A partire dall’esempio del film 2001: l’odissea nello spazio, si può capire quale è stata la prima tecno-
logia utilizzata dell’uomo: la clava. È stata il primo contatto intimamente tecnologico tra specie u-
mana e ambiente. Questo dimostra, dunque, l’innata coincidenza tra tecnica e umanità nel campo
dell’agire, attraverso l’invenzione della mano. Che sviluppandosi si è modificata fino ad avere il polli-
ce opponibile; il quale viene presentato alla comunità tramite una serie di fonazioni e gesti rudimen-
tali, ma codificati e condivisi, che rendono possibile l’apprendimento della tecnica a tutti. Ciò ci fa
capire l’importanza del processo comunicativo e si può affermare che “dove si da’ comunicazione esi-
ste una forma di società”.
Prima di parlare del mito, bisogna specificare cos'è un segno e da dove nasce la sua invenzione. Pos-
siamo ricondurla al Paleolitico quando per comunicare si utilizzavano i graffiti sulle pareti delle ca-
verne, in particolar modo erano raffigurate scene di caccia. Ed è qui che si intrecciano tecnica e co-
municazione per la prima volta e si viene a creare un primo tentativo di “simbolizzazione dello spa-
zio antropico” mediante la riproduzione segnica del vissuto.
Secondo Batoille la nascita dell’arte corrisponde alla nascita dell’uomo, perché quest’ultimo imprime
per la prima volta la propria presenza “entro il mondo dei fenomeni” restituendo l’oggetto del suo
sguardo e del suo pensiero, la prova di esserci.
Quindi il segno è il punto d’incontro tra astrazione e materia, pensiero ed immagine che prelude a
sistemi comunicativi più elaborati e linguistici.
Le pitture di Lascaux hanno anche carattere rituale, e da queste è impossibile non crearne una narra-
zione, ed è proprio così che iniziano a prendere forma il mito. Il mito è considerato il primo modo di
organizzare il sapere degli antichi. È attraverso esso che l’uomo amplia il concetto di trasmissibilità
verbalizzando i fenomeni di importanza collettiva, per ricomporli in sequenze logiche e ordinate.
Compito cruciale dei miti e dei riti è riplasmare i passaggi cruciali della collettività a misura
dell’uomo e della sua capacità di pensiero, attribuendo loro un sistema codificato di norme ed ele-
menti riconoscibili- i topoi- al fine di delimitare l’esperienza sia sul piano della conoscenza che su
quello della temporalità. Nel complesso narrativo di ritualità e mitologia (definito terzo tempo) av-
viene l’istituzionalizzazione del rapporto fra tempo vissuto e tempo cosmico.
Miti e riti sono racconti grazie ai quali va ripetutamente a verificarsi la rappresentazione identitaria.
Miti e riti si fondono sul meccanismo della repetitio: come i fondamentali punti di snodo
dell’esistenza, così i rituali che ne riorganizzano il senso ricorrono e si ripetono riproponendo la sto-
ria delle cose. Allo stesso modo, le credenze che sono alla base dei riti vengono tramandate e danno
vita a tradizioni e processi culturali alla base dell’identità dei popoli, ciascuno di quali si ritrovano
nel modello mitico, l’archetipo, sottoponendolo ad un processo di innovatio , una modificazione che
rimanda ai tratti dello scambio tra mito stesso e il contesto sociale che lo socializza, (ri)costruisce e
(ri)condivide.
I miti di fondazione confermano lo schema archetipico su cui si basano; l’innovatio aggiunge la va-
riazione dell’inedito all’abitudinarietà della repetitio con lo scopo di dare e rafforzare il senso stesso
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della ripetizione nel contesto comunitario che vi partecipa.
Miti e riti servono a comunicare la comprensione di quel che l’uomo vive, inserendo un momento di
sospensione tra il tempo sociale e il tempo della natura, e anche la loro sostanza risponde e viene
scandita da un ritmo preciso. Questo accade in primo luogo per una funzione strumentale, in quanto
trasmessi oralmente. L’ oralità si fonda sulla centralità della memoria e del ritmo, che ne facilita
l’esercizio. La dimensione orale investe l’opera in ogni sua fase, a partire dalla composizione alla pre-
formazione, lo si può notare nei poemi epici dell’Iliade e l’Odisse, dove prende forma l’epos (tipo di
narrazione che racchiude i miti e le figure fondative della collettività). È la stessa epica di Omero a
tracciare il profilo identitario del suo pubblico. E secondo la stessa logica si sviluppa il teatro tragico
del V secolo a.C.
Soltanto in un secondo momento i contenuti della tradizione orale diventano fonti scritte così da es-
sere diffuse nel tempo e nello spazio come una testimonianza della vita nelle società delle tribù.
La scrittura attraversa una fase di elaborazione lunga e complessa con diverse forme e sviluppi:
Pittografia: Prima forma, letteralmente una scrittura dei segni quasi indistinguibile dalla pittura.
Prima codifica nelle tavolette di Uruk. Tavolette di pittogrammi che rappresentavano beni agricoli e
di consumo da gestire e razionare. Qui si vede come nella scrittura si vogliono comunicare anche
concetti privi di corpo (il tempo, la vita, la morte…) e socialmente costruiti.
Il potere normativo delineato dalla parola scritta va a realizzarsi nel momento in cui avviene un al-
lontanamento dei segni rispetto ai loro riferimenti fisici è ciò che in parte accade con la scrittura di
tipo: Ideografico, Vigente in Cina, basata sull’associazione tra idee e grafica, concetti e stilizzazione.
