Sei sulla pagina 1di 14

VIDEOLEZIONI DI DE BLASI (FEDERICA.

EU)
Ogni lingua è una realtà dinamica, in continuo movimento.

La lingua italiana ha una lunga storia, che risale direttamente al latino parlato.

Anche l'italiano cambia continuamente. Di alcune novità i parlanti si accorgono subito: per esempio notiamo
facilmente le parole nuove, mentre più lentamente ci rendiamo conto di altri cambiamenti, anche se sono
molto rilevanti.

I parlanti in realtà percepiscono poco proprio i cambiamenti più profondi, che si realizzano con maggiore
lentezza.

Consideriamo qui un'innovazione di tipo grammaticale che si è affermata progressivamente nel corso dei
secoli, ma che si è davvero generalizzata solo dopo l'Unità.

Si tratta della desinenza dell'imperfetto indicativo. Oggi, per la prima persona dell'imperfetto, tutti diciamo io
andavo, io parlavo, io cantavo.

In passato però la situazione era molto più sfumata. Ancora a metà Ottocento le grammatiche prescrivevano
per la prima persona dell'imperfetto la desinenza -a.

Già nel Quattrocento la situazione del fiorentino cambiava: Leon Battista Alberti, in una sua Grammatichetta,
come forma della prima persona dell'imperfetto documentava «ERO».

Nella storia dell’italiano è stato di grande rilievo il ruolo di alcuni letterati, Dante, Bembo e Manzoni che sono
stati anche teorici della lingua e grandi innovatori, molto attenti, sia pure secondo prospettive diverse, alle
differenze dinamiche tra lingua parlata e lingua scritta.

La differenza tra la lingua parlata e la norma grammaticale dipende in gran parte dalla normale variabilità delle
lingue. La lingua parlata è in genere diversa dalla lingua scritta. Si parla a questo proposito di variazione
diamèsica (cioè la lingua cambia in rapporto al mezzo che si usa). Il modo di parlare e il modo di scrivere
cambiano nel tempo, ma le caratteristiche della lingua scritta cambiano più lentamente; perciò la tradizione
scritta, in particolare quella della lingua letteraria, rappresenta un punto di riferimento tendenzialmente più
stabile nel tempo.

Nella storia della lingua italiana un ruolo molto rilevante è stato svolto da Pietro Bembo (Venezia 1470 - Roma
1547), che nelle Prose della volgar lingua (1525) propose ai letterati italiani il modello della lingua di Francesco
Petrarca, per la poesia, e di Giovanni Boccaccio, per la prosa.

Con la sua opera, Bembo fissava le caratteristiche di una lingua volgare adatta a durare nel tempo: le opere di
Petrarca e Boccaccio rappresentavano un modello adeguato perché, essendo state scritte nel Trecento, già
avevano superato la prova del tempo e potevano essere considerate opere classiche.

In questo modo, così com'era accaduto per la lingua latina, anche per la lingua italiana veniva affermato un
principio di autorità.
Sul modello di Petrarca e di Boccaccio erano indicate regole esplicite che furono poi accolte e diffuse dalle
opere grammaticali successive.

Una svolta decisiva nella storia dell'italiano letterario fu favorita da Alessandro Manzoni (1785-1873) che, nel
lungo lavoro dei Promessi sposi, scelse di seguire come punto di riferimento non più la lingua della tradizione
scritta, ma l'uso della lingua parlata. Nel suo romanzo Manzoni rende la variabilità di una lingua viva e intera,
adatta alle diverse situazioni e alla mobilità dei dialoghi dei personaggi e alle riflessioni dell’autore, il quale sin
dalle prime pagine mostra di rifiutare la lingua libresca e antiquata del manoscritto secentesco da cui finge di
copiare.

Proprio Manzoni ha contribuito in modo decisivo alla diffusione del pronome lui anche nella scrittura letteraria
e all'imperfetto del tipo io cantavo, ma soprattutto ha dato un nuovo orientamento alla cultura linguistica
italiana: grazie a lui i letterati e gli uomini di cultura italiani hanno cominciato a osservare in modo sempre più
attento la lingua dell'uso nel suo rapporto dinamico con la lingua letteraria.

L’italiano contemporaneo è in larga misura simile all’italiano antico, anche perché la lingua letteraria (grazie
alla codificazione di Bembo) è rimasta a lungo stabile.

Tra la lingua antica e la lingua nuova, però, non mancano differenze.

La continuità dell’italiano, pur segnata da innovazioni, permette per esempio di capire, almeno nella sostanza,
versi di Petrarca o di Dante. Invece può essere più difficile capire la lettera di un mercante del Trecento o un
documento notarile che contengano elementi per noi più insoliti.

Ma, restando in ambito letterario, guardiamo la prima quartina del sonetto Tanto gentile di Dante:

Tanto gentile e tanto onesta pare

la donna mia, quand’ella altrui saluta,

ch’ogne lingua deven, tremando, muta,

e li occhi no l’ardiscon di guardare.

Qui troviamo parole a prima vista usuali, anche se in parte in una forma per noi insolita (per es. ogne, deven, li,
no). Le differenze però non ci impediscono di collegarle a quelle per noi abituali (ogni, diviene, gli, non). D’altro
canto l’apparente facilità della lettura può nascondere alcuni imprevisti.

