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MANUALE DI SEMIOTICA
Fumo: a ferragosto se vedo il fumo non si pensa al toast bruciato o ad un incendio della spiaggia
ma ad un falò, perché culturalmente a ferragosto si organizza un falò sulla spiaggia.
Indizi
L’indizio è ogni genere di variazione dello stato fisico, indipendentemente dal fatto che vi sia o no
una connessione attuale fra il segno e ciò cui esso rinvia. In tal senso ogni indice è un indizio, ma
non ogni indizio è un indice. Se vedo fumo all’interno dell’università penso all’incendio: in questo
caso l’indice fumo è un indizio dell’incendio. Non è detto che l’indizio sia necessariamente un
segno naturale e quindi indice, ma può anche essere un segno artificiale (es: nei gialli, gli indizi
lasciati dal colpevole per volere o per sbaglio).
Caratteristiche del segno
Sono prodotti da esseri viventi, umani o altre specie animali, con l’aggiunta – importante – di tutti
i sistemi inventati dagli uomini, con la finalità specifica di assolvere una funzione comunicativa
(segnaletiche, sistemi di allarme etc.).
- Intenzionalità: i segni sono realizzati secondo le regole previste da un codice (le lingue, i
linguaggi degli animali, etc.).
- Sistema di segni: quelli nei quali non occorre l’applicazione di un codice dall’esterno perché le
potenzialità semiotiche si rivelino (le lingue sono sistemi naturali in quanto dipendono da una
facoltà innata negli umani, e sono insieme storico-naturali, in quanto vengono imparate con
l’inserimento in un qualche tessuto familiare, sociale, nazionale).
Ogni volta che ascoltiamo qualcuno parlare, il nostro compito è mettere in relazione quello che capiamo
dell’espressione con il contenuto che il mittente ci ha voluto comunicare. Apparentemente si tratta di:
a. Riconoscere i suoni prodotti dal mittente come realizzazione di tali fonemi (che abbiamo appreso
con la lingua materna e sono stati fissati nella mente);
b. Far corrispondere alle stringhe di suoni così interpretate il relativo contenuto.
La comprensione di un enunciato però non avviene in modo così lineare e meccanico. È grazie alle ipotesi
fatte sul contenuto in base a conoscenze extralinguistiche che riusciamo a relazionare l’espressione con il
contenuto.
Che cos’è un codice?
Un segno è un segno solo se corrisponde alle caratteristiche del codice se lo genera:
- Casa: codice italiano
- Amistad: codice spagnolo
- Ritoro: codice? la parola non esiste ma la combinazione dei grafemi ci porta a pensare che
possa far parte del codice italiano, perché quei segni applicano le regole del codice italiano.
Rispetta le caratteristiche del codice ma per avere valore quel segno deve sottoporsi ad un
atto di significazione.
Il concetto di codice trova applicazione in tutti i sistemi di segni propriamente detti. Il Braille, cioè
il sistema di scrittura utilizzato dai non vedenti, si basa su due elementi strutturali: puntini in
rilievo e zone prive di puntini, combinati in modo che a ciascuna casella corrisponda una lettera
dell’alfabeto. Se a un non vedente fossero sottoposte caselle nelle quali oltre ai punti in rilievo
compaiono delle righe, il funzionamento del sistema verrebbe arrestato perché esso non prevede
segni con caratteristiche diverse da quelle citate.
Un codice è un insieme di istruzioni che non si limita a fissare liste di corrispondenze fra elementi
di espressione ed elementi di contenuto (questa visione si adatta solo a codici banali come quello
dei prefissi telefonici nei quali, ad esempio, /055/ sta per Firenze). Un codice ci permette di:
1. Riconoscere un segno come segno di quel sistema semiotico.
2. Produrre altri segni con le stesse caratteristiche morfologiche.
- Il segno è ciò che viene utilizzato per significare. Non tutto è segno, ma tutto in linea di
principio può essere usato come tale, anche cose come “il legno” o “la pietra” che non hanno la
primaria funzione di significare.
- Le parole, per Agostino, sono segni in senso stretto, nel senso che servono solo a significare.
Esse sono però anche cose, nel senso che hanno bisogno di un supporto materiale (un
significante) per funzionare come segni.
- Agostino spiega anche che un segno, quindi, nasce dall’associazione di un oggetto sensibile
con un significato. In certi casi siamo noi ad attribuire all’oggetto un significato perché esso
non comunica di per sé, ma solo in quanto noi sappiamo correlarlo con un altro evento o fatto,
in ragione della nostra esperienza. Questa viene definita da Agostino come “significazione
naturale”. Quella che lui interpreta come “significazione intenzionale”, si ha là dove c’è la
volontà soggettiva di far conoscere il proprio animo ad altri attraverso segni di valore
convenuto. Si può tuttavia parlare in entrambi i casi di segni perché abbiamo a che fare con
un atto di attribuzione di significato (interpretazione) in relazione a un sapere preesistente.
Perché si abbia segno non basta dire che qualcosa sta per qualcos’altro, ma occorre aggiungere che si ha
segno quando qualcosa sta per qualcos’altro per qualcuno in certe circostanze (relazione
tetraedrica, a quattro variabili).
Mettendo al centro della propria ricerca il linguaggio verbale, tuttavia, Agostino ammette che:
Secondo entrambi i pensatori, il segno scambiato fra mittente e destinatario è un’entità a due facce: una
fisica, oggetto di trattamento fisiologico da parte degli organi di produzione (apparato fonatorio) e
ricezione della voce (apparato uditivo), e una mentale. Vi è tutta via una differenza:
Agostino ritiene che la controparte mentale della voce sia il solo significato (intellectus), e così
sembra inclinarsi verso quello che abbiamo chiamato modello elementare o lineare della
comunicazione: il pensiero verrebbe “colato” dentro una forma fonica.
Saussure spiega che prima di associarsi ad un significato, la voce articolata in parole viene
analizzata dal cervello nella sua “immagine acustica”, ovvero in un’immagine mentale della voce
articolata:
- Per poter capire che quel segmento di suono articolato che ho appena sentito è [buongiorno],
ho bisogno di disporre dello schema mentale /buongiorno/ che mi permette di riconoscerlo. È
questa immagine (mentale) che istituisce il rimando al concetto/significato. È dall’immagine
mentale /buongiorno/ e non dal suono articolato [buongiorno] che passo al significato
“buongiorno”. Ed è grazie al significato “buongiorno” codificato nella lingua della parola
italiana buongiorno, che posso accedere alle eventuali sfumature con cui il mittente ha usato
questa parola.
Il segno linguistico si scinde in effetti in due distinte realtà: quella della comunicazione immediata, nella
quale osserviamo determinati segnali fisicamente percepibili, prodotti oralmente o per iscritto, fatti di un
supporto materiale e di un senso; e quella psichica o mentale, sottostante alle diverse realizzazioni
individuali, nella quale il segno si configura come un’entità bifacciale composta da un’immagine acustica
(significante) e un concetto (significato). È solo grazie alla mediazione del piano mentale che i segni si
rendono comprensibili. Mentre infatti il piano materiale o della parole è il regno delle differenze
individuali (sia nell’esecuzione dei singoli fonemi, sia nella determinazione del senso), il piano mentale o
della langue (‘sistema’) è il regno di quello che è costante, di quello che è condiviso dai parlanti di una
stessa comunità.
Non ha senso mettere sullo stesso piano, come fossero semioticamente equivalenti, il linguaggio
verbale e altre forme di comunicazione. Non è affatto certo che nella vita sociale del nostro tempo
esistano, al di fuori del linguaggio umano (linguaggio verbale), sistemi di segni di una certa
ampiezza. Non appena si passa a insiemi dotati di un’autentica profondità sociologica, si incontra
di nuovo il linguaggio.
Anche le comunicazioni visive hanno bisogno, per funzionare, dell’integrazione e del riscontro
della parola (il dialogo nel cinema, gli slogan pubblicitari), e che anche forme di comunicazioni
particolari come la moda trovano la propria base esplicativa nei significati verbali che
l’accompagnano.
La linguistica dovrebbe fungere da riferimento per capire tutti gli altri sistemi di segni.
Prieto
condivide con Eco l’idea che la significazione sia alla base della comunicazione, ne riformula però
il concetto spiegando che essa consiste nella relazione fra un indice e un indicato «quando tale
relazione non sia naturale, ma istituita da una società».
Vi sarebbe dunque una semiotica della significazione che ritaglierebbe il suo oggetto nel mondo
degli indici ‘convenzionali’: comportamenti sociali, la moda, rientrerebbero in tale categoria, a
patto che i fenomeni relativi si siano ritualizzati nell’uso, assumendo la fisionomia di uno ‘stile’.
Anche Barthes aveva accennato a ciò, parlando di semantizzazione del comportamento: Prieto
aggiunge che tale processo, per acquisire reale rilevanza semiologica, deve assumere una effettiva
stabilità sociale.
La regola comunicativa diventa regola se si stabilizza nel tempo. Prieto avvicina la semiotica alla
semiologia.
Quando accade ciò, scattano dispositivi di connotazione, vale a dire qualcosa che produce significazione
allo stato puro.
Connotazione: cum + notare, indica quelle pratiche semiotiche che selezionano determinati segni in base
al fatto che, in un contesto dato, essi fungano, nel loro insieme da significanti di altri segni, che avranno
per significato elementi aggiuntivi rispetto al puro valore denotativo, letterale e referenziale, dei segni di
partenza.
Tullio de Mauro
ha offerto un’ipotesi rigorosa di classificazione dei codici semiologici, intesi nel senso di Saussure,
a partire dal principio della centralità del significante e lavorando sui diversi modi in cui i codici
organizzano quest’ultimo nei loro vari modi di funzionare.
Si delinea così una scala di crescente complessità che vede al vertice il linguaggio verbale, con la
sua forse unica capacità di saldare la regolarità del codice con l’indeterminatezza della sfera
semantica.
Per Deacon la comunicazione si staglia come una delle possibilità, ovviamente importantissima, ma non
unica, di un dispositivo, il linguaggio naturale, che è dispositivo ‘cognitivo’ ed ‘espressivo’.
Secondo un punto di vista molto diffuso, un processo di comunicazione avviene quando si ha il passaggio
di un ‘messaggio’ da un ‘mittente’ ad un ‘destinatario’. Perché tale processo avvenga è necessario che
le componenti che formano il messaggio (i segni) siano costruite secondo certe regole e combinate
secondo altre regole, tali regole formano un ‘codice’: mittente e destinatario devono condividere tali
regole, altrimenti non possono comunicare fra loro. L’operazione si realizza grazie al fatto che i messaggi
codificati viaggiano su un ‘canale’ fisico (ad esempio il canale fonico-uditivo se si tratta di un messaggio
scambiato a voce, o il canale grafico-visivo se si tratta di un messaggio scritto) il quale funge da supporto
materiale. Infine, il ‘contesto’ in cui la comunicazione si realizza gioca un ruolo più o meno importante a
seconda del tipo di codice (nel linguaggio verbale esso influenza in maniera decisiva il modo in cui
interpretiamo i messaggi).
Questo modello di rappresentazione del processo comunicativo fu introdotto alla fine degli anni ’40 dal
matematico statunitense, Claude Shannon. Si trattava di un modello non idealizzato, non riferito alla
normale comunicazione quotidiana.
Successivamente la sua idea fu applicata all’analisi del linguaggio del linguista e semiologo russo Roman
Jakobson, il quale osservò che in ciascun atto comunicativo non sono solo compresenti i sei elementi
indicati (messaggio, mittente, destinatario, codice, contesto e canale) ma anche le ‘funzioni’ che questi
privilegiatamente svolgono. Volta a volta ciascuna di queste funzioni può assumere un rilievo maggiore
delle altre.
1. Mittente: funzione espressiva si dà maggiore peso al mittente, attraverso esclamazioni,
interiezioni e forme linguistiche che rappresentano il punto di vista del mittente;
2. Destinatario: funzione conativa si dà maggiore peso al destinatario attraverso l’uso di forme
come l’imperativo, il pronome di seconda persona singolare o plurale;
3. Messaggio: funzione poetica si dà maggiore rilievo al messaggio. Non è una funzione specifica
della poesia propriamente detta, ma ha luogo tutte le volte che, anche nel linguaggio comune,
cerchiamo di valorizzare in modo speciale le risorse linguistiche utilizzate, per potenziarne il
significato. Espressioni come Che barba quella lezione trattengono l’attenzione del destinatario
sul messaggio, dando alle parole che lo costituiscono qualcosa di più del valore che esse
normalmente avrebbero in un discorso puramente funzionale.
4. Codice: funzione metalinguistica forme che si riferiscono al codice, tematizzandone aspetti o il
funzionamento generale, ad esempio espressioni come La parola canale significa… svolgono una
funzione metalinguistica; vertono cioè sul linguaggio.
5. Canale: funzione fatica forme che si riferiscono al canale cercando di verificarne la tenuta.
Espressioni come Mi senti? Oppure Hai capito cosa voglio dire?
6. Contesto: funzione referenziale elementi deittici o indicali (fatti cioè per indicare, come ad
esempio qui, là, questo) si riferiscono al contesto extralinguistico.
Il modello di Jakobson (1960) tuttavia ha dei limiti:
La comunicazione viene presentata come un processo binario SI/NO, senza ulteriori alternative.
Questa rappresentazione può funzionare per quei tipi di comunicazione meccanica che non
consentono altre interpretazioni (ad esempio, sulle automobili la presenza o l’assenza di benzina
era indicata da una spia, spenta nel caso di benzina sufficiente, accesa nel caso si fosse in riserva:
si trattava di un codice elementare a due segni). Nei codici più potenti la dinamica comunicativa è
molto più complessa.
Nella comunicazione vis-à-vis fra esseri umani non c’è parola o gesto che non tenga conto, quando
il mittente li ‘invia’, dell’espressione, delle attese, delle possibili reazioni dell’interlocutore: la
forma e il senso delle parole e delle frasi in certo modo incorporano fin dal loro prodursi il punto
di vista di chi ascolta.
Inoltre, non è affatto detto che mittente e destinatario debbano condividere a pieno titolo il codice
perché la comunicazione avvenga. Normale è lo squilibrio (di istruzione, di padronanza
linguistica) fra destinatario e mittente: non ci si capisce mai in assoluto, ma sempre e solo in
relazione a determinate circostanze.
Un grave difetto del modello è che non riesce a dar conto del processo dell’interpretazione, vietato
dai codici elementari come le spie luminose, ma assolutamente normale in codici comunicativi più
complessi e in particolare nel mondo del linguaggio verbale o non-verbale umano.
Mittente e destinatario: Pierce e il carattere interpretativo della semiosi umana
La semiosi umana viene definita come una sintesi di ‘natura’ (ciò che dipende dal nostro patrimonio
genetico) e di ‘cultura’ (ciò che non è iscritto nel nostro patrimonio genetico e viene appreso dopo la
nascita tramite l’inserimento in una società e in un ambiente).
Oggi, grazie al convergere di risultati scientifici maturati nell’ambito di diverse discipline (neuroscienza,
psicologia, antropologia e linguistica), si concorda sul fatto che la semiosi dipende da una gamma di
presupposti naturali, inerenti al funzionamento del nostro corpo che si sono gradualmente evoluti
(cervello, mai, appartato di fonazione, muscoli del volto).
Che cosa significa che la semiosi umana è una sintesi di natura e cultura?
Gli esseri umani ereditano geneticamente la capacità di utilizzare qualcosa di percepibile come
‘significante’ e qualcosa di immateriale come ‘significato’.
Tramite l’educazione e l’inserimento sociale, gli esseri umani imparano a riempire tale capacità
con concreti sistemi di segni (linguistici e non).
Questa capacità è frutto di un percorso evolutivo iniziato circa 2.5-2 milioni di anni fa con le
prime pratiche simboliche degli Australopiteci, e giunto a piena maturazione circa 150 mila anni
fa con l’Homo sapiens sapiens, a cui si attribuisce il possesso di lingue analoghe a quelle oggi in
uso.
Saussure definisce tale capacità “facoltà di linguaggio”, il filosofo tedesco Cassirer come “facoltà
semiotica”. Questa proprietà si riferisce a una potenzialità associativa che ha precisi correlati
naturali e che si realizza in abilità di tipo percettivo (riconoscere segnali acustici o visivi) e
sensoriali (saper produrre suoni o gesti).
I ‘codici’ (lingue, linguaggi gestuali etc.) sono la parte culturale del processo.
Un bambino normodotato ha alla nascita capacità semiotiche uguali a tutti gli altri bambini
normodotati del pianeta: la lingua che imparerà come lingua materna dipenderà tuttavia solo
dalla famiglia e dall’ambiente sociale nel quale sarà accolto e crescerà. Insieme alla lingua il
bambino apprenderà non solo un sistema di suoni e significati, ma anche schemi prosodici e
intonativi con cui realizzare i suoni enunciati; maturerà regole di applicazione e comportamento
linguistico; svilupperà comportamenti non verbali (espressioni del volto) che lo aiuteranno a dare
corpo e senso alla parola, a rimarcare o sfumare valori, a rapportarsi ‘fisicamente’ ai suoi
interlocutori.
Un bambino sordo fin dalla nascita, se inserito in una comunità di segnanti, apprenderà con
altrettanta facilità una ‘lingua segnata’, ovvero un complesso sistema di gesti, contraddistinti da
precise regole di formazione ed esecuzione.
Tuttavia, diversamente dai sistemi artificiali, nell’essere umano la possibilità di sviluppare codici
semiotici è “a tempo”: se l’insegnamento di un codice non comincia subito (o comunque entro un
limite massimo di 6/7 anni) la capacità di apprendimento si spegne.
La facoltà di linguaggio è dunque qualcosa che rechiamo nel nostro patrimonio genetico, ma non è
sempre stata lì. Essa è divenuta parte del nostro patrimonio genetico grazie ad un lunghissimo processo
evolutivo che ha portato ad attrezzare il cervello di tutte le strutture e i circuiti necessari per far
funzionare la semiosi, e adattare in modo corrispondente altre parti del corpo, a questa interessate.
Ciò ha implicato una lentissima ma decisiva ristrutturazione dell’apparato respiratorio, che ha
maturato una specializzazione aggiuntiva per la fonazione.
Anche la mano ha a che fare con lo sviluppo del linguaggio: sembra che l’acquisizione della
postura eretta, e quindi la liberazione della mano da compiti di locomozione, abbia proceduto di
pari passo con la prima elaborazione della facoltà di linguaggio.
Gesto e primordiali vocalizzi si sono probabilmente accompagnati e sostenuti a vicenda nella vita di
queste antichissime comunità, capaci di organizzare campi comuni e provvedere socialmente alla difesa,
alla caccia, alla distribuzione del cibo. Tale sinergia si rafforzò nelle fasi successive del processo di
ominazione, intrecciandosi alla realizzazione dei primi utensili e al loro graduale perfezionamento.
La stessa ‘lateralizzazione’, ovvero il processo che conduce a specializzare uno dei due emisferi del cervello
in vista di determinate funzioni, sembra essere stata guidata da questo intreccio di esigenze semiotiche. Il
risultato di questo processo evolutivo è che oggi l’emisfero sinistro presiede al 90% sia alle funzioni
linguistiche sia a quelle comunicativo-gestuali.
L’uomo moderno, dal quale discendiamo direttamente, possedeva il linguaggio verbale. La datazione
presunta dell’acquisizione di tale capacità oscilla tra i 150 e i 50 mila anni fa. Era un linguaggio
fortemente “contestuale”, rispetto al linguaggio verbale odierno era più legato alle espressioni facciali e ai
gesti. Tuttavia, era chiaramente più forte dal punto di vista evolutivo: poteva essere usato al buio, poteva
entro certi limiti scavalcare gli ostacoli di tipo fisico, non impegnava le mani e garantiva una trasmissione
più efficacie dell’esperienza.
