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Cannata materiali per un corso di fondamenti del diritto


europeo
Diritto Agrario (Università degli Studi di Siena)

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Fondamenti del Diritto Europeo

1. Le fonti delle obbligazioni I


Nel diritto privato di ogni ordinamento giuridico si presenta l'esigenza di determinare le
regole sulla formazione delle obbligazioni, ovvero in ogni ordinamento deve potersi
determinare quali siano le fonti delle obbligazioni.

L'obbligazione non rappresenta una situazione di soggezione personale, perché anzi con la sua
introduzione nel sistema di diritto privato la struttura obbligatoria ha proprio preso il posto
di strutture di soggezione personale che la precedevano e che sono state così eliminate.
La sola soggezione che tocca l'obbligato (debitore) è quella nei confronti dell'azione del
creditore, ma questa è una caratteristica comune a tutti i rapporti giuridici.

Quello di considerare il rapporto obbligatorio come una situazione di soggezione personale del
debitore al creditore va considerato come un vero e proprio equivoco, che è stato favorito
dalla definizione che dell'obbligazione diede Savigny, anche se questi la vedeva non come una
signoria del creditore sulla persona del debitore, ma su singoli comportamenti di costui.
L'origine dell'equivoco risiede nel fatto che, dopo l'introduzione della nozione di obbligazione,
i rapporti di soggezione che prima ne occupavano lo spazio furono reinterpretati dai giuristi
come rapporti obbligatori. In realtà, la struttura obbligatoria ha una natura di assoluta novità
e non può essere collegata a quella della soggezione.

L'elemento che caratterizza la struttura che i giuristi romani denominarono “obligatio”


consiste nell'idea che un soggetto possa essere giuridicamente tenuto ad effettuare una
prestazione a favore di un altro soggetto.
Questa struttura giuridica era già presente nelle dodici tavole (metà del V Sec. a.C.).
Però, possiamo essere certi che l'introduzione della “sponsio”, ovvero della prima fonte
dell'obbligazione, fu opera della giurisprudenza pontificale del secolo che precedette la
promulgazione delle dodici tavole (metà del VI Sec. a.C.).

Bisogna chiarire quale sia la differenza fra una struttura di quelle che abbiamo indicato come
situazioni di soggezione e un'obbligazione. È utile osservare un istituto, nato all'epoca in cui la
nozione di obbligazione non esisteva ancora, ma che, dopo la sua introduzione, è stato
reinterpretato come rapporto obbligatorio: legatum per damnationem.
Era una disposizione testamentaria a titolo particolare, che il testatore effettuava scrivendo
nel proprio testamento le parole seguenti: “Il mio erede sia tenuto a dare 100 HS (sesterzi) a
Tizio (ovvero il terzo legatario)”: formula nota grazie a Gaio e concepita nei termini propri di
un rapporto di soggezione.
Inoltre, vi è una forma alternativa citata sempre da Gaio che dice “Il mio erede dia 100 a
Tizio” e fu certamente creata quando questo istituto fu reinterpretato come legato ad
effetto obbligatorio. Se, dopo la morte del testatore, quando l'erede sia divenuto tale

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acquistando l'eredità, l'erede stesso non esegua quella prestazione, il legatario potrà
esercitare contro di lui un'azione (actio certi ex testamento) per farlo condannare a pagargli
la somma dovutagli.
La locuzione “damnes esto” (“sia tenuto”) era ormai intesa come espressiva di un'obbligazione,
e precisamente di un'obbligazione dell'erede, in quanto debitore di 100 HS nei confronti del
legatario, che dunque risulta suo creditore per tale somma.
Però, nell'epoca precedente non era così: la locuzione “damnes esto” esprimeva la soggezione
dell'erede, ovvero del soggetto gravato per effetto della disposizione testamentaria, al
legatario. Mentre la somma di denaro (100 HS) non indicava l'oggetto di un debito, ma la
misura di tale soggezione.
Il meccanismo giuridico corrispondente può essere descritto in questo modo:
1. Per effetto della damnatio testamentaria (e quindi a partire dal momento in cui il
testamento divenga efficace) l'erede viene a trovarsi esposto alla manus iniectio del
legatario Tizio, per la somma di 100 HS.
Esercitando la manus iniectio, Tizio potrà ottenere dal magistrato l'autorizzazione ad
imprigionare presso di sé l'erede per 60 giorni, presentandolo nel frattempo nel foro
durante tre mercati successivi nella speranza che qualcuno intervenga a riscattarlo;
trascorsi inutilmente i 60 giorni ed essendo risultate inutile le esposizioni ai mercati,
Tizio potrà uccidere l'erede o venderlo schiavo.
2. L'erede poteva liberarsi da tale soggezione effettuando a Tizio una solutio di 100 HS.

Il dato che caratterizza questo meccanismo, rispetto a quello dell'obbligazione, non è tanto il
carattere tragico degli esiti finali o il gravoso meccanismo formalistico della solutio
liberatoria, bensì il fatto che nella struttura giuridica della soggezione il pagamento dei 100
HS non rappresenta l'esecuzione di un obbligo di presentazione, ma l'esecuzione di un onere.
I 100 HS non sono dovuti dall'erede al legatario Tizio, come sarà invece nel legato ad effetto
obbligatorio, ma rappresentano lo strumento a disposizione dell'erede per liberarsi della sua
soggezione alla manus iniectio del legatario.

Contro la pretesa del legatario, in difesa dell'erede non si sarebbe potuto opporre se non la
contestazione della veridicità delle circostanze di fatto che il legatario aveva enunciato come
fondamento della sua manus iniectio: cioè che non era vero che l'erede fosse stato damnatus
per 100 HS nei suoi confronti o che l'erede avesse effettuato la solutio.
L'erede non aveva la possibilità di effettuare lui stesso tale opposizione, ma doveva
intervenire un terzo, in qualità di vindex, che si dichiarasse disposto ad impegnarsi, a suo
proprio nome, contro il legatario in un processo. Però, se il vindex avesse poi perso
quest'azione (legis actio sacramento in personam, di cui non sappiamo quasi nulla), ne sarebbe
risultato egli stesso assoggettato al legatario come iudicatus per il doppio della somma
originaria.

La solutio era un atto formale, compiuto “per aes et libram”, che consisteva nel pagamento
della somma di denaro che misurava la soggezione. Il soggetto che l'effettuava (erede)
diceva, mettendo il bronzo usato per il pagamento sulla stadera, rivolto alla controparte:
“Poiché io sono stato damnatus nei tuoi confronti per 100 HS, a tale titolo mi sciolgo e libero
(“solvo liberoque”) da te con questo bronzo che pongo su questa stadera di bronzo” .
Nella forma di questi atti, concepiti come un insieme non solo di parole ma anche di gesti, le

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strutture della soggezione risultano plasticamente evidenti (es: il procedimento della “manus
iniectio” iniziava con il gesto dell'attore gettare la mano sul corpo della controparte,
afferrandolo come per prenderne il possesso; l'atto del “vindex” era descritto nelle dodici
tavole come gesto di togliere la mano).
Nell'uso più tardo, e fino a noi, resta traccia di queste attitudini verbali: ma le espressioni
moderne possono giungere a “io pago a te questo denaro e con ciò mi libero”, dove nella
seconda parte della frase il “mi libero” significa però “mi libero dal debito che ho con te”, con
riferimento alla struttura obbligatoria. Mentre nella struttura della soggezione assume il
significato di “per mezzo di questo denaro io sciolgo e libero me da te”.

Legatum per damnationem come fonte di obligazione


Quando il legato per damnationem fu reinterpretato come una fonte di obbligazione, tutto si
svolgeva diversamente.
Anche nella struttura dell'obbligatio, le conseguenze possono permanere gravi: solo che esse
non sono implicite nell'obbligazione in se stessa, in quanto questa, finché esiste, non crea la
situazione di soggezione, che è la premessa necessaria per quelle conseguenze estreme.

Nell'antico sistema, poteva trovarsi in una situazione di soggezione:


 Il soggetto iudicatus.
 Il soggetto damnatus.
 Il soggetto nexus.
Inoltre, gli istituti caratteristici del rapporto di soggezione, quelli cioè nei quali si manifesta
la natura della vicenda, sono la manus iniectio e la solutio.

Finché al legatum per damnationem corrispose un rapporto di soggezione, dal momento in cui il
testamento che conteneva la damnatio avesse effetto, il damnatus poteva liberarsi dalla
soggezione stessa effettuando la solutio formale; se non l'avesse effettuata, la sua
controparte poteva esercitare contro di lui la manus iniectio.
Una volta che il legatum per damnationem fu reinterpretato come fonte di obbligazione, dal
momento in cui il testamento che conteneva la damnatio avesse avuto effetto, il damantus si
trovava obbligato ad eseguire la prestazione per lui prevista a favore del legatario. Egli
poteva estinguere questa obbligazione eseguendo (senza particolari formalità) la prestazione
dovuta al creditore; se non l'avesse eseguita, il creditore poteva esercitare contro di lui
l'azione (actio certi ex testamento: azione di cognizione formulare), che avrebbe vinto
provando che il suo credito esisteva in effetti.
Se il creditore avesse vinto questo processo, il convenuto sarebbe stato condannato dal
giudice al pagamento di una somma pari a quella prevista nel legato.
A seguito di questa sentenza, il convenuto si sarebbe trovato nella situazione di iudicatus per
la somma prevista nel legato. Quindi, il creditore, vincitore nel processo, avrebbe potuto
esperire contro di lui la manus iniectio iudicati (quella di iudicatus rimaneva pur sempre una
posizione di soggezione).

A. Nel sistema dell'obbligazione, la situazione di soggezione si manifesta solo dopo che


l'obbligazione è estinta: dal che appare chiaro che l'obbligazione non può comportare
soggezione. Infatti, quando il creditore (legatario) esperisca l' actio certi ex testamento

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contro l'erede, con l'instaurazione di questa azione, l'obbligazione dedotta in giudizio si


estingue perché al rapporto obbligatorio si sostituisce il rapporto processuale, il quale, con la
sentenza che estingue il rapporto processuale stesso, verrà, ove la sentenza sia di condanna, a
sua volta sostituito dalla situazione nella quale l'erede si trova ad essere iudicatus rispetto al
legatario per la somma di denaro alla quale è stato condannato.
Di queste 3 situazioni dell'erede (obligatus-debitore, convenuto, iudicatus), solo l'ultima è una
situazione in cui possono ravvisarsi i connotati di una soggezione, mentre nelle altre due
situazione le parti sono giuridicamente su un piano di parità.

B. La situazione del iudicatus, cioè del soggetto condannato con la sentenza che conclude un
processo, non cesserà mai di essere almeno in qualche modo risentita come fonte di una
soggezione (i giuristi dell'epoca classica non annoveravano ancora il giudicato tra le fonti delle
obbligazioni).

C. Da tutto ciò si desume che l'introduzione della struttura obbligatoria, cioè dell'obligatio
come rapporto giuridico che produce un dovere di prestazione di un soggetto a favore di un
altro, creò un settore, nel campo dei rapporti giuridici patrimoniali, dove l'interesse alla
vendetta come tale cessa di trovare protezione giuridica.

Stipulatio-sponsio come prima vera fonte di obbligazione


L'obbligazione venne introdotta nel sistema giuridico romano come istituto del diritto civile,
mediante il riconoscimento di una fonte diversa e nuova, nel senso che essa nacque come fonte
d'obbligazione: come struttura di soggezione non esistette mai.
L'istituto in questione è quello che i giuristi denominarono stipulatio, ed il tipo originario fu
precisamente quello della sponsio, cioè di una stipulatio effettuata mediante l'impiego del
verbo spondere.

La sponsio consiste nel dialogo fra due soggetti:


 Stipulator: colui che si fa promettere qualcosa, cioè colui che stipula: i Romani lo
indicavano come stipulator e il verbo che indicava la sua attività e la sua posizione
negoziale era stipulari.
 Promissor: colui che promette: i verbi che indicavano la sua attività e la sua posizione
negoziale erano due, promittere e spondere.

Una sponsio per la somma di 100 HS si presentava nella seguente forma:


“Prometti (spondes mihi) di darmi 100 sesterzi?”
“Prometto (spondeo) ”
La sponsio si presenta come negozio formale e come tale fu concepita dai giuristi che la
costruirono (giurisprudenza pontificale del VI-V sec. a.C.), ma si tratta di un formalismo di
assoluta semplicità.
I giuristi successivi considerarono come elementi formali essenziali dell'atto, e quindi da
rispettare a pena di nullità dello stesso, solo certe sue caratteristiche che rivestono
importanza sostanziale e non sono puri elementi di forma.
I requisiti di importanza sostanziale sono:
 Il verbo spondere, per esprimere la promessa: all'inizio questo verbo fu ritenuto

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essenziale perché, nella lingua latina corrente a quel tempo, tale verbo era il solo
appropriato per esprimere un impegno serio.
Però, ben presto si ammise che una promessa giuridicamente valida ed efficace potesse
essere espressa con qualunque verbo di senso analogo (promittere) o con espressioni di
analogo significato anche senza l'uso di un verbo promissorio (dare).
Fu questo cambiamento che generò l'uso di chiamare il negozio stipulatio, riservando la
vecchia denominazione di sponsio solo al caso in cui si volesse indicare precisamente una
stipulatio effettuata col verbo spondere.
 Nella risposta il promissor deve usare lo stesso verbo dello stipulator: perché per lungo
tempo la lingua latina non conobbe gli avverbi di affermazione e negazione.

I requisiti formali sono:


 L'atto era essenzialmente orale: questo carattere veniva espresso dai giuristi dicendosi
che l'obbligazione da stipulatio nasceva verbis.
Infatti, negli atti giuridici privati, i giuristi costruirono atti scritti solo per ragioni
particolari (es: testamento); mentre, negli atti fra vivi, una forma scritta non fu mai
richiesta sino alla fine dell'epoca classica nel diritto romano ed era prevista solo una
forma scritta ad probationem.
Ad ogni modo, dire che la stipulatio si forma verbis, e cioè con la pronuncia delle parole
che realizzano la stipulatio stessa, non significa che l'obbligazione nasca dalle parole in
se stesse, ma che nasce con la pronuncia delle parole, cioè al momento in cui tutte le
parole che realizzano la forma sono state dette.
In altri termini, le parole sono forma necessaria per la manifestazione della volontà
delle parti di obbligarsi, per cui non solo l'obbligazione non nasce se le parole non sono
state dette, ma essa non nasce neppure se tali parole non rappresentano l'espressione
della volontà delle parti di creare l'obbligazione.
 L'atto consisteva in un dialogo, domanda-risposta, nel quale la domanda doveva essere
formulata dallo stipulator: il carattere dialogico della forma orale corrisponde all'idea
che il formarsi dell'obbligazione da stipulatio è fatto dipendere dal consenso, cioè da
un accordo delle parti: non solo non basta la volontà dello stipulator di acquisire il
credito, ma neppure è sufficiente la volontà del solo promissor di obbligarsi verso
l'altro: la stipulatio è nulla se non comprende il consenso delle parti (Pedio).
Quindi, la stipulatio ha carattere di incontro di volontà: le due parti devono non solo
parlare entrambe, ma devono avere la capacità naturale di rendersi conto di quel che
dicono e reciprocamente udirsi e comprendersi (no tra muti, sordi e infanti).
 L'ultimo requisito di forma è rappresentato dall'esigenza che la domanda della parte
che col negozio intende diventare creditore preceda la risposta di quella che,
consentendo di obbligarsi verso di lui alla prestazione richiesta, ne diviene debitore.
La ratio sta nel fatto che: solo se l'iniziativa di conclusione del negozio spetta al futuro
creditore, risulta poi certo che la decisione di obbligarsi del futuro debitore sia libera
e sicura. Quindi, questo requisito rappresenta una tutela della libertà del debitore
nell'obbligarsi, e cioè del carattere libero e volontario degli atti giuridici negoziali di
assunzione di obbligazioni.

Da quanto detto finora si desume che il formalismo della stipulatio era assai semplice, ma esso
era anche molto elastico. Qualunque richiesta d'obbligazione formulata in termini seri dallo

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stipulator creava l'obbligazione richiesta in capo al promissor che rispondesse


affermativamente ed in modo congruente.
Le stipulazioni più antiche furono quelle di dare (cioè trasferire la proprietà di) una somma di
denaro, una quantità determinata di cose fungibili o una cosa determinata nella specie.
Ma la giurisprudenza, a partire del II sec. a.C., ammise ed elaborò domande stipulatorie per
obbligazioni di ogni complessità: promesse di fare, promesse sottoposte ad un termine o a
condizione, stipulazioni penali, stipulazioni di garanzia, etc.
La forma della stipulatio fu semplicemente determinata individuando i fatti, così come
potevano aver luogo nella vita quotidiana, che dovevano riconoscersi come quelli necessari e
sufficienti perché un soggetto si trovasse obbligato ad effettuare una cera prestazione a
favore di un altro. In altre parole, quando la giurisprudenza costruì la stipulatio, anzi la
sponsio, essa non inventò una forma negoziale: quel che i giuristi avevano inventato era la
nozione di obbligazione: l'atto non lo inventarono, ma costruirono come atto obbligatorio la
promessa, precisando solo a quale tipo di promessa si doveva riconoscere l'effetto di essere
giuridicamente obbligatoria.
Quindi, i giuristi inventarono l'obbligazione e ne individuarono la fonte (sponsio).
Costruita l'obbligazione ed individuatane la fonte, che fu identificata nella sponsio, per
rendere operante sul piano giuridico questo meccanismo non restava che costruire l'azione
che il creditore potesse esperire contro il debitore che, dopo essersi obbligato, non
adempisse: introdussero nel sistema processuale delle legis actiones:
La legis actio per iudicis postulationem:
Ove lo stipulator avesse ottenuto dal promissor la sponsio di 100 HS e poi questo non glieli
avesse pagati, lo stipulator chiamava in giudizio il promissor e, davanti al magistrato
giudicante, si svolgeva il dialogo che segue:
“Affermo che in forza di una sponsio tu devi dare a me 100 HS. Ti chiedo se tu acconsenti o
lo neghi.”
Il convenuto nega l'affermazione dell'attore, senza una formula pre-determinata.
“Dal momento che neghi, pretore io ti chiedo che tu dia un giudice.”
Risulta evidente come la negazione dell'affermazione dello stipulator effettuata dal
promissor instaura la controversia, e quindi rende necessaria la nomina di un giudice che la
risolva. La nomina del giudice spetta al magistrato, che provvederà in questo senso su
richiesta dell'attore.
Il giudice nominato dal magistrato avrà la competenza per celebrare il processo e concluderlo
con la sentenza, che potrà essere o di condanna del promissor a pagare 100 HS allo stipulator
o di assoluzione del promissor. Ottenuta la sentenza di condanna, lo stipulator potrà
procedere agli atti esecutivi nei confronti del promissor.

La situazione nei diritti europei attuali

Uno sguardo complessivo al sistema del diritto privato negli ordinamenti europei fa scorgere
in modo abbastanza evidente che il diritto delle obbligazioni è sempre impostato su di una
classificazione (diairesi) delle loro fonti.
In qualche codice civile esiste anche un'esplicita norma sulle fonti delle obbligazioni, e talora
questa norma è concepita appunto come una diairesi.

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Codice Civile italiano del 1942


È l'esempio migliore del modello normativo descritto, ed in particolare l'art 1173, rubricato
“Fonti delle obbligazioni”: “Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito o da ogni
altro atto (fatto umano) o fatto (fatto naturale) idoneo a produrle in conformità
dell'ordinamento giuridico.”
Si pone una diairesi di base tra:
 Obbligazioni da contratto.
 Obbligazioni da fatto illecito.
 Obbligazioni che provengono da fonti diverse (atti o fatti giuridici).
Quindi, l'art 1173 cc presenta una diairesi imperfetta delle fonti di obbligazione, che ne fa
una divisio in due genera, ma poi aggiunge una serie di altre possibili fonti non classificate.

Il tenore dell'art 1173 cc è stato stabilito dai codificatori del 1942 praticamente traducendo
un passo del Digesto di Gaio.
Siccome nell'intenzione dei codificatori del 1942 la sibilla espressione finale avrebbe dovuto
significare “negli altri casi stabiliti dalla legge” , e siccome anche il contratto e il fatto illecito
sono previsti dalla legge, la norma viene nel complesso ad assumere il senso che le obbligazioni
derivano dagli atti o fatti che la legge prevede come idonei a produrle, o più semplicemente
che le obbligazioni si formano nei casi previsti dalla legge.

Codice Civile francese


Una norma sulle fonti delle obbligazioni impostata su di una diairesi esiste anche nel Codice
Civile francese, ma essa è inserita nella sua sistematica in modo particolare.
È necessario partire dalla sistematica del Code Civil in se stessa: il contenuto del codice si
articola in 3 libri, che rispecchiano la sistematica tradizionale del diritto privato basata sulla
distinzione fra diritto delle persone e diritto delle cose. Questa sistematica proveniva da
quella delle Istituzioni giustinianee, che era enunciata nell'opera stessa nella seguente forma:
“L'intero diritto del quale ci serviamo riguarda o le persone o le cose o le azioni” .

Nel Code Civil, tutta la parte dedicata al diritto delle cose fa perno sulla nozione di proprietà,
e le obbligazioni stesse vi si trovano inserite come modi di acquisto della proprietà.
Infatti, il diritto delle obbligazioni occupa i titoli dal III al XIV del terzo libro.
All'inizio della disciplina delle obbligazioni è posta quella del contratto: ciò risulta abbastanza
coerente con l'idea sistematica di collocare le obbligazioni fra i modi di acquisto della
proprietà: infatti il Code Civil ha adottato il principio dell'effetto reale del contratto.
La norma classificatoria delle fonti delle obbligazioni è l'art 1370:
“Alcune obbligazioni nascono senza precedente convenzione, (né per parte di chi si obbliga, né
per parte di quello verso cui si è obbligato).
Le une risultano dalla sola autorità della legge. Le altre nascono da un fatto personale di colui
che resta obbligato.
Le prime sono le obbligazioni che si formano involontariamente, come quelle tra proprietari
vicini, o quelle dei tutori e degli altri amministratori i quali non possono ricusare le funzioni
che loro vengono attribuite.
Le obbligazioni che nascono da un fatto personale di colui che resta obbligato, risultano o dai
quasi-contratti, o dai delitti, o dai quasi-delitti. Esse formano il soggetto di questo titolo”.

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L'art 1370.1 vuole semplicemente contrapporre alle obbligazioni da contratto tutte le altre,
ed inoltre sottolineare che in queste ultime l'obbligazione sorge da fatti che non implicano,
come elemento giuridicamente rilevante, la volontà delle parte di obbligarsi o di obbligare.
Inoltre, nell'art 1370 Code Civil la classificazione delle fonti delle obbligazioni adottata dai
suoi compilatori compare in modo imperfetto, perché nella norma citata essa viene fatta
dando per premessa l'individuazione del contratto come fonte di obbligazione.
Infatti, nel riprenderla, i compilatori del Codice Civile italiano del 1865 hanno avuto cura di
presentarla nella usa forma compiuta: l'art 1097 cc (1865) dice che “Le obbligazioni derivano
dalla legge, dal contratto o quasi-contratto, da delitto o quasi-delitto”.

Codice Civile austriaco del 1811


Anche l'ABGB contiene una norma sulle fonti delle obbligazioni, concepita come una diairesi
del seguente tenore:
§859 “Fonti delle obbligazioni: “I diritti personali sulle cose, in forza dei quali una persona è
tenuta ad una prestazione verso un'altra, si fondano direttamente su di una legge, o su di un
negozio giuridico o su di un danneggiamento sofferto” .

In primis, devono essere fatte due precisazioni:


 Anche nell'ABGB la sistematica generale riprende quella delle Istituzioni giustinianee,
sicché il Codice, che non è diviso in libri, consta di due parti principali: la prima contiene
il diritto delle persone e la seconda il diritto delle cose, a sua volta diviso in diritti reali
e diritti personali sulle cose (cioè obbligazioni).
 Il testo originale non menzionava il negozio giuridico, ma il contratto. La successiva
menzione del negozio giuridico, da parte del legislatore del 1914, rappresenta
evidentemente un omaggio alla dottrina pandettistica tedesca: ma la sostituzione della
menzione del negozio giuridico in generale a quella del contratto non pare proprio, in
una norma sulle fonti delle obbligazioni, né corretta né giustificabile.

