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DIRITTO CIVILE II

Prof. Luca Nivarra


A.A. 2020/2021
LEZIONE 1
28/09/20

L’oggetto del corso è la tutela giurisdizionale dei diritti.

ART. 2907 comma 1 c.c. ATTIVITA’ GIURISDIZIONALE – Alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede
l’autorità giudiziaria su domanda di parte e, quando la legge lo dispone, anche su istanza del pubblico
ministero.

Questa norma si trova nel libro VI (Della tutela dei diritti) titolo IV (Della tutela giurisdizionale dei diritti) del
codice. La prima informazione che si ricava dalla lettera di questo articolo è che alla tutela giurisdizionale dei
diritti provvede l’autorità giudiziaria: significa che in presenza di una controversia tra privati in ordina alla
esistenza di un diritto soggettivo, la controversia verrà risolta da un soggetto appartenente all’ordine
giudiziario, significa altresì che le controversie che dovessero insorgere tra privati in ordine alla esistenza di
un diritto soggettivo non possono essere risolte dai privati medesimi. Chi è coinvolto in una tipica
controversia civile non può pensare di “farsi giustizia da sé”, per quanto solide e incontrovertibili gli appaiano
le sue ragioni. Questa è una regola cardine degli ordinamenti giuridici moderni.

L’autorità giudiziaria ex art. 2907 è la funzione giudiziaria, una delle funzioni fondamentali dell’organizzazione
statutale. La funzione giudiziaria non è interamente assorbita nella giustizia consistente nel risolvere le
controversie tra privati (in ordine all’esistenza o meno di un diritto soggettivo). Infatti esistono anche la
giustizia penale, che non si occupa di risolvere controversie ma ha il compito di reprimere condotte
considerate particolarmente pericolose dal punto di vista della tenuta dell’ordine sociale, e la giustizia
amministrativa, la quale invece torna ad essere elettivamente alla soluzione di controversie che hanno come
protagonisti da un lato la P.A. e dall’altro il cittadino e l’esistenza o meno di un interesse legittimo distinto
dal diritto soggettivo dall’art. 24 della Costituzione e dall’art. 103 Cost. (giudice amministrativo come giudice
delle controversie che vedono opposti la P.A. e il cittadino).

La soluzione della controversia in ordine all’esistenza di un diritto soggettivo si svolge secondo le norme di
codice di procedura civile, del codice civile e delle altre norme codicistiche.
La giustizia penale opera attraverso le norme del codice penale e di procedura penale, più tutte le norme
extra-codicistiche che disciplinano il procedimento.
Il giudice amministrativo, infine, opera attraverso le norme del diritto amministrativo sostanziale e quelle che
disciplinano il processo amministrativo.

Tanto la giustizia civile quanto quella amministrativa intervengono per risolvere delle controversie, anche se
per soggetti diversi, mentre non si può parlare della giustizia penale come una giustizia intesa a risolvere una
controversia, ma è una giustizia attraverso la quale viene affermata la sovranità dello Stato per la tutela
dell’integrità dell’ordine sociale, si potrebbe dire sotto questo punto di vista che sia una emanazione diretta
della sovranità dello Stato.

La norma contenuta nell’art. 2907 si trova all’interno del libro VI del codice civile, che si intitola “Della
giurisdizionale dei diritti”, discostandosi dall’intitolazione del titolo IV del libro medesimo, indicando dunque
che la tutela dei diritti non coincide, e non è la stessa cosa della tutela giurisdizionale dei diritti. Ne consegue
che il campo della tutela dei diritti è un campo più esteso della tutela giurisdizionale dei diritti, significa che
la tutela dei diritti non implica necessariamente una controversia tra privati in ordine all’esistenza/
inesistenza di un diritto soggettivo. Un tipo di controversia che si distingue abbastanza marcatamente da
quella intesa ad accertare l’esistenza/inesistenza di un diritto soggettivo, e alla soluzione della quale
controversia è deputata la tutela giurisdizionale, è la controversia sempre tra privati che inerisce alla
appartenenza di un diritto soggettivo, quindi non alla sua esistenza.
Questa situazione si può determinare quando colui che in quel momento è investito di un diritto soggettivo,
segnatamente di un diritto reale, disponga del medesimo diritto in base ad un titolo giuridico valido a favore
di due soggetti distinti. In altre parole, può accadere che Caio alieni la casa di cui è proprietario prima a Caio
e poi a Sempronio, in entrambi i casi attraverso la mediazione di un valido contratto di compravendita. In casi
di questo genere, il conflitto tra i due acquirenti, verte sull’appartenenza del diritto soggettivo: si tratta di
decidere a chi tra Caio e sempronio competa la titolarità del diritto alienato da Tizio.

È un caso diverso da quello nel quale, per esempio, il debitore neghi a fronte della pretesa di ottenere la
prestazione da parte del creditore. Per negare l’esistenza del diritto di credito il debitore può o affermare
che questo diritto di credito non è mai venuto in essere, perché ad esempio il titolo richiamato dal creditore
è un contratto nullo; oppure, il debitore può rendersi indisponibile all’esecuzione della prestazione
affermando l’estinzione del diritto di credito.

Viceversa, la controversia in ordine all’appartenenza del diritto soggettivo, non soltanto non verte, per
definizione, sull’esistenza del diritto, ma presuppone addirittura che il diritto esista, si tratta semplicemente
di stabilire a chi tra i soggetti in conflitto il diritto controverso appartenga.

Nel nostro ordinamento giuridico, lo strumento attraverso il quale questo problema pratico viene risolto è la
trascrizione, di cui agli articoli 2643 ss. cod. civ. con cui si apre il libro VI del Codice. Attraverso la mediazione
dei pubblici registri immobiliari, nei quali viene trascritto il titolo d’acquisto, il conflitto viene risolto
decretando la prevalenza dell’acquirente che abbia proceduto a trascrivere per primo, indipendentemente
dal fatto che nell’ordine delle alienazioni egli venga prima o dopo. In casi di questo genere, proprio perché
appunto il conflitto verte sull’appartenenza del diritto e non sulla sua esistenza, il meccanismo al quale si
ricorre per ripianare il conflitto medesimo è diverso da quello della tutela giurisdizionale.

C’è da aggiungere che un dispositivo come quello della trascrizione si rende necessario in sistemi, come il
nostro, che adottino una regola particolarmente liberale quanto alle modalità di trasferimento del diritto. In
sistemi come il nostro infatti vige una regola, ex art. 1376 c.c., alla luce della quale il trasferimento del diritto
avviene in virtù del consenso manifestato dalle parti: si tratta del c.d. principio consensualistico, in base al
quale il contratto valido trasferisce il diritto in virtù del semplice consenso manifestato dalle parti. Bisogna
fare attenzione al fatto che il diritto trasferibile può essere tanto un diritto di credito che un diritto reale.

Quando si parla di un contratto con effetti reali si allude al fatto che questo trasferisca, semplicemente in
base al consenso, un diritto in virtù di un contratto valido, sia che si tratti di diritti reali che di diritti di credito
(ad es. la cessione del credito è un contratto ad effetti reali, ma ad essere ceduto non è un diritto di credito).
Tuttavia, il dispositivo della trascrizione funziona in larga misura soltanto per i contratti che trasferiscano la
titolarità di un diritto reale, ed abbiano ad oggetto un bene immobile. Vi sono però delle eccezioni, ad
esempio, è ammessa la possibilità di trascrivere un contratto preliminare, che è un contratto che ha
un’efficacia puramente obbligatoria; così come il codice civile prevede la possibilità di trascrivere contratti
che abbiano ad oggetto beni mobili. È però fuor di dubbio che il campo elettivo di applicazione della
trascrizione sia individuato dall’insieme dei contratti che trasferiscono la titolarità dei diritti reali aventi ad
oggetto beni immobili. Tant’è vero che nelle disposizioni in materia di cessione del credito dove il problema
del conflitto tra i possibili cessionari in ordine all’appartenenza del diritto di credito si risolve, non attraverso
la trascrizione nei registri immobiliari, ma attraverso un meccanismo più semplice per cui a prevalere sarà il
primo dei due cessionari ad aver notificato la cessione al debitore.

A proposito del legame che intercorre tra accoglimento della regola consensualistica e necessità di pubblicità
immobiliare sotto forma di trascrizione, bisogna tenere conto del fatto che in sistemi come quello tedesco
nei quali il trasferimento del diritto è subordinato alla consegna della cosa, e quindi si articola in due passaggi
successivi e distinti (da un lato il contratto di compravendita, che nell’ordinamento tedesco ha efficacia
puramente obbligatoria, cui fa seguito l’ulteriore atto, che assume forme diverse a seconda che si tratti di
beni mobili o immobili, al compimento del quale il diritto si trasferirà).
In sistemi come quello italiano che adotta la regola consensualistica il trasferimento è immediato, però quello
che si guadagna in termini di alleggerimento della procedura traslativa si perde dal punto di vista della
sicurezza della circolazione, perché l’alienante rimane immesso nel possesso della cosa, determinando la
situazione per cui l’alienante può, avendo conservato anche a seguito del primo atto la materiale disponibilità
della cosa, inscenare una nuova alienazione del medesimo bene. A causa della possibilità conservata
all’alienante si crea il conflitto tra il primo e il secondo acquirente, da dove discende la necessità di ricorrere
ad un meccanismo risolutivo del conflitto come la trascrizione.

Viceversa, in sistemi nei quali la stipulazione del contratto non ha efficacia traslativa, la possibilità che
l’alienante permanga nel possesso della cosa non può mai ingenerare nel potenziale secondo acquirente il
convincimento che egli sia titolare del diritto, perché il trasferimento del diritto si ha solamente nel momento
in cui l’alienante si spogli del possesso della cosa. Tant’è vero che in ordinamenti come quello tedesco,
l’omologo della trascrizione (che nel nostro sistema ha efficacia dichiarativa, in quanto la sua funzione si
esaurisce nel dirimere il conflitto) ha un’efficacia costitutiva.

Quindi, all’interno del Libro VI del Codice Civile non a caso si trovano due modi di essere della tutela dei
diritti:

1. Il primo deputato alla soluzione del conflitto sull’appartenenza del diritto soggettivo, assicurata
attraverso il meccanismo della trascrizione;
2. Il secondo che invece presuppone una diversa tipologia di conflitto, che deve essere inerente alla
esistenza o inesistenza di un diritto soggettivo, alla soluzione del quale è chiamata ad intervenire la
tutela nella forma giurisdizionale dei diritti, che implica appunto il coinvolgimento della funzione
giudiziaria sotto la specie del giudizio civile.

LEZIONE 2
29/09/2020

A proposito della tutela dei diritti, secondo il libro VI del Codice Civile si può operare una summa divisio:
• La tutela giurisdizionale dei diritti è preordinata alla soluzione di controversie che insorgano tra le
parti quanto alla esistenza o inesistenza di un diritto.
• La trascrizione è preordinata alla soluzione di controversie che insorgano tra le parti quanto alla
appartenenza di un diritto soggettivo.

Art.1322 cod. civ. AUTONOMIA CONTRATTUALE - Le parti possono liberamente determinare il contenuto del
contratto nei limiti imposti dalla legge.

Le parti possono anche concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare,
purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.

In questa sede ci occuperemo del secondo comma di questo articolo, che si occupa della facoltà riconosciuta
alle parti di stipulare contratti innominati, cioè diversi da quelli previsti espressamente dal legislatore. Questa
possibilità presuppone però che attraverso al contratto atipico le parti perseguano interessi meritevoli di
tutela secondo l’ordinamenti giuridico. La parola tutela, in questo caso, non sembra ad una prima
approssimazione coincidere con il campo di applicazione che si è visto all’interno del libro VI, perché qui la
tutela sembra alludere ad un fenomeno molto diverso. Questa tutela rinvia al rapporto con l’autonomia
privata, che non è lasciata a se stessa, ma si muove dentro un contesto i cui confini sono istituiti
dall’ordinamento giuridico. Questi limiti sono, in primo luogo e fondamentalmente, preordinati a fissare le
condizioni di validità di un atto di autonomia privata: è l’ordinamento che stabilisce a quali condizione un
atto posto in essere dalle parti è valida. Del resto, indipendentemente dai cc.dd. contratti atipici, questo
modo di atteggiarsi del rapporto tra legge e autonomia privata emerge in modo esplicito dall’elencazione
contenuta nell’art. 1325 che indica i requisiti del contratto, che sono le condizioni in presenza delle quali
l’autonomia contrattuale delle parti diventa un contratto valido, perché la validità è una prerogativa
dell’ordinamento giuridico, è una qualifica normativa che ha per oggetto a sua volta un atto che svolge una
funzione regolamentare tra le parti. La fattispecie del contratto diventa vitale per l’ordinamento giuridico
quando mostra di avere i requisiti previsti dall’art. 1325 c.c., e se si tratta di un contratto innominato
dell’ulteriore requisito della meritevolezza di tutela.

Mentre nel caso dei contratti tipici la causa e la sua liceità sono in re ipsa, perché è lo stesso legislatore che
predispone il tipo contrattuale; nel caso dei contratti atipici, invece, poiché il contratto è predisposto dalle
parti, non vi è stato un controllo preventivo da parte dell’ordinamento sulla causa dello stesso e quindi
l’ordinamento si riserva un controllo ex post imperniato sulla verifica della meritevolezza di tutela
dell’interesse perseguito dalle parti. Quindi, il requisito della meritevolezza di tutela, più che un ulteriore
requisito rispetto a quelli elencati dall’art. 1325, si può dire essere piuttosto un adattamento della causa al
fenomeno dei contratti atipici.

Bisogna fare attenzione alla categoria generale della validità, che è un concetto chiave. Dunque, alla
domanda quando un contratto è valido? possiamo rispondere che quando si tratti un contratto tipico è valido
ove presenti i requisiti previsti ex art. 1325; quando si tratti di un contratto atipico quando possieda
l’”ulteriore” requisito della meritevolezza degli interessi.
Ma cosa significa che un contratto è valido? Una indicazione risolutiva al riguardo ce la fornisce l’art. 1372,
che ingannevolmente si intitola efficacia del contratto.

ART. 1372 cod.civ. EFFICACIA DEL CONTRATTO – Il contratto ha forza di legge tra le parti. Non può essere
sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge.
Il contratto non produce effetto rispetto ai terzi che nei casi previsti dalla legge.

Questa disposizione parla dell’efficacia del contratto e quando ne parla allude in modo abbastanza esplicito
a quella che lo stesso legislatore chiama forza di legge, sia pure inter partes. Questa forza di legge tra le parti
deve essere però essere distinta dagli effetti del contratto, che sono quelli che tipicamente ciascun contratto
produce. Per es.: il contratto di compravendita è un contratto con dei suoi effetti tipici, fondamentalmente
(ma non esclusivamente) l’effetto consistente nel trasferimento della proprietà e nell’insorgenza dell’obbligo
a carico del compratore di corrispondere il prezzo come corrispettivo del trasferimento del diritto. È evidente
però che quando il legislatore, all’art. 1372 cod.civ., parla di efficacia del contratto allude a un fenomeno
diverso da quello del dispiegamento degli effetti tipici del singolo contratto: allude alla “intangibilità” dello
stesso; ovverosia, una volta stipulato, indipendentemente dagli effetti che esso produce, il contratto produce
una sorta di meta-effetto che è l’intangibilità ad opera delle parti del contratto, cioè dell’impegno assunto.
Questo è il motivo per cui il legislatore ricorre alla formula suggestiva della forza di legge: esattamente come
la legge vincola tutti i consociati, il contratto (che non ha ovviamente la stessa portata) limitatamente alle
parti produce la stessa impegnatività e irrevocabilità, che sono dunque obbligate a rispettare il contratto in
quanto tale e tutti gli effetti che dal contratto scaturiscono.
Indipendentemente dalla terminologia usata dal legislatore, si è qui in realtà in presenza della primordiale
manifestazione della validità del contratto. Un contratto valido è un contratto che vincola le parti, e che, in
primo luogo, inibisce la possibilità delle parti di revocare il consenso che hanno prestano alla conclusione
dello stesso contratto.

Mettendo insieme gli artt. 1322, 1325 e 1372 c.c. si ricollegano all’art. 2907 c.c., che si occupa della tutela
giurisdizionale dei diritti: nel momento in cui il legislatore somministra ad un atto di autonomia privata il
crisma della validità, si impegna a sua volta nei confronti delle parti a rendere forzosamente attuabile il
contratto nel momento in cui una delle parti tendesse ad evadere il vincolo istituito dall’art. 1372. In altre
parole, la norma ex art. 1372 non avrebbe ragion d’essere se il legislatore, proclamando la forza di legge del
contratto tra le parti, non si impegnasse a reagire nell’eventualità in cui una delle parti si sottraesse al vincolo
scaturente dal contratto. Il legislatore corrobora tale impegno, assicura effettività al contratto nel modo
previsto dall’art. 2907 c.c.: attraverso l’attribuzione alle parti, segnatamente a quella che ha assolto
all’impegno scaturente dal contratto, della possibilità di rivolgersi all’autorità giudiziaria per fare in modo che
il risultato che avrebbe dovuto essere conseguito attraverso lo spontaneo ottemperamento del vincolo,
venga realizzato coattivamente attraverso l’intervento di organi dello Stato, in primo luogo del giudice, il
quale si sostituisce, per dirla in una prima approssimazione, alla parte inosservante che ha ritenuto di non
adempiere o di non osservare e adeguarsi alla forza di legge riconosciuta al contratto valido che possedesse
i requisiti previsti dall’ordinamento dall’art. 1325 e dall’art. 1322.
L’art. 1372 funge, dunque, da collegamento tra le condizioni di validità del contratto e la sua coercibilità in
sede giudiziaria. Sotto questo profilo, stando così le cose, si può dire non troppo forzatamente che la validità
è l’altra faccia della tutela giurisdizionale così come la tutela giurisdizionale è l’altra faccia della validità: sono
due facce della medesima medaglia, perché l’art. 1372 rimarrebbe pura dichiarazione se non intervenisse
l’art. 2907.
La tutela giurisdizionale dei diritti costituisce il punto di approdo di un processo che comincia con la fissazione
delle condizioni di validità del contratto, che prosegue con la definizione di ciò che debba intendersi per
validità del contratto e si completa con l’impegno del legislatore a rendere effettivo il precetto negoziale
attraverso i meccanismi della giurisdizione.
Si potrebbe obiettare che il ricorso alla giurisdizione è un’evenienza possibile ma non necessaria: può
accadere che le parti si conformino spontaneamente al precetto contrattuale. Questo è vero, ma non è un
rilievo decisivo per due ordini di ragioni:
1. Anche se non sembra, in realtà, la prospettiva la prospettiva della coercizione, la prospettiva che il
vincolo sia attuato coattivamente attraverso la mediazione del giudice, entra pesantemente nel
processo di attuazione spontanea del vincolo negoziale: chi adempie spontaneamente
l’obbligazione, per esempio, lo fa anche perché spinto dalla minaccia della coercizione;
2. Se si valutasse la dialettica tra validità e tutela giurisdizionale dei diritti soltanto guardando all’esito
spontaneamente positivo, allora coerentemente si dovrebbe ammettere l’inutilità del mettere in
piedi tutta la macchina della tutela giurisdizionale come quella che invece è deputata ad attuare
coattivamente il precetto negoziale. La coercibilità del contratto non avrebbe alcun senso se il
legislatore nutrisse una incondizionata fiducia nello spontaneo adempimento dello stesso dalle parti.
Dunque è vero che statisticamente la maggior parte dei contratti sono adempiuti spontaneamente dalle
parti, ma questo avviene per le ragioni anzidette. L’effettivo ricorso alla tutela giurisdizionale per garantire
l’effettività della promessa è una evenienza, ma la coercibilità è un attributo permanente del contratto.

A riprova di questo collegamento tra validità e tutela giurisdizionale vi è il fatto che se si adisse il giudice per
l’adempimento di un contratto giuridicamente invalido, tale domanda sarà rigettata, perché il contratto non
rispettando le condizioni di cui all’art. 1325 non consegue l’efficacia di cui all’art. 1372.

Questo schema si applica anche a quella forma di tutela che si realizza mediante la trascrizione nei pubblici
registri immobiliari: anche nel caso della trascrizione, l’accesso alla trascrizione è consentito soltanto a chi
sia in possesso di un titolo valido, dotato della forza di legge sulle parti.

La tutela giurisdizionale, ma anche quella assicurata per il tramite della trascrizione, rappresentano il
momento in cui l’ordinamento si rende concretamente visibile alle parti: fino a quando non si ricorre a tali
strumenti di tutela, la legge si manifesta solo come validità ancorché in forma astratta, il manifestarsi
dell’ordinamento è circoscritto alla sfera della pura idealità. Quando si passa a parlare della tutela,
l’ordinamento scende in campo visibilmente, per esempio attraverso la presenza del giudice.

LEZIONE 3
30/09/2020

Il ricorso all’autorità giudiziaria avviene per tramite di una domanda la cui forma e il contenuto sono
disciplinati dal codice di procedura civile.
Della domanda del creditore insoddisfatto interessa in questa sede mettere in evidenza due elementi:
- L’affermazione del creditore che dice di essere titolare del diritto nei confronti del debitore, il
soddisfacimento di questo requisito (condizione dell’azione, c.d. legittimazione ad agire), richiede
che il creditore indichi il titolo da cui origina il diritto di cui paventa la lesione e afferma di essere
titolare. A proposito della legittimazione ad agire, questo requisito è irragirabile, è una regola di
carattere generale che patisce di alcune eccezioni attraverso il fenomeno di sostituzione processuale
(art. 81 c.p.c.), che si verifica nei rari casi in cui a taluno è consentito di agire in giudizio per la tutela
di un diritto altrui. Secondo l’opinione dominante il caso più eclatante è l’azione surrogatoria (ex art.
2900 c.c.).
- L’ulteriore requisito è rappresentato dal requisito dell’interesse ad agire. Per esempio il creditore che
aveva interesse a ricevere l’adempimento a ricevere la prestazione, che si trasforma in interesse ad
agire nel momento in cui il debitore non adempie, per cui questa volta interverrà il giudice con
provvedimento. Questa indicazione è necessaria, perché altrimenti la sede giudiziaria sarebbe
limitata ad essere sede di accertamento della titolarità del diritto (legittimazione ad agire). La
giurisdizione però presuppone una controversia, cioè che il titolare del diritto abbia subito una
aggressione che mette a repentaglio la soddisfazione dell’interesse cui è preordinato lo stesso diritto
soggettivo. Questa aggressione può avere svariate forme, nel caso del diritto di credito per esempio
quella dell’inadempimento. L’aggressione è ciò che fonda la lite, per cui se non vi è non vi è neppure
controversia e quindi non ci sono le condizioni per adire l’autorità giudiziaria.
Attorno a questi due elementi ruota tutta la dialettica processuale:
• in una prima fase, si tratterà di accertare se il diritto vantato dall’attore esiste o non esiste (è una
condicio sine qua non del processo); il debitore può contestare questo diritto dicendo che questo
diritto non è mai venuto ad esistenza (per esempio il titolo è nullo), oppure può contestare, non già
l’esistenza del diritto, quanto più la circostanza che il diritto sia ancora in essere (per esempio perché
sostenga vi sia stata compensazione, adempimento, impossibilità sopravvenuta o rimessione). Dal
punto di vista dell’onere della prova questi due scenari differiscono: nel primo caso (negazione
dell’esistenza del diritto) sarà il creditore a dover provare che il titolo invece è valido, nelle altre
ipotesi sarà il debitore a dover provare i fatti estintivi dell’obbligazione eccepiti. Questo avviene in
virtù del c.d. principio di prossimità della prova.
• In una seconda fase, accertata l’esistenza del diritto, bisogna vedere se ricorrono le condizioni
prospettate dall’interesse ad agire. Non è detto che ogni volta che il debitore non esegua la
prestazione questo sia un inadempimento in senso proprio: es. l’obbligazione è sottoposta a termine
(art. 1183), il termine può essere posto a favore del debitore, significa che fino a quando il termine
non viene a maturazione il creditore non può esigere la prestazione, per cui la mancata esecuzione
in pendenza del termine non è tecnicamente un inadempimento. Non è, dunque, scontato che la
legittimazione ad agire implichi anche l’interesse ad agire.
Un processo, anche quando la materia del contendere sia semplice, è sempre più complicato rispetto a
questa sintetica illustrazione. Supponendo che le due condizioni siano soddisfatte, l’attore potrà ottenere dal
giudice il provvedimento richiesto. All’origine del processo ci sta un inadempimento: come si fa ad avviare
alla circostanza che l’adempimento è un comportamento in piena disponibilità del debitore? Siamo in una
situazione per cui la tutela giurisdizionale del credito funzioni ci deve essere qualcuno che non sia il debitore
esegua le attività che avrebbe dovuto eseguire il debitore. Per fare ottenere al creditore ciò che doveva
ottenere dallo spontaneo comportamento del debitore bisogna procurare al creditore ciò che gli spetta.
Questo doversi immergere nella realtà materiale, fa sì che il provvedimento che accoglie una domanda di
questo tipo è un provvedimento che di per sé non può ottenere questo risultato: il provvedimento è un
provvedimento giuridico con effetti giuridici, per cui questi effetti non possono essere materiali. Non è solo
per il fatto che vi sia stato un provvedimento che il creditore verrà soddisfatto nella sua pretesa. Il
provvedimento in questione, dunque, conclude la fase di questa complessa vicenda, che corrisponde al c.d.
processo di cognizione (e il provvedimento è il c.d. sentenza di condanna).
È evidente che la sentenza di condanna conclude una fase della vicenda ma non l’intera vicenda. Poiché si
procuri al debitore quello che gli spetta è necessario aprire un ulteriore capitolo: l’esecuzione forzata.
Il rapporto tra sentenza ed esecuzione forzata è molto stretto: lo si deduce ex art 474 c.p.c.

ART. 474 – TITOLO ESECUTIVO L’esecuzione forzata non può avere luogo che in virtù di un titolo esecutivo per
un diritto certo, liquido ed esigibile.
Sono titoli esecutivi:
1) le sentenze, i provvedimenti e gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia
esecutiva; […]

La sentenza di condanna produce l’effetto giuridico della conversione di questa in titolo esecutivo, che
consente di avviare la seconda fase della vicenda, che prende il nome di processo esecutivo in due forme. È
evidente che se anche a seguito della condanna il debitore non esegue comunque la prestazione si pone il
problema di prelevare forzosamente dal suo patrimonio il bene spettante al creditore. Questa intrusione
nella sfera possessoria del debitore non può essere compiuta in proprio dal creditore, perché si incorrerebbe
nella violazione della regola che vieta al consociato di farsi ragione da sé: anche la fase esecutiva, nella quale
si attua il comando contenuta nella sentenza del giudice che prenderà il posto del titolo originario, è
necessaria. Il processo esecutivo è destinato a culminare nell’ingresso dell’ufficiale giudiziario nel possesso
del bene che spetta al creditore, questo nel caso dell’esecuzione in forma specifica. Questa è una
rappresentazione molto elementare.
Può anche accadere che il credito chieda in luogo di una somma di denaro l’appropriazione del bene
espropriato.
Indipendentemente dal modo in cui si sviluppa tale vicenda, in ogni caso sempre si verificherà questa
legittima inclusione degli organi della procedura esecutiva nella sfera possessoria del debitore.
Questa è una forma di c.d. tutela di condanna, cui bisogna ricorrere quando il rimedio all’inosservanza del
debitore richiederà la necessità di violare la sfera possessoria della controparte, ovvero quando la
prestazione dovuta dal soggetto che si è reso responsabile dell’illecito implichi un’attività materiale.
Non sempre è la domanda di tutela assume la forma della tutela di condanna. Vi sono ipotesi nelle quali la
domanda di tutela dell’attore viene posta da un provvedimento che non richieda la fase esecutiva. Queste
sentenze sono in grado da sole di soddisfare l’interesse dell’attore.

Si è usato come esempio il caso paradigmatica dell’inadempimento del debitore. Tuttavia, bisogna badare
che la tutela di condanna non è a servizio dei soli diritti di credito, ma anche per esempio può servire anche
i diritti reali. Il caso classico è quello dello spoglio: quando il proprietario venga privato della materiale
disponibilità del bene oggetto del suo diritto. In questo caso il proprietario ex art. 948 agisce per rivendica e
ha diritto alla restituzione di un bene illegittimamente tolto dalla sua disponibilità di un terzo. Anche in questo
caso ci devono essere le due fondamentali condizioni (legittimazione ad agire e interesse ad agire). Anche la
sentenza di questo processo di cognizione non ha il potere di reintegrare l’attore nel possesso e nella piena
disponibilità del bene. Anche in questo caso sarà necessario l’intervento degli organi della procedura
esecutiva.
LEZIONE 4
05/10/20

Si è visto che la caratteristica principale della tutela di condanna è l’inidoneità del provvedimento del giudice
a soddisfare fino in fondo la domanda di tutela attorea.
La sentenza di condanna può spiegare solo effetti giudica, può solamente costituirsi in titolo esecutivo e
quindi supportare l’azione esecutiva.

Vi sono dei casi, invece, nei quali questo problema non si pone, perché la sentenza che conclude il processo
di cognizione è in grado di assicurare il bene della vita che lo ha spinto a chiedere la tutela giurisdizionale.
Questo avviene quando la domanda di pretesa dell’attore avviene per il solo tramite dell’accertamento del
diritto.
L’accertamento del diritto è tipico del processo di cognizione, il cui scopo è accertare l’esistenza o inesistenza
di un diritto soggettivo, e questo è un fenomeno che ricorre quale che sia la forma del processo, ricorre anche
in caso di sentenza di condanna.
È necessario che il diritto di cui l’attore affermi di essere titolare sia effettivamente esistente. L’accertamento
del diritto, la circostanza che venga corroborata l’affermazione effettuata dall’attore nella formulazione della
domanda, è una costante del processo quale che sia la forma di tutela.

Nel caso della tutela di condanna l’accertamento del diritto non è sufficiente, perché bisognerà verificare se
si sono verificati dei fatti che abbiano impedito all’attore di fruire del diritto di cui reclama la tutela. Questo
corrisponde alla verifica dell’interesse ad agire nel caso di tutela di condanna.
La contestazione del diritto deve essere attuale, non basta il timore che il debitore per esempio non adempia,
questo non basta per un titolo esecutivo.
Comunque, dunque, l’accertamento del diritto è una costante del giudizio di cognizione.

Tuttavia, si danno dei casi nei quali l’accertamento del diritto è sufficiente a soddisfare la domanda di tutela
dell’attore, si tratta della c.d. tutela di mero accertamento.
Mentre nel caso della tutela di condanna l’accertamento non soddisfa la domanda di tutela dell’attore, in
questi casi invece non si necessita di un ulteriore segmento e l’accertamento è autosufficiente, in genere
quest’ulteriore segmento è rappresentato dall’accertamento del fatto (inadempimento, spoglio…).

Ipotesi di tutela di mero accertamento:


1. Art. 949 c.c. – AZIONE NEGATORIA Il proprietario può agire per far dichiarare l’inesistenza dei diritti affermati
da altri sulla cosa quando ha motivo di temerne pregiudizio.
Se sussistono turbative o molestie, il proprietario può chiedere che se ne ordini la cessazione, oltre la condanna
al risarcimento del danno.
Mentre l’azione di rivendicazione ha la forma di tutela di condanna nel caso di spoglio, l’azione negatoria è
un caso nel quale la ragione del proprietario viene soddisfatta attraverso il mero accertamento del diritto. Il
primo comma dell’art. 949 c.c. presenta una formulazione incompleta perché è come se la disposizione fosse
stata pensata dal punto di vista del convenuto. In realtà, le situazioni nelle quali interviene questa azione
sono fondamentalmente due: quella adombrata dallo stesso art. 949 (Tizio è proprietario del fondo e Caio
affermi di essere titolare di un diritto reale minore su quel fondo; oppure il terzo, Caio, afferma di essere
titolare del fondo). Nell’art. 949 fa riferimento al pregiudizio derivante da questa incertezza, che può essere
rimediata tramite l’accertamento giuridico della titolarità del diritto. In questo tipo di tutela i due segmenti
vengono risolti con il solo accertamento del diritto, che neutralizza la contestazione che deve essere attuale,
altrimenti si difetterebbe di interesse ad agire. Così si tocca la forza dell’accertamento, così come previsto
dall’art. 2909 c.c. che ci dice che la sentenza passata in giudicato “fa stato a ogni effetto”. Questo è un profilo
sostanziale, diverso da quello del profilo formale ed endo-processuale previsto dal c.p.c., nel 2909 si
prescinde dal fatto che la sentenza sia impugnabile o meno. Nel caso della tutela di mero accertamento
accade che la sentenza, dotata di efficacia ex art 2909, solo che nel caso della sentenza di condanna perché
si possa ottenere piena tutela è necessario un quid pluris con un ordine di cessazione della condotta
ostruzionistico o l’ordine di agire in surroga da parte del giudice dell’esecuzione, disponendo così il prelievo
coattivo del bene del patrimonio del convenuto che spetta all’attore.
2. Art. 1012 c.c. – USURPAZIONE DURANTE L’USUFRUTTO E AZIONI RELATIVE ALLE SERVITU’ Se durante
l’usufrutto un terzo commette usurpazione sul fondo o altrimenti offende le ragioni del proprietario,
l’usufruttuario è tenuto a fargliene denunzia e, omettendola, è responsabile dei danni che eventualmente siano
derivati al proprietario.
L’usufruttuario può fare riconoscere l’esistenza delle servitù a favore del fondo o la inesistenza di quelle che si
pretende di esercitare sul fondo medesimo; egli deve in questi casi chiamare in giudizio il proprietario.
L’usufruttuario ha interesse all’accertamento dell’esistenza del diritto di servitù che gravi sul fondo oggetto
del suo diritto. Non si fa espresso riferimento al pregiudizio al primo comma perché si ricollega al primo
comma del medesimo articolo, dove si prevede diversa ipotesi, in cui non si mette in dubbia l’esistenza del
diritto ma adottando comportamenti contrari.
3. Art. 1079 c.c. – ACCERTAMENTO DELLA SERVITU’ E ALTRI PROVVEDIMENTI DI TUTELA Il titolare della servitù
può farne riconoscere in giudizio l’esistenza contro chi ne contesta l’esercizio e piò far cessare gli eventuali
impedimenti e turbative. Può anche chiedere la rimessione delle cose in pristino, oltre al risarcimento danni.
Sono messe insieme molestie di diritto e molestie di fatto. Concentriamoci sul primo tipo. Deve sempre
sussistere un interesse ad agire.