Per Dante la donna è gentile perché dimostra la nobiltà connessa alla virtù e ai sentimenti elevati; è onesta
perché suscita rispetto per la sua superiorità sul piano morale e intellettuale. Quindi Dante coglie il nesso - oggi
non immediatamente riconoscibile - tra l’aggettivo onesta e la parola latina honos ('onore'). Anche pare ha
un’accezione diversa da quella odierna perché non significa 'sembra', ma 'appare, si manifesta'.

Infine noi usiamo altrui come aggettivo invariabile (parole altrui, proprietà altrui ecc.), ma qui ha funzione di
pronome indefinito ('un'altra persona').

Nel De vulgari eloquentia Dante cerca di individuare il volgare più adatto all’uso letterario: a proposito dei Poeti
Siciliani scrive che questi poeti hanno usato una lingua raffinata e parole nobili allontandosi dal volgare.
Queste due precisazioni dimostrano che secondo Dante i poeti degni di lode, come i Siciliani e i Bolognesi, non
hanno poetato nella lingua da loro parlata. Perciò, nella sua prospettiva, i poeti nei versi non devono usare la
stessa lingua da loro parlata spontaneamente.

Secondo il De vulgari eloquentia di Dante la lingua poetica deve essere diversa da quella parlata. La stessa idea
si delinea nei poeti toscani che non scrivono cuore ma cor o core, senza dittongo.

Tale scelta risale probabilmente all’intenzione di imitare la poesia dei Siciliani. Nel sistema fonetico del
siciliano, infatti, manca il dittongo, che invece è presente nel fiorentino del tempo di Dante.

Come dimostra la canzone Pir meu cori alligrari di Stefano Protonotaro, è possibile che nei versi Siciliani si
trovasse originariamente la forma cori, poi ricopiata come core dai copisti toscani. Pertanto i poeti toscani che
in seguito hanno scritto core o cor si sono attenuti anche al modello letterario siciliano, recente ma già molto
autorevole, come lascia capire lo stesso Dante, che nei versi giovanili, per l’influsso dei Siciliani, scrive anche
aggio per ho e saccio per so.

Un evidente segnale in tal senso è dato dalla cosiddetta rima siciliana, cioè dalla possibilità, ammessa nella
poesia italiana, di far rimare tra loro due parole rispettivamente con e chiusa tonica e con i tonica, oppure con
o chiusa tonica e u tonica: per esempio Dante fa rimare sotto con tutto e costrutto.

Nella storia del prestigio del volgare occupa un posto di rilievo un’antologia ideata da Lorenzo de Medici e da
Angelo Poliziano, che nel 1476 indirizzano al principe Federico d’Aragona di Napoli la Raccolta aragonese, che
contiene opere in volgare dei due secoli precedenti.

Poliziano e Lorenzo, nella lettera prefatoria (l’unica parte che resta di tale Raccolta), affermano il principio che
anche la letteratura in volgare può durare nei secoli al pari di quella latina.

Il volgare quindi viene posto a confronto con il latino e nel tempo è destinato per così dire a vincere la sua
battaglia; tuttavia per conseguire tale risultato sarà necessario rafforzare il suo prestigio affermando (come poi
farà Bembo) la possibilità di indicare modelli scritti precisi, che facciano del volgare una lingua d’arte e non solo
una lingua dell’uso naturale.

L'italiano si modifica nel tempo (in diacronìa), ma anche nello spazio geografico.

Nella realtà linguistica italiana, insieme con l’italiano e con i dialetti, sono parlati anche gli italiani regionali (o
locali), cioè varietà linguistiche intermedie tra l’italiano e i diversi dialetti.
Quasi sempre l’italiano parlato è caratterizzato dalla maggiore o minore presenza di elementi linguistici locali;
perciò l’italiano correntemente parlato il più delle volte è di fatto italiano regionale.

Con l’aggettivo regionale non ci si riferisce alle regioni come entità amministrative, poiché la variabilità non
segue i confini delle regioni; perciò si preferisce spesso parlare di Italiano locale invece che di Italiano regionale,
intendendo in questo modo che la pronuncia cambia in prospettiva geografica (locale), ma non in rapporto alle
regioni amministrative.

Negli studi linguistici il primo che ha definito l’italiano regionale è stato, nel 1960, Giovan Battista Pellegrini,
anche se nei decenni precedenti, in alcune osservazioni di giornalisti, studiosi (come Bruno Migliorini, Giacomo
Devoto, Carlo Battisti), scrittori (come Edmondo De Amicis) e uomini di teatro (Luigi Pirandello, Roberto
Bracco), si incontrano diversi accenni a un italiano parlato con elementi regionali.

La caratteristica più evidente dell’italiano parlato con caratteri locali è costituita dall’intonazione, cioè dal
cosiddetto accento, spesso volutamente messo in risalto dagli attori.

L’italiano regionale in quanto varietà intermedia favorisce il passaggio in italiano di una serie di parole
inizialmente dialettali.

La spinta che produce tale diffusione è particolarmente evidente nel caso di prodotti alimentari, che circolano
di più grazie a nuove modalità di preparazione, conservazione e confezione degli alimenti. Si sono diffusi in ogni
parte d’Italia (e anche al di fuori) i grissini (piemontesi), il panettone (milanese)

Quando una parola è usata al di fuori della zona di origine si può dire che è passata dall’italiano regionale
all’italiano.

La voce genovese mugugno 'brontolìo' forse è passata in italiano nel secondo Ottocento a partire dalla
comunicazione gergale dei marinai genovesi.