Nelle norme sulle fonti delle obbligazioni che abbiamo considerato finora, abbiamo constatato
sempre presente una categoria di obbligazioni che sono indicate come provenienti
direttamente dalla legge. La categoria delle obbligazioni ex lege è equivoca, non ha molto
senso in sé stessa e la sua considerazione non porta chiarimenti sui problemi sostanziali delle
fonti d'obbligazione.
Poiché sarebbe un discorso troppo lungo e complesso, possiamo dire che: la menzione, accanto
a generi come quelli delle obbligazioni da contratto e da fatto illecito, di obbligazioni che
derivano dalla legge ha il senso di un rinvio alla tipologia legislativa per le fonti non
classificate.

Codice Civile tedesco


In alcuni codici civili attualmente in vigore manca una norma sulle fonti delle obbligazioni.
Come modello possiamo prendere quello del BGB tedesco, dove il diritto delle obbligazioni
occupa il secondo libro (Parte generale, obbligazioni, diritti reali, diritto di famiglia, diritto
ereditario).
In questo caso, poiché manca una norma sulle fonti delle obbligazioni, la materia delle

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obbligazioni è chiaramente impostata su di una diairesi: infatti si vede chiaramente che le


categorie di rapporti obbligatori considerati sono quelli delle:
 Obbligazioni che nascono da contratto.
 Obbligazioni che nascono da arricchimento ingiustificato.
 Obbligazioni che nascono da atto illecito.

Codice Civile svizzero


L'OR svizzero è analogo al BGB, ovvero manca una norma sulle fonti delle obbligazioni.
Sebbene nell'OR manchi una norma sulle fonti delle obbligazioni, l'impostazione iniziale della
materia si presenta così:
Codice delle obbligazioni
Parte prima: Disposizioni generali
Titolo primo: Delle cause delle obbligazioni
Capo primo: Delle obbligazioni da contratto (1)
Capo secondo: Delle obbligazioni derivanti da atti illeciti (2)
Capo terzo. Delle obbligazioni derivanti da indebito arricchimento (3)

Quindi, sebbene nell'OR manchi la norma sulle fonti delle obbligazioni, a questa tematica è
dedicato nel complesso tutto il titolo primo della prima parte.
Il sistema delle fonti è compiutamente delineato mediante una divisio nei 3 genera (del
contratto, degli atti illeciti e dell'indebito arricchimento) e ciascun genera viene
immediatamente corredato dalle norme che specificatamente concernono il modo di
funzionare di ciascuna delle fonti enumerate.

La presenza o l'assenza di una specifica norma che indica le fonti delle obbligazioni sono
spesso considerate come indice di una diversa volontà del legislatore:
 La presenza di tale norme induce di solito l'interprete a considerare che le fonti
d'obbligazione che essa prevede debbano considerarsi tassative, nel relativo
ordinamento.
 L'assenza di una norma specifica lascerebbe intendere che il legislatore non ha voluto
disciplinare che i tipi di fonti di obbligazione più ricorrenti o tradizionalmente più
elaborati, lasciando aperta all'interprete ed al giudice la possibilità di riconoscere
obbligazioni sorte da fatti diversi da quelli previsti.

A questa problematica si è sottratto il Codice Civile dei Paesi Bassi, il quale contiene sì una
norma generale sulle fonti delle obbligazioni, ma del tenore seguente: “Le obbligazioni possono
nascere unicamente se ciò risulta dalla legge”.

La descrizione fatta nel presente paragrafo induce ad alcune considerazioni: le norme sulle
fonti delle obbligazioni presentano tutte un carattere sostanzialmente enumerativo (ad
eccezione dell'ABGB): è chiaro che vi si enumerano le fonti delle obbligazioni indicando i fatti
che le producono, e questi fatti sono individuati o con la loro denominazione tecnica o
mediante rinvio ad altre norme, di solito genericamente alla legge.
I rinvii alla legge hanno chiaramente la sostanza di un'enumerazione. Le altre menzioni delle

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fonti che si trovano in quelle norme sono esposte come elementi di una classificazione, e
precisamente come i genera di una divisio: ciò significa che il termine tecnico usato per
indicare ciascun genere non si riferisce, o non si riferisce direttamente, ad una fattispecie
specifica di fonte d'obbligazione, ma indica una nozione, una categoria, che si concreta in
fattispecie diverse. Di questi genera, due sono presenti con costanza in tutte le norme che
contengono una divisio, e sono quello del contratto e quello del fatto illecito (nel Common Law
abbiamo il “contract” ed i “torts”).
In un certo senso, però, anche l'indicazione delle fonti d'obbligazione fatta per genera ha un
carattere di enumerazione, solo che oggetto dell'enumerazione non sono le singole
fattispecie, ma i genera stessi.

La prima divisio obligationum e la sua funzione pratica

Al tempo del primo vigore delle dodici tavole (seconda metà del V sec. a.C.), la sponsio era già
prevista dalla legge come atto produttivo di obbligazione. Infatti, Gaio ci informa che esse
prevedevano la legis actio per iudicis postulationem contro il debitore da sponsio.
Quindi, nelle dodici tavole era presente l'obbligazione, e ne era prevista un'unica fonte.
Finché la situazione rimase tale, un problema di determinazione, e tanto meno di
classificazione, delle fonti d'obbligazione non si poneva.
Il problema si pose alla giurisprudenza quando la vita quotidiana a Roma mutò per l'intensa
evoluzione dell'economia di quella res publica in forte crescita ed espansione: si tratta del
mutamento politico ed economico di Roma (a partire dalle guerre puniche nel 264 a.C.).
Ora, in un ambiente nel quale i traffici divengono importanti, l'obbligazione si trova
naturalmente inserita come uno strumento particolarmente efficiente. Ma il diritto delle
obbligazioni già disponibile a Roma si rivelò insufficiente a causa del suo legame necessario
con la sponsio: l'obbligazione serviva più di quanto la si potesse realizzare con una promessa.
La prova di questa insufficienza ce la fornisce ancora Gaio quando, in relazione alla legis actio
per iudicis postulationem, ci parla di un'altra legis actio: legis actio per condictionem:
L'attore diceva: “Affermo che tu devi dare a me 100 HS. Ti chiedo se tu acconsenti o lo
neghi”.
L'avversario diceva di non dovere.
L'attore diceva: “Dal momento che tu neghi, ti intimo di ricomparire fra 30 giorni per
ottenere un giudice”.

A questo punto, confrontando il formulario della legis actio per iudicis postulationem e della
legis actio per condictionem, notiamo una differenza evidente che riguarda l'affermazione
iniziale dell'attore: la differenza risalta dal fatto che le due dichiarazioni sono del tutto
identiche per quanto riguarda l'enunciato della pretesa dell'attore, ma questa affermazione:
 Nella legis actio per iudicis prostulationem, è espressamente fondata in una precedente
sponsio. In questo caso, l'attore invoca il proprio credito, cioè la sua titolarità attiva
del rapporto obbligatorio menzionandone il fondamento, ovvero la fonte del rapporto
obbligatorio dedotto in giudizio.
 Nella legis actio per condictionem, non è espressamente ricondotta ad alcun

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fondamento. In questo caso, l'attore invoca il proprio credito senza menzionarne la


fonte.
Da questa circostanza risulta evidente che la condictio è stata introdotta per permettere di
dedurre in giudizio rapporti obbligatori fondati altrimenti che in una sponsio, e quindi per
allargare la tutela.
Questa innovazione fu notevole, perché nel processo per legis actiones non esistevano prima
della condictio azioni astratte, cioè azioni che potessero essere esperite non nominata causa:
il fondamento dell'affermazione dell'attore doveva essere espresso e doveva corrispondere
ad una situazione prevista dalla legge.

Inoltre, vi è un'altra differenza di carattere procedurale:


 Nella iudicis postulatio: la nomina del giudice era richiesta dall'attore al pretore con
l'ultima delle sue dichiarazioni in iure, ed il pretore vi provvedeva seduta stante.
 Nella condictio: vi era il principio della ricomparizione delle parti, per ottenere la
nomina del giudice, a 30 giorni dalla prima comparizione.
Però, ad un certo punto la lex Pinaria introdusse la nomina del giudice a 30 giorni dalla fase in
iure per la legis actio sacramento in personam, ed è possibile che questo principio sia stato
esteso in seguito anche alla legis actio per iudicis postulationem.
Se così fosse, questa non fu una novità processuale della legis actio per condictionem.

È pacifico che la legis actio iudicis postulatio era prevista dalle dodici tavole.
Quanto alla legis actio per condictionem, Gaio pare possedesse precise informazioni. Infatti,
Gaio ci fornisce una notizia importante: la condictio fu introdotta dalla lex Silia nel III sec.
a.C. (per i crediti di somme determinate di denaro) e successivamente la lex Calpurnia ne
estese l'ambito di applicabilità (per tutti i crediti di certa res).

In un sistema di obbligazioni, nel quale la fonte d'obbligazione era una sola, la sponsio, ed a
sanzionare questa obbligazione esisteva una sola azione, la iudicis postulatio, viene introdotta
una nuova azione, la condictio, che è un'azione astratta e quindi per la sua struttura
processuale idonea ad essere impiegata per la sanzione di un rapporto obbligatorio
indipendentemente dall'identità della sua fonte. L'introduzione della nuova azione ha avuto
luogo per via legislativa: e la cosa era necessaria, in quanto il sistema processuale al quale
l'azione apparteneva era quello delle legis actiones, sistema di processi concepiti come
instaurabili solo mediante atti processuali espressamente previsti dalla legge.
Oltre a questo carattere legislativo delle legis actio, vi era anche il principio della tipicità
legislativa delle pretese azionabili. Infatti, a Roma, al tempo delle dodici tavole e delle legis
actiones, la pretesa di un soggetto doveva risultare da una legge per essere azionabile, cioè
per poter essere considerata un diritto soggettivo di quel soggetto. La scelta, da parte
dell'attore, dell'azione da esperire doveva essere fatta fra le forme di azione che la legge
prevedeva: le legis actiones sono poche, mentre le pretese sono tante, per cui almeno alcune
legis actiones dovevano essere adattate per diverse pretese.
Però, non tutte le norme che prevedevano diritti indicavano precisamente la legis actiones
esperibile. Quindi, era compito dell'interprete stabilire quale fosse la struttura idonea caso
per caso.
A cosa poteva servire l'introduzione di un'azione astratta come la condictio?

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Apparentemente a nulla. Infatti, se il solo caso di obbligazione previsto dalla legge era quello
del debito da sponsio, solo un credito da sponsio si sarebbe potuto dedurre in giudizio.
Dopo l'introduzione della condictio, il creditore da sponsio avrebbe potuto agire tanto con
questa azione quanto con la vecchia iudicis postulatio.
Con la condictio, benché astratta, un soggetto non avrebbe potuto ottenere se non una tutela
che già gli spettava per l'altra via: una pretesa obbligatoria diversa da quella fondata in una
sponsio, non essendo prevista dalla legge, non si sarebbe potuta far valere con alcuna azione.
Lo scopo di una nuova azione non può comprendersi vedendo le cose in questo modo.

Il fatto è che la lex Silia fu certo introdotta per impulso dei giuristi, i quali ne dovettero
concepire con precisione il contenuto, e già, quando presero l'iniziativa, dovevano aver
elaborato la concezione dommatica che permetteva di impiegare la nuova azione per la
sanzione di rapporti obbligatori riconosciuti come prodotti da fonti anche diverse dalla
sponsio.
Il ragionamento che fecero i giuristi lo possiamo desumere solo da certi indizi:
 Il primo indizio ci permette di individuare l'ambito nel quale, al momento iniziale, si
pose l'operazione innovativa dei giuristi.
La lex Silia, che introdusse la legis actio per condictionem, la previde unicamente per i
debiti di certa pecunia (cioè somme determinate di denaro). Quindi, i giuristi che la
concepirono avevano in mente la protezione di crediti di denaro non provenienti da
sponsio: cioè il mutuo a denaro.
 Il secondo indizio mette in luce l'esistenza di un particolare modo di descrivere un
certo fenomeno: il fenomeno del debito di denaro.
Nel linguaggio giuridico romano, l'espressione “aes alienum” (“denaro altrui”) era
comunemente impiegata nel senso di “denaro dovuto”.
 Il terzo indizio si collega direttamente al primo: anche se non possediamo informazioni
dirette sull'impiego della legis actio per condictionem, sappiamo che a questa legis actio
si sostituì poi, certamente già dai primi tempi dell'impiego del processo formulare,
un'azione formulare che ne riprendeva i caratteri: un'azione astratta con lo stesso
ambito di applicazione delle legis actio per condictionem.
Quindi, la condictio formulare si applicava, in prima linea almeno, oltre che ai crediti da
stipulatio, anche a tutti i crediti con oggetto certo provenienti da una fonte di
obbligazione che implicasse un negozio tra vivi e producesse un'unica obbligazione.

Alla luce di queste premesse e di questi indizi, cerchiamo di capire cosa fecero i giuristi del
III sec. a.C. quando promossero la promulgazione della lex Silia.
Il loro scopo generale era quello di permettere l'impiego dell'obligatio in casi ulteriori
rispetto a quello della sponsio. Siccome il caso più importante e più difficile da risolvere era
quello del mutuo a denaro, prendiamo quest'ipotesi come oggetto della ricostruzione.
Vigendo il sistema delle legis actiones, un mutuo non può essere sanzionato con un'azione (e
non può dare luogo ad obbligazione) perché nessuna legge lo prevede, né esiste alcuna azione
adatta a far valere la relativa pretesa sostanziale, una volta che la si fosse riconosciuta.
Allora, la cosa più semplice sarebbe stata che i giuristi sollecitassero la promulgazione di una
legge che prevedesse l'obbligazione da mutuo. Ma non scelsero questa strada, anche perché a
quel tempo si riteneva che la legge non fosse un buono strumento per risolvere i problemi del
diritto privato.

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Infatti, alla legge preferirono l'elaborazione giurisprudenziale e l'intervento dei magistrati


giusdicenti, soprattutto i due pretori. In confronto con un diritto prodotto con questi mezzi,
il diritto prodotto dalla legge appariva sterile ed incerto, per la distanza enorme che la regola
stereotipata in un testo canonico presenta rispetto a quella che si crea nella soluzione pratica
dei singoli casi.
In questo caso, il ricorso ad una legge che introducesse una nuova fonte d'obbligazione
avrebbe potuto colmare una lacuna del sistema, ma non praticarvi l'apertura che si presentava
come opportuna.

Il fatto che i giuristi non abbiano sollecitato una legge civilistica per introdurre una o più
singole fonti d'obbligazione rivela che essi intendevano operare partendo dalla nozione di
obbligazione come tale: cioè rendere azionabile il rapporto obbligatorio in sé stesso,
riservando la determinazione dei tipi di fonti al lavoro che essi stessi avrebbero fatto
risolvendo i casi pratici e costruendo i dogmi per giustificarne e inquadrarne le soluzioni.
Il loro ragionamento non poteva non essere impostato sull'analisi dell'obbligazione da sponsio
già esistente, per stabilire in che cosa essa consistesse, con lo scopo di poter individuare in
quali altri casi, rispetto a quello della sponsio, l'esistenza di un'obbligazione potesse essere
riconosciuta. Se in questo modo fossero arrivati ad individuare situazioni nelle quali una
ragione giuridicamente valida esigeva che tali situazioni fossero giudicate come quella della
sponsio, la norma decenvirale sulla sponsio poteva essere ad esse stesse applicata per
analogia.
Infatti, in ogni caso in cui si debba riconoscere che B “deve dare” (“dare oportere”) ad A 10
HS, deve spettare ad A un'azione per 10 HS contro B.
La legis actio per iudicis postulationem non poteva venire in considerazione a questo scopo:
essa era prevista dalle dodici tavole come azione nella quale l'attore avrebbe affermato che il
convenuto doveva dargli una somma di denaro ex sponsione.
Per concretare la suddetta idea dei giuristi, era necessaria un'azione nella quale la pretesa
dell'attore non fosse basata su di un “dare oportere ex sponsione”, ma unicamente su di un
“dare oportere”. Quindi, l'introduzione mediante legge della condictio astratta era un passo
necessario da compiersi e poteva essere compiuto solo mediante legge.

Però, per procedere, bisogna analizzare l'obbligazione da sponsio. Il ragionamento dei giuristi
lo possiamo ricostruire nei termini seguenti.
Che cosa accade quando si forma ex sponsione l'obbligazione di B di pagare ad A 10 HS?
Il venire in essere del rapporto obbligatorio B-A muta di per se stesso lo stato dei patrimoni
dei due soggetti. Il sorgere dell'obbligazione ha creato questa situazione: nel patrimonio di B,
esistono 10 HS che sul piano dei diritti reali sono ancora in proprietà a B, ma spettano ad A in
forza di una loro destinazione giuridica vincolante che è l'obbligazione, cioè il “dare oportere”
di B verso A. Dal punto di vista economico, quei 10 HS si possono considerare una posta attiva
del patrimonio di A.
Quindi, per effetto della sponsio, B viene ad avere presso di sé 10 HS che sono “aes alienum”,
ovvero denaro altrui. Questa è una realtà giuridica contraria allo ius e quest'ultimo deve
contenere un rimedio per eliminarla, ma il rimedio non può essere la “rei vindicatio” (perché ha
non è concretamente proprietario dei 10 HS). Per questo, l'azione che il ius accorda ad A non
è un'azione reale, ma un'azione personale contro B: nell'azione personale A non invoca la sua
proprietà, ma il diritto a che B proprietario trasferisca a lui la proprietà di quel 10 HS: cioè A

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invoca il “dare oportere” di B a lui (che B deve dare quei 10 HS ad A).

Messo a punto questo ragionamento, i giuristi potevano ricavarne la proposizione seguente, di


carattere dommatico: un'azione che riconosca ad A la pretesa a 10 HS basata direttamente
sul fatto che B glieli deve dare (“dare oportere”) sarà esperibile in tutti i casa nei quali si
possa giuridicamente stabilire che B deve dare X (es: 10 HS) ad A.
Se c'è stata una sponsio, non c'è discussione, perché il “dare oportere” in quel caso è stabilito
dalla legge. Da ciò si desume che la condictio è esperibile anche se ci sia stata sponsio.
Questo permette di dire che: il creditore da sponsio dispone contro il promissor di due azioni,
in concorso alternativo:
 La iudis postulatio prevista dalle dodici tavole.
 La condictio prevista dalla lex Silia.

A questo punto vediamo il caso del mutuo, partendo dai fatti nei quali il negozio si è
concretato: A ha consegnato a B delle monete del valore di 10 HS, con l'accordo che gli
avrebbe poi restituito 10 HS, non importa se quelle stesse monete o altre per lo stesso valore.
Con ciò, A ha trasferito la proprietà delle monete consegnate (a titolo di mutuo).
Ma se la proprietà dei 10 HS è passata da A a B, e cioè ora il denaro si trova nel patrimonio di
B, non vi è dubbio che essi vi rappresentino “aes alienum”: perché è evidente che B li deve
dare ad A. Il fatto che B deve dare 10 HS ad A proviene da ragioni fondate del diritto,
perché l'accordo causale che permetteva l'effetto traslativo della proprietà del denaro
prevedeva la restituzione di un'eguale quantità di cose della stessa natura.
Beninteso: non è che l'accordo causale di mutuo produca l'obbligazione di restituire, perché
all'epoca un accordo fra due parti non produceva un'obbligazione se non assumeva la forma di
sponsio (unica fonte di obbligazione).
L'accordo causale di mutuo aveva rilevanza propria solo sul terreno dei diritti reali, come
accordo causale della traditio. Solo che esso resta un elemento rilevante dei fatti in gioco:
perché la traditio di A a B ha trasferito a B la proprietà delle monete in quanto somma di
denaro da restituire, e dunque B ne è proprietario proprio perché si è impegnato alla
restituzione. Ma, sul piano dei diritti reali, dove l'accordo causale della traditio esplica gli
effetti, un dovere di restituire quel che si è ricevuto in proprietà non può sorgere: perché il
sistema stesso dei diritti reali non conosce una proprietà né limitata nel tempo, né sottoposta
a condizione, né limitata da qualunque dovere del proprietario che non dipenda da un diritto
reale di un terzo sulla cosa. Però, in fin dei conti, ciò significa che i 10 HS ricevuti da B, in
quanto divenuti elemento del suo patrimonio, vi si trovano nella situazione di “aes alienum”.
Quindi, si deve dire che è tuttavia vero che B deve darli ad A, ma ciò che crea questo suo
dovere di restituzione è il fatto stesso della presenza di quel denaro nel suo patrimonio.
B non è obbligato a dare per aver promesso, cioè dalle parole di una sponsio che non ha fatto,
ma è obbligato dalla cosa stessa (re) in quanto questa si trova nel suo patrimonio perché è
previsto che venga restituita.

Nel testo di Gaio sul mutuo è presente la seguente frase, che rispecchia l'idea (che
l'obbligazione si forma in re, ovvero in forza della presenza stessa della cosa nel patrimonio di
B) dei promotori della lex Silia: “L'obbligazione è prodotta dalla cosa”.
Questa idea rappresentò il modo per impiegare la nozione di obbligazione in un primo caso
diverso da quello della sponsio, rompendo il legame biunivoco esclusivo fra sponsio e obligatio.

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Fin dall'inizio si trattò di un'operazione dommatica, cioè di una costruzione operata con gli
strumenti della scienza giuridica: ma essa era possibile in quanto era stata apprestata, come
premessa, l'azione astratta della condictio, dove il creditore insoddisfatto poteva uscire
vittorioso invocando il “dare oportere” del suo convenuto, senza indicarne in iure la fonte.
Quindi, vi fu un arricchimento del panorama della fonti d'obbligazione senza bisogno di altri
strumenti, se non la sola premessa dell'esistenza della condictio astratta.

L'individuazione della formazione re dell'obbligazione permise subito di riconoscere, oltre


all'obbligazione da mutuo, due altre situazioni corrispondenti a tale fattispecie:
 L'obbligazione da pagamento d'indebito: Gaio conferma un'estensione analogica del
caso del mutuo.
 L'obbligazione del ladro di restituire la refurtiva al proprietario: deve essere
valutata esattamente, perché il furto non fa acquistare al ladro la proprietà della
refurtiva, e quindi la cosa rubata non entra nel patrimonio del ladro: per recuperare le
cose rubate, il proprietario dispone della rei vindicatio e non della condictio.
Ma, se il furto ha avuto come oggetto del denaro, la rei vindicatio delle monete risulta
di fatto impossibile perché una volta rubate, a meno che non vengano recuperate subito
dal ladro colto in flagrante, esse perdono la loro individualità specifica, confondendosi
con altre monete. E non si può rivendicare un oggetto se non specificatamente
individuabile come quello di cui l'attore è proprietario.
Il che giustifica l'esercizio della condictio contro il ladro per la somma rubata.
Se le cose restassero individuabili, la condictio non risultava esperibile dal proprietario,
ma solo la rei vindicatio. Ma la condictio esperita ex causa furtiva si rivelava assai utile.
Infatti, con la condictio il proprietario-attore potrà ottenere la condanna del ladro a
pagargli il valore del bene (es: pollo) anche se quest'ultimo è perito.