LEZIONE 5
06/10/20

SENTENZE COSTITUTIVE
Questa tassonomia a tre valori, per cui abbiamo sentenze di condanna, mero accertamento e costitutive, si
incrocia con altra classificazione, che è costruita a partire da un criterio almeno in parte diverso che è la
classificazione a due valori, tutela reale e tutela risarcitoria.

Per la sentenza di condanna il profilo fondamentale è quella di trasformarsi in titolo esecutivo.


Nel caso della sentenza di mero accertamento, questa è una sentenza che solo in virtù del giudicato già è in
grado di assicurare all’attore ciò che l’attore ambiva ad ottenere quando ha intrapreso l’azione giudiziaria,
per cui si è nell’ambito delle sentenze autosufficienti.

La terza tipologia di sentenze è quella delle sentenze costitutive, di cui si occupa l’art. 2908 c.c.:
Art. 2908 c.c. – EFFETTI COSTITUTIVI DELLE SENTENZE Nei casi previsti dalla legge, l’autorità giudiziaria può
costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici, con effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa.
Questa definizione delle sentenze costitutive prevede che esse siano ammissibili solo se ammesse dalla legge.
La ragione di questa regola è facilmente ricostruibile: già la lettera di questo articolo dovrebbe far pensare
ad un’analoga definizione che riguarda la definizione del contratto ex art. 1321.
Art. 1321 c.c. – NOZIONE DI CONTRATTO Il contratto è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o
estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale.
L’ambito del contratto è meno esteso di quello della sentenza, perché riguarda solo rapporti giuridici
patrimoniali. Dal confronto con questo articolo si evince che la costituzione, la modificazione e la regolazione
di rapporti giuridici patrimoniali tra privati è prerogativa del contratto. Da qui la limitazione ai soli casi previsti
dalla legge, perché la funzione costitutiva è tipica dell’atto di autonomia contrattuale, effetto tipico del
contratto. Il giudice deve intervenire quando qualcosa si “guasta”. La legge costituisce le istruzioni
dell’autonomia privata, poi può succedere che le parti seguendo le istruzioni ex art. 1325 c.c. o ex art. 1322
c.c., se tali istruzioni non sono state seguite allora ci si ricollega all’art. 1372 e il contratto dispiega i suoi
effetti, diversi a seconda del tipo di contratto.
Il ruolo del giudice è quello di intervenire quando una delle parti non mantiene gli impegni assunti, e
impedisce il soddisfacimento degli interessi al quale il contratto era preordinato. Il giudice ripristina la
funzionalità dell’atto di autonomia privata, non lo crea, in quanto questa è prerogativa dell’azione combinata
di legge e autonomia privata.
Per questo vi è la clausola “Nei casi previsti dalla legge” all’inizio dell’art. 2908.

In realtà, la sentenza costitutiva è una sentenza che interviene sempre in funzione della domanda di tutela
avanzata dall’attore; e chiaramente il ricorso alla giurisdizione avviene per tutelare un diritto soggettivo,
come emerge anche dall’art. 24 Cost.
Art. 2907 c.c. – ATTIVITA’ GIURISDIZIONALE Alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità
giudiziaria su domanda di parte […]
L’Art. 2907 presuppone che il diritto soggettivo preesista all’attività giurisdizionale, che non può crearli.
Quindi bisogna intendere la costitutività delle sentenze in modo compatibile con la previsione dell’art. 2907.
La sentenza in qualche modo surroga, in senso molto ampio, l’andamento del rapporto di autonomia privata
incanalandolo verso l’esito auspicato dalle parti, segnatamente quello auspicato ma non raggiunto
dall’attore.

Art. 2932 c.c. – ESECUZIONE SPECIFICA DELL’OBBLIGO DI CONCLUDERE UN CONTRATTO Se colui che è
obbligato a concludere un contratto non adempie l’obbligazione, l’altra parte, qualora sia possibile e non sia
escluso dal titolo, può ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso.
Tipica ipotesi di sentenza costitutiva è quella ex art. 2932 c.c.. Si parla di sentenza che produca gli effetti del
contratto non concluso. L’antefatto è che l’autonomia privata abbia fatto ricorso allo strumento del
contratto. Questo rimedio si applica anche quando la fonte dell’obbligazione in questione sia legale e non
contrattuale. Il contratto preliminare è un atto grazie al quale due soggetti in qualche modo si assicurano la
disponibilità reciproca a concludere l’affare, differendo il momento di conclusione dello stesso (perché ad es.
il bene non è ancora nella disponibilità della parte, o l’altra parte non ha risorse necessarie a concludere
l’affare). Importante applicazione è il compromesso, cioè il contratto preliminare di compravendita.
Se Tizio e Caio stipulano un compromesso e al sopraggiungere della data concordata per stipulare il contratto
definitivo, allora il contratto di compravendita spiegherà i suoi effetti. Potrebbe accadere che nella data
stabilita il promittente debitore non si presenti e quindi il contratto non venga stipulato. Il problema pratico
è che la prestazione che avrebbe dovuto consentire la stipula del definitivo (il trasferimento del diritto) e
quindi la realizzazione dell’interesse fondamentale non è una prestazione che può essere in alcun modo
surrogata forzosamente (a differenza delle altre ipotesi di esecuzione in forma specifica, in cui si è in presenza
di una comune sentenza di condanna).
Nel caso della prestazione del consenso, non ci può essere surrogazione e non può essere coartata perché il
contratto sarebbe viziato. Allora il rimedio è la previsione di una sentenza che produca gli stessi effetti del
contratto di compravendita che fosse stato realmente e regolarmente concluso.
A differenza delle altre ipotesi di esecuzione in forma specifica, nel caso dell’obbligo di concludere un
contratto la prestazione è infungibile. Questa difficoltà è superata tramite la sentenza che produce gli stessi
effetti del contratto non concluso. Mentre qualsiasi altro debitore vive nell’incubo dell’esecuzione, il debitore
la cui prestazione consiste nella prestazione del consenso è un debitore “privilegiato”, perché la cosa
peggiore che gli possa capitare è di dover risarcire il danno, misura puramente pecuniaria e in qualche modo
prevedibile dal debitore, così da scoprire che non adempiere potrebbe risultare per lui vantaggioso.
Es. se dovendo stipulare il definitivo preveda un’offerta da 100.000 euro e che il venditore riceva un’offerta
da 500.000 euro e che il risarcimento danni ammonti a 300.000 euro è chiaramente vantaggioso non
adempiere al primo affare.
Con la sentenza che sostituisce gli effetti del contratto questo calcolo diventa meno realistico, anche se
potrebbe accadere che si alieni indipendentemente dalla sentenza prima della stipula del definitivo ad un
terzo e non si darebbe spazio neanche alla tutela costitutiva: il bene è uscito dal patrimonio dell’alienante.
Tant’è vero che contro possibili astuzie non commendevoli dal punto di vista morale e giuridico, è stata
introdotta la possibilità di trascrivere contratti preliminari, che è forse l’unico caso di trascrizione di un atto
con semplici effetti obbligatori. Attraverso la tempestiva trascrizione del preliminare, il definitivo quando
venga stipulato retroagisce i suoi effetti al momento della trascrizione del preliminare. In gergo si dice che la
trascrizione preliminare ha un’efficacia “prenotativa”, e inoltre quando il promittente non si presti alla stipula
del definitivo, avendo alienato a un terzo il bene piuttosto che al il promissario originario, tramite la
trascrizione del preliminare anche gli effetti della sentenza ex art. 2932 retroagisce al momento della
trascrizione del preliminare. Dunque il diritto soggettivo preesiste alla sentenza che produce gli stessi effetti
del contratto definitivo. Si consente così di arrivare al fine programmato dalle parti attraverso al ricorso allo
strumento che ha gli effetti che avrebbe dovuto scaturire dal contratto che si sarebbero prodotti se il
promittente venditore avesse adempiuto all’obbligazione.
La sentenza agisce dunque da titolo traslativo, ma in ogni caso questa sentenza si colloca sulla scia del
contratto definitivo non adempiuto.

Applicazione contigua a quella appena illustrata si trova all’art. 1032 c.c.


Art. 1032 c.c. – MODI DI COSTITUZIONE DI SERVITU’ COATTIVE Quando, in forza di legge, il proprietario di
un fondo ha diritto di ottenere da parte del proprietario di un altro fondo la costituzione di una servitù, questa,
in mancanza di contratto, è costituita con sentenza. […]
Qui la differenza fondamentale rispetto all’art. 2932 è che in quel caso il diritto tutelato rispetto alla sentenza
costitutiva è il diritto di credito alla stipula del definitivo. In questo caso il diritto tutelato è quello di
costituzione della servitù, che può considerarsi in qualche modo diritto di credito, anche se la costituzione
per contratto della servitù non muta la qualificazione “coattiva” della servitù.
La vera fondamentale differenza tra le due ipotesi è che mentre nel caso dell’art. 2932 il diritto tutelato trova
fondamento in un atto preliminare, nell’art. 1032 trova il suo fondamento nella legge, è un diritto che il
proprietario del fondo destinato a dominare trova nella legge. Anche in questa circostanza, il giudice, quando
emette la sentenza costitutiva della servitù non crea il diritto, perché il diritto da tutelare (diritto alla
costituzione della servitù) è un diritto preesistente al processo, rispettando il principio ex art. 2907. Il diritto
alla costituzione della servitù si può tutelare solo tramite costituzione della servitù.
Nonostante sembri che è la sentenza a creare il diritto, in realtà il diritto è strumentale alla tutela dello stesso
diritto dedotto in giudizio, che è preesistente. Anche in questo caso il giudice interviene per riparare un
guasto, non è un artefice del risultato.

LEZIONE 6
07/10/20

La tassonomia delle tipologie di sentenze è fondata sugli effetti che producono. Si parlerà anche delle forme
di tutela non dal punto di vista degli effetti, ma dal punto di vista della funzione che la tutela svolge rispetto
al diritto dedotto in giudizio. La coppia sulla quale si regge la distinzione in funzione del tipo di tutela è
rappresentata dalla tutela reale contrapposta alla tutela risarcitoria. Si può includere anche la tutela
invalidatoria (o in senso più ampia rescissoria).
Queste due tassonomie si incrociano: ci possono essere ad es. tutele di condanna o funzionali alla tutela reale
o risarcitoria…
L’unico caso in cui vi è una perfetta corrispondenza, in cui non vi sono margini di incrocio, è il caso della tutela
di mero accertamento che sono sempre strumentali a una tutela reale.
La tutela costitutiva, si è visto che per i casi analizzati il diritto che viene costituito dalla sentenza, che è un
diritto nuovo, si è in presenza di un diritto la costituzione del quale ad opera del processo è funzionale alla
tutela di un diritto preesistente il processo stesso.

Altre applicazioni della tutela costitutiva:


• Art. 1453 c.c. – RISOLUBILITA’ DEL CONTRATTO PER INADEMPIMENTO Nei contratti con prestazioni
corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro piò a sua scelta chiedere
l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno. […]
Questa disposizione contempla due rimedi distinti e radicalmente alternativi: azione di adempimento da un
lato, azione di risoluzione dall’altro. Un punto importante è che la risoluzione è un rimedio che si applica
soltanto ai contratti a prestazioni corrispettive.
L’azione di adempimento di per sé, a parte il valore sistematico della disposizione perché è una delle poche
disposizioni in cui si allude alla possibilità del creditore di “strappare” la prestazione al debitore
inadempiente, è un rimedio imminente al rapporto obbligatorio: tutti i creditori possono agire per
l’adempimento dell’obbligazione in caso di inadempimento, dimostrato dalle norme in materia di esecuzione
forzata, per cui il creditore si deve essere munito di un titolo (sentenza di condanna). Si tratta di un rimedio
che fisiologicamente inerisce al rapporto obbligatorio. L’esercizio di questa azione si inscrive nel contesto di
un rapporto obbligatorio a prestazioni corrispettive, per cui se il creditore agisce per adempimento e ottiene
la condanna della controparte, che la prestazione gli arrivi per adempimento spontaneo o per esecuzione
forzata comunque il debitore è tenuto ad eseguire la prestazione: non si è liberati dall’obbligo della
prestazione anche se la controparte è inadempiente. Significa che il sinallagma va mantenuto da entrambe
le parti. Dunque, si può dire che chi agisce in adempimento agisce nella veste di creditore, pur potendo essere
a sua volta debitore.
Nel caso della risoluzione, chi agisce ha l’obiettivo contrario di chi agisce per adempimento: chi agisce in
risoluzione vuole sbarazzarsi del contratto e ottenere lo scioglimento dello stesso.
Mentre nel primo caso il contraente ribadisce la sua veste di creditore e agisce per l’adempimento (il che
comporta che il sinallagma venga rispettato, per cui il “creditore” deve a sua volta adempiere); nel secondo
caso il contraente rimane contraente che ha come unico interesse quello di liberarsi del contratto, ovvero
privare il contratto della forza di legge riconosciuta al contratto ex art. 1372 c.c., con il vantaggio di uno
scioglimento che opera nei confronti di entrambe le parti.
Nella risoluzione accade che si libera il contraente che ha subito inadempimento ma anche il contraente
inadempiente. L’interesse pratico che può indurre il contraente a voler sciogliere il contratto è quello di
essere a propria volta liberati dall’obbligo di eseguire la prestazione. Esempio dell’interesse: Tizio tipula con
banca X un contratto di mutuo. Tizio preventiva una spesa di 10.000 euro di interessi e la banca tarda ad
eseguire la prestazione. Nel frattempo Tizio ha la possibilità di investire i 10.000 euro per acquistare uno
strumento finanziario con un rendimento nell’arco di un anno pari alla somma capitale che la banca avrebbe
erogato e dunque Tizio sottrae al contratto di mutuo la somma inizialmente investita nello stesso contratto
per procurarsi il denaro, recupera la piena disponibilità della risorsa e la investe nell’alternativa per lui più
conveniente. C’è alla base la volontà del contraente frustrato di recuperare la somma investita come
corrispettivo della prestazione non ricevuta, perché la controparte si è rivelata inadempiente. Se
l’adempimento è più efficiente chiaramente agirà per l’adempimento, se invece la conservazione del
contratto (che comporta la controprestazione) non è più efficiente perché destinare le risorse al mercato è
più conveniente si intraprende la strada della risoluzione.
Chiarite queste differenze tra le due azioni, bisogna vedere quale diritto il contraente deduca quando opti
per la risoluzione. Per quanto riguarda l’azione di adempimento è ovvio: il contraente agisce in veste di
creditore e dunque deduce un diritto di credito, e dunque l’interesse ad agire è rappresentato
dall’inadempimento della controparte.
Per quanto riguarda la risoluzione, la risposta più convincente e dominante, il contraente fedele che decida
di agire in risoluzione fa valere un diritto potestativo. Un diritto potestativo è quello il cui esercizio consente
di modificare la situazione giuridica della controparte senza che questa possa opporsi. Per esempio, un caso
classico di diritto potestativo è il diritto di recesso.
Tuttavia, rispetto al caso del recesso, che è vicino a quello della risoluzione per cui è identico l’effetto, nel
caso della risoluzione c’è un problema: questo diritto potestativo può essere azionato efficacemente soltanto
se la controparte sia inadempiente, che è fondamento stesso del diritto potestativo.
Ulteriore requisito della risoluzione ex art. 1453 è dato dall’art. 1455 c.c.
Art. 1455 c.c. - IMPORTANZA DELL’INADEMPIMENTO Il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di
una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra.
Non deve essere un inadempimento generico della controparte, è necessario anche che questo
inadempimento non deve essere di scarsa importanza tenuto conto dell’interesse del contraente non
inadempiente. Si deve trattare di un inadempimento di importanza, altrimenti non si vede la ragione per
sottrarsi al vincolo contrattuale (ad esempio un giorno di ritardo nella prestazione non giustificherebbe
l’esercizio dell’azione che apparirebbe pretestuoso).
A differenza del recesso dunque, nel caso della risoluzione non può essere “ad nutum”, si deve accertare un
inadempimento grave e importante tenuto conto dell’interesse per cui si agisce in risoluzione. Questo
accertamento non può che essere svolto dal giudice, da qui la necessità che la risoluzione scaturisca da una
sentenza. Questo spiega perché in casi di questo genere, non è possibile ottenere l’effetto dello scioglimento
del contratto senza una pronunzia del giudice. Questa pronunzia ha una efficacia costitutiva, anche se in
senso lato: si tratta di efficacia costitutiva con effetti estintivi, in quanto estingue il vincolo contrattuale.
La sentenza di risoluzione si comporta di un diritto potestativo, ma non è possibile applicazione extra-
giudiziale di questo diritto potestativo: è un diritto potestativo esercitato sotto giudiziario controllo.

Analizziamo la differenza con la risoluzione contrattuale per inadempimento prevista dall’art. 1453, con
quella prevista all’art. 1456 c.c.
• Art. 1456 c.c. – CLAUSOLA RISOLUTIVA ESPRESSA I contraenti possono convenire espressamente che il
contratto si risolva nel caso che una determinata obbligazione non sia stata adempiuta secondo le modalità
stabilite.
In questo caso, la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara all’altra che intende valersi
della clausola risolutiva.
La differenza rispetto all’ipotesi dell’art. 1453 è che qui a monte, le parti di comune accordo hanno
individuato le condizioni in presenza delle quali potrà ottenersi ad opera della parte adempiente lo
scioglimento del contratto. Vi è una clausola che descrive analiticamente le condizioni in presenza delle quali
l’obbligazione è adempiute o altrimenti quasi ipso iure si ha risoluzione del contratto (quasi per via della
previsione del secondo comma). Al secondo comma si dice che il contraente adempiente si deve volere
avvalere della clausola. Per cui non vi è intermediazione dell’autorità giudiziaria.
Il recesso è libero nella misura in cui le parti ne abbiano prevista la possibilità nel momento della
predisposizione del regolamento contrattuale. Nella risoluzione per inadempimento l’esercizio del diritto è
sottoposto al controllo del giudice. A metà tra i due estremi si colloca quella ex art. 1456: si tratta di una sorta
di recesso vincolato all’osservanza delle condizioni stabilite dal contratto, quindi che effettivamente la
prestazione non sia stata eseguita secondo le modalità stabilite dal contratto. Se le parti hanno ex ante
stabilito cosa sia inadempimento e quindi le condizioni di scioglimento legittimo del contratto viene meno
l’utilità del controllo del giudice. Anche in questa ipotesi ci potrebbe essere una coda giudiziale, quando la
parte che abbia subito il recesso contesti che effettivamente si siano date le condizioni della clausola del
contratto. A questo punto si determina un conflitto tra le parti che non potrà che essere deciso da un giudice.
È interessante notare che quando si verifica una situazione, la pronuncia che risolve questa controversia non
è una pronuncia costitutiva ma è una sentenza di mero accertamento, sulla esistenza o non esistenza sulle
condizioni che il contratto prevedeva per un utile esercizio del diritto potestativo di risoluzione e,
contestualmente alle condizioni, accerterà lo scioglimento del vincolo.
LEZIONE 7
12/10/20

Una delle applicazioni più comuni del rimedio ex art. 2932 è quella relativa al preliminare non adempiuto.
Qui la tutela costitutiva è posta a tutela del diritto di credito.
Nel caso dell’art. 1453 la tutela è posta al servizio del diritto potestativo del contraente di chiedere la
risoluzione del contratto quando la controparte non abbia erogato la prestazione di sua competenza. Qui la
sentenza elimina uno stato di cose giuridico, segnatamente elimina il contratto nella sua dimensione di forza
di legge tra le parti.
Ci sono diritti potestativi autosufficienti: es. il recesso ad nutum. Lo è anche quello contemplato ex art. 1456
dove il contraente può attivare autonomamente la clausola risolutoria e ottenere scioglimento del contratto
senza che sia necessario il ricorso al giudice ed eventuale sentenza sarebbe di mero accertamento. Nel caso
dell’art. 1453 infatti bisogna accertare l’importanza dell’inadempimento, altrimenti sarebbe un recesso e non
risoluzione per inadempimento e perciò è necessario il ricorso al giudice.
Bisogna porre l’accento sull’estrema versatilità del rimedio costitutivo: la sentenza costitutiva può trasferire
la titolarità di un diritto, rimuovere la forza di legge del contratto (costitutività estintiva). Questa versatilità
del rimedio costitutivo risalta rispetto alla rigidità delle altre due forme di tutela.
La tutela costitutiva condivide con quella di mero accertamento dell’autosufficienza. Quella di condanna
infatti per essere piena necessita dell’esecuzione.
La tutela costitutiva è molto più duttile rispetto a quella di mero accertamento. Questo accade perché la
tutela costitutiva in qualche modo mima l’autonomia privata: si è fatta notare l’assonanza tra l’art. 1321 e
l’art. 2907.

Ulteriore impiego del rimedio costitutivo è quello dell’azione revocatoria ordinaria ex artt. 2901-2902.
Art. 2901 c.c. – CONDIZIONI Il creditore, anche se il credito è soggetto a condizione o a termine, può dichiarare
che siano dichiarate inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione del patrimonio coi quali il debitore rechi
pregiudizio alle sue ragioni, quando concorrono le seguenti condizioni:
1) che il debitore conoscesse il pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni del creditore o, trattandosi di atto
anteriore al sorgere del credito, l’atto fosse dolosamente preordinato al fine di pregiudicarne il soddisfacimento;
2) che, inoltre, trattandosi di atto a titolo oneroso, il terzo fosse consapevole del pregiudizio e, nel caso di atto
anteriore al sorgere del credito, fosse partecipe della dolosa preordinazione.
Agli effetti della seguente norma, le prestazioni di garanzia, anche per debiti altrui, sono considerate atti a titolo
oneroso, quando sono contestuali a credito garantito.
Non è soggetto a revoca l’adempimento di un debito scaduto.
L’inefficacia dell’atto non pregiudica i diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede, salvi gli effetti
della trascrizione della domanda di revocazione
L’azione revocatoria appartiene al genere dei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale. Questi
mezzi sono preordinati a conservare la garanzia patrimoniale di cui all’art. 2740.
Art. 2740 c.c. – RESPONSABILITA’ PATRIMONIALE Il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni
con tutti i suoi beni presenti e futuri. […]
Risponde con tutti i beni presenti e futuri, rispetto al momento in cui nasce il rapporto obbligatorio.
L’esigenza di dotare il creditore di strumenti che mantengano inalterato il patrimonio del debitore, non nel
senso strutturale, ma in senso funzionale: il debitore conserva il potere di “movimentare” in vario modo il
suo patrimonio, però questo deve avvenire entro il limite della conservazione della garanzia patrimoniale. È
La consistenza quantitativa del patrimonio che deve restare tale da poter soddisfare il creditore, altrimenti
vi è il rischio che il creditore, quando aggredisca il patrimonio del debitore, si ritrovi a scoprire che il
patrimonio del debitore sia insufficiente alla soddisfazione della sua pretesa. Per questo l’ordinamento
appresta vari rimedi tra cui l’azione revocatoria ordinaria, che ha una disciplina complessa perché deve
tenere conto di una serie di interessi. questo nasce dalla circostanza che la legge non ritiene di dover adattare
una misura draconiana di esproprio e di privazione del debitore dei poteri di movimentazione del patrimonio.
Questo comporterebbe un costo di funzionamento troppo elevato. La disciplina dell’azione revocatoria
rispecchia lo sforzo di trovare un punto di equilibrio tra esigenze diverse. Mentre nel caso dell’art. 2900 ci
sono due soggetti coinvolti, perché il terzo rispetto al creditore che agisce subisce l’esercizio dell’azione da
parte del creditore è pur sempre un soggetto legato da un rapporto al debitore. Dal punto di vista del terzo
in linea di massima la sua situazione non cambia, come nel caso della cessione per il debitore.
Nella revocatoria ordinaria, invece, la vicenda presupposta dal rimedio implica il coinvolgimento reale, e non
puramente nominale come nell’azione surrogatoria, di un terzo, che è l’avente causa dal debitore. L’atto del
debitore che modifica la composizione del suo patrimonio è un atto di disposizione posto in essere verso un
soggetto diverso dal suo creditore. Si tratta di trovare equilibrio tra queste tre posizioni che rispecchiano
interessi diversi:
• Interesse del creditore alla garanzia del patrimonio del debitore;
• Interesse del debitore a compiere movimenti con il suo patrimonio;
• Interesse del terzo a preservare la stabilità del suo acquisto.
Per quanto riguarda la disciplina delle condizioni in presenza delle quali la domanda di revoca dell’atto,
presuppone un pregiudizio esatto perché sia soddisfatto l’interesse ad agire, quindi ci vuole un pregiudizio
rispetto all’atto di disposizione del debitore verso il creditore. L’atto posto in essere dal debitore deve essere
autenticamente pregiudizievole per il creditore: riduzione della garanzia patrimoniale.
Allora il legislatore distingue in base a due criteri:
1) gratuità o onerosità dell’atto:
• se è a titolo gratuito, è evidente che la stabilità degli acquisti a titolo gratuito è tutelato meno,
perché il terzo non ha sopportato alcuno sforzo, quindi per il legislatore è una situazione
meno meritevole di tutela rispetto a quella del creditore. Allora andrà accertata la malafede
del debitore, che deve essere provata dal creditore.
• se è un atto a titolo oneroso il quadro è più esigente perché si ha la necessità di tutelare la
posizione del terzo che ha sopportato un sacrificio economico. Ha un interesse qualificato. Si
pensi ad una compravendita, in cui il debitore aliena un bene di cui è proprietario e il
compratore, terzo, corrisponde il prezzo. Il debitore allo stesso tempo è proprietario e in
quanto tale ha il diritto di disporre del bene. Sembrerebbe che qui non ricorra una reale
esigenza di revocazione dell’atto, perché la composizione quantitativa del patrimonio del
debitore rimane invariata. La ragione dell’azione revocatoria allora trova il suo fondamento
nel fatto che mentre il bene se e quando si tratterà di aggredirlo si saprà dove trovarlo, nel
caso di un cespite liquido le cose cambiano, perché il denaro è più facilmente occultabile.
Per rendere più snella la procedura esecutiva allora anche l’atto a titolo oneroso sarà
revocabile, perché ha comportato un mutamento della composizione qualitativa del
patrimonio del debitore che renderà più ardua in seguito la possibilità di portare
rapidamente a compimento la procedura esecutiva. In questo caso bisogna tenere conto
anche della posizione del terzo. Il legislatore allora esige che anche il terzo acquirente fosse
in mala fede: deve sapere che l’alienante ha dei debiti e che la trasformazione del cespite in
un cespite liquido che porterà difficoltà al creditore nel soddisfare il suo credito, allora il terzo
non sarà meritevole di tutela.
2) collocazione temporale dell’atto di disposizione, a seconda che avvenga prima o dopo l’insorgenza
del credito:
• se posto in essere dopo è sufficiente la malafede del solo debitore o anche quella del terzo.
• Se posto in essere prima il legislatore presume che questo atto sia fraudolento, cioè un atto
che il debitore ha posto in essere allo scopo di mettere in salvo il bene di modo da sottrarlo
da principio alla garanzia patrimoniale di cui gode il futuro creditore. Non è richiesta
malafede ma la “dolosa preordinazione”. È un requisito soggettivo. Anche in questo caso se
si tratta di atto a titolo gratuito è richiesta solo per il debitore, se si tratta di atto a titolo
oneroso allora deve sussistere anche per il terzo questo intento fraudolento.
LEZIONE 8
13/10/20

Art. 2902 c.c. – EFFETTI Il creditore, ottenuta la dichiarazione di inefficacia, può promuovere nei confronti dei
terzi acquirenti le azioni esecutive o conservative sui beni che formano oggetto dell’atto impugnato.
Il terzo contraente, che abbia verso il debitore ragioni di credito dipendenti dall’esercizio dell’azione revocatoria,
non può concorrere sul ricavato dei beni che sono stati oggetto dell’atto dichiarato inefficace, se non dopo che
il creditore è stato soddisfatto.
Questo articolo va letto in disposto con l’art. 2910 cod. civ.
Art. 2910 c.c. – OGGETTO DELL’ESPROPRIAZIONE Il creditore, per conseguire quanto gli è dovuto, può fare
espropriare i beni, secondo le regole stabilite dal codice di procedura civile.
Possono essere espropriati anche i beni del terzo quando sono vincolati a garanzia del credito o quando sono
oggetto di un atto che è stato revocato perché compiuto in pregiudizio del creditore.
Al primo comma vi è il potere del creditore di far espropriare i beni del debitore.
Il secondo comma, che a noi interessa di più, prevede il caso dell’atto revocato ex art. 2901.
Questa dilatazione del potere espropriativo del creditore fino ai beni di un terzo deriva dalla sentenza che
accoglie la domanda di revocazione dell’atto.
Quest’effetto è un effetto che innova rispetto allo stato di cose precedente, perché prima il potere
espropriativo era soltanto su beni oggetto della garanzia generica ex art. 2740 cioè sui beni presenti e futuri
del debitore. Qui invece il potere espropriativo ha i suoi effetti nei confronti di un terzo avente causa. È in
questo che la sentenza è costitutiva, nella forma della modificazione e ampliamento alla sfera patrimoniale
del terzo la garanzia patrimoniale che in origine era nei confronti del solo debitore, anche se tale potere è
limitato al bene oggetto dell’atto di disposizione, ma dal punto di vista giuridica si è davanti ad un aliquid
novi. Qui si annida l’effetto indiscutibilmente costitutivo della sentenza di cui si sta parlando.
Si dice che l’effetto della sentenza sarebbe quello di rendere inopponibile al creditore attore l’atto posto in
essere tra creditore e terzo.
C’è un soggetto qualificato nei confronti del quale quando sussistano i presupposti di cui all’art. 2901 per cui
l’atto è efficace inter partes ma non è opponibile al creditore: significa che il potere di fare espropriare i beni
oggetto della garanzia da parte del creditore a seguito dell’azione revocatoria si estende al bene oggetto
dell’atto di disposizione che ha trasferito il bene dal debitore al terzo.
Bisogna non confondere quest’ipotesi con quella del pignoramento verso i terzi (art. 543 c.p.c.): es.
l’amministrazione pubblica eroga lo stipendio allora il creditore fa pignorare lo stipendio presso il terzo,
quindi non aspetta che le somme dovute a titolo di stipendio vengano erogate al suo debitore. Ma per il terzo
non fa alcuna differenza in questo caso, non c’è alcun pregiudizio.

Strumentalità della sentenza alla surroga del comportamento del soggetto convenuto
Se il ricorso all’autorità giudiziaria è funzionale a un diritto soggettivo, di quale diritto soggettivo è strumento
di tutela la sentenza di accoglimento della domanda? Questo è stato agevole per esempio nel caso della
sentenza di condanna, che tutela il diritto di credito del creditore; del diritto di proprietà dedotto in giudizio
del proprietario che abbia subito lo spoglio.
La tutela di mero accertamento opera fondamentalmente a presidio delle situazioni reali, da escludere è
quella tutela di mero accertamento funzionale al diritto di credito.
Per quanto riguarda la tutela costitutiva, la sentenza può essere funzionale al diritto di credito (nel caso nel
compromesso inadempiuto). Anche la collocazione dell’art. 2932 ce lo conferma con la sua posizione nel
codice che si trova nella sezione dell’esecuzione forzata in forma specifica.
È facile in questi casi individuare il diritto di riferimento. Anche nel caso della servitù coattiva.
Un po’ più complesso può essere il caso di sentenza che accoglie domanda di risoluzione del contratto per
inadempimento, questo perché sembrerebbe venire meno il nesso che lega la sentenza all’esigenza di
sopperire al comportamento ostruzionistico del debitore all’adempimento. La sentenza scioglie il contratto
e non si vede il nesso tra la surroga che si vede nelle altre ipotesi della sentenza all’adempimento. Questo si
spiega perché la sentenza nel caso dell’azione di risoluzione non surroga un comportamento omesso da una
delle parti, qui paradossalmente la sentenza di accoglimento in qualche modo, non è da prendere alla lettera,
surroga il creditore, nel senso che il diritto dedotto in giudizio è un diritto potestativo autosufficiente. Al di
fuori del processo tale diritto si attua indipendentemente dalla cooperazione della controparte. I diritti
potestativi per loro natura sono autosufficienti, e spiega perché tra tutte le ipotesi la sentenza di risoluzione
non si atteggia a surroga del convenuto perché il modo di essere della sentenza di accoglimento è coerente
con il modo di essere del diritto dedotto in giudizio: il diritto di sciogliere il contratto non invoca la
cooperazione di un soggetto. Tuttavia, pur essendo un diritto potestativo necessita il ricorso all’autorità
giudiziaria, e quindi di una sentenza, perché la mediazione del giudice è necessaria: l’esercizio del diritto
potestativo sarà efficace solo se perorato dall’accertamento della gravità dell’inadempimento, che deve
essere necessariamente accertata da un giudice.
Strumentalità della sentenza alla surroga del comportamento del soggetto convenuto.
Nel caso dell’azione revocatoria ordinaria, l’effetto della sentenza è costitutivo, e il diritto dedotto in giudizio
è il diritto di credito, al quale diritto inerisce il potere di espropriazione dei beni del debitore, attraverso cui
si concretizza la responsabilità patrimoniale ex art. 2740. Il diritto di credito si adatta alle circostanze: se si
adempie spontaneamente il diritto di credito presenta la caratteristica dell’irripetibilità della prestazione
spontaneamente eseguita; nel caso di inadempimento assume le sembianze del potere di azione attraverso
il quale il creditore agisce per dotarsi, tramite la mediazione di un giudice, di un titolo esecutivo. Ma nel caso
di accoglimento della domanda di revocazione la sentenza non è di condanna, ma si tratta di sentenza
costitutiva che amplia il novero dei beni espropriabili dal creditore: siamo in presenza di una manifestazione
del potere espropriativo del creditore, che è uno dei modi di manifestarsi del diritto di credito. Solo che qui
il diritto di credito si avvale dalla garanzia che gli atti di disposizione del debitore non potranno diminuire la
sua garanzia patrimoniale. Il diritto di credito ha questa coloritura conservativa, ma sempre strumentale
all’espropriazione. A quel punto, una volta in possesso di questa sentenza, sulla base della sentenza di
condanna del debitore, e non del terzo (che non viene condannato), il creditore può fare espropriare il bene
alienato in ragione della sentenza costitutiva, che funziona come una sorta di titolo esecutivo verso il terzo.
Nella sentenza che accoglie l’azione di revocazione non vi è dubbio che il diritto dedotto in giudizio sia il
diritto di credito.
Naturalmente tutto questo accadrà nel presupposto che il debitore non adempia l’obbligazione, perché
quando adempia anche il terzo potrà tirare un sospiro di sollievo, quando non adempia invece il creditore
potrà agire ex art. 2901.

