalla consegna dell’arrha (caparra), la quale consisteva
in una dazione effettuata dal compratore al venditore. Gaio precisa che non erano né il pagamento del
prezzo né la consegna della caparra a costituire la vendita, bensì il consenso dei contraenti:
- Caparra probatoriase una volta data l’arrha il compratore non pagava il prezzo, il venditore non era
tenuto ad accontentarsi di trattenere per sé la caparra ricevuta, ma poteva convenire in giudizio il
compratore, per il pagamento integrale del prezzo stabilito: concezione di caparra come anticipo su
prezzo;
- Caparra confirmatoriaalcune costituzioni imperiali stabilirono che una volta effettuata la dazione della
caparra da parte del compratore, ciascuno dei contraenti poteva recedere dal contratto, perdendo
rispettivamente la caparra versata (se a recedere era il compratore), o versando il doppio di quanto
ricevuto (se a recedere era il venditore): concezione di caparra come impegno reciproco alla conclusione
della compravendita;
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Actiònes ædilìciæ
Azioni accordate dagli edili curuli, in tema di commerci svolgentisi in pubblici mercati, onde evitare dispute.
A tal fine, i venditori di schiavi e di animali erano obbligati a denunciare ai compratori eventuali vizi della
cosa, specie se non palesi.
In caso di violazioni di tali obblighi, erano accordate al compratore le due actiones aediliciae e cioè:
- l’actio redhibitòria;
- l’actio quanti minòris, detta anche æstimatoria.
Àctio redhibitòria (azione per la restituzione) era esperibile entro sei mesi dal momento in cui si era
rivelato il vizio: Azione affine a quella æstimatòria o quanti minòris, concessa dagli edili curuli [vedi ædìlitas]
in ordine alle vendite di schiavi ed animali in pubblici mercati.
Questa era esperibile dal compratore nei confronti del venditore, in tutti i casi, in cui la res oggetto
dell’affare avesse rivelato vizi occulti, corporali o spirituali (es. tendenza alla fuga dello schiavo) non
denunciati o non conosciuti dal venditore.
A differenza dell’actio æstimatoria, essa:
- era esperibile nel breve termine di due mesi o di sei mesi (secondo alcuni dalla data dell’acquisto,
secondo altri dalla scoperta del vizio) nel caso in cui fosse stata prestata garanzia per evizione (mediante
stipulato in duplum);
- era diretta ad ottenere l’intera somma versata, previa restituzione della res (il tutto in relazione alla
maggiore gravità del vizio riscontrato, tale da rendere la cosa del tutto inidonea all’uso prospettato
dall’acquirente).
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Àctio quanti minòris (vel æstimatòria) azione di riduzione poteva invece essere chiesta al magistrato
entro un anno dalla scoperta del difetto della merx:
Azione, appartenente alla categoria delle actiones ædiliciæ; era esercitabile in caso di vizi, occulti o meno,
della cosa oggetto di una compravendita avvenuta nei pubblici mercati (animali, schiavi), entro sei mesi
dalla scoperta del vizio, per ottenere una riduzione del prezzo pagato.
L’editto degli edili curuli imponeva, al venditore di schiavi od animali, la prestazione di una garanzia per
l’evizione (si trattava di una stipulàtio in duplum, cioè comportante la condanna al doppio del valore della
cosa evitta): se la garanzia era stata realmente prestata, l’actio aestimatoria era esercitabile entro un anno.
Per quanto riguarda l’evoluzione dell’azione, occorre precisare che la giurisprudenza classica considerò la
garanzia per i vizi connaturata a tutti i casi di compravendita, ritenendo che potesse essere sempre fatta
valere con l’actio empti.
Si distingueva, comunque, tra due casi:
- se il venditore era a conoscenza dei vizi della res, era tenuto al risarcimento del danno;
- se il venditore non era a conoscenza dei vizi della res, era tenuto alla restituzione od alla riduzione del
prezzo.
L’attuale disciplina della vendita prevede regole analoghe.
TUTELA GIURISDIZIONALE DELL’EMPTIO VENDITIO
- Àctio èmpti Azione di buona fede concessa all’èmptor (compratore) nel caso in cui il venditore
non avesse provveduto alla consegna della cosa venduta o, trattandosi di res màncipi, non ne avesse
effettuato la mancipàtio. L’actio emptio era, altresì, esperibile dal compratore nel caso in cui il venditore
non avesse garantito l’acquirente contro il pericolo di evizione, oppure quando quest’ultima si fosse già
verificata. Il giudice doveva considerare la differenza tra la situazione patrimoniale in cui si sarebbe trovato
il compratore qualora il contratto fosse stato regolarmente eseguito dalla controparte e la situazione in cui
si trovava per inadempimento imputabile al venditore (interesse positivo). Se poi il venditore aveva
ingannato l’emptor su valore o qualità della merx negoziata, l’ammontare della condanna veniva
rapportato alla differenza tra la situazione patrimoniale in cui si sarebbe trovato il compratore qualora non
avesse concluso il contratto e la situazione in cui si trovava avendolo concluso (interesse negativo);
- Àctio vènditiAzione esperibile dal venditore in caso di inadempimento del compratore, avente
caratteristiche simili all’actio empti. Sorgeva a carico del compratore oltre a pagare il prezzo stabilito
sorgevano a suo carico anche gli interessi di mora;
Entrambe contenevano l’invito ricolto al giudice di condannare il convenuto a tutto ciò che egli avrebbe
dovuto fare o dare secondo il criterio della buona fede.
LEGES EMPTIONIS ET VENDITIONIS
Serie di patti aggiuntivi in veste di clausole accessorie, che le parti potevano aggiungere al contratto
modulando lo schema di base della compravendita secondo le loro particolari esigenze. Una volta incluse
nel contratto, tali clausole obbligavano i contraenti e la loro eventuale violazione dava luogo all’esercizio
delle azioni contrattuali ex fide bona:
- Lex commissoria (patto commissorio): Clausola accessoria del contratto di compravendita, in base
al quale le parti si accordavano affinché il venditore potesse recedere unilateralmente dall’impegno
assunto, pretendendo dal compratore la restituzione della cosa se non avesse pagato il prezzo entro il
termine prestabilito. Per effetto della lex commissoria, il venditore trasferiva solo il possesso del bene,
mentre il trasferimento della proprietà veniva sottoposto alla condizione sospensiva del pagamento del
prezzo convenuto.
- Pactum de retrovendento vel pactum displicentiæ [Patto di rivendita o riserva di gradimento]:
Clausola accessoria ad una emptio-venditio che attribuiva al compratore la facoltà di restituire la cosa o la
merce dietro rimborso del pretium, previo accertamento della qualità della stessa.
Parte della dottrina distingue le due figure, individuando nel pactum de retrovendendo la generica facoltà
di restituzione; e collegando, invece, la medesima facoltà all’accertamento della qualità della merce o della
cosa nel pactum displicentiæ. Analoga figura è il pactum degustationis, diffuso nel commercio del vino,
mediante il quale il compratore poteva accertare la qualità della mercanzia, utilizzando però il
c.d. arbitrium boni viri cioè il “criterio obiettivo del galantuomo”.
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LOCATIO CONDUCTIO
La locazione, in diritto romano, era un genus, più che un contratto autonomo, in quanto al suo schema
potevano esser ricondotte figure diverse l’una dall’altra. Sotto un profilo generale, col termine locazione
era indicato quel contratto consensuale, col quale una parte (locatore) si obbligava a mettere nella
materiale disposizione dell’altra (conduttore) una cosa, che quest’ultimo si obbligava a restituire dopo
averla goduta per un certo tempo, o dopo averla lavorata, manipolata, trasformata nel modo pattuito. Le
origini storiche della locazione sono assai incerte:
- un primo orientamento la ricollega alle prime locazioni dello Stato;
- un secondo orientamento ritiene che la locazione si affermò in Roma attraverso il iùs honoràrium [vedi]:
il suo precedente nel ius civile sarebbe stato il precàrium, istituto col quale il proprietario di una cosa ne
cedeva il possesso ad altri in cambio di un corrispettivo;
- altra dottrina esclude la derivazione della locazione dal precàrium, con il quale poteva ravvisarsi solo
un’identità di funzione.
Si è rilevato che la vendita e la locazione, nel diritto romano, non furono nettamente distinte, poiché
entrambe potevano essere costitutive di sole obbligazioni (mentre nel diritto moderno la vendita ha
efficacia traslativa). Ciò che distingueva i due contratti non era la perpetuità del rapporto (potendo esservi
anche una locazione perpetua), ma la funzione del contratto: la vendita attribuiva al compratore un potere
assoluto e definitivo, la locazione, invece, attribuiva solo il godimento della cosa. Inoltre, il compratore
vantava una iusta causa usucapiònis ed il suo possesso era tutelato con l’àctio Publiciàna, mentre il
conduttore non aveva alcuna tutela reale. Il contratto di locazione aveva di solito una durata determinata,
ma poteva essere stipulato anche in perpetuum (salvo, in questo caso, il diritto di recesso di ciascun
contraente). Un tale contratto veniva da alcuni giuristi qualificato come compravendita; Gaio, pur con
dubbi, riferisce che secondo la tesi prevalente doveva essere considerato egualmente come locazione.