EVOLUZIONE DELLA SEMIOSI: L’APPARATO FONATORIO
Nell’evoluzione del linguaggio verbale ebbe una funzione essenziale la formazione dell’apparato di
fonazione. Grazie alla sua flessibilità e al controllo neurale consente all’essere umano la produzione di
gesti espressivi di grande raffinatezza. Questo supporto è frutto di un lento processo evolutivo:
Il neonato ha un apparato di fonazione più simile a quello di uno scimpanzé che a quello di un
adulto umano, e ha bisogno di circa 7/10 anni per maturare, sia da un punto di vista anatomico
che articolatorio.
Oggi si ritiene che diverse specie ominidi avessero un surrogato di linguaggio, e in particolare, che
l’Uomo di Neanderthal potesse articolare molti suoni delle lingue oggi conosciute.
Solo a partire dalla configurazione anatomica della specie Sapiens si determinarono le condizioni
per un’efficace produzione delle vocali /a/, /i/ e /u/ che compaiono in tutte le lingue, vive o solo
indirettamente attestate, di cui siamo a conoscenza.
L’apparato respiratorio che abbiamo ereditato dai nostri più antichi progenitori si è lentamente
adattato a funzionare anche come apparato di fonazione. Come sempre accade, nell’ambito dei
processi di selezione naturale, vecchi organi e strutture vengono riciclati e adattati per soddisfare
le nuove esigenze maturate dalla specie. Ciò ha significato una notevole perdita del potenziale
respiratorio e anche una progressiva ristrutturazione anatomica.
Negli antichissimi ominidi la laringe si trovava più in alto nel canale respiratorio. Essa poteva
alzarsi fino a formare un tutt’uno con la cavità nasale, lasciando così via libera per il cibo
ingerito.
Nel neonato questa condizione si osserva ancora oggi, ed è proprio ciò che gli consente di
succhiare il latte e contemporaneamente respirare.
Questa posizione della laringe, perfettamente funzionale per una specie che non ha bisogno della
parola, impediva l’articolazione di gran parte dei timbri vocalici utilizzati nelle lingue.
Nell’uomo moderno la laringe si è notevolmente abbassata e, di conseguenza la lingua è arretrata
di un tratto rispetto alla cavità orale. Quando il cibo passa dalla faringe ed entra nell’esofago, la
laringe deve chiudersi ermeticamente ad evitare che esso entri nella trachea e soffochi. Il
meccanismo avviene in automatico.
Grazie al suo abbassamento, la laringe ha reso più lungo e flessibile il canale articolatorio che
conduce alla cavità orale e attraverso il quale passa l’aria, modificata via via dai movimenti del
velo palatino, della lingua, delle labbra. A ogni movimento il canale si allunga o si accorcia e
modella diversamente il suo assetto, dando forma all’aria pompata dai polmoni e già fisicamente
impostata dalla vibrazione delle corde vocali.
CERVELLO E LINGUAGGIO
Il nocciolo della capacità semiotica non sta negli apparati sensomotori periferici (apparato uditivo-
fonatorio) bensì nell’organizzazione cerebrale che governa in entrata e in uscita le informazioni
provenienti da/dirette a tali apparati.
La semiosi umana dipende evolutivamente dallo sviluppo della parte più recente del cervello, la
‘corteccia’, uno strato di cellule nervose pieghettato in modo enormemente complesso, dello spessore di 3
mm, che presiede a tutte le funzioni cognitive superiori: ricordare, vedere, capire.
Il cervello è suddiviso in due emisferi e la corteccia di ciascun emisfero è suddivisa in aree (lobi): frontale,
parietale, occipitale e temporale, ciascuna maggiormente implicata in questa o quella funzione.
L’unità di base della corteccia è il neurone, la cellula nervosa la cui parte centrale è costituita da un asse
allungato (assone), avvolto da una speciale guaina mielinica, che conduce l’informazione sotto forma di
stimolazione elettrica. Alle due estremità dell’assone si situano due sistemi di contatti con gli altri
neuroni; in entrata abbiamo i ‘dendriti’, in uscita i bottoni sinaptici, che instaurano ‘sinapsi’, cioè
collegamenti con altri neuroni in numero altissimo.
CERVELLO E LINGUAGGIO: TESI LOCALIZZAZIONISTA
Capire in che modo il linguaggio dipenda dal funzionamento del cervello è uno dei temi centrali della
ricerca contemporanea. Una tesi classica p quella ‘localizzazionista’, che cerca cioè di individuare aree
specifiche deputate all’elaborazione dell’informazione linguistica.
Area di Broca: Pierre-Paul Broca ritenne di aver localizzato, grazie alle lesioni ritrovate nei
cervelli di pazienti che in vita erano stati affetti da afasia motoria, l’area addetta alla
produzione del linguaggio.
Area di Wernicke: Karl Wernicke, con metodi analoghi applicati a casi di afasia sensoria, ipotizzò
di avere identificato l’area preposta alla comprensione.
Sulla scia di queste ricerche l’emisfero sinistro è stato universalmente ritenuto quello responsabile della
capacità linguistica. L’emisfero sinistro gioca un ruolo essenziale anche nel caso dei sordomuti, dove la
semiosi, per funzionare, si serve di un canale visivo-gestuale anziché fonico-uditivo.
CERVELLO E LINGUAGGIO: TESI DELLA PLASTICITÀ
Si basa sulla deviazione quantitativa che le singole aree del cervello umano fanno registrare
rispetto alle misure ipotizzabili per una scimmia che avesse un cervello di pari volume.
È così risultato che la maggiore asimmetria si colloca nella corteccia ‘prefrontale’, un’area che
non sembra essere direttamente responsabile di specifiche abilità sensorie o motorie, ma che
risulta essere interconnessa ad un’amplissima gamma di zone del cervello e implicata in
numerose operazioni associative relative alle funzioni cognitive superiori.
È quindi probabile che molte funzioni cognitive, fra cui il linguaggio, si avvalgano della
collaborazione di varie e distinte parti della corteccia e che anche le zone più antiche del cervello
(come il sistema limbico che regola le nostre emozioni) abbiano a che fare con esso.
Il linguaggio è, da molti punti di vista, un che di naturale, maturato nel lunghissimo percorso
dell’evoluzione e perfettamente ancorato a presupposti di ordine cerebrale, senso-motorio e anatomico.
Tuttavia, la capacità linguistica è ben altro che un rivestimento di processi mentali extralinguistici:
proprio la storia dell’evoluzione dell’Homo sapiens rivela che essa ha condizionato e sospinto in maniera
decisiva lo sviluppo del cervello e delle potenzialità cognitive umane.
Il processo di adattamento culturale è il nocciolo del funzionamento del linguaggio ed è il terreno sul
quale natura e apprendimento si congiungono inestricabilmente.
L’idea che il linguaggio (verbale e non) sia non solo lo strumento del pensiero, ma il dispositivo che
innesca quest’ultimo, può essere espressa sinteticamente con il concetto di ‘formatività’.
Wilhelm von Humboldt formula per primo con chiarezza il principio di formatività:
Una posizione equilibrata deve sviluppare fino in fondo l’idea che i linguaggi umani (verbali e segnati)
sono entità storico-naturali: entità nelle quali l’esercizio della pratica formatrice si situa all’interno di
presupposti dettati dalle caratteristiche della specie.
La teoria dei prototipi
La nozione di ‘prototipo’ venne introdotta negli anni settanta dalla psicologa statunitense Eleanor Rosch
per spiegare in che modo categorizziamo gli oggetti.
Secondo l’approccio tradizionale della teoria della conoscenza, un concetto si definirebbe tramite la
presenza o assenza di un tratto definitorio. In realtà, si è trovato che in moltissimi settori dell’esperienza
cognitiva umana, il criterio per includere o meno un dato oggetto nell’estensione di un concetto non è di
tipo binario (sì/no) ma di tipo graduale (più/meno).
I confini dei nostri concetti non sono rigidi, ma sfumati, disponibili a criteri di scelta che possono variare.
‘Prototipico’ è, volta a volta, il membro percepito come “più centrale” della categoria, sul cui modello si
orientano i giudizi di appartenenza.
Ritroviamo l’arbitrarietà verticale in numerosi codici: nei calcoli, nel linguaggio binario che codifica le
informazioni che diamo ad un computer, in numerose segnaletiche, nei prefissi telefonici (perché non è né
naturalmente né logicamente motivato il rapporto tra /055/ e Firenze etc.), in numerose forme di
simbolizzazione rituale (ad esempio nel linguaggio dei colori, fra /rosa/ e ‘femminilità’, /verde/ e
‘speranza’), e ovviamente nel linguaggio verbale.
Proprio nel caso del linguaggio verbale, la non-motivatezza logico-naturale è talmente diffusa ed evidente
che fin dall’antichità molti pensatori hanno visto in essa un carattere distintivo, se non proprio “il”
carattere distintivo, della parola:
Niente motiva il rapporto, ad esempio, tra /sedia/ e “pezzo di mobilio sul quale si può sedere”; di
fatto, il concetto di “sedia” potrebbe essere altrettanto bene rappresentato (in virtù del principio
di arbitrarietà) da /panca/ o da altri significanti, come dimostra il fatto che in altre lingue lo
stesso concetto è veicolato dal significante /chair/, /Stuhl/ o altro.
Si deduce erroneamente che:
il significante /sedia/ è solo convenzionalmente e immotivatamente legato al significato
(concetto) “sedia”, tanto è vero che in altre lingue è indicato da diversi significanti.
Nelle lingue storico-naturali, significato e significante vengono determinati da un tipo diverso di
ARBITRARIETÀ, quella RADICALE, che consiste nella formazione su tempi storici lunghissimi, delle
classi fonico-acustiche e concettuali, figli di un sistema linguistico e della cultura cui
appartengono.
Vi sono dunque un significato “sedia”, un significato “chair” e un significato “Stuhl”, figli del
sistema linguistico a cui appartengono, della propria cultura e non esattamente sovrapponibili: è
difficile trovare in due lingue diverse sinonimi perfetti dello stesso concetto, neppure se si tratta di
oggetti di uso comune o magari forme di saluto.
Questa deduzione si può dunque applicare giustificatamente solo a forme di linguaggio fortemente
convenzionalizzate e cristallizzate dall’uso, come è il caso di certi sottocodici ‘settoriali’.
L’efficacia semiotica dell’arbitrarietà verticale è legata alla simbolicità. Per cervelli dalla portata
cognitiva limitata, come quello umano, con le loro potenzialità di memoria e di calcolo, sarebbe
problematico dover memorizzare significanti diversi, legati da un’interna logica o dai principi di
“rispecchiamento” naturale a tanti, diversi significati. Si pensi per esempio alla difficoltà che può avere
chiunque di noi nel dominare tante denominazioni quante sono le tipologie di sedie. Ecco perché le lingue
selezionano mezzi espressivi arbitrari, certamente semplificanti, ma potenti perché capaci di riferirsi
attraverso forme simboliche, e in tal senso ‘vuote’ (non motivate), a intere classi di oggetti.
L’esempio classico è nell’ambito semantico del bosco e affini come diverse lingue suddividono i segni:
Italiano: bosco, legno, legna
Francese: bois “bosco-legno-legna”
CONVENZIONALITÀ
Con convenzionalità si intende l’attribuzione volontaria, socialmente stipulata di un certo significante a
un certo significato o viceversa. Si tratta di un principio semiotico di straordinaria importanza tecnica e
foriero di infinite conseguenze sociali, culturali e politiche.
Il meccanismo della convenzionalità si applica in toto:
ai linguaggi di calcolo e a ogni tipo di lingua formalizzata (le simbologie della chimica e della
geometria);
alla terminologia medica;
alla segnaletica (è convenzione internazionale, per esempio, il fatto che i divieti di superare una
certa velocità siano indicati da un numero scritto in nero su un campo bianco all’interno di un
cerchio rosso);
anche le arti letterarie, visive o plastiche contengono elementi indubbi di convenzionalità. Basti
pensare al sistema di norme che regolano i cosiddetti ‘generi letterari’ e che ci consentono di
riconoscere un’opera come una lirica, un romanzo etc.
La conoscenza di convenzioni di questo tipo fa parte della complessa ‘enciclopedia’ che organizza, in
modo plastico e aperto, l’esperienza e il sapere di ciascuno di noi.
Indipendentemente dal fatto che il segno abbia caratteri di arbitrarietà, esso può essere stato stipulato
convenzionalmente.
Per esempio, il simbolo dell’infinito: è un segno che è stato arbitrario. Però è un segno non solo
arbitrario ma convenzionale: è stato socialmente stipulato che attraverso quel segno in
matematica si intende l’infinito.
Questo ci spiega perché arbitrarietà e convenzionalità siano insiemi di intersezione, non mai interamente
sovrapponibili:
esistono codici non arbitrari ma iconici che sono convenzionali, ed esistono codici arbitrari che
non sono convenzionali (i linguaggi di molte specie animali)
Le parole delle lingue storico-naturali non sono totalmente arbitrarie, ma sono convenzionali: molte
parole sono state scelte per convenzione. Ma la convenzione non necessariamente attraversa i confini
linguistici. Funzionano come una sorta di insieme.
Codice arbitrario non convenzionale: il linguaggio degli animali non è convenzionale (i cani non si sono
mai riuniti per decidere di abbaiare).
Le lingue storico-naturali spesso comprendono parole (segni) che non sono (totalmente) arbitrari perché
frutto di un’evoluzione storica-culturale-linguistica ma sono convenzionali. Quelle parole spesso sono
state attribuite per convenzione: i linguaggi settoriali, per esempio.
Le emoticon non sono arbitrarie ma sono convenzionali.
Nelle lingue in particolare, si ha a che fare con stati mutevoli di equilibrio fra parti convenzionate di uso e
parti liberamente fluttuanti, in cui ha un forte peso l’esigenza dell’individuo di farsi capire.
ICONICITÀ
L’idea che i segni catturino in modo non arbitrario caratteri della realtà assume un ruolo centrale
nella teoria di Pierce, che distingue tra:
- Ipoicone: caratterizzate dall’avere qualche qualità in comune con gli oggetti cui si riferiscono
(ad esempio: una mappa rispetto al territorio che rappresenta. La cartina dell’Italia ci fa
vedere uno stivale: la cartina è un segno iconico per eccellenza perché ci riporta fedelmente il
territorio che rappresenta).
- Indici: caratterizzati da contiguità fisica con l’oggetto (ad esempio un’orma rispetto al piede
che l’ha lasciata)
- Simboli: che giungono a rapportarsi al loro oggetto per convenzione (ad esempio: le parole)
ARTICOLATEZZA E COMBINATORIETÀ
La proprietà dell’articolatezza riguarda il fatto che la parte significante del segno può risultare dalla
combinazione di segmenti più piccoli. Numerosi sono i codici provvisti di articolatezza del significante.
Solo codici elementari come le spie luminose non hanno tale proprietà.
Doppia articolazione
L’articolatezza non è una caratteristica esclusiva della parola umana; tuttavia, ne forma una proprietà
altamente produttiva e di enorme evidenza.
Ogni lingua umana ha una doppia articolazione:
Articolazione in fonemi: le parole sono analizzabili in unità minime, prive di significato (fonemi) e
che sono il frutto della radicale arbitrarietà degli idiomi.
Articolazione in monemi (morfemi): le parole sono analizzabili in unità ancora più piccole delle
parole che, tuttavia, sono ancora dotate di senso. Ogni monema è un segno suscettibile di entrare
in molteplici combinazioni.
- Occupazione: occup- azion- e.
Ogni monema può entrare in molteplici combinazioni
Occup-: occup+are, occup+ato, occup+abil+ità
Nello stesso codice ci troviamo di fronte a due livelli di articolazione, come a due distinti procedimenti
combinatori. Il linguista francese André Martinet definisce
prima articolazione del linguaggio verbale quella in monemi (poiché produce unità che sono
ancora segni)
seconda articolazione del linguaggio verbale quella in fonemi (poiché produce unità minime
asemantiche)
in una lingua, i monemi sono di due tipi:
lessicali: i quali formano un insieme aperto
grammaticali: i quali formano una classe chiusa (preposizioni, desinenze verbali, articoli, marche
di caso)
I fonemi formano anch’essi una classe chiusa, compresa nella maggior parte delle lingue fra 20 e 37
membri, con variazioni da una lingua all’altra:
in italiano non esistono fonemi come /ü/ e /ö/, presenti invece in francese e in tedesco;
non costituisce differenza fonematica (ma solo fonetica), il fatto che una vocale sia pronunciata
breve o lunga, mentre in altre lingue, come per certi aspetti l’inglese e il tedesco, sì:
- in tedesco, [ʃtat] o [ʃta:t] significano rispettivamente “città” Stadt e “stato” Staat.
Nelle lingue verbali la doppia articolazione svolge una funzione decisiva, poiché consente una
straordinaria flessibilità nell’arricchimento del lessico e nella formazione di unità superiori alla parola.
Tuttavia, non è esclusiva del linguaggio verbale, né della nostra specie (numerazione degli autobus,
linguaggio di alcuni scimpanzé).
La doppia articolazione è specie-specifica del linguaggio verbale.
RIDONDANZA
Rappresenta una sorta di sovrabbondanza che riguarda i segni e le parti di cui i segni sono
composti.
pur essendo una proprietà alla base del costituirsi delle lingue verbali, essa è presente anche in
altre semiotiche: ad esempio nelle semiotiche animali, nella cinesica…
nelle lingue verbali, la ridondanza può essere di diverso tipo:
- fonetica: l’italiano ha 30 fonemi e in teoria per distinguere i segni che compongono questa
lingua potremmo avere bisogno anche di un numero più ridotto, di significanti più brevi. Ma
saremmo in grado, senza questa ridondanza, di distinguere chiaramente un segno dall’altro,
ad esempio in una situazione particolarmente rumorosa?
Ripetizione dei suoni (per richiamare l’attenzione o l’accertazione da parte del mittente che il
ricevente abbia capito il messaggio)
- morfologica: nella frase “Le scarpette rosse delle allegre ballerine”, la ridondanza morfologica
è data dalla ripetizione del femminile plurale (scarpette, rosse, allegre, ballerine)
- lessicale: diversi segni veicolano lo stesso significato o un significato simile
o #casa# #abitazione# #dimora#
o #automobile# #macchina# #vettura# #cubitacolo#
La ridondanza è una proprietà semiotica usata in abbondanza dalla pubblicità per far sì che il prodotto
arrivi al ricevente.
VOCALITÀ/UDITIVITÀ
I segni linguistici sono trasmessi attraverso la voce e dunque possono sfruttare la diversa
modulazione che la voce stessa consente e sono recepiti, nella loro diversità di modulazione,
tramite l’udito
Si tratta di proprietà presenti in altri codici? Sì, ad esempio nel linguaggio di certi mammiferi
superiori, in quello degli uccelli …
DUNQUE: vocalità e uditività non possono dirsi proprietà specie-specifiche dell’essere umano.
INDICATIVITA’ (SEMANTICITA’)
I segni linguistici mostrano, indicano una qualche realtà, un qualche stato di cose e nel loro
indicare veicolano significato, offrono cioè senso a quel determinato stato di cose, a quella
determinata realtà.
Si tratta di una proprietà presente in altri codici? Si, ad esempio nei linguaggi fatti di “gridi
illetterati come quelli di belve” (Aristotele).
DUNQUE: semanticità e indicatività non possono dirsi proprietà specie-specifiche.