LEZIONE 9
14/10/20

Continuando con la tutela costitutiva si concentri l’attenzione su un ambito che presenta delle peculiarità: si
tratta delle ipotesi nelle quali il processo viene posto al servizio dell’evenienza di ottenere una sentenza che
“rimuova” un atto di autonomia privata (non necessariamente solo un contratto) che presenti delle anomalie,
cioè che non corrisponda al modello di contratto che l’ordinamento predispone nel fissare le condizioni di
validità del contratto. Sono le ipotesi del contratto nullo e annullabile. Sono le due forme di invalidità
principali che l’ordinamento disciplina nel libro IV del codice civile. Questa materia ha conosciuto varie
complicazioni per via dell’influenza del diritto europeo (es. nullità delle clausole vessatorie).

Artt. 1414-1446 c.c. contengono disciplina di annullabilità, nullità e le relative azioni.


In genere, il discorso viene impostato ragionando in termini di maggiore o minore gravità (la nullità è una
condizione più grave della annullabile): in effetti questo quadro corrisponde a realtà.
Questa conclusione si può trarre da alcuni indici ricavabili da una due sequenza di tre articoli: artt. 1421-22-
23 da un lato e artt. 1441-42-44 dall’altro. Mettendo a confronto queste sequenze si arriva alla conclusione.
Art. 1421 c.c. - LEGITTIMAZIONE ALL’AZIONE Art. 1441 c.c. – LEGITTIMAZIONE
DI NULLITA’ Salvo diverse disposizioni di legge, L’annullamento del contratto può essere
la nullità può essere fatta valere da chiunque vi domandato solo dalla parte nel cui interesse è
ha interesse e può essere rilevata d’ufficio dal stabilito dalla legge. […]
giudice.
La nullità ex art. 1421 può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, non soltanto dai contraenti.
Per esempio nel caso di doppia alienazione immobiliare: Tizio aliena un bene prima a Caio e poi Sempronio.
La seconda alienazione non rispetta il requisito della prova scritta. Caio, invece che trascrivere
immediatamente, prima può chiedere e agire in nullità perché ha un evidente interesse perché ciò avvenga.
Quanto alla legittimazione ad agire dell’azione di nullità questa ha uno spettro ampio, nei limiti dell’interesse
ad agire, che comunque trascende la posizione dei due contraenti. Inoltre la nullità può essere rilevata
d’ufficio dal giudice.
Ad esempio nell’ambito di un giudizio di Tizio verso Caio in cui si chieda la condanna di pagamento di una
somma di denaro o trasferimento di un diritto il giudice accerta incidentalmente che il titolo in base al quale
Tizio chiede la prestazione è nullo, senza che Caio eccepisca la nullità. La domanda di Tizio sarà rigettata
perché privo di fondamento giuridico.
All’art. 1441 si dice invece che può domandare la nullità solo la parte nell’interesse della quale la causa di
annullabilità sia stata prevista. Emerge chiaramente come lo spettro della legittimazione ad agire sia in
questo caso radicalmente amputato rispetto a quello che governa l’azione di nullità.
Art. 1422 c.c. – IMPRESCRITTIBILITA’ Art. 1442 c.c. – PRESCRIZIONE L’azione di
DELL’AZIONE DI NULLITA’ L’azione per far annullamento si prescrive in cinque anni. […]
dichiarare la nullità non è soggetta a
prescrizione […]
Mentre l’azione di nullità è imprescrittibile ex art. 1422, l’azione di annullamento si prescrive in 5 anni ex art.
1442 c.1, mentre il secondo comma individua il momento dal quale fare iniziare il momento da cui decorre
la prescrizione. Nell’azione di nullità vi è un termine di prescrizione breve, il termine ordinario infatti è di 10
anni.
Art. 1423 c.c. – INAMMISSIBILITA’ DELLA Art. 1444 c.c. – CONVALIDA Il contratto
CONVALIDA Il contratto nullo non può essere annullabile può essere convalidato dal
convalidato, se la legge non dispone contraente al quale spetta l’azione di
diversamente. annullamento, mediante un atto che contenga
la menzione del contratto e del motivo di
annullabilità, e la dichiarazione che si intende
convalidarlo. […]
Mentre il contratto nullo non è suscettibile di convalida, agli antipodi il contratto affetto da una causa di
annullabilità vi è una chiara previsione di ammissibilità della convalida.

Mettendo insieme queste sequenze, dunque le differenze tra le due condizioni sono:
NULLITA’ ANNULLABILITA’
• legittimazione ad agire estesa e rilevabilità • Legittimazione ad agire limitata alla parte nel
d’ufficio; cui interesse è stabilita la causa di
• imprescrittibilità; annullabilità;
• non ammissibilità della convalida del contratto • Prescrizione breve in 5 anni;
nullo. • Ammissibilità della convalida.

È chiaro a questo punto che la nullità per il legislatore è una condizione molto più grave della condizione nella
quale versa il contratto annullabilità.
Questo dipende dalle cause che generano l’una e l’altra di queste condizioni: il contratto su cui il legislatore
pronunzia il suo verdetto di nullità è un contratto privo dai requisiti richiesti dalla legge perché l’atto di
autonomia possa ambire ad avere il crisma della validità.
Art. 1418 c.c. – CAUSE DI NULLITA’ DEL CONTRATTO Il contratto è nullo quando è contrario a norme
imperative, salvo che la legge disponga diversamente.
Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall’art. 1325, l’illiceità della causa, la
illiceità dei motivi nel caso indicato dall’art. 1345 e la mancanza nell’oggetto dei requisiti stabiliti dall’art. 1346.
Si tratta di casi nei quali il contratto si mette apertamente in urto con la legge. Per cui la legge se l’atto di
autonomia privata è rispettoso delle sue regole gli somministra la forza di legge. Viceversa se i contraenti non
rispettano le condizioni di validità dell’atto (o perché non si rispetti l’art. 1325 oppure perché i requisiti
interino gli estremi dell’illiceità oppure perché nel suo complesso sia contrario a norme imperative) a quel
punto l’ordinamento “sanziona” le parti inibendo al contratto di produrre i suoi effetti, donde la nullità del
contratto e la estrema severità del trattamento riservato al contratto nullo.

Per quanto riguarda le cause di annullabilità si trovano negli artt. 1425 ss.
Si tratta in particolare dell’incapacità d’agire e dell’incapacità naturale.
Il caso dell’incapacità naturale è un caso particolare perché c’è un’esigenza di tutela del terzo di cui si occupa
l’art. 1428, su cui non ci si soffermerà.
Costituiscono il nucleo del regime delle cause di annullabilità le tre figure dell’errore, del dolo e della violenza.
Questi sono agenti esterni alla volontà del contraente che impediscono allo stesso di manifestare un
consenso pieno. Questa imperfezione del consenso (che è presente però, perché altrimenti si ricadrebbe
nell’ambito della nullità essendo requisito di validità l’accordo delle parti), tuttavia si tratta di un consenso
viziato, infatti a proposito di questi tre casi si parla di vizi del consenso.
Non si entrerà nel dettaglio:
• L’errore si ha quando il contraente conclude il contratto sulla base di una rappresentazione falsata
della realtà: es. compro un quadro convinto si tratti di un Picasso, invece non lo è.
• Il dolo può essere indotto dall’altro contraente o dal terzo.
• La violenza si ha quando il contraente è portato a concludere il contratto per non subire altri danni
conseguenti a delle minacce.
Si è in presenza di una formazione della volontà la cui integrità è compromessa da questo fattore esterno
anomalo. Spiega anche perché l’ordinamento riserva all’annullamento un trattamento meno severo: in
definitiva, il contratto possiede tutti i suoi requisiti fondamentali e quindi l’ordinamento, in linea teorica,
avrebbe potuto disinteressarsi. Questo non accade perché il contratto viziato da una di queste cause è un
contratto inefficiente, che mette capo ad una distribuzione delle risorse che rischia di essere irrazionale nella
misura in cui la valutazione effettuata da uno dei contraenti si fonda su un’impossibilità di attingere al
patrimonio di razionale che ciascun contraente, in quanto homo economicus, ha con sé. C’è un interesse
collettivo, che trascende la posizione del singolo, acché il contratto venga annullato: si è mal calcolato come
impiegare una risorsa. Nel caso si fosse concluso il contratto attingendo a quel patrimonio razionale, le risorse
restanti si sarebbero potute allocare in modo più efficiente e diverso, dunque si ha uno spreco di denaro.
L’ordinamento, specie in sistemi di economie di mercato, ha interesse acché a ciascun bene venga attribuito
il suo valore reale.
D’altra parte, però, è anche vero che l’ordinamento non si può sostituire alla parte quanto alla sorte del
contratto: la parte potrebbe, una volta accortasi dell’errore, del raggiro o cessata la violenza, potrebbe essere
comunque contento della situazione di fatto post facto. L’ordinamento non può disinteressarsi di un
contratto frutto di una razionalità obnubilata, l’irrazionalità economica riguarda tutti e non solo il contraente:
le risorse potrebbero essere impiegate razionalmente. Ma neppure questo interesse si può spingere al punto
di sostituire la legge alla valutazione dell’interessato.
Il punto di equilibrio tra queste due esigenze è rappresentato dalla disciplina dell’annullamento, meno
invasiva e severa di quanto non lo sia la disciplina della nullità.
I segni tangibili di questa minore severità sono quelli prima analizzati. Tutto quegli elementi tornano
perfettamente con il discorso appena fatto. Per l’ordinamento il contraente è il giudice della validità
dell’accordo, dando gli strumenti per annullare il contratto, che può o meno utilizzare. Il contraente può far
prescrivere il termine per esperire l’azione consacrando gli assetti di interesse stabiliti dal contratto.
Addirittura l’ordinamento consente di convalidare il contratto in modo che a quel punto non esistono dubbi
quanto alla piena efficacia del contratto.
Esiste una razionalità oggettiva dello scambio, che riguarda l’allocazione razionale delle risorse, per cui
l’affare indotto per es. dall’errore cozza con la razionalità soggettiva: es. ho pagato 1000 euro un oggetto che
ne vale 10 ma quell’oggetto mi permette mi permette di completare la mia collezione. Quindi il legislatore
non ha indici per poter adottare rimedi più incisivi.
Il contratto annullabile potrebbe poi, quando il contraente avrà recuperato la piena conoscenza delle cose e
quindi la possibilità di effettuare una valutazione libera e consapevole, il contraente potrebbe voler
conservare il contratto e appropriarsene definitivamente mediante la convalida.

Queste sono le ragioni di fondo per le quali il legislatore adotta un regime più severo per la nullità e un regime
più morbido, che lascia spazio ad una rivalutazione dell’atto da parte del soggetto che lo ha posto in essere
in “deficit” cognitivo (errore e dolo) o volitivo (violenza), per l’annullabilità.
Il decisore è in ultima istanza chi investe la risorsa, non può essere il legislatore a farlo. Il parametro di
razionalità del mercato dal punto di vista del legislatore può non coincidere con la visione soggettiva del
mercato.

LEZIONE 10
19/10/2020

Si è visto che la sentenza con la quale si conclude il processo di annullamento del contratto sarebbe
costitutiva, quella con cui invece si conclude il processo di nullità sarebbe di mero accertamento. Questo
dipende dal fatto che il contratto annullabile sarebbe un contratto virtualmente in grado di produrre i suoi
effetti, tutto dipende dall’unico legittimato. Dal punto di vista dell’inquadramento di questa sentenza, la
minore severità di trattamento si traduce nella circostanza che la sentenza che dichiara annullato il contratto
sia una sentenza costitutiva, il che significa che attraverso la sentenza si estingue il potere per es. di
convalidare il contratto, definitivamente tramonta la possibilità di convalida. Si può dire a questo punto che
la sentenza di annullamento consegna il contratto annullato ad una dimensione di irrecuperabilità, in questo
senso la sentenza è costitutiva.
Se si esegue la prestazione ignorando che il contratto fosse annullabile la prestazione è ripetibile. Quindi
l’attribuzione patrimoniale sulla base di un contratto annullabile è sine causa: il contratto non produce il suo
effetto tipico. L’annullamento del contratto per sentenza fuga ogni dubbio circa l’inefficacia del contratto e
sbarra la strada alla convalidabilità del contratto.

Nel caso del contratto nullo, che è un contratto che beneficia di un trattamento ben più severo e draconiano
da parte dell’ordinamento, per esempio è vero che il contratto nullo non può essere convalidato ex art. 1423,
ma il contratto nullo può essere convertito ex art. 1424.
Art. 1424 c.c. – CONVERSIONE DEL CONTRATTO NULLO Il contratto nullo può produrre gli effetti di un
contratto diverso, del quale contenga i requisiti di sostanza e di forma, qualora, avuto riguardo allo scopo
perseguito dalle parti, debba ritenersi che esse lo avrebbero voluto se avessero conosciuto la nullità.
Certo non si tratta di convalida: il contratto converso è diverso da contratto convertito. Si può trattare di
conversioni endo-tipiche ed eso-tipiche (es. una compravendita immobiliare nulla per difetto di forma, viene
convertita in locazione perché il potenziale acquirente si accontenta della temporanea disponibilità
dell’immobile). Bisognerà certamente avere riguardo agli interessi e alla volontà delle parti. È un contratto
diverso ma è un contratto la cui validità poggia su quella del contratto virtualmente nullo, non c’è bisogno di
nuovo contratto.
Art. 799 c.c. – CONFERMA ED ESECUZIONE VOLONTARIA DI DONAZIONI NULLE La nullità della donazione, da
qualunque causa dipenda, non può essere fatta valere dagli eredi o aventi causa dal donante che, conoscendo
la causa della nullità, hanno, dopo la morte di lui, confermato la donazione o vi hanno dato volontaria
esecuzione.
Si tratta di una sorta di convalida, anche se bizzarra: la preclusione all’esercizio dell’azione di nullità dipende
dal comportamento di soggetti diversi rispetto al donante, ma si è in presenza di comportamenti, che
vengono dai soggetti virtualmente interessati a rimuovere la donazione, che rendono il contratto valido.
Teoricamente ci potrebbero essere altri soggetti, es. un creditore interessato a fare valere la nullità, quindi
la sanatoria non è completa come quella della convalida del contratto annullabile, ma rende la donazione
nulla meno aggredibile di quanto non lo sarebbe se questa norma non attribuisse questo potere agli eredi e
agli aventi causa.
L’atto nullo può essere recuperabile come qualità giuridica dell’atto stesso: la convertibilità, la confermabilità
sono caratteristiche intrinseche dell’atto nullo.
Art. 2652 c.c. – DOMANDE RIGUARDANTI ATTI SOGGETTI A TRASCRIZIONE. EFFETTI DELLE RELATIVE
TRASCRIZIONI RISPETTO AI TERZI Si devono trascrivere, qualora si riferiscano ai diritti menzionati nell’art. 2643,
le domande giudiziali indicate dai numeri seguenti, agli effetti per ciascuna di esse previsti: […]
6) le domande dirette a far dichiarare la nullità […] di atti soggetti a trascrizione e le domande dirette ad
impugnare la validità della trascrizione.
Se la domanda è trascritta dopo cinque anni dalla data della trascrizione dell’atto impugnato, la sentenza che
l’accoglie non pregiudica i diritti acquistati dai terzi di buona fede in base a un atto trascritto o iscritto
anteriormente alla trascrizione della domanda. […]
Se uno spostamento patrimoniale che si compie sulla base di un contratto nullo se il relativo contratto è
trascritto anteriormente e tempestivamente rispetto alla domanda di nullità allora il contratto prevale.
C’è un problema di “pulizia” di questa efficacia trasversale di atti giuridici nulli da risolvere con la sentenza di
nullità, sotto questo punto di vista allora anche alla sentenza di nullità va riconosciuta efficacia costitutiva: la
sentenza esclude la convertibilità e la confermabilità.
Salvo casi scolastici, quello che proviene dall’autonomia privata l’ordinamento lo prende in considerazione e
si pone l’esigenza di eliminare anche questi aspetti di rilevanza del contratto nullo.

Dopo essersi occupati sui tipi di sentenza (di condanna, di mero accertamento, costitutive) e dopo aver svolto
un discorso sull’inquadramento della tutela giurisdizionale del diritto a partire dalla prospettiva dell’atto
conclusivo del processo di cognizione.
Ora c’è da esaminare in che rapporto ciascuna di queste sentenze si pone rispetto al diritto soggettivo
dedotto in giudizio: si tratta di recuperare una visione del fenomeno tutela giurisdizionale incentrata sul
diritto dedotto in giudizio e come la sentenza, nelle sue varie configurazioni, attua la tutela giurisdizionale
del diritto.
In tal modo si avrà una più ampia visione della tutela e imperniata sulla funziona del processo rispetto al
diritto dedotto.
Da questo punto di vista, si può immaginare una classificazione a due valori (che per la verità sarebbero tre,
per ora omettiamo il terzo): la tutela reale e la tutela risarcitoria. A questi due primi valori si potrebbe
aggregare la tutela invalidatoria (es. sentenza di annullamento).
Una volta chiarito che cosa debba intendersi per tutela reale e risarcitoria si vedrà come questa divisione si
interseca con la classificazione già nota e imperniata sugli effetti della sentenza: gli effetti prodotti dalle
sentenze possono essere funzionali ora all’implementazione della tutela reale e ora a quella della tutela
risarcitoria.
Si immagini il proprietario che agisca in rivendica. In primo luogo, quando si agisce in rivendica, si deduce in
giudizio il diritto di proprietà. L’attore deduce di essere proprietario. Da qui si deduce se vi è la legittimazione
ad agire. Poi, il proprietario in rivendica, indicherà nella domanda i fatti che stanno a fondamento della sua
lamentala e del suo ricorso alla tutela giurisdizionale: per es. lo spoglio. Questo aspetto inerisce all’interesse
ad agire. L’esito ovvio del combinato della legittimazione e dell’interesse ad agire sarò una richiesta rivolta al
giudice a condannare la controparte alla restituzione del bene.
Il convenuto si può difendere in due modi. Per esempio potrebbe eccepire la nullità del titolo dedotto in
giudizio dall’attore (non sei proprietario del bene perché il contratto che gli avrebbe dovuto trasferire la
proprietà è nullo e difetta la legittimazione ad agire), oppure il terzo potrebbe eccepire l’avvenuta usucapione
del bene. Oppure molto più semplicemente il convenuto potrebbe difendersi dicendo di non essere lo
spogliante negando di essere nel possesso del bene di cui l’attore rivendica la proprietà: per es. i due soggetti
hanno stipulato il contratto di locazione e il convenuto ha ancora 6 mesi di validità del contratto per cui è
ancora titolato a mantenere la disponibilità del bene.
È una rappresentazione molto semplificata, ma grossomodo sono le posizioni di attore e convenuto in un
giudizio di rivendicazione.
Il giudice può fare ragione al convenuto e rigettare la domanda di rivendicazione.
Se la domanda viene accolta invece lo spogliante viene condannato alla restituzione del bene. Il punto su cui
bisogna focalizzare l’attenzione è che questo giudizio è caratterizzato da una perfetta simmetria tra diritto
dedotto in giudizio, domanda dell’attore e sentenza pronunciata dal giudice: il diritto è il diritto di proprietà,
che attribuisce le prerogative (ex art. 832) dei poteri di godere e di disporre, è evidente che se il proprietario
viene privato del bene (tranne che perda il diritto di proprietà) questo fatto lascia il diritto integro, tanto è
vero che il diritto viene dedotto in giudizio. La ragione per cui si vuole godere e disporre della cosa è che si è
proprietari della cosa. La sentenza condanna l’autore dello spoglio alla restituzione, modalità attraverso la
quale viene reintegrato il diritto di proprietà, permettendo di esercitare al proprietario i poteri attribuiti per
legge (il potere di godere e il potere di disporre). In questo senso vi è simmetria.
Si riporta lo stato di cose fattuale ad un assetto conforme a quello consacrato dall’attribuzione del diritto di
proprietà. Tutta la vicenda processuale ruota intorno al diritto di proprietà. In questo caso la tutela
giurisdizionale è votata alla difesa del diritto soggettivo dedotto in giudizio.
È un caso di tutela reale. Per connotare la tutela reale si può dire che sia caratterizzato da questo andamento
simmetrico del giudizio, in cui si registra la deduzione di un diritto soggettivo, la richiesta di un provvedimento
idoneo a rendere possibile l’esercizio delle prerogative connesse al diritto e una sentenza che restaura tali
prerogative lese.

LEZIONE 11
20/10/20

Si è detto che rispetto alla tassonomia imperniata sulla sentenza (tutela di condanna, di mero accertamento
e costitutiva), il binomio tutela reale e tutela risarcitoria (cui si può aggiungere la tutela invalidatoria) si
guarda al diritto dedotto in giudizio, queste due classificazioni sono risultanze della diversa prospettiva a
partire della quale si guarda al fenomeno tutela giurisdizionale.
In realtà si tratta di due facce della medesima medaglia, tanto è vero che le due classificazioni si possono
incrociare facilmente, a dimostrazione della continuità sia concettuale sia materiale (cioè del tipo di problemi
che esse rispecchiano).

Parlando di tutela reale si è visto che prendendo spunto dalla sua applicazione storicamente più emblematica
che è l’azione di rivendicazione. In questo caso il proprietario agisce per ottenere la restituzione del bene
indebitamente sottratto. Si è richiamata l’attenzione sulla circostanza che in questo caso vi è perfetta
continuità tra il diritto dedotto in giudizio, la domanda indirizzata al giudice e la sentenza, che è
perfettamente simmetria al diritto e alla domanda. Questa simmetria e questa continuità tra diritto,
domanda e sentenza sono il proprium della tutela reale, specie se posta a confronto con la tutela risarcitoria.

Quanto detto a proposito dell’azione di rivendicazione si può riproporre per l’azione di adempimento. In
questo caso il creditore deduce in giudizio il suo diritto di credito, domandando la condanna del debitore
all’adempimento dell’obbligazione deducendo il fatto lesivo del diritto (inadempimento, che rappresenta
l’interesse ad agire). Dunque, il creditore domanda al giudice un provvedimento di condanna del debitore ad
eseguire la prestazione.
Il debitore si può difendere grossomodo nel modo come si difende il presunto spogliante: negando l’esistenza
del diritto (es. titolo nullo), oppure potrebbe invocare l’estinzione del diritto (es. impossibilità non
sopravvenuta), o ancora potrebbe eccepire la compensazione.
Si tratta dunque di strutture simili. Questa somiglianza è ulteriormente esaltata dal fatto che come nel
processo di rivendicazione, la sentenza nel caso di inadempimento è perfettamente simmetrica al diritto e
alla domanda dell’attore, quando chiaramente sia una sentenza di accoglimento. Quindi in questi due casi
paradigmatici di tutela di diritto soggettivo, la tutela giurisdizionale si comporta esattamente allo stesso
modo quando è tutela reale. Questa uniformità è testimoniata dalla continuità tra diritto dedotto e sentenza
che accoglie la domanda dell’attore, destinata a restaurare il diritto violato, nel caso del proprietario i poteri
di godere e disporre del bene e nel caso del creditore quello di godere dell’utilità.

Spostando l’attenzione sulla tutela risarcitoria viene meno questa simmetria. Per esempio, si concentri
l’attenzione sulla tutela aquiliana (artt. 2043 ss. C.c.). Queste norme sono finalizzate a risarcire il danno patito
ad opera di un terzo. Sotto questo profilo il danno aquiliano si distingue da quello contrattuale (danno patito
dal creditore per via dell’inadempimento del debitore). Il danno extracontrattuale nasce e si produce in
assenza di un rapporto giuridico tra le parti.
La finalità del dispositivo aquiliano è quella di risarcire il danno, che si ricava dalla lettura dell’art. 2043 c.c.
Art. 2043 c.c. – RISARCIMENTO PER FATTO ILLECITO Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri
un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.
Tutto ruota attorno al risarcimento del danno. Il passo successivo è interrogarsi su cosa sia il danno. Una
risposta a questa domanda ce la fornisce l’art. 2056 c.c. comma primo.
Art. 2056 c.c. – VALUTAZIONE DEI DANNI Il risarcimento dovuto al danneggiato si deve determinare secondo
le disposizioni degli artt. 1223, 1226 e 1227. […]
È necessario leggere anche l’art. 1223 (a proposito del risarcimento del danno di natura contrattuale) che è
richiamato dall’art. 2056.
Art. 1223 c.c. – RISARCIMENTO DEL DANNO Il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo
deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano
conseguenza immediata e diretta.
L’art. 1223 in combinato disposto con l’art. 2056 è importante perché fornisce una nozione di danno, e con
il richiamo operato dall’art. 2056 ci documenta che quella accolta dal nostro ordinamento è una nozione di
danno unitario: il danno contrattuale o extracontrattuale è lo stesso. Mancato guadagno (lucro cessante) e
danno emergente, sia che il danno origini da inadempimento sia che origini da illecito aquiliano presenterà
le caratteristiche di una perdita patrimoniale che deve essere risarcita, cioè restaurata: si deve riportare il
patrimonio del danneggiato all’equilibrio precedente. Quest’idea del riequilibrio va un po’ adattata alle due
forme di danno, tuttavia in realtà può accadere sempre che l’inadempimento e l’illecito generino perdita
patrimoniale apprezzabile attraverso i due criteri del danno emergente e lucro cessante.
Il processo aquiliano ha una struttura molto più complicata, nella tutela reale tutto ruota attorno all’esistenza
del diritto soggettivo e alla circostanza che lo spoglio o l’inadempimento siano avvenuti. Nel caso della tutela
risarcitoria con riferimento al processo aquiliano accadono cose piuttosto complicate e non assimilabili alla
logica del diritto soggettivo dedotto in giudizio: ad es. a carico dell’attore c’è l’onere di provare il nesso
causalità tra la condotta e il danno; così come l’attore deve anche dimostrare che la condotta dannosa, che
determina la perdita patrimoniale, sia imputabile a chi la porta in essere o a titolo di dolo o di colpa. Questi
problemi non c’entrano con i diritti soggettivi. Il diritto soggettivo nel processo aquiliano è uno strumento
attraverso cui si ottiene ragione, è uno degli elementi di cui si compone l’illecito civile, che nell’art. 2043
compare sotto le spoglie del danno subito. Il danno in questo art. compare due volte: il primo danno
(“ingiusto”) è un danno diverso dal secondo, anche se è la medesima parola. Il danno ingiusto è l’elemento
dell’illecito civile che evoca il diritto soggettivo dedotto in giudizio, che svolge qui una funzione diversa da
quello svolto nell’ambito della tutela reale, dove è direttamente oggetto di tutela, qui l’oggetto di tutela è il
patrimonio del danneggiato e non il diritto soggettivo.
C’è asimmetria tra diritto dedotto in giudizio e la sentenza che condanna il danneggiante a risarcire il danno.
Nella tutela reale è chiaro il nesso tra condanna e diritto dedotto, qui invece c’è un percorso complesso se si
vuole rinvenire una simmetria tra il diritto e la sentenza di condanna al risarcimento del danno.

Si procederà adesso a mettere a confronto le due classificazioni in cui da un lato vi sono tutela costitutiva, di
condanna e di mero accertamento e dall’alto tutela reale e tutela risarcitoria.
La prima classificazione genera da un focus processuale, la seconda da un focus incentrato sul diritto
soggettivo dedotto in giudizio, una prospettiva esterna al giudizio.

Per esempio la tutela di condanna in che rapporto si trova con la tutela reale? Quando è servente rispetto
alla tutela reale? La sentenza di condanna è strumento di tutela di un diritto soggettivo, come si è visto con i
due esempi dello spoglio e dell’inadempimento.
In entrambi i casi il rimedio processuale non può che essere una sentenza di condanna, perché si tratta si
vincere la resistenza opposta, rispettivamente da spogliante e debitore, al comando prima della legge e poi
del giudice, avente ad oggetto l’esecuzione della prestazione, che sia restituzione del bene sottratto al
proprietario e l’esecuzione della prestazione finalizzata al godimento dell’utilità di cui il creditore è già
padrone in ragione del diritto di credito che gli è stato assegnato dalla legge. Quando si tratta di vincere una
resistenza, di superare l’ostruzione del comportamento omissivo dello spogliante e del debitore, il rimedio
processuale naturale è la sentenza di condanna, il cui effetto dominante è quello di diventare titolo esecutivo
e aprire la strada dell’esecuzione forzata (per espropriazione o in forma specifica). Tuttavia, si deve
aggiungere che la tutela di condanna non esaurisce le sue funzioni, perché è servente anche rispetto alla
tutela risarcitoria: il processo aquiliano culmina in una sentenza che condanna il danneggiante al risarcimento
del danno, e anche in questo caso si pone il problema rappresentato dalla necessità di sopperire al
comportamento del danneggiante, che se non esegue la prestazione impostagli danna sentenza sarà
necessario attingere alle risorse della sentenza di condanna che si costituirà ancora una volta in titolo
esecutivo e aprirà la strada all’esecuzione forzata, che assumerà sempre in questo caso le sembianze
dell’esecuzione per espropriazione.
È da escludere che la tutela di condanna possa essere servente alla tutela invalidatoria, dove le sentenze
hanno tutte in comune un effetto di estinguere uno stato di cose giuridico: vincolatività del contratto, la sua
convalidabilità etc.

Passando alla tutela di mero accertamento, questa è funzionale alla implementazione della tutela reale,
segnatamente di diritto reale. Esempio paradigmatico a proposito è il caso dell’art. 949 c.c. (azione negatoria)
dove il proprietario, qualora abbia motivo di temere pregiudizio dalla affermata inesistenza del suo diritto,
può ottenere una sentenza che sgomberi il campo da qualsiasi dubbio riguardo alla titolarità del diritto.
La sentenza di mero accertamento è servente alla tutela reale nella misura in cui è funzionale al potere di
disporre del proprietario. Non si riscontrano applicazioni della tutela di accertamento improntate alla tutela
reale nel caso di diritti di credito. Questo tipo di tutela è àtona rispetto alla tutela risarcitoria o rescissoria, a
meno che non si sposi la tesi secondo cui la sentenza di nullità è di mero accertamento, tesi che il professore
non condivide.
Per quanto riguarda la tutela costitutiva è invece abbastanza versatile. La tutela costitutiva può essere
servente sia rispetto alla tutela reale di un diritto di credito, esemplare il caso dell’art. 2932 c.c.
La tutela costitutiva trova il suo ambito di azione privilegiato nell’ambito della tutela di diritti potestativi, che
nella maggior parte dei casi sono iscritti nei casi della tutela invalidatoria: per es. l’azione di risoluzione, per
cui la sentenza di risoluzione permette al diritto potestativo di esplicare i suoi effetti estintivi del rapporto
obbligatorio; altro caso è quello dell’azione di annullamento grazie al quale il contraente può sbarazzarsi del
contratto annullabile. Così come nel caso della sentenza di risoluzione, dove il giudice deve accertare la
sussistenza della gravità dell’inadempimento, così nella sentenza di annullamento l’annullamento non può
intervenire in “autotutela”, si deve accertare l’esistenza di una delle cause di annullamento che non può che
avvenire nell’ambito di un giudizio. Il diritto potestativo, in questi due casi, necessita del supporto offerto
dall’accertamento giudiziale dei presupposti del diritto medesimo. Sono casi in cui la tutela costitutiva è
funzionale alla tutela reale di un diritto potestativo.
Stesso discorso per l’azione revocatoria, in cui è ipotizzabile un’autosufficienza del diritto, che è una tutela
costitutiva in funzione di implementazione di un diritto di credito.

Dubbia è la collocazione della sentenza dell’art. 1032. Sono percorribili due strade: o si ritiene che la sentenza
costitutiva sia una mera applicazione della sentenza servente rispetto al diritto di credito, o si potrebbe
sostenere che la sentenza ex art. 1032 sarebbe servente rispetto al diritto potestativo alla costituzione della
servitù, anche qui è necessaria la mediazione del giudice che deve accertare l’esistenza delle condizioni
perché si possa costituire la servitù. Questa seconda opzione apre un problema perché si avrebbe un diritto
potestativo mediato da una sentenza del giudice, a sua volta strumentale alla costituzione di un diritto reale
(es. diritto di servitù di passaggio). Il diritto potestativo serve a costituire un diritto reale, il diritto potestativo
sarebbe strumentale rispetto alla tutela reale, sarebbe una sorta di “doppio salto mortale”, sembra una
costruzione troppo farraginosa, per cui è più probabile che la tutela costitutiva si servente al diritto di credito,
che sarebbe il diritto alla costituzione della servitù.

LEZIONE 12
21/10/20

Si sono messe a confronto le due “tavole”, quella di tutela costitutiva, di mero accertamento e di condanna
da un lato; dall’altro la tavola di tutela risarcitoria, reale e rescissoria.