Ma anche la stessa sponsio poté essere trattata in una dimensione nuova, una volta che la
condictio divenne disponibile. Da quanto abbiamo detto sopra, si è compreso che uno degli
aspetti dell'evoluzione della sponsio fu quello della sua trasformazione in stipulatio, con la
possibilità di concludere il negozio usando un verbo diverso da spondere.
Il riconoscimento di queste varianti non significava tanto un ulteriore attenuazione del già
tenue formalismo dell'atto, ma aveva una portata ben più vasta.
La sponsio doveva essere considerata un istituto proprium civium Romanorum, cioè
appartenente al ius civile di Roma e produttivo di effetti solo fra cittadini romani.
Concluso con un altro verbo, o magari in una lingua diversa dalla latina, l'atto cessava di
appartenere esclusivamente al ius civile, per diventare negozio del ius gentium e quindi
suscettibile di essere concluso anche dai cittadini negli affari che gestissero con stranieri, e
pure dagli stranieri stessi che negoziassero tra loro: questo aumentava l'utilità dell'atto nel
mondo economico in misura notevole.
Data l'esperibilità inter cives delle legis actiones, per compiere definitivamente questo passo
dell'attribuzione al ius gentium della stipulatio effettuata senza l'impiego del verbo spondere
fu probabilmente necessaria l'introduzione della condictio formulare.
Quindi, la condictio permise di considerare come modello dell'atto obbligatorio non più la sola
sponsio, ma la stipulatio, cioè la promessa che rispettasse i requisiti di forma che andavano

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considerati come garanzie del carattere sostanziale che dell'atto di voleva mantenere.
Di fronte all'obbligazione che si forma re, l'obbligazione da stipulatio venne dunque ad
essere individuata come quella che si forma verbis, da parole dette: dove re e verbis non sono
indicazioni generiche, ma espressioni tecniche che alludono a strutture precise.

Ad un certo punto, alle due strutture dell'obbligazione re e verbis si aggiunse quella


dell'obbligazione che si forma litteris, cioè da parole scritte: anche qui la struttura
obbligatoria era precisamente definita nell'adozione di certe scritture, che avevano luogo nei
libri contabili familiari.
Anche per queste venne adottata, come azione adatta a sanzionarle, la condictio.

In questo modo siamo giunti ad un risultato assai significativo: il lavoro della giurisprudenza
romana diretto a definire l'ambio di applicabilità della condictio sboccò alla fine in una
classificazione delle obbligazioni in 3 generi, determinati osservando come caratteristica
differenziale il modo di formarsi delle obbligazioni stesse. Infatti, le obbligazioni possono
nascere: re, verbis e litteris.
Questa classificazione riguardava specificatamente le obbligazioni che possono essere
dedotte in una condictio: essa descriveva il campo d'applicabilità della condictio:
 Ai tempi della lex Silia e della lex Calpurnia, individuare le obbligazioni deducibili in una
condictio significava individuare tutte le obbligazioni concepibili.
 All'epoca nella quale la classificazione “re-verbis-litteris” trovò il suo assetto
definitivo, l'insieme delle obbligazioni sanzionate con la condictio rappresentava ormai
solo un settore dell'insieme delle fonti d'obbligazione, perché nuove figure obbligatorie
erano state intanto riconosciute o introdotte (es: vendita e locazione, non analizzabili
con lo schema re-verbis-litteris).

Le fonti ci permettono di considerare questo momento finale di individuazione dell'assetto


definitivo in modo concreto.
Collochiamoci nell'anno 76 a.C., quando Cicerone pronunziò la sua orazione “pro Roscio
comoedo”. Si tratta di un'arringa che Cicerone fece in quell'anno in difesa di un attore di
teatro molto noto a quel tempo, il quale si trovava ad essere convenuto nella condictio di una
somma determinata di denaro. Però, Cicerone sosteneva che la fonte dell'obbligazione di
Roscio a pagare la somma pretesa dal suo avversario non risultasse provata.
La sua arringa prese avvio dalla considerazione che: “L'azione nella quale siamo qui impegnati è
la condictio di una somma determinata di denaro”.
Quindi, fece una messa a punto sullo stato delle prove fornite dall'attore a sostegno della sua
pretesa, basando il suo ragionamento su una triade di ipotesi, e precisamente 3 fattispecie di
fonte di obbligazione (cioè i 3 genera della divisio), che vengono presentate come quelle che
possono venire in considerazione nella condictio di una somma determinata di denaro:
 Pecunia data: con questa fattispecie si allude all'obbligazione che si forma re, cioè al
mutuo (magari anche al pagamento d'indebito).
 Pecunia expensa lata: con questa fattispecie si allude all'expensilatio, cioè
all'obbligazione che nasce litteris dalle apposite scritture contabili che si facevano nel
libro contabile del creditore.
 Pecunia stipulata: con questa fattispecie si allude al denaro dovuto perché promesso
con stipulatio (obbligazione che si forma verbis).

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Cicerone usa questa triade d'ipotesi come base per la sua argomentazione difensiva,
presentandole come le sole ipotesi in cui può sorgere l'obbligazione di pagare una somma di
denaro azionabile con una condictio.
A questo prosegue dicendo che lo stesso attore:
 Dice di non aver versato la somma di denaro: non vi è pecunia data e non si forma re
alcuna obbligazione.
 Non dice di aver fatto l'expensilatio, dal momento che non produce i libri contabili: non
vi è pecunia expensa lata e non si forma litteris alcuna obbligazione.
 Quindi: non resta che l'ipotesi della stipulatio, perché un altro fondamento per
l'obbligazione di cui si tratta non esiste.
Sembra abbastanza evidente che Cicerone partisse da una specie di regoletta pratica,
corrispondente alla classificazione delle obbligazioni in “re-verbis-litteris”.

La classificazione delle obbligazioni in “re-verbis-litteris”, nata come diairesi di tutta la


materia delle obbligazioni considerate secondo il carattere della loro fonte, era destinata a
diventare il settore di una classificazione delle obbligazioni più ampia.

La divisio obligationum delle Istituzioni di Gaio

Ai tempi di Quinto Mucio Scevola, oltre alle fonti d'obbligazione che venivano individuate e
classificate come quelle che si formano “re-verbis-litteris”, esistevano altre fonti
d'obbligazione che non venivano classificate, ma solo enumerate:
 I contratti consensuali: compravendita, locazione, società e mandato.
 Le obbligazioni ex delicto: che nascevano da un delitto privato, ovvero da un fatto
illecito sanzionato con azione privata e pena privata (somma di denaro che il convenuto
era condannato a pagare all'attore).
 L'obbligazione nascente da legato testamentario con effetto obbligatorio.

Tra la metà del III sec. a.C. (epoca in cui fu introdotta la condictio e in cui si presentò il
problema di individuazione delle fonti d'obbligazione) e la metà del II sec. d.C. (epoca in cui
furono scritte le Istituzioni di Gaio), il panorama delle obbligazioni si arricchì di nuove figure.
Anche se non si procedette ad una classificazione generale delle fonti d'obbligazione, ne
vennero individuati dei gruppi caratterizzati da connessioni strutturali ed affinità dommatica.

A. Vi furono fattispecie che in origine davano luogo ad un rapporto di soggezione, e che


furono reinterpretate e diversamente disciplinate come rapporti obbligatori.
È il caso del legatum per damnationem. Dopo le leggi Silia e Calpurnia, questa fattispecie
continuava ad essere considerata una soggezione: lo prova il fatto che la condictio non le fu
considerata applicabile. Il mutamento di prospettiva ebbe luogo quando venne introdotta
l'azione formulare “certi ex testamento” (così la “manus inictio damnati” cadde in disuso).
B. Intorno al 200 a.C. si deve datare la lex Aquilia, che introdusse una nuova figura di delitto
privato, destinata ad avere un ruolo fondamentale nel diritto europeo: la figura del “damnum

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iniuria datum”: che consiste nel danneggiamento di una cosa altrui e produce in capo al
danneggiante l'obbligazione di pagare al proprietario della cosa danneggiata una somma di
denaro corrispondente al valore del danno subito.
Il dovere del danneggiante di pagare al danneggiato quella somma di denaro era indubbiamente
configurato dalla legge come un'obbligazione, ma per stabilirla la legge stessa usava
l'espressione “damnas esto dare”: il che mostra in modo evidente che questa espressione,
all'epoca della lex Aquilia, era ormai risentita dai giuristi come allusiva alla creazione di un
rapporto obbligatorio, e non di un rapporto di soggezione.
Quindi, la fattispecie del legatum per damnationem fu concepito come rapporto obbligatorio
prima del 200 a.C.
Infine, l'introduzione della nozione di obbligazione da delitto, con la lex Aquilia, ebbe presto
l'effetto di far costruire come obbligazioni gli altri casi di delitto privato che il ius civile
conosceva. Ciò avvenne senz'altro per il furto.

C. Nel corso del III e II sec. a.C. vennero introdotti i contratti consensuali di società,
compravendita, locazione e mandato (Labeone designò questa categoria con il nome di
“contractus” e contrapponendola a quella dell'actum, comprendente gli atti produttivi
d'obbligazione re, verbis e litteris).

La prima classificazione delle fonti d'obbligazione, che si presenti riferita all'intero sistema,
la troviamo solo nelle Istituzioni di Gaio, operetta che possiamo datare intorno al 161 a.C.
La prima divisio obligationum (re-verbis-litteris) non era stata fatta per amore della
sistematica astratta: essa era il frutto spontaneo del lavoro dommatico dei giuristi, che
intendevano impiegare il nuovo strumento della condictio per dare fondamento di razionalità
giuridica all'azionabilità di una serie di situazioni alle quali volevano applicare la nozione di
obbligazione, fino ad allora legata alla sola sponsio.
Siccome l'azione idonea a far valere qualunque obbligazione era la condictio, la prima divisio
obligationum prese corpo come la divisio delle obbligazioni sanzionate dalla condictio.
Per le nuove figure di obbligazione che furono riconosciute in seguito, una simile operazione
dommatica e sistematica non era per nulla necessaria, perché ogni nuova figura trovava la
propria azione prevista nell'editto pretorio.
La sola operazione che riprese il metodo degli antichi giuristi che lavorarono sulla lex Silia fu
quella di Labeone, quando stabilì la nozione generale di contratto per riconoscere la tutela dei
contratti innominati (ed inventò anche l'azione necessaria all'attuazione pratica della sua
idea). Ma tutto ciò non necessitava di stabilire una nuova divisio obligationum: si trattava di un
lavoro dommatico sulla nozione di contratto e riguardava il diritto dei contratti.

Invece, Gaio fece la sua divisio obligationum proprio per amore della sistematica.
Questo interesse gli proveniva dal fatto di aver deciso di scrivere un libro di Istituzioni, cioè
un manuale che doveva servire ai giovani che intendevano procurarsi una preparazione
giuridica elementare.
Le Istituzioni di Gaio sono costruite sulla base di un sistema dialettico, che si annuncia in
Gai.1,8 con la divisio del “ius quo utimur” (cioè di tutto il diritto positivo) in: diritto delle
persone, delle cose e delle azioni.
La classificazione delle obbligazioni, che Gaio faceva adottando la loro fonte come criterio
classificatorio, non manca di qualche pregio, ma prevalgono forse i difetti.

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Però, resta il fatto che essa costituisce il fondamento di tutte le classificazioni successive.
Anche se le Istituzioni di Gaio sono state trovate solo nel 1816, i giuristi che hanno elaborato
il diritto privato europeo lavorarono sulla base della divisio obligationum delle res cottidianae,
che leggevano nel Digesto, e su quella delle Istituzioni Giustinianee, entrambe strettamente
dipendenti da quella di Gaio.
L'importanza della divisio gaiana risulta enunciata interamente nei due paragrafi iniziali
dell'opera, ma tale enunciato serviva solo all'autore per indicare la sistematica secondo la
quale avrebbe poi esposto l'intera materia delle obbligazioni, la quale occupa tutto il resto del
terzo libro delle Istituzioni.

Gai.3,88 “La divisione principale delle obbligazioni si articola in due specie: qualunque
obbligazione, infatti, nasce o da contratto o da delitto”.
89 “E occupiamoci anzitutto di quelle che nascono da contratto. Di queste esistono 4 generi:
re, verbis, litteris e consensu”.
90 “L'obbligazione si contrae re come nel caso in cui si dia a mutuo”.
91 “È obbligato re anche chi ha ricevuto un indebito da colui che gliel'ha pagato per errore”.
92 “L'obbligazione nasce verbis per effetto di una domanda e una risposta”.
128 “L'obbligazione nasce litteris come nel caso dei nomina transscripticia. Oltre a questo
caso un'obbligazione letterale risulta nascere da chirografi e singrafi [...]. Ma si tratta di un
genere di obbligazione riservato a stranieri”.
135 “Le obbligazioni si formano col consenso (accordo delle parti) nei casi di compravendita,
locazione conduzione, società e mandato”.
136 “E se diciamo che in codeste 4 fattispecie le obbligazioni si contraggono col consenso, è
per la ragione che in esse non si esige alcuna particolare formalità orale o scritta, ma basta
che coloro che gestiscono l'affare abbiano raggiunto l'accordo”.
182 “Passiamo ora alle obbligazioni che nascono da delitto, come quando alcuno abbia
effettuato un furto, rapinato dei beni, cagionato danno, commesso ingiuria (aggressione
personale); l'obbligazione che riguarda tutti questi casi consiste di un unico genere, mentre le
obbligazioni da contratto si distinguono in 4 generi”.

Il criterio fondamentale su cui Gaio ha impostato la sua diairesi è quello del modo in cui le
obbligazioni si formano. Come dice lui stesso, quella che presenta è una classificazione delle
obbligazioni e non una classificazione delle fonti d'obbligazione. Però, resta il fatto che poi le
diverse categorie d'obbligazione sono determinate mediante riferimento ai fatti che le
producono, cioè alle loro fonti.
Siccome la classificazione gli serviva come griglia portante della trattazione istituzionale
delle obbligazioni, non fece una classificazione esauriente, ma provvide a che tutti i
meccanismi chiari di produzione delle obbligazioni vi fossero annoverati.
Questa contraddizione, fra tendenza ad una classificazione esauriente e la sua linearità
istituzionale, lo portò a delle scelte discutibili.
In linea di massima, egli prese in considerazione solo le fonti d'obbligazione dello ius civile
(trascurando, ad esempio, lo ius honorarium).

La summa divisio, ovvero la distinzione di partenza, viene effettuata da Gaio fra:


 Obbligazioni che nascono ex contractu.

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 Obbligazioni che nascono ex delicto.

A. Gaio prendeva le mosse dalla considerazione che le azioni nelle quali è deducibile un
rapporto obbligatorio, cioè le azioni in personam, sono: azioni reipersecutorie o azioni penali.
Infatti, nel quarto libro dice che: “Talora agiamo in giudizio per ottenere unicamente la cosa,
talora per ottenere unicamente una pena, altre volte per ottenere tanto la cosa quanto la
pena. Perseguiamo solo la cose come con le azioni che esercitiamo in base ad un contratto.
Perseguiamo solo una pena come con l'azione di furto o di ingiurie [...]” .

B. Si deve chiarire il significato con cui Gaio usa il termine “contractus”:


 Per Labeone: coincideva con la nozione di contratto consensuale.
 Per Gaio: i contratti consensuali sono uno dei 4 genera del “contractus”.
Quindi, la sua nozione di contratto non può che essere più estesa.

Dal fatto che nella summa divisio il contratto viene contrapposto al delictum si potrebbe
desumere che col termine “contractus” Gaio indicasse tutte le fonti d'obbligazione che non
consistono in un delitto privato. Quindi, si potrebbe ipotizzare che la sua diairesi iniziale
corrispondesse a quella che oggi si usa fare tra obbligazioni che nascono da fatto lecito e
obbligazioni che nascono da fatto illecito.
Ma certamente non è così.
Infatti, Gaio ha adottato nella sua divisio obligationum l'idea di Pedio ( “non vi è alcun
contratto, alcun atto diretto alla creazione di obbligazioni, che non contenga una conventio” ,
dove per “conventio” si intende “accordo”), impiegando però il termine “contractus” per
indicare tutti gli atti diretti, secondo la volontà delle parti, alla creazione di obbligazioni, e li
considera tutti basati su di un accordo delle parti.

Quindi, la summa divisio delle obbligazioni in obbligazioni ex contractu e obbligazioni ex


delicto aveva per Gaio il senso che tutte le obbligazioni trovano la loro fonte:
 O in un contratto: cioè in un atto che due parti concludono accordandosi sulla
creazione di una o più obbligazioni.
 O in un delitto: cioè in un fatto illecito previsto dall'ordinamento giuridico.

Questo modo di iniziare la divisio rivela in Gaio l'intento di proporre una griglia nella quale gli
fosse possibile inserire tutte le fonti d'obbligazione di cui intendeva trattare. Per questo
motivo, la divisio delle Istituzioni di Gaio ha scopo puramente ordinatorio, cessando così di
essere uno strumento dommatico di analisi della struttura dei meccanismi obbligatori.
Quest'ultimo aspetto delle cose non è più per lui lo scopo della sistematica, ma unicamente un
criterio per dare ad essa un assetto chiaro e memorizzabile.
Questo cambiamento di prospettiva lo condusse a pasticciare con la dommatica che la
tradizione giurisprudenziale gli forniva, col risultato che la sua classificazione risulta
infeconda e tale da occultare certi aspetti del sistema delle obbligazioni dei quali egli era, per
altro, a conoscenza. Quindi, la sua divisio è insufficiente anche rispetto al suo stesso scopo.

Infatti, il primo difetto è rappresentato dal fatto che, mettendo insieme nella stessa griglia
tecnica le obbligazioni da contratto e quelle da delitto, occulta del tutto la diversa
consistenza dommatica dei due tipi: l'obbligazione da delitto e quella da contratto vengono

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messe sullo stesso piano e questo rappresenta un autentico errore dommatico, perché
contrasta col carattere della differenza specifica fra i due tipi.

Per spiegare esattamente questa problematica, si devono osservare separatamente il


meccanismo dell'obbligazione da contratto e quello dell'obbligazione da delitto:
 Obbligazione da contratto: la vicenda di un'obbligazione contrattuale è composta dai
seguenti momenti:
◦ Il momento del contratto: che a sua volta è il momento:
▪ Del verificarsi del fatto fonte d'obbligazione.
▪ Della nascita dell'obbligazione.
▪ Del sorgere dell'azione contrattuale a tutela di tale obbligazione.
◦ Il momento dell'inadempimento: che a sua volta è il momento:
▪ Del fatto illecito, consistente nella violazione dell'obbligazione,
precedentemente nata.
▪ Nel quale diviene esperibile l'azione, precedentemente sorta.
 Obbligazione da delitto: la vicenda di un'obbligazione da delitto si riduce ad un solo
momento, che è quello:
▪ Del verificarsi della fonte dell'obbligazione, che coincide con la realizzazione
dell'illecito.
▪ Della nascita dell'obbligazione.
▪ Del sorgere dell'azione a tutela di tale obbligazione.
▪ Dell'esperibilità dell'azione stessa.

La differenza dipende dalle seguenti ragioni.


La vicenda di un'obbligazione s'inizia in ogni caso al momento del verificarsi del fatto che ne
costituisce la fonte, e l'azione che tutela l'obbligazione diventa esperibile in ogni caso con il
verificarsi del fatto illecito che lede il creditore:
 Nella vicenda dell'obbligazione contrattuale: il comportamento lesivo trae la sua
qualifica di illecito da un evento che appartiene alla vicenda obbligatoria stessa.
 Nella vicenda dell'obbligazione da delitto: la qualifica di illecito del comportamento
rilevante precede l'inizio della vicenda obbligatoria, perché tale qualifica di illiceità è
data dalla legge, o da altra fonte attuativa, che prevede come delittuosa la fattispecie
in questione. Perciò il delitto, quando viene commesso, fa sorgere, insieme
all'obbligazione, un'azione già esperibile.
La conseguenza sistematica di tutto ciò è che, in uno schema del sistema delle obbligazioni,
l'obbligazione da fatto illecito dovrebbe essere posta non al livello dell'obbligazione da
contratto, ma a quello dell'inadempimento.

Dal confronto fra la vicenda dell'obbligazione da contratto e quella da delitto (cioè da illecito
extra-contrattuale), si desumono i seguenti postulati conclusivi:
 In entrambe le vicende, l'esperibilità dell'azione del creditore dipende dal verificarsi
del comportamento illecito del debitore, che gli cagiona il danno.
 Nella vicenda dell'obbligazione da fatto lecito, l'illecito consiste nell'inadempimento.
 Nella vicenda dell'obbligazione da fatto illecito extra-contrattuale, l'illecito coincide
con la realizzazione del fatto che costituisce la fonte dell'obbligazione.

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Da questi postulati discendono le seguenti conseguenze:


 Le nozioni di adempimento e di inadempimento descrivono unicamente aspetti del
regime dell'obbligazione da fatto lecito.
 Tanto nell'azione da inadempimento quanto in quella da fatto illecito extra-
contrattuale, l'attore avrà l'onere di provare che il fatto che costituisce la fonte
dell'obbligazione ha avuto luogo, ma:
▪ Nell'azione da illecito extra-contrattale : ciò comporta che egli provi la
commissione dell'illecito da parte del convenuto, perché la fonte d'obbligazione è
l'illecito stesso.
▪ Nell'azione da inadempimento: l'attore non sarà tenuto a provare l'illecito (cioè
l'inadempimento), ma spetterà al convenuto l'eventuale prova liberatoria (cioè di
aver eseguito la prestazione o che questa risulti impossibile).
Infatti, in questo caso la fonte d'obbligazione è il contratto stesso.

Il fatto di aver impiegato le sole nozioni di contratto e di delitto come esaurienti di tutta la
tipologia delle fonti d'obbligazione, ha avuto una seconda conseguenza negativa sulla
consistenza della classificazione gaiana.
Infatti, la nozione di “contractus” impiegata da Gaio corrispondeva a quella di un atto che
implica un accordo delle parti sulla creazione delle obbligazioni che l'atto stesso è destinato a
produrre tra loro. Ma, in questo modo, egli si precludeva la possibilità di collocare nella sua
divisio tutte le obbligazioni che, pur non provenendo da delitto, sono generate da fattispecie
che non comprendono un accordo sul loro effetto obbligatorio.
Ciò significava che la sua divisio non aveva spazio per le obbligazioni che noi siamo abituati
ad indicare come le obbligazioni non contrattuali da atto lecito. Infatti, nella “parte sulle
obbligazioni” Gaio non menzionò né il legatum per damnationem e il legatum sinendi modo, che
pure trattava in altre parti del suo manuale, né la negotiorum gestio.

Per individuare il terzo e rilevante difetto della classificazione di Gaio, dobbiamo


considerare con attenzione il senso che egli dava ai genera dell'obbligazione che si forma re e
dell'obbligazione che si forma consensu:
 Obbligazione re contracta: per Gaio “re obligari” significava ancora “essere obbligato
dalla cosa in quanto presente nel patrimonio del soggetto che risulta obbligato” e non
“essere obbligato dalla datio di una cosa”.
Quindi, il fatto produttivo dell'obbligazione che si contrae re è l'acquisto della
proprietà della cosa da parte del soggetto che risulterà obbligato a restituirla:
naturalmente, questo acquisto della proprietà avviene per effetto di un atto traslativo
effettuato dall'altra parte, ma non è l'atto traslativo che fa nascere l'obbligazione,
bensì il suo effetto reale, ovvero la proprietà acquistata.
 Obbligazione che nasce dal consenso delle parti: “se diciamo che in codeste 4
fattispecie le obbligazioni si contraggono col consenso, è per la ragione che in esse non
si esige alcuna particolare formalità orale o scritta, ma basta che coloro che gestiscono
l'affare abbiano raggiunto l'accordo”.
Per spiegare la nozione di “obbligazioni che si pongono in essere col consenso”, Gaio ne
sottolinea la differenza rispetto alle obbligazioni che si pongono in essere verbis e
litteris, specificando che l'atto in cui si concretano i contratti consensuali non è

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assoggettato ad esigenze di forma.


Però, così facendo, Gaio giungeva a presentare i contratti consensuali come atti che
producono le loro obbligazioni per effetto del solo consenso, come se mai fosse
necessario alcunché d'altro: questo lo costringeva ad enumerare come contratti
consensuali solo compravendita, locazione, società e mandato, senza parlare di deposito
e comodato, i quali, per essere validamente conclusi, esigono la consegna di una cosa.
Inoltre, per la stessa ragione, taceva il pegno.
Però, Gaio parlava di queste figure nelle sue Istituzioni, ma nella divisium obligationum
queste ultime non trovano posto.