Il veneziano ciao può avere conosciuto una diffusione in fasi diverse: la parola circolava già nel Settecento, visto
che in un’opera buffa napoletana si legge sciavo. Anche una sola testimonianza fa pensare che questo saluto di
provenienza veneziana all’epoca fosse già abbastanza noto a Napoli, visto che è usato senza particolari
spiegazioni. Nel Novecento ciao forse è stato di nuovo “rilanciato” da Milano verso il resto d’Italia anche grazie
alla crescente abitudine di rivolgersi agli altri con il tu.

Alcuni autori del Cinquecento chiariscono che anche nel loro tempo il quadro linguistico è movimentato sia sul
piano sociale che su quello geografico. Il fiorentino Benedetto Varchi (1503-1565) scrive che una lingua può
essere parlata in tre modi diversi, rispettivamente dai letterati (che usano il volgare natìo, il latino e talvolta il
greco), dagli «idioti» che usano in modo approssimativo il proprio idioma, e dai «non idioti» che usano
correttamente la propria lingua natìa; a parte figurano poi «l’infima plebe, e la feccia del popolazzo».

A questa stratificazione sociale corrispondono probabilmente diverse varietà linguistiche: agli idioti si può
attribuire una lingua a metà tra italiano e dialetto; al popolazzo direttamente il dialetto. Il napoletano Giovan
Battista Del Tufo alla fine del Cinquecento distingue tra «il parlar che fa quel popolaccio» e il «favellar gentil»
napoletano, che probabilmente è il modo di parlare delle persone più colte e dei cortigiani.
La riflessione sulla variabilità sociale dei modi di parlare nel Cinquecento conferma quanto fosse prezioso
l’orientamento unitario offerto dal Vocabolario della Crusca e dalle Grammatiche. Questa prospettiva è assunta
molto prima dell’Unità anche nella scuola, quando l’italiano viene adottato come lingua dell’insegnamento e
come obiettivo della didattica. Una preoccupazione molto evidente nella didattica è quella di evitare, sin dalla
pronuncia, le interferenze con i dialetti.

Da questo lato un esempio molto interessante è un Cenno sulla diritta pronuncia del napoletano Carlo Mele
(1792-1841) che intono al 1830 raccomanda agli scolari napoletani di seguire la pronuncia del fiorentino,
superando le caratteristiche dell’italiano locale.

Anche dopo l'Unità il principale obiettivo dell’insegnamento dell’italiano è mettere in guardia gli alunni
dall’interferenza involontaria con il dialetto.

Per la crisi istituzionale del mondo romano le lingue parlate si modificano, mentre viene meno la forza
unificante della tradizione scritta.

caduta dell’Impero romano d’Occidente (nel 476 d.C.) che determinò una crisi anche dell’unità linguistica. Le
lingue si modificano più velocemente nella comunicazione parlata, diversa da un luogo all’altro. Anche il latino
era parlato in modi diversi nelle diverse aree dell’Impero; il latino scritto era stabile e diffuso dalla scuola e
dagli usi ufficiali, che risentirono della crisi generale delle istituzioni, che coincise con la crisi dei centri urbani e
con la riduzione dei commerci.

La diffusione della lingua italiana (che è di base fiorentina) si collega al ruolo svolto nel secolo da mercanti,
letterati, religiosi, notai ecc., che da un lato hanno favorito la scrittura in volgare, dall’altro lato hanno messo in
circolazione una lingua destinata ad una più ampia diffusione al di là di orizzonti geografici locali. Pertanto la
fortuna dell’italiano non dipende da decisioni politiche, né tanto meno dal sostegno di una potenza militare.

Per la registrazione dei conti, per fissare i propri ricordi e per comunicare a distanza, i mercanti devono usare la
scrittura e fanno in modo che anche i loro dipendenti sappiano scrivere. I mercanti scrivono in volgare, anche
perché lo studio del latino richiederebbe un impegno prolungato. La loro attività economica e commerciale,
che si svolge a stretto contatto con i banchieri e con i notai, produce anche investimenti in campo artistico ed
effetti diretti e indiretti in ambito letterario.

Nella scrittura, con la precisione delle notizie, è importantissima la chiarezza della grafia.

La letteratura italiana si afferma nel Trecento con capolavori assoluti di Dante, Petrarca e Boccaccio, che
conoscono una fortuna ampia e duratura. In precedenza, a partire dal 1230 circa, dopo alcune manifestazioni
isolate di difficile collocazione geografica, il volgare letterario è stato sperimentato nella poesia d’amore,
presso la Corte di Federico II, in Sicilia, con una iniziativa che rappresenta la prima iniziativa rispondente a un
progetto culturale che fa della letteratura uno degli elementi costitutivi del prestigio imperiale.
La Chiesa, che ha sempre curato modi e mezzi della comunicazione per raggiungere un pubblico ampio e
variegato, ha contribuito nel Medioevo alla fortuna del volgare.

San Francesco con il suo Cantico è stato tra i primissimi autori della letteratura italiana. Oggi Papa Francesco,
con la sua scelta di usare l’italiano, contribuisce al prestigio dell’italiano nel mondo.

una nuova fortuna del volgare.

La Chiesa, com’è noto, ha sempre ritenuto importante la comunicazione con i fedeli, dedicando una cura
particolare alla funzionalità e all’efficacia dei messaggi.

I nuovi ordini religiosi dei Francescani e dei Domenicani, sorti all’inizio del Duecento, si dedicano alla diffusione
del messaggio del Vangelo e alla predicazione, fondando i loro insediamenti in particolare nei centri urbani, che
conoscono anche una fase di sviluppo economico.