Nell’antico Egitto, invece, si utilizza la scrittura geroglifica (iscrizione sacra) acquisisce un ruolo deci-
sivo per ciò che riguarda il rapporto tra corpo, tecnica e comunità: lo scriba. Lui ha il compito di
amministrare i beni collettivi per le sue competenze tecnico-linguistiche, e questo gli dà enorme po-
tere sia simbolico che operativo. Cambiano anche i supporti su cui si scrive, da tavolette di pietra si
arriva ai papiri che velocizzano anche il processo di trasformazione che porterà a convivere il domi-
nio sonoro dell’oralità a quello visivo della scrittura.
Il mare assume un ruolo molto importante nei processi di creazione di reti comunicative nate attra-
verso lo svilupparsi della scrittura e quindi della semplificazione del linguaggio. La selezione culmina
a Micene e a Creta dove si stabilizza una scrittura sillabico-fonetica che assegna ad ogni sillaba un
segno diverso.
I Fenici forniranno alla cultura greca i fondamenti per un sistema compiuto di rappresentanza dei
singoli suoni: l’alfabeto.
La tecnologia della parola scritta si configura come spazio di definizione delle relazioni tra corpi e
poteri.
La scrittura, in veste di artefatto che si innerva tra corpo e apparato cognitivo dell’uomo, diventa lo
strumento privilegiato per memorizzare, organizzare e recuperare la conoscenza disperdendo il sog-
getto e allo stesso tempo consentendogli di ritrovarsi, di negoziare di volta in volta il senso della
propria presenza nell’ordine delle cose. Questo è il messaggio che identifica il medium, per usare la
fortunata espressione di Marshall McLuhan “essenza dell’accelerazione” ed “estensione del potere”.
L’interrelazione fra sapere e potere allora sorge spontanea. L’investitura sacrale del ruolo degli scribi
è parte di un processo che avanza nel tempo, radicandosi attraverso utilizzazioni e figure della scrit-
tura sempre più specializzate. Dopo l’avvento del Cristianesimo la parola scritta ottiene lo statuto di
“fonte di rilevazione e documentato imperituro” fissato sul supporto della pergamena.
La parola scritta ottiene lo status di fonte di rivelazione e documento imperituro. Se la comunicazio-
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ne dei contenuti continua a sfruttare un canale orale, che in parte o indirettamente si rivolge ancora
alla collettività, la loro proprietà e gestione resta appannaggio esclusivo di pochi. È proprio nei ter-
mini di questa tensione costante fra chiusura e apertura, mobilità e rigore, che il corpo sociale attua
la riscrittura delle sue gerarchie, imprimendo nuove orme e nuovi ordini sui singoli corpi degli indi-
vidui, ai primi vagiti di quella che sarà, a distanza di diversi secoli, l’età moderna.
A partire dalle prime forme di comunicazione segnica costituite dalle pitture di Lascaux e prose-
guendo con l’invenzione di un sistema codificato di rappresentazione grafica dell’habitat visivo-
sonoro dell’uomo, si è constatato come la costruzione sociale della comunicazione si leghi intima-
mente all’ominazione della specie. Ne deriva che è lo stesso insieme dei media ad assumere la confi-
gurazione di un sistema, dove la relazione di mutua influenza delle parti conduce al costante riuso
delle forme comunicative anche nei casi in cui il loro spazio mediatico va spontaneamente ad esau-
rirsi. È necessario sottolineare l’assoluta necessità del linguaggio dell’adattamento dell’uomo alla
Terra e il modo in cui il suo viluppo sul doppio fronte dell’oralità e della scrittura sia proseguito fino
a noi, ri-mediandosi in nuovi oggetti e ambiti comunicativi. La comunicazione dell’uomo è rimasta
ad articolarsi in un misto di scritto e parlato, a richiedere l’ascolto come il supporto grafico, lo stor-
ytelling verbale accanto a quello per immagini, presupponendo in qualsiasi caso, la codifica e decodi-
fica di un universo segnico complesso e variegato, oggetto fluido di studi mediologici.
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Innanzitutto si può considerare l’industria culturale come un “sistema” di relazioni, veri flussi di in-
formazioni che supportano lo sviluppo della società industriale poiché capace di attrezzarsi conti-
nuamente nei confronti della complessa mutevolezza delle condizioni sociali di riferimento.
Morin con un approccio antropo-sociologico attua un processo di osservazione delle trasformazioni
e si pome una domanda fondamentale: “chi e perché consuma i prodotti della cultura di massa?” e
mette in discussione la neutralità o la condizione super partes dell’intellettuale a indagare i rapporti
che si instaurano tra pubblico e industria culturale. Lui stesso non risponde a questa domanda per-
ché volge la sua attenzione più sulle dinamiche della cultura di massa, ai suoi meccanismi di affer-
mazione e negoziazione sociale, ai suoi media più incisivi. Egli elude parzialmente sul piano metodo-
logico la questione dell’origine del processo di industrializzazione della cultura – dunque della nasci-
ta e del progressivo definirsi di una cultura industriale estese a tutto il corpo sociale.
Tra i francofortesi e Morin si colloca quell’eterogeneità di posizioni che rimanda alla natura profonda
dei conflitti di culture nel passaggio epocale tra Ottocento e Novecento.
2. L’era tipografica
CAP 3. I MEDIA A STAMPA. EVOLUZIONE SOCIALE DELLA PAROLA E DELL’IMMAGINE TIPOGRAFICA.