A tutela del locatore e del conduttore erano apprestate, rispettivamente, un’actio locàti *vedi+ ed un’actio
condùcti entrambe azioni di buona fede. Elementi essenziali della locazione erano la res (o le operæ, che
venivano locate) e la mèrces (il corrispettivo). La merces doveva essere certa e, normalmente, consisteva in
una controprestazione pecuniaria. Nell’ambito della locazione confluirono tre figure:
locatio rèi: Era quel particolare tipo di locatio-conductio, nel quale il locatore si impegnava ad
assicurare al conduttore il godimento di una cosa mobile od immobile, per un certo periodo di tempo,
dietro il pagamento di un corrispettivo (mèrces). Qualunque cosa poteva essere oggetto di locatio rei, sia
mobile che immobile, purché inconsumabile. Poteva avere come oggetto anche uno schiavo e poteva
importare la facoltà di avvalersi della operæ di questo. Oggetto poteva essere inoltre l’esercizio di iùra in re
alièna. La merces era il corrispettivo per il godimento della cosa ed era costituita generalmente da danaro.
Poteva, tuttavia, essere costituita anche dai frutti della cosa locata; infatti:
- nella colonia partiaria la merces era costituita da una quota determinata dei frutti;
- se la merces era composta da un tot prestabilito o invariabile di derrate (pars quanta), questa non
variava quantitativamente qualunque fosse stato l’ammontare del raccolto.
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La durata della locatio rei era, di regola, fissata dalle parti o, in mancanza, dalle consuetudini locali, ma
poteva aversi, anche, una locazione a tempo indeterminato (locatio in perpetuum), che durava finché una
delle due parti non decideva di recedere dal contratto. Obblighi del locatore erano:
- lasciare il conduttore nel godimento della cosa per tutta la durata del contratto;
- consegnare la cosa in buono stato e mantenerla in tale stato per la durata del contratto, onde
garantirne il godimento al locatario.
Obblighi del locatario erano:
- pagare la mercede alle scadenze pattuite;
- custodire la cosa;
- restituire la cosa al termine della locazione. Se la cosa da restituire risultava deteriorata o distrutta,
l’obbligazione si trasformava in quella di pagamento del valore.
Il conduttore aveva solo un diritto personale, esercitabile contro il locatore: avendo la possèssio naturàlis,
era un mero detentore. Eccezionalmente era al conduttore accordato l’interdìctum de vi armàta se era
stato cacciato con l’uso delle armi dal fondo locato. Poiché vigeva il principio èmptio tòllit locàtum, nel
caso di vendita della cosa, il locatore era responsabile se l’acquirente pretendeva la restituzione della cosa
dal conduttore. A tal proposito il locatore poteva pattuire che il compratore della cosa locata rispettasse la
locazione: tale patto, però, aveva valore solo tra le parti della vendita, pertanto il conduttore poteva agire
solo contro il locatore con l’àctio condùcti (il quale a sua volta poteva agire con l’actio vènditi contro
l’acquirente). Particolare disciplina era dettata per il caso in cui l’oggetto della locazione fosse stato un
immobile urbano (nel qual caso il conduttore si chiamava inquilìnus) o un fondo rustico (nel qual caso il
conduttore si chiamava colònus). Il conduttore, in queste ipotesi, era tenuto anche ad evitare di deteriorare
l’immobile e doveva eseguire tutte le opere necessarie alla sua ordinaria manutenzione, mentre le spese di
straordinaria manutenzione erano a carico del locatore. In diritto giustinianeo era ammessa la tacita
ricondùctio (ossia la proroga tacita), che si verificava se al termine del rapporto l’inquilinus o
il colonus rimaneva nell’immobile ed il locatore non vi si opponeva.
locatio operàrum: Era quel particolare tipo di locatio-conductio, nel quale il locatore metteva a
disposizione del conduttore i propri servizi dietro il pagamento di un corrispettivo (mèrces). La locati
operarum, derivando dalla locazione dello schiavo, poteva avere come oggetto non qualsiasi lavoro umano,
ma soltanto quello prevalentemente manuale, che di solito era prestato da schiavi. Caratteristica
dell’obbligazione del locàtor operarum era la sua subordinazione totale alle direttive del condùctor (datore
di lavoro). Nel diritto postclassico, per l’influenza del Cristianesimo, si attenuò la concezione della piena
subordinazione del locator al conductor. Peraltro, il fenomeno della scarsezza di mano d’opera, sia servile
che libera, importò l’introduzione di norme sulla sèrvitus glebæ e sulla ereditarietà dei mestieri.
La locatio operarum cessava per morte del locator, essendo impossibile che le operæ fossero prestate da
persone diverse. Viceversa, se era il condùctor a morire, i suoi diritti ed i suoi obblighi si trasmettevano agli
eredi. Al di fuori della locatio operarum rimanevano le artes ingènuæ (o operæ liberàles), cioè le attività
prevalentemente intellettuali, quali quelle dell’avvocato, del medico etc. Di solito le professioni
intellettuali erano esercitate su richiesta dagli interessati ed a titolo gratuito: il cliente, peraltro, poteva
corrispondere un honoràrium. Le operæ liberales ebbero tutela giudiziaria, se non quella extra òrdinem.
Qualora fosse stato riscontrato un cattivo esercizio dell’arte professionale, secondo i Proculiani, al cliente
spettava l’actio ex lege Aquilia per il risarcimento del danno.
locatio òperis: Era quel particolare tipo di locatio-conductio, nel quale il locatore metteva materiali
di sua proprietà a disposizione di un àrtifex (che assumeva le vesti del conduttore) che si impegnava, con
lavoro proprio (o di propri dipendenti) a lavorarli e trasformarli in oggetti, per utilità del locatore, ricevendo
da quest’ultimo, in cambio dell’opera conclusa, un corrispettivo (mèrces). Nella locatio operis il locatore
doveva prestare al conduttore la materia prima da lavorare o la cosa in ordine alla quale doveva essere
effettuata la trasformazione: il conductor aveva il compito di trasformarla, lavorandola, e di riconsegnarla
al condùctor, contro il pagamento della merces. In tale contratto la cosa non era locata a vantaggio del
conduttore, ma a vantaggio del locatore: ne conseguiva che l’obbligo di pagare la mercede incombeva sul
locatore. Nel diritto classico si discuteva se potesse esser qualificato come locatio operis un contratto con
cui un soggetto si impegnava a lavorare per altri una materia propria. Alcuni ritenevano che tale fattispecie
fosse caratterizzata da una compravendita del materiale congiunta ad una locazione dell’opera (tale tesi fu
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sostenuta da Cassio), ma finì col prevalere, peraltro, l’opposta opinione che ravvisava un’ipotesi di vendita
del prodotto finito. Il conduttore era obbligato ad eseguire il lavoro o il servizio affidatogli sia
personalmente (anche, eventualmente, attraverso l’opera dei propri schiavi), sia sublocando l’opus ad un
altro conductor. L’opera doveva essere eseguita nel tempo stabilito ed in mancanza entro il periodo di
tempo considerato normalmente necessario per condurlo a termine. Al termine del lavoro il locàtor
operis aveva diritto alla adprobàtio operis (cioè al collaudo) al momento della consegna: il collaudo doveva
essere effettuato secondo l’arbìtrium bòni vìri. Le obbligazioni derivanti da locatio operis si trasmettevano
agli eredi nel caso di morte del locator o del conductor, a meno che l’attività che quest’ultimo doveva
prestare non fosse un’attività infungibile. Una sottospecie della locatio era costituita dalla c.d. locatio
operis irregularis, che ricorreva nei casi in cui la materia prima consegnata dal locatore fosse passata in
proprietà del conduttore: quest’ultimo risultava obbligato a consegnare il prodotto finito, lavorato con una
qualsiasi materia appartenente allo stesso genere.
Il contratto di trasporto marittimo: relativo all’affidamento a un capitano di un dato quantitativo di
merci da trasportare mediante navigazione marittima. Si rilavava un problematica giuridica in ipotesi di
avarie marittime, a causa della frequenza con cui si manifestavano i naufragi e gli attacchi dei pirati. Per
conseguenza si riteneva che i proprietari delle merci caricate sulle navi, il capitano (magister navi) e
l’armatore (exercitor navis) instaurassero tra di loro un regime di comunione, in ordine al rischio di perdita
delle merci. Sulla base di tale communio si regolava la contribuzione ai danni. Ma le azioni con cui ciascuno
poteva fare valere le proprie pretese nei confronti degli altri erano non le azioni divisorie, bensì l’actio locati
e l’actio conducti. Pertanto, se paventando un naufragio, il capitano avesse ordinato di gettare in mare
parte delle merci caricate al fine di alleggerire la nave, sui proprietari delle merci non gettate gravava
l’obbligo di risarcire i proprietari delle merci distrutte, in proporzione del valore della nave e delle merci
rimaste intatte, di modo che ciascuno sopportasse lo stesso danno derivante del gettito in mare delle
merci, effettuato nell’interesse comune. Quindi il danno doveva dividersi proporzionalmente tra tutti gli
interessati.
SOCÌETAS
Contratto consensuale con il quale due o più soggetti (socii) si obbligavano reciprocamente a mettere in
comune beni o attività, in quantità anche disuguali, allo scopo di compiere una o più operazioni
economiche, dividendo tra tutti, secondo criteri prestabiliti, i guadagni o le eventuali perdite.
La società si inquadra tra le obligatiònes ex contractu, altrimenti dette obligationes consensu contractæ,
perché derivanti dal semplice accordo.
Le origini della società sono molto discusse. Per alcuni essa risulterebbe da un adattamento del vecchio
istituto del consòrtium ercto non cito. Con ogni probabilità la società derivò dal consolidarsi di prassi
largamente seguite nel commercio mediterraneo. L’intensificarsi delle relazioni con gli altri popoli, a partire
dal III sec. a.C., impose la necessità, da un lato, di raggruppare ingenti somme, dall’altro di sopportare in
comune i rischi di operazioni economiche di vasta portata. Il riconoscimento di tale contratto è da
attribuirsi all’attività giurisdizionale del prætor peregrìnus, nell’ambito dei rapporto del iùs gentium.