Deposito: l'obbligazione del depositario di restituire la cosa che è stata depositata presso di
lui nasce dal consenso delle parti, cioè dalla conclusione dell'accordo di deposito. Ma, finché la
cosa non è stata consegnata al depositario, quest'obbligazione di restituire non può
sussistere: un deposito, senza la consegna al depositario, sarebbe un contratto inidoneo a
produrre un'obbligazione avente ad oggetto una prestazione impossibile, e sarebbe quindi un
contratto nullo. Quindi, l'accordo contrattuale si perfeziona solo con la consegna della cosa: la
consegna rappresenta il presupposto di fatto.

I 3 difetti della diairesi gaiana delle obbligazioni, basata sul carattere dello loro fonti, sono
connessi con certi suoi pregi:
 Il primo difetto è quello di aver del tutto smarrito la percettibilità della differenza
strutturale tra l'obbligazione da fatto lecito e l'obbligazione da fatto illecito.
Questo difetto è dipeso dallo sforzo di costruire un'unica sistematica per tutte le
obbligazioni.
 Il secondo difetto è quello di aver creato uno schema nel quale non possono trovare
posto le obbligazioni da fatto lecito non contrattuale.
Questo difetto è dipeso dal desiderio di impiegare una nozione di contratto che
potesse comprendere tutte le fonti d'obbligazione che implichino l'accordo delle parti.
 Il terzo difetto è quello di aver escluso dalla nozione di contratto consensuale i
contratti per la cui conclusione è necessaria la consegna di una cosa.
Questo difetto sembra apparentemente il più banale, ma non lo è affatto: infatti ne
vedremo le conseguenze nel prossimo paragrafo.
Per ora ci limitiamo a riconsiderare la sua genesi nel pensiero di Gaio: proviene dalla
contraddizione tra la sua fedeltà alla nozione dommatica di “re obligari”, come
concepita dai veteres, e la sua idea di limitare la nozione di contratto consensuale ai
contratti che si perfezionano mediante il puro e semplice accordo.

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La divisio obligationum di Modestino

Nei testi che risalgono alla giurisprudenza romana del periodo classico, la sola classificazione
delle fonti d'obbligazione di cui abbiamo notizia, oltre a quella di Gaio, risulta da un passo del
Digesto, indicato come proveniente da Erennio Modestino.
Purtroppo, la versione del testo che compare nel Digesto è poco attendibile: sembra assai
probabile che provenga da materiale glossematico.
Quindi, ci limitiamo a riportare l'enunciato iniziale, il solo che permetta qualche osservazione
concreta: “Risultiamo obbligati o da una cosa (re) o da parole dette (verbis) o da entrambe
insieme (re et verbis) o da un accordo (consensu) o dalla legge (lege), o dal diritto onorario
(iure honorario, cioè dal diritto pretorio) o dalla necessità (necessitate) o da un'azione illecita
(ex peccato)”.

La prima constatazione è che la parte iniziale della sequenza riprende in qualche modo la
divisio gaiana delle obbligazioni ex contractu, ma senza impiegare la nozione di contratto a
comprenderle tutte.

Ad ogni modo, sono prima necessarie un paio di osservazioni:


 Obbligazioni che nascono litteris: i compilatori del Digesto hanno sempre soppresso, nei
testi che riportavano, la menzione delle obbligazioni che si formano litteris (nomina
transscripticia, expensilatio), e possiamo essere sicuri che essi si comportarono così
anche in questo caso.
 Obbligazioni “re et verbis”: Modestino alludeva ad un problema che i giuristi classici si
erano posti in relazione alla prassi assai diffusa di accompagnare un mutuo di denaro
con una stipulatio, con la quale il mutuatario prometteva la restituzione di quanto
riceveva, o quella somma aumentata di interessi, o soltanto gli interessi.
Modestino era discepolo di Ulpiano e si può ritenere che facesse riferimento agli
insegnamenti del suo maestro: “Quando uno ha dato del denaro a mutuo e subito ha
fatto la stipulatio, il contratto è uno solo. Lo stesso è a dirsi anche se la stipulatio sia
stata fatta per prima, e il denaro sia stato versato immediatamente dopo” .
Quindi, il soggetto passivo dell'obbligazione è obbligato una sola volta e deve
effettuare una sola prestazione.

Ad ogni modo, i generi d'obbligazione che Modestino presentava nella prima parte della sua
frase (re, verbis, re et verbis, litteris, consensu) erano gli stessi dei genera gaiani delle
obbligazioni che nascono ex contractu, con due differenze:
 La prima è di scarsa importanza: l'aggiunta del genus delle obbligazioni che si formano
re et verbis (simul utroque).
 La seconda è molto rilevante: Modestino non considerava i 5 suddetti genera come
suddivisioni dell'obbligazione da contratto: quei 5 genera erano per lui “genera
obligationum” e non genera dell'obligatio ex contractu.
Nella sua divisio la categoria del contratto non è usata: per lui il termine “contractus”
non doveva essere che un altro modo per indicare l'obbligazione contratta “consensu”,
cioè l'obbligazione che trova la sua fonte direttamente nell'accordo delle parti.

Se consideriamo la seconda parte dell'enunciato diairetico di Modestino, i dubbi si fanno più

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numerosi. Dopo l'enumerazione delle obbligazioni da fatto lecito che abbiamo considerato
finora (re, verbis, re et verbis, litteris, consensu), l'enumerazione continua con altri 4 tipi di
obbligazioni individuate con riferimento alla loro fonte (lege, iure honorario, necessitate,
peccato), che sono messe sullo stesso piano delle precedenti (viene usato in entrambi i casi il
verbo “obligamur”, la sequenza è coordinata dalla congiunzione “aut”).
Dalla semplice osservazione emerge che dei 4 genera finali solo uno può essere considerato
come individuato dalla determinazione di un meccanismo obbligatorio: ex peccato, il quale non
può che alludere alle obbligazioni da delitto.
Invece, i 3 tipi precedenti sono individuati diversamente: né la legge, né il ius honorarium
possono essere considerati meccanismi obbligatori, e neppure la necessità, ammesso che si
possa capire quel che con tale termine si voglia dire.

A. Necessità: questo genus delle obbligazioni che provengono dalla necessità è misterioso.
Nella spiegazione che si dà del testo di Modestino si dice: “Risultano obbligati dalla necessità
(coloro) ai quali non è possibile fare altro se non quello che è stabilito: il che avviene nel caso
dell'erede necessario”.
Quello dell'erede necessario è evidentemente addotto come il solo caso, o almeno il caso
emblematico: l'erede necessario è il soggetto che, qualora sia designato come erede di un
certo de cuius dalla legge o dal testamento, alla morte di tale de cuius diviene erede ipso iure,
senza bisogno di accettazione e senza poter rifiutare l'eredità.

B. Per quanto riguarda le obbligazioni che nascono dalla legge o dal ius honorarium, le
spiegazioni che troviamo nel testo sono le seguenti:
“Siamo obbligati dalla legge quando, ottemperando alle leggi facciamo qualcosa
conformemente al precetto legale o non ottemperando facciamo qualcosa contro” .
“Siamo obbligati dal diritto onorario per effetto di quel che si dispone che venga fatto o si
proibisce che venga fatto nell'editto perpetuo o da un magistrato” .
Questa spiegazione, difficilmente attribuibile a Modestino, consiste solo in una generica
descrizione della forza vincolante della legge e del diritto pretorio.
La menzione, in una classificazione delle obbligazioni basata sul modo in cui esse si formano,
della legge e del ius honorarium non può intendersi come allusiva a dei meccanismi obbligatori,
cioè non può essere considerata l'individuazione di due fonti d'obbligazione, perché si tratta
solo dell'indicazione di due luoghi dove delle fonti di obbligazione possono trovarsi previste.
Ma le obbligazioni che avevano una base nella legge o nel ius honorarium erano praticamente
solo le obbligazioni da delitto.
Quindi, siamo indotti a ritenere che la previsione finale dell'obbligazione “ex peccato” sia solo
un'aggiunta effettuata da un glossatore post-classico, che si meraviglia di non vedere
enumerato il delitto tra le fonti delle obbligazioni.

C. Obbligazione da delitto: per la soppressione di “aux ex peccato” sussistono, oltre alla


suddetta teoria, anche altre due ragioni di ordine filologico:
 La scelta del vocabolo: il suo impiego nel linguaggio giuridico è molto raro.
 La proposizione “ex”: per gli altri elementi dell'enumerazione (affini a “peccato”) è
usato il semplice ablativo.
Quindi, si ritiene che sia stato aggiunto da un'altra mano.
La classificazione di Modestino appare come un'enumerazione composta da una diairesi e da

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un'appendice, che della diairesi non fa parte:


 I primi 5 elementi presentano una diairesi, ma che si limita a considerare le obbligazioni
da fatto lecito, come se si trattasse delle sole obbligazioni suscettibili di essere
classificate.
 Dopo di questa diairesi, si indicano la legge e il ius honorarium come luoghi dove possono
rinvenirsi altre fonti d'obbligazione non classificabili (obbligazioni da fatto illecito).

La classificazione epiclassica delle “res cottidianae”

L'opera che nel Digesto è citata col titolo di “aurea” o con quello di “res cottidianae” si
presenta come rielaborazione delle Istituzioni di Gaio.
I compilatori la attribuiscono a Gaio, ma si deve ritenere che sia stata confezionata da un
intelligente rielaboratore epiclassico verso la fine del III secolo.
Recentemente si è cercato di restituire a Gaio la paternità delle res cottidianae, proponendo
l'idea che le Istituzioni fossero un'opera precedente, che Gaio stesso avesse rielaborato nella
maturità. Ma, anche se ciò sarebbe astrattamente possibile, sussistono argomenti che non
permettono di accettare questa tesi:
 Le Istituzioni di Gaio non furono un'opera che possa collocarsi verso gli inizi
dell'attività di Gaio, perché aveva pubblicato altre opere.
 L'argomento decisivo è dato dal fatto che non solo la dommatica delle res cottidianae è
diversa da quella delle Istitutiones, ma è stata evidentemente elaborata da un autore
che aveva del tutto smarrito certe prospettive del pensiero giuridico della
giurisprudenza classica, che del Gaio delle Istituzioni rappresentavano il sicuro bagaglio
intellettuale.

Anche la sistematica generale delle res cottidianae era basata su quella di Gaio, ma con
varianti:
 Il I libro era dedicato al diritto delle persone, come in Gaio.
 Il II libro iniziava con la trattazione “de rebus”, prendendo le mosse da una
classificazione delle cose per proseguire con i diritti reali, come in Gaio.
 Dopo ciò l'autore passava alle obbligazioni, che occupavano il resto del II libro e l'inizio
del III libro. Da questo si desume che la materia delle successioni, che nelle Istituzioni
di Gaio seguiva quella dei diritti reali, nelle res cottinidianae trovava posto dopo la
trattazione delle obbligazioni. Ad ogni modo, della trattazione delle successioni non
abbiamo nessuna informazione circa la loro collocazione.
 Non sappiamo di cosa trattassero lo stesso IV libro ed i residui libri fino al VII.

Le res cottidianae ebbero senza dubbio un impiego importante nelle scuole giuridiche
orientali, come ci testimonia la costituzione giustinianea che accompagnò la pubblicazione
delle Istituzioni imperiali e le promulgò anche con valore di legge, nella quale le res
cottidianae sono menzionate insieme alle Istituzioni di Gaio come i due testi principali che
avevano costituito la base per la compilazione delle Istituzioni giustinianee.
Il connotato caratteristico di tutta l'impostazione sistematica delle fonti d'obbligazione nelle
res cottidianae risiede nello sforzo dell'autore di correggere i difetti della sistemazione

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gaiana. Il fatto che il contratto e il delitto risultassero messi sullo stesso piano nella visione
dommatica del rapporto obbligatorio non viene nemmeno preso in considerazione dal
rielaboratore, ma quest'ultimo si preoccupò di modificare l'assetto complessivo della divisio,
in modo che questa potesse offrire un posto acconcio a tutte le fonti d'obbligazione, e quindi
anche a quelle che Gaio non era riuscito ad inserirvi o aveva inserito a fatica.
Per la soluzione della maggior parte di questi problemi, il rielaboratore adottò un
atteggiamento che già abbiamo potuto scorgere in Modestino: limitare la classificazione alle
obbligazioni che nascono da certe fonti e adattare per le altre la semplice enumerazione.

Nelle res cottidianae l'impostazione di tutto il discorso sulle fonti delle obbligazioni è il
seguente: “Risultiamo obbligati o da un contratto (contractus) o da un misfatto (maleficium),
o da altre diverse figure di fonti ciascuna operante secondo una propria struttura giuridica” .
Innanzitutto, si vede che il discorso non è più impostato, com'era in Gaio, come una
classificazione delle obbligazioni fatta secondo la loro fonte, ma decisamente come un
discorso sulle fonti delle obbligazioni.
L'autore non fa una divisio obligationum, ma elenca le fonti delle obbligazioni. In questa linea,
egli fa seguire l'elenco delle fonti, proponendone anzitutto due species: il contratto e il
delitto privato (che denomina “maleficium”).
Poi dice che vi sono altre fonti, precisando espressamente che queste fonti (causae) non
possono essere rapportate a categorie (species), perché esse sono varie e ciascuna ha una
propria e diversa connotazione giuridica.
La scelta di “maleficium” in luogo di “delictum” non deve meravigliare, perché il termine era
già presente nelle Istituzioni di Gaio. Inoltre, per esprimere l'idea di “fonte” d'obbligazione
viene usato il termine “causa”, nel senso filosofico di “causa efficiens”. Infatti, è soprattutto
da questo testo che proviene l'uso, abbastanza diffuso tra i romanisti, di denominare “causa
obligationis” la fonte dell'obbligazione.

La presentazione delle fonti d'obbligazione contenuta nelle res cottidianae non consiste in una
tripartizione, come spesso viene descritta dai romanisti: la divisio è sempre in due species
(ex contratu-ex maleficio), precisamente corrispondenti alle due species delle summa divisio
di Gaio (ex contractu-ex delicto): però, il parafraste epiclassico considera espressamente tale
divisio insufficiente, avvertendo che essa va completata con l'individuazione di altre fonti
non classificabili.

D.44,7,1,1 “Le obbligazioni di contratto si contraggono o re o verbis o consensu”.


2 “L'obbligazione si contrae re dando a mutuo [...]”.
3 “Anche colui al quale diamo in comodato una qualche cosa è obbligato re verso di noi, ma
questo è tenuto a restituirci la cosa stessa che abbia ricevuto” .
5 “Anche colui presso il quale abbiamo deposto qualche cosa è tenuto re verso di noi: e anche
costui è tenuto a restituirci la cosa che ha ricevuto [...]”.
6 “Anche il creditore che ha ricevuto un pegno è tenuto re: ed anch'egli è tenuto a restituirci
la cosa stessa che ha ricevuto [...]”.

La lettura di questo frammento mostra come il parafraste di Gaio sia pervenuto a trovare
nella sua diairesi un posto acconcio per i contratti di comodato, deposito e pegno.
Il punto di partenza dell'operazione dommatica consiste nel fatto di avere del tutto eliminato

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la nozione di “obligatio re contracta” risalente ai veteres ed ancora salda nella mente di Gaio
come quella di un meccanismo nel quale l'obbligazione è prodotta dalla cosa, nel senso della sua
presenza nel patrimonio del soggetto che risulta obbligato.
Per l'autore delle res cottidianae non ci sono più obbligazioni che si formano re, ma solo
contratti che si concludono re, dove questo ablativo “re” significa “con la consegna della
cosa”: questa consegna non è più una traditio, perché essa può anche essere un semplice
trasferimento della detenzione.
Questa idea dell'autore è già chiara nella descrizione che fa del mutuo.
Mentre Gaio diceva che “l'obbligazione si contrae re, come nel caso della dazione a mutuo”,
l'autore dice che “l'obbligazione si conclude re con la dazione a mutuo” e cioè per effetto
della datio delle cose mutuate.
Però, la cosa più importante è che per l'autore la datio produttiva dell'obbligazione non è più
una consegna traslativa di proprietà, ma una consegna qualunque: solo pensando così egli
avrebbe poi potuto dire che è produttiva di obbligazione “re contracta” anche la consengna a
titolo di comodato, deposito e pegno.
In sostanza, l'autore della res cottidianae ha creato la categoria moderna del contratto
reale, come quella di un contratto che si perfeziona con la consegna di una cosa.
Ma il costo di questa innovazione è stato quello della perdita definitiva, per la scienza
giuridica, della nozione di “re obligari”.

Passiamo ora al secondo termine della divisio delle fonti d'obbligazione, riportando il passo
che nelle res cottidianae doveva aprire il III libro:
D.44,7,4 “Le obbligazioni nascono da misfatto, come nelle ipotesi di furto, danneggiamento,
rapina, iniuria. Le quali tutte appartengono ad un unico genere: infatti queste vengono tutte in
essere re, e cioè dal misfatto stesso, mentre invece le obbligazioni da contratto non vengono
tutte in essere re, ma anche verbis e consensu”.
L'enunciato dell'autore delle res cottidianae, salve le differenze nella terminologia, è
interamente gaiano: esso corrisponde all'idea di Gaio anche per la precisazione sistematica
che l'insieme dei delicta o maleficia non si divide in genera, perché vi corrisponde un unico
genus. L'unica differenza è data dal fatto che: mentre Gaio si guardava bene dal fare un
parallelo fra i genera delle obbligazioni da contratto e quelli delle obbligazioni da delitto,
l'autore delle res cottidianae non solo lo fa, ma determina a quale dei quattro genera delle
obbligazioni da contratto si riducano le obbligazioni da maleficium.
Questa precisazione del parafraste non si deve sottovalutare, perché:
 Ci conferma che nell'autore delle res cottidianae non albergava più l'idea tecnica del
“re obligari”.
 Un testo del Digesto proveniente da Claudio Saturnino ci fa una divisio in 4 genera delle
condotte che “vengono sanzionate con pena”, ed ogni genere è seguito da esempi:
▪ Facta: furti e omicidi.
▪ Dicta: invettive ingiuriose.
▪ Scripta: falsità e libelli diffamatori.
▪ Consilia: cospirazioni, connivenza con briganti, istigazione, favoreggiamento.

La diairesi facta-dicta-scripta-consilia richieggia quella re-verbis-litteris-consensu, e dunque


a “re” corrisponde “facta”. Quindi, dicendo che i maleficia creano obbligazioni re, l'autore

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avrebbe voluto dire che i delitti privati creano l'obbligazione con il fatto, cioè con la
commissione del fatto delittuoso.

Esaurita la trattazione della materia dei contratti e dei maleficia, passiamo ora a parlare
delle altre fonti d'obbligazione che non sono né contratti né maleficia.
D.44,7,5 “Nel caso uno abbia gestito affari di un assente, se lo ha fatto in base a mandato,
è evidente che dal contratto nascono fra loro le azioni di mandato, mediante le quali essi
possono reciprocamente agire in giudizio per quel che l'uno deve prestare all'altro; nel caso
invece che la gestione abbia avuto luogo senza mandato, si è stabilito che senza dubbio essi
risultassero reciprocamente obbligati ed a tale titolo sono state introdotte le azioni che
chiamiamo “negotiorum gestorum” (cioè per la gestione degli affari), mediante le quali essi
possono parimenti agire reciprocamente in giudizio per quel che l'uno deve prestare all'altro
secondo buona fede. Ma tali azioni non nascono né da contratto né da misfatto […]” .
1 “Anche coloro che sono tenuti dal “iudicium tutelae” (pupillo-tutore) non possono
propriamente considerarsi obbligati da contratto; ma siccome certo non sono tenuti da
misfatto, appaiono tenuti come da contratto (quasi ex contractu).
Anche in questo caso le azioni sono reciproche [...]”.
2 “Anche l'erede che deve un legato (es: legatum per damnationem) non può considerarsi
obbligato né da contratto né da misfatto: infatti il legatario non può considerarsi aver
concluso alcun contratto né col defunto né con l'erede, e che in tutta la faccenda non vi sia
alcun misfatto è evidente”.
3 “Anche chi riceve un indebito per errore di chi gliel'ha pagato è obbligato come da una
datio mutui ed è tenuto alla stessa azione della quale i mutuatari sono tenuti verso i mutuanti” .

Nel passo che abbiamo letto è contenuto il contributo più importante dell'autore delle res
cottidianae alla dommatica delle fonti d'obbligazione. In modo molto lucido, presentando la
prima serie delle fonti d'obbligazione non classificabili, ha in realtà individuato il campo delle
obbligazioni non contrattuali da fatto lecito, ed ha pure descritto con chiarezza i caratteri
che accomunano le loro fonti:
 Si tratta di fatti che non costituiscono né un contratto né un delitto:
▪ Per stabilire che non si tratti di un delitto è sufficiente l'evidenza.
▪ Per stabilire che non si tratti di un contratto si constata che fra le parti del
rapporto nascente non è intercorso un accordo obbligatorio.
 Il regime giuridico di tutte queste fonti della serie finora presentata si concreta
nell'effetto di produrre obbligazioni che risultano poi sanzionate con azione
reipersecutoria (affermazione di carattere generale, ma detta espressamente solo per
il “iudicium tutelae”).

Questo ci fa capire perché il parafraste considerasse non classificabili le fonti di queste


obbligazioni: perché i connotati comuni che esse offrono non sono sufficienti a definirne un
concetto:
 Il primo connotato è solo negativo e non offre elementi definitori.
 Il secondo connotato è comune anche alle obbligazioni da contratto.

Ora consideriamo la serie delle “variae causarum figurae” che producono obbligazioni
sanzionate con azioni penali (D.44,7,5,4):

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 Iudex qui litem suam fecerit.


 Colui che abita un appartamento dalla finestra del quale sono cadute cose provocando
danni o nel quale vengono esposte cose che possono cadere o nuocere a qualcuno.
 Gli esercenti di servizi di trasporto marittimo, d'albergo e di stallaggio che rispondono
dei furti o danneggiamenti dei loro dipendenti.
Per ognuna delle ipotesi che enumera nel brano, sottolinea che i soggetti contro i quali possono
essere esperite le azioni in factum menzionate non sono veri delinquenti, ma sono pur sempre
persone che è opportuno punire.

A. Habitator dell'appartamento: egli risulta responsabile non del fatto, ma dalla situazione
che esso crea o degli effetti che esso produce, e quindi può rispondere anche per un fatto
altrui: egli non è punito per qualcosa che ha fatto, ma per qualcosa che è avvenuto in casa sua.
La norma è certamente opportuna, ma non funziona tanto per punire un malfattore, quanto
come uno strumento per assicurare un'indennità al danneggiato o come minacciosa esortazione
a prudenza e sorveglianza.

B. Esercenti: vale lo stesso ragionamento suddetto.


La norma è certamente opportuna, perché il passeggero o il cliente che subisce furti o danni
alle sue cose deve avere un soggetto ben individuabile contro il quale agire in giudizio, ma
questo soggetto risponde per fatto altrui: del fatto dei suoi dipendenti egli è pur sempre un
po' colpevole, perché i suoi dipendenti se li è scelti lui, e li ha scelti male.

C. Giudice: questa ipotesi viene presentata in modo molto vago come un comportamento
colpevole del giudice, che parrebbe condurlo ad un errore nel giudizio.
La nozione che concretamente impiegava l'autore delle res cottidianae è conforme a quella
impiegata da Gaio in un passo dove vi faceva riferimento incidentalmente, a in modo molto
chiaro: “Ma il giudice deve fare attenzione, quando sia presente una condemnatio ad una
somma determinata di denaro, a non condannare né a più né a meno della somma indicata,
altrimenti litem suam fecit. Così pure, se sia presente una taxatio, faccia attenzione a non
condannare a più del limite fissato, altrimenti egli litem suam fecit allo stesso modo”.