Ora si intraprenderà l’analisi della tutela risarcitoria. Si è visto essere un rimedio abbastanza nettamente
distinto dal rimedio reale.
Nell’azione di rivendicazione (art. 948) il legislatore dopo avere illustrato le modalità della tutela reale,
prevede nell’inciso finale anche il risarcimento del danno. Questo è lapalissiano segno della differenza tra
l’una e l’altra forma di tutela.
La tutela risarcitoria ha una fisionomia più complicata, e del resto un marcatore di questa minore linearità
della tutela risarcitoria è quel tratto di asimmetria su cui si è precedentemente richiamata l’attenzione:
asimmetria tra diritto dedotto in giudizio e sentenza.
Si è detto che esistono due tipologie di danno: danno contrattuale (ex art. 1223) e danno extracontrattuale
(ex art. 2043). È vero che l’ordinamento disciplina questi danni in due luoghi diversi del codice, ma si è
constatato che la nozione di danno sia unitaria: questa uniformità della nozione è asseverata dal rinvio
dell’art. 2056 effettua all’art. 1223. Grazie a questo rinvio si arriva alla conclusione che la nozione di danno è
una nozione invariante sia che sia di natura contrattuale o extracontrattuale: consiste nella perdita subita e
nel mancato guadagno.
Bisogna chiedersi quale sia in fondamento della differenza a seconda che si tratti di un danno contrattuale o
extracontrattuale, anche per trovare le ragioni della differenziazione dei regimi giuridici. Non si può dire
essere una distinzione dottrinale: è una distinzione che ha un solido fondamento positivo. In entrambi i casi,
del resto, la rubrica parla di risarcimento del danno. Al di là delle elucubrazioni della scienza giuridica, si è in
presenza di una chiara distinzione tra i due tipi di danni.
Un modo abbastanza condivisibile di rispondere alla domanda relativa al fondamento della distinzione muove
dal dato rappresentato dalla circostanza che mentre il danno contrattuale è un danno che si produce e
matura nell’ambito del rapporto obbligatorio (tanto che è un danno da inadempimento); invece, il danno
aquiliano matura in un diverso contesto, caratterizzato dall’assenza di un rapporto obbligatorio.
Questo dato, di per sé evidente, lascia in sospeso una questione importante: nel caso del danno da
inadempimento la circostanza che il danno vada risarcito (e che dunque il danno sia rilevante per
l’ordinamento) risiede nel fatto che l’inadempimento sia in contrasto con la regola che istituisce il rapporto
obbligatorio, cioè quella regola che attribuisce al creditore il diritto alla prestazione (significa che tale diritto
è un valore patrimoniale). L’inadempimento del debitore determina un depauperamento del patrimonio del
credito nella misura in cui la ragion d’essere dell’attribuzione operata a favore del creditore consiste
nell’utilità (cioè nel valore) della prestazione. Sia chiaro, il creditore di fronte all’inadempimento non ha
soltanto a disposizione la misura risarcitoria: si prenda ad es. l’art. 1453, concentrando l’attenzione
sull’azione di adempimento (alternativa a quella di risoluzione) cammina di pari passo con il risarcimento del
danno.
Art. 1453 c.c. – RISOLUBILITA’ DEL CONTRATTO PER INADEMPIMENTO Nei contratti a prestazioni
corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua volta chiedere
l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno. […]
Significa che la tutela reale e la tutela risarcitoria, sia nel caso di diritto di credito che di diritto di proprietà
(per esempio ex art. 948), non si escludono: il ritardo nell’adempimento può avere comportato delle
conseguenze negative sul patrimonio del creditore o del proprietario.
Discorso diverso si dovrebbe fare nel caso di prestazione divenuta impossibile, per cui non vi è spazio per
l’azione di adempimento (quantomeno in forma specifica, si potrebbe esperire quella per equivalente). Nel
caso del danno contrattuale la sua rilevanza è in re ipsa: si attribuisce il diritto di credito o il diritto di proprietà
a un soggetto, fa parte del patrimonio dei relativi soggetti, tali diritti sono strumentali al patrimonio del
proprietario o del creditore e quindi l’ordinamento non può restare inerte di fronte ad un comportamento
pregiudizievole nei confronti del patrimonio. Il diritto soggettivo è attribuito per assicurare un’utilità al
patrimonio.
La dannosità della condotta del debitore è in re ipsa. In questo caso la questione è risolta a monte.
Il discorso è diverso nel caso del danno aquiliano: in questo caso la circostanza che il danno maturi fuori da
un rapporto obbligatorio, dove per definizione gli inadempimenti sono almeno potenzialmente dannosi
(potenzialmente perché può accadere che non arrechi danno al creditore), quindi come si fa a dire che è un
danno per definizione risarcibile se non vi è un diritto soggettivo d’appoggio? Si dovrà selezionare un criterio
per distinguere danni risarcibili e rilevanti e quelli non risarcibili perché non rilevanti.
Il diritto di credito è il potere di fare o non fare qualcosa ma è anche un cespite patrimoniale. L’attribuzione
di un diritto soggettivo è funzionale all’incremento del patrimonio del beneficiario del diritto. Che sia così è
testimoniato dal fatto che si può cedere un credito: è un valore patrimoniale che circola. Quindi quando il
debitore non adempie diminuisce il patrimonio del creditore. Se c’è un diritto soggettivo c’è anche un danno
patrimoniale (quaestio iuris), poi va valutato che un danno ci sia (quaestio facti).
Molto tormentata è la questione nel caso di danno extracontrattuale in cui non essendoci danno patrimoniale
si tratta di stabilire quando e a quali condizioni il danno sia rilevante e risarcibile. La risposta, che non è così
automatica, si trova nel dettato dell’art. 2043. Come si è già detto, in questa formulazione la parola danno
ricorre due volte: il danno risarcibile come danno che si compone della perdita subita e mancato guadagno,
che inteso in questo senso non dice ancora nulla sulla quaestio iuris, cioè quando sia risarcibile e a quali
condizioni; il danno ingiusto è la risposta al quesito. Se non c’è danno ingiusto non c’è danno risarcibile, anche
se è vero che non è sufficiente perché ci devono essere anche imputabilità della condotta e nesso causale.
Al vertice della struttura dell’illecito aquiliano si trova l’ingiustizia del danno.
Un esempio per comprendere l’ingiustizia del danno: si immagini, che in una città italiana vi sia un
imprenditore che vende prodotti cosmetici al dettaglio, la sua attività è storica e fiorente con una clientela
consolidata, un avviamento di successo e un ottimo fatturato; un giorno però a poche decine di metri da
questo apre un altro negozio di cosmetici, titolare del quale è un giovane imprenditore con idee innovative
e una politica di prezzi molto aggressiva, capacità di promuovere la propria azienda raggiungendo segmenti
di mercato fino a quel momento non sollecitati. Nell’arco di qualche mese il primo commerciante registra un
consistente calo delle vendite e continua così fino a quando il negoziante storico si vede costretto a chiudere
l’attività. È evidente che in questo caso c’è chi ha subito un danno. Ma è risarcibile? Lo sarebbe solo quando
la condotta del secondo imprenditore fosse una condotta sleale, ma non sarebbe questo il caso. Se il danno
è conseguenza di attività imprenditoriale svolta in modo corretto e leale, tale danno non è risarcibile, perché
il profitto non è oggetto di tutela da parte dell’ordinamento giuridico, perché altrimenti, in un sistema di
libero mercato, comporterebbe una barriera all’ingresso di quel mercato. Chi compete su mercati liberi è
esposto al rischio di perdita.
Questo esempio, ex adverso fa vedere quali sia la condizione fondamentale affinché il danno
extracontrattuale sia risarcibile: il danno aquiliano è rilevate se e solo se la sua insorgenza è collegata alla
lesione arrecato ad un cespite presente nel patrimonio del danneggiato in ragione di un titolo giuridico.
L’imprenditore sbaragliato non ha alcun titolo giuridico cui collegare il suo guadagno. Al contrario ci sono casi
in cui l’ordinamento mediante attribuzione di diritto soggettivo assegna il controllo sulla relativa risorsa
economica. Il caso classico è quello del diritto di proprietà: l’art. 948 prevede anche il risarcimento del danno,
perché la sottrazione al proprietario del bene oltre che impedire l’esercizio dei poteri tipici del proprietario,
risolto tramite tutela reale, comporta anche l’impossibilità di mettere a frutto il bene presente a titolo di
proprietà nel patrimonio del titolare del diritto di proprietà.
Se si è proprietari di un quadro di valore, per cui si era accettata la richiesta di una galleria d’arte di esporlo,
si concede dietro corrispettivo l’esposizione del quadro. Se, medio tempore, prima che la mostra apra,
qualcuno sottragga il quadro, non solo viene meno il potere di godere e disporre del quadro, ma si perde
anche il ritorno economico legato all’utilizzazione del bene: non si può più locare il quadro alla galleria d’arte.
Così come la condanna alla restituzione è asimmetrica rispetto alla tutela di questa perdita subita dal
patrimonio del quadro. Il problema della risarcibilità del danno extracontrattuale, viene risolto sancendo la
rilevanza del danno solamente quando investa un cespite del patrimonio del danneggiato in ragione di un
titolo giuridico, certe volte nella forma di diritto della personalità, nella forma del diritto reale, nella forma
della libertà di concorrenza economica, che gli dà un’esclusiva.

LEZIONE 13
26/10/2020

La questione che solleva la tutela risarcitoria, quando si presenta nelle vesti del processo aquiliano, è la
risarcibilità del danno. Bisogna disporre di un criterio selettivo per stabilire se il danno che si è verificato sia
o meno risarcibile.
La funzione politica/istituzionale della responsabilità civile è l’allocazione del danno: chi deve sopportare il
danno? Chi l’ha cagionato o chi lo ha subito?
Tutti gli altri criteri entreranno in gioco solo quando vi sia un danno astrattamente risarcibile: si tratta della
imputabilità del fatto lesivo al soggetto, il nesso, il dopo o la colpa. Non ha senso delibare queste questioni
se prima non si è accertata la precondizione della risarcibilità del danno.
L’art. 1223 è un punto di partenza. Qui il problema della risarcibilità (nel senso di rilevanza) del danno è
inesistente: in questo caso la risarcibilità del danno contrattuale è immanente al danno stesso, in astratto è
per definizione sempre risarcibile.
Si deve tenere presente che il danno contrattuale si produce all’interno di un rapporto obbligatorio, dove c’è
un soggetto (creditore) titolare di un diritto soggettivo e un altro soggetto (debitore) che è tenuto ad eseguire
una prestazione. Se le cose stanno così, si è in presenza di una situazione in cui sin dall’inizio si capisce chi è
la vittima (diritto di credito) e chi il carnefice (l’inadempimento). Stanti così le cose è evidente che
l’inadempimento nella misura in cui lede il diritto di credito, lede anche potenzialmente le chances di profitto
che il cespite patrimoniale attribuito al creditore (mediante insorgenza del diritto di credito) è presente nel
patrimonio del creditore perché titolare del diritto di credito.
Es. si pensi a chi abbia acquistato un quadro, una res corporalis facilmente individuabile, e il debitore non
abbia provveduto a consegnare il quadro (che è contemporaneamente spoglio e inadempimento, per
questione di onere della prova è più facile che l’acquirente agisca nelle vesti di creditore piuttosto che di
proprietario). Il quadro è un cespite patrimoniale: ha un valore di mercato (stimabile per equivalente), ma il
quadro è anche i costi che il creditore si è dovuto sobbarcare per procurarselo, cioè l’investimento che vi è
dietro (non solo il suo valore monetario). Senza parlare di un eventuale guadagno che si potrebbe perdere
per esempio se una galleria d’arte avesse già preso in locazione il bene dietro compenso. Anche quando il
debitore adempia in un secondo momento si potrà recuperare il danno emergente, ma non il lucro cessante
per via della mancata esposizione nella galleria. Il quadro non è soltanto una res corporalis, è anche una
somma di valori economici e di investimenti. La perdita a seguito di un tale inadempimento non è del quadro
come res (per cui si potrebbe ottenere una sentenza di condanna e recuperarlo attraverso tutela reale), ma
del quadro come valore di scambio, come merce (il problema non può che essere risolto attraverso tutela
risarcitoria).
Nel danno aquiliano la questione si pone in termini più intricati perché il danno emerge in assenza di un
rapporto obbligatorio. Se l’inadempimento è per definizione (salvo poi la verifica in concreto) frustrazione
del diritto di credito nella dimensione di diritto sul bene e nell’altra di diritto sul bene nella sua economicità;
nel caso del danno aquiliano la questione è più complessa perché non vi è la sponda del rapporto
obbligatorio, che identifica uno spazio chiuso dentro il quale il copione è già scritto e ognuno sa quello che
dovrebbe fare.

Bisogna ricercare un omologo nella prospettiva del danno extracontrattuale del diritto di credito nel danno
contrattuale. In effetti, l’art. 2043 contiene una locuzione “danno ingiusto”, che è diverso dal danno
risarcibile, che è la perdita patrimoniale. Il problema è quando il danno sia risarcibile: la risposta la fornisce
la locuzione danno ingiusto. Il danno è risarcibile se ricorre in primo luogo l’ingiustizia del danno.
Che vuol dire ingiustizia del danno? Ripercorrendo quanto detto a proposito del danno contrattuale, in cui la
risarcibilità è ancorata alla circostanza che la perdita si colleghi ad un cespite del patrimonio di un
danneggiato in ragione di un titolo giuridico (diritto di credito). Dunque, bisogna applicare questo schema e
trasferirlo anche in seno al dispositivo aquiliano, dando un contenuto alla formula del danno ingiusto, dietro
alla quale si cela il riferimento a un titolo giuridico che è quello in forza del quale il cespite patrimoniale che
risente dell’illecito civile si trova. Indice di questa riproducibilità della dialettica delineata dall’art.1223
all’illecito aquiliano è rappresentato dal danno ingiusto.
Bisogna cercare le disposizioni nelle quali la risarcibilità del danno aquiliano è disposta dalla legge.
Es. art. 7 in materia di diritto al nome, che prevede nel caso di contestazione o usurpazione del nome di cui
taluno sia legittimamente titolare sarà tenuto al risarcimento del danno. Ci sarà anche tutela reale: condanna
a cessare la condotta di usurpazione. Stessa cosa è prevista all’art. 10 in materia di diritto all’immagine, anche
qui le due tutele vanno di pari passo: tutela reale e risarcitoria. All’art. 948, nel caso dello spoglio, oltre alla
misura reale c’è quella risarcitoria. Stesso ragionamento all’art. 949. Stessa cosa agli artt. 2599 e 2600.
Ci sono molte di queste disposizioni anche al di fuori del codice.
Per es. il danno da contestazione del diritto al nome è risarcibile perché il nome è un cespite presente nel
patrimonio del danneggiato in ragione di un titolo giuridico, rappresentato dallo stesso diritto al nome, che
si collega alla fruizione economica. Medesima dialettica nel caso del diritto all’immagine, nel diritto di
proprietà, di servitù… in tutti questi casi vi è uno schema non molto diverso da quello dell’art. 1223.
La norma surroga il contesto relazionale del rapporto obbligatorio, stabilendo la risarcibilità del danno: il
danno è risarcibile perché esso si è consumato a ridosso di una situazione giuridica tutelata tramite
attribuzione di un diritto soggettivo. Se il cespite danneggiato non assurge alla dignità di interesse protetto
dalla legge, nella forma di diritto soggettivo, non ci può essere risarcibilità del danno.
Ingiustizia del danno significa che la perdita patrimoniale risarcibile è una perdita che riguarda un bene che
l’ordinamento giuridico tutela nella forma del diritto soggettivo.
Vedremo che in realtà il campo di applicazione è suscettibile di ampliazione: non è necessaria la forma del
diritto soggettivo in ogni caso, ma la logica è la medesima, nel senso che la condizione necessaria è che vi sia
un titolo giuridico, anche in altra forma rispetto a quella del diritto soggettivo. Questo si vedrà più avanti.

La formula del danno ingiusto mette in collegamento danno risarcibile e lesione di un bene oggetto di tutela
da parte dell’ordinamento attraverso la mediazione di diritto soggettivo, il quale ovviamente in sede
processuale svolgerà un ruolo importante, ma puramente strumentale: il processo risarcitorio implica la
deduzione in giudizio di un diritto soggettivo, solo che essendo qui in gioco la reintegra del patrimonio il
diritto soggettivo sta a documentare al giudice che il danno (almeno virtualmente) sia risarcibile.
L’ingiustizia del danno è il grande selettore che include tutte le perdite patrimoniali riferibili ad interessi
giuridicamente protette ed esclude, contestualmente, le perdite patrimoniali che non possono invocare un
diritto soggettivo a loro sostegno.

LEZIONE 14
27/10/20

L’esigenza di un collegamento tra diritto soggettivo e bene vulnerato sotto il profilo del suo valore economico
viene sintetizzato nella formula del danno ingiusto. La perdita patrimoniale è risarcibile se conseguenza della
lesione di un diritto soggettivo, ovvero conseguenza di un danno ingiusto.
La lesione di un diritto soggettivo è l’inadempimento, lo spoglio, che danno ingresso a forma di tutela reale,
mentre qui si discute della tutela risarcitoria: il danno è risarcibile quando sia conseguenza di una lesione di
un diritto soggettivo e non quando corrisponda con la lesione del diritto soggettivo.
Così l’art. 1223 dice “ne siano conseguenza immediata e indiretta”: si parla dell’inadempimento! La lesione
del diritto soggettivo, segnatamente di quello di credito e dunque la tutela reale, e la conseguenza della
lesione del diritto di credito che è la perdita stimabile sotto le forme del lucro cessante e del danno
emergente. Il diritto soggettivo è il garante della risarcibilità del danno: se chi subisce il danno non può
ricondurre la perdita che ha subito ad un diritto soggettivo allora la perdita non è risarcibile (es. imprenditore
costretto a chiudere per l’intraprendenza di un nuovo imprenditore concorrente che lo sbaraglia grazie alla
sua nuova strategia intraprendente, esempio già fatto in precedenza).
Una cosa è la lesione del diritto soggettivo e altro è la conseguenza patrimonialmente apprezzabile della
lesione del diritto soggettivo stesso. Una prevede il rimedio della tutela reale, l’altro della tutela risarcitoria.
Si spiega la ragione per la quale il ruolo che il diritto soggettivo svolge nell’ambito del processo risarcitorio è
diverso da quello che svolge nel processo reale: nel processo reale il diritto soggettivo non è solamente a
fondamento della pretesa, è la pretesa! Questa simmetria impallidisce quando il diritto dedotto in giudizio è
fondamento di una pretesa che non è immanente al diritto soggettivo come nel caso del processo risarcitorio.
Chiedere la restituzione della cosa è un esercizio del diritto di proprietà da parte del proprietario, vi è
continuità tra fondamento ed esercizio del diritto: il diritto fondante è anche quello esercitato. Così non è nel
processo risarcitorio: ciò che viene dedotto è diverso da ciò che viene domandato, perché sorga la pretesa
risarcitoria ci vuole un danno, quindi se non c’è danno non esiste pretesa risarcitoria. La tutela risarcitoria è
un quid pluris perché il danno è risarcibile quando è leso un diritto soggettivo, ma il diritto soggettivo è qui
indefettibile per la pretesa risarcitoria pur non essendo la tutela risarcitoria. In questi casi il provvedimento
del giudice è asimmetrico rispetto al diritto dedotto, perché non si è in presenza di un esercizio del diritto.
Il risarcimento del danno è una variabile: teoricamente si può non subire alcun danno a seguito dello spoglio
o dell’inadempimento.
La tutela risarcitoria non è tutela giurisdizionale del diritto in senso proprio (che si ha per la tutela reale e
rescissoria). Nel caso del processo risarcitorio infatti il diritto dedotto in giudizio è fondamento della pretesa
(non l’unico perché dovranno ricorrere anche gli altri presupposti dell’illecito civile) ma non è la pretesa.
Art. 1173 c.c. – FONTI DELLE OBBLIGAZIONI Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni
altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità con l’ordinamento giuridico.
Le obbligazioni da fatto illecito sarebbero le obbligazioni risarcitorie, ma per quale ragione lo spoglio non è
fonte dell’obbligazione? L’obbligazione è fonte di un aliquid novi, non c’è qualcosa di nuovo rispetto a prima
nello spoglio: che il bene appartenesse al proprietario è scritto già nel titolo giuridico di cui il proprietario è
portatore, succede solo la necessità di adattare l’esercizio del diritto soggettivo alle mutate condizioni
imposte dallo spoglio.

Si deve spostare l’analisi nella direzione della individuazione del campo di applicazione di danno ingiusto. La
perdita patrimoniale sarà risarcibile solo se conseguente alla lesione di un diritto soggettivo. Adesso che cosa
si intende per lesione del diritto soggettivo? Il diritto soggettivo è una categoria astratta, esistono varie
tipologie di diritto soggettivo: in particolare il diritto di proprietà (i diritti reali, assoluti) e il diritto di credito.
Quando si risolve la visione del danno ingiusto nella visione della lesione del diritto soggettivo resta da
stabilire se tutti i diritti soggettivi possano assurgere a garanti del danno subiti dal titolare del diritto
medesimo. Il dato in ragione del quale la legge si preoccupa di precisare cosa significhi danno ingiusto, o
meglio di farne applicazione, pone il problema di tipo sistematico: se davvero il danno ingiusto è sinonimo di
lesione di un diritto assoluto, allora nell’economia dell’art. 2043 il peso della formula “danno ingiusto” viene
enormemente ridimensionata, perché quali siano i diritti soggettivi la lesione dei quale dia luogo a
risarcimento del danno lo dicono singole disposizioni del codice civile. Quindi che senso avrebbe il richiamo
al danno ingiusto.
Nel codice civile previgente la formulazione dell’omologo del codice del 1865 dell’illecito civile, parlava del
risarcimento del danno senza alcun riferimento all’ingiustizia del danno. Rinunciava almeno apparentemente
all’individuazione di un criterio selettivo sulla rilevanza e la risarcibilità del danno. Il primo corollario che si
sarebbe potuto rilevare era che tutti i danni fossero risarcibili, il che però è assolutamente destituito di
fondamento perché dietro quella formulazione del 1865 (che riproduce fedelmente la corrispondente
disposizione del codice napoleonico) ci sta un convincimento ferreo che il danno risarcibile sia solo quello
conseguente alla lesione di un diritto soggettivo. Per il legislatore del 1865 era inutile introdurre un
riferimento ad un criterio selettivo ulteriore, perché la visione interpretativa unanime era che il risarcimento
del danno potesse solo scaturire da una conseguenza della lesione di un diritto soggettivo.
Togliendo l’inciso “cagioni ad altri un danno ingiusto” all’art. 2043 comunque la disposizione mantiene il suo
senso se si dà per assodato che vi debba essere una lesione di un diritto soggettivo. Le uniche ipotesi nelle
quali si fa menzione di risarcibilità del danno aquiliano espressamente previste dal codice del 1942 fanno
capo a ipotesi di lesioni di diritti assoluti. L’ingiustizia del danno subisce dunque un pesante
ridimensionamento, privata di un’autonoma forza precettiva: il precetto (statuizione della risarcibilità del
danno patrimoniale) è contenuta in altre disposizioni del codice e in tutte queste ipotesi il fondamento della
pretesa risarcitoria è individuata dal legislatore in un diritto soggettivo (diritto al nome, diritto all’immagine,
diritto di proprietà). Questa interpretazione svilisce il dettato letterale dell’art. 2043. Si potrebbe
immaginare, per restituire utilità a questa formula, che il danno ingiusto serva con riguardo a quei casi nei
quali il legislatore per assurdo regolasse un’evenienza nella quale il diritto assoluto viene leso prevedendo
soltanto una misura reale omettendo il riferimento espresso alla misura risarcitoria. Allora la clausola
recupererebbe una sua funzione. Anche in questo caso tuttavia, che è un caso di scuola perché non si danno
ipotesi di questo genere nel nostro ordinamento, il riferimento al danno in giusto avrebbe un ruolo marginale
e di puro sostegno e supporto ad altra norma di suo lacunosa.
Questa opinione svilente dell’inciso del danno ingiusto è stata lungamente dominante anche dopo l’entrata
in vigore del codice del 1942. In presenza di una norma come quella inserita nel codice del 1865, in cui si
proclamava la risarcibilità del danno tout court, in base a una dimensione interpretativa totalmente condivisa
tutti erano concordi che risarcibile fosse solo il danno susseguente a un diritto assoluto. Invece il legislatore
del 1942 inserisce questo inciso, deve avere qualche senso.
Fino al 1971 è stata l’interpretazione dominante (anno di una sentenza che si studierà più avanti), quando
viene ribaltata definitivamente questa visione.
L’art. 2043 assolverebbe alla funzione di completamento della fattispecie di illecito attraverso la previsione
degli altri presupposti, ma quanto al cuore di questa fattispecie (il profilo che inerisce alla questio iuris,
rilevanza e risarcibilità del danno) l’art. 2043 non svolgerebbe alcuna reale funzione in questa lettura, che è
sposata dalla pronuncia della Cassazione n. 2085 del 1953, omologandolo all’articolo corrispondente del
codice del 1865.

LEZIONE 15
28/10/20

Art. 1151 c.c. del 1865 – Qualunque fatto dell’uomo che arreca danno ad altri, obbliga quello per colpa del
quale è avvenuto, a risarcire il danno.
Questo articolo è l’omologo dell’art. 2043 del codice civile del 1942. Manca il riferimento all’ingiustizia del
danno. Tra l’altro questa mancata inclusione nel corpo della disposizione dell’aggettivo ingiusto ha come
conseguenza che nelle sue due occorrenze la parola “danno” ha il medesimo significato.
Il legislatore del 1865, che non avverte l’esigenza di menzionare il dolo accanto alla colpa, perché dà per
scontato che si risponda per dolo se si risponde per colpa; al di là di questo il costrutto linguistico è identico.
Questo non significa che qualsiasi danno potesse essere risarcito, ma significa che il codice del ’65 era un
codice dominato da una convenzione interpretativa in forza della quale il danno risarcibile è quello derivante
dalla lesione di diritto assoluto, e nessuno avrebbe messo mai in discussione tale convenzione.
C’è da chiedersi perché, invece, il legislatore del 1942 inserisca la specificazione del danno ingiusto.
In un primo momento, la comunità dei giuristi voleva sterilizzare la novità rappresentata dalla formula
“danno ingiusto”, e lo fa ancorandolo proprio alla lesione di un diritto soggettivo. Per cui sarebbe una pura
scelta di politica legislativa per cui il legislatore richiama tutte le ipotesi già precedentemente contemplate
sparse nelle varie disposizioni del codice. Per lungo tempo è stata la tesi dominante, fino alla storica sentenza
del 1971. Prima ci occuperemo di analizzare la sentenza della Cassazione del 1953 n. 2085.

Sentenza del 1953 riguarda un caso che interessò tutta l’opinione pubblica italiana. Si tratta del caso di
Superga. Contro la collina si infranse l’areo che portava la squadra di calcio del Torino, che rientrava dalla
trasferta in Portogallo. In tale incidente morirono tutti i passeggieri dell’aereo e si apre una vertenza
giudiziaria per cui l’Associazione calcio Torino (allora non vi erano le società calcistiche) chiede il risarcimento
del danno alla compagnia aerea, perché aveva subito la perdita di tutti i giocatori della blasonata squadra. Ci
sono 4 massime, analizziamo la terza e la quarta.
TERZA MASSIMA
Non possono essere considerati come di diritto reale i rapporti che intercorrono tra un ente sportivo e gli atleti
ingaggiati per costruire una squadra di calcio, anche se tale squadra venga considerata come unità organica e nucleo
essenziale del patrimonio dell’ente.

QUARTA MASSIMA
Pertanto, una associazione calcistica non può sperimentare l’azione aquiliana contro la compagnia di navigazione
aerea, quale responsabile del disastro in cui hanno trovato morte i giocatori ad essa appartenenti, e ciò anche nel caso
in cui l’infortunio abbia distrutto, con la morte dei giocatori, l’intera squadra dell’associazione.
Già dalle massime, si vede affacciarsi l’idea da cui si sono prese le mosse: non trattandosi di un diritto reale,
visto che la squadra non costituisce un’azienda o un suo segmento, la squadra non può essere oggetto del
diritto dell’Associazione, se non è un diritto reale non c’è modo di dare accesso a questa pretesa di
risarcimento, perché non c’è lesione di diritto reale.

Alla terza pagina della sentenza si sintetizza il primo mezzo di ricorso:

Passando finalmente all'esame dei tre mezzi di ricorso, e prescindendo da particolari censure di
carattere del tutto secondario, sulle quali non giova soffermarsi perché incidenti su semplici
argomentazioni della sentenza impugnata di per sé stesse prive di concreta rilevanza sulla
decisione, sì che questa non ne rimarrebbe vulnerata anche se le argomentazioni stesse fossero in
ipotesi erronee, si osserva, che il ricorso ha per fondamentale contenuto la pretesa violazione di
norme e di principi di diritto in ordine alla estensione della tutela che, attraverso il disposto
dell'art. 2043 cod. civ., la legge appresta a chi subisca danno da fatto illecito altrui, per cui si
sostiene con il primo mezzo che tale tutela aspetti dando luogo a risarcimento di danni, non
soltanto per la lesione di diritti dalla dottrina qualificati assoluti, quelli cioè che tradizionalmente
si affermano erga omnes e che attengono alla protezione della personalità umana ed alla
intangibilità delle cose, come il diritto alla vita, all'integrità personale, alla libertà, all'onore ed i
diritti reali in genere, ma anche in relazione ai così detti diritti relativi, e cioè ai diritti di credito in
genere, tutelati soltanto nei confronti del debitore inadempiente, e ciò ogni qual volta questi
diritti relativi risultino definitivamente ed irreparabilmente compromessi od annullati in
conseguenza del fatto illecito del terzo, come nel caso del diritto a prestazioni per loro natura
infungibili e pertanto non più ottenibili dal debitore di cui sia stata colposamente cagionata la
morte, determinandosi in tali ipotesi, si afferma: “un danno diretto concorrente col danno
egualmente retto sofferto dalla vittima o da chi per essa”.

L’Associazione calcio Torino si appella all’art. 2043, per cui la discriminazione in danno dei diritti relativi
secondo la Cassazione non ha alcun fondamento. L’espediente argomentativo dei difensori dell’Associazione
è quello per cui si tratta di uno strano diritto relativo: si tratta di un diritto di credito sui generis perché la
prestazione è per definizione infungibile. I giocatori del Torino, cioè, erano giocatori tali per cui non ci
possono essere prestazioni equivalenti. È su questo che si fonda la difesa: chiede il risarcimento del danno
per potere almeno acquistare altri giocatori di valore equivalente. Si cerca di dimostrare che si tratta di un
diritto assoluto, perché il bene in questione è infungibile.

Analizziamo gli altri due motivi di ricorso:

Si sostiene poi con il secondo e terzo mezzo che in ogni caso nella specie si tratterebbe di lesione
di un diritto assoluto, tale dovendosi ritenere quello “sulla composta entità consistente nella
quadra e costituente l'azienda dell'Associazione o il nucleo essenziale del patrimonio aziendale “,
non che quello che l'Associazione ha sul calciatore ingaggiato di cui, secondo l'ordinamento
sportivo, dispone come di cosa propria.

La difesa del Torino insiste, un po’ strumentalmente, anche se comprensibilmente visto l’ostacolo della
convenzione interpretativa, sul fatto che si tratta di un diritto assoluto sotto la specie di un diritto all’azienda,
in cui i giocatori sono gli elementi dell’azienda.

La Corte di cassazione continua:


È il caso di dire subito in relazione a questi due ultimi motivi che sulla lesione di un diritto
assoluto, di un ius in re, sulla squadra come tale o sui singoli giocatori che la compongono, non
può questa Corte convenire. Le abili, ma pur sempre artificiose costruzioni ed argomentazioni in
riguardo proposte e svolte dai patroni della ricorrente Associazione e da quei giuristi, certamente
egregi, che in pareri pro veritate le medesime tesi hanno sostenute, non appagano, mentre è
vano il riferimento ad un ordinamento sportivo, ed in particolare calcistico, non recepito
nell'ordinamento giuridico positivo, e le cui norme quindi mai potrebbero essere tenute in
considerazione, se in ipotesi contrastanti con i principi informatori del diritto comune. A parte la
possibilità di considerare un'associazione sportiva come azienda in senso tecnico giuridico,
possibilità sulla quale, contrariamente a quanto hanno ritenuto i Giudici di merito, potrebbe
anche convenirsi, ma sulla quale, ai fini della questione qui in discussione, non giova indugiare
con approfondita indagine, è decisivo, a tutto concedere, osservare che i beni che entrano a far
parte dell'organizzazione aziendale non mutano per questo natura né acquistano una diversa e
più ampia tutela giuridica di quella loro propria, onde se beni dell'azienda sono, con gli altri,
anche i servizi, cioè le energie di lavoro di dirigenti e di collaboratori dai più ai meno qualificati
(ed in tale categoria dovrebbero se mai rientrare i giocatori ed i tecnici di una squadra di calcio), i
quali alla azienda sono avvinti da un comune rapporto di prestazione d'opera, è ovvio che il bene
aziendale a servizio dell'impresa è rappresentato dal diritto alla detta prestazione, diritto che è
esclusivamente di credito, mentre nessun diritto di diverso genere acquista l'imprenditore sulla
persona stessa del lavoratore, il quale essendo uno dei soggetti del rapporto di lavoro non può
certo esserne contemporaneamente l'oggetto.

La Corte dice che pur ammettendo che l’associazione sportiva possa essere considerata detentrice di azienda,
posto che l’azienda è attributo dell’impresa, la Corte decide di sorvolare su questo assunto. Il bene aziendale
sarebbe il diritto alla prestazione e dunque un diritto di credito, anche ammettendo che l’associazione possa
essere detentrice di un’azienda. Si ritorta al punto che il bene ipoteticamente leso dall’illecito commesso
dalla compagnia aerea è un bene tutelato nella forma del diritto di credito. Di fronte al tentativo del collegio
di difesa per cui si sarebbe in presenza di lesione dell’azienda, nel presupposto giudicato opinabile che
l’associazione abbia sull’azienda un diritto reale, in ogni caso si va incontro all’ostacolo che in realtà l’azienda
(il compendio dei beni destinati all’esercizio dell’attività propria dell’attività) è rappresentato dai rapporti
obbligatori che l’associazione intrattiene con i singoli giocatori. L’espediente del richiamo all’azienda non
funziona perché bisogna dimostrare che la lesione del diritto di credito è sufficiente per la risarcibilità del
danno. Si ritorna al punto di partenza. Non si può sostenere che sia un diritto assoluto, ad essere leso è un
diritto di credito, che è componente fondamentale dell’azienda. La lesione del diritto di credito è irrilevante
in sede aquiliana.