Si distingueva tra:
- societas òmnium bonòrum (Società di tutti i beni): Particolare tipo di societàcaratterizzata
dall’impegno dei soci di mettere a disposizione della stessa la totalità dei loro beni per impiegarli in
operazioni di comune accordo. I guadagni e le perdite erano ripartite proporzionalmente. Non era
necessario costituire un patrimonio comune dal punto di vista giuridico; era sufficiente che ciascun
socio si impegnasse ad effettuare gli atti richiesti, necessari per il raggiungimento degli scopi sociali.
- societas unìus rei o negotiatiònis (Società per un solo affare): Particolare tipo di società
contratta per il compimento di uno o più operazioni di un certo tipo di attività economica.
Obblighi del socio erano:
- apportare in società quanto aveva promesso. Se il suo apporto aveva per oggetto cose, egli doveva
trasferire agli altri, con mancipatiònes o traditiònes varie, una quota di esse, in modo da creare una
comunione sulle cose stesse;
- rendere comuni gli acquisti fatti per la società. Salvo diverso accordo delle parti gli utili e le perdite
erano ripartiti in egual misura: l’accordo tra i socii poteva giungere ad esimere totalmente dalla
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sopportazione delle perdite un socio cui era riservata una partecipazione agli utili, ma non poteva
escludere la partecipazione agli utili di un socio che partecipava, sia pure parzialmente, alle perdite
(societas leonìna). Il consenso doveva essere persèverans, cioè doveva sussistere fino al momento
del conseguimento del fine sociale o della scadenza del termine.
La società si estingueva:
- ex personis, e cioè per morte o càpitis deminùtio di uno dei soci;
- ex rèbus, e cioè per il raggiungimento del fine sociale o per la sopravvenuta impossibilità di
raggiungerlo;
- ex voluntàte, e cioè per volontà dei soci, per la scadenza del termine fissato o per rinuncia
(c.d. renuntiàtio);
- ex actiòne, a seguito dell’esercizio dell’azione di divisione. In epoca giustinianea fu considerata causa di
scioglimento della società anche il fallimento di uno dei soci.
La società produceva effetti solo tra i soci, non essendo riconosciuta la possibilità di creare enti con capacità
giuridica. Unica eccezione era rappresentata dalla societas publicanòrum, costituita per l’assegnazione
dell’appalto di tutto il reddito di imposte (pùblica) ricavabile da una certa provincia o per l’appalto di
grandi opere pubbliche.
Le obbligazioni reciproche derivanti dal contratto di società erano sanzionate dall’àctio pro socio, actio
civile e di buona fede: essa poteva essere esperita come azione generale di rendiconto finale della società,
ma poteva anche essere intentata perdurante il rapporto di società.
Essa importava, per la fiduciarietà del vincolo infranto, l’infamia del condannato.
Altri tipi di società erano:
- Socìetas omnium quæ ex quæstu veniunt (o lucri compendii) Società intesa alla ripartizione fra tutti i
soci della totalità dei guadagni derivanti dalla loro separata, ma coordinata attività economica.
- Societas in tempus còita [Società a tempo indeterminato] Particolare tipo di società [vedi socìetas],
le cui finalità erano temporalmente indefinite, poiché le parti non avevano prefissato un termine di
scadenza. L’attività di questo tipo di società si svolgeva prettamente in ambito industriale o
commerciale; nella categoria rientravano:
- Socìetas venaliciaria [Società per il commercio di schiavi] Particolare tipo di società a tempo
indeterminato, la cui attività si svolgeva nell’ambito del commercio di schiavi.
- Socìetas publicanòrum Particolare tipo di società a tempo indeterminato, la cui attività si
svolgeva nel campo degli appalti per l’esazione delle imposte ricavabili da una provincia, o per la
realizzazione di opere pubbliche.
- Socìetas vectigalis (vel vectigalium) Particolare tipo di società a tempo indeterminato, costituita
per l’esazione delle imposte pubbliche (c.d. vectigàlia) in una certa zona. Aspetto caratteristico di
tale tipo di società era la possibilità per l’erede di subentrare nella società automaticamente alla
morte del proprio dante causa che ne fosse socio.
Queste ultime due erano caratterizzate da: una complessa gestione del patrimonio comune (l’arca
communis) separato dai patrimoni dei singoli soci; una pletorica organizzazione interna, gerarchicamente
Ordinata in dirigenti, comitati direttivi e dipendenti.
Tutela giurisdizionale della societas:
Àctio pro socio [Azione a tutela del socio] Azione concessa a ciascun socio, contro l’altro, per far valere i
propri diritti: si trattava di un’azione di buona fede. Di regola, l’actio pro socio sanzionava la responsabilità
del socio convenuto per dolo; in diritto postclassico essa ricomprese anche la responsabilità per colpa.
La condanna era nei limiti dell’id quod fàcere pòtest (cioè nei limiti del possibile, delle effettive disponibilità
patrimoniali del condannato): in diritto pretorio, questo beneficio era accordato soltanto al socius òmnium
bonòrum, ma la giurisprudenza classica finì con l’estenderlo anche al socius unìus negotiatiònis.
Nel diritto classico, l’actio pro socio mirava ad indurre il socio convenuto all’adempimento delle prestazioni
cui era obbligato; in diritto postclassico, l’azione era volta ad affermare la responsabilità del socio venuto
meno agli obblighi assunti e comportava l’estinzione della società.
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MANDATUM
Contratto consensuale che obbligava un soggetto (mandatàrius) ad eseguire uno o più atti giuridici per
conto di un altro soggetto (mandàtor). In diritto romano fu riconosciuto come contratto consensuale solo
in epoca preclassica (nel II-I sec. a.C.), quando le esigenze commerciali imposero agli operatori economici di
ricorrere ad intermediari lontani per curare affari cui non potevano attendere personalmente.
L’individuazione del mandato fu dovuta, in particolare, alla giurisprudenza evolutiva del prætor peregrìnus.
Il mandato era gratuito. Qualora fosse stato pattuito un compenso, si aveva una locatio operis, non un
mandato. In casi eccezionali, poteva essere pattuita una remunerazione, ma solo a titolo di gratitudine
(honorarium) e che poteva essere fatta valere con un’actio in factum e non con l’actio mandati contraria.
Il mandatario poteva essere richiesto di compiere non soltanto atti giuridici, ma anche un’attività di
fatto (es. curare una piantagione); era inammissibile il mandato rei turpis, quello, cioè, nel quale il
mandatario era obbligato a compiere un’attività turpe. Si distinguevano, in particolare:
- il mandato mea gràtia (mandato conferito nell’interesse del mandante);
- il mandato alièna gratia (mandato conferito nell’interesse di un terzo);
- il mandato mea et tua gratia (mandato conferito in parte nell’interesse del mandante, in parte
nell’interesse del mandatario);
- mandato tua gratia tantum, ossia nell’esclusivo interesse del mandatario; esso si considerava come
semplice consiglionon produttivo di effetti giuridici.
Il mandatario aveva l’obbligo di:
- eseguire esattamente l’incarico; se egli agiva discostandosi dalle istruzioni ricevute, il mandante
poteva agire per ottenere l’esatto adempimento dell’incarico affidato;
- riversare gli effetti dell’attività svolta nella sfera giuridica del mandante (es. trasferire la proprietà
delle res acquistate, versare quanto riscosso).
Il mandante aveva l’obbligo di:
- rivalere il mandatario delle spese affrontate nell’esecuzione del (—) e dei danni eventualmente
subiti.
A tutela delle reciproche obbligazioni, le parti potevano esperire l’àctio mandati (directa a tutela dei diritti
del mandante; contraria a tutela dei diritti del mandatario) azione di buona fede [vedi actio bonæ fìdei]
attribuita dal prætor.
Il mandato si estingueva per esecuzione dell’incarico o sopravvenuta impossibilità di eseguirlo, per
il sopraggiungere del termine stabilito e per il venir meno del consènsus persèverans: oltre al verificarsi
del contrarius consensus, l’estinzione si verificava per il recesso di una delle parti (revocàtio del mandante
e renuntiàtio del mandatario).
Il mandato cessava, inoltre, per morte di una delle parti (c.d. resolùtio mandati: mandatum morte
resòlvitur), ma se le obbligazioni erano già sorte in conseguenza dell’esecuzione dell’incarico, esso
vincolava gli eredi.
Si riteneva inammissibile il c.d. mandatum post mòrtem, quello che aveva, cioè, per oggetto attività da
compiere dopo la morte del mandante o del mandatario: in questo caso, si riteneva che il contratto
fosse nullo. Solo in età postclassica, si cominciò ad ammettere la possibilità di contrarre un mandatum post
mortem mandatòris. Si ritenne, inoltre, inammissibile una renuntiatio del mandatarius che risultasse
pregiudizievole per il mandante.
NEGOTIORUM GESTIO: la gestione spontanea degli affari altrui
Era una delle obbligazioni non contrattuali da atto lecito (categoria di obbligazioni definita, dai compilatori
giustinianei, quasi ex contractu). S’intendeva la gestione di affari altrui, intrapresa spontaneamente e non
sollecitata dall’interessato (dòminus). Dal fatto della gestione nasceva per il gestore l’obbligo di condurre a
termine l’attività intrapresa fino al compimento dell’affare o degli affari. Contestualmente nasceva in capo
all’interessato l’obbligo di accettare la gestione e quello di assumersi gli effetti di questa e, cioè, di rivalere
il gestore di tutte le spese sostenute. Requisiti dell’istituto erano:
- il compimento di un atto che importasse gestione di affare altrui, atto che poteva essere
sia materiale (per es. riparazione) sia giuridico (per es. vendita);
- la volontà di gestire un negozio altrui (ànimus alièna negòtia gerèndi);
- l’assenza di un contratto di mandato
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- l’utilità della gestione (utìliter cœptum). Tale requisito doveva valutarsi con riguardo al momento
iniziale della gestione, a nulla rilevando il risultato finale di essa;
- l’assenza della c.d. prohibìtio dòmini.