Un orientamento verso una lingua parlata non fiorentina, ma comune alle diverse parti d’Italia, caratterizza il
predicatore cremonese Paolo Aresi (1570-1644), che non vuole vincolare la lingua ai modelli degli scrittori,
perché l’italiano è una lingua giovane che deve seguire la sua evoluzione

Il volgare conquista progressivamente uno spazio in ambito culturale sottraendolo al latino.

Cruciale è al riguardo la riflessione di Dante che nel Convivio e nel De vulgari eloquentia afferma il prestigio del
volgare, senza tuttavia cedere a una istanza campanilistica. Infatti il fiorentino (in esilio) Dante aveva del
fiorentino e del toscano in genere un’opinione negativa fondata anche su una severa valutazione politica ed
etica. In seguito, anche per effetto delle sue fortune letterarie connesse allo stesso Dante, a Petrarca e poi a
Bembo il volgare toscano conquisterà un duraturo prestigio e una sua stabilità.

All’inizio del Trecento nel Convivio (opera incompiuta che presenta alcune canzoni con commento in prosa)
Dante dimostra che per il commento alle canzoni è opportuno usare il volgare di sì, perché attraverso di esso è
possibile «altissimi e novissimi concetti convenevolmente, sufficiente e acconciamente, quasi come per esso
latino, manifestare» (I x 12). Rispetto al latino, che non raggiunge tutti, il volgare secondo Dante sarà come un
«sole nuovo».

Nel De vulgari eloquentia Dante critica piuttosto aspramente i volgari toscani. Ai Toscani in genere è
rimproverata la demenza (amentiam) e l’ubricachezza (ebrietate) di considerare illustre il proprio volgare.

Petrarca, che considera prestigioso solo il latino, riserva il volgare alle poesie del Canzoniere, da lui intitolato in
latino come Rerum vulgarium fragmenta.

A seguito della soluzione proposta da Bembo l’italiano è stato progressivamente percepito come una lingua che
poteva essere insegnata.

La proposta di Bembo si afferma definitivamente quando è accolta negli ambienti culturali fiorentini. Una
funzione centrale è svolta dagli Accademici della Crusca che, dopo un lungo lavoro, nel 1612 pubblicano la
prima edizione del Vocabolario della Crusca in cui propongono le parole raccolte con la schedatura di testi
trecenteschi.

La lingua scritta della letteratura, conservatasi tendenzialmente stabile per secoli, dopo I Promessi sposi (rivisti
da Manzoni nel 1840-42) si è progressivamente avvicinata ai modi della comunicazione parlata.

La svolta manzoniana ha provocato la ricerca di ulteriori novità stilistiche, come mostrano per esempio i
Malavoglia di Giovanni Verga (collocati in fondo su una linea di continuità rispetto a Manzoni), le scritture dei
Futuristi e la narrativa novecentesca. Dopo l’Unità, proprio per effetto della Relazione dell’unità della lingua di
Alessandro Manzoni (pubblicata nel 1868), la scuola si è interrogata su come proporre una didattica linguistica
che offrisse a tutti gli scolari italiani le opportunità in precedenza offerte ai soli letterati.

Con l'italiano si parlano in Italia numerosi dialetti. A una prima osservazione, anche un non specialista si
accorge che in aree diverse si parlano dialetti diversi. I dialetti infatti si caratterizzano in primo luogo per la
variabilità geografica, tanto che il riferimento a un dialetto implica un’indicazione geografica, perciò parliamo
del dialetto di Palermo, di Vicenza ecc.; per aree più vaste si parla al plurale di dialetti campani, lombardi o
umbri, intendendo che quanto più è ampia una zona geografica tanto più numerosi sono i dialetti che si
parlano al suo interno.

Ogni dialetto si distingue per caratteri fonetici, morfologici, lessicali e sintattici, che possono essere descritti e
analizzati.

Pertanto ogni dialetto ha una sua grammatica, non perché esiste un libro intitolato "grammatica", ma perché
c’è un insieme di regole che i parlanti trasmettono attraverso l’uso spontaneo da una generazione all’altra.

Proprio perché si trasmettono attraverso l’uso spontaneo i dialetti, come tutte le lingue, si modificano nel
tempo.

I dialetti italiani derivano direttamente e autonomamente dal latino. Il dialetto parlato in una certa località è
quindi la continuazione del latino un tempo parlato nella stessa località e modificatosi nei secoli. Pertanto si
parla di dialetti italiani o d’Italia, invece che di dialetti dell’italiano, poiché per l’appunto i dialetti non derivano
da modificazioni dell’italiano.

Sin dal Cinquecento ogni letterato italiano ha quindi imparato a distinguere tra forme italiane e forme locali,
come se avesse usato un setaccio per dividerle. Gli Accademici della Crusca per il Vocabolario scelsero appunto
come emblema il frullone: era un macchinario all’epoca di recente invenzione che serviva a filtrare e a separare
i diversi prodotti del grano, cioè, come scrive proprio il Vocabolario, uno «strumento di legname, a guisa d’un
cassone, dove si cerne ( …) la crusca dalla farina». Questa immagine sul frontespizio del Vocabolario è
accompagnata dal motto «Il più bel fior ne coglie», con riferimento al fior di farina, nel senso che attraverso il
Vocabolario sarebbe stato possibile usare la parte migliore della farina, cioè della lingua.