3.1 L’era dell’uomo tipografico
L’organizzazione sociale si fonda sulle transazioni rese possibili dai processi di comunicazione. La
capacità di elaborare, trasmettere e utilizzare le conoscenze e le informazioni è ritenuta fondate per
ogni struttura comunitaria. Nel 1982 Walter Ong diversifica in termini psico-dinamici le differenze
tra le culture orali e le culture scritte. Nella fase dell’oralità il corpo umano rappresenta il supporto
essenziale della comunicazione; invece, nella cultura dei letterati le parole sono semplicemente suo-
ni. Quindi con la scrittura si ha la possibilità di conservare la conoscenza, dunque, al di fuori della
mente; mentre per le culture orali le società devono investire molte energie nel ripetere svariate volte
ciò che è stato appreso nel corso di secoli.
Una delle più importanti opere su questo tema è La galassia di Gutenberg. Nascita dell’uomo tipogra-
fico di McLhuan (1964), un testo che mette in parallelo la storia dei media e l’evoluzione della cultura
umana. Egli spiega che l’uomo tribale non è un uomo specializzato: la parola, uno dei primi media, è
parte integrante del suo fruitore. L’alfabeto fonetico ha permesso poi di oggettivare i propri pensieri
metallizzandoli al di fuori di sé stessi. Successivamente la stampa a caratteri mobili e in particolare
con il libro, l’uomo può organizzare il proprio ambiente in modo lineare. Al contrario con
l’elettronica e l’elettricità si riporta simultaneità in ogni campo della vita umana e ridimensionando
la grande famiglia umana in un villaggio globale, che riduce le distanze dello spazio mediale in cui
viviamo. In quest’opera McLhuan fa riferimenti ai concetti di spazio e tempo definiti da Innis nel
1950, e può essere considerata una risposta al testo di Innis The Bias of Communications dove egli si
interroga sul rapporto che intercorre tra uomo e media, identificando quest’ultimi come estensione
del corpo umano (il concetto di protesi simbolica).
Tutti gli studi successivi hanno tenuto conto, in qualche misura, di tali questioni teoriche. Nel 1974,
con Il paradigma perduto, Edgard Morin ha voluto risolvere il conflitto antropologico tra natura e
cultura, altro grande tema di intima incidenza mediologica: i due termini, lungi dall’essere tra loro
distanti o contrapposti, costituiscono invece due facce della ri-determinazione dell’antroposfera.
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proprio all’interno di questa particolare accezione dei media a stampa che coniuga la produzione in-
dustriale e culturale. Si sviluppa una modalità di narrazione assai prossima alle forme comunitarie
premoderne di esperienza della vita, recuperando su un piano simbolico ciò che il Moderno ha e-
stromesso dall’ordine del discorso (Brancato). Inizia così tra la metà del XIX secolo e quella del XX
secolo l’età del romanzo di appendice (feuilleton), una forma di testo seriale che nasce e si consolida
nella maggior parte dei quotidiani europei; che si interroga anche su fenomeni sociali di stringente
attualità come la diversità etnica, le trasformazioni dei consumi o i conflitti della vita metropolitana.
I contributi al romanzo di appendice sono programmaticamente impegnati in un processo di ridefi-
nizione dei significati collettivi. In ogni caso, la storia di questo fenomeno non può essere ridotta
semplicemente a un genere letterario, deve invece essere collocato all’interno della storia culturale di
produzione della conoscenza: esso ha fornito metodi e strumenti che hanno permesso ai lettori di
formare giudizi e dare un senso alle questioni sociali e culturali contemporanee prima che queste
conoscenze venissero trasferite nelle scienze sociali. In Il superuomo di massa. Retorica e ideologia
del romanzo popolare, Umberto Eco ricompone il quadro storico del romanzo di appendice eviden-
ziando il successo che questo genere riscuote sin dagli esordi: per popolare, infatti, non si intende un
prodotto rozzo o semplificato risvolto a una massa non istruita, bensì un genere aperto a tutti, basa-
to su temi di vastissimo interesse. Esso narra prettamente delle condizioni del proletariato e del sot-
toproletariato urbano, un universo rigido e schematico che contrappone gli umili ai potenti e nel
quale emerge la figura di un superuomo che difende e vendica i più deboli. In questa prospettiva, il
romanzo d’appendice non si presenta con velleità rivoluzionarie, ponendosi quale mediatore dei
conflitti che caratterizzano la modernità: il superuomo delle masse non è dunque una figura nobile
ed eroica, ma piuttosto la sedimentazione delle contraddizioni – anche morali – dell’ambiguità. Eco
sottolinea il tono consolatorio di queste narrazioni che rispettano la canonica struttura della poetica
aristotelica e il portato mitico: anche se nella metà del XIX secolo il tasso di analfabetismo in Europa
era ancora alto, il romanzo popolare riesce tuttavia a coinvolgere un pubblico di massa. Anche chi
non sapeva leggere si riuniva in luoghi collettivi per farsi leggere le nuove gesta. Tale tipologia di ro-
manzo a puntate esprime una forte rilevanza social, al punto di influenzare i primi movimenti del
socialismo culminati nei moti del 48.
Contemporaneamente negli USA si affermano i cosiddetti dime novels, romanzi economici concepiti
e realizzati per un consumo di massa, pubblicati con cadenza regolare. L’obiettivo di questi romanzi
era quello di stupire il lettore e non compiacerlo o consolarlo: negli schemi di queste storie era pos-
sibile intravedere la sostanza traumatica del mondo moderno. I canoni di questa narrativa esisteva-
no da migliaia di anni ed erano disponibili per essere riutilizzati da un pubblico nuovo di lettori: ana-
lizzare il rapporto tra le tecnologie culturali e l’inclusione sociale è un esercizio fondamentale per
comprendere al meglio l’intreccio indissolubile tra le forme storiche dei rapporti sociali e i media.
Tuttavia, indagare il fenomeno sociale della letteratura popolare del XIX secolo rende esplicita la di-
rompente modernizzazione della vita quotidiana che – a partire dall’invenzione di Gutenberg –
l’industrializzazione delle forme estetiche era stato in grado di promuovere.