A tutela del dominus era accordata un’àctio negotiorum gestòrum diretta, mentre a tutela del gestore era
prevista un’actio contrària; quest’ultima, riconosciuta in origine nel solo caso di gestione in
favore di persona assente, fu poi considerata di carattere generale.
PROCÙRA
Era il negozio giuridico unilaterale attraverso il quale un soggetto (c.d. dòminus negòtii) attribuiva ad un
altro soggetto, detto procuràtor il potere di gestire le sue attività economico-patrimoniali e negoziali (libera
administràtio). In un primo momento, la procura fu un istituto vincolante più dal punto di vista sociale che
giuridico ed espletò la stessa funzione assolta successivamente dal mandato [vedi mandatum]: si trattava di
un atto unilaterale che conferiva un potere negoziale al procurator. Dopo la diffusione del mandàtum, si
cercò di raccordare la procura con quest’ultimo, pur riconoscendosi la possibilità di una procura senza
mandato; nell’epoca postclassica la procura fu assorbita del tutto dal mandato.
Si qualificò, pertanto, “verus” il procuratore con mandato e “falsus” il procuratore senza mandato. Il
soggetto che non aveva avuto la præposìtio, ma che dava inizio alla attività gestoria nell’interesse
del dòminus, denominato falsus procurator, fu equiparato al negotiòrum gèstor.
In diritto giustinianeo si ammise anche la figura del procurator unìus rèi (od unius negotiatiònis), ossia
incaricato del compimento di un unico negozio ovvero di singoli e determinati negozi.
La procura perdeva i suoi effetti, automaticamente, con la morte di uno dei soggetti interessati.
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OBBLIGAZIONI EX PACTO
Pacta: accordi produttivi di obbligazioni tra i contraenti. Il patto è così detto da pactio (pacificazione), a sua
volta derivato dal termine pax (pace), e consiste nell’incontro tra le volontà di due o più persone sul
medesimo oggetto dell’accordo.
Grazie all’intervento pretorio, i contenuti dei pacta si accostarono alla nozione conventio quale accordo a
fine negoziale, nell’editto pretorio infatti si ricorreva spesso all’espressione pactum conventum (accordo
derivante dell’incontro delle volontà).
Agli albori del principato il semplice accordo tra le parti creava obbligazioni esclusivamente qualora esso
integrasse una delle quattro fattispecie contrattuali iuris gentium tipiche. Ma non sempre l’ordinamento
giuridico romano ammise che il pactum, ola conventio, di per sé fossero produttivi di effetti giuridici, infatti
già nelle XII Tav. si ammetteva la rilevanza giuridica dei pacta soltanto in tre ipotesi:
1. per il membrum ruptum (offesa fisicaa implicando menomazione permanente), si previde
l’applicazione della legge del taglione, qualora le parti non fossero venute ad una pattuizione
rinunciando alla vendetta;
2. il patto poteva sortire un effetto processuale, perché se le parti in lite trovavano un accordo, il
pactum metteva fine al processo e il convenuto evitava la condanna;
3. a seguito di un processo giurisdizionale il debitore veniva condannato, poteva evitare di subire la
procedura esecutiva con le relative conseguenze, addivenendo ad un accordo pattizio con il
creditore.
In età decemvirale tutti gli accordi non trasfusi in atti solenni erano irrilevanti sul piano giuridico, per cui
nessuno può chiedere tutele giurisdizionale in relazione ad un nudo patto perché da esso non nasce alcuna
obbligazione.
Quando in ambito di ius honorarium si cominciò a dare tutela ai quattro nova nagotia iuris gentium
(compravendita, locazione, mandato, società), il pretore considerò produttivi di obblighi tutelabili con
azioni onorarie anche alcuni patti aggiunti apposti a tali contratti. I pacta quindi si consideravano idonei alla
creazione di obbligazioni tra le parti. Tipi di accordi tra le parti chiamati nuda pacta, e dal punto di vista
della giurisprudenza si consideravano irrilevanti il pactum non previsto dalla legge e il pactum ex intervallo.
Ciò sta a significare che, oltre ai patti previsti dalla legge, producevano effetti giuridici soltanto i patti
aggiunti ai negozi tutelati da azioni di buona fede nel momento stesso della conclusione del contratto, in
quanto il pretore, anche se non fosse stata inserita nello iudicium un’apposita exceptio pacti poteva
invitare il giudice a prendere in considerazione gli accordi informali connessi con il rapporto principale,
secondo il criterio dell’oportere ex fide bona.
PATTI PRETORI: con il passare del tempo, il novero dei patti muniti di tutela giurisdizionale si accrebbe.
Innovazione per l’antico pactum fiduciae, che inizialmente era irrilevante e privo di tutela giuridica,
riposando sulla fides dei contraenti e nella soluzione estrema dell’usureceptio, ma poi il pretore intervenne
introducendo nel suo editto un actio fiduciae con intentium in factum finalizzata a sanzionare il fiduciario
che avesse violato la fides.
Il pretore inserì nel suo albo l’edictum de pactis, nel quale dichiarò pacta conventa servabo (darò
attuazione ai patti conclusi) ponendo alcune condizioni: affinchè fossero produttivi di effetti giuridici per ius
honorarium, i patti dovevano essere stati conclusi senza dolo, in osservanza di leggi, plebisciti,
senatoconsulti, editti e decreti imperiali, e non dovevano avere uno scopo fraudolento rispetto a tali atti
normativi.
Il pretore accordava tutela ai nudi patti, purchè non illeciti o in frode alla legge. La tutela era solo di tipo
difensivo. La protezione del patto avveniva mediante concessione di exceptio pacti conventi, con la quale si
paralizzava la pretesa dell’avversario, che non rispettasse l’accordo.
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l’adempimento ed era intrasmissibile agli eredi. Stessa azione concessa anche per constitutum debiti aliena,
era concessa dal pretore nei confronti del creditore del terzo garantito qualora il garante non pagasse.
Mediante actio in factum fu protetto dal pretore anche il patto di giuramento, cioè l’accordo mediante il
quale le parti in lite si impegnavano a porre fine alla controversia se uno dei due giurava sul buon
fondamento della propria pretesa o della propria difesa.
I RECEPTA erano accordi relativi a un novero vasto e eterogeneo di rapporti , accumulati
dall’accettazione di un dato compito, con contemporanea assunzione di garanzia dell’adempimento.
Recipiens era colui che avesse assunto l’impegno di recipere (ricevere, incaricarsi di qualcosa), cioè di
effettuare un particolare compito. Nell’editto pretorio figuravano tre accordi informali, due soltanto
protetti di actio recepticia, ma denominati complessivamente recepta:
1. Receptum arbitriiassunzione di arbitrato: patto con cui taluno si assumeva l’impegno di giudicare
una lite e di pronunziare la decisione, questo accordo riguardava un arbitrato privato, non un processo
giurisdizionale. L’accordo concluso tra le parti era detto compromissum, concluso mediante stipulatio, e la
sua violazione dava luogo ad actio ax stipulatu. Era un accordo intercorrente tra i litiganti e l’arbitro, il quale
una volta accettato l’incarico non poteva sottrarsi e in casi di infrazione dell’accordo, il pretore non
concedeva alcuna azione specifica alle parti compromittenti, ma su richiesta degli interessati attivava nei
confronti dell’arbitro mezzi più o meno diretti di coazione, quali inflizione di una multa o la pignoris capio.
2. Receptum argentariiEra una delle figure di garanzia personale conosciute dal diritto romano.
Esso consisteva nell’impegno, assunto da un banchiere (argentàrius), di eseguire una prestazio, nei
confronti di un terzo a pagare il debito pecuniario di un proprio cliente. Il receptum intercorreva tra
banchiere e creditore del cliente e serviva: per pagamento di debiti già esistenti con assegno bancario; se
relativo a debiti futuri, con un’apertura di credito; oppure in entrambi i casi l’accollo bancario. Qualora il
banchiere non versasse al creditore del suo cliente la somma convenuta, l’editto pretorio prevedeva la
concessione di actio recepticia nei confronti dell’argentarius (banchiere). Istituto soppresso da Giustiniano
a cui si ricondusse la funzione al constitutum debiti;
3. Receptum nautarum, cauponum, stabulariorumEra un patto di assunzione di responsabilità, per
l’ipotesi di perdita di oggetti del cliente, da parte di armatori (nautæ), di albergatori (caupònes) di esercenti
di una stalla (stabulàrii). Il pretore accordò una azione contro di essi, che rispondevano della sottrazione o
del danneggiamento delle cose a loro affidate, a meno che non fosse intervenuta una vis màior (incendio,
naufragio, furto): l’intervento del pretore intese aggravare la normale responsabilità di tali persone, per
meglio combattere la loro disonestà. In dottrina si è evidenziato che in origine occorreva
un’assunzione esplicita di tale responsabilità, come per gli altri recepta: peraltro, già in epoca classica si
giunse a considerare implicito il patto nella ricezione della cosa. Armatori, albergatori e stallieri,
rispondevano della restituzione di tutto ciò che avessero introdotto nel loro esercizio, e assumevano
l'impegno che le cose loro consegnate fossero restituite ai clienti nello stesso stato in cui le avevano
ricevute. Se danneggiamenti o furti erano effettuati dai dipenti di nauta, caupo, stabularius, questi nel
rispondevano ugualmente secondo la presunzione di negligenza dei gestori nella scelta e nella vigilanza dei
loro dipendenti. Questi per evitare queste responsabilità potevano dichiarare l’esenzione da responsabilità
al momento stesso in cui il cliente salisse sulla nave o vi caricasse le sue merci.