Gli autori napoletani Giovan Battista Basile e Giulio Cesare Cortese definivano "parole chiantute" (solide e
robuste) le parole del dialetto. La letteratura dialettale tende dunque a una diversificazione netta rispetto
all’italiano, evitando le interferenze e la lingua "integrale" in cui i diversi elementi si confondevano. La
separazione delle parole dialettali però era possibile solo a chi conosceva bene la lingua letteraria: perciò la
letteratura dialettale riflessa (secondo la formula resa celebre da Benedetto Croce) rappresenta una soluzione
iperletteraria tutt’altro che “semplice”.

La dialettologia è una disciplina analitica, descrittiva con aperture alla teoria. L’analisi presuppone una ricerca
sul campo orientata all’individuazione e alla descrizione delle caratteristiche delle singole località, in
prospettiva diatopica. I dati dialettologici sono rappresentabili negli Atlanti linguistici, in cui sono tracciate le
isoglosse, linee cartografiche che segnano i limiti della diffusione di certi fenomeni, unendo tra loro punti che
presentano forme affini. Quando una serie di isoglosse tendono a coincidere, come in un “fascio”, si delinea un
confine linguistico tra aree dialettali, come la linea La Spezia – Rimini, che distingue i dialetti settentrionali da
quelli centrali, e la linea Roma – Ancona che distingue l’area centrale da quella centro-meridionale.

Nell’area centro-meridionale si distinguono l’area mediana, quella meridionale e quella meridionale estrema.

La Sardegna è articolata al suo interno in quattro aree. Nell’area settentrionale si colloca l’area friulana, in
parte affine a quella ladina.

Atlas of the World's Languages in Danger, con prospettiva non condivisibile, distingue aree diverse,
denominandole come se ognuna rappresentasse una lingua uniforme.

Per il Nord segue una divisione regionale (Ligure, Piemontese, Lombardo, Veneto), nell’Italia centrale è
collocato l’Italiano (forse per la fraintesa nozione dell’origine toscana dell’Italiano), all’Italia Meridionale (dalle
Marche alla Calabria e alla Puglia, Lazio compreso) è assegnato un South Italian (o Neapolitan nel sito Unesco);
a parte è indicato il Siciliano. Quindi le aree regionali, conservate al Nord, sono cancellate al Sud, mentre
sarebbe stato preferibile un coerente criterio regionale che presupponesse (con il plurale) una variabilità
interna (dialetti liguri, lombardi, lucani ecc.).

L’Unesco, che persegue la salvaguardia delle lingue in pericolo, nella sua particolare prospettiva, elenca le
lingue nell’area italiana ma misconosce l’esistenza di tanti dialetti locali.

La musica ha rappresentato un veicolo privilegiato della fortuna dell’italiano nel mondo. Tale circostanza si lega
in particolare al celebrato prestigio dei musicisti italiani, ma anche a un aspetto particolare: tra Cinquecento e
Seicento nasce in Italia il melodramma, in cui i testi sono strettamente legati alla musica. Perciò con la musica
circola anche una lingua che si diffonde tanto più agevolmente in quanto aderente al modello formalizzato
dell’italiano letterario, che anche per la sua stabilità rappresentava una risorsa. Con il lessico specifico della
musica (crescendo, allegro, vivace, con dolcezza) si diffonde anche il prestigio dell’italiano come lingua della
comunicazione nelle Corti europee.
La fortuna dell’italiano (poetico) come lingua della musica ha senz’altro favorito il perdurare dell’immagine
(ampiamente positiva) dell’italiano come lingua musicale, poetica e teatrale.

Una particolare ma significativa testimonianza della diffusione dell’italiano come lingua della musica, associata
anche a un’immagine positiva degli italiani e di una certa tendenza all’eleganza dei modi e del vestire si trae dal
romanzo Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez, in cui è presentato l'accordatore di una pianola:

«La casa importatrice mandò a sue spese un esperto italiano, Pietro Crespi, con l'incarico di montare e di
accordare la pianola, di far imparare ai suoi compratori a manovrarla e di insegnare loro a ballare la musica di
moda perforata su sei rulli di carta. Pietro Crespi era giovane e biondo, l'uomo più bello e più educato che si era
mai visto a Macondo, così scrupoloso nel vestire che nonostante il caldo soffocante lavorava col panciotto di
broccato e la grossa giacca di panno scuro».

Per tutti gli stranieri residenti in Italia l'italiano può diventare non solo la lingua dell'integrazione europea, ma
anche la lingua dello studio e della cultura.

Per la presenza dei migranti si è determinata negli ultimi decenni una situazione di plurilinguismo (circa 15 anni
fa si calcolava che erano giunte in Italia almeno 130 nuove lingue); tale plurilinguismo comporta come
conseguenza immediata un elevato numero di parlanti che usano l’italiano come L2 (cioè come seconda
lingua).

Le opere teatrali sono destinate alla rappresentazione come spettacolo, ma in quanto testi scritti presentano
una situazione molto particolare nel quadro della produzione letteraria.

I testi teatrali, infatti, sono affidati alla scrittura, ma sono veicolati dalla voce di attori che impersonano
personaggi a cui l’autore attribuisce ruoli e parole. La scrittura per il teatro si manifesta quindi come lingua
parlata recitata che, il più delle volte, deve essere percepita dagli spettatori come spontanea (anche se non è
tale).

Pertanto la lingua dei testi teatrali, con dosaggi diversi in rapporto alle intenzioni dell’autore e al genere
teatrale, si realizza come una combinazione in equilibrio tra lingua letteraria della tradizione e lingua parlata
spontanea di tono quotidiano e colloquiale.