Continuando:

Fondamentali per la risoluzione della controversia re stano peraltro le questioni che si pongono in
discussione con il primo motivo con il quale, affermata anzitutto la irrilevanza ai fini dell'art. 2043
cod. civ. di una distinzione fra violazione di diritti assoluti o violazione di diritti relativi, si sostiene
che, anche a ritenere che il diritto dell'Associazione ricorrente verso i propri giocatori e la squadra
da essi formata sia un semplice diritto di credito, i Giudici di appello hanno tuttavia errato nel
negare, appunto partendo dalla distinzione fra diritti assoluti e relativi, la risarcibilità dei danni
derivanti dalla lesione di questi ultimi, ravvisando il difetto di un nesso di causalità immediata e
diretta fra il danno lamentato dall'Associazione ed il fatto, in ipotesi illecito, addebitato alla
Società A.l.i. Anche questa ulteriore censura deve in definitiva riconoscersi inconsistente ; alla
tradizionale distinzione fra diritti assoluti e diritti relativi i Giudici di appello hanno fatto capo, per
dedurne che nel caso si tratta di danno indiretto e mediato e per tanto non risarcibile ed in tale
conclusione questa Corte senz'altro conviene, essendo la sola che trova sicura rispondenza nelle
norme di diritto positivo, alle quali chi è chiamato ad applicare la legge deve anzitutto e
necessariamente far capo, prescindendo da elaborazioni dottrinali, che quantunque meritevoli di
at-tenta considerazione, tuttavia se ne discostano. Ora è bensì vero che l'art. 2043 cod. civ. non
pone la distinzione fra diritti assoluti e relativi, per cui, anche se con maggior frequenza
l'ingiustizia del danno che vale a renderlo risarcibile si profila in relazione alla lesione di diritti
assoluti, non è tuttavia da escludere che danno ingiusto possa aversi anche in dipendenza della
lesione di un diritto relativo, così come ne è riprova il costante e non più discusso riconoscimento
della legittimazione ad agire in favore di chi vanta un credito alimentare (diritto questo
sicuramente relativo) verso colui che sia rimasto ucciso per dolo o colpa ad altri imputabile ; tutto
ciò non può portare a negligere la norma restrittiva dell'art. 1223 cod. civ. applicabile anche in
tema di risarcimento di danni da fatto illecito per espresso richiamo dell'art. 2056, norma che
pone un in valicabile limite alla indefinita serie di danni che di versamento potrebbero ritenersi
risarcibili, con il riconoscere tali soltanto quelli che sono conseguenza immediata e diretta del
fatto lesivo. Un simile nesso di immediata e diretta dipendenza del fatto lesivo non sussiste, ed è
stato quindi giustamente escluso nel caso di specie in relazione ai danni lamentati dal Torino, in
quanto essi si ricollegano alla lesione di un diritto che a sua volta è conseguenza della lesione di
altro diritto su quello prevalente e preminente.

Qui la Corte, riprendendo le argomentazione della Corte di Appello di Torino, dice che pur supponendo che
sia possibile immaginare la risarcibilità del danno da lesione di un diritto di credito, visto che un caso esiste,
cioè quello del credito alimentare (se l’alimentante muore l’alimentando ha diritto al risarcimento del danno,
sul punto si ritornerà più avanti) che inerisce alla persona e strumentale al soddisfacimento di bisogni primari
(non è un diritto della personalità ma della persona), nel caso in questione c’è un problema ulteriore, per cui
bisogna rigettare l’istanza dell’associazione Torino. Si sposta il focus sul nesso di causalità: è espediente
tramite cui ribadire la convenzione interpretativa. La corte d’appello e la Cassazione dicono che la lesione in
prima battuta riguarda i congiunti dei calciatori morti: l’illecito si scarica nella posizione di quanti risentono
dal punto di vista patrimoniale dalla morte dei congiunti, che è un po’ la logica del diritto agli alimenti, che è
un punto pacifico. Se la carica offensiva dell’illecito si consuma sul diritto dei congiunti ad essere sostenuti
da quanti sono morti nell’incidente, a quel punto la questione è chiusa: non si può immaginare di prolungare
la sequenza causale oltre questo termine. Lo stesso fatto illecito si vorrebbe far credere che prima colpisca il
diritto dei congiunti e poi si propaghi fino al diritto dell’Associazione a ricevere le prestazioni dei giocatori:
secondo la Cassazione non esistono nessi causali tali da poter sviluppare i propri effetti oltre la lesione del
primo diritto. C’è un limite invalicabile, fissato dall’art. 2056 attraverso il richiamo all’art. 1223, per cui il
danno deve essere conseguenza immediata e indiretta dell’illecito, che in questo caso si tratta
dell’impossibilità per i congiunti di sostenersi allo stesso modo di quando erano vivi i calciatori. Con un unico
atto non si possono offendere due sfere giuridiche secondo la Corte: c’è una gerarchizzazione delle situazioni
giuridiche soggettive offese, per cui la pretesa del Torino viene dopo. Il diritto di credito, idealmente, viene
post-posto al diritto dei congiunti ad essere alimentati: è un modo per dire che il danno risarcibile, mediante
l’interposizione logica del nesso di causalità, è soltanto il danno da lesione di un diritto assoluto (nel caso di
specie quello dei congiunti), anche se questo non sta scritto da nessuna parte.
Bisognerebbe porre i due diritti esattamente sullo stesso piano. L’illecito sviluppa la sua forza da un lato verso
del diritto di credito e dall’altro verso il diritto dei congiunti. Se si mette il diritto di credito dietro quello dei
congiunti è chiaro che il discorso non regge, a un certo punto il nesso di causalità si deve interrompere.

LEZIONE 16
02/11/20

Continuando con l’analisi della sentenza.


L’Associazione calcio Torino subisce una importante perdita economica a seguito della morte di tutti i
calciatori della squadra. La sentenza in esame è di grande interesse perché il diritto dedotto in giudizio dal
Torino è un diritto di credito (nei confronti dei singoli giocatori in ragione del rapporto di lavoro instaurato
con i calciatori medesimi), tuttavia la posizione del diritto di credito nei confronti della tutela aquiliana nel
1953 è debole, per via del dogma per cui il danno risarcibile in sede aquiliana sia soltanto il danno che si
configuri a seguito della lesione di un diritto assoluto. Di fatti tutte le domande del Torino saranno rigettate
in tutti i gradi di giudizio.
In primo luogo, la difesa del Torino (proprio perché consapevole della convenzione interpretativa) tende ad
affermare che i giocatori facessero parte del complesso dei beni aziendali dell’Associazione. La Corte,
sorvolando sul fatto che l’azienda in questo caso fosse legata ad un’associazione e non ad un’impresa, dice
che ammettendo pure che si potesse parlare di azienda, i cespiti del complesso aziendale sarebbero i diritti
di credito nei confronti dei giocatori e non i giocatori stessi. Tant’è vero che quando si vende un giocatore è
una cessione del contratto con il giocatore! Su questo non si può non essere concordi con la Cassazione. La
difesa del Torino voleva insinuare un embrione di “realità”, tesi che non si può condividere, non si può dare
una coloritura reale a questo stato di fatti per cui il diritto reale sull’azienda non si può invocare in questo
caso: il bene aziendale è il rapporto tra associazione e calciatore.
In secondo luogo, la Corte riconosce che l’art. 2043 non pone una differenza tra diritti relativi e diritti assoluti.
Ad es. il diritto agli alimenti è risarcibile in determinati casi, come nota la stessa Corte di Cassazione. È vero
che questo diritto ha tutti gli elementi per essere considerato un diritto di credito, tuttavia, è un diritto di
credito sui generis: è funzionale al soddisfacimento di un bisogno primario e fondamentale della persona,
pur non essendo un diritto della personalità in senso stretto. Il bisogno della disponibilità di risorse necessarie
alla sopravvivenza è inerente alla persona. Poi in questo caso la prestazione del soggetto obbligato non è una
prestazione sostituibile, c’è solo uno e un solo soggetto che può e deve erogarla, non è neanche un obbligo
che si trasmette agli eredi, per cui è un diritto di credito nella forma ma non nella sostanza.
La Corte afferma:

Sostanzialmente si afferma cosa esatta quando sì dice che dal sinistro è derivata la lesione di due
distinti diritti facenti capo a diversi soggetti (ed in ipotesi altri diritti ancora possono essere stati
lesi), ma ciò non importa la indifferenziata risarcibilità dei danni conseguenti alla lesione dell'uno
e dell'altro, anche se entrambi sono stati lesi insieme e contemporaneamente. Tale circostanza
puramente cronologica non vale invero a porre sullo stesso piano i due diritti di obiettiva diversa
natura e prevalenza, e tanto meno vale a far considerare alla stessa stregua come ugualmente
diretta ed immediata rispetto all'unico evento lesivo conseguenze dannose che sono dirette ed
immediate soltanto rispetto alla violazione del diritto cui si riconnettono, mentre fra loro sono in
rapporto di derivazione e subordinazione.

Ammesso pure che si voglia in astratto ipotizzare la risarcibilità del danno patito dall’Associazione, questa
risarcibilità in concreto incontra un ostacolo insuperabile: la circostanza che il fatto lesivo incontra sulla sua
strada, prima ancora che il diritto dell’Associazione, quello dei parenti della vittima che fosse tenuto alla
prestazione alimentare, e qui si esaurisce il nesso causale.
È un discorso che però non regge: non si capisce perché questi due diritti debbano essere disposti lungo
un’asse quando potrebbero essere posti sullo stesso piano ciascuno investito per la parte che gli compete
dal fatto lesivo, che contemporaneamente lede il diritto dell’Associazione alla prestazione professionale e il
diritto del parente alla prestazione alimentare. A questa obiezione, in realtà, c’è una soluzione: la Corte non
pensa che questi diritti siano di eguale peso. Infatti, la Corte sostiene che è vero che cronologicamente il fatto
è unico e che colpisce entrambi i diritti contemporaneamente, ma prosegue osservando che tale circostanza
cronologica non vale a far considerare a porre sullo stesso piano i due diritti di obiettiva diversa natura e
prevalenza. È una contraddizione che la Corte prima dica che il diritto dei parenti è un diritto di credito e poi
dice che si tratta di due diritti di diversa natura!
Questa contraddizione è dovuta al desiderio della Corte di non apparire troppo legata alla non risarcibilità
del diritto di credito. Questo rileva anche dalla parola “prevalenza”: la Corte ha ben presente che il diritto
agli alimenti è un diritto sui generis, irriducibile al paradigma usuale al diritto di credito del normale rapporto
obbligatorio, e in virtù di questo ci conferisce una coloritura di realità, anche se non è un diritto della
personalità strictu sensu, anche se è più vicino al modello del diritto della personalità che non a quello del
diritto di credito. Questo rileva dalla parola prevalenza, per cui un siffatto diritto di credito deve prevalere su
un diritto di credito vero e proprio, è una gerarchia costruita dalla Corte. Il diritto di credito del Torino viene
post-posto assiologicamente, per cui ha così senso che il nesso causale si interrompa alla lesione immediata
e diretta rappresentata dal diritto agli alimenti. Questa conclusione presuppone però l’artificio per cui questi
due diritti non sono sullo stesso piano, altrimenti questa costruzione non reggerebbe. Tutto il discorso sul
nesso di causalità si regge su una manipolazione argomentativa che sfocia in una prevalenza del diritto agli
alimenti su quello del diritto di credito del Torino. Mentre l’alimentando viene risarcito o non ha altra via
d’uscita, l’associazione di calcio può ingaggiare altri calciatori, è una prestazione fungibile secondo la corte.
La prestazione agli alimenti è infungibile nel senso che può essere erogata solo da chi è obbligato agli alimenti.
Difatti la Corte prosegue:

Non inesattamente quindi, per escludere il nesso di causalità immediata e diretta fra il danno
lamentato dall'Associazione calcio Torino ed il sinistro occorso all'aereo, la sentenza ha fatto
riferimento alla, lesione di un diritto relativo quale è quello dell'Associazione alle prestazioni
sportive dei suoi atleti, per il tramite della preventiva e preminente lesione di un diritto assoluto
rappresentato dal diritto alla integrità personale di coloro che nel disastro di Superga perdettero
immaturamente la vita. Può essere non superfluo porre ancora in rilievo che il nesso derivativo di
un danno dall'altro sarebbe senz'altro emerso in maniera palese se nel sinistro i giocatori del
Torino, anziché perdere la vita, avessero riportato soltanto lesioni tali da porli egualmente
nell'impossibilità di dare all'Associazione le prestazioni alle quali si erano obbligati, in tal caso
infatti sarebbe apparsa ovvia la distinzione fra il danno diretto ed immediato facente capo
personalmente al giocatori ed il danno puramente indiretto e mediato risentito dall'Associazione,
ed è intuitivo che la situazione non muta sol perché quei giocatori sono disgraziatamente periti.

La Corte dice che c’è sempre un diritto che prevale, il nesso causale si esaurisce nella sequenza fatto lesivo e
lesione dell’integrità fisica dei calciatori.

La parte che segue prende spunto dal fatto che la difesa del Torino cita una sentenza del 1935 pronunciata
dalla stessa corte che aveva annullato un matrimonio e la moglie aveva ottenuto un assegno alimentare e il
risarcimento del danno da parte di chi aveva cagionato la morte dell’ex marito.

In un caso in cui, a seguito di annullamento di matrimonio con attribuzione di un assegno


alimentare alla moglie, veniva contestato il diritto di costei a pretendere il risarcimento di danni
da chi per colpa aveva cagionato la morte del già suo marito, questa Corte con pronunzia n. 2840
del 19 luglio 1935, dopo aver considerato che il diritto agli alimenti è così intimamente collegato
con la vita di chi è tenuto a prestarli, da doversi il diritto stesso considerare come
immediatamente e direttamente protetto dalla norma che impone a chiunque il rispetto della vita
umana, ha in via di massima enunciato il principio che danneggiati dalla morte di alcuno dovuta
a fatto illecito devono ritenersi tutti coloro che avevano diritto a conseguire dal defunto un’utilità
patrimoniale per obbligazione destinata ad estinguersi con la morte dell’obbligato e quindi non
trasmissibile ai di lui eredi.
Qui la corte arriva alla conclusione che il diritto agli alimenti è un diritto che è legato al rispetto della vita
umana, per cui è un caso di vera infungibilità: con la morte dell’obbligato, l’alimentando non ha modo di
procurarsi altrimenti quanto necessario al suo sostentamento. La difesa del Torino voleva dimostrare che
fosse parimenti infungibile la prestazione dei calciatori.

Da ciò la difesa della ricorrente Associazione ha tratto argomento per sostenere l’applicabilità del
su enunciato principio al caso in esame, osservando che quell’utilità che l’Associazione aveva
diritto a conseguire dai giocatori ingaggiati, in riferimento anche alla infungibilità della
prestazione dovuta al loro particolare valore, è rimasta irreparabilmente e definitivamente
annullata in conseguenza della loro morte. Simile argomentazione non ha però pregio, perché
non solo essa trascura la particolare natura del diritto alimentare, che da sola giustificherebbe
una interpretazione equamente lata delle norme di legge al caso applicabili, ma soprattutto
perché non tiene conto di una circostanza di decisivo rilievo, che cioè deve trattarsi di diritto di
credito che si estingue con la morte dell’obbligato, ed esclusivamente per effetto di questa ;
concetto che pur ricorre nella motivazione della citata sentenza del 1935. Ora è precisamente la
rilevata esclusività della causa determinativa dell’estinzione del diritto, che porta inevitabilmente
a distinguere fra diritto ad una prestazione di natura alimentare e diritto a prestazioni di diverso
genere ; il primo, salvo l’alea normale dell’incapacità patrimoniale del debitore, comune a tutti i
diritti di eredito, è soggetto a estinzione unicamente per effetto della morte del debitore, e
legittimamente quindi può considerarsi in collegamento immediato e diretto con tale evento ; ciò
invece non si verifica in relazione a diritti aventi per oggetto altre prestazioni di carattere
personale, come tali importanti obbligazioni non trasmissibili agli eredi, perché in questi casi la
morte del debitore costituisce uno soltanto fra i tanti altri eventi che egualmente possono
condurre alla definitiva perdita del diritto.

La Corte qui afferma che questa prestazione può essere erogata solo dall’obbligato, quasi obbligazione intuitu
personae, mentre la morte dei calciatori è solo uno tra i tanti fatti estintivi possibili dell’obbligazione, le
prestazioni oggetto di tutti gli altri diritti di credito (diversi da quello agli alimenti) sono prestazioni
surrogabili.

LEZIONE 17
03/11/20

Passiamo all’analisi di un’altra sentenza sulla risarcibilità del danno patrimoniale conseguente alla lesione di
un diritto di credito.
La sentenza in questione è una sentenza delle Sezioni Unite del 1971 e affronta le medesime questioni della
sentenza del 1953, anche se l’argomentazione sarà più distesa e lineare e con una soluzione decisamente
diversa da quella della Cassazione del 1953.
Si tratta della sent. n. 174/1971, c.d. “sentenza Meroni”. Questa trae origine da un caso anch’esso tragico,
che ancora una volta coinvolge la squadra di calcio del Torino, che ha mutato forma giuridica trasformandosi
in società. Meroni, un calciatore del Torino, che viene investito da un’automobilista, e l’incidente gli
provocherà la morte. Così nel 1967 circa il Torino cita un tale sig. Romero, che era alla guida della macchina
che ha investito il calciatore. La situazione è sostanzialmente identica a quella della pronuncia del 1953. Il
problema, dal punto di vista giuridico, è il medesimo: posto che la vittima era un debitore della società, la
sua morte estingue il rapporto obbligatorio, ma può fondare la pretesa risarcitoria di un terzo?
Si tratta di una pronuncia a sezioni unite, perché probabilmente la III sez. civile della Corte (che era stata
investita del caso) ritenne di sollevare la questione di fronte alle Sezioni Unite perché c’era stato un
mutamento del clima culturale che metteva in discussione la tesi tradizionale. Poi si era stratifica una
giurisprudenza sul risarcimento del danno dell’alimentando per cui la questione andava risolta una volta per
tutte.
È interessare notare che all’inizio della sentenza le questioni ritornano. Nel caso del ’53 il primo passaggio
aveva riguardato la possibilità di configurare il patrimonio dei giocatori come bene facente parte del
complesso aziendale sul quale la società vanta un diritto assoluto. La tesi viene respinta nel ’53 e anche nel
1971.

La corte (d’Appello), peraltro, rigettò nel merito la domanda della società Torino calcio e la
condannò alle spese dei due gradi del giudizio. Confutò, dapprima, la tesi della risarcibilità del
danno per la lesione di un diritto assoluto, quale doveva ritenersi, secondo la società, quello che il
“Torino “, società per azioni titolare di un'azienda di spettacoli sportivi, aveva sull'avviamento
sociale, di cui il cosiddetto “patrimonio giuocatori “era elemento preminente. Al riguardo la corte,
pur riconoscendo che il rapporto fra la società calcistica ed il calciatore è un elemento
dell'avviamento dell'azienda sportiva, osservò che l'avviamento non va considerato come un bene
autonomo, avulso dall'azienda, ma come una qualità di questa, e che, di fronte ai fatti lesivi che
incidono sull'avviamento, i singoli elementi che lo compongono restano soggetti alla disciplina
giuridica che è propria di ciascuno, secondo la sua natura. E poiché, aggiunse la corte, il rapporto
fra la società ed il giuocatore tesserato, pur essendo caratterizzato dai poteri che alla prima
derivano dall'ordinamento sportivo e dalla correlativa soggezione del secondo, è pur sempre da
ricondurre nell'ambito dei rapporti di credito, l'indagine circa la risarcibilità del danno
patrimoniale subito dalla società si risolveva nel problema della risarcibilità della lesione di un
diritto di credito ad opera di un terzo.

Qui si dice che non esiste un diritto sul calciatore, ma un diritto alla prestazione del calciatore, che rinvia a
un diritto di credito. La questione torna al punto di partenza sulla risarcibilità di un danno da lesione di diritto
di credito. La Corte d’Appello di Torino converge con la Cassazione del 1953.

Prendendo, quindi, in esame questo secondo aspetto della controversia, osservò la corte che
l'ammettere, sulla base dell'art. 2043 cod. civ., una protezione immediata e diretta del creditore
di fronte ai terzi che pregiudichino il suo diritto postulerebbe il riconoscimento, a carico dei terzi,
di un generico dovere di astensione in relazione ai rapporti di credito, indipendentemente
dall'esistenza di specifiche norme che tale dovere impongano: il qual riconoscimento, a giudizio
della corte, avrebbe trovato la linea di demarcazione fra diritti assoluti e diritti relativi ed avrebbe
implicato, altresì, il ripudio del principio di cui all'art. 1372, 2° comma, cod. civ., circa la relatività
degli effetti contrattuali.

La Corte d’Appello qui dice che se si accedesse all’ipotesi di risarcibilità del diritto di credito si vanificherebbe
la distinzione tra diritti assoluti e relativi. Quelli assoluti sono presidiati da un dovere generale di astensione.
Su una ricostruzione, che deriva da una tradizione più che secolare, la Corte d’Appello dice che i diritti assoluti
sarebbero una sorta di diritto relativo allargato. L’aspetto bizzarro di questa tesi è che non si capisce perché
questo dovere generale di astensione non debba riguardare anche i diritti di credito. Si potrebbe estendere
questo dovere di astensione ai diritti di credito: se un terzo uccide il debitore interferisce con l’esercizio dei
poteri del creditore come il terzo che sottrae il bene al proprietario che interferisce con l’esercizio dei poteri
del proprietario. L’idea che il dovere di astensione non sia correlativo ai diritti di credito è inconsistente,
anche alla luce del contenuto dell’art. 2043, che non è riassumibile nel neminem laedere, ma non si vede per
quale ragione questo dovere generale debba essere posto al servizio solo dei diritti assoluti. È un modo per
riproporre la veduta tradizionale per cui solo i diritti assoluti hanno accesso alla tutela risarcitoria.
Ma neanche l’art. 1372 c’entra con il risarcimento del danno, a meno che non si arrivi all’assurdo di
immaginare che per esempio il contratto che trasferisce la titolarità di un diritto di proprietà abbia la forza
implicita di costituire anche il dovere di astensione mentre questo non accadrebbe nel caso dei diritti di
credito, che sarebbe privo di ogni fondamento.

Osservò, infine, la corte che la soluzione negativa così accolta non era inconciliabile col diritto,
costantemente riconosciuto al creditore di alimenti, al risarcimento per la uccisione
dell'obbligato: e ciò sia per la natura particolare del credito alimentare, i cui riflessi pubblicistici lo
pongono in posizione di supremazia rispetto agli altri diritti di credito, sia per la inscindibile
connessione, che rispetto ad esso si determina, fra la lesione del bene direttamente protetto (vita
del debitore) e la distruzione del diritto del creditore.

Qui la Corte d’Appello si pone il problema della risarcibilità della lesione del diritto agli alimenti recuperando
le conclusioni della Corte di Cassazione del 1953, addirittura parlando di riflessi pubblicistici (esagerazione).
Questo è il riassunto delle tesi abbracciate dalla Corte d’Appello di Torino per rigettare il gravame proposto
contro la sentenza di primo grado dal Torino.

Vediamo ora la posizione della Cassazione a Sezioni Unite.

Fattore dell'avviamento, piuttosto che elemento costitutivo di esso, è dunque, in particolare, quel
rapporto giuridico, generalmente di prestazione d'opera, grazie al quale l'imprenditore si sia
assicurati, per i fini dell'attività produttiva che egli esercita, i servizi professionali e le energie di
lavoro di un collaboratore particolarmente qualificato. Dal che consegue che il fatto illecito del
terzo, che privi l'imprenditore delle prestazioni di quel collaboratore, incide sul rapporto giuridico
in virtù del quale l'imprenditore aveva diritto a quelle prestazioni e, soltanto di riflesso ed
eventualmente, sull'avviamento acquisito o sperato dall'imprenditore per effetto delle prestazioni
stesse, E ne consegue, altresì, che la tutela giuridica, che all'imprenditore può, in ipotesi,
riconoscerai di fronte a quel fatto lesivo del terzo, va riferita, non già all'avviamento in sé, ma al
rapporto giuridico leso, secondo la sua natura e secondo la disciplina che ad esso è propria.

Si ripropone la vecchia tesi per cui è vero che il rapporto inerisce al compendio aziendale, tuttavia nella forma
del diritto di credito. Siccome non esiste lesione dell’azienda in astratto: la lesione di questi asset
imprenditoriali deve passare attraverso la verifica della lesione dei singoli beni di cui l’asset è composto. La
lesione dell’azienda è mediata non immediata: se il cespite è un diritto di credito, per poter dire che vi è stata
lesione dell’avviamento si deve dire che c’è stata lesione del diritto di credito. La posizione è condivisibile e
convergente con quelle della Cassazione del 1953 e della Corte d’Appello.

Il problema da risolvere resta, pertanto, quello di stabilire quale tutela possa invocare la società
ricorrente di fronte ai fatto illecito del terzo che la privò delle prestazioni atletiche del giuocatore
Meroni: problema che va impostato e risolto previa definizione della natura giuridica del rapporto
che legava la vittima alla società. Ora, che il rapporto intercorrente fra il giuocatore
professionista e la società calcistica che lo abbia ingaggiato sia da inquadrare nello schema dei
rapporti di credito e sia da configurare, precisamente, come un rapporto di lavoro subordinato,
non è dubitabile ed è stato più volte affermato da questa corte. […] Il problema centrale della
causa si risolve, dunque, nel quesito se un siffatto rapporto sia tutelabile, a favore del creditore,
di fronte al fatto illecito del terzo che abbia inciso sulla persona del debitore, sopprimendola, e,
ancor prima, nell'altro quesito, di portata più generate, se sia ammissibile la tutela aquiliana, di
cui all'art. 2043 cod. civ., in caso di lesione del credito da parte di soggetto estraneo al rapporto
obbligatorio.

Andiamo a vedere adesso come, sgombrato il campo dalle questioni a latere, la Corte si misura con il
problema centrale della causa. (NELLA PROSSIMA PUNTATA)

LEZIONE 18
04/11/20

Continuando l’analisi della sentenza del 1971.

In verità, il principio che la risarcibilità del danno ex art. 2043 cod. civ. debba ammettersi solo con
riguardo alla lesione di diritti assoluti o primari, quali i diritti alla vita, all'integrità personale, alla
proprietà, all'onore, e non possa invece invocarsi da parte di chi deduca la lesione di un diritto
relativo e, in particolare, di un diritto di credito, è tutt'altro che estraneo alla giurisprudenza di
questa corte.

Le sezioni unite hanno il compito di fare il punto della situazione su questo argomento, proprio perché già
altre volte gli era stata presentata la questione sulla risarcibilità della lesione di diritto di credito.
A questo punto la Corte richiama alcuni precedenti.

Ora, è evidente che, se di quel principio si dovesse qui riaffermare la rigorosa ed intransigente
validità, il discorso potrebbe concludersi nel senso della infondatezza della pretesa della società
Torino calcio di essere risarcita del danno che essa lamenta in conseguenza della perdita, per
fatto del terzo, delle prestazioni che dal Meroni le erano dovute. In tal caso, peraltro, sì
imporrebbe la ricerca di una diversa giustificazione quanto al risarcimento, costantemente e
largamente riconosciuto dalla giurisprudenza, a favore dei congiunti di persona deceduta per
fatto illecito del terzo, che fossero creditori, nei confronti del defunto, di prestazioni alimentari.

La Cassazione nella sentenza del 1971 dice che non si può giustificare la risarcibilità del diritto agli alimenti
con il fatto che sia sui generis. Se è un diritto di credito non si può giustificare la diversità di trattamento.
Se il diritto di credito è a certe condizioni titolo idoneo ad integrare il danno ingiusto il problema sul nesso di
causalità non si pone più.

D'altra parte, giova pure avvertire, ove si escludesse, in linea di principio, la risarcibilità dei danni
collegati alla lesione dei diritti relativi, sarebbe inutile affrontare il diverso problema della
derivazione causale del danno dal fatto illecito. Ma ritiene questa corte che quel principio di
rigida separazione e contrapposizione fra diritti assoluti e diritti relativi, in quanto venga invocato
a giustificazione di un diverso trattamento delle due categorie ai fini della risarcibilità dei fatti
lesivi, meriti di essere riconsiderato.
La Corte richiama orientamenti dottrinali degli anni ’70 che avevano fatto una lettura allargata dell’art. 2043
tanto da ricomprendere i diritti di credito.

Ma trattasi di un dibattito dottrinario, del più alto interesse, dal quale, tuttavia, si può
prescindere in questa sede, ove sì voglia, com'è doveroso, rimanere sul terreno del diritto positivo,
senza prendere posizione sulle numerose costruzioni teoriche che sono state via via proposte e
che non si esauriscono certamente in quelle di cui si è fatto breve cenno. E l'attenta
considerazione della realtà normativa, quale si esprime all'art. 2043 cod. civ., porta a concludere
che la norma non consente di assumere come un dato certo e decisivo la rigida contrapposizione
dei diritti assoluti ai diritti relativi, al fine di limitare ai primi la tutela aquiliana, negandola ai
secondi.

Sulla base della lettura dell’art. 2043 non c’è nessuna esclusione per i diritti di credito.

Invero, la “ingiustizia”, che l'art. 2043 assume quale componente essenziale della fattispecie di
responsabilità civile, va intesa nella duplice accezione di danno prodotto non iure e contra ius:
non iure, nel senso che il fatto produttivo del danno non debba essere altrimenti giustificato
dall'ordinamento; contra ius, nel senso che il fatto debba ledere una situazione soggettiva
riconosciuta e garantita dall'ordinamento giuridico nella forma del diritto soggettivo. La quale
interpretazione, mentre lascia fuori dalla sfera di protezione dell'art. 2043 quegli interessi che
non siano assunti al rango di diritti soggettivi, pone in luce, d'altra parte, l'arbitrarietà di ogni
discriminazione fra una categoria e l'altra dei diritti soggettivi, al fine di riconoscere o escludere la
tutela aquiliana.

Questo è il passaggio cruciale. L’elemento centrale della responsabilità civile è l’ingiustizia del danno. Per
danno ingiusto si intente quello recato non iure e contra ius. Danno iure ad es. sono quelli arrecati a seguito
della situazione di legittima difesa o stato di necessità, perché l’ordinamento in questi casi si astiene dal
formulare giudizio di responsabilità. Secondo il professore in queste ipotesi iure o non iure viene dopo, il
giudizio di responsabilità può essere formulato, ma opera la scriminante.
Contra ius è il punto su cui soffermarsi: la lesione di un interesse protetto nella forma del diritto soggettivo,
indipendentemente che si trovi nella forma del diritto assoluto o del diritto relativo. Non risarcibile è il caso
di danno susseguente a lesione di interesse legittimo.
Le S.U. della Cassazione prendono congedo dalla tesi tradizionale e restrittiva sul diritto assoluto, l’ingiustizia
del danno è integrata dalla lesione di un diritto soggettivo quale che sia il modo in cui si presenta questo
diritto soggettivo, ma il limite del diritto soggettivo è invalicabile. Questa posizione sarà poi superata da una
nuova pronuncia delle S.U.
L’altra parte della sentenza è dedicata al tentativo di integrare questo nuovo orientamento in quello già
consolidato sul danno da lesione del diritto agli alimenti: quando il danno, fuori da questa ipotesi, il diritto di
credito sarà risarcibile? Nel caso di lesione di diritto agli alimenti la condizione di risarcibilità è che il diritto
agli alimenti non si trasferisca agli eredi. Questa intrasferibilità agli eredi è l’indice più chiaro della assoluta
infungibilità della prestazione dovuta dall’alimentante. Questo criterio della infungibilità della prestazione
viene trapiantato, per delimitare la nuova portata della pronuncia, alle altre virtuali ipotesi di danno da
lesione di diritto di credito.
In sostanza le S.U. stanno precisando che sì l’art. 2043 legittima risarcibilità delle lesioni di diritto di credito,
ma solo quando si tratti di prestazioni fungibili, proprio come nel caso dell’alimentante, anche se questa
infungibilità non deve avere gli stessi caratteri di infungibilità del diritto agli alimenti.
Nel caso del Meroni per esempio non c’è infungibilità assoluta (il Torino potrebbe procurarsi altro giocatore),
ma è relativa: la società dovrà sostenere dei costi non previsti per trovare un simile calciatore con
caratteristiche analoghe sostenendo indagini di mercato, ingaggiare questo nuovo calciatore magari a
condizioni meno vantaggiose. Quindi è un’infungibilità relativa, ma in ogni caso ci saranno dei costi che
meritano di essere risarciti ex art. 2043.
Dunque la Corte enuncia due principi alla fine della sentenza:

Chi con il suo fatto doloso o colposo cagiona la morte del debitore altrui è obbligato a risarcire il
danno subito dal creditore, qualora quella morte abbia determinato l'estinzione del credito ed
una perdita definitiva ed irreparabile per il creditore medesimo.

Qui vi è la nuova lettura dell’art. 2043.


Il secondo principio enunciato è:

È definitiva ed irreparabile la perdita quando si tratti di obbligazioni di dare a titolo di


mantenimento o di alimenti, sempre che non esistano obbligati in grado eguale o posteriore, che
possano sopportare il relativo onere, ovvero di obbligazioni di fare rispetto alle quali vi è
insostituibilità del debitore, nel senso che non sia possibile al creditore procurarsi, se non a
condizioni più onerose, prestazioni eguali o equipollenti.

Il primo caso è la morte dell’alimentante che è ipotesi di infungibilità assoluta, il secondo è quello della morte
del debitore che deve erogare una prestazione relativamente infungibile.
Questa ulteriore precisazione non avrà molto seguito ed è la parte debole di questa pronuncia. Il significato
storico di questa pronuncia però ritiene nell’affermata apertura nell’includere dei diritti di credito a fondare
risarcibilità ex art. 2043.

LEZIONE 19
16/11/2020

Con la sentenza del 1971 la Cassazione si consuma il distacco dalla convenzione interpretativa perché non è
desumibile dall’art. 2043 che il danno debba conseguire alla lesione di un diritto assoluto, e che il danno
risarcibile è quello che discende dalla lesione di un diritto soggettivo e non è sufficiente che il danno sia contra
ius, deve essere anche non iure secondo la Cassazione (non in situazione di forza maggiore o caso fortuito),
anche se secondo il professore ha più a che vedere con il profilo dell’imputabilità della condotta. La
risarcibilità è pur sempre collegata alla lesione di un interesse protetto nella forma di un diritto soggettivo,
dicono le Sezioni Unite.
L’altro punto importante della pronuncia del 1971, è che le S.U. dicono chiaramente che se il diritto agli
alimenti è risarcibile questa soluzione deve essere generalizzata a tutti i diritti di credito.