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CONTRATTI INNOMINATI
Con il continuo ampliarsi dell’impero implicò la nascita di nuovi schemi negoziali, i nova negotia.
Comparsa delle conventiones sine nomine: questi nuovi atti che si praticavano nei rapporti quotidiani
dell’economia mercantile divennero oggetto di attenzione e di disputa da parte dei giuristi.
Conventiònes sine nòmine [Contratti innominati] Categoria di contratti, di creazione giurisprudenziale
classica, che ricomprendeva tutti i contratti privi di un proprio nomen iùris e di una regolamentazione
tipica, ma diffusi nella pratica. La giurisprudenza usava classificarli per tipi, con riferimento a quattro
possibilità di combinazione tra le prestazione di dare e di fare e le obbligazioni a queste riferibili:
1. Contratto do ut des “dò affinché tu dia”Uno dei contratti innominati, caratterizzato dal fatto che si
dava una cosa per ottenerne un’altra. L’espressione, nel linguaggio degli operatori giuridici moderni, è
adoperata in relazione ai contratti di scambio (detti anche a prestazioni corrispettive), per indicare che
ciascuna delle parti di un contratto assume l’obbligo di dare qualcosa all’altra: si dà una cosa per
riceverne, in cambio, un’altra.
2. do ut facias “dò affinché tu faccia” Uno dei contratti innominati, caratterizzato dal fatto che si dava
una cosa per ottenere in cambio una prestazione di fare. L’espressione, nel linguaggio degli operatori
giuridici moderni, è adoperata in relazione di contratti di scambio (detti anche a prestazioni
corrispettive), per indicare che una delle parti del contratto assume un obbligo di dare, l’altra un obbligo
di fare: si dà una cosa per ricevere, in cambio, una prestazione di fare.
3. facio ut des “Prestazione di fare contro dazione di cosa” Figura di contratto innominato a prestazioni
corrispettive (o sinallagmatico), in cui una parte effettuava una prestazione di fare per ottenere la
dazione di una cosa. Sul piano della tutela, poiché era inconcepibile la restituzione di un fàcere, si
accordava al creditore un’àctio de dolo.
4. facio ut facias “Prestazione di fare contro prestazione di fare” Figura di contratto innominato a
prestazioni corrispettive (o sinallagmatico), con il quale una parte eseguiva una prestazione di fare in
cambio di un’altra, anch’essa di fare. Sul piano della tutela poiché era inconcepibile la restituzione di
un fàcere, si accordava al creditore un’àctio de dolo.
Queste le caratteristiche principali dei contratti innominati:
- l’obbligazione sorgeva indipendentemente dalla prestazione del consenso, per il solo fatto che una delle
parti avesse operato una prestazione;
- la prestazione era fatta in vista di una futura controprestazione della controparte;
- le obbligazioni delle parti erano interdipendenti.
Fu solo il diritto giustinianeo ad inquadrare completamente i contratti innominati nell’ambito del iùs civile,
predisponendo mezzi di tutela adeguati ad ogni fattispecie; l’evoluzione postclassica portò, altresì, alla
tipizzazione di alcuni contratti in origine innominati (permutàtio, æstimàtum, transàctio, precàrium, datio
ad experiendum, inspicièndum, vendèndum).
Quanto ai mezzi di tutela, in particolare, occorre rilevare che, poiché l’obbligazione nascente dai contratti
innominati si fondava sulla esecuzione di una prestazione dell’altra parte, l’azione a difesa dei contratti
innominati era esperibile da chi aveva eseguito la prestazione, per costringere l’altra parte ad eseguire la
controprestazione.
Se il creditore voleva ottenere la restituzione di quanto aveva dato (nel caso di do ut des e do ut facias),
poteva essere esperita una condìctio denominata:
- condictio causa data causa non secùta oppure una condictio ob causam datòrum. Condictio così
denominata da Giustiniano e coincidente con la condictio ob causam datòrum. Azione esperibile per
ottenere la restituzione di quanto era stato dato alla controparte in esecuzione di un contratto
innominato, se la controprestazione era venuta meno. Per estensione, si ammise che essa fosse
esperibile anche dal donante, nei casi di donazione modale, per recuperare ciò che egli aveva donato,
qualora il modus non fosse stato adempiuto.
Se il creditore voleva ottenere l’indennizzo per la prestazione effettuata (nel caso di facio ut facias e di facio
ut des), poteva esercitare un’àctio de dolo.
In concorrenza con le dette azioni, oltre alla possibilità di esercitare la condictio per ottenere la restituzione
della cosa oppure l’actio de dolo, il diritto giustianianeo, scomparso il dualismo tra diritto civile e diritto
pretorio, riconobbe la possibilità di esperire una azione, intesa quale mezzo generale a tutela di ogni
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contratto innominato: questa azione era denominata actio praescrìptis vèrbis (al fine di pttenere la
controprestazione), tendente al risarcimento del danno subito.
Indipendentemente dall’inadempimento, la parte che aveva eseguito la prestazione poteva, inoltre,
esercitare la condictio ex pœnitèntia (azione per il recesso, attraverso il quale, in tema di contratti
innominati, il contraente che aveva trasmesso la proprietà di una cosa poteva chiederne la restituzione,
sempre che non avesse già ricevuto la controprestazione) che comportava il recesso dal contratto.
Tra le numerose, possibili fattispecie di contratti innominati, illustriamo adesso le sole figure che, a causa
della loro particolare diffusione si trasformarono in contratti tipici, dotati di un proprio nomen iuris:
PERMUTA Contratto innominato, avente ad oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di
cose, da un contraente ad un altro. I giuristi Sabiniani ritenevano la permuta una species del genus, èmptio-
vendìtio: infatti essi ritenevano che il prezzo della compravendita potesse consistere anche in una cosa
infungibile. Il iùs honoràrium, invece, accolse la tesi dei Proculiani, i quali ritenevano che la permuta
configurasse un’ipotesi di convèntio sine nòmine ed accordò un’àctio in factum da esperirsi contro
l’accipiente, in esso di adempimento della controprestazione. In epoca giustinianea la permuta fu
ricompresa tra i contratti do ut des e tutelata con l’actio præscrìptis verbis.
CONTRATTO ESTIMATORIO Figura di contratto innominato; consisteva nella consegna effettuata,
da un contraente alla controparte, di una cosa stimata, allo scopo di venderla e con l’obbligo dell’accipiente
di restituirla (in caso di mancata vendita) oppure di pagarne la stima prefissata (se era stata venduta).
Tale contratto non poteva essere assimilato alla vendita in quanto il contraente poteva anche restituire la
cosa, né alla locazione (locàtio òperis), poiché il contraente non era tenuto a vendere; per tale motivo il
pretore tutelava il rapporto contrattuale scaturente dal contratto di estimatorio accordando una actio in
factum . Risponde allo schema do ut des.
FIGURE IBRIDE Dàtio ad experièndum, inspicièndum, vendèndum: rientrava tra i c.d. contratti
innominat, quelli cioè atipici, e non disciplinati dal iùs civile. Si aveva nei casi in cui un soggetto
consegnava ad un altro una res [vedi], affinché la provasse (experìri) o la esaminasse a fondo (inspìcere), in
vista di un eventuale compravendita. L’impossibilità di ricondurre la dàtio ad experièndum, inspicièndum,
vendèndum a figure di contratti tipici fece sì che essa fosse catalogata, sin dal periodo classico, tra i
contratti innominati. Ebbe notevole diffusione in diritto postclassico.
TRANSAZIONE non era un contratto tipico, bensì un fine che poteva essere posto alla base di
una stipulàtio (con la conseguenza che l’atto dava luogo all’àctio ex stipulatu) oppure di un patto privo di
forma. In questo secondo caso, il pretore riconobbe che le reciproche rinunce delle parti in ordine alle
rispettive pretese (volte a metter fine ad una controversia) davano luogo ad una excèptio pacti. In pratica,
l’eccezione comportava l’estinzione dell’obbligazione oggetto dell’atto transattivo. In epoca giustinianea, la
transazione fu considerato un atto autonomo e tipico, in quanto, a seguito della concessione dell’actio
præscrìptis verbis, venne inquadrato tra i contratti innominati. In tal modo, si ritenne che le obbligazioni
oggetto della transazione si estinguessero con la mera redazione dell’atto. Inquadrata il tutta la
quadripartizione di do ut des, do ut facias, facio ut des, facio ut facias.
PRECARIUM ciò che viene concesso su istanza di un soggetto può essere usato fino a quando chi
lo concesse non ne chiede la restituzione) ed ha origini antichissime. In diritto classico, il possesso
della res data in precario poteva essere sottratto dal concedente al precarista, in qualunque momento,
anche a proprio piacimento, con un semplice cenno (ad nùtum); se il precarista rifiutava la restituzione
della res, vi erano due possibilità:
- il concedente, proprietario della res, poteva agire contro il precarista con la rèi vindicàtio;
- al concedente, non proprietario della res, era concesso dal pretore, contro il precarista,
un interdìctum de precario.
L’istituto perse rilievo in diritto postclassico, quando si affermò il contratto di commodàtum; non
scomparve, però, del tutto, finendo per essere inquadrato tra i contratti innominati, attraverso l’estensione
dell’àctio præscrìptis verbis. Relativo agli schemi do ut des, do ut facias.