Gaio considerava che il giudice “facesse propria la lite”, “si appropriasse della lite”, quando
egli desse sentenza al di fuori dei suoi poteri.
I poteri del giudice, nella procedura formulare, trovano la loro fonte nel decreto con il quale il
pretore lo nominava giudice per quella controversia, ordinandogli di giudicarla e dandogli le
istruzioni circa il modo di giudicarla e deciderla. Se il giudice non seguiva le istruzioni
impartitegli, andava oltre i suoi poteri.

Si è così potuto constatare che la determinazione, tra le variae causarum figurae, di un


settore di fonti in esito alle quali un soggetto risulta obbligato “come da misfatto” (quasi ex
maleficio), non mostra le stessa precisione e lo stesso rigore che avevamo potuto riconoscere
nella determinazione delle fonti che obbligano quasi ex contractu.

Il contributo dell'autore alla sistematica delle fonti d'obbligazione resta dunque quello della
individuazione del settore delle obbligazioni non contrattuali da fatto lecito.

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Le fonti delle obbligazioni nelle Istituzioni di Giustiniano

Nelle Istituzioni giustinianee sono presenti due diairesi dell'obligatio, ma quella che ci
interessa è solo la seconda.

Origine dell'opera: il testo delle Istituzioni fu approvato e promulgato come legge


dall'imperatore Giustiniano con la costituzione “Imperatoriam maiestatem” del 21 novembre
533, che precede di qualche mese la promulgazione del Digesto e la contestuale riforma dei
programmi di insegnamento del diritto nelle università di Costantinopoli e Berito.
Siccome le nuove Istitutiones dovevano servire come testo istituzionale nel nuovo piano di
studi, furono redatte da due professori, che avevano anche partecipato alla compilazione del
Digesto: Teofilo e Doroteo.
Come il Digesto, che doveva sostituire i vari testi giurisprudenziali adottati in precedenza
nello studio universitario approfondito, il nuovo testo istituzionale doveva sostituire i
corrispondenti usati fino ad allora: le Istituzioni di Gaio e le res cottidianae.

Il titolo “de obligationibus” delle Istituzioni (I.3,13), nel quale è annunciata la divisio
obligationum che ci interessa (cioè quella stabilita con le fonti delle obbligazioni come criterio
discretivo), è uno specchio fedele di tale concezione genetica dell'opera.
Infatti, il suo inizio si apre con la frase gaiana “Ora passiamo alle obbligazioni”: ma, mentre in
Gaio si passava nello stesso paragrafo a enunciare la divisio, i compilatori delle Istituzioni
giustinianee inserirono qui una definizione dell'obligatio:
“Ora passiamo alle obbligazioni. L'obbligazione è un vincolo giuridico, in forza del quale siamo
costretti dalla necessità di pagare qualcosa secondo il diritto della nostra comunità politica”.
I maestri bizantini che hanno redatto le Istitutiones non avevano una definizione romana
dell'obligatio da trascrivere, perché nei libri dei giuristi romani essa non c'era, altrimenti
sarebbe stata inserita nel Digesto.
Quindi, la definizione di I.3,13 deve appartenere alla tradizione dell'insegnamento nelle scuole
giuridiche orientali. Del resto si tratta di una definizione assai poco significativa e per giunta
scorretta: sviluppando uno spunto già presente nella Glossa, non è una “bona definitio” perché
“non convertitur cum suo definitio” (ovvero non vi è corrispondenza biunivoca tra l'entità
definita e la sua definizione). Ad ogni modo, la definizione giustinianea non è una definizione
dell'obbligazione, ma semmai del dovere giuridico in generale. Tuttavia, ha sempre avuto un
certo successo, perché non si è trovato di meglio.

Prima divisio: al paragrafo iniziale con la definizione di obligatio segue una divisio, indicata
come “summa divisio in duo genera“ fra obbligazioni civili e pretorie, probabilmente
anch'essa frutto di una tradizione didattica orientale. Appare strano che i compilatori
abbiano dato così tanta evidenza a questa divisio, visto che nel diritto giustinianeo la tendenza
al superamento della distinzione tra ius civile e ius honorarium si era ormai decisamente
affermata.

Seconda divisio: a questo punto si giunge alla diairesi che ci interessa, ovvero quella che
divide le obbligazioni secondo le loro fonti, e che è annunciata come “sequens divisio in
quattuor species”, con un'ulteriore suddivisione in 4 species di una delle species della divisio
precedente.

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I.3,13,2 “La divisio seguente si articola in 4 specie: le obbligazioni, infatti, o sono da


contratto, o quasi da contratto, o da delitto, o quasi da delitto. Per prima cosa dobbiamo
prendere in considerazione quelle da contratto. Di queste vi sono parimente 4 specie: infatti
si contraggono re o verbis o litteris o consensu”.
Gli autori delle Istituzioni giustinianee hanno adottato la classificazione delle res cottidianae,
ma l'hanno espressa in un modo diverso, frutto di una rielaborazione funzionale ad una più
semplice e strutturata esposizione didattica. In particolare, sono divenuti species anche
quelle “variae causarum figurae” non classificate.
Tutto ciò, oltre che una trovata didattica, nascondeva un'inconscia operazione dommatica
deteriore. Per determinare un genus o una species è necessario anche disporre di una
definizione dell'entità appartenente a tale genus o species, e da questa necessità emerge
l'esigenza di trovare un segno linguistico con il quale tale entità possa essere denominata in un
modo adatto a richiamarne la natura. Ma, per ciascuno dei 2 gruppi di “variae causarum
figurae”, divenuti ora species, i rispettivi concetti e le relative denominazioni appropriate li si
doveva costruire: e i maestri che crearono la nuova quadri-partizione si illusero di poter
impiegare a questo scopo le due locuzioni “quasi ex contractu” e “quasi ex delicto”, perché:
“ex contractu” ed “ex maleficio” esprimono sì la provenienza dell'obbligazione da certi fatti,
ma “quasi ex contractu” e “quasi ex maleficio” indicano il tipo di effetti obbligatori che si
producono da fatti giuridicamente non definiti nella loro natura (variae causarum figurae).
Siccome l'entità rilevante classificata è il fatto produttivo di obbligazione:
 Per le fonti delle due species proveniente dai due genera delle res cottidianae, il fatto
è individuabile nel contratto e nel delitto, che corrispondono a concetti ben definibili.
 Per le due nuove species, il fatto produttivo non è né definito né definibile, e le
espressioni “quasi ex contractu” e “quasi ex maleficio” non hanno neppure un aspetto
sufficientemente idoneo ad essere usato come denominazione.
Quindi, nella prassi della didattica, si arrivò a costruire le locuzione sostantive: quasi
contractus e quasi maleficium (o quasi delictum).

Anche se “quasi contratto” e “quasi delitto” risultano maneggevoli come denominazioni delle 2
categorie di fonti, le due espressioni sostantivate sono sempre dommaticamente insensate:
 Quasi delitto: potrebbe aver l'aria di alludere a fatti illeciti extra-contrattuali meno
gravi dei delitti o moralmente meno biasimevoli. Però, la misura della minor gravità non
è determinata in alcun modo: la debolezza della differenziazione di questa categoria da
quella dei delitti discendeva direttamente dalle res cottidianae.
La distinzione tra delitti e quasi delitti resta una distinzione descrittiva e se diventa,
come nelle Istituzioni giustinianee, un elemento della sistematica, si rivela inutile.
Nella pratica, però, essa non dà luogo a danni gravi, perché i singoli fatti illeciti extra-
contrattuali sono sempre tutti previsti dalla legge o da altre fonti autoritative.
Pertanto, un ausilio dommatico alla determinazione delle singole fonti d'obbligazione in
tale settore non è, per tale operazione, necessario.
 Quasi contratto: qui si pone il problema dell'individuazione delle fonti d'obbligazione
non previste da fonti autoritative.
Il quasi contratto è definito solo come fatto produttivo di obbligazioni di tipo
contrattuale, pur non essendo un contratto, ovvero “pur senza corrispondere ad un
accordo obbligatorio delle parti”.
Ma quali siano questi fatti che, senza bisogno di accordo, possono produrre obbligazioni

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che generano azioni reipersecutorie, non si sa dove andare a cercarli (quando non si
hanno giuristi autorevoli e un pretore con poteri per soddisfare simili richieste).
A meno di non pensare anche qui che tutte le fattispecie quasi-contrattuali debbano
essere previste dalla legge.

A. Andiamo a vedere l'ulteriore suddivisione delle obbligazioni da contratto.


 I.3,14: questo titolo parla dei “modi in cui le obbligazioni si formano re”: qui si elenca
prima il mutuo e poi, seguendo le res cottidianae ed adottando la nozione di contratto
reale, il comodato, il deposito ed il pegno.
È curioso che, dopo il principium dedicato al mutuo, i compilatori hanno riportato il
brano di Gaio sulla solutio indebiti, figura che in questa sistematica proveniente dalle
res cottidianae non ha più qui il suo posto.
 I.3,15: contiene l'inizio della trattazione della stipulatio, che prosegue fino a I.3,20.
 I.3,21: è dedicato alle obbligazioni che si contraggono litteris.
“Un tempo dalla scrittura si creava un'obbligazione, che era detta venir creata dalle
scritture effettuate nei libri contabili, le quali oggi non son più in uso.
Ma è chiaro che, se qualcuno abbia scritto di dovere una somma di denaro che non gli è
stata pagata, l'eccezione “che il denaro non gli è stato versato” egli non la può opporre
dopo trascorso un lungo lasso di tempo.
Così avviene anche oggi, quando l'eccezione non è più opponibile (dopo 2 anni), egli
risulta obbligato dalla scrittura: e da questa nasce la condictio, naturalmente se non sia
stata fatta una stipulatio”.
 I.3,22: presenta in generale le obbligazioni che si formano consensu.
I titoli seguenti riguardano i 4 contratti consensuali della divisio gaiana.

B. Il titolo I.3,27 riguarda le obbligazioni da quasi contratto.


Ovviamente, qui il materiale proviene dalle res cottidianae, anche se rielaborato in più punti.
In particolare, la species viene presentata in modo unitario, mentre nelle res cottidianae
queste “causarum figurae” non costituivano una species.
Ma soprattutto si deve notare che in questo titolo è presente una novità sostanziale:
 Nelle res cottidianae: le ipotesi da quasi contratto enumerate erano 4.
 Nelle Istituzioni: le ipotesi enumerato sono 5:
▪ Negotiorum gestio.
▪ Rapporti sanzionati con l'actio tutelae.
▪ Legato ad effetto obbligatorio.
▪ Pagamento indebito.
▪ Società di fatto.

C. Il titolo I.4,1 inizia la trattazione delle obbligazioni da delitto.


Questo titolo presenta la materia in generale e si afferma, come nelle Istituzioni di Gaio, che
i delitti consistono in un unico genus.

D. Il titolo I.4,5 tratta delle obbligazioni da quasi delitto, riprendendo la trattazione che
ne facevano le res cottidianae, senza alcuna presentazione generale.

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2. Le fonti delle obbligazioni II

Le classificazioni del Corpus Iuris nell'interpretazione dei giuristi medievali

La grande novità, che permise alla scuola di Bologna di assumere fin dall'inizio l'importanza
che ebbe come iniziatrice di quello che per lungo tempo i moderni storici del diritto hanno
denominato “il rinascimento giuridico”, e poi a tutta la scuola dei Glossatori di porre le basi
scientifiche della giurisprudenza moderna, consiste nel fatto che Irnerio e i suoi seguaci si
misero a lavorare sul Corpus iuris civilis giustinianeo nella sua integrità, in particolare
completato con il Digesto.
Il primo compito che i Glossatori si assunsero fu quello di capire il Corpus Iuris e di renderlo
comprensibile ai loro allievi, destinati a diventare a loro volta maestri di diritto, funzionari
nelle amministrazioni pubbliche, avvocati e giudici. Quindi, il loro metodo di lettura delle fonti
ebbe soprattutto carattere esegetico.
Ma è importante tenere ben presente l'atteggiamento che li guidò nell'esegesi dei testi e ne
condizionò i risultati: essi consideravano il Corpus Iuris (Digesto, Codice giustinianeo,
Istituzioni, Novelle) come il corpo di leggi che l'Imperatore aveva promulgato per tutto
l'Impero. Quindi, il Corpus Iuris era tutto il diritto vigente, composto da testi tutti
contemporanei nel loro vigore, senza distinzioni cronologiche interne.
In tale ambito, essi avevano ragione di porsi problemi di successione delle leggi nel tempo solo
per stabilire, quando due regole fossero reciprocamente in contrasto, se la contraddizione
potesse essere risolta in base al principio che la legge posteriore abroga la precedente: così
essi consideravano il Codice come prevalente rispetto al Digesto, perché successivo.

La prima constatazione che si può fare leggendo i testi legati all'attività dei Glossatori è che
essi avevano ormai acquisito l'idea che le due species di fonti d'obbligazione che le Istituzioni
giustinianee ponevano accanto a contratto e delitto erano individuabili come “quasi contratto”
e “quasi delitto”. Nelle fonti occidentali questa metamorfosi della denominazione delle fonti di
obbligazioni “quasi ex contractu” risale all'attività esegetica relativa alle Istituzioni
giustinianee che precedette quella della scuola di Bologna (glosse torinesi).

Per i glossatori le due classificazioni delle obbligazioni fatte secondo le loro fonti, e cioè
quella del Digesto e quella delle Istituzioni, non apparivano né chiare né coerenti, bensì
alquanto problematiche. In proposito dobbiamo leggere una glossa di Accursius.
A. Il primo paragrafo della glossa accursiana informa di una controversia tra i Glossatori
circa il senso della categoria delle obbligazioni che nascono “ex variis causarum figuris”, ed
enuncia la prima delle tesi sostenute in proposito: parrebbe che questa tesi definisse le
“variae causarum figurae” come le fonti che presentano carattere ambiguo, in quanto sono
insieme “quasi contratti” e “quasi delitti”.
In particolare, la prima tesi individuava una classificazione delle obbligazioni in 3 membri: da
contratto, da delitto e da fonti di natura mista (variae causarum figurae: cioè né
contrattuali né delittuali, proprio perché insieme contrattuali e delittuali).
B. Nel secondo paragrafo, Accursio esaminava la tesi di Ugolino, il quale partiva da una critica
alla tesi precedente: sosteneva che quel carattere misto era proprio unicamente
dell'obbligazione sanzionata con la “condictio ex causa furtiva”, e quindi riconosceva un

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contenuto assai limitato a questa categoria.


In particolare, ugolino arrivava alla classificazione delle obbligazioni in 5 membri: da
contratto, da quasi contratto, da delitto, da quasi delitto e miste (quest'ultimo caso ridotto
al caso dell'obbligazione del ladro di restituire la refurtiva).
C. Nel terzo paragrafo, Accursio espone la sua tesi sul senso della nozione di “obligationes ex
variis causarum figuris”, e per far ciò parte dalla tesi di Ugolino: egli adotta la classificazione
in 5 membri di Ugolino, ma nel quinto genus raccoglie una serie di ipotesi diverse, che sono
proprio “obbligazioni da cause svariate”, e che sono numerose (non solo l'obbligazione di
restituzione del ladro). In sostanza, Accursio effettua un'operazione di ripopolamento del
quinto membro della classificazione.

Come si è visto, in relazione alla classificazione delle obbligazioni secondo la natura delle loro
fonti, i Glossatori si ponevano due problemi: individuare quanti e quali fossero i genera della
divisio e stabilire quali specifiche fonti dovessero essere assegnate a ciascun membro.

Con riguardo alla struttura della divisio obligationum, quel che turbava i Glossatori era la
presenza del membro delle “obligationes ex variis causarum figuris”, che compare in D.44,7
e non in I.3,13,2. Da questa osservazione erano scaturite le due tesi considerate nella “glossa
figuris” di Accursio:
 La prima, e più antica, vedeva la divisio constare di 3 membri e ricomprendeva “quasi
contratto” e “quasi delitto” rispettivamente nel contratto e nel delitto, per
identificare con “variae causarum figurae” le fonti con natura risultante da una
contaminazione dei caratteri delle fonti appartenenti ai due membri suddetti.
 La seconda, proposta da Ugolino e rielaborata da Accursio, vedeva la divisio constare di
5 membri.

L'impostazione corretta del problema venne ristabilita, all'epoca del Commentatori, da


Bartolo da Sassoferrato, in un lungo passo del sui commentario al Digesto.
Bartolo aveva perfettamente inteso il passo del Digesto che commentava:
 La divisio obligationum presente in D.44,7 è in 3 genera.
 “Quasi contratto” e “Quasi delitto” non sono categorie della classificazione, ma solo
indicazioni di due raggruppamenti delle fattispecie comprese nel genus delle “variae
causarum figurae” (indicazioni espressive dell'analogia del loro regime rispettivamente
con quelli del contratto e del delitto).
 Non esistono fonti d'obbligazione con carattere misto.

In questo modo, la classificazione delle fonti delle obbligazioni, che risulta nel complesso del
Corpus Iuris come quella principale, veniva consegnata alla giurisprudenza moderna con il
senso seguente: le obbligazioni derivano da contratto o da delitto, o da altre fonti che non
sono né contratti né delitti. Queste ultime vengono denominate “obbligazioni da quasi
contratto o da quasi delitto”, perché il loro regime risulta analogo rispettivamente a quello
delle une o delle altre obbligazioni precedenti.

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I secoli seguenti

La discussione medievale, di cui in precedenza è stato tracciato un resoconto sintetico,


considerava la classificazione delle fonti delle obbligazioni solo come una griglia sistematica,
nella quale inserire le fattispecie produttive d'obbligazione presenti nel Corpus Iuris.
Però, quei giuristi non si limitarono a prendere atto della distribuzione delle fattispecie
obbligatorie che i testi classificatori menzionavano espressamente, ma discussero anche della
collocazione di altre fattispecie menzionate qua e là nelle fonti.
Questo atteggiamento, che può riassumersi dicendo che le classificazioni delle fonti
d'obbligazione hanno carattere meramente teorico e servono solo a comporre la griglia
sistematica per inserirvi le fattispecie obbligatorie che l'ordinamento prevede, ordinandole
secondo la natura delle fonti ed il regime dei loro effetti, avrà poi vita assai lunga e permane
ancora oggi, sebbene abbia subito una certa scossa in epoca recente.
La divisio obligationum di Gaio, che rappresentava il prototipo delle successive che pervennero
alla giurisprudenza del diritto comune ed influenzò anche quelle moderne, era stata ideata dal
suo autore come una griglia puramente teoria nella quale articolare il discorso istituzionale
sulle obbligazioni.
Per i giuristi romani di epoca classica le cose non si ponevano alla stesso modo. La griglia
teorica di Gaio non esercitò un'influenza sensibile. Infatti, i giuristi romani continuarono
sempre a pensare alla individuazione di fonti delle obbligazioni ed alla loro collocabilità
sistematica in termini approssimativi.

Le fonti ce ne offrono esempi, dei quali i più noti sono quello di Labeone e quello di Celso.
A. Labeone: partendo dalla elaborazione di una nuova nozione di contratto, rese possibile il
riconoscimento dell'efficacia obbligatoria delle convenzioni contrattuali atipiche e
l'introduzione di un'azione contrattuale generale.
B. Celso: tutta la sua casistica ha per protagonisti un soggetto A, convinto che un soggetto B,
che è al suo servizio, sia suo schiavo, e tale soggetto B, che invece è persona libera, ma è
anch'egli convinto di essere schiavo di A.
In particolare, la casistica riguarda la conclusione tra i due di accordi con carattere
contrattuale (comodato, mandato).
Il problema che si pone è quello di stabilire se A, per ottenere la restituzione della cosa da B
o la sua condanna al risarcimento, possa esercitare contro B l' actio comodati (cioè l'azione
che, in forza del contratto di comodato, spetta al comodante).
Questo problema nasce dal fatto che:
▪ L'esistenza di rapporti obbligatori tra i due è possibile, perché in realtà le due parti erano
persone libere e quindi munite di capacità di obbligarsi contrattualmente.
▪ Un contratto fra i due non risulta in realtà essere stato concluso, perché mancava la
volontà di obbligarsi contrattualmente: essendo convinti che l'uno fosse schiavo dell'altro,
non potevano, accordandosi, avere in vista anche di obbligarsi, perché tra uno schiavo e il
proprio dominus non possono sorgere obbligazioni.

La motivazione che formulava Celso partiva dalla definizione di contratto che dava Labeone:
definiva il contratto come un “atto obbligatorio reciproco”, cioè un accordo con il quale le
parti stabiliscono che ciascuna ne risulterà obbligata verso l'altra ad effettuare tutte le
prestazioni necessarie alla realizzazione dell'affare stesso.

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La soluzione individuata da Celso si basava su considerazioni di equità.


Infatti, se la situazione che le parti credevano esistente fosse stata vera, le obbligazioni non
sarebbero state necessarie, perché se B fosse stato schiavo di A i poteri di A su B sarebbero
stati sufficienti in pratica ad ottenere il risultato in tale situazione opportuno (costringere B
a restituire quanto ricevuto o a trasferire i diritti acquisiti nell'esecuzione dell'incarico).
Ma tale situazione non essendo vera, senza gli effetti obbligatori del contratto A resterebbe
sfornito di tutela.
In questo caso, le ragioni di equità impongono di riconoscere alle parti la tutela mediante le
azioni contrattuali e quindi il sorgere fra di esse delle obbligazioni che il contratto avrebbe
prodotto, perché altrimenti si perverrebbe a valutare la situazione in un modo che contrasta
con l'aequitas della sua realtà di fatto.

Infine, Celso metteva in evidenza che “è frequente, e quindi non deve affatto meravigliare”
che un'obbligazione si formi “tacita”, ovvero “senza che vi siano dichiarazioni delle parti che la
producano”, ed anzi “al di fuori dell'affare che le parti gestivano”.
In sostanza, l'obbligazione nasce in modo assolutamente autonomo rispetto alle dichiarazioni
delle parti ed alla volontà negoziale di queste: dichiarazioni e volontà sono totalmente
ininfluenti (es: pagamento indebito).
Con l'esempio del pagamento indebito, Celso precisava che ci troviamo nella zona delle
obbligazioni di fatto lecito, protette con azione reipersecutoria, ma in un settore di queste
obbligazioni che non è quello contrattuale. Quindi, Celso aveva individuato il fenomeno che
nelle res cottidianae e nelle Istituzioni giustinianee verrà individuato come quello delle
obbligazioni quasi-contrattuali: ma presso Celso non si trattava dell'individuazione di una
categoria classificatoria, bensì dell'analisi di un meccanismo produttivo d'obbligazione.

Quanto detto in questo paragrafo aveva lo scopo di completare il materiale del quale
disponevano i giuristi dell'epoca moderna e contemporanea in materia di fonti d'obbligazione.

La vita difficile dei quasi delitti

Nella classificazione delle fonti d'obbligazione appartenente alle res cottidianae, la


distinzione meno chiara è quella che isola una serie di fatti illeciti extra-contrattuali
separandoli dai delitti come fonti di obbligazioni “quasi ex maleficio”.
Il parafraste epiclassico di Gaio sembrerebbe aver voluto arricchire l'elenco degli atti illeciti
extra-contrattuali qualificati come “delicta”, con una serie di “variae causarum figurae” che
producono obbligazioni “quasi ex delicto”.
Siccome riteneva che l'elenco dei delicta presente in Gaio fosse carente, e siccome l'elenco
gaiano comprendeva tutte le figure di delicta appartenenti allo ius civile, le sue aggiunte le
fece enumerando fattispecie sanzionate con azioni penali pretorie.
Però, come criterio discretivo fra delitti e quasi delitti, non impiegò quello della
contrapposizione fra ius civile e ius honorarium: si sforzò di presentare le fattispecie quasi
delittuali che elencava, come corrispondenti a comportamenti che non possono essere
considerati delittuosi per una qualche ragione. Ma queste ragioni appaiono diverse e mancano
di coerenza, e non potevano fornire agli interpreti medievali e moderni del Corpus Iuris una

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guida sicura.
Infatti, il caso del “iudex qui litem suam fecit” non sarebbe delitto perché implica solo una
colpa lieve: ma questo criterio non può condurre a nulla, perché tra le figure di delictum esiste
anche una fattispecie colposa, che ne è anche la più importante: quella del “damnum iniuria
datum” aquiliano.
Un'altra considerazione di carattere generale si impone necessariamente: l'autore delle res
cottidianae ha enumerato, come quasi delitti, solo 4 fattispecie, contrapponendole alle 4 dei
delicta che riprendeva dalle Istituzioni di Gaio. Perciò ci si chiede, siccome l'elencazione delle
4 fattispecie dei quasi delitti dovrebbe avere solo carattere esemplificativo, dove egli
intendesse collocare le altre fattispecie di illeciti extra-contrattuali sanzionate con azione
penale pretoria (soprattutto quella sanzionata con la “actio doli” e corrispondente ad un
comportamento tipicamente doloso).