Cass. 27 maggio 1975 n. 2129 – Caso Soraya


È una sentenza che si occupa di una vicenda molto particolare rispetto alle questioni viste fin ora: è una
sentenza al centro della quale campeggia un personaggio apparentemente lontano da quello di cui ci si è
occupati (titolo di credito come titolo giustificativo del danno aquiliano). Qui la questione è diversa.
Nel 1975, la Cassazione prende decisa e diretta posizione nei confronti del diritto alla riservatezza. Dopo aver
negato per molto tempo l'ammissibilità di una protezione autonoma del rispetto della vita privata, il Supremo
Collegio, conformandosi ad una copiosa giurisprudenza di merito, perviene all'affermazione che
l'ordinamento giuridico riconosce e tutela l'interesse di ciascuno a che non siano resi noti fatti o avvenimenti
di carattere riservato senza il proprio consenso.
La sentenza afferma che costituisce lesione della privacy la divulgazione di immagini o avvenimenti non
direttamente rilevanti per l'opinione pubblica, anche quando tale divulgazione venga effettuata con mezzi
leciti e per fini non esclusivamente speculativi. Così si legge nella pronuncia, relativa ad una delle controversie
instaurate da Soraya Esfandiari.
Entra in gioco la persona come portatrice di valori non monetizzabili, anche se poi in realtà si è ancora dentro
una logica di tipo patrimonialistico. Questa sentenza è uno spartiacque. Il dibatto sulla responsabilità si è
polarizzato sull’ingiustizia del danno, quindi dell’allargamento delle situazioni giuridiche soggettive idonee
alla risarcibilità, e poi sul danno non patrimoniale. La signora Soraya Esfandiari era stata ripudiata dal marito,
colpevole di non avergli dato un figlio maschio. A seguito diventa una “star” di cui si occupano le cronache
rosa. Lasciata la Persia va in giro per il mondo, oggetto di attenzione spasmodica e un paparazzo la sorprende
al ristorante a Roma con un uomo e queste foto vengono pubblicate sul periodico “Gente”. Da qui nasce la
causa: sotto il profilo del diritto all’immagine e sotto quello del diritto alla riservatezza. Il diritto alla
riservatezza pone un enorme problema: non era stato ancora riconosciuto dal legislatore. Si può scardinare
l’assunto per cui solo i diritti assoluti hanno accesso alla tutela risarcitoria?

Prima di esaminare il terzo, il quarto, il quinto ed il sesto mezzo del ricorso principale i quali
riguardano le conseguenze dannose dei sequestro, illegittimamente chiesto e concesso, nonché la
pubblicazione della sentenza che riconosce la violazione del diritto della Esfandiari, va
preliminarmente affrontata la questione relativa alla tesi della configurabilità di un autonomo
diritto alla riservatezza delle proprie vicende personali, che la ricorrente ha riproposto nell'ottavo
motivo allo scopo di rafforzare la dimostrazione della lamentata violazione dei suoi diritti.
La questione che, com'è noto, è stata quanto mai dibattuta in dottrina, in diversi congressi
internazionali, ed ha formato oggetto di numerose sentenze dei giudici di merito, nonché di
alcune pronunce di questa Corte Suprema, esige una soluzione che, nella naturale evoluzione
giurisprudenziale, mentre resti ancorata alle norme costituzionali ed alle altre disposizioni del
nostro ordinamento positivo, sia sensibile al contemperamento della tutela dei diversi interessi,
alla luce di una vasta tendenza, anche di diritto internazionale, ad estendere la difesa della
personalità umana, sia nei confronti dell'abuso dei pubblici poteri, che nei rapporti intersoggettivi
individuali.
Tale esigenza è stata vieppiú sentita per le dimensioni e gli aspetti allarmanti che il problema è
andato assumendo, dato il continuo sviluppo della moderna tecnologia, la quale offre ai poteri
pubblici o ai privati smisurate possibilità, mediante perfezionati strumenti di acquisizione
conoscitiva, di penetrante controllo su ogni aspetto di vita e di rapida divulgazione generale dei
dati acquisiti. Questa straordinaria evoluzione, specie per i suoi possibili risvolti negativi, se deve
essere valutata in altre sedi in ordine alla gestione ed alle limitazioni, non può essere ignorata
nemmeno dal diritto privato, ed in particolare in sede giurisprudenziale.
Quando la questione sulla sussistenza e sui limiti dei diritto alla riservatezza venne per la prima
volta sottoposta all'esame della Suprema Corte, questa osservò che «nessuna disposizione di
legge autorizza a ritenere che sia stato sancito, come principio generale, il rispetto assoluto
dell'intimità della vita privata. Sono stati soltanto riconosciuti e tutelati, in modi diversi, singoli
diritti soggettivi della persona». Tale orientamento venne confermato dalla stessa Corte, secondo
la quale tuttavia «la diffusione di fatti o pensieri altrui incontra il duplice limite della tutela
dell'onore, del decoro e della reputazione, nonché del divieto di deformazione della verità».

I precedenti della questione non sono molto incoraggianti, anzi si richiama un precedente che esclude la
risarcibilità del danno del diritto alla riservatezza, perché sì i diritti della personalità vengono tutelati, ma solo
se presi nella loro singola e puntuale considerazione. Se non c’è espressa disposizione di legge che consacri
la tutelabilità del diritto alla riservatezza non è possibile dare ingresso al rimedio risarcitorio.

Senonché, con sentenza n. 990 dei 1963, questa Corte, mentre continuava ad escludere
l'esistenza di un «diritto alla riservatezza in senso tipico», riteneva che «tuttavia la tutela
giuridica deve ammettersi nel caso di violazione del diritto assoluto di personalità, inteso quale
diritto erga omnes alla libertà di autodeterminazione nello svolgimento della personalità
dell'uomo come singolo. Tale diritto è violato se si divulgano notizie della vita privata, le quali,
per tale loro natura, debbono ritenersi riservate, a meno che non sussista un consenso, anche
implicito, della persona, desunto dall'attività in concreto svolta o, data la natura dell'attività
medesima e del fatto divulgato, non sussista un prevalente interesse pubblico di conoscenza che
va considerato con riguardo ai doveri di solidarietà politica, economica e sociale inerente alla
posizione del soggetto».

La seconda pronuncia dice che in realtà non è possibile ridurre la persona, o la tutela della persona, ai singoli
frammenti di cui la persona si compone perché la persona è un valore integrale, vi è l’eco di una importante
giurisprudenza tedesca che aveva riconosciuto un “diritto generale della personalità”. Anche nel dibattito
italiano c’erano posizioni moniste e pluralisti, e la sentenza richiamata sposa questa tesi per cui la persona
umana eccede i singoli puntuali riconoscimenti del legislatore, al di là delle singole disposizioni di legge.
Dietro questo pensiero ci sta una lettura sempre più espansiva e della presa di campo dell’art. 2 della
Costituzione, che sembra privilegiare una lettura trans-tipica e generalizzata dei diritti della persona.

LEZIONE 20
17/11/20

La Cassazione, si è visto, richiama due precedenti paradigmatici dell’orientamento fino ad allora seguito. Una
pronuncia che abbraccia l’orientamento più rigorista è quello che dice i diritti della personalità sono solo
quelli espressamente richiamati dal legislatore. Chiaramente abbracciando questa tesi, senza un intervento
legislativo non si può fare molto. L’altro orientamento, più favorevole ad operazioni di tipo estensivo è
ispirato alla figura di matrice tedesca del diritto generale della personalità: i singoli diritti della personalità
sarebbero mere applicazioni di quello generale. L’idea è che la persona è un valore così grande ed eccedente
che non è possibile costringerlo dentro le maglie di un sistema di regole tipiche. È un orientamento anche
molto pericoloso perché il diritto dovrebbe rispondere anche ad esigenze di certezza, si rischia di aprire una
falla. Questi sono i due filoni giurisprudenziali che hanno alimentato la prassi della Corte di Cassazione fino a
quel momento.

Va premesso che la soluzione del problema non può prescindere dallo strumento tecnico
privatistico del diritto soggettivo, fondato su una antica concezione dogmatica.
Per quanto apprezzabili, invero, siano i tentativi della dottrina, intesi ad aprire più larghe
prospettive, specialmente per una moderna elaborazione dell'istituto dell'illecito civile, non
sembra che siano maturi i tempi per ritenere superato il tradizionale concetto di diritto soggettivo
come categoria qualificante le situazioni giuridiche soggettive particolarmente rilevanti nel
nostro sistema, in quanto tutelate in modo diretto.
La recente giurisprudenza di questa Corte, pur evolvendosi nel ravvisare nell'ingiustizia del danno,
considerata dall'art. 2043 c.c., l'accezione di danno prodotto non iure (e cioè non giustificato),
non abbandona l'altra accezione del contro ius, vale a dire, in quanto tale fatto incida su una
posizione soggettiva attiva tutelata come diritto perfetto.

Si richiama in parte così la sentenza Meroni, nella parte in cui si parla contra ius e non iure. Il discorso che la
Cassazione intraprende idealmente si ricollega alla pronuncia del 1971: ancora prima che andare alla ricerca
di un fondamento normativo del diritto ci si deve rassegnare all’idea che poter dare accesso alla tutela
risarcitoria è necessario che l’interesse alla riservatezza sia protetto nella forma del diritto soggettivo, come
detto nel 1971, anche se con una differenza. Mentre nel caso nel 1971 la posta in gioca era l’equiparazione
ai fini della tutela aquiliana dei diritti relativi ai diritti assoluti, i diritti relativi, segnatamente quelli di credito,
però sono espressamente previsti dal legislatore nel momento in cui codifica l’obbligazione. Vero è che nel
1971 viene fatto un notevole passo in avanti, però è un’operazione abbastanza facile, in quanto il diritto di
credito è un diritto soggettivo che appartiene all’armamentario della legislazione civilistica. Nel 1975 il
problema è diverso: il diritto alla riservatezza non è immediatamente rinvenibile tra i diritti soggettivi
riconosciuti dall’ordinamento. Deve trattarsi un interesse giuridicamente protetto nella forma di un diritto
soggettivo e in più non c’è una norma di riferimento. Parte la “caccia” al diritto alla riservatezza, che rende
interessante questa sentenza.

L'indagine sul fondamento normativo del cosiddetto diritto alla riservatezza esige un, sia pur
rapido, accenno alle definizioni date a questo diritto, in quanto agevola la determinazione del suo
contenuto e quindi della corrispondenza di questo nell'ambito delle singole norme che saranno
prese in esame.
Con l'espressione «diritto alla riservatezza» - una delle prime e più usate formulazioni del
fenomeno, che non può essere più abbandonata - sono indicate diverse ipotesi, che implicano un
problema, non solo formale, ma anche di sostanza. Esse possono sintetizzarsi almeno in tre
aspetti.
Da una parte si tende a restringere rigorosamente l'ambito di questo diritto al riserbo della
«intimità domestica», collegandola al concetto ed alla tutela del domicilio. A questa concezione
corrisponde forse il «the right to be alone» degli anglosassoni.
All'opposto, vi sono formulazioni molto generiche - « il riserbo della vita privata » da qualsiasi
ingerenza, o la c.d. « privatezza » (privacy) - cui corrisponderebbe un sostanziale ambito troppo
vasto o indeterminato della sfera tutelabile.
Una concezione intermedia, che riporta in limiti ragionevoli la portata di questo diritto, può
identificarsi nelle formule che fanno riferimento ad una certa sfera della vita individuale e
familiare, alla illesa intimità personale in certe manifestazioni della vita di relazione, a tutte
quelle vicende, cioè, il cui carattere intimo è dato dal fatto che esse si svolgono in un domicilio
ideale, non materialmente legato ai tradizionali rifugi della persona umana (le mura domestiche
o la corrispondenza).

Ci sono tre modi di intendere la riservatezza:


• quella di matrice anglosassone nel senso di tutela del domicilio;
• quella generica che lo identifica con tutte le manifestazioni della vita di relazione che trascende la
dimensione del domicilio;
• e una concezione intermedia per cui il diritto alla riservatezza si identifica nelle formule che fanno
riferimento ad una certa sfera della vita individuale e familiare, alla illesa intimità personale in certe
manifestazioni della vita di relazione, a tutte quelle vicende, cioè, il cui carattere intimo è dato dal
fatto che esse si svolgono in un domicilio ideale, non materialmente legato ai tradizionali rifugi della
persona umana. Qui domicilio ideale è il punto focale: può essere lo studio di un professore (o in
generale un luogo di lavoro), quindi nel senso di luogo non soltanto in senso fisico, incardinato nella
trama della vita dell’individuo dove c’è esplicazione di attività e personalità. Chiaramente deve
trattarsi di un luogo riservato (non una piazza, ogni pretesa di riservatezza altrimenti sarebbe priva
di fondamento).
La terza ipotesi è quella cui si adegua la Corte di Cassazione a Sezioni Unite.

Ora, questa Corte ritiene, ai fini della ricerca del fondamento normativo dei diritto soggettivo
alla riservatezza, che - superate le vie finora seguite, e cioè quelle della analogia iuris o dei ricorso
ai principi generali dell'ordinamento - sia possibile rinvenire una diretta tutela di tale interesse
non soltanto riguardato nella prima ristretta accezione, ma anche per l'ambito indicato dalla
terza concezione.
Le norme che sono a fondamento del diritto alla riservatezza, rigorosamente circoscritto al
riserbo di tutte quelle vicende che sono legate all'intimità domestica, sono troppo evidenti per
esigere un'ampia dimostrazione. Basta accennare alle norme costituzionali contenute negli artt.
14 e 29 Cost., all'art. 614 c.p., ed alla legge 8 aprile 1974, n. 98, intitolata «tutela della
riservatezza e della libertà e segretezza delle comunicazioni», che all'art. 1 punisce chiunque,
mediante l'uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie od
immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell'art. 614. Nel secondo
comma dello stesso articolo, la legge limita la libertà di manifestazione del pensiero, punendo
«chi rivela o diffonde, mediante qualsiasi mezzo di informazione, al pubblico, le notizie o le
immagini ottenute nei modi indicati».

Qui il giudice indica i riferimenti normativi della riservatezza nel senso di inviolabilità del domicilio. Nel 1975
inoltre, poiché la corrispondenza veniva inviata solamente nel luogo di domicilio del soggetto, una violazione
della corrispondenza coincidenza in sostanza con la violazione del domicilio.

Ma la libertà della persona dalle ingerenze altrui nella propria sfera di intimità trova sufficienti e
validi ancoraggi normativi anche nella terza ipotesi sopra indicata, e cioè anche quando le
situazioni o le vicende, personali e familiari, si siano svolte fuori dal domicilio domestico e le
notizie siano state acquisite dai terzi con mezzi leciti.
Va premesso che a due fondamentali spinte sociali della moderna civiltà corrispondono interessi,
a volte complementari o contrapposti, sintetizzati nella felice formula dell'art. 2 della nostra
Costituzione: quelli relativi all'individualità (col riconoscimento dei diritti inviolabili dell'uomo,
come singolo e nelle sue formazioni sociali, prima fra tutte quelle della famiglia), e quelli relativi
alla solidari età politica, economica e sociale.

La Corte sta dicendo che già dall’art. 2 si assiste a un bilanciamento di interessi diversi: da un lato il
riconoscimento dei diritti inviolabili della persona (come singolo o nell’ambito delle formazioni sociali);
dall’altro il richiamo ai doveri di solidarietà, per cui ad es. entro certi limiti questi diritti inviolabili meritano
di essere sacrificati se sull’altro lato ci sta un diritto collettivo.

Stabilire quali di questi interessi costituiscano la regola e quali l'eccezione è compito del
legislatore e dell'interprete, attraverso un giustificato bilanciamento e secondo le diverse
fattispecie. Talvolta la legge sembra privilegiare le esigenze pubbliche di un gruppo sociale
nell'intera comunità o dell'organizzazione statale (così quando tutela l'interesse alla pubblica
informazione, legittima alcune intromissioni degli organi fallimentari nella vita del fallito,
consente ingerenze nella sfera privata per la raccolta delle prove).
Altre volte dà prevalenza e accorda una limitata tutela agli interessi personali e familiari,
soddisfacendo esigenze di libertà individuale riconosciute da molti sistemi costituzionali. Il nostro
ordinamento contiene numerose norme inquadrabili questa seconda prospettiva e che non
possono essere elencate compiutamente. Alcune di esse prendono in speciale considerazione
determinate manifestazioni personali, per apprestare specifici strumenti di tutela contro
l'invadenza di altri interessi: così in ordine al corpo (art. 5 c.c.), al nome (artt. 6-9 c.c.),
all'immagine (art. 10 c.c.), all'anonimato e all'inedito (artt. 21 e 24 legge dir. d'autore), all'onore
contro la rivelazione di fatti determinati (art. 595, secondo comma, c.p.) al domicilio (art. 614
c.p.), alla corrispondenza (artt. 616 c.p. e 48 legge fall.). […] Ora, tutte queste disposizioni, se
apprestano specifici strumenti di tutela a determinate manifestazioni individuali, presuppongono
l'appartenenza alla persona umana di beni fondamentali già riconosciuti - sia pure
implicitamente - dai principi fondamentali dell'ordinamento e dalla coscienza sociale: quelli della
vita, dell'integrità fisica, della libertà, della dignità morale, e, tra questi, anche il diritto alla
riservatezza della vita privata, come risulterà confermato da quanto segue.

Il giudice sta dicendo che ci sono una serie di norma che non è che espressamente tutelino il diritto alla
riservatezza come avverrà nel 1996; però da tutte queste norme emerge una attenzione e una sensibilità del
legislatore per il valore della riservatezza. Ad es. il diritto al nome, in cui il nome è un bene giuridico
autonomo, ma indirettamente la sua tutela comprende la tutela della riservatezza: abuso del nome viola
anche la riservatezza del singolo. Stesso discorso per l’immagine: quando si riproduca immagine di qualcuno
senza autorizzazione, rendendo di pubblico dominio l’immagine della persona si viola anche il diritto alla
riservatezza, perché l’immagine (come il nome) è attributo fondamentale della persona; appropriarsi
dell’immagine altrui significa invadere la sfera giuridica altrui e ledere il valore della riservatezza.
È vero che non esiste una norma sul diritto alla riservatezza, ma ci sono tante norme nell’ordinamento da cui
emerge una chiara sensibilità del legislatore nei confronti del valore della riservatezza; o quanto meno si
potrebbe dire che in ogni caso, indirettamente, attraverso tutela diretta di altri beni giuridici, emerge in
controluce la tutela della riservatezza. L’effetto della tutela diretta di questi beni giuridici ha come effetto
l’emergere di questo valore alla riservatezza.

Basterebbe, infatti, osservare che se il legislatore ha ritenuto necessario precisare i mezzi di


difesa per alcuni aspetti della vita personale, a fortiori deve ravvisarsi la sua volontà di tutelare
quanto è più intimo e più completo rispetto alle altre manifestazioni esteriori e particolari della
persona umana. Questa deduzione è tratta con il criterio ermeneutico, recepito nell'art. 12 delle
Disp. sulla legge in gen., secondo cui «scire leges non est verba earum tenere, sed vim ac
potestatem».

Se il legislatore ha tutelato tutti quei beni giuridici (nome, immagine…) a maggior ragione ha voluto tutelare
il diritto alla riservatezza perché è un bene ancora più fondamentale. È una forzatura, perché non c’è scritto
da nessuna parte che il diritto alla riservatezza sia più importante.

Ma il fondamento normativo del diritto alla riservatezza non è solo implicito nel sistema; esso
trova una serie di espliciti riferimenti legislativi. Molte volte, infatti, il legislatore ha avuto
occasione di confermare la sua intenzione di garantire il riserbo dovuto alle intime situazioni
personali e familiari: riguardo alle notizie raccolte in sede di rilevazioni statistiche (art. 19 r.d.l. 27
maggio 1929, n. 1285), e a quelle contenute nei registri dello stato civile (artt. 140 e 185 r.d.l. 9
luglio 1939, n. 1238), in particolare circa la paternità e maternità (leggi n. 586150 e n. 1064/55);
facendo divieto di pubblicare corrispondenza o memorie che « abbiano carattere confidenziale o
si riferiscano alla intimità della vita privata » (art. 93 legge n. 63311941); con l'obbligo dei
lavoratore domestico di « mantenere la necessaria riservatezza per tutto quanto si riferisca alla
vita familiare » (art. 6 legge n. 33911958); con il divieto di indagini personali sul corpo e sulle
opinioni del lavoratore (legge n. 300 del 1970); si è perfino derogato al principio della pubblicità
del dibattimento penale « quando la lettura o l'ascolto possono ledere il 'diritto alla riservatezza'
di soggetti estranei alla causa ovvero, relativamente a fatti estranei al processo, il diritto delle
parti private alla riservatezza » (art. 7 legge n. 98/1974).

Vi sono anche norme che anche se non enunciano il diritto alla riservatezza tout court, in ogni caso tutelano
direttamente aspetti della vita privata delle persone.
L’ordinamento offre un panorama in cui figurano norme che indirettamente tutelano la riservatezza o norme
che direttamente tutelano dei suoi aspetti.
Il panorama normativo complessivamente consente di predicare un atteggiamento “non agnostico” del
legislatore nei confronti della riservatezza.

Una tutela del diritto alla riservatezza più ampia di quella circoscritta all'intimità domestica, non
solo non contrasta con i principi costituzionali, ma trova in essi vari motivi di convalida. Questa
Corte aveva ravvisato nell'art. 2 Cost. l'unico fondamento del diritto assoluto di personalità, che
risulta violato dalla divulgazione di notizie della vita privata. Alla critica, secondo cui l'art. 2
enuncia solo in via generale la tutelabilità di diritti inviolabili, che trovano il loro riconoscimento
effettivo in altre specifiche norme, deve precisarsi che questa Corte - deducendo dal citato
articolo il « diritto erga omnes alla libertà di autodeterminazione » - intendeva porre l'accento -
più che sul riferimento ai diritti inviolabili - sull'espressione della norma che riconosce all'uomo il
rispetto della sua personalità, come singolo e nelle formazioni sociali ove tale personalità si
svolge.
Un duplice spunto di convalida al diritto di riservatezza si trae anche dall'art. 3 Cost. sia perché,
riconoscendosi la dignità sociale del cittadino, si rende necessaria una sfera di autonomia che
garantisca tale dignità, sia in quanto rientrano nei limiti di fatto della libertà ed eguaglianza dei
cittadini anche quelle menomazioni cagionate dalle indebite ingerenze altrui nella sfera di
autonomia di ogni persona. E, sotto questo profilo, va ricordata anche la inviolabilità della libertà
personale (art. 13), intesa questa in un senso più ampio della libertà meramente fisica.

Entrano in campo i diritti costituzionali. Il giudice sta dicendo che non soltanto ci sono questi “brani”
normativi che convergono nell’attribuire rilevanza al valore della riservatezza, ma anche i principi apicali
dell’ordinamento e norme internazionali contengono direttamente o meno lasciano emergere tale
considerazione della riservatezza. Per cui, se si mettono insieme tutte queste disposizioni insieme viene fuori
che l’ordinamento tutela la riservatezza.

In accoglimento, quindi, dell'ottavo motivo del ricorso principale - pur non essendo opportuno
dare del diritto alla riservatezza rigide descrizioni analitiche di impaccio alla necessaria duttilità
del suo preciso contenuto e alle esigenze degli ambienti, delle zone e dei tempi - può affermarsi
che tale diritto consiste nella tutela di quelle situazioni e vicende strettamente personali e
familiari, le quali, anche se verificatesi fuori del domicilio domestico, non hanno per i terzi un
interesse socialmente apprezzabile, contro le ingerenze che, sia pure compiute con mezzi leciti,
per scopi non esclusivamente speculativi e senza offesa per l'onore, la reputazione e il decoro,
non siano giustificate da interessi pubblici preminenti.
Si riprenderà la spiegazione da questo passo della sentenza.

LEZIONE 21
18/11/20

RIEPILOGO
Si è partiti dal problema della individuazione di un criterio al quale affidare la decisione in ordine alla rilevanza
delle perdite patrimoniali risarcibili ex art. 2043 del codice civile.
Dietro l’art. 2043 si muove minacciosa l’ombra dell’imprenditore dell’esempio che subisce una grave perdita
patrimoniale di cui però non può dolersi perché essa non si collega alla vulnerazione di un cespite presente
nel patrimonio del danneggiato sulla base di un titolo giuridico: è il caso dell’imprenditore sbaragliato dal
concorrente. La perdita c’è ma non è risarcibile.
La funzione della responsabilità civile è quella di spostare la perdita dal patrimonio a carico della quale la
perdita si è prodotto in direzione di un altro patrimonio individuato secondo i criteri propri della regola della
responsabilità civile. Le modalità del trasferimento della perdita entrano in gioco solo dopo aver risposto alla
domanda se questa vada spostata o meno. Nella logica dell’art. 2043 il criterio dello spostamento (c.d.
traslazione del danno) è affidato al danno ingiusto, cioè alla circostanza che la perdita patrimoniale sia
collegata alla lesione di un interesse giuridicamente protetto, perché altrimenti la perdita si verifica ma non
è risarcibile e non si pone il problema della traslazione della perdita e quindi le regole della responsabilità
civile non entrano in gioco.
Il cuore del giudizio di responsabilità è rappresentato dall’ingiustizia del danno.
Dopo di che, si è passati ad affermare che storicamente questo requisito dell’ingiustizia del danno è stato
interpretato in modo molto restrittivo, perché la convenzione interpretativa a lungo dominante (fino al 1971)
predicava che il requisito dell’ingiustizia fosse integrato solo in presenza della lesione di un diritto assoluto:
gli unici interessi, in dipendenza della quale lesione fosse scaturita lesione patrimoniale, erano quelli protetti
nella forma del diritto soggettivo assoluto. La tesi trovava conforto non soltanto in una tradizione consolidata
ma anche nelle norme del codice civile (sia quello del 1865 che in quello del 1942), dove erano previste e
contemplate una serie di ipotesi in cui il risarcimento del danno era accordato espressamente dal legislatore,
ed erano tutte ipotesi caratterizzate dalla lesione di un diritto assoluto. Per cui il riferimento dell’ingiustizia
del danno era un rinvio alle fattispecie già predeterminate dal legislatore.
La sentenza del 1953 si inscrive all’interno di questa linea e ribadisce il primato aquiliano del diritto assoluto,
certo lo fa con dei contorcimenti vistosi, vista la questione della risarcibilità del diritto agli alimenti che è un
diritto di credito.
Nel 1971 si verifica la svolta epocale, e le Sezioni Unite invece superano e archiviano definitivamente la
convenzione interpretativa abbracciando un’interpretazione molto più fedele alla lettera dell’art. 2043,
perché da nessuna parte c’è scritto e non si può ricavare la regola per cui il danno risarcibile è solo quello da
lesione di diritto assoluto, perché in realtà il dato che si ricava dall’art. 2043 il danno risarcibile è quello dipeso
da una condotta non iure e contra ius, una condotta lesiva di un diritto soggettivo, senza che sia possibile se
non arbitrariamente tra diritti relativi e assoluti; aggiunge subito dopo che oltre non si può andare: il diritto
soggettivo rappresenta il limite invalicabile dell’ingiustizia del danno. Ove mai si dessero interessi protetti
dalla legge in modalità diversa dal diritto soggettivo la loro lesione sarebbe aquilianamente irrilevante.
Questa visione è recepita dalla sentenza del 1975, che si misura con il problema rappresentato dall’esigenza
di rimediare a una lacuna del sistema, riconducibile all’inesistenza di una norma che tuteli in via generale il
valore della riservatezza. La Cassazione si misura con il problema del rinvenimento ad opera del giudice del
diritto soggettivo alla riservatezza. La strategia del giudice del 1975 è quella di selezionare norme presenti
nell’ordinamento le quali in un primo gruppo si tutela indirettamente la riservatezza (diritto al nome,
all’immagine ecc.) e in un secondo gruppo si tutela direttamente profili specifici della riservatezza o la
riservatezza contro ingerenze specifiche. In seguito si individuano principi apicali contenute nella costituzione
e in norme sovranazionali. Mettendo insieme tutte queste norme il giudice ricava un diritto soggettivo alla
riservatezza esteso al c.d. domicilio ideale. Tuttavia, per quanto innovativa sotto il profilo del metodo
adottato dal giudice che si fa carica del rinvenimento di questo diritto che esisterebbe virtualmente e
cripticamente tra le pieghe dell’ordinamento giuridico, la sentenza in realtà tiene fermo il riferimento al
diritto soggettivo. Tutte le sentenze hanno in comune il diritto soggettivo, oltre il quale non si può accordare
tutela aquiliana: non c’è margine per l’applicazione del dispositivo aquiliano.

CORTE DI CASSAZIONE, sezioni unite, sentenza 22 luglio 1999 n. 500


Con la sentenza n. 500 del 1999 anche il limite del diritto soggettivo viene superato e la tutela aquiliana si
apre fino ad includere tra gli interessi giuridicamente protetti gli interessi legittimi.
Il caso è quello del proprietario di un fondo urbano il quale lamenta la circostanza che il piano regolatore del
Comune di Fiesole non aveva incluso l’area di cui egli era proprietario tra quelle edificabili, che incideva sul
valore economico del suo fondo. Il piano regolatore è un provvedimento amministrativo e i provvedimenti
amministrativi per definizione non ledono diritti soggettivi. Se ci si soffermasse alla giurisprudenza presa in
esame fino ad ora, anche la giurisprudenza delle pronunce del ’71 e del ’75, si arriverebbe alla conclusione
che il danno patito dal ricorrente sarebbe non risarcibile.
Il secondo problema è quello del giudice competente: il giudice civile non è competente a conoscere per gli
interessi legittimi, ma lo è il giudice amministrativo. Questa questione è strettamente intrecciata con la
prima.

È noto che la giurisprudenza di questa S.C. ha compiuto una progressiva erosione dell'assolutezza
del principio che vuole risarcibile, ai sensi dell'art. 2043 c.c, soltanto la lesione del diritto
soggettivo, procedendo ad un costante ampliamento dell'area della risarcibilità del danno
aquiliano, quantomeno nei rapporti tra privati. Un primo significativo passo in tale direzione è
rappresentato dal riconoscimento della risarcibilità non soltanto dei diritti assoluti, come si
riteneva tradizionalmente, ma anche dei diritti relativi (va ricordata anzitutto la sent. n. 174-71,
alla quale si deve la prima affermazione del principio, successivamente ribadita da varie
pronunce, che esprimono un orientamento ormai consolidato: sent. n. 2105- 80; n. 555-84; n.
5699-86; n. 9407-87). È quindi seguito il riconoscimento della risarcibilità di varie posizioni
giuridiche, che del diritto soggettivo non avevano la consistenza, ma che la giurisprudenza di
volta in volta elevava alla dignità di diritto soggettivo: è il caso del c.d. diritto all'integrità del
patrimonio o alla libera determinazione negoziale, che ha avuto frequenti applicazioni (sent. n.
2765-82; n. 4755-86; n. 1147-92; n. 3903- 95), ed in relazione al quale è stata affermata, tra
l'altro, la risarcibilità del danno da perdita di chance, intesa come probabilità effettiva e congrua
di conseguire un risultato utile, da accertare secondo il calcolo delle probabilità o per presunzioni
(sent. n. 6506-85; n. 6657-91; n. 781-92; n. 4725- 93). Ma ancor più significativo è stato il
riconoscimento della risarcibilità della lesione di legittime aspettative di natura patrimoniale nei
rapporti familiari (sent. n. 4137-81; n. 6651-82; n. 1959-95), ed anche nell'ambito della famiglia
di fatto (sent. n. 2988-94), purché si tratti, appunto, di aspettative qualificabili come "legittime"
(e non di mere aspettative semplici), in relazione sia a precetti normativi che a principi etico -
sociali di solidarietà familiare e di costume.

Le sezioni unite ripercorrono la giurisprudenza di legittima nell’ottica della vicenda loro sottoposta. La
questione cruciale è la risarcibilità di un interesse legittimo, in una forma diversa di quella del diritto
soggettivo. Le Sezioni Unite prendono le mosse dalla famosa pronunzia del 1971 perché è vero che viene
ribadita la risarcibilità del danno di diritto soggettivo ma per la prima volta si assiste alla erosione del principio
secondo cui è risarcibile soltanto il danno del diritto soggettivo. Questo non è del tutto vero perché il giudice
del caso Meroni va oltre la regola giurisprudenziale secondo cui il danno risarcibile è esteso ai diritti relativi
ribadendo la necessità che l’interesse leso dovesse essere tutelato nella forma del diritto soggettivo. Si passa
a una classe più estesa che include i diritti di credito.
Poi ci sono interessanti richiami ai precedenti sulla perdita patrimoniale della perdita di chance, che però
viene riconosciuto ma la giurisprudenza dice che si tratta pur sempre di lesione di diritto soggettivo alla
integrità del patrimonio. Come il giudice del 1975, siccome c’è il vincolo della necessaria conformazione nel
senso del diritto soggettivo, se i giudici vogliono dare ingresso alla tutela aquiliana necessariamente si deve
dire che la lesione deve essere ad un diritto soggettivo. L’ampliamento dell’ambito di operatività del
dispositivo aquiliano c’è, ma sempre nell’ambito dei diritti soggettivi.
Si ha anche il caso di lesione di legittime aspettative patrimoniali, il giudice si convince che in questi casi sia
giusto risarcire chi ha subito il danno e allora è costretto ad immaginare che l’interesse leso sia protetto nella
forma del diritto soggettivo.

Siffatta evoluzione giurisprudenziale è stata condivisa nella sostanza della dottrina, che ha
apprezzato le ragioni di giustizia che la ispiravano, ma ha tuttavia avuto buon gioco nel rilevare
che la S.C., pur riaffermando il principio dell'identificazione del "danno ingiusto" con la lesione del
diritto soggettivo, in pratica lo disattendeva sempre più spesso, "mascherando" da diritto
soggettivo situazioni che non avevano tale consistenza, come il preteso diritto all'integrità del
patrimonio, le aspettative, le situazioni possessorie.

Qui la Corte dice che in realtà non sono diritti soggettivi, sono interessi diversi, che i giudici mascherano da
diritti soggettivi. La dottrina si accorge della artificiosità dell’operazione. Era condivisibile mettere la tutela
aquiliana a servizio di questi interessi, ma non andava bene che i giudici continuassero a mascherare questa
scelta, creando nuovi diritti soggettivi.

La via maestra che la dottrina suggeriva era invece quella di prendere atto che l'art. 2043 c.c. non
costituisce norma secondaria (di sanzione) rispetto a norme primarie (di divieto), ma racchiude in
sé una clausola generale primaria, espressa dalla formula "danno ingiusto", in virtù della quale è
risarcibile il danno che presenta le caratteristiche dell'ingiustizia, in quanto lesivo di interessi ai
quali l'ordinamento, prendendoli in considerazione sotto vari profili (esulanti dalle tematiche del
risarcimento), attribuisce rilevanza.