Il ruolo dell’astrazione
- Un significato è per eccellenza un simbolo, una rappresentazione mentale che prescinde dalla
presenza fisica degli oggetti a cui rimanda.
Intesi così, i linguaggi di molte specie animali non umane risultano sofisticamente capaci di
significazione. Un esempio è quello del codice con il quale le api bottinatrici comunicano alle
proprie compagne, rimaste nell’alveare, la posizione, la distanza e la qualità del cibo disponibile
nell’ambiente. Ciò accade mediante una danza.
Così come pure i linguaggi matematici
E le lingue?
- Una tradizione teorica portata avanti da Chomsky e Hjelmslev, ha sancito la capacità delle
lingue di dire tutto (onniformatività semantica). C’è chi obbietta: come si fa a dire che le
parole possono realizzare equivalenti totali di un movimento musicale o di una tela, o di un
sorriso ambiguo? Tullio De Mauro prudentemente ha suggerito una formula in negativo:
- Non si possono indicare i limiti di ciò che una lingua può dire (De Mauro): si pensi alla
metafora. Ciò lascia impregiudicata la possibilità di estendere indeterminatamente i confini
delle sue classi semantiche, in funzione di esperienze che possono essere inesauribilmente
nuove.
- Possiamo dunque affermare che, diversamente dai linguaggi artificiali, ma anche dai
linguaggi degli altri animali, le lingue dispongono di significati indeterminati, ovvero di
concetti rappresentabili come classi aperte, delle quali non si può interamente prevedere la
possibilità di saturazioni.
De Mauro dice la stessa cosa di Chomsky e Hjelmslev ma non in modo così radicale.
La semanticità è la proprietà semiotica per eccellenza: ci permette di dare un senso a quello che diciamo.
CREATIVITÀ
In termini semiotici un codice è creativo se ha la capacità di modificare le sue caratteristiche iniziali
senza smettere di funzionare. Si possono distinguere tre tipi di creatività:
Creatività regolare
Creatività non regolare
Creatività di regole
Creatività regolare
È la proprietà per cui un codice può arricchire in modo illimitato il suo inventario di segni
applicando, senza modificarle, le regole di formazione-combinazione di cui dispone.
Il primo mentore è stato Humboldt, il quale spiegò che le lingue possono fare “uso infinito di mezzi
finiti”.
È una proprietà presente anche in altri codici, per esempio l’aritmetica:
- #4# + #5# + #1# = 10
- Oppure #5# + #1# + #4# = 10
- Ma non #1# + #5# +(-) #4# = 2
Il codice verbale fa larghissimo uso di questa proprietà, si pensi all’analogia, tipica
dell’apprendimento di una lingua da parte di bambini o stranieri:
- Aprito (da aprire) su modello dei verbi di terza coniugazione
Ogni lingua prevede forme di creatività regolare di diversa natura, tutte inscindibilmente legate alla
sua capacità combinatoria, dunque alla sua articolatezza
Es. Quel ragazzo è amico della ragazza che è seduta vicino al signore che ….
Chomsky, che chiama questo tipo di creatività “rule-governed creativity”, ritiene che essa
rappresenti la specie-specificità della lingua verbale, considerato gli altri linguaggi caratterizzati da
una sostanziale ripetitività: ‘‘language to be a set (finite or infinite) of sentences each finite in length
and constructed out of a finite set of elements’’ (Syntactic Structures, 1957)
Si tratta di un tipo di creatività che permette di far rientrare nella ‘normale’ attività semiotica i
processi di scambio comunicativo, di produzione di senso, di comprensione in presenza di
violazione delle regole ‘normali’.
Tale creatività fa riferimento a fenomeni che certo suggeriscono, a partire dal pipano delle
relazioni tra i segni, instabilità; fenomeni resi in ultima istanza possibili proprio dal fatto che la
lingua è un codice intrinsecamente vago.
Quali sono i codici che dispongono di tale proprietà?
Il codice aritmetico non può permettersi questo tipo di irregolarità:
- Il segno #7 : x 2# non è accettabile in nessuna espressione dell’aritmetica. Non è
interpretabile e porta al blocco del codice.
Lo stesso vale per un codice segnaletico, obbligato a veicolare in modo inequivoco un universo di
significati determinati.
I linguaggi naturali sono invece più tolleranti e flessibili. Nel linguaggio verbale la creatività non
regolare non impedisce (di solito) la comprensione:
- Non blocca quindi il codice: Se sarebbe andato a trovare lo zio, gli avrebbi fatto piacere
- È restaurabile: Tu lo vede? Si dice vedi.
- È innovativo: Metti un tigre nel motore (slogan pubblicitario dove la concordanza irregolare
serve a “svegliare” nei destinatari una rete di connotazioni di forza, aggressività ed energia
connesse nel senso comune dell’elemento maschile).
Nonostante l’uso incorretto del codice ci si capisce. Perché? Per un’altra proprietà semiotica: la vaghezza
Creatività di regole
Essa consiste nella possibilità di riformare interi pezzi del codice, aggiungendo o togliendo regole senza
che questo cessi di funzionare.
La creatività di regole ha trovato ampia applicazione nelle lingue dei segni dei sordomuti.
Un’ampia applicazione di tale proprietà si ha anche nelle lingue verbali, delle quali l’universale
funzionamento è certamente la ‘mutabilità’:
Il che polivalente:
- Domani è il giorno che ho lezione
- Ti presento Mario, il ragazzo che studiamo insieme
- Prendimi la valigia che ci ho messo i libri
L’uso del pronome gli anche per le forme femminili
METALINGUISTICITÀ
Un codice possiede la proprietà della metalinguisticità se può usare i suoi segni per parlare di se
stesso.
Le lingue fanno continuo appello a tale proprietà. Lo fanno per disciplinare l’uso delle parole,
‘piene’ o ‘vuote’ che siano, in vista di usi tecnici, formali o formalizzanti (cioè quando il loro
significato deve essere deducibile solo dai termini stessi senza ricorso al contesto d’uso): un
manuale scolastico o universitario, un libretto di istruzioni, fanno ampio ricorso al
‘metalinguaggio’. Le lingue ‘parlano di sé’ anche, e soprattutto, nella vita quotidiana attraverso
dei segnali linguistici:
- Ma che vuoi dire quando dici deluso?
Non siamo, nemmeno in questo caso, in presenza di una proprietà esclusiva e nemmeno esclusiva
specie-specifica: si può ritrovare nella lingua dei segni e nella gestualità.
VAGHEZZA
Tale proprietà fa sì che significato e significante di ciascun segno linguistico siano degli insiemi
aperti, continuamente ampliabili o restringibili, di sensi e di espressioni.
Tale proprietà la rende flessibile, malleabile, modificabile. Attraverso questa proprietà posso
attraversare i confini della lingua e, nonostante ciò, capire ed essere capito.
“Ciascun segno non circoscrive dunque con precisione una classe di espressioni indicanti sensi di
una classe circoscritta con altrettanta precisione, ma è lo strumento di un’attività allusiva, di un
gioco che conduce alla messa in relazione di espressioni tra loro assimilabili e un gruppo di sensi.”
(De Mauro 1982)
- La vaghezza è ciò che non si dice attraverso la lingua. Si possono capire le intenzioni di una
persona anche attraverso ciò che non dice. Questa è la vaghezza della lingua: quella
sfumatura non percepibile e non definibile nella lingua. Il non-detto.
“È sotto gli occhi, o meglio, nelle orecchie di tutti: che le realizzazioni parlate e grafiche effettive
oscillano fortemente da una maggiore nettezza, propria del parlato formale o dello scritto a
stampa e simili, verso una nettezza assai minore, in cui il rilassamento di articolazioni e grafie
porta a fare delle emissioni foniche e delle tracce scritte poco più che indizi allusivi alle forme
significanti. Ancora più marcatamente l’analogo avviene sul versante del significato: di continuo
allarghiamo i confini dei significati a nuovi sensi”
- Oltre al non-detto la vaghezza si può ritrovare anche nel non-sentito.
- [le realizzazioni parlate e grafiche effettive oscillano fortemente da una maggiore nettezza,
propria del parlato formale o dello scritto a stampa e simili, verso una nettezza assai minore,
in cui il rilassamento di articolazioni e grafie…] Non tutto quello che articoliamo può essere
sentito: è possibile che il suono arrivi male al ricevente.
Vaghezza del significato: capire anche quando non viene detto (gesti, espressioni) impliciti
Potenzialmente, un numero assai consistente di segni linguistici è dotato di significati vaghi, che
possono e potranno in modo potenzialmente infinito allargarsi alla trasmissione di nuovi sensi
Il cambiamento della semantica di molte parole nel tempo, il loro svuotamento di significato, la
loro risemantizzazione sono tutti effetti dell’azione della vaghezza.
Vaghezza del significante: disturbi nella comunicazione ma per i confini non netti della lingua ma
all’interno dei quali sappiamo gestirci, riusciamo a comprendere.
Uno stesso segno linguistico, una stessa espressione può essere trasmessa oralmente e per scritto
in modo assai diverso:
- Silenzio!
- Silenzio!
- SILENZIO
La vaghezza è quella proprietà della lingua che mi consente di capire ed essere capito anche se vengono
trasgredite delle regole o anche se la comunicazione ha dei problemi. Perché è possibile? Attraverso la
vaghezza di significato ciascuna parola è dotata di infiniti sensi e quindi ci possiamo avvalere di questi
infiniti sensi per rigenerare significati sempre diversi; e attraverso la vaghezza del significante
(attraverso il tono di voce o forme scritte diverse) posso capire ed essere capito, sfruttando i confini labili
e flessibile.
La vaghezza è quella proprietà della lingua che la rende plasmabile.
La vaghezza è la proprietà di base della poesia: la parola ha un potere evocativo grazie alla vaghezza.
La parola ha il suo significato ma può rimandare anche ad altro.
Là dove c’è vaghezza, dove c’è permanentemente disponibilità all’innovazione c’è anche la
necessità di un rinnovarsi continuo dell’intesa tra gli utenti del codice, all’atto della produzione e
ricezione di ogni realizzazione segnica, con quell’atteggiamento reciproco tra utenti produttori e
ricettori che è stato dello opportunamente tolerance upon the field.
Queste caratteristiche rendono la vaghezza condizione della creatività non regolare.
Si tratta di una proprietà presente in altri codici? Sì, nel linguaggio dei gesti e nelle lingue
segnate;
Si tratta di una proprietà necessariamente presente nelle lingue? No, perché esistono porzioni di
lingua che presentano gradi di vaghezza molto ridotta, quasi nulla (es. segni che non ammettono
sinonimia)
Una proprietà che appare del tutto specifica della semiosi umana è quella di potersi fissare mediante
supporti di tipo grafico-visivo. Chiamiamo dunque ‘scrittura’ l’insieme di strategie e di tecniche inventate
e utilizzate da popoli diversi nella storia, al fine di fissare e trasmettere dati, pensieri ed esperienze
mediante artifici di tipo grafico-visivo.
La funzione semiotica della scrittura
Le prime testimonianze note di scrittura ci conducono alla Mesopotamia, intorno alla metà del IV
millennio a.C. e, dopo qualche centinaio di anni (verso il 3100 a.C.), all’antico Egitto.
La scrittura è un’invenzione dell’uomo.
La scrittura è, dal punto di vista evolutivo, un’invenzione relativamente recente, che però ha
determinato profondi cambiamenti nell’organizzazione della conoscenza e della semiosi.
Prima dell’avvento della scrittura, il linguaggio umano era completamente radicato nel contesto
(oralità). La parola viveva nel suo qui e ora, era immersa nello scambio comunicativo fra soggetti
compresenti e fisicamente interattivi, si arricchiva di gesti e comportamenti paralinguistici.
L’assoluta determinatezza, contingenzialità della parola era anche il suo punto di forza: ciò che la
rendeva mezzo privilegiato di incontro e aggregazione sociale. Non è un caso nella società antica
fosse tanto importante la ‘retorica’, quindi, la capacità di utilizzare la parola al fine di persuadere
altre persone (per esempio per costruire consenso attorno ad una decisione)
La scrittura offre agli esseri umani risorse semiotiche nuove. Con essa diviene possibile
trasmettere il pensiero a distanza, limite invalicabile della parola parlata.
Oggi possiamo sempre dire che la parola parlata ha il limite invalicabile della distanza? No, ad
oggi la parola parlata rimane attraverso per esempio la registrazione di un atto di
comunicazione, attraverso il telefono che può sostituire le precedenti lettere scritte, la televisione.
Ciò nonostante la scrittura rimane una grande invenzione perché lascia una traccia scritta di ciò
che comunichiamo. Diviene possibile:
- rivedere, controllare, ripensare un’idea, un dato, un’informazione;
- dare saldezza e durata alle leggi, alle tradizioni e ai riti ritenuti importanti per la vita di una
comunità;
La scrittura offre un supporto esterno alla memoria, consentendone un’indefinita estensione. C’è
un’evidente decontestualizzazione del linguaggio: un testo scritto non solo funziona n assenza dei gesti e
dei tratti paralinguistici del mittente, ma non tiene conto della situazione pratica e psicologica in cui si
trova il destinatario nel momento in cui lo riceve e lo legge. Vi è quindi un potenziamento della
determinatezza e della durata semiotica, ma insieme vi è anche un necessario raffreddamento della
comunicazione.
La scrittura introduce nel discorso una ‘formalità’ molto maggiore rispetto al parlato. Dovendo
normalmente funzionare in assenza del mittente, è costretta a rendere espliciti tutti quei riferimenti che,
conversando a tu per tu, possono rimanere nel ‘non detto’, essendo presenti agli occhi e alla conoscenza
degli interlocutori (per esempio, l’uso nel parlato dei cosiddetti ‘deittici’ questo, quello, lì e simili).
Inoltre, la scrittura è per sua natura correlata alla ritualizzazione e all’istituzionalizzazione dei testi:
tutte le volte che il testo abbisogni di una sua determinatezza (stipulare un contratto, fissare una regola o
una legge) il ricorso alla scrittura diviene imprescindibile.
Non a caso, scrittura e grammaticalizzazione (la definizione normativa delle lingue) vanno di pari passo.
Questo processo raggiunge il suo acme con l’invenzione e la diffusione della stampa. La possibilità di
raggiungere centinaia e centinaia di persone con un testo identico, esente da migliaia di varianti
depositate fino ad allora dai copisti, induce naturalmente ad un atteggiamento di selezione: diviene
sensato ed estremamente vantaggioso fissare delle convenzioni ortografiche, la cui generalizzazione
facilita la lettura e la comprensione e spinge la standardizzazione della lingua.
Tipi di scrittura
Nell’arco della sua storia multi-millenaria la scrittura ha assunto numerosissime forme e ha svolte, nelle
società che l’hanno adottata, molteplici funzioni diverse.
Un criterio per orientarsi può essere quello di distinguere forme di scrittura orientate a esprimere
direttamente aspetti del mondo mediane strategie pittografiche, o concetti o elementi di pensiero
mediante strategie ideografiche (o meglio, semiasografiche); e forme di scrittura che esprimono il
pensiero facendo riferimento alla lingua: in questo secondo caso potremmo ulteriormente
distinguere tra scritture che cifrano intere parole (sistemi logografici), sillabe (scritture
sillabiche) oppure fonemi (scritture alfabetiche).
- Geroglifici: scrittura pittografica
- Scrittura Accadica: scrittura ideografica (simbolo, idea che rimanda ad un significato)
- Cinese: scrittura logografica, ogni segno corrisponde ad una parola.
- Greco: scrittura fonetica alfabetica ogni suono corrisponde ad una lettera
- Giapponese: scrittura fonetica sillabica ogni suono corrisponde ad una sillaba
Si è a lungo ipotizzata una trafila che porterebbe dalla pittografia all’alfabeto seguendo una
logica di sviluppo interno, da una massima iconicità a una massima arbitrarietà. Si tratta di un
punto di vista sbagliato, legato all’erronea opinione che la scrittura serva essenzialmente a
riprodurre la parola parlata.
Si tratta invece si comprendere le singole strategie scrittorie nella loro particolarità tecnica e
nella diversità dei modi con cui viene adempiuta la funzione semiotica di fissare graficamente
l’informazione. Ogni scrittura attestata si presenta come un fenomeno culturale complesso.
Inoltre, anche il mondo di oggi fa talvolta ricorso a forme di scrittura che potremmo
superficialmente ritenere un’esclusiva degli antichi.
Pittogrammi: fissano graficamente un’immagine somigliante a quella di oggetti o dati del mondo reale,
che formano così il significato referenziale del segno. Ancora oggi utilizziamo i pittogrammi per indicare
senza equivoci referenti e regole di comportamento a essi collegati che sono comprensibili soltanto
all’interno della nostra cultura (per esempio, i pittogrammi rappresentanti l’automobile e il TIR sulle
autostrade in prossimità delle frontiere: nella loro immediatezza indicano in quale corsia i diversi mezzi
devono inserirsi per effettuare i controlli).
Elementi pittografici sono presenti anche nei sistemi di scrittura egiziana e cinese combinandosi però ad
elementi non pittografici:
Geroglifici: attestati intorno al III millennio a.C., vennero usati sia su monumenti che su papiro. Si
servono largamente di segni che rappresentano oggetti del mondo reale, ovvero di pittogrammi.
Utilizzano però, anche segni a carattere fonetico e altri con funzione determinativa che mettono
- L’italiano: troviamo lo stesso grafema c davanti alla vocale e ed alla vocale a, eppure si tratta
di fonemi diversi davanti alla vocale centrale bassa a si realizza una occlusiva velare /k/;
davanti alla anteriore si realizza una affricata velare /ʧ/; tant’è vero che per ottenere il
carattere velare dinanzi a e ed i si aggiunge la per convenzione la cosiddetta consonante
‘muta’ h.
- I due gradi di apertura di e ed o che in italiano hanno un valore distintivo ma che non sono
manifestati a livello grafico.
- Leggendo testi antichi si può notare come la lingua sia cambiata nel corso dei secoli. Per
esempio, nei testi centromeridionali del Duecento, troviamo b dove ci aspetteremmo v
(scaldaba, trabolse). Queste oscillazioni sono state risolte dalla diffusione della stampa.
Testo ed ipertesto
Secondo la definizione di Landow, letterato statunitense, l’ipertesto è un testo composto da blocchi di
parole (o immagini) collegate elettronicamente secondo percorsi multipli, catene o percorsi (trails), in
una testualità aperta e sempre incompiuta descritta dai termini ‘collegamento’ (link), ‘nodo’ (node), ‘rete’
(network), e ‘percorso’ (path) più testi all’interno dello stesso testo.
Esempi di ipertesto:
- #demauro (invenzione recente a seguito della creazione dei social network). Dal tag si può
risalire ad altri ipertesti, procedimento inverso rispetto a quello sopra. Il tag è l’etichetta
attraverso la quale io contestualizzo l’ipertesto (per esempio i tag o gli hashtag di Instagram).
Il messaggio che un testo offre non si presenta più nella forma lineare tradizionale (come in un libro), ma
in una forma pluriplanare, dove quasi da ciascun punto si può risalire a informazioni, commenti,
integrazioni, approfondimenti situati ad altri livelli testuali cui si ha accesso tramite link.
Il testo è pertanto organizzato come un sistema di conoscenze che è possibile percorrere tutto o in parte,
secondo il o i percorsi suggeriti dall’autore o secondo altri, selezionati dal fruitore fra i molti possibili.
Inoltre, l’ipertesto può includere numerosi links che non rimandano a blocchi di informazione messi lì
dall’autore, ma a punti di altri ipertesti, i quali a loro volta possono essere collegati ad altri e così via, in
una fuga di percorsi di lettura teoricamente illimitata.