Rispetto alla letterarietà delle tragedie e dei drammi in musica, sostenuti dalla lingua della tradizione o dalla
funzione importante della musica, il teatro comico si apre alla realtà e alla lingua comune. Va in questa
direzione la riforma di Carlo Goldoni (1707-1793): secondo Goldoni nella «professione di scrittore di
commedie» è necessario che tutti i dialoghi siano scritti e non affidati al "mestiere" degli attori.

In questo modo le vicende dei personaggi prevalgono sulle maschere della commedia dell’arte, apprezzata
«dalla ignorante plebe, dalla gioventù scapestrata» più che dalle «persone dotte e dabbene».
Le sue commedie lavorate «al tornio della natura» si aprono all’italiano corrente, in uno stile «semplice,
naturale, non accademico od elevato», e anche a forme veneziane, chiarite con spiegazioni per chi non conosce
«quel vezzoso dialetto». Le parole (qui citate) di Goldoni mostrano la piena consapevolezza della innovazione
poi seguita, nell’Ottocento, dal teatro popolare di Antonio Petito e di Eduardo Scarpetta.

Luigi Pirandello (1867-1936) a proposito di Liolà distingueva il dialetto rustico, l’italiano e una varietà
intermedia tra dialetto e italiano

Per quanto riguarda il dialetto Pirandello giungeva a soluzioni simili a quelle di Perrucci, proponendo per certi
contesti «quell’ibrido linguaggio, tra il dialetto e la lingua, che è il così detto dialetto borghese».

Nei testi scritti in italiano invece presenta una lingua colloquiale, vicina alla conversazione borghese del tempo.
Per avvicinarsi alla lingua dei dialoghi, Pirandello anche nella scrittura inserisce le pause e i toni del parlato,
ricorrendo per esempio ai puntini sospensivi e alle interiezioni, che, come una specie di regia implicita nel
testo, suggeriscono agli attori la necessità di sottolineare pause ed esclamazioni che in scena sono spesso ben
più numerose.

Il drammaturgo e attore Eduardo De Filippo (1900-1984) nelle Lezioni di teatro (1980), nei testi e nella sua
recitazione dimostra che non esiste una lingua unica per il teatro e afferma l’esigenza di modulare forme ed
espressioni (anche nel dosaggio di italiano e dialetto) in rapporto agli ambienti e ai personaggi. Tale
prospettiva, orientata alla variabilità della lingua, talvolta è fraintesa da chi rimprovera a questo autore di non
usare nei testi sempre il dialetto napoletano popolare.

Il dialetto comporta spesso il riferimento a una realtà linguistica percepita come composita e mutevole. Il
legame con il dialetto permette di cogliere la rilevanza del teatro nella storia culturale italiana.

Tra i maggiori uomini di teatro nell’Italia del Novecento vanno infatti considerati Luigi Pirandello, Raffaele
Viviani, Eduardo De Filippo, Dario Fo, che hanno scritto anche o prevalentemente in dialetto, tra istanze
realistiche e costituzione di una lingua per la scena (come il grammelot di Dario Fo). A due di questi autori,
Pirandello e Fo, è stato assegnato il Premio Nobel per la letteratura

Con il cinema, che trasmette un’opera in copie riproducibili, si pone un problema linguistico in parte simile a
quello affrontato dai tipografi alla fine del Quattrocento, che per primi avvertirono la necessità di una lingua
uniforme per raggiungere tutti i potenziali lettori.

All’inizio della sua storia il cinema, ancora muto, presenta tra le inquadrature didascalie e brevi battute di
dialogo, scritte in una lingua che da un lato risente dei modelli letterari e dall’altro riprende forme colloquiali o
anche dialettali.

Il Neorealismo, che dà spazio ad attori non professionisti o, come si diceva, “presi dalla strada”, propone le
mescolanze linguistiche usuali nella realtà, come si vede per esempio nella frase «Te la magneresti na pizza» di
Ladri di biciclette di Vittorio De Sica
Al Neorealismo si collega dalla fine degli anni Cinquanta la Commedia all’italiana, orientata verso una
pronuncia locale, anche con attori provenienti dall’Accademia d’Arte drammatica. Come in teatro anche nel
cinema la commedia si qualifica per la molteplicità degli stili, ma quasi mai adotta un dialetto marcato. Anche
un comico come Totò, talvolta erroneamente percepito come dialettale, si esprime in realtà in un italiano
locale aperto anche a influssi romani (come nel modo di dire «Non sono fiaschi che si abboffano»).

La molteplicità linguistica caratterizza non solo la commedia all’italiana (orientata verso varietà di italiano
regionale), ma anche opere più apertamente drammatiche, in cui spicca il ricorso a un dialetto per così dire
integrale. Da questo lato è emblematico il caso de La terra trema (1948) di Luchino Visconti girato interamente
nel dialetto siciliano di Aci Trezza e a tratti commentato in italiano da una voce fuori campo.

Per il Decameron (1970) Pasolini opta per un uso quasi integrale del napoletano, anche per le novelle non
ambientate a Napoli da Boccaccio; tale scelta si collega all'idea che il napoletano sia comunque adeguato a
rappresentare la realtà dell'epoca.