Malgrado quanto si è ora osservato, dalla lettura del passo delle res cottidianae relativo alle
obbligazioni “quasi ex maleficio” un'idea generale emerge, per la distinzione di queste fonti
d'obbligazione dai delitti propriamente detti: si esprime l'idea che il giudice, che realizzi la
fattispecie del “iudex qui litem suam fecit” (cioè che faccia sua la lite), non commette un
delitto, ma sempre qualcosa che gli somiglia.
Anche negli altri tre casi, si dice che l'autore di un quasi delitto non è propriamente un
delinquente: può comunque dirsi che i quasi delitti, pur se anch'essi figure di illecito extra-
contrattuale come i delitti, consistono in comportamenti meno gravi.

Il suggerimento proveniente da questo testo fu raccolto dai Glossatori, che non si occuparono
molto delle distinzione concettuale fra delitti e quasi delitti.
Piuttosto notarono alcune differenze, che risultano dalle fonti, tra le due discipline:
 Nel caso di concorso di persone in un quasi delitto, se uno dei concorrenti paghi, gli altri
concorrenti risultano liberati.
 Chi abbia pagato in quanto responsabile a titolo di quasi delitto ha azione per rivalersi
contro l'autore del delitto corrispondente.

Commentando il passo del “iudex qui litem suam fecit”, il glossatore della glossa ordinaria
constatava innanzitutto che la fonte che commentava non fornisce affatto la nozione di quasi
delitto in relazione a quella di delitto, ma unicamente enumera degli esempi di quasi delitto.
Successivamente, passando al primo e suddetto esempio, si poneva espressamente il problema
del fondamento dell'obbligazione: il giudice in questione non ha commesso un delitto “perché
credeva di operare correttamente decidendo come ha deciso”: se avesse deciso così in mala
fede sarebbe un delinquente: agendo in buona fede versa pur sempre in un illecito dannoso
e risponde del danno, ma delinquente non lo si può ritenere.

Questa idea, circa la differenza tra delitti e quasi delitti, può essere sufficiente solo come
descrizione di colore socio-economico, ma come connotazione dommatica delle due figure
manca del tutto di rigore. Infatti, essa si riassume nella constatazione che le ipotesi di quasi
delitto consistono in comportamenti meno gravi di quelle di delitto, per cui la distinzione
rimane vaga. Siccome la distinzione rimane vaga, era suo destino scomparire. Però, ciò avviene
alquanto tardi e con itinerari diversi.
A. Ambiente tedesco

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Nell'ambiente tedesco, possiamo partire da una messa a punto sulla sistematica delle
obbligazioni da fatto illecito, scritta da Heinecke nel 1725.
Incominciamo presentando la divisio obligationum della quale lo Heinecke partiva. Essa trova
una premessa in una divisio enunciata in relazione a I.3,14.

§771 “Tutte le obbligazioni provengono dall'equità o dalla legge: esse consistono infatti in un
vincolo giuridico. Ma tuttavia alcune nascono in modo immediato dall'equità naturale o dalla
legge civile, altre in modo mediato per l'intervento di un fatto obbligatorio.
Per esempio, un padre è obbligato verso il figlio agli alimenti immediatamente dall'equità
naturale, cioè senza l'intermediazione di alcun fatto obbligatorio.
Il possessore è tenuto immediatamente, senza l'intervento di alcun fatto, ad esibire a colui
che vi ha interesse.
Invece, i contraenti e i delinquenti risultano immediatamente obbligati da un loro fatto, e in
modo mediato dalla legge”.

§1032 “Abbiamo detto che ogni obbligazione nasce o immediatamente dall'equità o dalla
legge, o mediatamente e per l'intervento di un nostro fatto. Abbiamo avvertito che tale fatto
è lecito o illecito.
Abbiamo chiamato il primo conventio (accordo), il secondo maleficium o delictum (delitto)”.

§1033 “Il delitto è, invero, un fatto illecito, commesso spontaneamente, in forza del quale
uno risulta obbligato alla restituzione, se possibile, ed alla pena.
Dal momento infatti che in ogni delitto concorrono il reato, ossia l'illecito dell'atto, e
l'effetto, ossia il danno prodotto ad altri, ad uno corrisponde la pena, all'altro la riparazione
del danno, come giustamente ha osservato il Grozio nel “De iure belli et pacis”.
Alla pena, della quale i delitti gravano i loro autori, sono assoggettati solo coloro che li hanno
commessi.
La riparazione del danno, come è evidente, può pretendersi anche da innocenti”.

§1034 “Il delitto può essere un vero delitto o un “quasi delitto”.


Il primo di commette con dolo, il secondo per colpa senza dolo”.
“Benché infatti il “damnum iniuria datum” (cioè il danneggiamento aquiliano) abbia luogo tanto
per colpa quanto per dolo, i giuristi preferirono tuttavia chiamarlo delitto piuttosto che quasi
delitto, in considerazione dell'ipotesi più grave” .

§1035 “Un vero delitto è pubblico o privato.


Il primo viene punito mediante processo pubblico o con sanzioni pubbliche.
Il secondo, in quanto direttamente tendente alla lesione di privati, produce una persecuzione
unicamente privata. Tali sono il furto, la rapina, il “damnum iniuria datum” (danneggiamento
aquiliano), l'iniuria (aggressione personele)”.

Della parte relativa ai singoli delitti, riportiamo qui solo una precisazione che lo Heinecke
faceva a proposito del “damnum iniuria datum” aquiliano.
§1095 “In conformità con le nostre consuetudini, si agisce semplicemente per l'id quod
interest e deve prestarsi il vero valore della cosa. […]
Tuttavia, se vi è dolo, oltre al valore della cosa da prestarsi all'attore, trova applicazione
anche una pena, o espressamente stabilita negli statuti, o ad arbitrio del giudicante. […] ” .

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Infine, riporto il primo dei paragrafi dedicati ai quasi delitti.


§1112 “I quasi delitti, che ad essi (veri delitti) si contrappongono, sono fatti illeciti
commessi unicamente per colpa, senza dolo. Quindi, questi quasi delitti non si compiono per
dolo, ma per colpa, e questa non altrui o presunta, ma propria, come appare dell'esempio del
giudice che litem suam fecit”.

Difetti:
 La prima sconnessura riguarda la parte preliminare, dove l'autore adotta una
distinzione tra le obbligazioni che derivano dall'equità e quelle che derivano dalla legge:
concetti che non sembrano proprio, in relazione a questi problemi, da contrapporsi, a
meno di non pensare che la legge possa prevedere obbligazioni inique.
Poi, distinguendo le obbligazioni che nascono direttamente dalla legge o dall'equità e
quelle che nascono mediatamente da un fatto obbligatorio, negli esempi di produzione
immediata dell'effetto obbligatorio, l'autore semplicemente prescindeva dal fatto
obbligatorio fonte dell'obbligazione (es: il padre è obbligato agli alimenti per il fatto di
essere padre del figlio creditore).
 Nel §1033, spiegando la nozione di delitto, lo Heinecke dice che questo obbliga alla
pena e alla restituzione “se possibile”. Poiché per restituzione intende la riparazione del
danno prodotto ad altri col delitto stesso, non ha senso dire che quest'obbligazione
nasce solo se la riparazione sia possibile, dal momento che Grozio (citato dallo stesso
Heinecke dicendo di seguirne il pensiero) precisava che tale riparazione può essere
mediante pagamento di una somma di denaro, essendo il denaro “misura comune di tutto
ciò che è utile”.
 Quando lo Heinecke dice che ai suoi tempi si condanna nell'id quod interest e al valore
effettivo della cosa, si esprime in modo contraddittorio: perché il valore effettivo della
cosa in un certo momento può essere inferiore all'id quod interest (“id quod interest”:
si deve assicurare al danneggiato la possibilità di ripristinare la situazione iniziale e per
farlo, talvolta, non è sufficiente il valore effettivo del bene distrutto).

Lo Heinecke, ponendosi il problema della distinzione fra delitti e quasi delitti, adotta
decisamente l'idea che i secondi corrispondono ad atti meno gravi dei primi, ed impiega come
criterio discretivo che i primi sono commessi con dolo ed i secondi con colpa.
Chi commette un quasi delitto non è mai in dolo, perché se il fatto è commesso con dolo esso
diventa un delitto, privato o pubblico. Il vero delitto è sempre previsto come fattispecie
dolosa, ma per il danno aquiliano si ammette che esso sia commesso solo con colpa.
A questo punto si possono fare due obiezioni:
 Perché non dire che del “damnum iuria datum” esistono due figure: una di delitto, con
fattispecie dolosa, e una di quasi delitto, con fattispecie colposa?
La risposta sarebbe che le fonti non distinguono i due tipi.
Considerare la fattispecie come unica significa che il fatto che essa sia realizzata con
dolo o con colpa non ha rilevanza, e quindi l'attore non è assoggettato alla prova più
difficile e gravosa del dolo del convenuto.
Però, nelle corti tedesche, se il dolo viene accertato, il convenuto sarà condannato ad
una speciale pena oltre al risarcimento del danno.
 Inoltre, lo Heinecke sostiene che la colpa richiesta per un quasi delitto è una colpa

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effettiva, non presunta, e che la responsabilità da quasi delitto è responsabilità per


colpa propria e non altrui.
Ciò lo porta a sottovalutare i casi di responsabilità oggettiva e di responsabilità per
colpa altrui che sono presenti in certe ipotesi di quasi delitto.

Ai tempi dell'autore era già in fase avanzata il processo evolutivo che farà della norma sul
danneggiamento aquiliano (e concretamente di quella del terzo capo delle lex Aquilia) una
clausola generale, che raccoglie sotto un unico enunciato tutti i casi di obbligazione nascente
da fatto illecito extra-contrattuale.
Il risultato di questa evoluzione è noto. Nel discorso dello Heinecke esso appare non ancora
perfettamente compiuto, ma la via che condusse all'esito finale risulta già decisamente
intrapresa. La clausola generale riguarda la responsabilità civile del soggetto che comunque
abbia cagionato danni ingiusti ad altri, alle sue cose o alla sua persona, comportandosi in modo
riprovevole. La punibilità dell'autore in sede penale pubblica resta riservata ai comportamenti
dolosi, ma è del tutto estranea all'ambito del diritto civile: essa concorre con la responsabilità
civile, ma la sanzione penale non porta vantaggi patrimoniali al danneggiato.

La conseguenza più importante è un'altra: il carattere tipico dei fatti delittuosi, se resta
saldo nel campo del diritto penale pubblico, sparisce nel diritto privato. La responsabilità
civile da illecito extra-contrattuale dipende direttamente dalla considerazione del danno
sofferto dal soggetto leso dall'illecito, mentre il tipo di fatto delittuoso che ha prodotto il
danno resta solo un elemento descrittivo dell'accadimento dannoso, cessando di determinare
la scelta dell'azione e l'applicazione di un regime differenziato a seconda del carattere del
comportamento dannoso per la determinazione dell'esito dell'azione esercitata.

Si tenga presente che la lex Aquilia riguardava sì unicamente i danni a cose, ma per
quest'ambito la norma del suo terzo capo fu interpretata dalla giurisprudenza come una
clausola generale. Fu questa l'interpretazione che la giurisprudenza, e già dai primi interpreti
della legge, diede alla norma, intendendo il senso di “rumpere” come quello di “corrumpere”, e
quindi indicativo di qualunque danneggiamento.

In un contesto del genere, la differenziazione fra delitti e quasi delitti perde significato
pratico: possiamo dire, più esattamente, che essa rivela interamente il carattere artificiale
che rivestiva già all'origine, nel pensiero del suo creatore epiclassico.
La distinzione terminologica fra delitti e quasi delitti cessò gradualmente di essere usata nei
paesi di lingua tedesca, anche se la distinzione in se stessa non cessò con questo di lasciare
una traccia. Un testo particolarmente significativo in proposito è un passo tratto dal Codex
Theresianus del 1766 (primo risultato concreto dei lavori preparatori dell'ABGB austriaco):
C.Ther.3,1,91 “Gli atti illeciti producono l'obbligazione per una colpa o dolo. Questa colpa
appartiene o alla persona di colui che commette il delitto, ed è una vera colpa, dalla quale
risultano i delitti veri e propri, ovvero essa viene dalle leggi attribuita a qualcuno, che per
vero non ha commesso il delitto, ma nel cui potere era di evitarlo, e questa è solo una colpa
attribuita, e gli atti del genere non sono veri delitti, ma solo vengono considerati come
delitti”.
Questo testo appare indicativo di un momento di transizione: gli autori della sistemazione

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sopra citata della materia dell'illecito civile non usano più la terminologia di delitto e quasi
delitto, ma tuttavia distinguono i delitti veri e propri dai fatti attribuiti ad un soggetto a
titolo di delitto. La stretta derivazione di quest'ultima nozione da quella di quasi delitto è
accentuata dal fatto che le fattispecie corrispondenti, che il Codice Teresiano enumera, sono
ancora strettamente connesse con quelle che nelle fonti romane e nella Glossa erano esempi
principali di quasi delitti.

L'aspetto più significativo di C.Ther.3,1,91 è concentrato nella sua frase iniziale, che si
riferisce insieme a tutte le fattispecie di fatto illecito extra-contrattuale, e le presenta
tutte come caratterizzate dalla presenza della colpa.
Inoltre, la menzione del dolo inserita accanto a quella della colpa nella frase iniziale ha lo
scopo di sottolineare che non viene più fatta, fra le figure dell'illecito extra-contrattuale, una
distinzione fra fattispecie dolose e fattispecie colpose. Il che lascia anche desumere che il
criterio di responsabilità comune è quello della colpa, in quanto è noto che un soggetto che
risponda di un proprio atto per colpa, ne risponde anche se lo ha commesso con dolo: perché il
dolo è un modo, particolarmente riprovevole, della colpevolezza.

Da tutto ciò emerge che la nozione di fatto illecito extra-contrattuale impiegata nel C.Ther è
ormai del tutto animata dall'idea di una clausola generale proveniente dalla struttura
delittuale della lex Aquilia, estesa a sanzionare il principio generale del “neminem laedere”.
Questo riferimento alla nozione di danno aquiliano comportava l'implicita assunzione della
prospettiva che la fattispecie del delitto di danneggiamento è costruita partendo non dalla
condotta delittuosa, ma dal danno provocato.
Il tipo di condotta non interessa mai di per sé stesso, perché la condotta viene in
considerazione solo nell'apprezzamento di ciascun caso concreto per stabilire l'attribuibilità
materiale del danno ad un certo soggetto, nonché l'imputabilità del danno al soggetto che lo
ha prodotto.

L'ABGB, come già visto nel §859 (p8), nella divisio obligationum indica come genus, accanto
alla legge e al contratto, anche il danno sofferto.
Lasciando per ora da parte le obbligazioni fondate nella legge, ciò significa che i due genera
fondamentali della divisio vengono identificati nel contratto e nel danno sofferto:
 Contratto: rappresenta la fonte consistente in un atto lecito, e quindi risulta fonte
dell'obbligazione all'adempimento contrattuale ancora possibile.
 Danno sofferto: rappresenta la fonte dell'obbligazione al risarcimento del danno, che è
così visto come proveniente da fatto illecito.
Questo fatto illecito può essere tanto l'inadempimento contrattuale quando divenuto
definitivo, quanto il fatto illecito extra-contrattuale.

Che le cose stiano così è provato dal principio che si trova enunciato all'inizio della
trattazione della materia del “danno da colpa”:
ABGB §1295 “Ciascuno ha il diritto di pretendere dal danneggiante il risarcimento del danno
che questi gli ha prodotto con colpa; il danno può essere stato prodotto con la violazione di un
dovere contrattuale o senza rapporto con un contratto”.
Questo inquadramento dommatico unifica la responsabilità da inadempimento contrattuale e
quella da illecito extra-contrattuale.

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Le regole che nel C.Ther erano ancora evidenziate come eredi della categoria dei quasi delitti,
cioè le regole sulla responsabilità per colpa altrui, nell'ABGB sono enunciate nel punto 5,
relativo al risarcimento del danno provocato “da atti altrui”:
ABGB §1313 “Per atti antigiuridici altrui, ai quali uno non ha preso parte, questi non è di
regola neppure responsabile. Anche nei casi, nei quali le leggi dispongono il contrario, è
riservato a costui il regresso contro il soggetto colpevole”.

Si può dire che, nel complesso, questo gruppo di norme è nell'ABGB il luogo direttamente
connesso con la tradizione dei quasi delitti: ma di una nozione di quasi delitti non resta più
traccia alcuna.

B. Ambiente francese
L'operazione sistematica evidenziata nell'ABGB, che aveva il merito di porre sullo stesso
piano, in considerazione dommatica della vicenda del rapporto obbligatorio, non il contratto e
il delitto (fatto illecito extra-contrattuale), ma l'inadempimento del contratto e il fatto
illecito extra-contrattuale, e di conseguenza di riconoscere come entità dommatica dotata di
un proprio ruolo e una propria individualità l'obbligazione al risarcimento del danno, aveva
avuto un precedente in Francia, poco più di un secolo prima, nella famosa opera di Jean Domat
(il Domat compone, insieme al Pothier, la coppia di giuristi che più hanno influenzato la
redazione del Code Civil del 1804).

Possiamo incominciare dal passo nel quale Domat precisava, partendo da quella di danno, la
nozione di risarcimento:
Domat, Lois civiles, I,III,V “Degl'interessi, de' danni ed interessi, e della restituzione de'
frutti”: “Dell'obbligo generale di non far torto ad alcuno, e da tutte le specie di obblighi
particolari, deriva la conseguenza naturale, che chi ha cagionato danno, con aver
contravvenuto alla propria obbligazione, o con preterire (omettere) quello che esigeva questa
obbligazione, sia tenuto a riparare il danno cagionato.
Tutti i danni, qualunque esser possa la loro cagione, possono ridursi a due specie. L'una dei
danni visibili, cagionati da coloro che fanno perire, smarrire o deteriorare una cosa; (come fa
colui che avendo preso in prestito un cavallo, lo smarrisce o lo storpia). L'altro de' danni
cagionati da coloro, che senza distruggere o deteriorare cosa alcuna, danno occasione ad una
perdita di altra natura; (come se un debitore non paga quando è maturato il pagamento).
[…]
Di qualunque natura sia il danno, e qualunque causa possa avere, colui che è tenuto a ripararlo,
deve farlo con un risarcimento proporzionato alla sua colpa o al suo delitto o ad altra causa
datane da parte sua, ed alla perdite che n'è avvenuta, secondo le regole che spiegheremo in
questo titolo.
[…]
Tutti i risarcimenti si riducono a due specie; l'una che chiamasi semplicemente interesse;
l'altra che chiamasi danni e interessi. L'interesse è il risarcimento e l'indennizzazione, a cui
un debitore di una somma di denaro può essere tenuto verso il suo creditore, per il danno che
può cagionargli, mancando di pagare.
Tutti gli altri risarcimenti, di qualunque natura sia il danno cagionato, chiamasi danni ed

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interessi. Si dà ancora il nome di danni ed interessi ai risarcimenti, ai quali sono tenuti coloro,
che hanno cagionato qualche danno con un delitto (interesse civile)”.

I delitti menzionati nel passo sono delitti pubblici: essi vengono definiti come “qualunque
azione, che è vietata dalle Leggi, perché contraria al patto sociale”.
Quanto agli illeciti privati, il Domat li poneva anch'egli sullo stesso piano dell'inadempimento
contrattuale, e li trattava nelle Lois civiles come quasi delitti colposi:
Domat, Lois civiles, I,II,VIII “De' danni cagionati per colpe che non possono imputarsi a
delitto”: “Possono distinguersi tre sorte di colpe, per cui può accadere un danno. Quelle che si
imputano a delitto. Quelle delle persone che mancano agli obblighi de' contratti; (come un
venditore che non consegna la cosa venduta). E quelle che non hanno alcuna relazione co'
contratti, e che non formano un vero delitto; (come se per inavvertenza si getti da una
finestra qualche cosa che sporca una veste). […]
Di queste tre sorte di colpe, quelle soltanto dell'ultima specie formano la materia di questo
titolo. Poiché i delitti non debbano confondersi colle materie civili: e per ciò che riguarda i
contratti, se n'è pienamente ragionato nel primo libro” .

L'impostazione che il Domat dava alla materia delle obbligazioni da fatto illecito extra-
contrattuale presentava un difetto rilevante: di escludere dal diritto civile le obbligazioni da
delitto, cioè quelle che provengono dagli illeciti pubblici che “oltre ad offendere l'ordine
pubblico, recano danno ai particolari” e quindi, oltre alla pena “diretta alla pubblica vendetta
ed alla correzione del reo”, comportano “la riparazione del danno cagionato da delitto”, cioè
danno luogo all'interesse civile.
Per conseguenza, una volta che si correggesse l'impostazione del Domat, recuperando al
diritto civile le fattispecie delittuali dolose come fonti dell'obbligazione al risarcimento del
danno, la distinzione fra delitti e quasi delitti ne risulterebbe naturalmente restaurata.
È quanto troviamo nel “Trattato delle obbligazioni” di Pothier.
Va subito notato che il Pothier tiene sì distinti concettualmente i delitti dai quasi delitti, ma
la trattazione della materia relativa è fatta in un unico discorso, che si riferisce ad entrambe
le figure, unificate dall'idea che si tratta sempre di fatti illeciti.

N°116 “I delitti sono la terza delle cause che producono le obbligazioni, e i quasi delitti la
quarta.
Si chiama delitto il fatto col quale una persona, per dolo o malignità, cagiona danno o un
qualche torto ad un altro.
Il quasi delitto è il fatto col quale una persona, senza malignità, ma con un'imprudenza che
non è scusabile, cagiona qualche torto ad un altro” .

N°117 “I delitti e i quasi delitti differiscono dai quasi contratti in quanto il fatto dal quale
nasce il quasi contratto è un fatto permesso dalla legge, mentre il fatto che genera il delitto
o quasi delitto è un fatto condannabile”.

Il discorso è unitario: le regole sono enunciate come comuni ad entrambe le figure di illecito,
anche se naturalmente non si manca di notare quando la disciplina dell'una differisca da quella
dell'altra.
Il N°118 tratta dei principi generali della capacità delittuale.

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Pothier afferma che non è possibile definire in generale a quale età gli uomini hanno l'uso
della ragione, e questo discorso lo fa solo con riguardo ai delitti, per giungere alla massima
“Neminem in delictis aetas excusat”, che egli giustifica col fatto che la malignità
concretamente manifestata dall'autore di un delitto nel compiere il delitto stesso può essere
indice della sua maturità razionale; mentre l'imprudenza si giustifica più facilmente con la
giovinezza.
Nel N°120 Pothier sostiene che l'interdizione per prodigalità (sperperare) non diminuisce la
responsabilità per delitti e quasi delitti.
Nel N°121 si tratta della responsabilità per un fatto illecito commesso da altri, e tutto il
discorso vale sia per i delitti che per i quasi delitti.

L'impostazione di Pothier fu seguita dai redattori del Code Civil, ma la distinzione fra delitti
e quasi delitti fu da loro adottata in modo puramente formale.
Infatti, la rubrica del capitolo II è sì enunciata “Dei delitti e dei quasi delitti”, ma dei due
concetti non si dà alcuna definizione, sicché l'enunciato della clausola generale appare relativo
ad una sola figura giuridica di fatto illecito extra-contrattuale.