L’ipertesto simula nel modo migliore il funzionamento non ‘dizionariale’, non chiuso del sapere e
rappresenta un’apertura concreta verso l’enciclopedia fitta di relazioni e di intersezioni non del tutto
calcolabili. L’ipertesto dipende molto dall’autonomia del lettore, dalle conoscenze enciclopediche del
lettore. Online si è liberi di leggere l’ipertesto nella maniera più utile a noi.
Ipertesto si, ipertesto no?
Intorno agli ipertesti si è fatto molto rumore, sia per la novità delle tecnologie utilizzate per farli
funzionare, sia per la grande varietà di applicazioni che si possono immaginare per essi. Si è anche diffusa
una sorta di mito degli ipertesti che, si dice, annuncerebbero un profondo rivolgimento nei modi umani di
accostarsi alla realtà e di penetrarla tramite schemi conoscitivi.
La versione pessimista di questo mito sostiene che una superficiale “cultura dell’immagine” sta
sostituendosi a quella, analitica e critica, legata all’uso e al primato del linguaggio verbale.
La versione ottimista ipotizza invece che gli ipertesti inducano una libertà nell’approccio al dato
conoscitivo che si esalterebbe nella possibilità di utilizzare percorsi diversi ed alternativi a quelli previsti
dall’autore, nel carattere mai completamente chiuso e prevedibile dei collegamenti istituiti con altri
blocchi di informazione.
La rete di collegamenti che un ipertesto rende disponibile in linea di principio equivale a quella che il
lettore esperto attiva ogni volta che si accosta ad un testo organizzato linearmente. Dalla lettura di una
pagina, questo tipo di lettore ricava lo stimolo a una serie di “passeggiate inferenziali” verso molteplici
conoscenze più o meno direttamente connesse alla pagina in questione. Si pensi a come una parola
trovata in un testo, un riferimento ad un personaggio o ad un episodio, ci induca a muoverci verso altri
testi: verbali (come i manuali o i dizionari) o basati su altri mezzi espressivi (quadri, fotografie, sequenze
di film).
Il lettore esperto è quello che sa autonomamente cogliere lo spazio per il link siffatti, e sa reperire
da solo le fonti necessarie a soddisfare le sue curiosità, le sue domande o deduzioni occasionate
dal testo.
Gli ipertesti possono quindi facilitare la strada a chi non ha ancora una capacità del genere,
mettendogli a disposizione una gamma di possibili collegamenti, dal cui esempio si possano
eventualmente ricavare e apprendere strategie autonome di ricerca.
Gli ipertesti non fanno altro che riprodurre su larga scala una procedura di conoscenza che sta
tutta dentro la mente umana, simulandone il funzionamento e rendendolo meglio osservabile.
Ciò è enormemente utile, ma non presenta alcunché di rivoluzionario.
- Analisi linguistica: indipendente dal contesto. Il testo può essere decontestualizzato: per
esempio, l’analisi grammaticale o logica di un periodo. Oppure, l’analisi della divina
commedia: non siamo nel periodo di Dante ma si può analizzare.
- Analisi semiotica: il testo deve essere collocato in un contesto. Significa fare un’analisi della
comunicazione che esiste solo se c’è un contesto.
I testi letterari ci danno modo di illustrare questo passaggio. Sono testi materiati di parole, ovvero delle
risorse linguistiche di una data epoca storica, che un qualche autore o autrice modella secondo
particolari propensioni, condizionate da una parte dalla tradizione di genere in cui si inserisce, dall’altra
da proprie scelte individuali (stie). Inoltre, ogni testo letterario circola in un preciso spazio comunicativo,
più o meno diverso dal nostro: già la forma scritta che assume, la grafia in cui viene steso, il supporto che
lo ospita, ci dicono molto sui lettori reali o possibili che quel testo ha avuto, sull’ambiente in cui è
circolato, sulla funzione sociale che ha adempiuto.
Due sono gli approcci all’analisi semiotica di un testo:
Approccio storico-filologico: questo approccio presuppone gli strumenti della filologia e della
storia della lingua: dati linguistici socialmente e culturalmente, vocabolari, grammatiche
storiche, repertori metrici ecc.
Studiare la sua evoluzione.
Approccio orientato alla fruizione: sposta l’attenzione dai meccanismi di composizione
dell’autore e dell’opera ai meccanismi di fruizione del testo. Fruizione implica un ruolo non
passivo da parte di chi legge o ascolta; e implica che il senso del testo non sia una volta per tutte
consegnato all’ora e qui della sua storicità, ma in un certo senso si riproduca ogni qual volta che
quel testo viene preso in considerazione dai suoi tanti possibili lettori, di epoche e livelli
socioculturali diversi.
Lettura e interpretazione del testo
La lettura, secondo il filosofo Iser, è un vero e proprio evento, che fa vivere il testo proprio e solo nel
momento in cui si consuma: fuori di questo processo dinamico, di questo investimento di attenzione,
fantasia e razionalità effettuato dal lettore, il testo a rigore non esiste.
Iser è, insieme a Jauss, il maggiore rappresentante della Scuola di Costanza, un gruppo di ricerca cui si
deve la cosiddetta Teoria della ricezione, interessata alle modalità con cui i testi vengono letti ed
interpretati. Ciò si può fare:
In chiave storica: indagando la gamma di sensi e percorsi interpretativi, talvolta radicalmente
diversi, accumulatisi sopra lo stesso testo col passare delle epoche.
In chiave fenomenologica e sincronica: focalizzando i meccanismi di interpretazione che il singolo
lettore mette in opera, passo dopo passo, nel processo di lettura. Viene allora in primo piano lo
sforzo che il lettore fa nel dare un senso unitario al testo, mettendone assieme e gerarchizzando
fra loro gli indizi che gli si rendono via via disponibili. Il lettore si interrogherà, sorgeranno
domande spontanee nel corso di una lettura appassionante, tutto ciò è tipico della dinamica
dell’interpretazione.
Bisogna dunque ritenere che quanto l’autore ha inteso come ‘messaggio’ del testo sia solo un’ipotesi sulle
sue possibili interpretazioni.
Come spiega Eco (Lector in fabula, 1979), il lettore “collabora” alla costruzione del senso del testo
focalizzandone elementi e dando loro unità anche in maniera non prevedibile dall’autore: accade
frequentemente che il lettore veda in un testo aspetti a cui l’autore non aveva mai pensato o aveva
ritenuto di secondaria importanza. In ciò dobbiamo vedere un carattere fisiologico, originato dal
carattere semiotico del processo di lettura, legato dunque alla necessaria asimmetria del fruitore, con la
sua enciclopedia culturale, le sue propensioni e il suo sistema di attese rispetto all’autore.
Ai fini di una considerazione semiotica del testo letterario bisogna quindi distinguere:
Da una parte fra l’autore materiale del testo (con certe caratteristiche storiche, certe convinzioni
ideologiche…) e il narratore (che è già una figura del testo e può assumere posizioni distinte);
Dall’altra fra il destinatario atteso, il lettore implicito o modello a cui il testo rivolge i suoi appelli,
e il lettore reale, storicamente determinato che ne raccoglie il messaggio nella realtà e ne
sviluppa autonomamente il valore.
In mezzo a queste quattro figure si inserisce il testo, che assumerà senso a seconda dei patti collaborativi
che tali figure stipuleranno nel tempo.
Tutto è testo
Finora abbiamo usato il termine testo in prevalente riferimento al linguaggio verbale e a quella
sottocomponente delle sue realizzazioni che ha a che fare con la letteratura. Tuttavia, le nozioni di
coesione e coerenza, ma anche le modalità possibili di fruizione del testo, non valgono solo per il mondo
della verbalità:
- Sempre più diffusa è la consuetudine di considerare testi tutte le forme di produzione culturale
aventi a che fare con le arti. Da tale punto di vista, esse possono essere considerate testi, avendo
quei caratteri di organizzazione interna e di compiutezza semantico-comunicativa
tradizionalmente attribuiti ai testi in senso stretto.
negli organismi unicellulari, è quella di stabilire identità e differenze: applicando il criterio della
pertinenza che, sulla base della presenza/assenza di almeno un tratto, consente di dividere l’universo in
due classi complementari, i viventi riescono a identificare ciò che è utile alla loro sopravvivenza,
differenziandolo da ciò che è ostile.
La selezione di tali tratti non è universale, ma specifica per ogni specie, sulla base di caratteristiche del
sistema percettivo ritagliate sulle prerogative fisiche del corpo.
Semiosi e categorizzazione
Vincoli del sistema percettivo e forme di categorizzazione (arbitrarie) collegate a questo stringono in
modo peculiare ciascuna specie al mondo, al “suo” mondo. Ne consegue che
il tipo di semiosi che quella specie utilizzerà sarà adattato alle potenzialità percettive della
specie;
costruirà i suoi segni sula falsariga delle capacità di categorizzazione collegate a tali
potenzialità;
avrà per oggetto il mondo ritagliato dalle caratteristiche percettive e categoriali di cui si è detto.
Quest’ultimo punto si è soliti esprimerlo con la nozione di ‘riferimento’ o ‘aggancio’ al mondo: ogni
linguaggio “si riferisce a un mondo”, “parla di un mondo”. Ciò significa che, grazie ai suoi segni, ciascun
individuo di una specie è in grado di individuare nel suo mondo gli oggetti utili, e di condividerli con gli
altri conspecifici.
Due sono le strategie possibili per identificare le ‘proprietà semiotiche’ dei codici, al fine di individuare
quali di esse si presentino, e quali no, specie per specie.
Prima strategia: indagare la capacità di servirsi di utensili. Tale strategia si basa sul presupposto
che servirsi di un oggetto reperito nell’ambiente come di uno strumento implica una capacità di
distacco dall’immediatezza e l’attribuzione di una funzione simbolica a quell’oggetto, diversa dal
puro e semplice “uso” di esso. Per esempio, alcuni scimpanzé sono in grado di usare sassi o pezzi di
legno come strumenti di difesa/offesa rispetto a potenziali nemici.
Seconda strategia: è quella di verificare se le ben note funzioni del linguaggio discusse da
Jakobson siano esclusive dell’uomo o si ritrovino in altre specie. Tale strategia dà risultati
sorprendenti:
a. La funzione referenziale appare comune per esempio alle api bottinatrici.
b. La funzione conativa, che fa appello al ricevente, si ritrova nella complessa tipologia delle
close calls, ovvero i segnali utilizzati all’interno di un gruppo per ribadirne l’unità o per
differenziare i ruoli gerarchici (come in tutti i complessi rituali connessi al corteggiamento e
all’accoppiamento).
c. Infine, abbiamo segnali metalinguistici in specie diverse, collegati a situazioni di gioco,
all’annuncio di attacco e simili.
Non riusciremmo quindi a trovare una sola funzione che sia esclusiva del linguaggio umano, mentre può
benissimo succedere che singole funzioni non si ritrovino in questa o quella specie, mentre si ritrovano,
tutte, nella parola.
Del resto, anche il tentativo di individuare la proprietà semiotica specificamente umana non ha dato esiti
diversi:
a. La vocalità negata agli scimpanzé, si ritrova sviluppatissima negli uccelli;
b. La creatività regolare è risultata alla portata di diverse specie;
c. La creatività non regolare si ritrova in alcune scimmie;
d. La doppia articolazione è risultata possibile per gli scimpanzé, in una situazione di
apprendimento artificiale di notevole sofisticazione.
In conclusione, almeno per quanto riguarda la distribuzione delle proprietà semiotiche, il linguaggio
umano si differenzia da quelli degli altri animali non per la presenza di una caratteristica specifica, bensì
per la compresenza e la finissima integrazione di altre proprietà che altre specie rivelano solo
separatamente.
La superiorità semiotica umana è dunque fuori discussione e nessuna ricerca comparata potrà ridurre il
significato di ciò. Ma l’ammissione pacifica degli elementi di discontinuità può essere fatta senza negare
l’esistenza si una filiera comune, di una sostanziale continuità.
La mente
Se il linguaggio non è un’esclusiva degli umani, ma si ritrova in molte specie diverse, che cosa dobbiamo
dire della ‘mente, ovvero della proprietà che un’imponente tradizione di pensiero, sia filosofica che
religiosa, ritiene distintiva dell’uomo?
La domanda si pone su due versanti: quello del confronto tra esseri umani e altri animali, e quello del
confronto tra esseri umani e macchine ‘intelligenti’.
Dato che la semiosi è così largamente diffusa nel mondo animale, altrettanto diffusa deve essere una
qualche capacità di pensiero che possiamo identificare come ‘mente’.
In realtà lo stato del dibattito teorico non ammette una conclusione così ‘liberale’. Si tratta infatti, in
primo luogo, di mettersi d’accordo su che cosa debba essere inteso con ‘mente’; in secondo luogo, di tener
ben distinti il caso delle menti ‘naturali’ da quello delle ‘menti’ artificiali.
Che cosa dobbiamo dunque intendere con mente?
Nella seconda metà del Novecento ha avuto largo credito la teoria dsecondo la quale avere una mente
significa elaborare ‘rappresentazioni’ del mondo nella forma di ‘simboli’ retti da certe regole di
combinazione. Una mente del genere sarebbe dunque in sostanza un programma di calcolo di
informazioni, il quale lavorerebbe indipendentemente dal supporto fisico che lo ospita: un software
implementabile su diversi hardwares.
Tale teoria si è imposta nel quadro della scienza dei computer e ha trovato il suo punto di forza nell’idea
del matematico Turing, formulata in un famoso articolo del 1950, Computing Machinery and Intelligence,
secondo la quale, se si danno situazioni in cui le macchine compiono operazioni equivalenti a quelle
compiute dagli esseri “intelligenti” (gli umani), si può senz’altro dire che tali macchine pensano. Il
nocciolo del pensare starebbe insomma nella ‘funzione’ concretamente svolta, non nela sua eventuale
base biologica. Tutta la corrente di pensiero nota come ‘cognitivismo’ fa riferimento a tali presupposti. Il
massimo esponente d tale corrente è Chomsky.
Vi sono tuttavia ragioni che portano a rivedere questi assunti, sia per quanto riguarda il rapporto tra
mente umana e menti animali, sia per quanto riguarda il rapporto tra menti biologiche e artificiali.
Una prima obiezione è stata formulata da John Searle:
Nel suo celebre esperimento mentale della ‘camera cinese’, Searle osserva che un computer
potrebbe rispondere correttamente a delle domande formulate in cinese elaborando in base ai
dati in suo possesso (un repertorio di ideogrammi e una grammatica cinese). La sua capacità di
calcolo potrebbe addirittura far credere all’interrogante che egli sia un essere umano.
Ma, argomenta Searle, le cose non stanno così. Anche se ha fornito risposte corrette, il computer
ha solamente manipolato sintatticamente dei simboli, senza capire alcunché del loro ‘significato’.
Poiché la semantica resta fuori da un universo computazionale, non si può dire che i computer
abbiano una vera e propria mente.
Una seconda obiezione prende di petto le concezioni ‘riduzioniste’ che finiscono col ridurre la mente a una
mera espressione dei processi elettrici e chimici che hanno luogo nel cervello.
La mente umana sembra essere qualcosa di più della somma delle sue infrastrutture fisiche:
fenomeni come le emozioni, le credenze, i desideri, i ricordi ‘emergono’ da tali infrastrutture e
assumono realtà autonome.
Le due obiezioni appena presentate hanno importanti conseguenze per il nostro problema. Da una parte
l’eventualità che quella del computer possa essere considerata un ente a tutti gli effetti viene
ridimensionata, distinguendo così fra le capacità semiotiche e di calcolo di una macchina di tal fatta e le
sue proprietà mentali; dall’altra, viene messa al centro della discussione la particolarità della mente
naturale, biologica, caratterizzata proprio da quella plasticità nei rispetti del contesto che il cognitivismo
ritiene inessenziale.
Searle direbbe che le menti umane sono capaci di intenzionalità originaria o primaria, giacché sono
capaci di “riferirsi a” oggetti del mondo mediante opinioni, credenze, desideri. I computer invece
posseggono solo un’intenzionalità derivata, perché istituita artificialmente dall’uomo.
Pubblicità e manipolazione
Il momento narrativo specifico a cui la comunicazione pubblicitaria è riconducibile, nel quadro di
quell’ampia sequenza d’azione che è il comportamento d’acquisto, è quello della ‘Manipolazione’, ossia il
momento in cui si costruisce per un determinato Soggetto il desiderio (voler-fare) o la necessità (dover-
fare) di delineare un certo programma di azione finalizzato al congiungimento con un Valore.
Joseph Courtés, il Percorso Narrativo Canonico:
L’azione: costituisce il momento centrale, ciò che viene compiuto, fatto, dal Soggetto in questione e si
suddivide a sua volta in due aspetti:
a. Competenza; saper e poter fare
b. Performanza: il fare vero e proprio
La Performanza presuppone la Competenza: non si può far nulla senza la capacità di farlo.
L’azione presuppone a sua volta una Manipolazione, ossia un momento narrativo in cui il Soggetto si
persuade o viene persuaso a compiere quella determinata azione. Si tratta dunque del momento in cui si
costituisce la “motivazione” ad agire del soggetto agente, ossia il suo voler- o dover-fare.
Infine, sull’azione si esercita una Sanzione, un giudizio volto a valutare la rispondenza dell’azione alla
motivazione da cui è stata generata, che pertanto presuppone sia l’Azione che la Manipolazione, in
quanto quest’ultima è presupposta dall’Azione.
- In una sequenza d’acquisto stereotipata il momento dell’Azione sarà quello dell’acquisto vero e
proprio (Performanza), il quale suppone una Competenza, ovvero un saper-fare (cosa, dove e
come acquistare) e un poter-fare (il possesso del denaro necessario, la disponibilità del prodotto).
Quest’azione presupporrà una Manipolazione, ovvero un momento in cui il Soggetto autore del
futuro acquisto si convince della desiderabilità o della necessità del prodotto da acquistare.
Questa motivazione si tradurrà in un’immagine (‘immagine scopo’) in cui il Soggetto si
rappresenta congiunto al servizio o al prodotto in questione. Infine, ci sarà un giudizio, una
Sanzione, che potrà essere esercitata dall’autore dell’acquisto stesso (manifestato dalla sua
maggiore o minore soddisfazione) o da qualche altro attore sociale.
L’area di pertinenza della comunicazione pubblicitaria all’interno di questo quadro è quella della
formazione del convincimento di un attore sociale circa la desiderabilità o l’indispensabilità di un qualche
bene o servizio, che sarà così spinto ad acquistare.
Il testo pubblicitario si caratterizza per il fatto di costruire un momento particolare, quello della
Manipolazione, dentro un più ampio processo socio-semiotico. Ciò non significa che il testo metta in scena
direttamente ed esclusivamente quello stesso processo di cui fa parte (l’acquisto di un prodotto). Anzi,
sono pochi i testi pubblicitari incentrati sulla rappresentazione del processo d’acquisto: mostrare la
persuasione per persuadere equivale a uno svelamento del gioco, con conseguente rischio di perdita di
efficacia.
Difficilmente un testo pubblicitario dirà che sta cercando di convincerci a comprare qualcosa, ma lavora il
più delle volte in modo sottile alla costruzione dell’unicità e della desiderabilità di quel dato bene o
servizio. In termini semiotici lavorerà alla definizione del Valore di quell’Oggetto particolare che si vuole
che sia acquistato o di quella marca alla quale si vuole che venga prestata fiducia.
La ‘pubblicità di prodotto’ e la ‘pubblicità di marca’ costituiscono due sottogeneri particolari del testo
pubblicitario. La prima lavora di solito alla presentazione delle caratteristiche peculiari del prodotto
mostrandone i possibili, o impossibili, pregi, che potrebbero derivare dal suo possesso o uso; mentre la
seconda lavora di solito alla costruzione di una vera e propria identità di un Soggetto particolare a cui si
dovrebbe prestare fiducia indipendentemente dalle qualità peculiari del singolo prodotto.