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I QUASI CONTRATTI
Furono giuridicamente rilevanti anche talune obbligazioni non nascenti dall’incontro tra le volontà delle
parti del rapporto obbligatorio. Gaio si era limitato nella bipartizione tra contractus e atto illecito, ma poi
adottò una classificazione più ampia, bensì tripartitica, dove le obbligazioni, oltre a nascere da contratto e
atto illecito, nascono anche proprio iure (secondo un prorio asetto giuridico), ex variis causarum fuguris (da
vari tipi di cause). Nelle istituzioni giustinianee abbiamo una quadripartizione delle fonti delle oblligazioni,
dove si, nascono da contratto e fatto illecito secondola compilazione gaiana, ma anche da quasi contratti e
quasi delitti.
Le obbligazioni non nascenti da contractus erano quelle derivate o da atto unilaterale o in situazioni nelle
quali mancava a entrambe le parti del rapporto obbligatorio la volontà di dare vita all’obbligazione.
Tra i quasi contratti abbiamo:
- NEGOTIORUM GESTIO (gestione spontanea di affari altrui): rinvio pag.73
- PAGAMENTO DI INDEBITO (indebiti solutio): rinvio pag. 55 e 63, vedi condictio causa data causa non
secùta pag.78
Altri rapporti tutelati con condictiones: l’ingiustificato arricchimento con figure affini all’indebiti solutio che
furono:
- DAZIONE PRIVA DI SCOPO: la condictio sine causa, azione di ripetizione concessa a chi aveva effettuato
una dazione priva di scopo, esperibile da colui il quale, avendo effettuato una prestazione in dando per
una finalità inesistente o irrealizzabile, chiedeva la restituzione di quanto dato
- DAZIONE PER CAUSA INGIUSTA O TURPE, con l’azione ripetibile condictio ob turpem causam con cui si
intese tutelare chi avesse effettuato una prestazione in favore di un tale, affinchè effettuasse un atto
immorale oppure perché facesse il proprio dovere o non compisse, dietro compenso, un atto immorale
o illecito, in quest’ultima ipotesi la dazione non aveva nulla di illecito ma determinava per l’accipiente un
arricchimento ingiustificato, dal momento che si ritenne disonesto compiere il proprio dovere dietro
pagamento. Il dante perciò poteva richiedere la ripetizione.
Tra V e VI sec. d.C. si affermò che ogni arricchimento privo di apprezzabile funzione pratico-sociale, cui
facesse riscontro un depauperamento altrettanto ingiustificato per l’autore della prestazione divenne fonte
di obbligazione alla restituzione di quanto ricevuto. La violazione di detto obbligo, faceva nascere una
condictio, azione di ripetizione in personam, ormai facente capo ad un’unica condictio generalis, senza più
le vecchie denominazioni.
- TUTELA: Legata alle stesse logiche fu la responsabilità del pupillo nei limiti del suo arricchimento, per il
dolo del tutore. Il tutore rispondeva della propria gestione con l’actio tutelae e poteva a sua volta agire
con il rimborso delle spese e l’indennizzo dei danni con actio negotiorum gestorum, in quanto la tutela
era inserita tra i negotiorum gestio.
- COMMUNIO INCIDENS: (Comunione incidentale)Forma di comunione nascente da cause estranee alla
volontà dei comunisti (si pensi, ad es., all’ipotesi di più persone istituite eredi di uno stesso de cùius).
La forma più antica di comunione incidentale fu il consòrtium èrcto non cìto. Si pensi ai casi di
condominio e coeredità. La communio si formava indipendentemente da una conventio tra i proprietari.
- LEGATI OBBLIGATORI: i legati costitutivi di obblighi furono:
- Legatum per damnationem: legato mediante imposizione di obbligo, costituiva in capo all’erede
l’obbligo di procurare al legatario un oggetto. Si veniva a creare un rapporto obbligatorio tra erede
(debitore) e legatario (creditore), rapporto che prescindeva da una conventio tra testatore, lagatario
ed erede, né itegrava delictum. Nei confronti dell’erede, il legatario poteva fare valere le sue pretese
mediante un’actio ex testamentum;
- Lagatum sinendi modo: legato con obbligo di premettere, imponeva all’erede un comportamento
negativo, la patientia, in quanto egli doveva semplicemente consentire che il legatario si impadronisse
di una cosa del de cuius o dell’erede.
Rimasero fuori dai quasi contratti tre importanti figure giuridiche:
- Obbligo di prestare alimentiObbligazione di fornire mezzi di sostentamento incombente su una
persona, legata da vincolo di parentela, adozione od affinità ad un’altra (c.d. alimentando) in base ad un
ordine diversificato a seconda dell’intensità del vincolo. In diritto romano, l’obbligo di prestare gli
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- acceptilatio lìtteris: era l’atto contrario dell’expensilàtio e consisteva nella registrazione da parte del
creditore, nel libro-giornale delle entrate e delle uscite (che ogni pater familias teneva), del
pagamento della somma dovuta.
L’obbligazione verbale poteva estinguersi soltanto con l’acceptilatio verbis; la particolare semplicità di
quest’ultima (che non richiedeva forme specifiche), indusse i Romani a farne uso frequente: a tal scopo,
invalse la prassi di novare le obbligazioni non verbali in obbligazioni verbali, onde poterle
successivamente estinguere attraverso l’acceptilatio verbis.
- PACTUM DE NON PETENDOaccordo privo di forma con il quale il creditore conveniva col debitore di
non richiedere l’adempimento della prestazione. Non estingueva ipso iure l’obbligazione, ma fondava
un’eccezione prevista dall’editto pretorio, exceptiopacti conventi, con la quale il debitore non negava
l’obbligazione, ma poteva opporre l’esistenza del patto al creditore che, nonostante l’impegno assunto,
avesse agito ugualmente in giudizio per realizzare il suo credito. Exceptio pacti poteva essere
peremmtoria o dilatoria, poteva cioè essere opponibile in perpetuo, rendendo perpetuamente
infondata l’azione della controparte, o entro un dato termine, ossia per agire in giudizio se ne sarebbe
dovuta attendere la scadenza a pena di perdere la lite.
L’efficacia del pactum de non petendo era limitata soltanto alle parti, si estendeva anche all’erede del
debitore o condebitore solidale a seconda che il patto fosse concepito in forma personale o in rem. Oltre
che in forma espressa il patto di remissione poteva essere convenuto in forma tacita.
CONFUSIONE
L’obbligazione si estingueva quando la qualità di creditore e debitore venivano a riunirsi nella stessa
persone. Avveniva per successione ereditaria e in ipotesi di obbligazioni nossali quando l’offeso avrebbe
dovuto agire contro se stesso per essere il soggetto offensore caduto sotto la sua potestà. Inoltre si
estingueva per confusione l’obbligazione di garanzia se si riunivano nella stessa persona il debitore e il
garante.
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IMPOSSIBILITA’ SOPRAVVENUTA
L’obbligazione si estingueva per impossibilità sopravvenuta della prestazione di cui il debitore non era
responsabile. Doveva trattarsi di impossibilità oggettiva. L’effetto estintivo era limitato o escluso quando
l’impossibilità fosse solo parziale ovvero quando la prestazione originaria potesse essere sostituita da
un’altra. Ove poi l’impossibilità fosse solo temporanea e la prestazione nuovamente possibile si verifica che
l’obbligazione sarebbe tornata a rivivere non appena la prestazione si fosse resa nuovamente possibile.
CONCURSUS CAUSARUM
Modo di estinzione delle obbligazioni. In particolare, quando il creditore otteneva successivamente, in base
ad altro titolo, la prestazione dovutagli: diventava in tal caso impossibile che il debitore potesse adempiere,
poiché egli non poteva trasferire la proprietà della cosa (oggetto della prestazione) al creditore che già ne
era divenuto proprietario. In origine, si riteneva che l’obbligazione si estinguesse comunque, senza che
fosse rilevante il modo attraverso il quale il creditore avesse raggiunto il suo soddisfacimento. Dai tempi
di Salvio Giuliano la regola subì una limitazione: si ritenne che l’obbligazione si estinguesse solo se il
creditore avesse ottenuto la cosa a titolo lucrativo e a titolo gratuito.
Se, invece, il creditore aveva acquistato la cosa a titolo oneroso, il debitore continuava ad essere obbligato
nei suoi confronti all’adempimento o almeno alla satisfactio. (es. pag. 602).
COMPENSAZIONE
Quando tra due soggetti esistono reciprocamente rapporti di debito e di credito e le rispettive pretese si
riducono in conseguenza di quanto l’uno deve all’altro (estinguendosi per la parte per cui concorrono). Ad
esempio se Tizio e Caio sono creditore reciprocamente l’uno dell’altro di cento, nessuna pretesa potrà
essere fatta valere, estinguendosi tra loro le due obbligazioni reciproche; se Tizio è creditore di cento nei di
Caio e questi a sua volta lo è nei confronti di Tizio di cinquanta, si estinguerà la pretesa di Caio e resterà
quella di Tizio per la differenza.
Venne considerata come modo di estinzione delle obbligazioni soltanto sul finire della Repubblica,
consentendo la compensazione giudiziale per le obbligazioni fatte valere tramite giudizi di buona fede,
poiché si ritenne non conforme a buona fede il creditore che chiedesse al debitore se non avesse pagato se
non avesse a sua volta adempiuto la propria prestazione, perciò si cominciò ad ammettere che il giudice
tenesse conto dei controcrediti per non condannare il convenuto, ed eventualmente procedere a
compensazione condannandolo solo nella differenza o assolvendolo in caso di pareggio.
Occorreva che i due crediti derivassero dalla stessa fonte, non era richiesto che fossero omogenei (l’uno di
denaro e l’altro di case determinate).
Quindi l’effetto estintivo si verificava come conseguenza della sentenza del giudice che definiva con un
unico provvedimento tutte le conseguenze giuridiche del rapporto dedotto in giudizio.