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Il fotogiornalismo nasce nell’ambito della fotografia di guerra, con alcuni pionieri del campo come
Roger Fenton e le sue immagini della guerra di Crimea. Lui fu il primo fotografo ufficiale di guerra. Il
suo lavoro fu pubblicato su Illustrated London News, portando per la prima volta questo genere di
immagini ad un pubblico di massa. L’aggiunta di illustrazioni fotografiche alle notizie fu resa possibi-
le solo grazie all’avanzamento della tecnica ad incisione.
Con Mathew Brady in America nasce una nuova figura: fotografo embeddad. Egli cattura scene sui
campi di battaglia, viaggiando sul campo insieme ai suoi 20 assistenti.
Nella seconda metà del XIX sec. Questo settore della comunicazione si estende oltre i confini della
fotografia di guerra. Dal 1876 al 1877 Street Life in London rivoluzionò il settore utilizzando le foto-
grafie come mezzo dominante della narrazione, e si affermò l’idea che il consumo d’immagini non
riguardasse solo eventi straordinari, ma toccassero ormai ogni aspetto della vita quotidiana.
Due innovazioni tecnologiche furono molto importanti: la stampa a mezzi toni, che consentì di
stampare l’intera gamma di ombreggiature e velocizzare il processo di stampa; il flash che permise
una nitida fotografia d’interni, importante caratteristica per il più importante fotoreporter sociale,
Jacob Riis. La sua opera principale documenta la vita degli immigrati che vivono nelle baraccopoli o
negli insediamenti di New York. Il suo lavoro ha mostrato il potere del fotoreportage, stimolo per il
cambiamento. L’Età d’oro del fotogiornalismo fu dagli anni Trenta agli anni Settanta. Importante di-
re che anche molte donne contribuirono al fotogiornalismo, come Margaret Bourke-White prima
reporter di guerra; Dorothea Lange pioniera della fotografia documentarista.
Con il declino delle riviste fotografiche e del giornalismo cartaceo in generale, il fotogiornalismo si è
evoluto fino a trasformarsi in qualcosa di assai distante dalle proprie forme storiche. L’emergere delle
tecnologie digitali ha imposto al fotogiornalismo cambiamenti radicali: in un’epoca in cui l’etica
giornalistica è ancora un rilevante fattore deontologico, la manipolazione fotografica diventa un ar-
gomento molto delicato. Con il loro caratteri di immediatezza, i social media hanno avuto un grande
impatto sul ruolo stesso dei fotoreporter. Tuttavia, l’avanzamento tecnologico ha apportato anche
numerosi vantaggi ai fotografi professionisti: basti pensare alla possibilità di inviare foto di alta quali-
tà in pochi secondi. Per comprendere la centralità del fotogiornalismo è necessario osservare
l’emergere del vedere come principale esercizio esperienziale dell’uomo.
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arte e pubblico. In particolare, lo sviluppo delle tecnologie della modernità fornisce una spinta deci-
siva all’innovazione visuale. E così che l’illustrazione diviene fenomeno di massa, creando una diffu-
sione socialmente diffusa relativa ai rapporti di socializzazione, e si coniuga a molteplici strategie e-
spressive nell’ambito delle interazioni interumane. Partendo dall’interazione immagine/ parola
dell’editoria, delle pubblicità e del fumetto: il linguaggio audiovisivo basato sulla sinergia funzionale
tra codice iconico e codice verbale.
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erano rimosse dal quadro rappresentativo della società, a partire dalla sessualità e dall’esibizioni di
violenza.
La copertina aveva funzione comunicativa molto forte, in quanto costituiva il primo impatto sul con-
sumatore, per questo spesso concepita con eccesso di colori primari e coreografie visive.
Le illustrazioni interne avevano un ruolo secondario, solitamente in b/n, che incanalavano le corren-
ti dello sguardo spettatoriale entro l’estetica del genere.
La dinamica diviene ancora più chiara quando in America il fenomeno di evolve nei dispositivi di
pulp magazine, contenitore editoriale a basso costo per un pubblico di massa sempre più alfabetizza-
to. Nel corso del secolo breve l’illustrazione tende a dislocarsi ulteriormente sul copro articolato dei
linguaggi mediali, concorrendo alle trasformazioni del libro – ad esempio con la nascita dei paper-
back, volumi economici in brossura che utilizzano l’allure dei grandi illustratori per implementare la
propria attività sul mercato – così come all’intero sistema delle forme estetiche. Nell’ambito di una
costante evoluzione tecnologica e della strutturale sinergia con ciò che ha luogo nei territori speri-
mentali delle arte visive, il destino dell’illustrazione si compie attraverso la sua declinazione digitale,
quando la potenza delle tecniche informatiche le permette di superare la dicotomia tra staticità e
movimento, traducendo i suoi sterminati repertori nei nuovi linguaggi dell’audiovisivo.
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si passerà così da una narrativa ciclica, basata su un incessante ripetizione degli stereotipi compor-
tamentali dei personaggi, a un’integrazione del tempo storico e generazionale nell’economia del rac-
conto.
Ma questi processi investono la fase di massa della vita del medium. Messo in forte crisi dalla concor-
renza della televisione e poi dai nuovi linguaggi informatici. Dalla dimensione del consumo di massa
si passa ad un consumo più elitario, di nicchia. Anche la strip giornaliera vede ridursi di molto il
mercato.
Il fenomeno più rilevante di fine Novecento diventa il manga, fumetto giapponese o coreano, che si
rivela competitivo anche in Occidente.