Qui c’è la critica alla tesi secondo cui l’art. 2043 sarebbe norma secondaria, che è la tesi a fondamento della
convenzione interpretativa, secondo la quale l’art. 2043 avrebbe avuto il compito di indicare le modalità di
trasferimento, fermo restando che cosa fosse l’ingiustizia del danno era indicato dalle norme che
puntualmente enumeravano le ipotesi in cui il danno fosse risarcibile. La dottrina via via si emancipa da
questa visione angusta e perviene alla conclusione alla stregua della quale l’art. 2043, e segnatamente il
segmento del danno ingiusto, integrerebbe gli estremi di una clausola generale. Significa che se si interpreta
in questi termini l’ingiustizia del danno, il danno risarcibile sarà quello collegato alla lesione di un interesse
giuridicamente protetto anche se non nella forma del diritto soggettivo.
Es. caso del possesso, caso emblematico perché tutti convengono in ordine alla circostanza che il possessore
non sia titolare di un diritto soggettivo, si dice che il possesso è una situazione di fatto. il che è un assurdo
perché l’ordinamento ricollega effetti molto importanti al possesso, per cui il possesso protratto nel tempo
dà luogo ad usucapione. È protetto perfino in sede giurisdizionale alla stregua di un diritto soggettivo, pur
non essendolo (azione di spoglio), si può ottenere dal giudice un provvedimento che condanni lo spogliante
o ha turbato l’esercizio del possesso o a restituire o a cessare la condotta molesta, anche se non si è
proprietari della cosa. Il possesso non si fonda su un titolo giuridico, non c’è dubbio che non sia un diritto
soggettivo, ma ciò non significa che il possesso in quanto tale sia una situazione di fatto.
La giurisprudenza a partire dagli anni ’60 non ha avuto dubbi sulla risarcibilità del danno da lesione del
possesso, anche se si cadeva nella tentazione di farne un diritto soggettivo. Al di là di questi espedienti
argomentativi, imposti dalla necessità di non lasciarsi alle spalle di un diritto soggettivo, quest’interesse era
protetto in una forma diversa del diritto soggettivo, ma protetto nella forma della tutela reale, al servizio del
quale poteva essere posta la tutela reale.
Allora in presenza di un caso come questo la dottrina prende atto che non serve ricercare sempre un diritto
soggettivo, basta dire che il danno ingiusto è integrata da una lesione di un interesse protetto a prescindere
dalla previsione espressa di tutela aquiliana. Se l’ordinamento tutela un interesse al punto da munirlo della
possibilità di accedere alla giurisdizione, come nel caso del possesso che pure non è un diritto soggettivo,
non si capisce perché se il possessore abbia subito una perdita patrimoniale gli si debba impedire di accedere
alla tutela aquiliana. È una ragione di assoluta e ineccepibile linearità, così nel caso emblematico del possesso
si assiste al superamento del vincolo del diritto soggettivo come condizione di accesso alla tutela risarcitoria.

LEZIONE 22
23/11/20

La Suprema Corte dice che “danno ingiusto” è una clausola generale che non si deve collegare
necessariamente alla lesione di un diritto soggettivo.
Es. caso del possesso: l’interesse non è tutelato nella forma del diritto soggettivo, perché il possesso non
poggia su un titolo giuridico ma su una situazione di fatto.
La Cassazione afferma che se l’interesse del possessore ad esempio è preso in considerazione sotto il profilo
della tutela reale, che è una presa in considerazione non è immediatamente risarcitoria, però c’è una norma
che dice che il possessore va reintegrato quando sia stato spogliato: l’interesse del possessore è rilevante per
l’ordinamento. Se già questa rilevanza si manifesta nella forma della tutela reale, perché se esiste una
clausola generale (come quella del danno ingiusto) non si può prendere in considerazione anche ai fini del
rimedio aquiliano? Nel caso del possesso non che un titolo giuridico nella forma di diritto soggettivo, ma il
titolo giuridico è nel fatto che l’ordinamento attribuisca azione di spoglio e di manutenzione. Se può chiedere
reintegra della situazione di fatto non si capisce perché non possa chiedere il risarcimento.
Così per il credito: se il creditore può chiedere l’azione di adempimento perché non può chiedere il
risarcimento del danno?
C’è una presa di posizione a monte del legislatore, da cui si desume che c’è un interesse giuridicamente
rilevante non si capisce per quale ragione escluderlo dal novero degli interessi dalla lesione dei quali è
possibile richiedere il risarcimento del danno.

Ma anche sotto tale profilo risulta che la soluzione negativa ha visto progressivamente ristretto il
suo ambito di applicazione, grazie ad operazioni di trasfigurazione di alcune figure di interesse
legittimo in diritti soggettivi, con conseguente apertura dell'accesso alla tutela risarcitoria ex art.
2043 c.c., a questi ultimi tradizionalmente riservata. Ciò è stato possibile focalizzando l'attenzione
sull'interesse materiale sotteso (o correlato) all'interesse legittimo. L'interesse legittimo non
rileva infatti come situazione meramente processuale, quale titolo di legittimazione per la
proposizione del ricorso al giudice amministrativo, del quale non sarebbe quindi neppure
ipotizzabile lesione produttiva di danno patrimoniale, ma ha anche natura sostanziale, nel senso
che si correla ad un interesse materiale del titolare ad un bene della vita, la cui lesione (in termini
di sacrificio o di insoddisfazione) può concretizzare danno. Anche nei riguardi della situazione di
interesse legittimo l'interesse effettivo che l'ordinamento intende proteggere è pur sempre
l'interesse ad un bene della vita: ciò che caratterizza l'interesse legittimo e lo distingue dal diritto
soggettivo è soltanto il modo o la misura con cui l'interesse sostanziale ottiene protezione.
L'interesse legittimo va quindi inteso (ed ormai in tal senso viene comunemente inteso) come la
posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita oggetto di un
provvedimento amministrativo e consistente nell'attribuzione a tale soggetto di poteri idonei ad
influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione
dell'interesse al bene. In altri termini, l'interesse legittimo emerge nel momento in cui l'interesse
del privato ad ottenere o a conservare un bene della vita viene a confronto con il potere
amministrativo, e cioè con il potere della P.A. di soddisfare l'interesse (con provvedimenti
ampliativi della sfera giuridica dell'istante), o di sacrificarlo (con provvedimenti ablatori). Si
delinea così, in riferimento alle diverse forme della protezione, la distinzione, ormai acquisita e di
uso corrente, tra "interessi oppositivi" ed "interessi pretensivi", secondo che la protezione sia
conferita al fine di evitare un provvedimento sfavorevole ovvero per ottenere un provvedimento
favorevole: i primi soddisfano istanze di conservazione della sfera giuridica personale e
patrimoniale del soggetto; i secondi istanze di sviluppo della sfera giuridica personale e
patrimoniale del soggetto.

Vero è che l’interesse legittimo è diverso dal diritto soggettivo, ma al pari del diritto soggettivo tutela un
bene della vita.
Nel caso in questione la mancata inclusione nell’area edificabile porta un danno al proprietario. Non è che il
signor Vitali abbia il diritto di costruire o di far costruire sull’area di cui è proprietario, né ha un diritto
soggettivo ad ottenere un provvedimento che lo renda possibile. però ha un interesse ad una valutazione da
parte della P.A. ad un apprezzamento degli interessi a base della decisione sul piano regolatore che si
rispettoso di alcuni canoni: ha interesse ad una valutazione corretta dello stato di cose da parte della P.A.
Questo interesse non è fine a se stesso ma collegato a un bene della vita (un’area della cui edificabilità si
discute). Questo interesse legittimo è riflesso delle regole che limitano e disciplinano l’azione della P.A. ma è
collegato ad un bene materiale, tanto è vero che quando l’area viene esclusa da quelle edificabili il signor
Vitali subisce un danno.
Il cittadino interferito negativamente dall’azione della P.A. può chiedere l’annullamento dell’atto
amministrativo (da parte del giudice amministrativo). Allora ci sono indicatori esulanti dalle tematiche del
risarcimento che dimostrano che l’interesse è preso in considerazione dall’ordinamento, al punto che il
cittadino destinatario del provvedimento è dotato del potere di chiedere l’annullamento, così come il
possessore è legittimato a chiedere la reintegra e il creditore di agire per l’adempimento.
Anche nel caso dell’interesse legittimo c’è un indicatore dell’interesse del singolo all’ottenimento di quel
bene della vita e la lesione di questo interesse allora può dare vita al risarcimento del danno.

È noto che l'opinione tradizionale, formatasi dopo l'entrata in vigore del codice civile del 1942,
secondo la quale la responsabilità aquiliana si configura come sanzione di un illecito, si fonda
sulle seguenti affermazioni: l'art. 2043 c.c. prevede l'obbligo del risarcimento del danno quale
sanzione per una condotta che si qualifica come illecita, sia perché contrassegnata dalla colpa del
suo autore, sia perché lesiva di una posizione giuridica della vittima tutelata erga omnes da altra
norma primaria; l'ingiustizia menzionata dall'art. 2043 c.c. è male riferita al danno, dovendo
piuttosto essere considerata attribuito della condotta, ed identificata con l'illiceità, da intendersi
nel duplice senso suindicato; la responsabilità aquiliana postula quindi che il danno inferto
presenti la duplice caratteristica di essere contra ius, e cioè lesivo di un diritto soggettivo
(assoluto), e non iure, e cioè derivante da un comportamento non giustificato da altra norma. In
senso contrario, aderendo ai rilievi critici che la dottrina assolutamente prevalente ha mosso alle
suindicate affermazioni, può tuttavia osservarsi, per un verso, che non emerge dal tenore
letterale dell'art. 2043 c.c. che oggetto della tutela risarcitoria sia esclusivamente il diritto
soggettivo (e tantomeno il diritto assoluto, come ha convenuto la giurisprudenza di questa S.C.
con la sentenza n. 174-71, con orientamento divenuto poi costante); per altro verso, che la
scissione della formula "danno ingiusto", per riferire l'aggettivazione alla condotta, costituisce
indubbia forzatura della lettera della norma, secondo la quale l'ingiustizia è requisito del danno.
Non può negarsi che nella disposizione in esame risulta netta la centralità del danno, del quale
viene previsto il risarcimento qualora sia "ingiusto", mentre la colpevolezza della condotta (in
quanto contrassegnata da dolo o colpa) attiene all'imputabilità della responsabilità. L'area della
risarcibilità non è quindi definita da altre norme recanti divieti e quindi costitutive di diritti (con
conseguente tipicità dell'illecito in quanto fatto lesivo di ben determinate situazioni ritenute dal
legislatore meritevoli di tutela), bensì da una clausola generale, espressa dalla formula "danno
ingiusto", in virtù della quale è risarcibile il danno che presenta le caratteristiche dell'ingiustizia, e
cioè il danno arrecato non iure, da ravvisarsi nel danno inferto in difetto di una causa di
giustificazione (non iure), che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l'ordinamento
(altra opinione ricollega l'ingiustizia del danno alla violazione del limite costituzionale di
solidarietà, desumibile dagli artt. 2 e 41, comma 2, Cost., in riferimento a preesistenti situazioni
del soggetto danneggiato giuridicamente rilevanti, e sotto tale ultimo profilo le tesi
sostanzialmente convergono). Ne consegue che la norma sulla responsabilità aquiliana non è
norma (secondaria), volta a sanzionare una condotta vietata da altre norme (primarie), bensì
norma (primaria) volta ad apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto da un
soggetto per effetto dell'attività altrui. In definitiva, ai fini della configurabilità della
responsabilità acquiliana non assume rilievo determinante la qualificazione formale della
posizione giuridica vantata dal soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione
alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un
interesse giuridicamente rilevante.

Quali siano gli interessi meritevoli di tutela non è possibile stabilirlo a priori: caratteristica del
fatto illecito delineato dall'art. 2043 c.c., inteso nei sensi suindicati come norma primaria di
protezione, è infatti la sua atipicità. Compito del giudice, chiamato ad attuare la tutela ex art.
2043 c.c., è quindi quello di procedere ad una selezione degli interessi giuridicamente rilevanti,
poiché solo la lesione di un interesse siffatto può dare luogo ad un "danno ingiusto", ed a tanto
provvederà istituendo un giudizio di comparazione degli interessi in conflitto, e cioè dell'interesse
effettivo del soggetto che si afferma danneggiato, e dell'interesse che il comportamento lesivo
dell'autore del fatto è volto a perseguire, al fine di accertare se il sacrificio dell'interesse del
soggetto danneggiato trovi o meno giustificazione nella realizzazione del contrapposto interesse
dell'autore della condotta, in ragione della sua prevalenza. Comparazione e valutazione che, è
bene precisarlo, non sono rimesse alla discrezionalità del giudice, ma che vanno condotte alla
stregua del diritto positivo, al fine di accertare se, e con quale consistenza ed intensità,
l'ordinamento assicura tutela all'interesse del danneggiato, con disposizioni specifiche (così
risolvendo in radice il conflitto, come avviene nel caso di interesse protetto nella forma del diritto
soggettivo, soprattutto quando si tratta di diritti costituzionalmente garantiti o di diritti della
personalità), ovvero comunque lo prende in considerazione sotto altri profili (diversi dalla tutela
risarcitoria), manifestando così una esigenza di protezione (nel qual caso la composizione del
conflitto con il contrapposto interesse è affidata alla decisione del giudice, che dovrà stabilire se si
è verificata una rottura del "giusto" equilibrio intersoggettivo, e provvedere a ristabilirlo
mediante il risarcimento). In particolare, nel caso (che qui interessa) di conflitto tra interesse
individuale perseguito dal privato ed interesse ultraindividuale perseguito dalla P.A., la soluzione
non è senz'altro determinata dalla diversa qualità dei contrapposti interessi, poiché la prevalenza
dell'interesse ultraindividuale, con correlativo sacrificio di quello individuale, può verificarsi
soltanto se l'azione amministrativa è conforme ai principi di legalità e di buona amministrazione,
e non anche quando è contraria a tali principi (ed è contrassegnata, oltre che da illegittimità,
anche dal dolo o dalla colpa, come più avanti si vedrà).

Si mettono a confronto due modelli di responsabilità civile:


- quello sanzionatorio, per cui le norme in materia di responsabilità civile sarebbero norme che
contengono la sanzione per una condotta illecita, tant’è vero che in questa prospettiva il requisito
dell’ingiustizia viene separato dal riferimento al danno e riportato alla condotta: quindi, il
risarcimento sarebbe la sanzione per chi ha adotta una condotta ingiusta (cioè illecita, contraria a
norma di legge), la quale si è risolta nella lesione di un diritto soggettivo. Questa è la lettura
tradizionale che neutralizza la forza costruttiva dell’ingiustizia del danno, è il punto di vista della
convenzione interpretativa. Proprio perché riferita alla condotta l’ingiustizia perde significato e quali
siano i casi nei quali il danno è risarcibile lo indicano altre norme del codice civile.
- La lettura alternativa, che si è andata via via affermando a partire dalla sentenza del 1971 (la quale
però ribadisce il primato del diritto soggettivo, che però ha il grande merito di riportare l’ingiustizia
al danno piuttosto che alla condotta), crea le basi per gli sviluppi successivi. Le S.U. dicono che la
lettura alternativa fa perno sull’ingiustizia del danno.
L’ingiustizia è attributo del danno e vale a discriminare tra le perdite patrimoniali risarcibili e quelle che non
lo sono. Fin qui il ragionamento delle S.U. è condivisibile. Diventa meno condivisibile quando tirano in ballo
la categoria dell’”atipicità”. Sono concettualizzazioni che contraddicono le premesse del ragionamento della
corte: si vuole distinguere tra ipotesi in cui sopravvive la vecchia prospettiva, nelle quali l’ingiustizia è in re
ipsa (lesione di un diritto assoluto); e poi ci sarebbero casi nei quali spetterebbe al giudice decidere,
attraverso la comparazione tra interessi contrapposti, se il danno sia risarcibile o meno, tra cui anche l’ipotesi
del danno da lesione di interesse legittimo.
Qui la Cassazione fa confusione perché intanto atipico non vuol dire niente, come niente vuol dire clausola
generale. Prendiamo il caso del possesso: si può dire che il risarcimento del danno da lesione del possesso
sia un caso di illecito atipico? Atipico rispetto a cosa? Atipico può significare due cose: 1) se il legislatore non
ha espressamente previsto la risarcibilità, allora lo stesso discorso andrebbe fatto per il diritto di credito, per
cui sarebbe anche quello atipico; 2) si potrebbe dire che sia atipico tutte le volte in cui è il giudice che decide
se quell’interesse è meritevole di tutela o no. In un sistema come il nostro questa possibilità è esclusa: il
giudice non decide se un interesse goda o meno della tutela risarcitoria, a deciderlo è il legislatore quando
include l’interesse tra quelli per cui il legislatore prevede una qualche forma di tutela.
Molto più sensatamente le S.U. prima affermano: l’art. 2043 […] racchiude in sé una clausola generale
primaria, espressa dalla formula "danno ingiusto", in virtù della quale è risarcibile il danno che presenta le
caratteristiche dell'ingiustizia, in quanto lesivo di interessi ai quali l'ordinamento, prendendoli in
considerazione sotto vari profili (esulanti dalle tematiche del risarcimento), attribuisce rilevanza.
Allora non è il giudice che dice quale interesse sia degno di tutela risarcitoria. Se l’ordinamento giuridico ha
già preso una posizione (dotando il privato di azioni) non c’è niente di atipico: sono tutti interessi già presi in
considerazione sebbene con tutele diverse da quella risarcitoria. Non è il giudice a fondare l’ingiustizia del
danno, l’ingiustizia preesiste al giudizio.
Sono risarcibili, allora, i danni che derivino dalla lesione di un interesse giuridicamente protetto quale che sia
la forma di tutela di quell’interesse: questo vuol dire ingiustizia.

LEZIONE 23
24/11/20

Continuando con la sentenza del 1999:

Una volta stabilito che la normativa sulla responsabilità aquiliana ha funzione di riparazione del
"danno ingiusto", e che è ingiusto il danno che l'ordinamento non può tollerare che rimanga a
carico della vittima, ma che va trasferito sull'autore del fatto, in quanto lesivo di interessi
giuridicamente rilevanti, quale che sia la loro qualificazione formale, ed in particolare senza che
assuma rilievo determinante la loro qualificazione in termini di diritto soggettivo, risulta superata
in radice, per il venir meno del suo presupposto formale, la tesi che nega la risarcibilità degli
interessi legittimi quale corollario della tradizionale lettura dell'art. 2043 c.c.

I giudici avevano detto in precedenza che anche nel caso dell’interesse legittimo si è in presenza di un
interesse collegato ad un bene della vita, anche se il modo in cui si fa valere questo interesse è diverso dal
modo in cui si fa valere l’interesse sotteso ad un diritto di proprietà o di credito.
Chi agisce per l’annullamento di un provvedimento amministrativo ha un interesse egoistico ad ottenerlo,
non agisce nella veste di soggetto che agisce per un interesse collettivo di buon andamento della P.A.
Il privato fa valere un interesse suo, che non è interesse alla rimozione del provvedimento in sé per sé, ma la
speranza in una sorte diversa per il privato e per i suoi interessi. Se l’ordinamento tutela l’interesse “finale”
ad ottenere dalla P.A. un provvedimento conforme alle aspettative del singolo lo tutela indirettamente,
altrimenti avremmo un diritto soggettivo. Chi fa valere l’interesse deve necessariamente passare attraverso
declaratoria di illegittimità del provvedimento amministrativo, da qui si desume la tutela indiretta. Chi
subisce provvedimento sfavorevole non può solamente invocare subito il danno subìto, c’è una tutela
indiretta, mediata dalla declaratoria di illegittimità del provvedimento stesso. Sia che si tratti di una tutela
diretta (diritti soggettivi) che indiretta, sempre di una tutela giuridica si tratta, che è l’univoco indicatore della
rilevanza dal punto di vista dell’ordinamento dell’interesse.
Stando così le cose, si tratta sempre di tutela giuridica e a quel punto la presa di posizione dell’ordinamento
è chiara: l’interesse del privato cittadino ad una valutazione corretta da parte della P.A. delle situazioni di
fatto è un interesse preso in considerazione dall’ordinamento, e non si può negare allora il risarcimento se
non per puro arbitrio (lo stesso arbitrio che colpiva il diritto di credito nei confronti dei diritti assoluti). Questo
è quello che dicono le S.U.
Si era letto, al pgf. 4, della sentenza “esulanti dalle tematiche del risarcimento”: è ingiusto il danno che
consiste nella lesione di un interesse giuridicamente protetto prima della formulazione del giudizio di
ingiustizia.
Non c’entra la clausola generale, la valutazione, la comparazione o l’atipicità: se l’ordinamento ha tutelato
attraverso meccanismi di protezione reale un certo interesse non c’è nulla di più tipico, non può essere il
giudice a decidere se un interesse è o no giuridicamente protetto.
Se l’ordinamento decreta la rilevanza di un interesse mobilitando la tutela giurisdizionale, secondo modalità
diverse che tengono conto della varietà dello stato di cose, non c’è più nulla da fare: la perdita patrimoniale
seguente alla lesione di un interesse giuridicamente protetto (indipendentemente da come si articola e si
atteggia la sua tutela) dà ingresso alla risarcibilità del danno, e qui risiede il significato di danno ingiusto.

La lesione di un interesse legittimo, al pari di quella di un diritto soggettivo o di altro interesse


(non di mero fatto ma) giuridicamente rilevante, rientra infatti nella fattispecie della
responsabilità aquiliana solo ai fini della qualificazione del danno come ingiusto. Ciò non equivale
certamente ad affermare la indiscriminata risarcibilità degli interessi legittimi come categoria
generale. Potrà infatti pervenirsi al risarcimento soltanto se l'attività illegittima della P.A. abbia
determinato la lesione dell'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo, secondo il
concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta meritevole di
protezione alla stregua dell'ordinamento. In altri termini, la lesione dell'interesse legittimo è
condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c.,
poiché occorre altresì che risulti leso, per effetto dell'attività illegittima (e colpevole) della P.A.,
l'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene
risulti meritevole di tutela alla luce dell'ordinamento positivo.
L’attività illegittima della p.a. deve avere una ricaduta negativa reale, ci deve essere un danno altrimenti il
provvedimento non sarebbe neppure aggredibile dal privato.

Per quanto concerne gli interessi legittimi oppositivi, potrà ravvisarsi danno ingiusto nel sacrificio
dell'interesse alla conservazione del bene o della situazione di vantaggio conseguente
all'illegittimo esercizio del potere. Così confermando, nel risultato al quale si perviene, il
precedente orientamento, qualora il detto interesse sia tutelato nelle forme del diritto soggettivo,
ma ampliandone la portata nell'ipotesi in cui siffatta forma di tutela piena non sia ravvisabile e
tuttavia l'interesse risulti giuridicamente rilevante nei sensi suindicati.

Interesse oppositivo, per es., è il caso della espropriazione. Lì è il concreto provvedimento amministrativo
adottato che nel momento in cui determina l’ablazione del diritto in capo al titolare provoca un danno. Solo
che la reazione non può che avvenire nella forma di interesse legittimo, perché il diritto soggettivo è stato
rimosso dal provvedimento. Il proprietario, che medio tempore, in realtà, non lo è più, deve impugnare il
provvedimento ablativo e chiedere conseguentemente il risarcimento del danno. È detto oppositivo perché
l’azione “difensiva” del privato è rivolta a ottenere il ripristino della situazione ex ante, precedente
all’adozione del provvedimento amministrativo.

Circa gli interessi pretensivi, la cui lesione si configura nel caso di illegittimo diniego del richiesto
provvedimento o di ingiustificato ritardo nella sua adozione, dovrà invece vagliarsi la consistenza
della protezione che l'ordinamento riserva alle istanze di ampliamento della sfera giuridica del
pretendente. Valutazione che implica un giudizio prognostico, da condurre in riferimento alla
normativa di settore, sulla fondatezza o meno della istanza, onde stabilire se il pretendente fosse
titolare non già di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, bensì di una situazione
suscettiva di determinare un oggettivo affidamento circa la sua conclusione positiva, e cioè di una
situazione che, secondo la disciplina applicabile, era destinata, secondo un criterio di normalità,
ad un esito favorevole, e risultava quindi giuridicamente protetta.

Nel caso degli interessi pretensivi il quadro è più complicato, perché la situazione di partenza è più fluida. Nel
caso in esame, il signor Vitali è proprietario dell’area e la P.A. non lo ha privato della proprietà, ma sulla base
del piano regolatore non l’ha inclusa tra le aree edificabili. Qui si va nel merito della discrezionalità
amministrativa. Qui la posizione del privato merita di essere tutelata quando il pretendente fosse titolare
non solo di una mera aspettativa. Se l’area in questione appartiene ad una tipologia di aree tutte incluse nel
piano regolatore generale, allora si deve ritenere che il comportamento della P.A. sia del tutto arbitrario.
Si immagini oppure la situazione per cui da sempre quell’area fosse inclusa tra quelle edificabili: c’è un
affidamento frustrato.

Per quanto concerne, invece, il merito della pretesa, la nuova lettura dell'art. 2043 c.c. alla quale
queste S.U. sono pervenute, impone di fornire alcune precisazioni circa i criteri ai quali deve
attenersi il giudice di merito. Qualora sia stata dedotta davanti al giudice ordinario una domanda
risarcitoria ex art. 2043 c.c. nei confronti della P.A. per illegittimo esercizio della funzione
pubblica, il detto giudice, onde stabilire se la fattispecie concreta sia o meno riconducibile nello
schema normativo delineato dall'art. 2043 c.c., dovrà procedere, in ordine successivo, a svolgere
le seguenti indagini:
a) in primo luogo, dovrà accertare la sussistenza di un evento dannoso;
b) procederà quindi a stabilire se l'accertato danno sia qualificabile come danno ingiusto, in
relazione alla sua incidenza su un interesse rilevante per l'ordinamento, che può essere
indifferentemente un interesse tutelato nelle forme del diritto soggettivo (assoluto o relativo),
ovvero nelle forme dell'interesse legittimo (quando, cioè, questo risulti funzionale alla protezione
di un determinato bene della vita, poiché è la lesione dell'interesse al bene che rileva ai fini in
esame, o altro interesse (non elevato ad oggetto di immediata tutela, ma) giuridicamente
rilevante (in quanto preso in considerazione dall'ordinamento a fini diversi da quelli risarcitori, e
quindi non riconducibile a mero interesse di fatto);
c) dovrà inoltre accertare, sotto il profilo causale, facendo applicazione dei noti criteri generali, se
l'evento dannoso sia riferibile ad una condotta (positiva o omissiva) della P.A.;
d) provvederà, infine, a stabilire se il detto evento dannoso sia imputabile a dolo o colpa della
P.A.; la colpa (unitamente al dolo) costituisce infatti componente essenziale della fattispecie della
responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.

Questo è il tipo di accertamento che poi sempre bisogna fare dinnanzi a una domanda risarcitoria.
Se ricorrono tutte queste condizioni, che non sono particolarmente originali, il danno patito dal privato è
risarcibile.
La sentenza prosegue affrontando il problema del riparto di giurisdizione: giudice amministrativo
competente per l’annullamento e giudice ordinario per il risarcimento del danno. Il diritto soggettivo al
risarcimento del danno è diverso dall’interesse legittimo all’annullamento.
Oggi anche il risarcimento del danno è stato devoluto alla giurisdizione del giudice amministrativo.

LEZIONE 24
25/11/20

RISARCIMENTO DANNO NON PATRIMONIALE


Fino a questo momento si è concentrata l’attenzione sull’art. 2043 e ci si è occupati del danno patrimoniale,
collegati all’art. 2056 che rimanda all’art. 1223. L’art. 1223 dà una nozione di danno omogenea, cioè valida
tanto per il danno contrattuale tanto per quello extracontrattuale, per cui il danno risarcibile è il danno che
si lascia inquadrare nelle due voci del danno emergente e del lucro cessante. È evidente che l’uso di questa
terminologia rinvia ad una dimensione strettamente patrimoniale del danno: il danno sarebbe il decremento
che il patrimonio del soggetto abbia subìto in conseguenza di un certo evento, che sarà o l’inadempimento o
la condotta imputabile di un soggetto che abbia determinato la lesione di un interesse giuridicamente
protetto.
La perdita patrimoniale, quindi, si può manifestare o nella forma di un decremento netto o nella forma di un
mancato guadagno. La considerazione del danno patrimoniale dinamica dell’ordinamento considera il cespite
danneggiato non solo per il suo valore attuale decurtato a seguito degli eventi di cui si è detto, ma anche
sotto il profitto della sua idoneità a creare nuova ricchezza. Questo modo di atteggiarsi del danno è
sicuramente apprezzabile nell’ottica del patrimonio del danneggiato.

Il nostro sistema giuridico, oltre al danno patrimoniale, contempla anche il danno non patrimoniale in
particolare all’art. 2059 c.c.
Art. 2059 c.c. – DANNI NON PATRIMONIALI Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi
determinati dalla legge.
Come si avrà modo di vedere questa formulazione è uno di quei casi nei quali l’elaborazione dottrinale e
giurisprudenziale, pur lasciando invariato il testo della norma di riferimento, ha comportato una radicale
revisione del modo in cui questo enunciato legislativo è stato inteso. Le prese di posizione della
giurisprudenza sono state rese possibili e irrobustite da una coraggiosa e fervida riflessione teorica.
La lettera dell’art. 2059 pare caratterizzata dalla volontà del legislatore di circoscrivere la rilevanza del danno
non patrimoniale. È opportuno dire qualcosa a proposito della nozione di danno non patrimoniale.
Sembrerebbe molto intuitivo: l’opposto del danno patrimoniale. Sicuramente il danno non patrimoniale è
cosa diversa dal danno patrimoniale. Se il danno patrimoniale è la perdita di consistenza di un patrimonio
(che si può presentare nelle due forme, di danno emergente e lucro cessante), il danno non patrimoniale è
la negazione di tutto questo: qualcosa che non può essere liquidato e apprezzato sulla base di questi criteri.
Sappiamo cosa non è il danno non patrimoniale, fondamentalmente non interessa il patrimonio (inteso come
somma di valori calcolabili secondo la misura monetaria) del danneggiato. Il patrimonio di un soggetto può
essere composto anche da somme di denaro, ma spesso anche da beni diversi dal denaro, ma comunque
suscettibili di valutazione economica secondo quanto dice l’art. 1174. Tant’è vero che, siccome per la nozione
di patrimonialità viene ricavata dall’art. 1174, si è sempre ritenuto che il danno non patrimoniale non potesse
trovare dimora se non nell’ambito della responsabilità extracontrattuale. Mentre nella sua versione
patrimoniale il danno attraversa e accomuna responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, nel caso del
danno non patrimoniale saremmo in presenza di un unicum riferibile esclusivamente alla responsabilità
aquiliana. La ragione è rinvenibile nella circostanza che l’art. 1174 attribuisce alla prestazione il connotato
indisponibile dalle parti della patrimonialità intesa come assoggettabilità della prestazione ad un metro di
valutazione economica. Il danno da mancata prestazione non può che essere un danno patrimoniale,
confermato dall’art. 1223 del codice.
Il sistema della responsabilità civile si prende cura tanto dei danni patrimoniali (con la nozione derivata dal
danno contrattuale) ma si incarica di tutelare il soggetto anche contro ipotesi di danni non patrimoniali.

Non patrimoniale è sinonimo di non suscettibile di valutazione economica, è un danno che colpisce un bene
della vita non suscettibile di tale valutazione. Questo può essere interpretato in due modi diversi:
- Può significare che quel bene non è ontologicamente suscettibile di valutazione economica;
- Oppure può significare che l’ordinamento non vuole che quel bene sia fatto oggetto di una
valutazione economica.
Questi due significati sembrano accavallarsi, anche se sembra difficile immaginare beni che di per sé non
siano suscettibili di valutazione economica. Es. compravendita di organi, sembrerebbe di toccare uno degli
apici della non patrimonialità, ma esiste in realtà un fiorente mercato di organi umani. Il punto è che questi
scambi non sono leciti, non è un problema di ontologia quanto più di deontologia. L’ordinamento non
autorizza la valutazione economica di questi beni perché sono parti integranti di un valore che viene in
considerazione come non suscettibile di valutazione economica: cioè la vita o quantomeno l’integrità fisica
della persona umana.
Quindi, non patrimoniale è sinonimo di non suscettibile di valutazione economica, a sua volta sinonimo di
inesistenza di un mercato di scambi autorizzato dall’ordinamento giuridico.
Questa è una prima generica conclusione.
Il bene non suscettibile di valutazione economica deve essere giuridicamente protetto, che riecheggia
l’ingiustizia del danno ex art. 2043.

Questa prima generica definizione, pone ulteriore problema: che danno è un danno suscettibile di
valutazione economica? La questione potrebbe essere riformulata: è pensabile un danno che riguarda un
bene non suscettibile di valutazione economica? La patrimonialità del danno è conseguenza della
patrimonialità del bene in relazione al quale il danno si è verificato. Quando questo collegamento viene meno
si pone specularmente il problema di cosa debba intendersi per danno non patrimoniale. Il danno quando è
non patrimoniale si correla ad un bene non suscettibile di valutazione economica. Che significa danno? Che
perdita è una perdita per definizione non patrimoniale? Sembrerebbe tutto molto facile e invece non lo è.