In tal modo, all’interno del testo pubblicitario, il prodotto assume frequentemente il ruolo narrativo del
cosiddetto Aiutante; mentre la marca, con la sua pretesa di condensare o di presentare un sistema di
valori peculiare e di trasformare le ‘credenze’ e il modo di essere del destinatario, tende ad assumere il
ruolo narrativo del Destinante.
In entrambi i casi, la comunicazione pubblicitaria si realizza attraverso testi che poco o nulla hanno a che
fare con la narrazione di cui fanno parte. Tali testi mettono in scena altre narrazioni, altri racconti che
potranno ad esempio essere costruiti intorno all’uso degli oggetti pubblicizzati o agli esiti di tali usi,
sottolineandone l’efficacia nel risolvere un problema, i benefici che potrebbero scaturire dal loro uso o
possesso, etc.
Il testo pubblicitario si trova così a dispiegare tutte le possibili strategie narrative, esibendo strutture più
o meno complesse, intrecci che toccano tutte le fasi del Percorso Narrativo Canonico e complicazioni a
incastro dello stesso, o micro-sequenze che focalizzano meno di un momento narrativo lasciando
all’intuito dello spettatore il compito di tracciarne i contorni.
La focalizzazione sull’uno o sull’altro dei diversi momenti narrativi possibili può anche essere assunta
quale vero e proprio criterio per la definizione di una tipologia dei generi pubblicitari:
- Comunicazione pubblicitaria “avventurosa”: incentrata sulla prova che il soggetto compie grazie
all’apporto del prodotto;
- Comunicazione pubblicitaria “morale”: incentrata sulla glorificazione dell’eroe che ha finalmente
compiuto la prova e ottiene l’approvazione sociale;
- Comunicazione pubblicitaria “manipolatoria”: non mostra le imprese o gli esiti delle imprese
compiuti grazie all’apporto irrinunciabile del prodotto, ma i valori in cui il Soggetto viene
chiamato a identificarsi e che vengono presentati come incarnati o esemplificati da un prodotto o
da una marca a cui dovrebbe congiungersi (ciò avviene nelle pubblicità di profumi o
superalcolici).
‘Oggetto’ si riferisce a un fenomeno percepibile, a un’entità del mondo che ci circonda e che può
circolare all’interno di esso.
‘Valore’ si riferisce invece a qualcosa di astratto, di immanente agli oggetti o eventualmente
dissociato da qualsiasi entità percepibile (la libertà, la giustizia etc.); qualcosa che però
costituisce lo spirito e l’anima di quegli oggetti e, soprattutto, ciò che rende un dato Oggetto
interessante per un qualsiasi Soggetto.
Il lavoro della comunicazione pubblicitaria viene così a specificarsi come lavoro di associazione di Valori
ad Oggetti.
Esempio: l’automobile
- Possiamo immaginarci comunicazioni pubblicitarie che ne esaltino la potenza, l’eleganza,
l’unicità e quindi la capacità di farci sognare, di farci provare l’ebbrezza della velocità o di darci
la libertà facendoci raggiungere paesi remoti.
Questi e molti altri sono i valori che possono essere associati all’oggetto automobile e che faranno
sì che un certo “Oggetto automobile” sia percepito come diverso sia dagli altri “Oggetti
automobile” sia da altri oggetti che possono ricoprire le medesime funzioni.
Tutti questi valori non sono necessariamente esclusivi fra loro e possono essere variamente combinati e
gerarchizzati, ma a volte possono essere incompatibili, e allora si tratterà di scegliere fra di essi, pena un
rischio di incoerenza che potrebbe minacciare la credibilità e l’efficacia persuasiva dell’insieme.
In semiotica i valori possono essere analizzati in astratto, indipendentemente dal loro contesto di
occorrenza, al fine di determinarne le relazioni logiche e semantiche, ma nella loro esistenza, ovvero la
loro concreta manifestazione all’interno di un testo non può essere indipendente da un Soggetto per il
quale quei Valori abbiano o possano avere effettivamente un “valore”: i Valori cioè sono sempre ‘Valori
per qualcuno’.
- L’automobile sarà per qualcuno Oggetto di Valore grazie alla potenza e velocità che può
esprimere;
- Per qualcun altro lo sarà per le sue proprietà socialmente distintive
- Mentre per qualcun altro ancora lo sarà perché permette spostamenti in modo economico.
Si delineano così diversi tipi di Valorizzazione connessi ad uno stesso genere di Oggetti, ma allo stesso
tempo anche diversi tipi di Soggetto, ognuno dei quali si caratterizza per l’essere attratto da determinati
valori invece che da altri.
Così la comunicazione pubblicitaria non mette in circolazione solo Oggetti valorizzati, ma anche Soggetti,
parimenti valorizzati in quanto caratterizzati da una tensione o da un desiderio verso certi determinati
Valori. Soggetti a cui il pubblico reale è invitato ad adeguarsi riconoscendovi stili e modi di vita sanzionati
positivamente: siano Soggetti “bravi”, “belli”, “astuti” o “saggi” saranno sempre soggetti a un
riconoscimento positivo all’interno delle comunicazioni in cui trovano spazio.
che il suo valore è un valore d’uso, in quanto il suo possesso non è fine a sé stesso, ma è
funzionale al conseguimento di un altro valore.
In comunicazioni centrate sulla Manipolazione, e spesso anche in quelle centrate sulla Sanzione, il
prodotto non viene caricato di valori funzionali: il prodotto “non serve a”, è anzi puramente fine
a sé stesso in quanto coincide con il valore finale a cui il Soggetto mira. In termini semiotici si dirà
che il suo valore è un valore di base, in quanto il suo possesso non è un mezzo per fare
qualcos’altro.
Nel caso particolare del quadrato dei valori di consumo, lo strumento serve a cogliere il tipo di valore,
ovvero il suo essere valore d’uso o valore di base.
Sull’asse dei contrari ( - -- - ) troviamo infatti due lessicalizzazioni convenzionali per
indicare queste forme di valorizzazione:
o Valori pratici: per indicare i valori che “servono a” (valori d’uso);
o Valori utopici: per indicare i valori che “non servono a” (valori di base);
Proiettando i contraddittori ( ), troveremo una negazione:
o Dei valori pratici: valori non pratici ludici. Nella nostra cultura l’idea di non-praticità
si associa alla ludicità, al gioco.
che conosciamo solo per averne notizia da altri testi (film, trasmissioni tv) e che nulla ci garantisce che
nella vita reale sia proprio così come appare.
L’ancoraggio alla realtà extra-testuale comporta anche dei rischi, in quanto fa sì che la credibilità di
quanto viene enunciato nel testo sia vincolata all’attendibilità dell’istanza enunciativa, chiamata a
concretizzarsi in un vero e proprio Soggetto Enunciatore: se c’è qualcuno che afferma ciò che viene detto
nel testo, chi è questo qualcuno e perché dovrei credere a quello che dice? La comunicazione pubblicitaria
è chiamata a lavorare non solo alla costruzione del valore del prodotto pubblicizzato ma, anche a quella
della ‘voce’ che afferma tale valorizzazione per rendere la valorizzazione stessa credibile. Deve cioè
lavorare alla costruzione di una accettabile Identità del Soggetto enunciatore. Identità che tra le righe
sarà ovviamente costruita e non data naturalmente.
Definire cosa sia la vaghezza e quali siano le sue manifestazioni e i suoi effetti è un’opera non scontata.
Gli studi linguistici e semiotici che percorrono gli ultimi anni dell’Ottocento e tutto il Novecento appaiono
carenti di ricerche in grado di offrire ricognizione del problema.
Per la verità per simili difficoltà non manca una spiegazione: la maggior parte dei linguisti e dei
semiologi si occupa poco o niente di vaghezza, e se lo fa, non rende mai questa proprietà il nucleo centrale
della propria riflessione; ma l’aver collocato la vaghezza tra i problemi del linguaggio e delle lingue
storico-naturali ci obbliga a ripercorrere la strada tracciata dalle diverse discipline.
11. La vaghezza dei logici e dei filosofi
Nella storia del pensiero occidentale, i logici e filosofi sono stati i primi a trovarsi a fare i conti con la
vaghezza. Per coloro che ne hanno intravisto i legami con il linguaggio, si può dire che la vaghezza abbia
sempre rappresentato un ostacolo fastidioso: le loro discussioni hanno rischiato di arenarsi di fronte ai
problemi creati da questa proprietà.
L’obiettivo è quasi sempre stato quello o di eliminare la vaghezza, o di governarla nel migliore dei modi
possibili, attraverso un trattamento di tipo logico-formale.
I primi tentativi di “gestione” della vaghezza risalgono al mondo antico e a una serie di paradossi
attribuiti da Diogene Laerzio, nelle Vite dei filosofi, al logico megarico Eublide, un contemporaneo di
Aristotele: il paradosso dell’Uomo Calvo e del Mucchio.
Per simili puzzle, e per l’idea che ad essi soggiace, e cioè che certe proprietà appartengono a una
determinata categoria solo quando certe condizioni hanno superato una determinata soglia, la vaghezza
dei termini che indicano tali proprietà sembrerebbe in grado di condizionare la possibilità di determinare
con esattezza a cosa la suddetta soglia corrisponda.
Dai paradossi in poi, alla vaghezza si lega in filosofia l’immagine di un continuum lungo il quale si
verificano costantemente impercettibili cambiamenti.
Non manca chi, cercando una soluzione agli antichi paradossi, spinge le proprie ricerche verso logiche e
semantiche alternative, riprendendo, ma anche superando, sia la nozione di Frege – che guardava alla
vaghezza come un difetto del linguaggio naturale – sia quella di Russell che legava la vaghezza al
linguaggio naturale, ma non per questo la considerava un difetto da eliminare.
All’interno di tali logiche e semantiche, c’è chi ha ipotizzato l’esistenza di veri e propri buchi nel valore di
verità delle proposizioni vaghe, considerando come proprio le proposizioni contenenti termini vaghi siano
tali da non potersi dire in alcun modo né vere né false; accanto ad essi sono i sostenitori del cosiddetto
“terzo valore di verità” attribuibile, perché neutro, indeterminato o indefinito, a espressioni contenenti
termini vaghi; oppure i seguaci della cosiddetta logica fuzzy, che alle espressioni contenenti termini vaghi
sia possibile riferirsi attraverso uno spettro di valori di verità intermedi, compresi tra 0 e 1, dove 0 indica
“completamente falso” e 1 “completamente vero”.
Il ricorso a logiche e a semantiche alternative non rappresenta attualmente l’unica via trattare la
vaghezza: non manca infatti tra i filosofi chi sostiene, come Williamson, che la vaghezza risulti
paragonabile a una sorta di ignoranza dovuta ai limiti del nostro conoscere.
Del tutto distante dalle precedenti è la posizione di coloro che tentano di trattare la vaghezza
classificandola tra i problemi non linguistici: secondo un ristretto numero di filosofi contemporanei, non
sarebbe infatti il linguaggio a essere vago ma, al contrario, sarebbero gli “oggetti” (colline, gatti, etc.) a
presentare confini spaziali e temporali indefiniti, sfumati, evanescenti. Di conseguenza, il linguaggio di cui
ci serviamo per descrivere simili oggetti non è vago in sé, ma lo diviene in virtù della vaghezza
dell’oggetto descritto.
esse si associa un carattere di intrinseca incertezza che non può essere fatta risalire a un difetto di
conoscenza da parte del parlante.
Del patrimonio linguistico del parlante fanno parte usi ampiamenti incerti, abitudini linguistiche
indeterminate e così destinate a rimanere, tali che l’incertezza ad esse intrinseca non potrebbe neppure
risolversi attraverso un’operazione di accrescimento delle informazioni provenienti dal mondo esterno.
La definizione vede Peirce impegnato nel distinguere la vaghezza da una proprietà consimile, la
generalità: se “generali” sono proposizioni del tipo Man is mortal, vaghe possono dirsi proposizioni quali
This month a great event is to happen. Le proposizioni vaghe sono quelle che mancano di specificazione,
l’esempio citato si limita a dire che un evento accade in questo mese, ma non specifica di quale evento si
tratti.
La definizione di Peirce presenta limiti che non ne favoriscono il pieno distacco da posizioni più classiche.
Peirce guarda infatti all’esistenza di espressioni vaghe e alla situazione di incertezza pragmatica ad esse
legata come a dati di fatto ineliminabili, forse perché costitutivi dell’essere stesso della semiosi verbale;
ma ciò non gli impedisce di dare un giudizio negativo su tali espressioni. Esse popolano il linguaggio, ma
ciò non significa che rappresentino un vantaggio per i parlanti.
Secondo Black è importante non confondere la vaghezza della sua applicazione a oggetti differenti per
grandezza, figura e materiale con la indeterminatezza del vocabolo. Quando si parla di indeterminatezza
del vocabolo “sedia” si ha speciale riguardo al fatto che possono presentarsi degli oggetti la cui
appartenenza alla classe delle sedie è incerta o dubbia.
Se ne ricava un concetto di vaghezza pragmatico che concerne il rapporto tra “simboli” e “simbolizzato”, e
l’applicazione di un simbolo all’interno di un linguaggio governato da leggi per le quali la mancanza di
precisione non sembrerebbe costituire un problema.
Black tenta di andare al di là della semplice definizione ed escogita un esperimento finalizzato alla
misurazione della “consistenza funzionale” di un simbolo vago, il cosiddetto “profilo di consistenza”. Tale
esperimento è basato sul presupposto secondo cui se la vaghezza di una parola include variazioni nella
sua applicazione, perché un simbolo possa venir distinto da un altro, dette variazioni devono essere
sistematiche ed obbedire a determinate leggi statistiche.
Nelle operazioni di misurazione messe a punto da Black è coinvolto un gruppo di parlanti, che si presume
condivida abitudini linguistiche sufficientemente stabili in modo tale da poter limitare le asserzioni che
contengono frequenti deviazioni dal modello. L’esperimento assume che il comportamento di un siffatto
gruppo possa fungere da modello replicabile generalizzabile a un qualsivoglia altro gruppo in
qualsivoglia altre circostanze.
Se si ripetesse la stessa domanda ad altri parlanti, con diversa collocazione nello spazio e nel tempo, il
risultato che si otterrebbe sarebbe, secondo l’ipotesi di Black, praticamente lo stesso.
Al gruppo selezionato viene affidato il compito di esprimere un giudizio circa il possesso, da parte di un
dato oggetto X, delle proprietà L. L’esperimento procede interrogando ciascuno dei parlanti, dividendo le
risposte affermative da quelle negative e assegnando a ciascuna risposta un numero.
Traducendo in un grafico le risposte dei parlanti interrogati sulla natura di un simbolo presupposto vago,
Black osserva che la linea che si ottiene non è perfettamente verticale, ma ha un andamento del tutto
particolare.
L’esatta forma della curva di consistenza varia secondo il simbolo considerato; un simbolo assai preciso
presenta per curva di consistenza una retta quasi parallela all’asse orizzontale. Il simbolo assai
determinato, ma non ambiguo, ha invece un profilo di consistenza che si accosta ad una linea retta a
inclinazione costantemente negativa.
È questa linea e il numero in cui essa si traduce, ad essere indicata come “profilo di consistenza per
l’applicazione di L alla serie S” (dove S è la serie dei termini di X) e a essere considerata in pratica
equivalente alla vaghezza del simbolo.
Wittgenstein non punta a un’indiscriminata eliminazione della vaghezza, considerando che essa è parte
delle proposizioni ordinarie, ma la relega in modo chiaro e deciso proprio nel dominio di tali proposizioni.
L’esigenza di definizioni nette per le proposizioni, tipica del pensiero di Wittgenstein e funzionale al
distinguere in modo altrettanto netto tra loro verità e la loro falsità, non esclude un’incompletezza della
stessa definizione, tale da lasciare spazio alla vaghezza. Frequenti rimangono le situazioni in cui la
dimensione contestuale o l’intenzione del parlante, pur operando al fine di una riduzione della vaghezza,
non risultano tuttavia in grado di eliminarla completamente.
Il Tractatus è dominato dall’idea che guarda al linguaggio come a un codice dai confini chiaramente
definiti, un sistema, un calcolo, il cui aspetto potrebbe dirsi molto simile a quello di un metro.
Del linguaggio i nomi rappresentano i pezzi di base: essi possiedono un significato e sono connessi in una
struttura. Questa struttura è la proposizione, la quale, in virtù di tale connessione, è un’immagine di uno
“stato di cose”; l’essenza del linguaggio è tutta contenuta nella logica.
Tuttavia, nel Tractatus rimane per la vaghezza più di uno spiraglio, sia in tutti quei luoghi in cui
Wittgenstein comincia a introdurre nozioni di “uso”, sia nei momenti in cui egli sposta la propria
attenzione sul linguaggio cosiddetto “verbale”.
Nel primo caso, pur se la nozione di uso è ancora concepita solo all’interno di una grammatica, non
mancano cenni al ruolo di tale nozione nella determinazione delle relazioni semantiche tra linguaggio e
mondo.
In esse sono protagonisti la “persona” e l’interagire continuo delle dimensioni ad essa proprie, quella
naturale e quella linguistica, interagire che comporta per alcuni codici, quali le lingue storico-naturali, il
possesso di una certa proprietà che ne garantisca categorie di funzionamento “creative” dai confini
indeterminati.
Accanto a ciò, troviamo il caso del linguaggio verbale, le cui immagini, di norma in grado di veicolare in
modo autonomo i propri mezzi espressivi, sembrerebbero invece necessitare di un processo di astrazione,
in cui, per “convenzione”, viene stabilito che certe proprietà e relazioni “reali” sono raffigurate mediante
altre proprietà e relazioni di tipo completamente diverso.
È l’applicazione, l’uso che chiarisce quanto occultato e inespresso dai segni, che rende note le regole della
raffigurazione, che nel caso del linguaggio verbale non è un processo lineare ma diviene rielaborazione
attiva.
Ciò che nei segni non viene espresso lo mostra la loro applicazione. I significati dei segni primitivi si
possono spiegare mediante chiarificazione. Le chiarificazioni sono proposizioni che contengono i segni
primitivi.
Ciò implica l’impossibilità di guardare alla sintassi del linguaggio verbale come funzionante attraverso
costanti logiche: essa ha la veste di una struttura grammaticale di relazioni interne che disciplinano gli
usi, ammettendone alcuni ed escludendone altri.
L’attenzione dedicata da Wittgenstein al problema della vaghezza continua a non essere particolarmente
significativa anche nelle opere che per prime seguono il Tractatus, in una fase unanimemente
riconosciuta come di transizione.
Wittgenstein, inaugurando, a partire dal Brown Book, la nozione di gioco linguistico e approfondendo e
rielaborando quella di uso, non solo si dimostrerà sempre più attento a problemi di ordine pragmatico,
ma opererà una critica radicale all’idea di rappresentazione mentale incarnata dall’aristotelica e
tradizionale nozione di categoria (Aristotele considerava le categorie come modi in cui l’essere “si
predica” delle cose nelle proposizioni).
Il 1932 è l’anno del Big Typescript, opera in cui, sono in molti a rintracciare l’origine della dottrina delle
cosiddette Familienähnlichkeiten, le “somiglianze di famiglia”, espressioni che richiamano concetti vaghi,
non caratterizzati in modo determinato da un insieme di proprietà ben definite, espressioni che possono
dunque funzionare anche con approssimazione e incertezza, riducibili ma non completamente eliminabili.