Oggi i comics hanno ridefinito ulteriormente la loro sfera espressiva attraverso il graphic novel, una
concezione del medium che si distacca dalla serialità ed è più vicino alla forma del romanzo, anche al
fine di bypassare la crisi dell’edicola.
Il fumetto non è in declino, piuttosto muta, come il cinema, nella fase di rimediazione digitale dei
mezzi di comunicazione: numerosi sono infatti i siti di comics sul web, e la rete è un supporto
dell’immaginario disegnato. Quindi, essere stato uno dei più classici media industriali, non significa
per forza uno svantaggio, piuttosto si adegua ai cambiamenti.
3. L’audiovisivo
CAP.5 ORIGINE E MUTAZIONE DEL CINEMA. LA COMUNICAZIONE AUDIVISIVA.
5.1 I meccanismi della visione
Gli storici del cinema tendono a collocare la nascita del medium nel 1895, anno in cui i fratelli Lu-
mière brevettarono il cinematografo, un dispositivo che costituiva il definitivo miglioramento di una
lunga serie di precedenti invenzioni finalizzate alla riproduzione fotografica del movimento. In realtà
la genesi del cinema è più complessa e affonda le radici molto prima. Le origini degli studi sui princi-
pi ottici elementari li dobbiamo ai filosofi greci, nel Medioevo questi studi furono ripresi, fino ad ar-
rivare al Rinascimento quando si affermò la camera oscura. È uno dei primi dispositivi ottici, consiste
in un ambiente chiuso e senza luce, alla cui estremità c’è un piccolo foro, grazie al quale la luce e-
sterna penetra e proietta sulla parete opposta ciò che sta al di fuori della camera. La tecnica fotogra-
fica nasce proprio dalla base di questo principio. Kircher perfezionò la camera oscura ricorrendo ad
una fonte di luce artificiale: il risultato fu ciò che veniva definita lanterna magica. Nel clima culturale
dell’epoca, quelle impalpabili visioni d’ombra e luce, senza corpo, furono stigmatizzate come frutto
di un sapere diabolico. Lo stesso Kircher e i suoi epigoni, tuttavia, continuarono a perfezionare tec-
nicamente la lanterna magica e molti giunsero ad usarla – per illustrare racconti simili a quelli dei
cantastorie popolari, anticipando così la vocazione narrativa del cinema.
Nei secoli successivi si sviluppano numerosi giocattoli ottici che funzionavano sui limiti fisiologici
dell’occhio, in particolare sulla lentezza a percepire il mondo di forme che lo circonda. Lo scienziato
belga Joseph Palteau studiò a fondo tali dinamiche neuro percettive e nella prima metà del XIX seco-
lo realizzò uno strumento – il fenachistoscopio – consistente in un disco su cui delle figure disegnate
sembrano muoversi quando il supporto viene fatto ruotare a una velocità adeguata. Esso rappresen-
tava un’anticipazione del teatro ottico, che a sua volta è da intendere come anticipazione del cinema
di animazione e del cinematografo dei fratelli Lumière.
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cines, nella sala sottostante al Grand Cafè, e la fruizione delle immagini sullo spazio condiviso di uno
schermo ebbero molto successo e gradimento. . Il cinematografo si basava su soluzione tecniche già
approntate da altri, ma esso consentiva di sincronizzare perfettamente lo scorrimento della pellicola
con l’apertura dell’otturatore dell’obiettivo, ottenendo quindi la stabilità e la nitidezza
dell’immagine, grazie a una griffa mutuata dal meccanismo della macchina da cucire. Occorre, qui,
sottolineare la differenza tra cinematografo e cinema teorizzata da Morin: il cinematografo è
un’opzione tecnologica, un attrezzo che consente di realizzare una plausibile riproduzione cinetica
di immagini dal vero, frutto di quell’aspirazione a un realismo integrale; il cinema è un linguaggio,
un medium socialmente condiviso, attivato dall’interazione del ciclo produttivo da un pubblico che
ne negozia costantemente le caratteristiche comunicative, i generi, le estetiche.
5.5 Lo spettatore
Centrale è il ruolo del corpo dello spettatore, che nel cinema viene sollecitato e posto ad una condi-
zione tale da richiamare alla mente l’esperienza dl sogno. La logica che muove questo fenomeno è il
desiderio annidato nello sguardo sospeso tra incredulità e coinvolgimento dell’individuo che consu-
ma lo spettacolo, merce prodotta dall’industria culturale.
Il cinema ricicla e potenzia le sostanze dell’immaginario occidentale. La tecnica è ciò che realizza
una partecipazione collettiva, addirittura rituale. Il cinema conquista la sua egemonia nel quadro dei
processi della comunicazione proprio per la sua capacità di mobilitare il desiderio, di motivare il
pubblico a pratiche di consumo che ruotano intorno ai prodotti del cinema e li completano. Il cine-
ma si appropria ben presto di una spiritualità laica che ne traduce la sua natura mercificata in un e-
lemento in grado di far detonare nel sociale inedite forme di culto, essenzialmente legate alla figura
del divo. Gli apparati della stampa popolare si attrezzano per completare il circuito comunicativo tra
cinema e pubblico. Le sempre più diffuse riviste specializzate consento alle major hollywoodiane,
presto imitate dalle altre cinematografie, di pianificare accuratamente la promozione dei loro pro-
dotti. La dimensione industriale del cinema consente di modernizzare il processo di mitizzazione del
ruolo dell’attore già presente da molto tempo nel teatro.