L'inesausto problema dei quasi contratti

Per dare un'idea del profilo caratteristico della diversa vicenda che ci accingiamo adesso ad
osservare, sembra utile prender le mosse da un episodio abbastanza recente: risale all'anno
1937, quando il civilista tedesco Günter Haupt tenne la sua lezione inaugurale, parlando dei
“rapporti contrattuali di fatto”.
La tematica si riferiva ad un fenomeno, che in genere viene individuato come conseguenza
della cosiddetta massificazione delle attività economiche: si trattava di inquadrare
giuridicamente il fenomeno pratico consistente nel riconoscere il sorgere di obbligazioni con
regime di obbligazioni da contratto da fatti nei quali il consenso obbligatorio delle parti è
assente, o semplicemente è irrilevante se esso abbia avuto o non avuto luogo.

Esempio: quando un Tizio sale in una vettura ferroviaria, lo si considera obbligato a munirsi del
relativo biglietto, il che significa che è obbligato a pagare una certa somma di denaro per
fruire del servizio di trasporto. Quindi, si può scorgere fra le parti l'esistenza di un
contratto, precisamente di un contratto di trasporto.
Ma si può agevolmente provare che le cose non stanno così: se il passeggero abbia dichiarato
apertamente di non avere alcuna intenzione di concludere un contratto, alla constatazione
della mancanza del biglietto, le conseguenze applicate saranno esattamente le stesse che si
sarebbero avute se non avesse detto nulla, lasciando presumere la sua volontà contrattuale.
Quindi, si ammette che per la produzione di quegli effetti l'esistenza di un contratto è
totalmente irrilevante.

Come strumento dommatico per inquadrare tali soluzioni, lo Haupt propose la nozione di
rapporto contrattuale di fatto.
Il vecchio Heinrich Lehmann sostenne che Haupt avesse riscoperto i quasi contratti.

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Subito si scorge che la categoria dommatica così riconosciuta (un genere di fonti
d'obbligazione consistente nel fatto lecito non contrattuale produttivo di obbligazioni di tipo
contrattuale) è una figura di fonte d'obbligazione per sua natura aperta, e quindi uno
strumento per poter riconoscere nuove fattispecie obbligatorie.

La storia di questo problema trova il suo punto di partenza nel parere di Celso riportato da
Pomponio D.13,6,13,2: Celso individuava un modo di formazione di obbligazioni dandogli come
connotato il fatto che le obbligazioni ne nascono prescindendo dalle dichiarazioni delle parti
ed al di fuori dell'affare che eventualmente le parti intendessero gestire tra loro.
Tale descrizione di Celso sembra proprio rivelare che egli pensasse a situazioni parallele a
quelle dei contratti consensuali, ma nelle quali manchi il consenso contrattuale stesso.
Però, il modello indicato da Celso in proposito era quello del pagamento indebito, il cui parallelo
contrattuale non è quello di un contratto consensuale perché si tratta del mutuo, che produce
la sua obbligazione re e non consensu.
Ad ogni modo, tutto ciò può solo condurre a dire che il pagamento d'indebito non rientra nella
nozione di “rapporto contrattuale di fatto” nel senso dello Haupt, e quindi che la categoria
immaginata da Celso appare più estesa di quella del moderno contratto di fatto, ma comprende
pur sempre anche i contratti di fatto.

È vero che la categoria del quasi contratto, tanto nelle res cottidianae quanto nelle Istituzioni
giustinianee, si presentava con un puro scopo classificatorio di figure già note e riconosciute
dal diritto, e quindi l'impiego della categoria non aveva funzione innovativa. Inoltre, anche i
giuristi medievali la usarono a scopo classificatorio. Ma la figura era stata individuata dal suo
autore, Celso, con scopo innovativo, e questo aspetto potenziale si conservava.
Infatti, per la categoria dei quasi contratti accadde l'opposto che ai quasi delitti:
 La nozione di quasi delitto era destinata ad scomparire.
 La nozione di quasi contratto era destinata a rivivere con energia: magari
polemicamente contrastata, ma certamente non ignorata.

Chiarimento
Per comprendere il senso preciso della vicenda dommatica che stiamo osservando, è essenziale
un chiarimento che riguarda un punto particolare: intendere in che senso alla categoria
dommatica del quasi contratto si possa attribuire un valore euristico, cioè considerarla come
uno strumento per riconoscere l'esistenza di nuove fonti d'obbligazione.

Il valore euristico della nozione di contratto risiede nel fatto che, una volta che essa sia
stabilita, quel che si è concretato è uno strumento dommatico che di per se stesso permette
di riconoscere efficacia obbligatoria a fatti che, prima che tale nozione fosse disponibile, non
potevano essere considerati produttivi d'obbligazione.
Es: ad uno scambio di servizi non corrisponde una fattispecie contrattuale tipica, ma rientra
nella nozione generale (labeoniana) di contratto. Quindi, il soggetto A potrà esercitare contro
B l'azione contrattuale generale, sussidiaria rispetto alle azioni contrattuali tipiche.

La nozione di quasi contratto non è in grado di funzionare in questo stesso modo. Essa
descrive una struttura, che prevede una causa e un effetto, ma solo l'effetto vi risulta

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determinato in modo preciso, mentre la causa è definita nella sua natura, ma non come
fattispecie: il quasi contratto è un atto che fra due soggetti produce gli effetti che
produrrebbe un contratto, se un consenso contrattuale a ciò idoneo avesse avuto luogo fra di
loro, ma dell'atto si sa solo che esso è lecito e non comprende un accordo contrattuale.
Stando così le cose appare chiaro che la categoria del quasi contratto non è munita di una
regola che permetta di includervi fattispecie che non trovino già altrove la ragione del
riconoscimento del loro effetto obbligatorio e quindi della loro azionabilità.
Quindi, parrebbe proprio che si tratti di una categoria che può solo avere funzione
classificatoria di fonti d'obbligazione già riconosciute e che solo non è possibile includere
nelle altre categorie della divisio obligationum (contratto e delitto).

In realtà, se tutto ciò è pur vero, un aspetto ulteriore vi si inserisce: questo diverso aspetto
si palesa confrontando il modo in cui il quasi contratto viene presentato da:
 Res cottidianae (D.44,7,5) e Istituzioni giustinianee (I.3,27): il discorso è puramente
classificatorio: si presentano alcuni casi nei quasi già si sa che nascono obbligazioni, e si
dice che queste nascono “come da contratto” perché la loro fonte non è un fatto illecito
e non è intervenuto tra le parti obbligate un contratto che le creasse.
 Celso (Pomp. Cels. D.13,6,13,2): il discorso è tutt'altro: per quanto è accaduto fra le
parti, vi sono ragioni solide per decidere che un'azione contrattuale deve essere
concessa. Ciò che ostacola questa decisione è che un contratto tra le parti non vi è
stato: ma ciò non rappresenta un ostacolo, perché obbligazioni da fatto lecito,
perfettamente tutelate, che nascono senza contratto ve ne sono già, e nulla vieta che in
questo caso si adotti una soluzione dello stesso genere.
Dal pensiero di Celso si desume che egli considerava il domma dell'obbligazione non
contrattuale da fatto lecito come un tipo di fonte d'obbligazione presente nel sistema,
tipo nel quale non solo rientrano fattispecie già note come fattispecie obbligatorie, ma
al quale devono riconoscersi appartenere situazioni pratiche nelle quali il sorgere di
obbligazioni va riconosciuto in forza di un'analisi corretta di quanto è in concreto
accaduto.
Il risultato di tutto ciò è estremamente significativo: il genus delle obbligazioni non
contrattuali da fatto lecito (quasi contratto) definisce un modo di produrre
obbligazioni, ma non ne descrive la fattispecie: il campo di applicazione della categoria
dommatica del quasi contrato comprenderà le specie che si devono riconoscere
produttive di obbligazioni in tale modo e meritevoli di tutela reipersecutoria:
◦ Una certa serie sarà costituita da una tipologia di fattispecie obbligatorie già note.
◦ Ma fattispecie nuove potranno essere via via ravvisate nella valutazione casistica di
quel che in pratica accade.

Nella visuale legata al Corpus Iuris, le azioni da quasi contratto restano non omogenee: vi
abbiamo tanto la condictio (es: pagamento indebito), quanto azioni tipicamente quasi
contrattuali o azioni contrattuali vere e proprie.
Nei diritti codificati moderni, invece, dove le azioni cessano di essere tipiche, si tende a
parlare semplicemente di azioni fondate su un quasi contratto, sottolineando semplicemente il
carattere contrattuale dell'azione relativa (in opposizione a quello delle azioni da fatto
illecito extra-contrattuale).
Inoltre, da quanto detto si spiega la forte opposizione alla categoria del quasi contratto:

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questa presuppone una capacità di “gestione creativa” della casistica per la quale attualmente
esistono forti difficoltà.
Nel diritto romano classico, i giuristi erano riconosciuti come perfettamente capaci di
quell'operazione e muniti dell'autorità per effettuarla, così anche i magistrati.
Oggi, una situazione in qualche modo simile si verifica solo per i giudici del Common Law.
Mentre nei paesi di Civil Law i giudici sono considerati solo strumenti di applicazione della
legge e da questa sono vincolati, ed i giuristi non hanno alcuna autorità se non nel chiuso
settore accademico.

Olanda
Dobbiamo constatare che, con riguardo alla nozione di quasi contratto, il new look fa capolino
presso i giuristi olandesi della giurisprudenza elegante, a partire dal XVII secolo.
Possiamo partire dalla lettura di due passi del commentario al Digesto, pubblicato intorno
all'anno 1700 da Johannes Voet.

A. Il primo passo è relativo all'azione di petizione dell'eredità:


“[...] È invero sbagliato voler ridurre e limitare al preciso numero di 5, espresso nel titolo
I.3,27, tutti i quasi contratti; perché anche la “condictio causa data causa non secuta”
proviene da quasi contratto; e in generale, quando un'obbligazione nasce indipendentemente
dalle dichiarazioni delle parti al di fuori dell'affare che viene gestito, D.13,6,13 in fine.
E che si conclude un quasi contratto anche con la delazione del giuramento e con l'esercizio di
un'azione risulta evidente da D.15,1,3,11 e D.12,1,26,2 con D.45,1,83,1.
Per analoga ragione, se il possessore dell'eredità abbia percepito i frutti, o abbia recuperato
il prezzo proveniente dall'alienazione delle cose ereditarie, o abbia riscosso dai debitori
ereditari quel che era dovuto al defunto, o abbia acquistato con denaro ereditario cose
necessarie all'eredità, o abbia con dolo o con colpa deteriorato cose ereditarie, incomincia
subito ad essere tenuto da quasi contratto nei confronti del vero erede alla restituzioni o
prestazione di tutto ciò, D.5,3,25,18 […]”.

L'operazione, che il Voet compie in questo testo, è quella di individuare il fondamento


giuridico di una serie di prestazioni dovute all'erede dal possessore dell'eredità senza titolo
sostanziale: fondamento che giustifica le corrispondenti prestazioni pretese dall'erede
nell'esercizio della “petitio hereditatis”.
A questo fine egli individua il quasi contratto come fonte di tali obbligazioni.
Per far questo, l'autore spiega che quella di quasi contratto è una figura giuridica di assai
vasta applicazione, incommensurabilmente più ampia di quella che apparirebbe in I.3,27, dove
la si riferisce solo a 5 casi (gestione d'affari, amministrazione della tutela, gestione in caso di
comunione o amministrazione di cose comuni, adizione dell'eredità, pagamento indebito) .
Si sarà notato che il perno di questa dimostrazione è la considerazione di D.13,6,13.
Quella di quasi contratto resta sempre una figura che serve a qualificare casi nei quali il
sorgere di un'obbligazione è già sicuro, per proprie e diverse ragioni: ma l'operazione di Voet
non è puramente classificatoria: essa possiede una funzione dommatica, in quanto serve ad
individuare il fondamento di tali obbligazioni.

B. Nel secondo passo, Voet si limita a precisare la nozione di quasi contratto, costruendola
dommaticamente come accordo presunto, precisando che il quasi contratto non implica

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accordo alcuno e non può parlarsi in proposito di un accordo tacito: dal che trae il principio
caratteristico dei quasi contratti: a questa fattispecie non si applicano, in linea di massima, le
norme sulla capacità contrattuale, non trattandosi di atti negoziali.

“I quasi contratti sono accordi presunti, dai quali mediante un fatto nasce un'obbligazione
valida. Infatti, nei quasi contratti non vi è alcun vero accordo, né in essi è richiesto il
consenso di coloro fra i quali l'obbligazione deve sussistere, ma piuttosto l'obbligazione
proviene dalla situazione stessa, da un fatto, da un atto di gestione. […]
È pertanto erroneo dire che nei quasi contratti vi sia un accordo tacito; così essi sarebbero
piuttosto dei veri contratti, in quanto appunto per questi può essere sufficiente anche un
consenso tacito, manifestato con fatti concludenti. [...]” .

Però, si deve tener conto del fatto che, per l'impostazione dommatica della materia del quasi
contratto, Voet aveva un vigoroso precedente nel commentario alle Istituzioni giustinianee di
Arnold Vinnen, pubblicato la prima volta nel 1642:
“[...] Egli dice “quasi ex contractu”. La particella “quasi” è indice sia di similitudine, sia di
improprietà: perciò diremo correttamente che un'obbligazione nasce “quasi ex contractu”
quando essa nasce al di fuori di un accordo (indice di improprietà) da un fatto non illecito
(indice di similitudine). […]
Vi sono alcuni, i quali insegnano che anche in questo caso l'obbligazione nasca da un accordo,
certo non espresso, ma tacito: ma non approvo. In effetti, che cosa può importare se il
consenso sia espresso tacitamente, ossia con qualche effetto concludente, o con le parole
espressive dell'accordo? (Sarebbe sempre un contratto) […]
Aggiungi che quasi da contratto risultiamo obbligati anche senza volerlo e senza saperlo, al
punto che da tale obbligazione sono tenuti anche i malati di mente e i pupilli. […]
Una buona definizione del quasi contratto può dunque essere la seguente: qualsiasi fatto non
illecito, per il quale colui che fece risulta obbligato nei confronti di un altro, ovvero
quest'altro risulta obbligato verso di lui, o entrambi risultano reciprocamente obbligati l'uno
verso l'altro, senza che vi sia stato accordo fra loro.
Dei fatti di questo genere, ne vengono qui considerati cinque: gestione d'affari,
amministrazione della tutela, assunzione di una comunione di cose senza società, adizione di
eredità, pagamento d'indebito”.

Leggendo i testi di Vinnius e Voet, abbiamo constatato che è assente una casistica innovativa,
ma il quasi contratto, come genus della divisium obligationum, è presentato come una categoria
aperta, capace di accogliere una notevolissima varietà di fattispecie.

Che tanto il Voet quanto il Vinnius intendessero la categoria del quasi contratto come una
categoria idonea ad essere impiegata per inquadrarvi nuovi casi appare già chiaro nel peso che
essi davano a Pomp. Cels. D.13,6,13,2.
Ma quel che ora intenderei piuttosto mettere in luce è come la prospettiva adottata dagli
autori che si son letti abbia poi effettivamente determinato un modo di porre certi problemi
pratici, o almeno di porli in modo corretto.

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3. Le fonti delle obbligazioni III

Il quasi contratto nel Common Law inglese: caso Craven-Ellis v. Canons, Ltd

Avevamo già notato come la categoria di “quasi contratto”, come la si è potuta trarre dalle
fonti romane, risulta più ampia di quella del “contratto di fatto” della dottrina tedesca che ha
preso le mosse dalla prolusione dello Haupt del 1937.
La differenza si pone in questi termini:
 Il quasi contratto romano viene a comprendere tutti i casi di obbligazione non
contrattuale da fatto lecito.
 Il contratto di fatto non comprende le fattispecie che producono obbligazioni che non
hanno rapporto con un consenso contrattuale, nel senso che per esse non è reperibile un
modello consistente in un contratto consensuale.

L'esito principale di questa differenza si ravvisa nel fatto che il quasi contratto romano
contiene anche tutte le fattispecie di arricchimento ingiustificato, mentre il secondo no.
Infatti, sappiamo che già Celso (in Pomp. D.13,6,13,2) poneva il pagamento indebito come caso
emblematico di “tacita obligatio” (cioè quella di una fattispecie nella quale obbligazioni
nascono da fatto lecito senza che per il suo sorgere siano comunque rilevanti dichiarazioni,
espresse o tacite, delle parti).
Inoltre, Vinnius e Voet davano una definizione di “quasi contratto” molto simile a quella che
sarà poi del “contratto di fatto”: infatti, questa ruota intorno all'idea dell'accordo presunto.
Poi, Voet ebbe molta pena di spiegare come il pagamento indebito possa essere inteso
contenere un accordo presunto.
Infine, anche il Code Civil, che riprende la categoria delle obbligazioni da quasi contratto
dalla tradizione del diritto comune, enumera come fattispecie tipiche sia quella della gestione
d'affari che quella del pagamento indebito.

In Inghilterra, l'idea del quasi contratto è pervenuta con le dimensioni che essa aveva nel
diritto della compilazione giustinianea, e quindi nella sua nozione estesa, comprendente anche
i casi di arricchimento ingiustificato. Anzi, proprio da casi di arricchimento ingiustificato
questa vicenda di ricezione prese le mosse.
L'inizio del fenomeno si colloca nel corso del XVII secolo. Si tenga conto che, nel periodo
iniziale della storia del Common Law, la sola struttura contrattuale nota era quella formale del
“convenant”, sanzionata mediante un apposito “writ of convenant”.
L'idea di un contratto consensuale di forma libera nacque alquanto più tardi, quando venne
introdotto il “writ of assumpsit” (1500). Ma, nell'applicazione del “writ of assumpsit”,
l'azionabilità della pretesa del creditore alla prestazione restava sempre legata al fatto che il
debitore se ne fosse espressamente assunta (assumpsit) l'esecuzione.
Questa situazione durò fino al 1602, con il famoso “Slade's case”.
Il problema del quasi contratto si manifestò dapprima nell'ambito casistico dell'arricchimento
ingiustificato e diede luogo anzitutto al riconoscimento di una “action for money had and
received” (azione per i soldi ricevuti senza contratto).
In questo ambito è importante menzionare il caso Sinclair v. Brougham (inizio XX secolo).

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Lord Dunedin mostra di non considerare quella del quasi contratto come una categoria
giuridica che il Common Law abbia recepito dal diritto romano. Egli pensava che la categoria
del quasi contratto nel diritto inglese non esistesse, ma ne esistesse un'altra equivalente:
perché lo strumento concettuale del Common Law è quello della finzione di contratto, mentre
quello del diritto romano è la struttura dommatica autonoma del quasi contratto: solo che la
differenza tra le due idee risulta definibile unicamente sul piano della pura teoria astratta, in
quanto la funzionalità giuridica e pratica di entrambe è la stessa.
Ciascuna rappresenta un frutto dell'evoluzione propria di ciascuno dei due sistemi: entrambi i
sistemi, e comunque nel caso del denaro pagato per errore di fatto, riconoscono l'obbligazione
di restituire quando non c'è “ius in re” (quando non si possa pretendere la restituzione
facendo valere la proprietà della cosa in questione) e riconoscono la regola equitativa, dandole
corpo secondo le forme del loro sviluppo.

Si deve tenere conto che l'autore del passo scriveva al tempo, nel quale la concezione dei
rapporti tra il diritto inglese e la tradizione romanistica era dominata dalla visuale che
tendeva a considerare la formazione del diritto inglese come un fenomeno del tutto separato
rispetto alla parallela vicenda evolutiva del Civil Law.
Oggi è stata operata un'apertura e una vicenda come quella sopra descritta può essere vista
come un fenomeno di recezione nel Common Law di una prospettiva dommatica del Civil Law.

Dopo che noi abbiamo letto quello che scrivevano del quasi contratto Vinnius e Voet, oltre due
secoli prima del caso sopra illustrato, siamo in grado di scorgere che l'interpretazione di Lord
Dunedin dell'equivalente inglese del quasi contratto è poi l'interpretazione di del quasi
contratto di Vinnius e Voet.
Se procediamo nel tempo, nel Common Law incontriamo anche un'ulteriore ipotesi di quasi
contratto, che questa volta non è più connessa con il campo di applicazione della condictio ed
in genere dell'arricchimento ingiustificato, perché il quasi contratto che qui viene in
considerazione è proprio una fattispecie di contratto consensuale, privata del consenso
delle parti.
Malgrado la posizione assunta da Lord Dunedin nel caso Sinclair v. Brougham, la terminologia
di “quasi contract” è divenuta usuale nella letteratura giuridica inglese, ed è stata applicata a
tre ipotesi, in genere indicate come appartenenti alla materia dell'arricchimento
ingiustificato:
 Money had and received to the plaintiff's use.
 Money paid by the plaintiff to the defendant's use.
 Claims on a “quantum meruit”.

Quest'ultima ipotesi si tratta del criterio che in Common Law si indica come quello del
“quantum meruit”, impiegato per costruire una regola che potremmo descrivere nel modo
seguente: ove, senza un precedente contratto, un soggetto A abbia effettuato a B una
prestazione di beni o servizi, e B abbia accettato tale prestazione, B risulta tenuto a
corrispondere ad A un compenso ragionevole (cioè il “quantum meruit”).
Il caso più noto in materia è quello del 1936: Craven-Ellis v. Canons, Ltd..
Questa volta, per comprendere bene le argomentazioni del Lord Justice Greer, sulle quali si
basò la decisione della controversia, si devono considerare direttamente i fatti della causa:
L'attore, il signor Craven-Ellis, aveva prestato la sua attività come manager in una società che

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gestiva certi immobili, denominata Canons, Ltd., i cui maggior azionisti erano Sir Arthur du
Cros e il figlio Phillip.
Il signor Craven-Ellis aveva prestato dapprima la propria attività, fino al 30 dic 1930, sulla
base di un contratto regolarmente concluso con la Canons, Ltd..
Continuò a prestare i propri servizi senza contratto dal 31 dic 1930 al 14 gen 1931.
In tale data, il signor Craven-Ellis concluse un nuovo contratto con la società, ma l'accordo,
pur se concretato da un atto scritto con sigillo della Canons, Ltd., fu fatto a nome di questa
da Sir Arthur du Cros, che a quel tempo non aveva alcun potere di rappresentare la società.
Il signor Craven-Ellis continuò comunque a prestare i suoi servizi alla Canons, Ltd. per un
certo ulteriore periodo, ai termini di quest'ultimo accordo, finché la società non decise di
porre termine alla situazione.
La società rifiutava al Craven-Ellis qualunque pagamento per il periodo a partire dal 31 dic
1930, mentre il Craven-Ellis pretendeva di essere remunerato per il proprio lavoro in
conformità con l'ultimo accordo menzionato o, come alternativa, nella misura del “quantum
meruit”.

“Per tutto ciò io penso che i convenuti devono pagare sulla base del “quantum meruit” non solo
per i servizi prestati dopo il 31 dic 1930 e prima della data dell'accordo invalido, ma pure per i
servizi successivi a tale data. Io penso che l'appello dovrebbe essere accolto, e decisione resa
per la somma che si troverà esser dovuta sulla base del “quantum meruit” con riguardo a tutti
i servizi prestati dall'attore alla società fino a quando egli venne congedato.
I convenuti mi sembrano trovarsi in un dilemma. Se il contratto era un contratto efficace per
la società, essi sarebbero stati tenuti a pagare il compenso stabilito nel contratto. D'altra
parte, se il contratto era nullo e non vincolante per l'attore né per i convenuti, non vi sarebbe
stato nulla che impedisse la deduzione che il diritto desume dalla prestazione da parte
dell'attore di servizi a favore della società e dall'accettazione da parte della società di tali
servizi, che, se non fossero stati prestati dall'attore, essi avrebbero dovuto trovare un altro
agente che li fornisse”.