Altro caso di compensazione ammessa è il cosa tra banchiere e cliente. Il pretore impose al banchiere di
agire contro il cliente per compensazione. Per chiedere solo quanto rimaneva (saldo) dopo avere dedotto
dal proprio credito quanto a sua volta egli doveva al cliente. Se il banchiere agiva per un centesimo in più
perdeva la lite. Qui occorreva che i due crediti fossero omogenei e potevano non derivare dallo stesso
rapporto.
Altro caso di compensazione giudiziale è quella relativa al bonorum emptor, cioè all’acquirente del
patrimonio del debitore insolvente, per cui per ragioni di equità venne fatto obbligo di agire contro i
debitori del fallito solo cum deductione, cioè deducendo i crediti che essi a loro volta avevano verso
quest’ultimo. Sarebbe stato il giudice ad operare la deductio il modo da condannare il convenuto a pagare
l’eventuale differenza, quindi l’attore non incorreva al rischio di pluris petitio. Si potevano compensare
crediti non omogenei.
La compensazione in età imperiale si ammise anche negli iudicia stricti iuris, da attuarsi mediante exceptio
doli opponibile dal convenuto, avendo essa nel processo formulare l’effetto di escludere e non di ridurre la
condanna.
Nel diritto giustinianeo la compensazione assunse portata generale. Essa si applicava a tutti i rapporti e a
tutte le relazioni operante ipso iure per il solo fatto della coesistenza di crediti reciproci. Occorreva che il
credito apposto in compensazione fosse esigibile, cioè scaduto, liquido, non era richiesta omogeneità. Non
si ammetteva nei casi di deposito e di ingiusto spoglio del possesso.
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NOVAZIONE
Consiste nella sostituzione di una nuova obbligazione a una precedente c he restava estinta.
Si attuava di norma tramite stipulatio, con stipulazione novatoria. Questa doveva contenere un espresso
riferimento all’obbligazione precedente che si intendeva estinguere (se l’obbligazione era invalida, risultava
invalida anche la stipulatio) e doveva avere il medesimo oggetto della precedente, quindi la prestazione
doveva rimanere fondamentalmente uguale nel passaggio dall’una o l’altra obbligazione. Occorreva che
l’obbligo dedotto nella stipulatio novatoria presentasse qualche elemento nuovo rispetto alla precedente
obbligazione, qualora non venisse rispettato questo elemento vale il principio secondo cui chi promette
due volte la stessa cosa non è tenuto che una volta sola. A questi elementi aggiunsero in epoca giustinianea
l’animus novandi, ossia l’intenzione comune di procedere a novazione. Si distingueva, altresì, la
novazione soggettiva da quella oggettiva, a seconda dell’elemento cui si riferiva l’innovazione:
- Novazione oggettiva era caratterizzata dalla modificazione del titolo o di un elemento accidentale del
rapporto ovvero dall’inserzione di una condizione o di un termine ad una precedente obbligazione;
Caso importante di novazione oggettiva dato dalla stipulatio Aquiliana, che consisteva nel dedurre in
un'unica stipulatio novatoria tutti i rapporti obbligatori civili e onorari, presenti e futuri, scaduti o meno,
puri o sotto condizione, esistenti tra promittente e stipulante , con la conseguenza che il promittente,
compiuta la stipulatio, sarebbe stato tenuto verso lo stipulante in forza di quella sola. Si consentiva di
poter successivamente estinguere l’obbligo con il ricorso all’acceptilatio.
- Novazione soggettiva consisteva nel mutamento di uno dei soggetti del rapporto obbligatorio e
consentiva di raggiungere il medesimo risultato che oggi si ottiene facendo ricorso alla cessione del
credito istituto, invece, ignoto al diritto romano. Essa si attuava in forza di delegazione che poteva
essere attiva o passiva:
DELAGATIO PROMITTENDI ATTIVAquando il creditore (delegante) dava in carico al debitore (delegato)
di promettere tramite stipulatio la stessa prestazione a un terzo, nuovo creditore (delegatario), quindi
l’obbligazione si estingueva per novazione tra creditore originario e ne costituiva una nuova, ex stipulatu
con lo stesso oggetto, tra debitore e nuovo creditore.
DELEGAZIONE PASSIVA quando il debitore (delegante) dava incarico ad un terzo (delegato) di
promettere la stessa prestazione (con stipulatio novatoria) al creditore (delegatario) costituendo una
nuova obbligazione tra delegato e delegatario, estinguendo quella originale tra debitore e creditore.
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OBBLIGAZIONI DA DELITTO
I DELICTA
Fonte di obbligazione, oltre ai contratti, sono anche gli atti illeciti, definiti delicta o maleficia. Per aversi
delictum l’autore deve necessariamente volere l’atto pur avendo coscienza della sua illeceità, cioè deve
agire con dolo. Con riferimento al damnum iniura datum il creterio di imputabilità si estende a prevedere la
responsabilità anche in caso di colpa levissima (negligenza ed imprudenza).
AZIONI REIPERSECUTORIE:
non ha scopo afflittivo, ma solo risarcitorio, mirando al ristoro del danno subito o a impedire l’ingiustificato
arricchimento. Essa è trasmissibile sia dal lato passivo che dal lato attivo, può essere intentata contro il
paterfamilias del responsabile nei limiti del peculium, e in caso di più debitore, esperibile contro ciascuno.
Mentre è concesso il cumulo dell’una con l’altra per le azioni penali, questo non è possibile per le azione rei
persecutorie.
LA PRESCRIZIONE:
le azioni reipersecutorie non si prescrivono, diversamente è previsto invece per le azioni penali: sono
perpetue se prevista dallo ius civile, annuali se conseguono figure di illecito previste da ius honorarium.
AZIONI MISTE:
accanto alle due azioni viste, la dottrina giustinianea elabora il tertium genus delle azioni c.d. miste, che
mirano a garantire all’attore sia il risarcimento che la pena. Giustiniano definisce miste tutte le azioni che
contemporaneamente prevedono per l’attore sia il risarcimento che la pena e che quindi condannano a un
multiplo del valore della res.
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IL FURTUM
Il furto consisteva nella sottrazione non violenta e contro la volontà del suo detentore di una cosa mobile,
oppure di un animale o di uno schiavo. Da Gaio apprendiamo che poteva avere ad oggetto anche uomini
liberi, come nel caso che venisse sottratto alla potestà del pater familias un filius, oppure alla potestà
maritale la moglie oppure, infine, una persona ricevuta in potestà per sentenza (iudicàtus) oppure per
regolare contratto (auctoràtus, tipico esempio era quello dei gladiatori);
Era configurabile anche il furtum rei suæ, cioè il furto di una cosa propria: tipico è il caso del debitore che si
impadroniva di una res data in pegno al creditore o del soggetto che sottraeva una cosa propria (od anche
uno schiavo) al possessore di buona fede. Il furtum era un atto illecito fonte di un’obbligazione ex delicto; si
distingueva dalla rapina, nella quale la sottrazione avveniva in modo violento. Si distinguevano:
- furtum manifèstum, quando il ladro era colto in flagrante;
- furtum nec manifèstum, se il ladro non era colto in flagrante.
Due ipotesi di furtum nec manifèstum contemplate dalla Lex XII Tabulàrum], per le quali fu fissata la pena
del trìplum, furono:
- furtum conceptum, allorché la refurtiva veniva trovata in casa dell’indiziato;
- furtum oblatum, allorché il reo di furtum conceptum dimostrasse che la refurtiva gli era stata offerta
per nasconderla in casa da terzi.
Elementi del furto erano:
- la condotta (c.d. elemento oggettivo) che poteva consistere in una amòtio rei od in una contrectàtio: si
commetteva furto sia impadronendosi di una cosa altrui per portarla via (amotio), che, più in generale,
impadronendosi di una cosa altrui contro la volontà del dòminus (contrectatio).
La nozione di amotio si allargò fino a ricomprendere anche ipotesi in cui mancava la sottrazione
materiale: si ammise che commetteva furto il depositario che usava della cosa depositata (furtum ùsus)
o il detentore che, rifiutandosi di restituire la cosa al dominus, incominciava a possederla per sé (furtum
possessiònis);
- l’elemento soggettivo, che era dato dal dolus malus, cioè dalla coscienza di impossessarsi
della res contro la volontà del proprietario;
- l’ànimus lùcri facièndi (fine di lucro), cioè l’intenzione di trarre vantaggio dalla cosa rubata.
Il fine di lucro era normale nel furto, ma veniva distinto dal c.d. animus furàndi (la vera e propria
intenzione di commettere il furto);
- la non punibilità del furto putativo, nel senso che all’intenzione di rubare doveva seguire un vero e
proprio furto e non una sottrazione solo erroneamente ritenuta furto (es. impossessamento di una res
nullìus o derelìcta).
In presenza di furtum manifèstum il derubato che fosse riuscito a prendere il ladro poteva applicare
la mànus inièctio e la pena da pagare corrispondeva al doppio (duplum) del valore della cosa rubata [vedi,
però endoploratio], mentre se il ladro era colto di notte ovvero si difendeva con armi o si trattava di uno
schiavo, poteva anche essere ucciso.
Se si trattava, invece, di furtum nec manifestum, il derubato poteva chiamare in giudizio il presunto ladro
per mezzo di una lègis àctio sacramènti in personam. Se il convenuto resisteva in giudizio si passava alla lìtis
contestàtio e, in caso di condanna, era tenuto a pagare il doppio del valore della cosa rubata.