Ma alla fine di tutto le strategie produttive sono sottoposte alla “regia” del pubblico, che consacra i
successi e decreta i fallimenti. Il problema ultimo di Hollywood, di Cinecittà, della Ufa tedesca e di
tutte le realtà produttive della prima metà del Novecento sarà sempre quella di attrezzarsi per co-
gliere le oscillazioni del gusto, individuare le correnti delle emozioni collettive, interpretare l’effetto
sociale dei tipi somatici e dei modelli comportamentali; lavoro importante per assecondare le aspet-
tative espresse dall’idealtipo del proprio spettatore che per azzardare forzature in grado di rilanciare
in avanti i termini del discorso. Quando il cinema si radica nel consumo, le dinamiche di scambio tra
apparati e pubblico diventano sempre più veloci, sottoposte come sono alla pressione di un mezzo di
comunicazione che nasce come innovazione tecnologica e che continua incessantemente a rinnovar-
si.
“di massa”.
Gli storici del cinema hanno svolto un’importante mediazione tra pubblico e apparati produttivi, ma
attraverso metodologie messe a punto da altre forme estetiche, come la pittura, il teatro, il romanzo,
che non tenevano conto del fatto che era un nuovo medium ibrido e tecnologico. Talvolta, la sinergia
tra l’approccio sociologico e quello storiografico ha portato a considerare il cinema come un osserva-
torio delle dinamiche sociali, in una prospettiva che rende il film una sorta di repertorio socio antro-
pologico per la comprensione del dato storico.
Una sociologia degli apparati di produzione-consumo abbinata a una sociologia dello spettatore può
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risultare l’ottica più interessante con cui guardare le evoluzioni e i conflitti dell’esperienza mediale
del cinema, il suo attagliarsi ai processi culturali e ai comportamenti della società contemporanee, il
suo essere una scienza dello sguardo socialmente condivisa. Risulta, quindi, utile sottolineare che i
media ottocenteschi tendevano già a palesare una natura sistemica molto concreta; dunque, a ri-
mandarsi l’un l’altro e a essere resi operativi in modo trasversale da un pubblico multi-alfabetizzato.
È questa attenzione agli aspetti antropologici e sociali del cinema accanto a quelli estetico-formali
che può dare senso alle aspirazioni della ricerca.
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5.9 Il montaggio
Possiamo iniziare a parlare di montaggio cinematografico insieme a Méliès, le cui sperimentazioni
visive producono il transito da una narrazione per immagine vincolata in un'unica inquadratura, e
quindi ad uno spazio-tempo limitato, a un’altra che prevede molteplici passaggi spazio-temporali
grazie all’accostamento di “quadri” tra loro indipendenti. L’inquadratura seleziona il campo
dell’immagine compiendo una scelta e facendo vedere allo spettatore quello che il cineasta vuole e-
strapolare dalla totalità del mondo. L’obiettivo della macchina da presa è ritagliare una cornice dal
tutto, tracciando la differenza tra campo e fuoricampo. E appunto montando le diverse inquadrature.
Il linguaggio cinematografico tende a adottare sempre una sostanziale manipolazione della realtà.
Porter si pone il problema di imprimere alle immagini girate il senso del tempo capace di dar loro si-
gnificato. Escogita come soluzione il montaggio parallelo, in cui la macchina da presa segue il pro-
gredire di più eventi, ricostruendoli in modo alternato sullo schermo e scandendo un ritmo che in-
forma lo spettatore su più livelli d’azione. Griffith è una figura centrale nello sviluppo del linguaggio
cinematografico perché trasforma ciò che in Méliès era effetto magico, in un mezzo di espressione
drammatica, a partire da quanto attuato da Porter. Si punta a coinvolgere il pubblico attraverso
l’adozione di piani di ripresa tra loro differenti. L’idea griffittiana di montaggio imprime i propri ca-
ratteri all’intero cinema statunitense, orientandone gli esiti estetici e produttivi, ed estendendo la
propria influenza anche alle altre cinematografie. Grazie ad essa, la tecnica diventa elemento dram-
matico di una narrazione estremamente funzionale all’ideologia dell’industria culturale. Questo
montaggio narrativo sarà caratterizzato dall’impercettibilità dei raccordi tra le immagini, perché per
funzionare a livello drammaturgico la percezione delle immagini da parte dello spettatore deve esse-
re orientata unicamente sulla linea del racconto.
Su un piano radicalmente diverso si colloca l’idea di montaggio messa a punto in Unione Sovietica da
Vsevold Pudovkin, il montaggio costruttivo, che sottolineava la pregnanza del dettaglio, in una logica
che tendeva a caricare quest’ultimo di una forte valenza simbolica. Il ruolo del montaggio nel cinema
è predominante nel racconto rispetto a quello della recitazione, soprattutto se la fine è un film lirico
che sceglie non il racconto ma una visione sostanzialmente poetica del mondo. La cinematografia
sovietica tenderà invece a perseguire una ricerca formale strettamente intrecciata alle specificità tec-
niche del linguaggio filmico. Fu Sergei Michajlovic Ejzenstejn, sostenitore del montaggio intellettua-
le, per il quale il film non deve agire necessariamente sulle emozioni, ma può impegnare l’aspetto ra-
zionale dello spettatore. Si tratta di una posizione che riflette la natura utopica dell’esperienza ejzen-
stejniana, quella tracciata da un cineasta impegnato nella costruzione di una società nuovo in cui le
strategie dei media sono definite da un progetto – quello del comunismo sovietico – assai distante
dalle prospettive dell’industria culturale.
L’esperienza percettiva del pubblico viene riformulata tra gli anni 20 e 30 con l’introduzione del so-
noro, quindi la responsabilità del linguaggio visivo, si sposta sul linguaggio acustico.