È questo il caso di “linguaggio” e “proposizione”, termini per i quali non esiste alcun criterio o classi di
criteri predeterminati che permettano di regolarne l’applicazione. La dottrina delle somiglianze apre
definitivamente la strada all’idea che vede l’applicazione di un termine “non necessariamente governata
da un insieme ben definito di proprietà, comune a tutte le cose a cui il termine si applica e ad esse
soltanto”.
A una fase di transizione appartiene la Philosophische Grammatik, opera che vede Wittgenstein
impegnato nel criticare l’idea di una semantica ipersemplificata. Nel fare ciò, Wittgenstein relativizza la
tradizionale dicotomia fra “senso” e “non senso”, e apre la strada a una pluralità imprecisata di sensi e
anche di usi diversi: i segni usati all’interno di un determinato codice non funzionano tutti allo stesso
modo e l’esistenza di codici, calcoli, giochi linguistici diversi amplifica una tale mancanza di uniformità.
Un tale cambiamento apre ampi spazi alla vaghezza semantica: non solo diviene pressoché impossibile
stabilire in modo netto il confine tra ciò che può dirsi “senso” e ciò che non può dirsi tale, ma anche
stabilire un legame preciso e univoco tra un nome e un solo senso.
Con il Blue Book e il Brown Book, è proprio il termine “gioco” a sostituire in modo sempre più frequente
quello di “calcolo”, e dunque di “linguaggio”.
Il gioco linguistico diviene una modalità indefinita e alternativa di usare il linguaggio, capace di dar vita
allo stesso tempo a modalità differenti di significato. Il significato di una regola dipende dal modo di
usarla, e nel suo uso sono determinanti le circostanze presenti, come quelle che lo precedono o lo seguono.
Il BB riprende più volte il tema della vaghezza semantica che caratterizza il lessico, tema che si proietta
nella direzione dello stabilire un profondo legame tra indeterminatezza del senso e vaghezza dei
significati a cui i sensi veicolati da una parola fanno riferimento, e che colloca la vaghezza anche sulla
dimensione pragmatica degli usi linguistici:
le parole hanno i significati che noi abbiamo dato ad esse, e ad esse noi diamo significati mediante
spiegazioni. Vi sono parole con più significati chiaramente definiti, e vi sono parole delle quali si potrebbe
dire che sono utilizzate in mille modi differenti che gradualmente sfumano l’uno nell’altro.
Il pensiero di Wittgenstein è aperto al problema dell’unitarietà, della possibilità di stabilire confini netti
tra i significati, riprende e approfondisce, lungo questa linea, anche la riflessione sul tema della
comprensione. In questo contesto emerge un’idea di vaghezza ancor più radicale, che rende del tutto
arbitrario nonché fuorviante il tentativo di tracciare un confine netto non solo tra i significanti e le idee,
ma anche all’interno della dimensione d’uso.
L’illusorietà di un linguaggio funzionante e utilizzabile come un calcolo viene in tal modo definitivamente
sancita: l’incapacità umana di circoscrivere in modo netto e chiaro le idee che usiamo non è dovuta al
nostro ignorare la loro definizione “reale”, ma al fatto che, semplicemente, una tale definizione non esiste.
È dunque la vaghezza a dominare gran parte del nostro agire linguistico, una vaghezza che mette in crisi
la stessa “esattezza”, una di quelle parole la cui definizione, paradossalmente, sfuma nella “grossolana
approssimazione”.
Nella Philosophische Untersuchungen la discussione del problema della vaghezza è legata a quella
dell’esistenza di concetti dai contorni sfumati, fatto questo che sembrerebbe autorizzare l’ipotesi di un
sempre più marcato legame tra la vaghezza linguistica e la vaghezza del pensiero. Nelle PU il linguaggio
è definitivamente diverso dal calcolo: qui l’attenzione si sposta sul linguaggio ordinario, della vita di tutti
i giorni, che ci appare come un gioco funzionale a determinati scopi: senza il linguaggio non possiamo
influenzare gli uomini e senza l’uso del discorso e della scrittura gli uomini non potrebbero comunicare.
La sua è una dimensione essenzialmente pratica, che ha come destinazione il mondo esterno. Il linguaggio
non può essere descritto se non in riferimento agli usi alternativi e complementari che si modificano e
continuamente aumentano di numero, perché è il mutare delle esigenze espressive a determinare
l’insorgere di sempre nuovi giochi linguistici.
Qui trova spazio la vaghezza, proprio in relazione alla varietà dei giochi linguistici e al loro fornire un
repertorio di possibilità alternative potenzialmente illimitate. La vaghezza non è solo sinonimo di
indeterminatezza semantica, ma assume d’ora in avanti anche le forme di disponibilità permanente
all’innovazione, alla creatività.
Nelle PU la nozione di gioco linguistico mette in luce una volta di più che le regole che “agiscono” su
porzioni di linguaggio non sono in molti casi definite in modo rigido, ma individuano attività e concetti
dai contorni sfumati, tra cui sussistono innumerevoli rapporti di analogia e differenza.
È solo l’uso, l’impiego, dovuto all’accordo, alla relazione tra i parlanti che risolve la vaghezza di un
concetto, perché i concetti di per sé considerati possiedono confini sfumati, e anzi, si sottraggono per loro
propria natura a qualsiasi tentativo di tracciare un confine.
La vaghezza è per Bühler una caratteristica positiva perché condizione di possibilità di creatività
linguistica. Il suo ruolo diviene anche quello di arginare il più possibile il rischio di incomprensione tra i
parlanti, offrendo alla lingua gli strumenti per garantire le proprie formulazioni dall’equivoco.
Proprio perché le lingue operano con simboli largamente plurivoci, che comportano di conseguenza la
necessità di successivi aggiustamenti dei relativi significati.
Il ragionamento di De Mauro presenta tratti di assoluta originalità, che ne fanno un riferimento obbligato
per una storia linguistica e semiotica della vaghezza. L’interesse per questa materia rappresenta uno dei
segnali più tangibili di un procedere epistemologico che persegue i canoni dell’appropriatezza e
dell’adeguatezza, e lo fa anche attraverso il ricorso all’arbitrarietà, attraverso cioè quell’indefinito, e forse
indefinibile, orizzonte teorico entro cui si rendono possibili costruzioni che valgono perché appropriate.
Facciamo iniziare la ricognizione da Introduzione alla semantica, raccolta di saggi la cui idea centrale è
quella del carattere non calcolabile del significato in sé per sé, ma al contrario determinabile solo
all’interno di un contesto situazionale e in rapporto agli utenti e al loro cooperare.
Il significato è risultato e funzione del significare, del comportarsi linguistico dell’uomo nell’ambito delle
collettività storiche nelle quali egli si inserisce e vive e ha carattere soggettivo e vago: è un artificio fine a
sé stesso e altamente improduttivo quello messo in atto da coloro che affrontano la semantica delle lingue
storico-naturali senza tener conto di ciò.
Di indeterminatezza semantica De Mauro parla in relazione al problema della comunicazione,
inspiegabile attraverso il semplice ricorso a forme di cui si presume la perfetta corrispondenza con uno e
un solo contenuto. La lingua vive e si rinnova proprio grazie alla molteplicità e alla diversità dei
significati, alla plurivocità di sensi veicolati da una stessa parola, grazie cioè a una serie di elementi che
non appartengono alla “patologia”, ma bensì alla “fisiologia” del nostro parlare. L’indeterminatezza
semantica è condizione normale della semiosi verbale, e la comunicazione è più o meno precisa a seconda
del numero maggiore o minore di alternative di cui disponiamo.
Una siffatta condizione non pregiudica in alcun modo la comprensione tra i parlanti, i quali, disponendo
dello stesso bagaglio di conoscenze linguistiche possono intendersi; come non esclude che anche un
parlante non nativo possa partecipare attivamente alla vita della lingua, “sistemazione aperta” di forme e
significati.
Il problema investe il piano semantico, in cui l’indeterminatezza è norma e non eccezione, risorsa e non
limite, e il piano pragmatico, quella della dimensione dei parlanti, a cui vengono affidate tutte le
eventuali, possibili determinazioni.
Il tema delle trasformazioni del significato di una parola e dell’”incalcolabilità logica degli spostamenti”
viene ripreso da De Mauro in un’altra serie di saggi.
Anche in questo caso il punto di partenza è la nozione di significato di una parola, “luogo di tutte le
pertinentizzazioni possibili”, un’articolazione e determinazione del modo di organizzare in segni le
possibili esperienze.
Caratteristica di ciascuna delle lingue storico-naturali è la massima potenzialità significativa che si
realizza ed è a sua volta realizzata dal proprio vocabolario. Il riferimento alla vaghezza non è certo
esplicito, ma una simile descrizione non può che richiamarla: ne è ad esempio segnale il mettere sullo
stesso piano caratteristiche del vocabolario di natura profondamente diversa, quali la ridondanza e la
mancanza di una forma definita e l’apertura, indeterminatezza dei significati dei vocaboli di cui le lingue
si compongono.
La vaghezza si va a legare al significato dell’unità lessicale, di cui vanno chiarite le molteplici variabili che
compongono la sostanza. Si tratta di variabili dei quattro seguenti valori:
la vaghezza del significato delle parole fa sì che il significato non sia soddisfacentemente descritto nelle
sue possibilità di estensione ad altri e nuovi sensi se non in rapporto a utenti dati in un tempo dato.
Nel fornire un elenco delle proprietà dei codici semiologici, De Mauro affronta il problema della non-
calcolabilità delle sinonimie e delle riformulazioni, facendola discendere dalla caratteristica che per
eccellenza differenzia le lingue dai calcoli e dalle classificatorie: la non non-creatività.
Essa può configurarsi primariamente oltre che come:
- variazione upon the field del numero stesso delle n unità del vocabolario
- variazione upon the field del numero stesso delle regole sia sintagmatiche sia sintattiche che
presiedono al costituirsi delle stringhe possibili in una lingua, stringhe potenzialmente infinite
ammettenti una debole o nulla connessità sintattica
- Anche come indeterminatezza semantica e fonica delle stringhe e dei morfi che la compongo,
ciascuna potenzialmente oscillante da massimi di esibizione di tratti formali pertinenti o
pertinentizzabili a minimi debolmente formali, nei quali tuttavia, la fruibilità comunicativa è
garantita dall’alta ridondanza e dal rinvio a co-testi verbali e al contesto situazionale.
L’indeterminatezza semantica è addirittura concepibile come forma della non non-creatività, come sua
particolare configurazione, come lo è altrettanto il ruolo giocato dalla ridondanza a garanzia della
trasmissione del messaggio, e dunque della comprensione.
La vaghezza dei segni linguistici diviene anche caratteristica in virtù della quale la lingua può parlare di
tutto, che ci permette di usare le parole dilatando il significato di ciascuna e l’insieme dei significai di
tutte le disponibili fino a includere nuovi sensi e nuove aree di senso.
Prieto dedica al tema della comprensione un’attenzione tutta particolare. Ciascun atto semico, atto in cui
un ricevente è chiamato a riconoscere come tale un segnale prodotto da un emittente, comporta, secondo
Prieto, incertezza.
Al pari dell’interprete di un indizio, il ricevente di un atto semico interpreta il segnale a partire da una
certa incertezza in cui si trova quanto al fatto che ha effettivamente luogo nell’universo di discorso
indicato. L’incertezza del ricevente consiste nel non sapere a quale appartiene l’influenza che l’emittente
cerca di esercitare su di lui.
L’incertezza è fenomeno caratterizzante della comunicazione, e la comprensione tra i parlanti si realizza
quando il ricevente riesce a diminuirla, interpretando il segnale.
La natura del segnale: è portatore di significato, ma è costruito dall’emittente e necessita di essere
interpretato, affinché si abbia comprensione da colui che lo riceve.
Si ha comprensione da parte del ricevente quando grazie all’interpretazione del segno egli riesce a
riconoscere l’appartenenza dell’influenza che l’emittente cerca di esercitare su di lui o a una classe
coincidente con una delle classi che determinato la sua incertezza o ad una classe non universale
coincidente con la somma logica di due o più di queste classi.
Concordiamo con chi ci fa notare come il ricevente, tra due interpretazioni, sceglierà sempre quella che gli
permette di ridurre maggiormente la sua incertezza; e, fra due interpretazioni possibili che gli
permettono un’eguale riduzione dell’incertezza, sceglierà sempre la più economica, cioè quella che
presuppone la classificazione meno precisa. È grazie al ricorso alle circostanze che si riduce
progressivamente la situazione di incertezza.
L’incertezza scompare del tutto solo quando il significato del segnale coincide con una delle classi che
determinato l’incertezza del ricevente.
La vaghezza è tutta riassunta nelle forme dell’incertezza pragmatica, di una caratteristica che,
potenzialmente, ostacola la comprensione tra i parlanti.
Ogni capacità umana, assume un ruolo nella categorizzazione, che risulta attività motivata anche da
esperienze corporee o sociali, e non sempre manipolazione di simboli astrattivi. I modelli cognitivi sono
infatti embodied, legati, sia direttamente che indirettamente attraverso links sistematici, alle esperienze
corporee e sociali dell’individuo in quanto membro di una determinata comunità, esperienze che ne
motivano il contenuto.
Due sono le principali conseguenze della diversità e della eterogeneità legate alle esperienze.
In primo luogo, ciascun membro di una categoria riflette “insiemi” di proprietà, frutto della relazione tra
individui;
in secondo luogo, le proprietà che definiscono una categoria non risultano condivise da tutti i membri, ma
esistono asimmetrie all’interno di una categoria come tra i membri che ad essa fanno riferimento.
Il funzionamento della categorizzazione viene esteso al linguaggio verbale, anche in questo caso facendo
tesoro di una tradizione di studi anteriore agli anni Settanta.
Se è vero che il linguaggio di una componente non autonoma della mente, che presenta proprietà legate
ad abilità cognitive, allora le categorie linguistiche sono dello stesso tipo delle altre categorie, ossia
evidenziano prototipi ed effetti di livelli basici.
Lakoff elenca alcuni dei più evidenti effetti prototipici sulle categorie linguistiche, primo tra tutti il
fenomeno della marcatezza, manifestazione delle relazioni asimmetriche all’interno delle categorie.
Effetti prototipici si registrano in ciascuno dei livelli di cui una lingua si compone: nella categorizzazione
fonologica, in cui i fonemi rappresentano categorie di foni a base prototipica, ma anche nella
categorizzazione morfologica e sintattica dove, ad esempio il soggetto, definito come categoria radiale,
viene a caratterizzarsi, prototipicamente, sia come focus che come topic.
Il nostro pensiero e il nostro linguaggio sono intrisi di vaghezza; concetti e parole vaghe ci sono utili nella
vita di tutti i giorni per poter pensare e comunicare senza sforzo, e anche per poterci tenere alla larga da
inutili perdite di tempo.
.1. La generale e costitutiva indeterminatezza dei codici semiologi
Ogni sistema di segni, o codice semiologico, nasce nel momento in cui due o più utenti, “scoprono il
bisogno di individuare un senso”.
Gli utenti svolgono un ruolo prioritario nella vita dei codici, e ciò accade non solo perché ad essi è
strettamente legato il processo di continua creazione di innumerevoli sensi attraverso cui realizzare il
significato dei segni, o perché, sul piano pragmatico, agli utenti compete l’uso dei segni del codice
all’interno dei concreti contesti in cui la semiosi si realizza, il loro ruolo è più radicale: essi rappresentano
la ragione prima e ultima della stessa vita dei codici, del loro essere sociali e anche delle diverse
dimensioni di cui i codici si compongono e sui si organizzano.
L’evidente diversità e varietà che si registra tra codice e codice – da codice a due segni a sistemi complessi
– è tale da riflettere un’altrettanta diversità e varietà dei potenziali utenti.
Se anche certe forme di virus condividono un proprio sistemi di segni, con gli esseri umani ci troviamo di
fronte a utenti biologicamente, culturalmente e storicamente determinati, che comunicano attraverso la
propria attività percettiva, mnemonica e anche emotiva all’interno di un determinato spazio storico-
culturale e in relazione ad altri individui. Ci troviamo di fronte ad utenti per i quali si può propriamente
parlare di aire semiotico, processo consistente nella condivisione e nella negoziazione di segni e sensi.
sembra quindi plausibile l’ipotesi che questi stessi utenti, nel loro agire semioticamente, trasmettano ai
codici che creano e i cui fanno uso l’indeterminatezza e la variabilità che sembrerebbe caratterizzare il
funzionamento delle loro menti e delle facoltà ad esse relative.
Tra queste vi è il caso della categorizzazione: come la teoria dei prototipi insegna, sembrerebbe che i
simboli, attraverso cui la categorizzazione funziona, e i loro referenti abbiano molto a che fare con il
modo in cui gli individui si muovono nel mondo.
Il modello della categorizzazione, i cui prodotti non sono altro che categorie dai confini incerti e
indefiniti, è sufficientemente convincente se assunto a paradigma della più generale attività semiotica,
almeno di quella umana, di quella wittgensteiniana “forma di vita” nella quale si riconoscono i soggetti,
considerati nella loro individualità sia nel loro essere membri di una collettività.
Tale modello considera prioritario il ruolo degli utenti, e prioritaria la possibilità di trasmettere, alle
categorie come ai codici, che questi utenti creano e agiscono, la naturale indeterminatezza e variabilità
che caratterizza il funzionamento delle loro menti e che costituisce il loro stesso essere.
La sola presenza degli utenti appare sufficiente ad attribuire, all’attività semiotica una naturale
indeterminatezza.
Come Saussure insegna in riferimento alla semiosi verbale, il segno è per definizione arbitrario, costituito
cioè dall’unione di due classi astratte formate arbitrariamente; e ciò significa diverse cose.
Dire che il segno è arbitrario significa dire che alla sua origine risiede la capacità di discriminare
liberamente e liberamente associare in classi gli atti e i dati della sua esperienza, e significa anche dire
che il segno altro non è che il frutto della determinazione di una massa ampiamente e originariamente
indeterminata.
Per chiarire questo punto, possiamo farci aiutare da codici molto particolari, le lingue storico-naturali,
che si caratterizzano come tali perché frutto dell’azione degli utenti su una massa di realizzazioni foniche
e di sensi rappresentabile attraverso un continuum, una serie indefinita di prodotti fonici molto diversi
tra loro, e una serie ugualmente indefinita di diversi sensi.
Gli utenti, già portatori di una componente estremamente variegata, darebbero vita, interagendo, a un
processo semiotico che si andrebbe a concretizzare nel discriminare all’interno di un siffatto continuum
raggruppamenti diversi: gruppi di fonie fonicamente distinte, ma capaci di trasmettere tutto uno stesso
senso, gruppi di sensi anche psicologicamente diversi, ma tutti trasmessi da una stessa particolare fonia.
Il richiamo alle lingue storico-naturali chiarisce come all’indeterminatezza naturalmente indotta dagli
utenti al momento della costituzione di un qualsivoglia codice, si leghi quella particolare
indeterminatezza che di ogni codice rappresenta la base.
Il ruolo degli utenti è cruciale nella definizione del segno: l’assumere un’entità alla funzione di segnale o
di senso è operazione che risulta dipendere esclusivamente dalla libera scelta degli utenti, condizionata
solo dal tipo di struttura meccanica e biologica ad essi propria.
Continua ad essere decisivo anche in quella che potremmo chiamare la vita dei codici, fatti di piani
diversi, tutti interagenti fra loro: agiscono sul piano sintattico del codice in relazione ai segnali che
realizzano i significanti dei segni e ai tratti pertinenti che li costituiscono e li differenziano; sul piano
semantico, creano sensi che realizzano il significato dei segni; sul piano pragmatico, stabiliscono rapporti
semiotici e realizzano i segni del codice.