Ci limitiamo a sottolineare il punto più importante di questo caso, ovvero l'essenza del
contrasto fra la tesi dell'avvocato della società convenuta, Mr. Croom-Johnson, e quello del
giudice Lord Justice Greer.
Come si è visto, il contrasto si manifestava soprattutto con riguardo al periodo durante il
quale il signor Craven-Ellis prestò i suoi servizi sulla base di un contratto nullo.
Mr. Croom-Johnson ragionava così: durante il periodo considerato (dal 14 apr 1931 alla fine
dei rapporti tra il Craven-Ellis e la Canons, Ltd.) le parti operavano sulla base di un contratto
nullo. Quindi, una remunerazione del Craven-Ellis da parte della Canons, Ltd. non trova
fondamento in un contratto.
Ma, siccome le parti agivano sulla base di un contratto che consideravano valido, la loro
volontà era nel senso dell'esecuzione di quel contratto, per cui non resta spazio per la
presunzione di una diversa volontà delle parti (cioè per una remunerazione “quantum meruit”) .

Quindi, secondo Mr. Croom-Johnson, per il periodo in questione, la Canons, Ltd.:


 Non deve nulla in forza del contratto, perché questo era nullo.
 Non deve nulla a titolo di “quantum meruit”, perché questo titolo si basa su di un
contratto presunto, che nel caso specifico non può essere presunto.

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È a questa argomentazione puramente tecnica che risponde Lord Greer, in modo


estremamente preciso: è vero che il fondamento dell'obbligazione a pagare “quantum meruit”
è desunto dai fatti, e precisamente dalla prestazione dell'opera da parte del Craven-Ellis e
dall'accettazione di tale opera da parte della Canons, Ltd.
Possiamo dire che quel che da tali fatti si desume è un quasi contratto e che quest'ultimo sia
un “implied contract”. Ma questo “implied contract” non è un contratto implicito nei fatti, ma
una fonte d'obbligazione che il diritto oggettivo riconosce essere stata concretata da tali
fatti.
Come avrebbero detto Voet e Vinnius: non si tratta di un accordo tacito, ma di un accordo
presunto o, se si vuole, fittizio, ed è il diritto che impone la finzione sulla base dei fatti
considerati e prescindendo da qualunque altro fatto.

Il caso del parcheggio di Amburgo

Un caso, che si presentò con caratteri di assoluta novità, è quello noto come: “il caso del
parcheggio”, che ebbe luogo ad Amburgo nell'autunno del 1953.
La seconda guerra mondiale era finita da 8 anni e la straordinaria ripresa economica aveva già
prodotto i suoi effetti, in Germania come in Italia, compresi quelli secondari come il problema
del parcheggio degli autoveicoli nel centro delle grandi città.

I fatti della causa che ci interessa hanno avuto luogo ad Amburgo, precisamente in un
parcheggio a pagamento installato sul suolo pubblico della centralissima piazza denominata
“Rathausmarkt” e gestito, per concessione da parte della città, da un'impresa privata.
La concessione trovava la sua base giuridica generale in una deliberazione del Senato
cittadino del 28 aprile 1953. Questo provvedimento doveva incrementare le restrizioni al
parcheggio ai bordi delle strade: la nuova restrizione prevista si concretava nella possibilità
di sottomettere al pagamento di una tariffa l'uso dei posti di parcheggio che delimitano le
superfici che servono al traffico stradale pubblico.
Si precisava che la custodia a pagamento dei veicoli che posteggiassero sulle aree così
riservate sarebbe stata attribuita mediante licenza d'uso ad imprese di sorveglianza,
sottolineando che i proventi del “diritto d'uso”, pagato al Comune dai concessionari delle
licenze d'uso, sarà destinato al miglioramento delle possibilità di parcheggio.

Possiamo apprendere dalla sentenza stessa quanto accadde, cosa assunsero in giudizio le parti,
quali furono gli esiti dei due primi gradi di giudizio ed avere anche un'anticipazione sull'esito
del presente giudizio in ultimo grado davanti alla quinta sezione civile della Corte federale:
“Alle parcelle di terreno pubblico che sono state adibite a parcheggi a pagamento appartiene
anche una parte del Rathausmarkt che le autorità dell'edilizia cittadina hanno contrassegnato
mediante una striscia bianca ed insegne con la scritta “A PAGAMENTO E CUSTODITO”.
Per questo parcheggio la sezione dell'edilizia stradale del mandamento di Amburgo-centro ha
attribuito all'attrice una licenza di uso esclusivo.”
“La convenuta è detentrice di un autoveicolo. Nel periodo dal 3 settembre al 12 ottobre 1953
essa lo ha più volte posteggiato nel Rathausmarkt. Agli incaricati dell'attrice ivi posti, la

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convenuta ha previamente dichiarato che essa rifiutava la custodia del proprio autoveicolo e
il pagamento di una remunerazione.”
“L'attrice pretende dalla convenuta il pagamento di 25DM in base al tariffario del
parcheggio. Essa fa valere che la convenuta, anche ammettendo che un contratto di custodia
non abbia avuto luogo, si sarebbe arricchita ingiustificatamente per tale somma a sue spese.
Infatti, in conseguenza dell'occupazione di una porzione dell'area di parcheggio da parte del
veicolo della convenuta, essa non sarebbe stata in grado di mettere tale superficie a
disposizione di altri utenti disposti a pagare.”
“L'attrice ha chiesto di condannare la convenuta a pagarle 25DM e di pronunziare che
all'attrice stessa con riguardo al parcheggio del Rathausmarkt in forza della licenza del 18
agosto 1953 e 28 maggio 1954 è stato riconosciuto il possesso.”
“La convenuta adduce, a fondamento della propria richiesta che l'azione sia respinta, che
essa avrebbe posteggiato il proprio veicolo nel parcheggio in base al proprio diritto all'uso
comune. L'uso comune è gratuito, ed essa non può venir costretta a concludere con l'attrice
un contratto di custodia.”

La corte di prima istanza ha dichiarato fondata la pretesa dell'attrice.


La corte di seconda istanza ha respinto la pretesa dell'attrice.
Il ricorso in ultima istanza ha portato alla condanna della convenuta.

Motivazioni:
“Contro la concezione del ricorso della convenuta si deve tener fermo che il possesso di cose
che sono in uso comune è giuridicamente possibile. Certo l'uso comune rende pressoché
insignificanti i diritti che provengono dal possesso, perchè la destinazione pubblica sovrasta i
rapporti privati. Quindi, il fatto che l'attrice, in quanto possessore dell'area di parcheggio,
può esercitare il possesso solo nell'ambito con la compatibilità dell'uso pubblico, resiste alla
revisione. [...]
All'attrice è stato accordato, con la concessione e la licenza di uso esclusivo, un diritto di
uso speciale che esclude l'uso comune solo durante determinati lassi di tempo e in un
determinato rapporto. Solo in quest'ambito l'attrice vuole vedersi accertato il suo possesso
dell'area di parcheggio. [...]
L'opinione della corte di appello che, anche se alla superficie di parcheggio non sia stata
cambiata destinazione, il parcheggio per uso comune di autoveicoli sia escluso, nella misura in
cui la superficie di parcheggio sia assegnata per un suo particolare all'attrice, non deve
essere contestata. Inoltre, bisogna dargli ragione nel fatto che ogni uso particolare
pregiudica sì l'uso comune in un certo grado, ma senza che per questo l'attribuzione di un uso
particolare sia inammissibile.
Inoltre, qui è stato creato un parcheggio custodito: all'utente viene così offerto più di quanto
gli spetta per l'uso comune come tale. Anzitutto il suo veicolo è custodito ed egli inoltre, per
via dei costi connessi alla custodia, per lo più trova ancora per la sua vettura un posto di
parcheggio libero, che spesso non troverebbe in regime di uso comune.
Ha luogo anche altrimenti che per rendere possibili equipaggiamenti che migliorino e diano
forma più gradevole alla forma comune siano concessi diritti di uso particolare e che il
proprietario della cosa assoggettata all'uso comune esige per questo un corrispettivo
destinato a gravare sull'utenza. [...]
Di conseguenza, si deve aderire alla corte d'appello, quando questa è pervenuta alla opinione

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che all'attrice è stato concesso in modo giuridicamente efficacie un uso particolare dell'area
di parcheggio, il quale esclude la facoltà della convenuta di parcheggiarvi nell'ambito dell'uso
comune. Quindi, anche il trasferimento del possesso all'attrice è giuridicamente efficacie.
Ne deriva che l'attrice ha i diritti alla tutela del possesso secondo i §858 ss. BGB nei
confronti della convenuta, se questa parcheggia o si accinge a parcheggiare unicamente con
riferimento all'uso comune del Rathausmarkt destinato al traffico pubblico.
Perciò il ricorso della convenuta è da respingere”.

“Il ricorso dell'attrice è fondato. Che l'attrice ritenga di poter dedurre la sua pretesa al
pagamento da un arricchimento ingiustificato della convenuta o da un atto illecito da questa
commesso, non impedisce alla Corte di esaminare i fatti sotto un diverso profilo giuridico,
cioè se nelle presenti particolari circostanze la reciproca relazione giuridica fra le parti possa
esser vista come un rapporto contrattuale, benché fra di esse indiscutibilmente non sia stato
concluso un accordo mediante dichiarazioni negoziali concordi.
Haupt ha elaborato l'opinione che vi sarebbero rapporti contrattuali di fatto, i quali non si
fonderebbero sulla conclusione di un accordo, ma solo su di un obbligo sociale di prestazione.
[…]
Questa concezione, sostenuta anche da Tasche, e cioè che dei rapporti contrattuali possono
trovare fondamento non solo nella conclusione negoziale di un contratto, ma in conformità con
il principio di buona fede, anche in eventi di fatto, l'ha recentemente accolta anche Larenz.
Larenz indica che, nel moderno traffico di massa, si producono rapporti obbligatori il cui
fondamento non va trovato in un accordo negoziale delle parti, bensì nell'offerta pubblica
(puramente di fatto) di una prestazione e nell'impiego (puramente di fatto) di tale
prestazione da parte del partecipante al traffico.
L'uso di una possibilità di trasporto data a ciascuno fa nascere un rapporto contrattuale,
non perchè questo effetto giuridico del comportamento di fatto del passeggero sia voluto o
magari dichiarato, ma perchè esso secondo la considerazione generale del traffico gli è
indubbiamente connesso.
Chi, durante i tempi di custodia, usa per parcheggiare l'area di parcheggio
specificatamente resa riconoscibile produce, già con il fatto stesso di far ciò, un rapporto
giuridico contrattuale che lo obbliga al pagamento di un corrispettivo corrispondente al
tariffario del parcheggio. L'eventuale atteggiamento interiore non ha alcuna rilevanza.
Perché il diritto a pretendere una contro-prestazione secondo il tariffario discende
oggettivamente dal diritto d'uso particolare efficacemente concesso all'attrice”.

“Invece, se l'attrice avesse voluto, per la sua pretesa di pagamento, far riferimento ad un
atto illecito della convenuta, avrebbe dovuto, per ottenere una condanna sotto questo
profilo, provare l'asserzione fatta nella sua istanza, secondo la quale, in conseguenza
dell'uso dell'area di parcheggio da parte della convenuta, le sarebbe stato necessario
respingere altri automobilisti disposti a pagare. Solo allora la convenuta sarebbe potuta
essere tenuta al risarcimento del danno per comportamento colpevole sotto il profilo di un
pregiudizio all'attività industriale dell'attrice.
Una condanna ai sensi della disciplina dell'arricchimento ingiustificato si sarebbe dovuta
orientare verso la restituzione dell'aumento patrimoniale ingiustificato della convenuta.
L'arricchimento della convenuta avrebbe avuto luogo a spese dell'attrice. Poiché la convenuta
ha ingiustamente tolto, al diritto dell'attrice di disporne, la possibilità di parcheggio che le

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tornava utile. Certo l'entità dell'arricchimento dovrebbe ancora essere determinata e ciò
incontrerebbe rilevanti difficoltà pratiche.
Queste considerazioni mostrano chiaramente come lontano da un'aderenza alla realtà
sarebbe stato il risultato qualora, per giungere ad una soluzione soddisfacente, si fosse
voluto tener conto del carattere specifico della relazione giuridica concretamente
creatasi fra le parti, diversamente da come si è fatto sopra, percorrendo invece una delle
vie che l'ordinamento giuridico mette a disposizione al di fuori del diritto dei contratti” .

Un orientamento finale

Abbiamo visto che la quinta sezione della corte federale tedesca ha risolto il caso in
questione impiegando la nozione di rapporto contrattuale di fatto, basandosi soprattutto sul
pensiero di Haupt e di Larenz. Ma è facile constatare che tale nozione corrispondeva a quella
di quasi contratto come essa era stata definita da Voet e Vinnius, nella prospettiva di Celso.
Da Celso proveniva l'idea principale, secondo la quale nel campo delle obbligazioni da fatto
lecito esistono casi nei quali nasce una “tacita obligatio”, precisando che tale obbligazione si
forma “extra id quod ageretur”: cioè può nascere un'obbligazione la cui fonte non si concreta
in dichiarazioni delle parti ed anzi, pur se queste hanno magari inteso negoziare o anche
abbiano fatto dichiarazioni negoziali, l'obbligazione si forma prescindendo del tutto da questi
loro intenti e attività.
Ma, nell'impostazione del problema comune alla letteratura ed alla Corte che vi si rifaceva, si
rivelano in modo alquanto chiaro le ragioni per le quali gli elaboratori moderni della dottrina
del contratto di fatto:
A. Non si accorsero di porsi nella tradizione della dommatica del quasi contratto.
B. Diedero corpo ad una concezione che rischiava di avere una vita difficile quanto quella
dei quasi delitti.

A. Come si è già visto, la concezione del contratto di fatto è stata, fin dal suo inizio presso
Haupt ed inseguito presso dottrina e giurisprudenza, considerata come una sovrastruttura
giuridica di situazioni legate alla circolazione di persone e di beni, straordinariamente
incrementata dalla fenomenologia della rivoluzione industriale.
Il dogma del contratto di fatto è stato così considerato come il prodotto giuridico di un
fenomeno economico-sociale assolutamente moderno e quindi senza precedenti quanto al
fenomeno che lo ha generato.
L'episodio emblematico è quello del vecchio Lehmann, che, ascoltando nel 1937 la prolusione
dello Haupt, ebbe la precisa impressione che l'oratore aveva semplicemente riscoperto il quasi
contratto: Lehmann da giovane aveva studiato quando in Germania si applicava ancora il diritto
romano e quindi possedeva bene il vecchio dogma del quasi contratto, che Haupt dimenticò
perché il BGB tedesco non aveva recepito tale concetto.
Così, mentre Haupt pensava di inventare un nuovo concetto giuridico per una situazione nuova,
Lehmann sapeva che egli aveva solo scoperto una casistica nuova per un concetto già acquisito.
B. Per esaminare questo punto dobbiamo partire da due frasi della Corte:
 La prima condensa il pensiero di Haupt: “Haupt, parzialmente abbandonando la

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concezione, a suo avviso spesso ignara della realtà della vita, secondo la quale un
rapporto contrattuale verrebbe in esistenza unicamente mediante offerta e
accettazione, ha elaborato l'opinione che vi sarebbero rapporti contrattuali di fatto
che non si fonderebbero sulla conclusione di un accordo, ma solo su di un obbligo sociale
di prestazione”.
 La seconda condensa il pensiero di Larenz: “L'uso di una possibilità di trasporto data a
ciascuno fa nascere un rapporto contrattuale, non perché questo effetto giuridico del
comportamento di fatto del passeggero sia voluto o magari dichiarato, ma perché esso
secondo la considerazione generale del traffico gli è indubbiamente connesso” .

Da un lato: è fuori da ogni dubbio che, nella mente degli autori della moderna dottrina del
contratto di fatto, i fatti che costituiscono la fonte dell'obbligazione non sono contratti,
in quanto manca del tutto il relativo accordo negoziale, ma solo l'effetto di tali atti è quello
che scaturirebbe da un contratto.
Dall'altro lato: si insiste nel dire che il rapporto che nasce dagli atti considerati sarebbe un
“rapporto contrattuale”, ovvero rapporto che nasce da un contratto. Mentre, dal tenore delle
frasi sopra riportate, si è indotti a desumere che in certi casi può nascere un rapporto
contrattuale anche da qualcosa che non è un contratto.
In effetti, dalla dottrina del contratto di fatto alcuni autori hanno voluto trarre una critica
alla concezione tradizionale del contratto, eliminando l'accordo delle parti dall'elenco degli
elementi che ne costituiscono la fattispecie.
In altre parole, per il contratto dovrebbe ormai adottarsi una nozione definita in base ai soli
effetti dell'atto, e non anche in base alla struttura dell'atto stesso.
L'opposizione contro la dottrina del contratto di fatto trova certamente in timori di questo
genere le sue ragioni pratiche. Ma il timore svanisce facilmente quando ci si renda conto che il
contratto di fatto è una categoria giuridica con la sua dignità e la sua storia, e possiede già
nella scienza giuridica europea il posto appropriato.
Quello che la circolazione di massa ha introdotto nella nostra vita economica e sociale altro
non è se non un nuovo settore della casistica del quasi contratto.

La giustificazione della regola giuridica per la quale un certo fatto lecito non contrattuale
produce obbligazioni non può dipendere dalla sua qualificazione come quasi contratto, perché
questa qualifica a tale fatto può essere data solo quando già risulti la sua idoneità a produrre
obbligazioni: quella del quasi contratto non è l'individuazione di un meccanismo obbligatorio,
ma solo la categoria dommatica nella quale inserire meccanismi obbligatori noti altrimenti.
Per ogni nuovo tipo di quasi contratto deve essere individuato un fondamento giuridico della
sua efficacia obbligatoria: tale fondamento può trovarsi nella legge, ma il carattere aperto
della categoria trova meglio il suo habitat naturale nell'analisi casistica e nella relativa
elaborazione di nuove regole generali con fondamento nell'equità.
Quando un soggetto produca un'entità economicamente sfruttabile, e questo sfruttamento
sia di fatto pubblicamente disponibile, il soggetto che di fatto ne disponga, qualora nella
valutazione sociale tale profitto abbia normalmente luogo a seguito della conclusione di un
contratto a titolo oneroso, si riproducono tra le parti gli effetti che avrebbe un simile
contratto, tenendo conto della prassi negoziale in materia e dell'equità del caso concreto.
Diritto europeo attuale
Va comunque tenuto conto, in un discorso sul diritto europeo attuale, che la dottrina del

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contratto di fatto, ed in particolare il problema delle obbligazioni non contrattuali da fatto


lecito non previste espressamente in testi normativi, si trova oggi in una situazione che
potremo definire di crisi.

A. L'indizio più chiaro è quello del nuovo codice civile dei Paesi Bassi del 1992, che è stato
composto con l'intento di fornire un modello di codice moderno, ma che enuncia una norma
sulle fonti delle obbligazioni concepiti nei più stretti termini della tipicità legislativa.

B. Possiamo aggiungere che in Italia la situazione è stata a lungo la stessa, perché la norma
sulle fonti delle obbligazioni (art 1173 cc), malgrado la sua formulazione che può bene
intendersi come aperta, veniva interpretata come se stabilisse che le obbligazioni nascono
solo dai fatti che la legge considera obbligatori.
In effetti, la norma dell'art 1173 cc dice che, oltre da contratto e da fatto illecito, le
obbligazioni derivano “da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità con
l'ordinamento giuridico”: formulazione che con la più chiara evidenza non rinvia alla legge, ma
a tutte le possibilità che le strutture dell'ordinamento danno all'interprete.
È certamente vero che l'interpretazione stretta di questo articolo risulta chiara dalla
relazione stessa del Guardiasigilli, ed in particolare proprio da quel che diceva
sull'opportunità di inserire nel codice una norma espressa sulle fonti delle obbligazioni:
“Qualcuna delle legislazioni moderne aveva financo rinunciato alla elencazione delle fonti.
Quest'ultimo indirizzo, a mio avviso, può ingenerare dubbi sull'attitudine della volontà
individuale a essere fonte autonoma di effetti giuridici. Nella società fascista solo
l'ordinamento giuridico può attribuire tali effetti ad un atto o ad un fatto: ed è opportuno
fissar questo principio, che viene così a rappresentare uno dei cardini del sistema sorto dalla
Rivoluzione del 1992”.
Si sa che la relazione del Guardiasigilli non ha valore vincolante per l'interprete del codice: ma
certo non potrebbe avere comunque valore alcuno un testo come quello riportato: non solo le
allusioni alla “società fascista” e “ai cardini del sistema sorto dalla Rivoluzione del 1922” hanno
cessato di essere attuali con il superamento dell'impostazione politica alla quale
corrispondevano, e sono state sostituite dalla Costituzione della Repubblica del 27 dic 1947,
nella quale “il principio-cardine del sistema” proclamato dal Guardiasigilli non compare affatto;
ma tale principio egli lo enunciava in un modo assurdo e contraddittorio: esso si
concreterebbe nell'idea che la volontà individuale non potrebbe essere fonte autonoma di
effetti giuridici perché solo l'ordinamento può attribuire tali effetti ad un atto o a un fatto;
ma questa idea dovrebbe automaticamente comportare l'eliminazione di tutte le norme che
prevedono atti negoziali con effetti obbligatori, e comunque una norma come quella
sull'autonomia contrattuale o quella sull'interpretazione del contratto secondo le intenzioni
dei contraenti risulterebbero del tutto eretiche.

C. In Francia, la categoria dei quasi contratti è presente nel Code Civil, ma essa è stata
impiegata in sostanza solo come categoria classificatoria per le ipotesi previste nella legge:
anche se il caso della recezione della “actio de in rem verso” come azione generale
d'arricchimento può considerarsi rappresentare una cospicua eccezione.

D. In Germania, dove la categoria del quasi contratto ha avuto una solida base dottrinale ed è
stata recepita dalla giurisprudenza, siamo pur sempre in un periodo di reazioni contrarie, e la

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vicenda austriaca ne risente pur sempre degli echi.

E. In Svizzera, dove la dottrina del quasi contratto aveva suscitato l'attenzione anche nei
cantoni di lingua francese, solo alcuni autori continuano rimanere fedeli al contratto di fatto.

F. In Inghilterra, la nozione di quasi contratto è stata offuscata nella nuova impostazione


dell'intera tematica coperta dalla nozione di “Law of restitution”.

Sono proprio la dottrina e la giurisprudenza italiane a riprendere, negli ultimi anni, la


dottrina del contratto di fatto e a darle un sostanziale impulso.
L'orientamento non può certo considerarsi consolidato e soprattutto le argomentazioni sulle
quali il lavoro si fonda, tanto in giurisprudenza quanto in dottrina, non appaiono ancora
solidamente costruite.
Comunque, si è giunti a superare, sebbene con formulazioni giurisprudenziali che hanno
piuttosto l'aria di un sofisma, l'interpretazione dell'art 1173 cc come norma che sancisce la
tipicità legislativa delle fonti d'obbligazione. Ma la categoria dommatica alla quale in
concreto si fa poi riferimento è soprattutto quella che si usa denominare come “la dottrina
delle obbligazioni da contratto sociale”, che in pratica strettamente confina con l'idea che
possano configurarsi contratti che si formano senza accordo delle parti.
Una simile impostazione rivela puntualmente il difetto di non agganciare la fenomenologia che
si tratta alla categoria giuridica già consolidata del quasi contratto, ricercando quindi un
criterio generale che giustifichi tutte le obbligazioni di questo tipo e procedendo in pratica
con principi che restano fumosi perché non costruiti con appropriato metodo casistico.

Ma, con tutto ciò, si deve riconoscere che il problema è stato infine chiaramente avvertito ed
i difetti che la sua elaborazione rivela sono naturali per gli inizi di una vicenda dottrinale.
Forse, quel che manca è proprio solo la consapevolezza, negli operatori del diritto, di non star
lavorando su di un terreno vergine, ma nel bel mezzo di una terra da molti secoli ben coltivata.

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