5.10 Il sonoro
Il primo film sonoro, per gli storici, fu The Jezz Singer (1927). Ma in realtà esperimenti sulla sincro-
nizzazione sonora erano già stati fatti nei primi anni del 900. Quindi la possibilità di una tecnologia
non significa che questa si affermi automaticamente nella cultura dei consumi. Solo nella fine degli
anni Venti si intuì nel cinema il compimento tecnico e linguistico delle strategie audiovisive. Ini-
zialmente dall’interno molte furono le resistenze a questo cambiamento, ma la risposta del pubblico
fu di grande adesione, in quanto si ampliavano le zone erogene del consumo stimolando i sensi del
consumatore in modo più completo e coinvolgente.
Cambiano anche i generi nati nella prima età del cinema, con nuovi repertori acustici che vanno a
connotare delle immagini già acquisite. Ad esempio, l’immaginario criminale viene animato da suoni
come sire o spari, le urla di dolore e angoscia che caratterizzano il tempo del racconto. Il varietà si
trasforma in Musical,che rifonda l’uso della macchina da presa attraverso movimenti antinaturalistici
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che inseguono le coreografie. La tecnologia del sonoro da vita a un processo di spostamento del con-
sumo del cinema verso dimensioni più marcatamente multimediali. Il sonoro cambia il rapporto tra
pubblico e schermo, mutano le forme e i codici della partecipazione, mutarono i presupposti per un
ulteriore scatto delle dinamiche di interazione tra pubblico e territorio.
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piuttosto che quelli cinematografici nello sviluppo del medium televisivo. Hollywood reagì con una
duplice strategia:
-migliora le tecnologie cinematografie, così da non renderle riproducibili in televisione.
-riconverte i vecchi film che avevano esaurito il loro ciclo vitale nel consumo delle sale e vende ai
broadcasting i diritti di trasmissione di questi film.
Ma questa ideologia del conflitto e della resistenza alla contemporaneità viene messa in crisi dai
nuovi assetti imprenditoriali della comunicazione, che registrano il ritorno in forze degli apparati
produttivi cinematografici sulla scena.
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CAP. 6 LA COMUNICAZIONE ISTANTANEA: TELEGRAFO, RADIO, TELEVISIONE.
6.1 Elettricità e istantaneità
Quando Marshall McLuhan si trova a dare una definizione di età elettrica parte da lontano, cioè da
ciò che nella sua prospettiva divide e caratterizza la società preindustriale rispetto allo sconvolgi-
mento prodotto dalla scoperta dell’elettricità e dell’avvento del paradigma della fabbrica.
I progressi scientifici e tecnologici ottenuti a cavallo fra i secoli XVIII e XIX sono la spinta e insieme il
sintomo del delinearsi di un nuovo orizzonte per la specie umana, dove il “compito di imparare e sa-
pere”, liberato dalla griglia della specializzazione delle competenze e dei poteri, assume per la prima
volta una funzione unificante in senso stretto. L’individuo al centro dell’età elettrica viene definito
McLuhan come un nomade alla continua ricerca della conoscenza, al quale l’elettricità fornisce il
supporto fisico per spostarsi da un’informazione all’altra fino a stabilire un’inedita e totalizzante
forma di connessione con le cose.
Nell’Ottocento il potere di conoscere porta a definitivo compimento il percorso di erosione delle
fondamenta del potere che conosce: questo perché l’elettricità ha la forza di estendere globalmente il
sistema nervoso dell’uomo, di individuare e svelare il punto d’incontro fra i suoi presupposti biologi-
ci e il divenire dei processi sociali in cui, come nella contemporaneità, l’individuo si trova a essere co-
involto nel crescente prodursi di informazioni che viaggiano alla stessa velocità degli impulsi cele-
brali.
McLuhan è fra i primo studiosi di comunicazione a preconizzare la qualità immersiva ed estensiva
della loro esperienza: i dispositivi mediatici sussistono in una relazione di mutuo scambio che li por-
ta a riplasmare l’ambiente accanto a chi lo abita. Con l’età elettrica comincia ad affermarsi un model-
lo esperienziale basato sull’istantaneità e la circolarità. È anche e innanzitutto il corpus sociale a mo-
dificarsi immergendo gli individui in un flusso omnipervasivo di informazioni, che lavora per accor-
ciare la percezione delle distanze sia in termini spaziali che temporali, arrivando a realizzare il vil-
laggio globale descritto da McLuhan nel suo fondamentale libro Gli strumenti del comunicare (1964).
Tale processo, innescato dallo sviluppo delle tecnologie dei trasporti, va ad ampliarsi. Dall’inedita e
inaudita estensione dello spazio sociale che le reti ferroviarie e il miglioramento delle tecnologie di
navigazione producono nel corso del XIX secolo deriva quella che James Beninger definisce una crisi
di controllo, vale a dire la nascita di un impellente bisogno di compensare la nuova grandezza
dell’orizzonte spaziale e coprire le distanze materiali in tempi sempre più brevi. L’istantaneità, la si-
multaneità del qui e ora dell’altrove rivestono il cuore della rivoluzione iniziata – sulla base concet-
tuale del telegrafo ottico – dal telegrafo elettrico di Samuel Morse e culminata nel 1876 con
l’invenzione del telefono, dispositivo dai molti padri ma brevettato nella sua soluzione definitiva da
Alexander Graham Bell.
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esclusivo appannaggio del telefono fino al 1906, anno nel quale Reginald Fessenden effettua la prima
trasmissione vocale radiofonica. Ciò rappresenta senz’altro un punto di svolta sia nei termini
dell’orizzonte percettivo sin qui discussi che per quanto riguarda l’insieme dei processi mediatici e
del sistema di relazioni che lo sostiene.