I confini di ciascun codice semiologico vanno a collocarsi su un piano che definiamo relazionale, piano in
cui due o più utenti, interagendo, quasi si accordano, a diversi livelli di consapevolezza e di esplicitazione
dipendenti dal tipo di codice in questione.
Ecco perché i codici semiologici ci appaiono leggibili anche come esiti di una relazione natura sociale tra
almeno due utenti in risposta a determinati bisogni di espressione.
La principalità degli utenti, portatori di naturale indeterminatezza, rispetto ai codici non sembra
perdersi una volta che gli stessi codici sono costituiti.
extralinguistiche di idee o oggetti sia come assoluta autonomia delle ripartizioni del contenuto fonico che
la stessa lingua realizza rispetto alle medesime ripartizioni extralinguistiche.
All’arbitrarietà si collega una duplicità di piani, fonico e semantico; sul continuum da essi rappresentato
si verificano una serie di ripartizioni relative ad altrettante ripartizioni, ma di tipo extralinguistico,
corrispondenti a idee e oggetti.
Se tali ripartizioni extralinguistiche sono di natura sfumata, legate cioè a contenuti per natura
indeterminati e vaghi, è chiaro come questa loro natura possa essere rilevante nel momento in cui vanno
a riflettersi sul continuum fonico e semantico.
I loro prodotti saranno infatti rappresentati da ripartizioni della sostanza fonica e semantica che, pur
presentandosi, una volta tali, come determinazioni, e in più assolutamente immotivate, manterranno al
loro interno un carattere di intrinseca indeterminatezza e di intrinseca vaghezza.
Una simile spiegazione ci autorizza a rintracciare nell’arbitrarietà radicale la prima inesauribile fonte di
quella che denominiamo vaghezza segnica.
Dire che la vaghezza è una proprietà, una condizione segnica, equivale a dire che essa investe il segno nel
suo complesso, e perciò allo stesso modo significante e significato.
La vaghezza segnica riguarda anche quella parte del segno, il significante, che una certa tradizione di
linguistici ha visto e continua a vedere caratterizzata da discretezza, da confini netti e chiaramente
identificabili; questi studi considerano la vaghezza sotto gli abiti della variabilità, come un accidente
dell’esecuzione.
Nell’ambito degli studi linguistici e di semiotica del Novecento è solo De Mauro a far riferimento alla
vaghezza segnica e a puntualizzare come del significante e del significato la vaghezza segnica non
comporti un rilassamento, ma, al contrario, sia proprietà tale da rendere possibile la realizzazione di
forme più precise come di forme meno precise.
Ciò significa che la vaghezza segnica è al contempo condizione di espressioni del tutto determinate e a
pieno titolo collocabili sul piano della forma.
Il ritaglio compiuto dalle lingue su una massa fonica e semantica assolutamente indeterminata
rappresenta l’indice della vaghezza segnica. Se però dalla struttura si passa a considera il movimento, e si
guarda ad esempio all’apertura di questi sistemi o alla loro capacità nel saldare la potenziale
incalcolabilità dei loro sensi e delle loro sinonimie e alla loro intrinseca regolarità, irrinunciabile è lo
spostamento sul polo della non non-creatività.
Sotto il segno della non non-creatività si colloca l’esistenza di sinonimie né predicabili né calcolabili,
caratteristica in grado di distinguere le lingue storico-naturali da tutti gli altri insiemi di segni.
Tutti questi fenomeni sono riuniti sotto il nome di creatività non regolare, e descritti come possibilità di
far funzionare i meccanismi semiotici di costituzione del senso pur violando le regole normali del codice o
cambiandole nel farsi stesso della comunicazione.
Si tratta di un tipo di creatività che permette di far rientrare nella “normale” attività semiotica i processi
di scambio comunicativo, di produzione di senso, di comprensione in presenza di violazione delle regole
“normali”.
I segni intrinsecamente vaghi, che circoscrivono sul piano semantico in maniera approssimata un insieme
non chiuso di segnali atti a indicare in modo altrettanto approssimato una famiglia, vanno a costituire la
vera e genuina condizione di possibilità per la non non-creatività.
La lingua è sistema non non-creativo perché le sue forme sono e saranno sempre potenzialmente
manipolabili e deformabili, in virtù del loro essere intrinsecamente vaghe.
Dalla dimensione propriamente segnica, la vaghezza si va a riflettere sulla dimensione semantica, dove
un ruolo di primo piano continua ad essere ricoperto dalla relazionalità del segno, che è tale da aprire e
moltiplicare la possibilità di intersezione tra significante e significato, producendo come principale effetto
la sfumatura dei relativi confini.
La dimensione semantica è quella sulla quale si vanno a misurare modi e gli effetti della vaghezza
linguistica: essa è il risultato del proiettarsi arbitrario della vaghezza propriamente segnica su una massa
semantica altrettanto vaga.
La plasticità del significato rappresenta la caratteristica per eccellenza, ciò che fa si che il significato sia
manipolabile.
Ciò trova la sua spiegazione nella stessa natura del segno linguistico: strumento di un’attività allusiva di
gioco orientato a stabilire un’intesa tra utenti.
Ciò spiega perché il segno, in quanto agito dagli utenti, conduca alla creazione di una condivisione di
sensi in cui la regola non è la determinatezza, ma la continua tensione tra determinatezza e
cambiamento.
La relazione tra gli utenti determina l’agire semiotico, ma esso necessita sempre di continua negoziazione
e di continuo rinnovamento, pena l’interruzione della semiosi.
È tale necessità a rimandarci all’utente riconosciuto non come utente mal informato del funzionamento
di un codice, bensì come agente sociale che si trova quasi obbligato a rinnovare continuamente l’intesa
semiotica che lo lega ai suoi simili e a uno spazio linguistico in cui l’apertura e in molti casi l’incertezza
della semiosi costituiscono la regola.
I modi della vaghezza segnica e semantica sono tali da riflettersi anche sul piano pragmatico della lingua,
quello in cui emittenti e riceventi realizzano i segni del codice.
Sul piano pragmatico i modi assunti dalla vaghezza sembrano riconducibili a due:
la vaghezza si realizza attraverso forme tali da produrre e indurre determinatezza all’interno dello
scambio semiotico; in questo caso parliamo di vaghezza pragmatica.
È la vaghezza pragmatica a dar luogo a forme la cui concettualizzazione normale veicola sensi che, pur
previsti dal codice, non sono o non sarebbero attesi all’interno di un atto semiotico.
Tali forme coincidono con tutti quei tratti che, indipendentemente dalla loro rispondenza alla norma
linguistica, risultano tali da indurre indeterminatezza semantica sul posto sintagmatico, rendendo vago il
significato dei tratti, dei termini, delle espressioni che introducono o da cui sono preceduti, come anche la
semantica dell’intera sequenza in cui sono contenuti.
Per questo tipo di forme viene fondamentale il riferimento al contesto d’uso, cioè a una serie di elementi
co-testuali e contestuali in grado di ripristinare il normale e lineare funzionamento della comunicazione.
Accanto alla vaghezza pragmatica, l’altro modo assunto dalla vaghezza sul piano pragmatico è quello di
incertezza d’uso o incertezza pragmatica, che si concretizza nella realizzazione di forme incerte, per
le quali non esiste, all’interno di un determinato codice linguistico, una regola che potremmo definire
condivisa. Incerto si definisce dunque l’uso di tutti quei tratti che, seppur diversi, possono saturare uno
stesso posto sintagmatico, realizzando comunque la stessa funzione o trasmettendo lo stesso valore
semantico.
Ci troviamo di fronte a tratti propri di una data lingua storico-naturale, che risultano variabili anche in
relazione alle varietà che rappresentano la condizione necessaria ma non sufficiente per stabilirne la
grammaticalità. Si tratta di tratti il cui uso pone problemi di accettabilità, aggravati dal fatto che proprio
l’accettabilità, in quanto funzione dell’interazione tra i parlanti, è caratteristica dipendente della
sensibilità e della percezione linguistica di ciascuno di essi, dalla loro coscienza linguistica, costantemente
sospesa nella scelta tra una presunta norma e un uso ampiamente condiviso.
L’incertezza pragmatica è un modo della vaghezza reso evidente dall’insicurezza linguistica manifestata
da una data comunità di parlanti in relazione a forme del repertorio appartenenti a varietà non
coincidenti con la norma linguistica percepita come standard.
L’incertezza pragmatica non va dunque confusa con quella che in molti indicano come incertezza di
applicazione. Essa, rappresenta una modalità della vaghezza essenziale e connaturata, come la vaghezza
segnica e la vaghezza semantica, al funzionamento della semiosi e dunque alla vita stessa di qualsivoglia
codice verbale.
La vaghezza pragmatica e l’incertezza d’uso riguardano entrambi i soggetti della semiosi verbale, il
produttore e il ricevente, e appaiono connaturate al processo, all’essere stesso della semiosi, che
sembrerebbe tale da contemplare sempre e comunque una zona grigia, in cui intenzioni e intuizioni del
produttore e del ricevente sono vaghe.
Le lingue storico-naturali si configurano come gli unici sistemi che consentono a chi produce un segno di
partire in ogni caso dalla specifica incertezza del ricevente.
.4.1 Tra vaghezza e incertezza pragmatica:
il caso delle preposizioni italiane
la lingua italiana scritta e parlata mostra la presenza di tratti il cui uso è tale da produrre esiti
diversificati, alcuni dei quali classificabili anche come manifestazioni di vaghezza o incertezza
pragmatica.
Più in generale, possiamo affermare che se è vero che la vaghezza è una proprietà pervasiva del nostro
pensiero e intrinseca a ciascuna delle lingue storico-naturali, allora anche ogni espressione, ogni
elemento che a ciascuna di queste lingue appartiene, seppur apparentemente non definito è tale da
presentare, almeno potenzialmente, una zona di vaghezza.
Un recente studio condotto da Carla Bagna sulle preposizioni della lingua italiana e sul loro
apprendimento mette in risalto il carattere vago e sfuggente, sia a livello semantico sia a livello
funzionale, e collega tale carattere alla non esistenza di regole in grado di governare proprio l’uso e il
valore delle preposizioni all’interno di un testo, anche quando siano chiari il ruolo, la funzione, gli
elementi da cui la preposizione dipende.
Ciò sembrerebbe in larga parte dovuto alla storia dell’italiano e allo status dell’italiano contemporaneo,
che rimane un sistema con alcune zone più fragili di altre. Simili osservazioni ci consentono di guardare
al sistema delle preposizioni dell’italiano come caratterizzato da una sorta di vaghezza intrinseca, legata
a fattori linguistici strutturali, e di classificare alcuni degli usi di cui questo sistema si compone come
incerti o vaghi. Stretta è la loro dipendenza da elementi di natura pragmatica, siano essi la situazione
d’uso, la tipologia testuale, etc.
Il fenomeno sembrerebbe manifestarsi in tuta la sua portata non solo nel sistema linguistico dei nativi,
ma anche all’interno delle varietà interlinguistiche di apprendimento dell’italiano L2 proprie di
apprendenti stranieri.
Bagna classifica come vago l’uso della preposizione in all’interno della sequenza
1. Essere sommersi in messaggi pubblicitari
E, al contempo, considera tale uso come manifestazione di produttività della stessa preposizione, in grado
non solo di trasmettere ma di creare valori semantici ampi e dai confini sfumati.
Lo stesso può dirsi ancora per l’uso della preposizione in all’interno della sequenza
2. Possiamo offrire corsi in cucina
Si tratta ancora di un uso che è tale da indurre indeterminatezza semantica sull’intera sequenza: da essa
non emerge con sufficiente chiarezza se colui che l’ha prodotta abbia voluto riferirsi a corsi che si
svolgono all’interno di una cucina o a corsi che hanno come oggetto la cucina.
Obbligato diviene il ricorso ad elementi co-testuali molto distanti nella sequenza-
In relazione alla varietà interlinguistiche di apprendimento dell’italiano L2, va detto quanto sia frequente
imbattersi in sequenze, scritte e parlate, in cui l’uso vago di una data preposizione si rivela tale da
introdurre vere e proprie soluzioni di creatività, presentandosi all’interno di sintagmi non propri né della
L1 dell’apprendente né della lingua italiana, ma che, creativamente, saturano il posto sintagmatico e
consentono il passaggio dell’informazione il funzionamento della comunicazione.
Ottimo esempio è fornito da usi delle preposizioni inseriti all’interno di polirematiche: qualità di vita, ad
esempio, non è polirematica attestata dal GRADIT che riporta qualità della vita, ma è comunque
locuzione che nella sequenza
3. Ciò provoca una riduzione di qualità di vita del cittadino
Risulta pienamente accettabile, anzi è tale da garantire l’efficacia comunicativa dell’enunciato.
Significativo è ancora l’uso della preposizione in all’interno della sequenza
4. Vado in posta
In questo caso ci troviamo di fronte a un uso comunemente accettato in alcune varietà settentrionali
dell’italiano, ma che suona male e di conseguenza viene in genere giudicato errato nella maggior parte
delle varietà del Centro Italia, in cui la preposizione a (nella forma articolata alla) è considerata più
corretta o maggiormente adeguata a esprimere l’idea di movimento verso un luogo.
Lo stesso può dirsi dell’uso della preposizione a nella sequenza
5. Abita a via Milano
Uso che tra l’altro pone problemi in diamesia, creando più di una perplessità nelle varietà scritte, nelle
quali, per indicare collocazione nello spazio, sarebbe di norma previsto l’uso della preposizione in.
Conclusioni.
Ciò non implica che il destino della misurazione e della valutazione della competenza linguistico-
comunicativa sia inesorabilmente segnato ma, come Davies, ricorda il language testing non è una scienza
esatta, e perciò non pretende di essere preciso.
Il caso della misurazione e della valutazione della competenza, di pratiche a cui incertezza, variabilità e
vaghezza appaiono intrinseche, può possedere la forza critica del paradigma.
La dialettica tra vaghezza e precisione, indeterminatezza e determinazione pervade le pratiche di
misurazione e di valutazione della competenza linguistico-comunicativa, e con esse pervade il suo
oggetto, la lingua.
Il trasparente legame formativo tra il sostantivo greco lógos e il vergo légo “parlo” attesta che il valore
primario del sostantivo fu quello di “parola” “discorso”, dal quale solo poi si svilupparono le accezioni di
“ragionamento”.
In principio era la parola? No, non dal punto di vista della vita individuale, dell’ontogenesi, né dal punto
di vista della filogenesi.
ONTOGENESI
dal punto di vista dell’ontogenesi, cioè l’acquisizione individuale delle capacità linguistiche, gli ultimi
vent’anni del Novecento hanno portato rilevati novità di natura sperimentale, non tutte ancora
assimilate.
Lo psicologo Mehler, a partire dagli anni Ottana, ha gettato nuova luce sui primi passi che bimbe e bimbi
compiono sulla via del linguaggio. Mehler ha integrato le analisi osservative che possedeva dei primi mesi
di vita con analisi anche elettroencefalografiche sulle prime ore, più esattamente sulle prime 36-48 ore di
vita.
Nel giro delle prime 36 ore di vita si è visto che i neonati sono in grado di fare qualcosa che ci appare
straordinario: mentre la vista è ancora incerta, l’udito è neurologicamente già maturo.
Esposti a udire la voce della madre che parla la sua lingua, la voce della madre che parla un’altra diversa
lingua, straniera, e la voce di un estraneo che parla la lingua prima della madre, in 36 ore i piccoli
stabilizzano una precisa graduatoria:
1. La voce della madre che parla la prima lingua che il piccolo ha udito
2. La voce di estranei che parlano la prima lingua della madre
3. La voce della madre quando parla una lingua diversa dalla prima
In altri termini, la fisicità vocalica della madre è scavalcata dall’apprezzamento della prima lingua.
(risultano così motivate locuzioni routinarie come L1, lingua madre, mother tongue, Muttersprache, L2,
lingua seconda).
Naturalmente il piccolo è lontano dal livello in cui può dirsi che conosce la lingua, ma comincia a
riconoscerne le realizzazioni, a riconoscerne il ritmo, le modalità intonative e le scansioni.
Piaget ha spiegato che per bambine e bambini è un vero e primo lavoro arrivare a foggiarsi
imitativamente gli strumenti (parole, espressioni) che aprono la vita all’interazione sociale e alla
comprensione delle cose. Oggi sappiamo che questo lavoro comincia nelle prime ore di vita.
L’inizio è l’ascolto, che definiamo ricezione, ed è la discriminazione uditiva, ma prima ancora di questa,
per il piccolo c’è, come osserva Spitz, la discriminazione tattile: il contatto della sua bocca e del corpo con
il corpo della madre o comunque di chi parla la muttersprache o lo nutre e sostiene.
Il bisogno di alimentarsi e sopravvivere lo guida sulla via di imparare a discernere ritmi e toni nella voce
di chi lo accudisce e in poche ore è spinto a fidarsi di questi ritmi e toni.
Ai primi giorni segue il periodo delle lallazioni, esercizi vocali apparentemente privi di senso che sfociano
nella produzione delle fonie più disparate, sia pertinenti alle realizzazioni della lingua madre sia del tutto
estranee.
Il piccolo si ingegna a improvvisare i tipi fonici delle lingue più svariate e questi esperimenti fonici sono
tutt’altro che inutili. Grazie ad essi i piccoli fonetisti arrivano a due conquiste importanti:
- Imparano a udirsi, a sentire loro stessi che cosa producono i movimenti delle articolazioni foniche
- Imparano ad accorgersi che quei suoni sono un gioco che attrae l’attenzione di chi gli è vicino.
Al periodo delle lallazioni, all’incirca dopo i sei messi succede all’improvviso il silenzio.
Per alcuni mesi il bambino o la bambina osserva l’aurea regola del silenzio; ma il piccolo nel silenzio è
tutt’altro che distratto dal suo impegno di apprendimento. In quei suoni che ode impara a distinguere
sillabe e blocchi che si ripetono, a osservare e tesaurizzare l’uso che ne viene fatto per ridestare e
orientare la sua attenzione.
Molti lavori descrittivi di psicologi del linguaggio lasciano da parte questo periodo, dall’osservazione
delle lallazioni passano al momento in cui i piccoli dicono le prime balbettanti parole, ma nello spazio
intermedio avviene una cosa importante: il bambino sta imparando a isolare le parole, a riconoscerne
l’unità di suono e senso.
I genitori più attenti si accorgono che il piccolo silenzioso già dà segni di cominciare a capire le loro
parole mentre ancora gattona e ben prima di balbettare riproduzioni delle parole degli adulti.
Per l’individuo singolo la parola emerge come esito di un faticato percorso di vita.
Il percorso è selettivo: il bambino dimenticherà la varietà di fonie dei primi mesi e si orienterà verso le
sole realizzazioni dei fonemi della lingua prima.
L’interazione con l’ambiente, l’ascolto, l’individuazione e la discriminazione di suoni, il silenzio attento,
associazione e comprensione guidano sulla via del linguaggio e solo dopo viene la parola detta.
Se questi fattori mancano, l’empowerment linguistico tarda, e se mancanza e ritardi si prolungano fino ai
7/8 anni (come in casi di abbandoni o ospedalizzazioni precoci), i 7/8 anni si rivelano una soglia fatale:
oltre essa i bambini non imparano più a parlare.
Ciò che avviene, o non avviene, entro quella soglia è un richiamo forte a componenti biologicamente
aleatorie, a fattori sociali, culturali, affettivi che devono operare perché il processo di acquisizione giunga
a maturazione.
FILOGENESI
Come si è dilatata e arricchita la conoscenza dello spazio cosmico, così si è dilatata e arricchita la
conoscenza del tempo evolutivo.