In bergamasco è poi girato L’albero degli zoccoli (1978) di Ermanno Olmi, mentre è in napoletano Immacolata e
Concetta (1979) di Salvatore Piscicelli. Sulla stessa linea, in anni più vicini a noi, si collocano idealmente
Bagheria (di cui esce anche una versione in italiano regionale) e Gomorra.

Il linguaggio burocratico rientra tra i linguaggi tecnici o specialistici, anche se non si rivolge solo a chi svolge una
determinata attività professionale, ma trova la sua ragion d’essere nella destinazione a un pubblico ampio,
identificabile con l’intera collettività dei cittadini. Diversamente dal linguaggio giuridico, affidato alla
mediazione di specialisti (gli avvocati), la comunicazione burocratica non dovrebbe prevedere mediazioni.
Tuttavia uno stile molto formalizzato, ricco di tecnicismi e di costruzioni complesse, produce l’effetto
paradossale di rendere incomprensibile una comunicazione rivolta a tutti. Un paradosso nel paradosso è che la
difficile comprensione dipende da un eccesso di precisazioni.

La parola burocrazia, di provenienza francese, si diffonde in italiano con la nuova organizzazione


amministrativa dopo la fine dell’Ancien Régime. Nel Regno di Napoli, nel periodo napoleonico i diversi comuni
per le registrazioni anagrafiche usano moduli prestampati. Dopo l’Unità la burocrazia diventa una componente
costitutiva del nuovo Stato. Nel 1905 Giuseppe Rigutini prevede la sua affermazione di burocrazia e
burocratico:«Queste voci hanno fatto in poco tempo un gran cammino, e sebbene siano ibride, componendosi
di francese e di greco, pure finiranno col prendere stabile dimora anche fra noi, perché sembrano necessarie
per certa sfumatura di beffa o di disprezzo che le circonda». Inizialmente Burocrazia, formato dal francese
bureaux (‘uffici’) e dal grecismo crazia (‘potere’), appariva come un parallelo forse parodico di democrazia, che
alludeva al potere degli uffici invece che al potere del popolo

La lingua burocratica per le sue formule era presentata come una “traduzione” da Italo Calvino, che faceva
l’esempio di un interrogatorio in cui l’inquisito così si esprimeva:«Stamattina presto andavo in cantina ad
accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per
bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata».
Nel verbale il testo è riformulato così:«Il sottoscritto essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali
dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel
rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al
contenimento del combustibile, di avere effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di
consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio
soprastante».

Invece è in genere costante l’obiettivo del linguaggio politico che punta principalmente a conquistare o a
mantenere il consenso, attraverso strategie di persuasione o genericamente di “seduzione”, funzionali più alla
trasmissione di suggestioni che di informazioni. La pervasività dei mezzi di comunicazione e la cosiddetta crisi
delle ideologie ha favorito nel tempo la tendenza a qualificare il discorso politico come annuncio o
dichiarazione più che come enunciazione di programmi o di posizioni ideologiche.

Negli studi è stata dedicata molta attenzione alla comunicazione politica dell’ultimo secolo. Nel periodo fascista
(1922-1943) il discorso politico manifesta una funzione di propaganda, con slogan e parole d’ordine di
immediata comprensione e facilmente memorizzabili. Tale tendenza di riconosce in particolare nei discorsi di
Mussolini, pubblicati tra l’altro in una serie di volumi che dimostrano in concreto la personalizzazione della
politica. L’oratoria mussoliniana, testimoniata anche da registrazioni, si fonda su frasi brevi e incisive,
sottolineate da pause e articolate in slogan come «Credere, obbedire, combattere», «Vincere!», «Dobbiamo
vincere e vinceremo»,

Un effetto collaterale di Internet sulla comunicazione politica può riconoscersi nella veemenza dei toni, che a
volte raggiungono l’irrisione, l’aggressività o l’invettiva verso gli avversari.

Tali manifestazioni sembrano riconducibili alla dimensione di iper-spontaneità della rete, che assume (non solo
in rapporto alla politica) le caratteristiche di una interazione “urlata”, simile a quella di situazioni comunicative
da strada o, come si diceva un tempo, da trivio.

La politica linguistica è l’insieme di iniziative dirette a regolare i comportamenti linguistici dei parlanti sia in
rapporto agli usi pubblici e ufficiali, sia in rapporto all’apprendimento delle lingue.

Gli interventi di politica linguistica possono essere espliciti o impliciti; possono comportare una volontà
fortemente dirigistica e coercitiva o si presentano in forma indiretta cioè attraverso l’affermarsi di consuetudini
largamente condivise più che attraverso prescrizioni e sanzioni. In generale la politica linguistica comporta la
distribuzione, secondo usi e funzioni differenti, delle diverse varietà di un repertorio. In situazioni in cui
convivono due lingue diverse, per esempio, possono essere riservati a una delle due gli usi ufficiali e
istituzionali, mentre l’altra varietà è limitata agli usi informali colloquiali.

In tali circostanze si determinano condizioni di diglossia, in cui la varietà destinata agli usi ufficiali è esclusa
dalla comunicazione informale, mentre l’altra è esclusa dagli usi ufficiali.

La politica linguistica si manifesta talvolta con norme legislative esplicite.


Questo è il caso degli editti con cui Emanuele Filiberto di Savoia, tra il 1560 e il 1577, prescriveva l’uso
dell’italiano (in relazione al latino o al francese). D'altra parte la politica linguistica si realizza anche con
progressive modificazioni delle consuetudini.