4. Il digitale e le reti
CAP.7 LA FINE DELLE COMUNICAZIONI DI MASSA. RETI E PERSONAL MEDIA NELL’ETÀ DIGITALE.
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7.8 Lo sport come medium totale
Considerando lo sport alla stregua di un medium possiamo cogliere la composizione bivalente del
suo pubblico. I fan presenti dal vivo sono parte integrante dello spettacolo. Il pubblico dello sport ha
una composizione eterogenea: si va dagli appassionati impegnati in attività di fandom ai cosiddetti
tifosi occasionali. Questa topofilia viene mitizzata, spesso come sentimento nostalgico per tempi
passati, quando gli stadi e le squadre costituivano davvero delle rappresentazioni simboliche territo-
riali, e il legame fra sport e media – come il teatro o il circo – si basava sulla performance e la presen-
za fisica allo stadio.
Il solo mercato locale non può sopperire alle necessità di un’industria sportiva globale: i campionati
più importanti sono seguiti mediante vecchi e nuovi media e orientati verso mercati slegati dall’idea
di territorio, nella continua ricerca di nuove piazze, nuovi fan, nuovi investitori. Ma oggi non si può
pensare in termini di conflitto tra locale e globale: per la crescita e la prosperità di un club all’interno
di un sistema economicamente sempre più competitivo, lo sviluppo di brand sportivi è indispensabi-
le. Questa rinnovata fluidità spettatoriale ed economica ci mostra una delle sfaccettature del feno-
meno che Anthony Giddens definisce disembedding: la disfunzionalità della distinzione forzata tra
entertainment e cultura, o tra cultura alta e cultura bassa, viene ancora una volta evidenziata
dall’evoluzione del fenomeno sportivo. Dalla mitizzazione della cultura olimpica alla struttura alta-
mente spettacolare di dream team calcistici come il Real Madrid, o di eventi mediatici dal forte coin-
volgimento sociale: risulta chiaro quanto lo sport sia uno dei motori della moderna industria cultura-
le e come sia riuscito a rimanere al passo coi tempi adattandosi velocemente ala scompaginazione
dei medium di massa. Il rapporto fra media e sport si rinsalda in una convergenza che produce uno
dei luoghi più dinamici della produzione culturale contemporanea, rimescolando continuamente le
analisi ortodossi e le tassonomie del sistema trans-mediale.
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dalla passione per il virtuosismo. L’obiettivo del fotorealismo, ottenuto tramite l’avanzamento tecno-
logico, rimane una delle utopie degli sviluppatori. Come risulta chiaramente dal concetto di genera-
zioni di console, il dispositivo che si interfaccia con il corpo del consumo, ciascuna vista come supe-
riore al precedente.
La scena indie, caratterizzata da individui o piccoli team di sviluppatori che realizzano progetti di
nicchia Proprio per la musica e i film indie si sono affermati in risposta alla produzione mainstream,
gli sviluppatori di giochi indipendenti possono operare liberamente in termini di creatività e innova-
zione, non essendo vincolati dall’obbligo di rientro di investimenti milionari. Gli sviluppatori indie
emergono soprattutto dalla normalizzazione dei canali di distribuzione digitale: gli sviluppatori indie
sfruttano appieno Internet per offrire giochi economici direttamente agli utenti, senza la necessità di
intermediari. Sono diventati, quindi, anche una presenta significativa sui principali store di distribu-
zione digitale. Grazie ai loro costi di gestioni più bassi, la crescita degli studi indie ha creato nuovi
generi e stili, resuscitando anche alcune dinamiche dei giochi delle origini e ripercorrendo una stra-
da completamente diversa rispetto a quella cultura del continuo aggiornamento hardware degli edi-
tori Tripla-A.
Se l’ascesa della scena indie ha comportato l’effetto collaterale della legittimazione dei videogiochi,
oramai accettati come qualcosa di più che un mero prodotto di intrattenimento allora l’affermazione
dei casual games riguarda la normalizzazione sociale dei videogiochi. Questi attirano gli utenti attra-
verso uno stile e un design più accessibili: in tal modo i casual games riescono a introdursi nella pra-
tica quotidiana di chi non ha mai giocato ad alcun videogame. Nei suoi circa sessant’anni di vita, il
medium videoludico ha subito una veloce e innovativa evoluzione che ne ha ampliato le prospettive
in direzioni impreviste, traghettandolo dal semplice intrattenimento interattivo alla sfera della ricer-
ca e dell’apprendimento.
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mediante un lavoro collettivo, operando attraverso le intelligenze dei singoli in un’azione “che passa
dal cogito cartesiano al cogitamus”. Nel saggio L’intelligenza collettiva Pierre Lévy sostiene che
“l’intelligenza collettiva è la nuova infrastruttura. L’intelligenza non è solo un oggetto cognitivo, ma
va interpretata come nell’espressione operare di comune intesa”. La comunità online deve dimostra-
re capacità di problem-solving su un livello superiore rispetto a qualsiasi membro della comunità in
sé: confrontando la struttura neuronale interconnessa del cervello umano, l’intelligenza comunitaria
può anche essere paragonata a una rete neurale, in cui i neuroni sono membri della comunità insie-
me ai sottostanti sistemi web-based. Le forme di aggregazione sociale basate sul web – o su altri me-
di digitali – sono spesso accusate di scompaginare la comunità allentandone i legami: i social media
ci proietterebbero quindi in una dimensione in cui, per citare il titolo di un’opera della psicologia
americana, saremmo tutti insieme ma soli. I media, in quanto processi, non impoveriscono autono-
mamente la vita sociale delle persone che ne fanno uso; è il modo in cui le persone interagiscono a
mutare l’uso delle innovazioni tecnologiche che si affacciano al panorama mediale.
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