Furon datava la prima comparsa di progenitori dell’homo sapiens a 450.000 anni. Da allora è cominciata
una corsa verso quello che Vico chiamava “la sterminata antichità”.
In quello che oggi ci appare non come un albero, ma un cespuglio intricato, è assai più bassa l’apparizione
dell’homo sapiens sapiens (accertata da reperti paleontologici a 400.000); più problematica resta
l’apparizione della capacità d’uso di parole e lingue.
il campo degli studi è diviso:
troviamo da un lato fautori della datazione bassa, come Lieberman che data l’apparizione del linguaggio
verbale a 50.000/30.000 anni fa.
I reperti paleontologici attestano che, i Neanderthal avevano la laringe alta e il cavo orale risultava
limitato, come è oggi nei neonati fino ai 6 mesi. L’abbassamento della laringe, che nei piccoli avviene
attorno ai 6 mesi, si ebbe solo con l’homo sapiens sapiens; inoltre nei reperti di calotte dei crani
neandertaliani parrebbe non esservi traccia dell’are di Wernicke, che presiede all’autoascolto e alle
modulazioni della voce.
Poiché i Neanderthal scomparvero dall’Europa intorno a 50.000-30.000 anni fa, è a questa data che
possiamo ricondurre con sicurezza l’origine della capacità di usare espressioni come quelle previste dalle
nostre lingue; l’acquisizione sarebbe avvenuta per un “salto” genetico, improvvisa.
Chomsky come Lieberman, condividono un pregiudiziale antievoluzionistico che negava ogni rapporto tra
linguaggi di altre specie e il linguaggio verbale.
Dal lato opposto sono schierati i fautori di una datazione alta come Leroi-Gourhan, maestro francese
della paleoetnologia. Si è impegnato in una ricostruzione sistematica delle tecniche e delle culture della
preistoria più remota; complessità di tecniche produttive e figurative e differenziazione del lavoro entro
uno stesso gruppo umano e tra gruppi diversi sono centrali nell’opera le geste et la parole.
L’uno e l’altro aspetto obbligano a postulare che assai prima di homo sapiens sapiens, l’organizzazione
sociale e produttiva dei gruppi umani imponeva il ricorso a segnali che rinviassero a progetti e tempi
futuri, a segnali e segni capaci di dilatare i loro significati fino a includere nuovi sensi, ricchi di quelle
caratteristiche semantiche che sono proprie delle parole e frasi delle nostre lingue.
Ma se avevano difficoltà a usare il canale fonico-acustico, in che modo comunicavano gli ominidi prima di
homo sapiens sapiens?
Un lungo saggio scritto da Chomsky ha portato novità nel contrapporsi dei punti di vista. In esso si nega
che la collocazione alta della laringe sia un ostacolo insuperabile per una fonazione duttile. Alla ipotetica
data di apparizione delle lingue a realizzazione fonico-acustica viene così concessa una possibile
anticipazione.
Chomsky afferma e sottoscrive che la capacità linguistica umana rappresenta lo sviluppo delle capacità
comunicative di altre specie evolutivamente anteriori.
Cento e più anni fa, Peirce e Saussure riutilizzarono indipendentemente termini in uso nella diagnostica
medica: semiotics e sémiologie.
Quella che preconizzavano con questi due sinonimi doveva essere una scienza generale del comunicare e
dei codici che lo regolano, entro cui collocare i fenomeni propri del linguaggio verbale. Questa prospettiva
ha cominciato a concentrarsi in ricerche e studi nella seconda metà del Novecento lungo due direzioni:
1. La prima, più vicina a Saussure, è la linea di riflessioni di Hjelmslev, Buyssens e Prieto, proseguite
e sistemate nel Trattato di semiotica di Eco. È lo studio delle forme anche non verbali della
comunicazione umana, linguaggi gestuali, iconici, simbolici.
2. La seconda linea, meno consapevole di essere tale, è il brusco, travolgente ampliamento degli
studi sulla capacità di comunicazione di specie viventi diverse dall’umana, ciò che va sotto il
nome di zoosemiotica.
Oggi sappiamo che le lingue segnate delle comunità di sordomuti esemplificano assai bene le lingue che,
servendosi del canale gesto visuale, hanno potenzialità pari a quella delle lingue a prevalente
realizzazione fonico-uditiva.
Del resto, la gestualità con funzioni simboliche e aspetti semantici come la metaforicità è ben presente
anche tra gli udenti in mole aree culturali, a cominciare dal linguaggio dei gesti cosiddetto napoletano, in
realtà più ampiamente mediterraneo.
E ancora oggi la gestualità ha la funzione di accompagnare le realizzazioni foniche sia per scandirle e
sottolinearne il ritmo sia con più sottili e determinanti contributi alla precisazione del senso.
Lo studio dei primati in natura ci ha messo dinanzi a codici di comunicazione con realizzazioni che
integrano sistematicamente realizzazioni fonico-uditive e gesto-visuali dei segni
Dunque, non è ipotesi azzardata supporre che homo erectus e forse già i suoi antecedenti, come homo
habilis, si servissero di semiotiche i cui segni erano affidati a realizzazioni gesto-visuali e solo
secondariamente fonico-uditive.
Il prevalere di quest’ultime si è correlata con novità genetico-strutturali come l’abbassamento della
laringe e la formazione dell’area di Wernicke. I fattori che hanno spinto a privilegiare le realizzazioni
audio-orali rispetto alle gestuali e ad altre possibili sono quelli delle assai più favorevoli condizioni di
produzione e ricezione dei segnali: scarso impegno corporeo e basso costo energetico.
Collocare il linguaggio verbale umano in una prospettiva semiotica, seguendo le indicazioni di Peirce e
Saussure, ha gettato nuova luce anche sulla questione delle origini. Ma, insieme, ha posto un problema
che Saussure pare non aver ignorato: se il linguaggio verbale umano non è altro che una qualunque
semiotica e se la audio-oralità è un carattere importante ma non costitutivo, a che cosa esso deve la sua
importanza?
Più esploriamo l’universo delle semiotiche e più siamo tratti ad ammettere che il linguaggio verbale
umano ha alcunché di straordinario.
La ricerca di un carattere specifico del linguaggio verbale umano ha attraversato e animato fino a oggi la
storia del pensiero linguistico.
La vocalità e uditività è alla radice delle scelte lessicali delle molte lingue in cui si adopera una stessa
parola per indicare il muscolo della bocca o, a volte, le labbra.
Certamente è un tratto che si impone al senso comune di molte culture. Essa tuttavia è un carattere
diffuso anche nelle realizzazioni di codici di altri animali, mammiferi superiori, uccelli, e come si ricorda, è
un carattere d’altro lato non necessariamente presente, come mostrano le lingue segnate dei sordomuti e
le realizzazioni scritte e lette di parole, frasi, etc.
La indicatività e la semanticità già ad Aristotele pareva un carattere non dirimente perché già egli lo
vedeva esteso alla comunicazione di altri animali. Aristotele da evidenza all’articolatezza, ovvero la
segmentabilità dei segni linguistici.
Certamente in gran parte le espressioni di una lingua risultano in prima istanza segmentabili in parti
minori (morfi) che la articolano e compongono.
Fare di questo un tratto specifico del linguaggio verbale urta contro la difficoltà di ordine diverso. Da una
parte non tutto il linguaggio si lascia ridurre a tale particolarità: vi sono forme linguistiche, come le
interiezioni, così mal rappresentabili nelle scritture, che sfuggono alle norme articolatorie previste in
generale dalle lingue.
D’altra parte, l’articolatezza, segmentabilità, combinatorietà e sintatticità dei segni sono presenti in altri
linguaggi sia non umani (codici di altre specie come le api, i cetacei), sia post linguistici, costruiti cioè a
partire dalle lingue storico-naturali.
L’articolatezza ne copre l’intera realtà linguistica ne è specie specifica del linguaggio verbale.
Anche di altre specie siamo sicuri che usino lingue diverse, talché le api indiane non capiscono le cinesi e
le franco-italiane non capiscono quelle austriache.
Oltre il linguaggio verbale, anche altre attività semiotiche umane (gesti, riti) conoscono la variazione
nello spazio e nel tempo.
La variabilità culturale e temporale non è un tratto specifico del linguaggio verbale, anche se nelle
settemila lingue oggi censite del mondo, è un tratto di evidente rilevanza.
Conoscendo anche solo poche migliaia di parole e poche regole sintattiche, con una lingua gli umani sono
in grado di produrre e comprendere un numero potenzialmente infinito di frasi. Di nuovo, però, si deve
constatare che la potenziale infinità dei segni generabili data una lingua si trova anche fuori del
linguaggio verbale: infiniti possono essere i segni diversi che con le minute variazioni delle loro danze
usano e capiscono le api, le operazioni e i calcoli dell’aritmetica elementare
André Martinet ha additato la specificità linguistica in quella che chiama doppia articolazione.
In ogni lingua le frasi si analizzano in parole e le parole in unità più piccole, i morfi, dotati di una forma
significante e significato a loro volta le forme significanti si analizzano in unità più piccole, le sillabe, e le
sillabe in tipi fonici, i fonemi, che alternandosi e combinandosi variamente, concorrono a differenziare
sillabe e significanti di morfi e parole, senza però che a tali unità minime competa un preciso significato.
Le lingue distinguono alcune poco più di 10 fonemi, altre parecchie decine fino al centinaio.
Con questo numero di unità minime sono costruire in ogni lingua le forme significanti di centinaia di
migliaia di parole diverse e con queste, a loro volta, sono costruite le innumerevoli frasi, potenzialmente
infinite, di ogni lingua.
Ma di nuovo, non è un carattere esclusivo delle lingue.
Per esempio, i segni del braille e del morse, che codificano ciascuna delle lettere o delle dieci cifre arabe,
sono doppiamente articolati. Di nuovo ci si trova dinanzi a un carattere che da una parte non coinvolge
l’intera realtà del linguaggio, dall’altra è strettamente specifico.
Un allievo di Martinet, Prieto, aveva indicato un carattere specifico delle lingue nella possibile
sinonimicità parziale dei loro segni, nel fatto cioè che i loro significati possano essere non solo in rapporto
di esclusione o di inclusione subordinata, ma di intersezione, una intersezione che può sciogliersi solo
appellandosi al contesto dell’enunciazione.
Intersezioni si trovano, per esempio, nelle iconologie religiose e nella rappresentazione algebrica dei
punti, di un medesimo punto, in un piano cartesiano.
Anche la proprietà ricorsiva delle regole sintattiche né si coglie solo nelle lingue, ma è tipica delle algebre,
da cui è stata tratta.
Ultima, per ora, delle proprietà credute specifiche, è la generalità dei significati delle parole e frasi: una
stessa frase, una stessa parola, di volta in volta assume un senso particolare e determinato, altre volte un
senso generale e universale, donde la necessità di postulare che nella potenzialità della lingua
un’espressione in sé abbia un significato generico.
Il tema della vaghezza semantica o indeterminatezza di parole e frasi è stato più volte ripreso nella storia
del pensiero linguistico del Novecento e del resto oscillazioni investono l’intera realtà nient’affatto
monolitica delle lingue.
Non tutte le parole hanno un significato sempre e necessariamente vago, e d’altra parte, si deve
contestare che anche la vaghezza, si trova fuori dal linguaggio, in semiotiche come il linguaggio
napoletano dei gesti.
Occorre ammettere che la ricerca di un carattere specifico del linguaggio che lo differenzi da altre
semiotiche e allo stesso tempo ne unifichi le manifestazioni, non ha dato un risultato sicuro. Eppure,
ciascuno dei caratteri enumerati costituisce un aspetto portante della realtà linguistica.
Consideriamo ora fonicità e uditività non in sé ma in nesso con la complessiva realtà dell’attività verbale:
se il linguaggio verbale avesse viaggiato su altri canali, tipo quello gestuale o visivo, le parole che diciamo
ci proverebbero dall’esterno.
La fonicità e l’uditività hanno consentito invece e consente ai piccoli di udirsi e di poter imparare
progressivamente a interiorizzare le espressioni, consente dunque la conquista della dimensione interiore
del linguaggio.
La endofasia che accompagna progettazioni di ogni attività umana, ordina i nostri affetti, esperienze e
rapporti con gli altri e con le cose. Questa dimensione ha base nell’area di Wernicke: area senso-motoria
che ci consente di udire il suono della nostra voce in corso d’opera e di correggerne, riorientarne
immediatamente l’andamento.
Da qui nasce quella straordinaria varietà della vocalità umana che attrasse l’attenzione di Aristotele che
catalogò e identificò diversi tipi di voce e di loquela.
- La voce gli pareva non scorrevole, lamentosa, piacevole, dolce, flebile, etc.
- Il parlare gli appariva fermo, breve, squallido, acuto, etc.
Con strumenti d’analisi è possibile determinare in modo oggettivo queste varietà e variazioni della voce
che nel parlato risultano preziose anche ai fini di circoscrivere il senso e orientare la comprensione degli
enunziati.
Una studiosa della pubblicità, Annamaria Testa, ha mostrato con rilevanti effetti di senso possono
ottenersi anche con la riproduzione iconica della versione grafica degli enunciati.
Alla vocalità e uditività, al loro bassissimo costo energetico, nelle lingue umane si coordina il loro potersi
organizzare in modo ridondante.
Usiamo in modo antieconomico i fonemi di cui disponiamo, anche nelle lingue meno antieconomiche come
l’inglese e il francese parlato. I significanti delle parole sono molto più lunghi di quanto sarebbe
necessario a distinguersi tra loro.
Forme di ridondanza si combinano con altre forme di ridondanza: in italiano l’articolo determinativo
prevede sei forme diverse.
La ridondanza investe anche la semantica lessicale, ed è alla radice del costituirsi delle lingue.
La ridondanza ha manifestazioni che vanno oltre la dimensione della fonicità e uditività ma trova in essi
una condizione necessaria.
la ridondanza, nei modi in cui si è sviluppata nelle lingue, si regge grazie alla dominante fonicità e
uditività delle espressioni verbali ma è indubbio anche il reciproco: la fonicità e uditività primaria delle
realizzazioni dei segni linguistici ha richiesto come complemento una quota di ridondanza
fonomorfologica.
Genericità del significato, vaghezza sono presenti anche in altre semiotiche, come nei linguaggi spontanei
dei gesti o nelle iconologie.
Ciò che altrove non troviamo è il suo vario combinarsi con altri caratteri del linguaggio verbale come
l’articolatezza, l’incrementabilità e decrementabilità della massa lessicale.
Combinandosi con essi l’espansibilità-restringibilità dei significati porta a caratteristiche delle lingue
storico-naturali che è merito soprattutto di logici e matematici del Novecento avere cominciato a
individuare.
L’espansibilità, dove soccorra la documentazione filologica, opera attraverso contiguità materiali o
formali, attraverso il riconoscimento di similarità tra nuovi sensi e sensi già aggregati in una parola.
Tra le contiguità, una ve n’è che potremmo dire radicale per ogni parola del linguaggio verbale: la
contiguità neurologicamente ancestrale e costitutiva creata dall’area di Wernicke, la contiguità di
ciascuna parola con sé stessa.
Ogni parola ha obbligatoriamente il riferimento a sé stessa: è ciò che diciamo autonimia. Gli umani con
le loro parole possono riferirsi alle parole stesse, parlarne.
Dal primo Novecento si è cominciata a chiamarlo metalinguaggio.
Il metalinguaggio riflessivo favorisce lo scambio culturale e il convergere dei parlanti di una lingua verso
un medesimo patrimonio linguistico, una medesima cultura e permette l’acquisizione di significati più
ampi o di restringimenti del significato.
L’espansibilità e flessibilità del significato di ciascuna parola e la continua possibile ed effettiva messa in
circolo del significato rinnovato e precisato attraverso la metalinguisticità riflessiva creano la via
attraverso cui di continuo ogni lingua può, nel suo complesso, consentirci di precisare e ampliare il suo
campo noetico, il campo del dicibile con essa.
C’è un salto rispetto a ogni altra semiotica nota, con l’eccezione delle lingue segnate dei sordomuti, che
proprio per la rilevazione di questo carattere ci si sono rivelate lingue in senso stresso. Da qui
fondamentalmente viene quella proprietà che attribuiva alle lingue la capacità di offrire per lottare
contro ciò che non era ancora espresse o pareva inesprimibile.
Ogni lingua, umile o alta che sia, grazie alla espansibilità dei significati può seguire sue strade
nell’acquisire nuovi sensi e nuovi piani di cose dicibili. Ogni lingua può essere chiamata ad affinarsi per
portare in sé, nelle sue parole e frasi, i sensi espressi da parole, frasi, testi, di altre lingue.
Di qui la equipotenza semantica di ogni lingua e quella loro potenziale parità che Humboldt evidenziò
icasticamente, dicendo che ognuno col possesso della sua muttersprache ha la chiave di tutte le altre
lingue.
Lo straordinario combinato-disposto dei caratteri delle lingue ha aperto a noi umani le porte all’uso
interiore delle parole; ma anche, nello stesso tempo, ci ha aperto sin dal primo apprendimento all’uso
corale e sociale.
Il mentalese che affascina ancora taluni sarebbe ben di poco superiore (come diceva Einstein) a quello di
altri mammiferi superiori, senza l’uso della parola. Così ogni lingua, povera o ricca che sia, che solo
chiami mamma e babbo, una lingua scritta e grammaticalizzata, una lingua che tendiamo fino a
discriver fondo a tutto l’universo, ognuna è compagna e condizione della nostra più intima vicenda
personale e, insieme, della vita storica, economico-produttiva, sociale della comunità cui apparteniamo.
Le lingue sono disponibili a rispondere a quei bisogni della comunicazione umana che vadano nelle
direzioni dell’irrigidimento, della schematizzazione, della determinatezza semantica
Nel nascere delle scritture, quando sorse la necessità di fissare il detto, la ricchezza delle realizzazioni
linguistiche viva voce fu messa da parte nelle realizzazioni scritte. Queste si servono di elementi che il
parlato specie informale può lasciare da parte e, se devono veicolare un senso sinonimo a quello di
espressioni parlate, mettono a frutto in direzioni peculiari la ridondanza connaturata alle lingue:
precisione morfosintattica, ricchezza e varietà lessicale.
Nel corso delle loro utilizzazioni hanno sviluppato loro proprie forme di ridondanza nei procedimenti
grafici che danno al ricettore le informazioni che si perdono nel passaggio dal parlato e udito in presenza
di scritto e letto.
Si tratta di procedimenti spinti a un punto tale da aver indotto a considerare le realizzazioni scritte come
una lingua altra e formalmente diversa da quella cui si riferiscono le omologhe realizzazioni parlate.
Con la scrittura si sono stabilizzate quelle stipulazioni che portano a definire usi e ambiti d’uso di parole
in senso determinato: tra queste, dobbiamo collocare le antichissime parole-numeri. Poi all’incrocio tra
parole-numero e scrittura dobbiamo collocare le cifre, che offrono il primo esempio di uso di linguaggi i
quali, a partire dai valori assegnati ai loro simboli, si sono poi inarcati transglotticamente, come le cifre
sino-indiane e arabe, su tutte le lingue.
Non era e non è in principio la parola, ma senza parole gli esseri umani sarebbero restati se non un
mutum certo un più turpecus.
Parole stipulate grazie al metalinguaggio riflessivo sono i nomi propri: gli antroponimi e i genonimi
grazie a cui individuiamo persone e famiglie; i toponimi che scandiscono lo spazio, etc.
Di parole interiorizzate sono intrise le nostre operazioni cognitive, i nostri affetti, le nostre capacità di
progettazione e produzione di oggetti e attività non verbali, gli oggetti della quotidianità e quelli
delle arti più suggestive e innovative.