Per esempio l’italiano si è affermato come lingua degli studi universitari a partire dalla metà del Settecento,
quando fu interrotta una tradizione di esclusivo predominio del latino negli studi superiori. Nel 1754 a Napoli,
per la prima volta, fu tenuto un corso in italiano, con la cattedra di Economia civile istituita da Bartolomeo
Intieri, che finanziò il corso a condizione che fosse tenuto in italiano invece che in latino; tale insegnamento,
affidato ad Antonio Genovesi, rappresentò quindi una prima novità che segnò l’inizio di una svolta radicale
nella storia della didattica universitaria e nella storia del prestigio culturale dell’italiano.

Il prestigio di una lingua dipende non solo dalle leggi, ma anche dagli usi, dipendenti il più delle volte dalle
scelte dei parlanti o da iniziative formali non necessariamente legislative.

Negli ultimi anni, per esempio, si è diffusa in diverse università italiane l’uso di tenere anche insegnamenti in
lingua inglese, sia per facilitare l’accesso a iscritti (non necessariamente di madrelingua inglese) provenienti da
altri continenti, sia per prefigurare una circolazione dei laureati italiani sul mercato del lavoro non solo italiano,
in considerazione del fatto che l’inglese è lingua prevalente in diversi ambiti scientifici nel contesto
internazionale.

In Italia sono state adottate iniziative di politica linguistica durante il regime fascista, che in parte riprese
tendenze precedenti e in parte estremizzò opinioni correnti. Ebbero effetti limitati i tentativi di limitare l’uso
dei dialetti in teatro (si pensi al successo dei drammaturghi Raffaele Viviani ed Eduardo De Filippo che
recitavano anche in napoletano).

Con il cinema sonoro, il Fascismo impose il doppiaggio dei film stranieri, mentre nel 1940 fu vietato l’uso di
forestierismi nelle insegne pubblicitarie. Un’altra iniziativa riguardò una campagna a favore del voi invece del
lei. Se si osserva la realtà in modo non superficiale e alla luce di conoscenze storiche, si nota che ha avuto un
seguito solo il doppiaggio dei film, affermatosi con la fortuna dell’industria cinematografica italiana.

Anche le diverse modalità della comunicazione sono apprese attraverso l’esperienza o, per certi aspetti,
attraverso l’insegnamento esplicito o raccomandazioni dirette rivolte ai bambini come per esempio «Non dire
le parolacce», «Non alzare la voce»; una forma di raccomandazione indiretta, rivolta a chi diceva “voglio”,
invece di “vorrei” (possibilmente “per piacere”) era «L’erba voglio nasce solo nel giardino del re».

In modo più implicito sono in genere apprese altre regole della comunicazione che non riguardano le strutture
della lingua, ma il comportamento linguistico. In situazioni di bilinguismo varia per esempio in rapporto al
contesto la scelta della lingua, così come dalla situazione dipendono i pronomi allocutivi (tu, lei), eventuali titoli
(dottore, signor presidente), il sistema dei saluti (dal formale arrivederla a ciao), la scelta dell’atto linguistico
adeguato (affermare, chiedere, sussurrare, gridare, implorare, rimproverare, comandare ecc.).
Gli atti linguistici, l’uso dei pronomi, i saluti rientrano nel campo di studio della pragmatica, che analizza anche i
significati impliciti della comunicazione. In genere i parlanti regolano i propri comportamenti e le proprie parole
anche in rapporto a un’analisi “pragmatica”. Nelle opere letterarie queste analisi sono a volte esplicite.

I nuovi mezzi di comunicazione condizionano l’organizzazione stessa del messaggio. Inoltre la novità del mezzo
si abbina spesso un verbo che designa uno specifico modo della comunicazione: telefonare (anche fare uno
squillo), telegrafare, più di recente faxare (già desueto), chattare, tweettare, messaggiare, postare o perfino
whatsappare (i tratti “esotici” delle grafie sottolineano la novità dei mezzi).

Con i nuovi mezzi la simultaneità e il “botta e risposta”che prima erano solo del parlato caratterizzano anche le
scritture in rete, mentre (dall'invenzione del telefono fino a skype) diventa possibile comunicare a voce non
solo in presenza ma anche a distanza. Oggi notiamo novità lessicali come mail, tweet, o i nuovi usi di “mi piace”
(like) e di "condivisione"; col telefono si diffusero nuovi usi da pronto? a cellulare, mentre con il telegramma si
affermò lo stile telegrafico (con forme enclitiche e privo di articoli e preposizioni), necessario perché la tariffa
aumentava in rapporto al numero di parole.

Più che in passato, la rete rende visibili testi di scriventi inesperti, caratterizzati da imperizie, ma anche da tratti
colloquiali che documentano la mobilità dell’italiano. L’utente esperto trova peraltro in rete testi del passato e
del presente, utilizzabili anche come modello di scrittura.

Nella comunicazione in rete, in specie nei social network, è frequente la presenza di forme riconducibili a un
lessico locale, anche caratterizzato da una evidente connotazione giovanile. Queste espressioni sono usate in
genere in contesti dialogici, che permettono in qualche caso di inserire spiegazioni su usi particolari di tipo
locale.

Alla variabilità dell’italiano contribuiscono le caratteristiche, in particolare lessico e fraseologia, che


differenziano il modo di parlare dei giovani. Alcune forme tipiche usate esclusivamente dalle giovani
generazioni si notavano già negli usi studenteschi nella prima metà del Novecento e, anche in precedenza, in
usi connessi al servizio militare (p. es. imbranato).

Potrebbero piacerti anche