In epoca classica, ferma restando la possibilità di uccidere il ladro notturno o che si difendeva a mano
armata, era concessa un’actio fùrt, che comportava, se esperita vittoriosamente, la condanna ad una
pena pecuniaria. Tale pena, poteva essere: in quadruplum per il furto manifestum o prohibitum, in
triplum per furto oblatum, in duplum per furto nec manifestum. L’actio furti, che si poteva esperire
anche contro colui che avesse cooperato al furto, era infamante e trasmissibile agli eredi del derubato. Essa
poteva inoltre essere esercitata, oltre che dal dominus, da chiunque avesse avuto interesse a che il furto
non fosse stato commesso. Nel diritto giustinianeo erano ancora ammesse le actiònes furti
manifesti e nec manifesti, ma la persecuzione privata del furto venne sostituita da quella pubblica in sede
di cognìtio extra òrdinem criminale. Inoltre il derubato che fosse stato dominus godeva di una condìctio ex
causa furtìva per ottenere la restituzione della cosa rubata. La condictio poteva essere esercitata anche se
la cosa fosse perita per causa non imputabile al ladro, in quanto questi si considerava inadempiente sin dal
momento del furto.
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LA RAPINA
Per rapina s’intese un caso aggravato di furto, in quanto commesso mediante violenze sulle persone. Era
fonte di obbligazioni nascenti da atto illecito.
Successivamente il prætor peregrinus Lucullo, nel suo editto, accordò un’apposita azione contro colui che
avesse, con la minaccia di un’arma, arrecato danno o sottratto cose altrui; la pena prevista ammontava al
quadruplo della pena base, se l’azione veniva esperita entro l’anno, mentre era pari a quella base, se
l’azione veniva esperita dopo tale termine.
La giurisprudenza classica estese l’ambito di tale fattispecie, ricomprendendovi anche quelle ipotesi in cui
non si facesse ricorso alle armi, ma nelle quali si fosse comunque impiegata violenza.
Alla rapina, poi, veniva equiparata l’ipotesi di impossessamento di cosa altrui profittando di una calamità
(incendio, naufragio, rovina, etc.).
Era dubbia in età classica la natura dell’actio vi bonorum raptorum, se dovesse cioè considerarsi actio
pœnalis. Giustiniano risolse la questione, smentendo entrambe le ipotesi e ritenendola actio mixta.
Àctio vi bonòrum raptòrum [Azione relativa a beni sottratti con violenza] Actio pœnàlis in
quadruplum esperibile da parte di chi avesse subito una rapina; essa comportava la condanna del
responsabile al pagamento di una somma pari al quadruplo del valore della cosa sottratta.
Decorso un anno dalla rapina, diventava reipersecutòria.
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INIURA
L’ingiuria è qualsiasi azione in contrasto col diritto. In epoca arcaica qualsiasi lesione od offesa arrecata ad
un gruppo familiare determinava la violenta reazione del gruppo stesso; l’esigenza di ripristinare l’equilibrio
nei rapporti sociali era limitata unicamente dal principio, morale e religioso, della proporzionalità tra azione
difensiva e offesa (tàlio). Solo in seguito, la legge delle XII Tavole, nel disciplinare il delitto di ingiuria arginò
la reazione privata. La legge delle XII Tavole disciplinò, in particolare, tre casi di iniura:
- il mèmbrum rùptum, che consisteva nell’inutilizzazione o nell’amputazione di un arto o di un organo;
per esso era comminato il taglione se non si raggiungeva un accordo amichevole;
- l’os fractum, che consisteva nella rottura di un osso; per esso era previsto il pagamento di una somma di
danaro, che era di 300 assi se offeso era un uomo libero e 150 se era uno schiavo;
- le iniuriæ pure e semplici, consistenti in qualsiasi altra lesione di minore portata, per le quali era
previsto il pagamento di 25 assi.
In seguito, tale disciplina si rivelò inadeguata soprattutto perché l’ammontare della pena era fisso a fronte
delle diverse offese realizzabili in concreto e l’entità della stessa era ormai divenuta irrisoria.
Il pretore unificò le tre figure e concesse un’àctio iniuriàrum, infamante ed æstimatòria, che consentiva al
giudice di fissare l’ammontare della condanna secondo “quàntum aèquum et bònum sibi vidèbitur”, cioè
secondo equità. È opportuno precisare che col nome di actio iniuriarum erano definite tutte le azioni
pretorie accordate nei vari casi di iniuria. La determinazione della pena era lasciata al prudente
apprezzamento del giudice. Se l’ingiuria era particolarmente grave (àtrox), la parte lesa poteva far inserire
una taxàtio nella formula o chiedere una condanna elevata. L’editto pretorio inizialmente conteneva
un edìctum generale sull’iniuria, concernente le lesioni personali; successivamente furono puniti
il convìcium (vociferazione oltraggiosa) e l’adtemptàta pudicitia (oltraggio al pudore di donne o di giovani).
Infine, l’editto sanzionò ogni atto che risultasse infamante per un’altra persona.
A seguito dell’opinione di Labeone, la giurisprudenza classica ricomprese nell’iniuria ogni offesa all’onore e
al decoro di un soggetto giuridico, che divennero in seguito le ipotesi principali della fattispecie.
Successivamente il concetto fu ulteriormente ampliato e vi si fecero rientrare tutti gli atti contro la
personalità umana, compreso il sequestro di persona.
In concorrenza con la persecuzione privata, sin da una lex Cornelia di Silla, fu introdotta una
parallela persecuzione pubblica delle iniuriæ, nei casi di pulsàtio (percosse), verberàtio (fustigazione) e nel
caso di domum introìre (violazione di domicilio).
La persecuzione pubblica divenne prevalente in età postclassica. In diritto giustinianeo ancora era libera la
scelta tra i due tipi di persecuzione
Àctio iniuriàrum [Azione in materia di offese ingiuste] Espressione adoperata per ricomprendere tutte le
azioni pretorie accordate nei vari casi di iniùria. A seguito dell’esperimento di detta azione, il giudice, ove
ravvisasse la fondatezza della pretesa dell’attore, fissava l’ammontare della condanna in via equitativa,
ossia secondo quàntum æquum et bònum vidèbitur.
Àctio iniuriarum æstimatòria [Azione per la stima dei danni derivanti da offese ingiuste] Azione, avente
carattere infamante, finalizzata al conseguimento di una valutazione patrimoniale dei danni subiti per
effetto di lesioni personali o percosse. La formula dell’azione prevedeva la fissazione dei limiti massimi
dell’importo della condanna, detta taxàtio.
La quantificazione dei danni, a seconda dei casi, poteva essere effettuata sulla base di parametri equitativi
ovvero in ragione dei limiti massimi sanciti dalla legislazione.
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I QUASI DELITTI
Gaio distingueva fra obligationes ex contractu e obligationes ex delicto, raggruppando infine nella categoria
residuale delle variae causarum figurae alcune altre fonti di obbligazione. Giustiniano poi sostituirà la
tripartizione gaiana delle fonti dell’obbligazione con una quadripartizione, aggiungendo alle prime due e
sostituendo alla terza le categorie dei quasi contratti e dei quasi delitti. Il criterio unificante delle figure del
quasi delitto nella sufficienza dell’elemento della colpa per il loro realizzarsi, laddove per aversi il delitto
sarebbe sempre necessario il dolo. Ma per i quasi delitti non occorre né il dopo né la colpa, configurando
sostanzialmente gli stessi ipotesi di responsabilità oggettiva. Le fattispecie di quasi delitto sono quattro:
- iudex qui litem suam fecit (il giudice parziale che arreca danno alla parte): riguarda il comportamento
anche omissivo, del giudice che, contravvenendo ai suoi doveri, manca di correttezza e imparzialità nella
conduzione del possesso o nella pronuncia della sentenza favorendo di fatto una parte. Contro di lui può
essere mossa dal danneggiato un0actio in factum, cui conseguirà una pena determinata secondo equità.
Con Giustiniano la sua responsabilità sarà aggravata ed egli rispnderà anche per colpa;
- effusum vel deiectum (danni arrecati da cose versate o gettate): il popolo di Roma abitava le insulae,
edifici a più piani, che aprivano all’esterno mediante balconi o finestre da dove poteva essere versato o
gettato di sotto, sulla via pubblica, qualcosa che poteva arrecare danno anche grave a persone o cose. Di
esso era chiamato a rispondere l’habitator, colui che aveva la disponibilità della casa, tenuto al doppio
del danno arrecato alla cosa. In caso di uccisione di uomo libero chiunque poteva intentare l’azione
(popolare), e la pena era fissa. La responsabilità era in genere oggettiva e veniva a chiamato a
rispondere colui che aveva la disponiblità dell’immobile e non effettivamente l’occupante che aveva
causato il danno; Àctio de effùsis et deièctis Azione concessa contro l’abitante (habitàtor) della casa
dalla quale erano stati lanciati oggetti, solidi o liquidi, che avevano cagionato danni ai passanti
- positum vel suspensu (danni arrecati da cose posate o sospese): nel caaso che venissro appoggiate o
sospese su davanzali cose che, cadendo, potevano recare danno anche grave ai passanti. Ipotesi meno
grave della precedente dato che si trattava di sanzionare non un effettivo danno, ma la semplice
situazione di pericolo, il giudice giustificava la possibilità per chiunque di promuore l’azione penale, con
pena fissa di 10.000 sesterzi.
Àctio de pòsito vel suspènso [Azione per cosa appoggiata o sospesa] Azione concessa contro
l’abitante (habitàtor) di una casa dal cui balcone o tetto fosse caduto un oggetto (appoggiato oppure
sospeso) cagionando danno ai passanti.
- furti o danni verificatisi su una nave, in una locanda o in una stalla: l’azione in caso di furto era
parametrata all’actio furti nec manifesti, era ini duplum e spettava anche se le cose rubete non erano
state date in custodia all’exercitor. La responsabilità è quindi oggettiva, giacchè scattava al semplice
verificarsi del fatto lesivo
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