Non esiste un catalogo dei beni non suscettibili di valutazione economica. Tant’è vero che si vedrà che questo
vuoto ha poi consentito alla dottrina e alla giurisprudenza di sbizzarrirsi in relazione all’individuazione di tali
beni. Bisogna procedere in modo empirico, passando in rassegna i modi attraverso i quali concretamente e
storicamente si è ritenuto di rispondere.
Tornando all’art. 2059, in una fase iniziale l’interpretazione è stata fortemente condizionata dalla riserva
contenuta nella formulazione dello stesso articolo. Questo in qualche modo agevola, cioè se l’art. 2059 dice
che il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge, basterebbe andare
a vedere quali sono questi casi per assumere informazioni su cosa debba intendersi per danno non
patrimoniale. Tuttavia, prendendo alcune di queste norme, anche quella che storicamente ha rappresentato
il pendant esterno cioè l’art. 185 c.p., dice esattamente la stessa cosa, riproponendo lo stesso problema.
Art. 185 cod. pen. Ogni reato obbliga alle restituzioni, a norma delle leggi civili.
Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole
e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui.
L’art. 185 c.p. soddisfa la riserva di legge, cioè la condizione principale posta alla risarcibilità del danno non
patrimoniale, cioè che sia previsto dalla legge. Qua il codice penale prevede espressamente tale risarcimento,
ma il punto è che l’art. 185 c.p. non ci dice cosa sia il danno non patrimoniale, risolve un problema interno
alla formulazione dell’art. 2059, cioè il problema della riserva di legge. Ci dice che il danno non patrimoniale
rileva quando si verifica un reato. La presenza del reato, dovrebbe rappresentare una traccia. Posto che il
danno non patrimoniale è il danno che si produce in relazione ad un bene non suscettibile di valutazione
economica, e posto che questo danno non patrimoniale è rilevante quando consegua alla consumazione di
un reato, quali sono le conseguenze che se possono tratte? La dottrina e la giurisprudenza ne hanno tratto
un paradigma, dominante fino agli anni ’70, arrivando alla conclusione per cui il danno non patrimoniale da
reato è quello che si chiama danno morale soggettivo. Cosa si intende? È la sofferenza psichica provocata
alla vittima dall’essere stato, appunto, vittima del reato.
Per es. in caso di rapina quando qualcuno la subisce, oltre al danno patrimoniale, cioè la sottrazione violenza
di un bene, subisce anche uno shock, un trauma, la paura di vedersi puntata contro una rivoltella provoca a
qualunque persona normale. La paura è una sofferenza, certo effimera perché a un certo punto può tornare
in mente per un certo periodo, però via via con il tempo questo alone negativo si dissolve. Però intanto c’è
stato un trauma e una sofferenza per la persona, che si determina in dipendenza di un comportamento che
riveste agli occhi del legislatore un grande disvalore, al punto che la condotta in questione è oggetto di
sanzione penale, la più grave che il civis può subire.
Quindi il danno non patrimoniale, in un primo momento, era il danno emotivo, lo shock provocato dalla
circostanza di essere vittime di un reato, ovvero il c.d. danno morale soggettivo, che si può produrre solo in
corrispondenza di un reato.
Questo sta a significare che in realtà, mentre il risarcimento in sede penale del danno patrimoniale da reato
risponde ad una logica di economia del processo per cui in sede di condanna si liquida anche il danno
patrimoniale (ma si potrebbe procedere in giudizi autonomi), invece il danno non patrimoniale esiste solo se
esiste il reato. Nel primo caso è un nesso estrinseco, perché si potrebbe subire lo stesso danno per un banale
inadempimento che in linea di massima non integra gli estremi del reato. Il nesso è costitutivo nel danno non
patrimoniale: soltanto il reato è in grado di provocare una emozione grande che merita di essere ristorata
con il pagamento di una somma di denaro.

LEZIONE 25
30/11/20

Si sono individuati i due problemi posti dall’art. 2059:


- Che cosa si deve intendere per danno non patrimoniale, in un sistema in cui tutto gravita in direzione
di un ristoro di una perdita patrimoniale improvvisamente questa disposizione fa menzione del
danno non patrimoniale senza dire nulla a proposito di cosa sia
- “solo nei casi previsti dalla legge”, quando il codice è entrato in vigore forse il problema non era
avvertito come tale, perché c’è una norma nel sistema precedente che è l’art. 185 c.2 c.p. che
prevede questa risarcibilità, quindi è verosimile supporre che nel momento in cui entro in vigore il
codice del 1942, il legislatore quasi per un fatto “estetico” (di completezza della sua esposizione)
introduce l’art. 2059 sapendo che in rinvio non può che essere inteso come rinvio alla norma del
codice penale.
Mutando il quadro, la formulazione si trasforma in un enorme problema che ha portato l’art. 2059 alle soglie
della illegittimità costituzionale come si vedrà. Nasce come norma di raccordo con quella penalistica e si
trasforma in una “bamba”.
La norma del codice penale ci dice molto poco, vero è che essendo contemplato dal legislatore penale la
condizione posta dall’art. 2059 è soddisfatta, ma ci dice molto poco su cosa debba intendersi per danno non
patrimoniale. Nell’ottica del legislatore del 1930, della dottrina che si forma a proposito dell’art. 185, il danno
non patrimoniale è il danno morale soggettivo (pregiudizio che subisce la vittima del reato per il fatto di
essere stata vittima del reato) che però è una nozione impalpabile, perché molto poco consistente: la
condizione “esistenziale” che si sperimenta a seguito del fatto di essere state vittime di una condotta
criminosa si può sperimentare anche indipendentemente dal reato.
Verosimilmente il c.d. danno morale soggettivo, che ha una consistenza labile perché non si capisce quale sia
il bene giuridico compromesso, ha l’obiettivo non tanto di tutelare la vittima del reato quanto piuttosto di
sanzionare ulteriormente il reo, una sorta di pena accessoria.
Il danno patrimoniale liquidato in sede penale è la stessa cosa del danno patrimoniale liquidato in sede civile.
Ma il danno non patrimoniale cos’è? Anche nella sua declinazione di danno morale soggettivo, esattamente
cos’è? come mai escono dalla nuvola del giuridicamente irrilevante e si convertono in danno giuridicamente
rilevante? La ragione è che il legislatore del 1930 ha l’obiettivo di prevedere una pena pecuniaria accessoria
a carico del reo. Viene fuori questa figura del patema d’animo, che è in re ipsa tra l’altro, soltanto per il fatto
di essere stati vittime di un reato: si vuole stigmatizzare il disvalore rappresentato dalla condotta che integra
gli estremi della fattispecie penale. Il focus non è sulla vittima è sul reo. La comminazione di questa pena
accessoria si sottrae al normale iter delle prove, è in re ipsa.
Vero è che poi il danno morale soggettivo il suo spazio all’interno del sistema del danno non patrimoniale lo
conserverà, ma sarà ridimensionato. L’esordio dell’art. 2059 è infelice, ma dal punto di vista dei due legislatori
dei due codici simmetrico e coerente.

Questo stato di cose si mantiene per molti anni, e il danno non patrimoniale rimane un po’ ai margini, perché
figura molto più familiare al codice penale e alla prassi penalistica che non a quella civilistica. Però anche qui,
come in altri ambiti, l’entrata in vigore della costituzione e il mutamento di clima culturale e politica,
determina una crisi di questo equilibrio, che precipita in una celebre pronuncia, passata alla storia come
“Sentenza Gennarino” del 1971. Gennarino è un ragazzino che a seguito di un incidente perde l’uso di un
arto, la fattispecie non è un reato, e la Cassazione se la cava dicendo che Gennarino essendo figlio di un
operaio nelle migliori delle ipotesi avrebbe potuto fare l’operaio come il padre. Avendo subito questa grave
menomazione non potrà lavorare, allora il danno è un danno patrimoniale perché il corpo viene in
considerazione come cespite patrimoniale, perché la forza lavoro genera reddito. Gennarino nel momento
in cui capita l’incidente però non lavorava (non c’è un riscontro oggettivo rappresentato dal salario), però è
anche vero che abbandonarlo al suo destino sembrava troppo perfino ai giudici della Cassazione, all’epoca
anche abbastanza conservatori, allora si cava questa soluzione. Resta che il danno è puramente patrimoniale,
che ha una sua logica se si considera la forza lavoro come cespite patrimoniale, però questo in un quadro
politico e ideologico molto movimentato suscita una reazione già tra gli stessi giudici di merito. I capifila di
questa rivolta furono i tribunali di Pisa e Genova, che formularono la nozione del danno biologico. Il danno
biologico è la prima incarnazione del danno non patrimoniale scisso dal reato: consiste in una lesione
dell’integrità psico-fisica della persona, che va valutata e risarcita indipendentemente dalle ricadute
reddituali. La perdita di funzionalità di un arto, la lesione dell’integrità psico-fisica è un danno che prescinde
dalla capacità del soggetto di produrre reddito: il danno così è per definizione non patrimoniale.
L’integrità psico-fisica è un bene della vita che sicuramente l’ordinamento tutela. Si disancora la rilevanza di
questo danno dalle conseguenze patrimoniali del danno stesso, inoltre si afferma la risarcibilità a prescindere
dal reato: non c’è più bisogno del reato, questo danno è diverso dal mero danno morale soggettivo. C’è
bisogno di un bene giuridico a cui ancorare tale danno: l’attenzione si sposta sulla vittima, che si deve
tutelare, lo scopo non è punire il colpevole.
Il danno biologico rappresenta un evento epocale: il danno non patrimoniale non può essere più appiattito
sul danno morale soggettivo e non è più assorbibile dal danno patrimoniale.
Il danno biologico, però, che è sicuramente una svolta nella storia della responsabilità civile, presenta un
inconveniente: se si adotta la logica dell’illecito aquiliano ci si trova di fronte ad una contraddizione. La logica
è che io ti sottraggo il bene, a seguito ci sono conseguenze patrimoniali apprezzabile sotto la forma di danno
emergente e lucro cessante che sono perdita patrimoniale risarcibile. Il danno risarcibile è conseguenza
dell’illecito consistente ad esempio nello spoglio, viene dopo l’illecito.
Nel caso del danno non patrimoniale questo schema trova applicazione? È stato molto discusso.
Sembrerebbe non esserci il danno conseguente, cioè che lo schema sia ridotto alla lesione del bene giuridico
protetto, cioè l’integrità psico-fisica della persona. Non sarebbero immediatamente visibili le conseguenze.
Sono due le sentenze che risolvono il problema esposto, e saranno analizzate nelle prossime lezioni.

LEZIONE 26
01/12/20

CORTE COSTITUZIONALE 14 luglio 1986, n. 184; NOTA COME “SENT. DELL’ANDRO” (dal nome del giudice
estensore)

Poiche' le predette ordinanze chiedono la dichiarazione d'illegittimita' costituzionale dell'art.


2059 c.c., nella parte in cui prevede la risarcibilita' del danno non patrimoniale derivante dalla
lesione d'un diritto costituzionalmente tutelato (salute) soltanto in conseguenza di reato, e'
doveroso qui esaminare quale nozione di danno non patrimoniale il diritto vivente trae
dall'interpretazione dell'art. 2059 c.c. Soltanto precisando l'ambito di comprensione della
predetta nozione, secondo l'esperienza della sua applicazione, e' dato chiarire se, ed in quali
limiti, al danno biologico sia applicabile l'art. 2059 c.c.
L'esame della legislazione e dei relativi lavori preparatori nonche' della giurisprudenza e della
dottrina, precedenti e successive all'emanazione del vigente codice civile, induce a ritenere che
nella nozione di danno non patrimoniale, di cui all'art. 2059 c.c., vadano compresi soltanto i danni
morali subiettivi.
A queste conclusioni si giunge (tenuto conto che il piu' rilevante dei "casi determinati dalla legge",
ex art. 2059 c.c., e' costituito dall'art. 185, secondo comma, c.p. e che l'espressione "danno non
patrimoniale" e' stata impiegata appunto in quest'ultimo articolo, prima che nell'art. 2059 c.c.)
sottolineando anzitutto i "precedenti legislativi" del risarcimento del danno non patrimoniale ex
art. 185 c.p. e la piu' che esplicita dichiarazione, contenuta nella relazione ministeriale al codice
penale del 1930, in ordine al mutamento della locuzione "danno morale" in quella di "danno non
patrimoniale". La prima sottolineatura va fatta ricordando che l'immediato "precedente"
legislativo del risarcimento del danno non patrimoniale ex secondo comma dell'art. 185 c.p. e' da
rintracciarsi negli artt. 38 del codice penale del 1889 e 7 del codice di procedura penale del 1913.
Questi ultimi articoli, nel prevedere la riparazione pecuniaria per alcuni reati, prescindono dalla
causazione del danno (da intendersi: patrimoniale). L'art. 38 del codice penale Zanardelli recita:
"Oltre alle restituzioni e al risarcimento dei danni, il giudice, per ogni delitto che offenda l'onore
della persona e della famiglia, ancorche' non abbia cagionato danno, puo' assegnare alla parte
offesa, che ne faccia domanda, una somma determinata a titolo di riparazione" E l'art. 7 del
codice di procedura penale del 1913, allargando l'ambito dei delitti per i quali e' consentita la
riparazione pecuniaria a sua volta recita: "Il reato puo' produrre azione civile per il risarcimento
del danno e per le restituzioni.
I delitti contro la persona e quelli che offendono la liberta' individuale, l'onore della persona o
della famiglia, l'inviolabilita' del domicilio o dei segreti, anche se non abbiano cagionato danno,
possono produrre azione civile per riparazione pecuniaria". L'art. 185 c.p., al secondo comma,
seguendo l'orientamento, gia' accolto dal codice di procedura penale del 1913, teso
all'allargamento delle ipotesi di riparazione pecuniaria, estende a tutti i reati (e non soltanto ad
alcuni delitti) la precitata riparazione, includendola nella generale nozione di risarcimento e
definendo "non patrimoniale" il danno morale subiettivo.
La seconda sottolineatura e' relativa, appunto, alle ragioni del cambiamento dell'espressione
"danno morale" con quella di "danno non patrimoniale": tali ragioni vengono chiarite, in maniera
inequivocabile, dalla stessa relazione ministeriale al progetto definitivo del codice penale del
1930, ove si fa riferimento, anzitutto, alla scelta operata in sede di risarcimento di danni morali
("Il carattere generale di tale principio, incompatibile con una enunciazione di casi tassativi di
applicabilita', mi ha indotto a non limitare la risarcibilita' del danno morale a casi particolari,
come taluno aveva suggerito") e si offre, successivamente, la ragione della nuova locuzione usata
per indicare il danno morale subiettivo: "Quanto alla designazione del concetto, ho creduto che la
locuzione "danno non patrimoniale" sia preferibile a quella di "danno morale", tenuto conto che
spesso nella terminologia corrente la locuzione di "danno morale" ha un valore equivoco e non
riesce a differenziare il danno morale puro da quei danni che, sebbene abbiano radice in offese
alla personalita' morale, direttamente od indirettamente menomano il patrimonio".
Da cio' s'evince che, almeno nelle intenzioni del legislatore penale del 1930, il danno non
patrimoniale, di cui al secondo comma dell'art. 185 c.p., costituisce l'equivalente del danno
morale subiettivo e che i danni direttamente od indirettamente incidenti sul patrimonio non
possono essere compresi nei danni non patrimoniali ex art. 185 c.p. Se a tutto cio' s'aggiunge che
gia' la dottrina precedente al 1930, contraria alla risarcibilita' dei danni morali, era partita da una
nozione ristretta dei medesimi ed aveva sottolineato che l'ansia, l'angoscia, le sofferenze fisiche o
psichiche ecc., appunto perche' effimere e non durature, non sono compensabili con equivalenti
monetari e non possono, pertanto, costituire oggetto di risarcimento; se si aggiunge ancora che
la giurisprudenza precedente al 1930, sensibile alle gia' citate critiche di una parte della dottrina,
aveva finito con il ritenere esclusa, in via di principio, la risarcibilita' dei danni morali subiettivi,
sempre partendo da una nozione ristretta di questi ultimi, s'intende appieno l'ambito di
comprensione della nozione di "danno non patrimoniale" ex art. 185 c.p.
I lavori preparatori del vigente codice civile confermano quanto ora precisato: la relazione della
commissione reale al progetto del libro "Obbligazioni e contratti" definisce il danno morale
"quello che in nessun modo tocca il patrimonio ma arreca solo un dolore morale alla vittima" e la
relazione ministeriale al vigente codice civile cosi' si esprime: "Circa il risarcimento dei danni
cosiddetti morali, ossia circa la riparazione o compensazione indiretta di quegli effetti dell'illecito
che non hanno natura patrimoniale, si e' ritenuto di non estendere a tutti la risarcibilita' o la
compensabilita' che l'art. 185 del codice penale pone soltanto per i reati". Il legislatore chiarisce,
poi, le ragioni della scelta contraria all'ulteriore (rispetto a quella gia' operata dal codice penale
del 1930) estensione della risarcibilita' dei danni morali, con queste parole: "La resistenza della
giurisprudenza a tale estensione puo' considerarsi limpida espressione della nostra coscienza
giuridica.
Questa avverte che soltanto nel caso di reato e' piu' intensa l'offesa all'ordine giuridico e
maggiormente sentito il bisogno di una piu' energica repressione con carattere anche
preventivo". Dalle quali dichiarazioni si detrae che il danno non patrimoniale e' un altro effetto
dell'illecito (e', cioe', danno - conseguenza, al pari di quello patrimoniale) e che il risarcimento dei
danni non patrimoniali persegue scopi di piu' intensa repressione e prevenzione, certamente
estranei al risarcimento degli altri tipi di danno.
Ed e' da ricordare altresi' da un canto che la giurisprudenza successiva all'emanazione del vigente
codice civile identifica quasi sempre il danno morale (o non patrimoniale) con l'ingiusto
perturbamento dello stato d'animo del soggetto offeso e dall'altro che ancor oggi la prevalente
dottrina riduce il danno non patrimoniale alla sofferenza fisica (sensazione dolorosa) o psichica.
Se, dunque, secondo il diritto vivente, l'art. 2059 c.c., che, peraltro, pone soltanto una riserva di
legge, fa riferimento, con l'espressione "danno non patrimoniale", al solo danno morale
subiettivo, lo stesso articolo si applica soltanto quando all'illecito civile, costituente anche reato,
consegue un danno morale subiettivo.

I precedenti del danno non patrimoniale sono disposizioni del codice Zanardelli e del codice di procedura
penale del 1913, dov’è prevista la possibilità la possibilità per il giudice di assegnare alla parte offesa una
somma di denaro, ancorché non abbia apportato danno patrimoniale. Il legislatore del 1930 estende questo
ad ogni reato e non soltanto ai delitti dell’onore e della famiglia. Il danno non patrimoniale, che viene
preferito alla locuzione “danno morale soggettivo”, e la sua riparazione non è risarcimento del danno in senso
stretto, anche se la sua operatività è stata estesa, anche se rimane danno morale soggettivo nella sua
sostanza, risponde a un’esigenza di repressione aggravata del reato.
La previsione nel codice civile risponde all’esigenza di creare una connessione con la disposizione del codice
penale fugando ogni dubbio circa la portata più estesa del codice del 1930 rispetto alle norme del codice
Zanardelli e dal Codice di procedura penale del 1913. Resta assodato questo nesso inscindibile tra
“risarcibilità” del danno non patrimoniale e finalità di repressione dell’illecito penale. Solo gli illeciti civili che
integrano gli estremi del reato rientrano in questa fattispecie.

La scelta legislativa operata con l'emanazione dell'art. 2059 c.c. (tra le opposte tesi della totale
irrisarcibilita' del danno morale subiettivo e della risarcibilita', in ogni caso, del medesimo)
discende dall'opportunita' di sanzionare in modo adeguato chi si e' comportato in maniera
vietata dalla legge. Certo, ritenere che la responsabilita' civile abbia carattere esclusivamente o
prevalentemente sanzionatorio sarebbe oggi infondato oltrecche' antistorico.
Ma dopo l'attenta lettura della precitata relazione ministeriale al codice civile e' impossibile
negare o ritenere irrazionale che la responsabilita' civile da atto illecito sia in grado di provvedere
non soltanto alla reintegrazione del patrimonio del danneggiato ma fra l'altro, a volte, anche ed
almeno in parte, ad ulteriormente prevenire e sanzionare l'illecito, come avviene appunto per la
riparazione dei danni non patrimoniali da reato. Accanto alla responsabilita' penale (anzi, forse
meglio, insieme ed "ulteriormente" alla pena pubblica) la responsabilita' civile ben puo' assumere
compiti preventivi e sanzionatori. Ne' puo' essere vietato al legislatore ordinario, ai fini ora
indicati, prescrivere, anche a parita' di effetto dannoso (danno morale subiettivo) il risarcimento
soltanto in relazione a fatti illeciti particolarmente qualificati e, piu' di altri, da prevenire ed
ulteriormente sanzionare. E per giungere a queste conclusioni non e' neppur necessario aderire
alla tesi che sostiene la natura di pena privata del risarcimento del danno non patrimoniale,
essendo sufficiente sottolineare la non arbitrarieta' d'una scelta discrezionalmente operata, nei
casi piu' gravi, d'un particolare rafforzamento, attraverso la riparazione dei danni non
patrimoniali, del carattere preventivo e sanzionatorio della responsabilita' penale.

Il giudice estensore è un penalista, è importante per capire il registro usato. Quando si fa riferimento alla
“finalità sanzionatoria e preventiva”, che sono funzioni tipiche della norma penale, viene trasferito alla
responsabilità civile. È frutto di strani incroci, perché l’art. 2059 aveva modestissime ambizioni, era una
norma di raccordo, come emerge dalla relazione del guarda-sigilli, ma da luogo a una serie di equivoci. Se
non ci fosse stato l’art. 2059, l’art. 185 avrebbe comunque funzionato. Quando l’art. 2059 viene accolto nel
codice civile ha luogo questo corto circuito. Quando si determina questa relatio tra le due disposizioni si
produce un effetto di ribaltamento sull’art. 2059 e sull’intero sistema della responsabilità civile con il sistema
del diritto penale.
C’è un equivoco dovuto anche alla formazione di penalista del giudice estensore della sentenza. Questa
ibridazione tra funzione risarcitoria e sanzionatoria non ci sarebbe altrimenti stata.
La categoria dei danni non patrimoniali nel 1942 non era una novità assoluta, perché già ne parlava il
legislatore penale. Tutti erano d’accordo sul fatto che il c.d. risarcimento del c.d. danno non patrimoniale
rispondesse ad esigenza di repressione penale, non aveva nulla a che vedere con la responsabilità civile. È un
arcaismo pensare alla responsabilità civile come una sanzione, perché tende a redistribuire secondo un
calcolo razionale le perdite. Tutto l’evoluzione della responsabilità civile moderna va nella direzione della sua
laicizzazione.
Anche l’accoglimento di criteri di responsabilità oggettiva è incompatibile con il diritto penale. Siccome nel
’42 unica norma che prevedeva il risarcimento del danno non patrimoniale era l’art. 185 c.p. e con la
responsabilità civile questa norma non c’entra nulla, essendo misura preventivo-sanzionatoria, l’art. 2059 è
animato da un intento di chiusura del sistema, di richiamo a quella disposizione del codice penale.

Per poter distinguere il danno biologico dai danni morali subiettivi, come dai danni patrimoniali in
senso stretto, occorre chiarire la struttura del fatto realizzativo della menomazione dell'integrita'
bio - psichica del soggetto offeso. Ed a tal fine va premessa la distinzione tra evento dannoso o
pericoloso, al quale appartiene il danno biologico, e danno - conseguenza, al quale appartengono
il danno morale subiettivo ed il danno patrimoniale.
Vale, infatti, distinguere da un canto il fatto costitutivo dell'illecito civile extracontrattuale e
dall'altro le conseguenze, in senso proprio, dannose del fatto stesso.
Quest'ultimo si compone, oltrecche' del comportamento (l'illecito e', anzitutto, atto) anche
dell'evento e del nesso di causalita' che lega il comportamento all'evento. Ogni danno e', in senso
ampio, conseguenza: anche l'evento dannoso o pericoloso e', infatti, conseguenza dell'atto, del
comportamento illecito. Tuttavia, vale distinguere, anche in diritto privato (specie a seguito del
riconoscimento di diritti, inviolabili costituzionalmente, validi anche nei rapporti tra privati)
l'evento materiale, naturalistico, che, pur essendo conseguenza del comportamento, e' momento
od aspetto costitutivo del fatto, dalle conseguenze dannose, in senso proprio, di quest'ultimo,
legate all'intero fatto illecito (e quindi anche all'evento) da un ulteriore nesso di causalita'. Non
esiste comportamento senza evento: il primo e' momento dinamico ed il secondo momento
statico del fatto costitutivo dell'illecito.
Da quest'ultimo vanno nettamente distinte le conseguenze, in senso proprio, del fatto, dell'intero
fatto illecito, causalmente connesse al medesimo da un secondo nesso di causalita'. Il danno
biologico costituisce l'evento del fatto lesivo della salute mentre il danno morale subiettivo (ed il
danno patrimoniale) appartengono alla categoria del danno - conseguenza in senso stretto. La
menomazione dell'integrita' psico - fisica dell'offeso, che trasforma in patologica la stessa
fisiologica integrita' (e che non e' per nulla equiparabile al momentaneo, tendenzialmente
transeunte, turbamento psicologico del danno morale subiettivo) costituisce l'evento (da provare
in ogni caso) interno al fatto illecito, legato da un canto all'altra componente interna del fatto, il
comportamento, da un nesso di causalita' e dall'altro, alla (eventuale) componente esterna,
danno morale subiettivo (o danno patrimoniale) da altro, diverso, ulteriore rapporto di causalita'
materiale.
In senso largo, dunque, anche l'evento - menomazione dell'integrità fisio-psichica del soggetto
offeso, e' conseguenza ma tale e' rispetto al comportamento mentre a sua volta e' causa (ove in
concreto esistano) delle ulteriori conseguenze, in senso proprio, dell'intero fatto illecito,
conseguenze morali subiettive o patrimoniali. Il danno morale subiettivo, che si sostanzia nel
transeunte turbamento psicologico del soggetto offeso, e' danno - conseguenza, in senso proprio,
del fatto illecito lesivo della salute e costituisce, quando esiste, condizione di risarcibilita' del
medesimo; il danno biologico e', invece, l'evento, interno al fatto lesivo della salute, deve
necessariamente esistere ed essere provato, non potendosi avere rilevanza delle eventuali
conseguenze esterne all'intero fatto (morali o patrimoniali) senza la completa realizzazione di
quest'ultimo, ivi compreso, ovviamente, l'evento della menomazione dell'integrita' psico - fisica
del soggetto offeso. Il danno - biologico (o fisiologico) e' danno specifico, e' un tipo di danno,
identificandosi con un tipo di evento. Il danno morale subiettivo e', invece, un genere di danno -
conseguenza, che puo' derivare da una serie numerosa di tipi di evento; cosi' come genere di
danno - conseguenza, condizione obiettiva di risarcibilita', e' il danno patrimoniale, che, a sua
volta, puo' derivare da diversi eventi tipici.

È il problema che pone il danno biologico: normalmente in materia di responsabilità civile si ha la condotta,
che ha una conseguenza, ovvero il danno-evento (lesione dell’interesse giuridicamente protetto), che a sua
volta ha come conseguenza il danno patrimoniale.
Questa struttura secondo l’estensore si ha anche nel danno morale soggettivo, anche se secondo il
professore non è chiaro il termine medio, che per l’estensore probabilmente è il puro e semplice terminale
della condotta criminosa, anche se è un passaggio non chiaro della sentenza.
Però è chiaro che si stia dicendo che nel caso del danno biologico il danno è il danno-evento, cioè la stessa
lesione dell’interesse giuridicamente protetto, non c’è il terzo elemento del danno-conseguenza. Secondo
questo modo di vedere le cose il danno morale soggettivo sarebbe conseguenza della lesione dell’integrità
psico-fisica, ma non è detto che ci sia nel danno morale soggettivo una lesione a questa integrità, a meno che
non si intenda il patema d’animo per integrità psico-fisico. Non è detto che essere vittime di scippo comporti
questo danno all’integrità psico-fisica. Il danno morale soggettivo è semplicemente il nome dato all’obiettivo
e al progetto di aggravare il fardello sanzionatorio del reo, è un danno che non esiste, creato dal legislatore
penale.
Il succo del ragionamento della Corte Costituzionale è che il danno morale soggettivo, secondo la Corte, è un
danno-conseguenza, secondo lo schema modellato sul danno patrimoniale. Nel caso del danno non
patrimoniale questo schema non funziona così bene. Il danno biologico, che ha una sua consistenza, presenta
l’inconveniente dal punto di vista di un sistema connotato da una sua linearità (come il sistema della
responsabilità civile, tutto imperniato sul danno patrimoniale), una variabile come quella del danno biologico,
che aspira ad emanciparsi dal braccio del diritto penale, pone ad una contraddizione che sarà risolta da una
sentenza del ’94.

LEZIONE 27
02/12/20

Tenuto conto di quanto ora precisato, mentre il danno biologico risulta nettamente distinto dal
danno morale subiettivo, ben puo' applicarsi l'art. 2059 c.c., ove dal primo (e cioe' dalla lesione
alla salute) derivi, come conseguenza ulteriore (rispetto all'evento della menomazione delle
condizioni psico - fisiche del soggetto offeso) un danno morale subiettivo.
Cio' sempreche' il fatto realizzativo del danno biologico costituisca anche reato.

Qui il giudice dice che se dall’illecito, che consiste nel danno biologico, deriva danno morale subiettivo allora
potrà applicarsi l’art. 2059. È pleonastico, perché il danno morale subiettivo è risarcibile ex art. 185.

Se nell'ordinamento non esistessero altre norme o non fossero rinvenibili altri principi relativi al
danno biologico e, pertanto, quest'ultimo fosse risarcibile solo ai sensi dell'art. 2059 c.c. e cioe',
salve pochissime altre ipotesi, soltanto nel caso che il fatto costituisca (anche) reato e
relativamente ai soli (conseguenti) danni morali subiettivi, si porrebbe certamente il problema
della costituzionalita' dell'art. 2059 c.c. Come lo stesso problema si porrebbe ove, allargando
l'ambito di comprensione della nozione di danno non patrimoniale, fino ad includere nella
medesima ogni tipo di lesione d'un bene non patrimoniale, si ritenesse che il risarcimento del
danno alla salute fosse riconducibile esclusivamente al combinato disposto degli artt. 2059 c.c. e
185, secondo comma, c.p. L'art.32 Cost., come si precisera' meglio oltre, verrebbe vanificato da
una normativa ordinaria che riconducesse il danno alla salute ai soli artt. 2059 c.c. e 185 c.p.
Esiste, tuttavia, certamente, altra strada per adeguatamente soddisfare le esigenze poste dalla
giurisprudenza in ordine al danno biologico.
Va, tuttavia, in particolare, rilevato che gravi problemi nascono, nel momento in cui le prevalenti
giurisprudenza e dottrina riconducono il danno biologico all'art. 2043 c.c. La scelta legislativa di
cui all'art. 2059 c.c. getta luce (od ombre) sull'art. 2043 c.c.: non ci si puo', infatti, senza necessari
approfondimenti, sbarazzare della scelta legislativa chiaramente espressa dall'art. 2059 c.c. e
ricondurre senz'altro all'art. 2043 c.c. il risarcimento del danno biologico.
Il problema dei rapporti, in tema di responsabilita' civile extracontrattuale, tra una norma
generale ed una particolare, relativa (quest'ultima) al danno morale subiettivo, si pose, in tempi
anteriori al vigente codice civile e, pertanto, prima dell'emanazione dell'art. 2059 c.c., tra l'art.
1151 dell'abrogato codice civile e la riparazione pecuniaria, di cui ai gia' citati artt. 38 del codice
penale del 1889 e 7 del codice di procedura penale del 1913.
Si pose, dopo il 1930 e prima del 1942, il quesito se l'obbligo di risarcire i danni morali (e non
patrimoniali) trovasse la sua ragion d'essere nel principio generale stabilito dall'art. 1151
dell'allora vigente codice civile o soltanto nell'art. 185, secondo comma, c.p. Si chiari', da
autorevole dottrina, che, essendo il principio generale del risarcimento del danno sancito dal
precitato art. 1151 c.c. e, comprendendo concettualmente tale danno sia il danno patrimoniale
sia quello non patrimoniale, il risarcimento di quest'ultimo discendeva appunto dall'art. 1151 c.c.
Si aggiunse essere stata la riparazione pecuniaria (immediato precedente dell'art. 2059 c.c.) di cui
agli artt. 38 del codice penale del 1889 e 7 del codice di procedura penale del 1913 (provvedendo
essa alla riparazione dei danni morali) a sottrarre questi ultimi dalla comprensione dell'art. 1151
c.c. e, pertanto, a ridurre l'applicabilita' dello stesso articolo al solo risarcimento del danno
patrimoniale; con l'emanazione del vigente codice penale, riferendosi l'art. 185 c.p. a tutti i danni,
patrimoniali e non patrimoniali, ed essendo stata abrogata la riparazione pecuniaria, il piu' volte
citato art. 1151 c.c., secondo la ricordata dottrina, aveva ripreso l'estensibilita' di cui era capace,
riferendosi a tutte le specie di danni.
Certo, anche il vigente art. 2043 c.c. (che corrisponde all'art. 1151 dell'abrogato c.c.) ove non
esistesse altra disposizione relativa ai danni non patrimoniali (a parte, per un momento, il sistema
di cui al titolo Ix del libro IV del c.c.) potrebbe ritenersi estensibile a tutte le specie di danni: ma
l'art. 2059 c.c., operando una precisa scelta, sancendo che i danni non patrimoniali,
corrispondenti ai soli danni morali subiettivi, vanno risarciti in ben precisati limiti e cioe' solo nei
casi determinati dalla legge, non soltanto esclude, almeno nelle intenzioni del legislatore del
1942, la risarcibilita' di altri danni non patrimoniali ma sottrae questi ultimi alla comprensione
dell'art. 2043 c.c.
Se a cio' s'aggiunge il sistema del titolo Ix del libro IV del codice civile, s'intende appieno che
l'interpretazione letterale del solo art. 2043 c.c. non puo', senza approfondite considerazioni,
tranquillizzare in ordine al riferimento al danno biologico, che lede pur sempre un bene
immateriale, dell'articolo in discussione.

Il danno biologico è risarcibile solo quando veste i panni del danno morale soggettivo. Il danno biologico non
acquisisce quell’autonomia.
L’art. 1151 dell’abrogato codice civile (del 65) aveva una formulazione così ampia che a qualcuno venne in
mente, una volta entrato in vigore il codice penale del 1930, di dire che per com’è formulato l’art. 1151
ricomprendeva sia il danno patrimoniale che quello non patrimoniale. La Corte Costituzionale dice che questo
è reso possibile dal fatto che il sistema della responsabilità civile del vecchio codice non prevedeva una norma
sul danno non patrimoniale, quindi si sarebbe potuto ipotizzare che il codice del ’65 parlando di danno
risarcibile si sarebbe potuto riferire tanto al danno patrimoniale quanto a quello non patrimoniale.
Il legislatore del ’42 invece distingue i due danni. Se l’art. 2059 avesse funto da mero collegamento con la
norma dell’art. 185 il problema non si sarebbe posto. Presente l’art. 2059, che ha spaccato a metà il sistema
della responsabilità civile (da un lato danno patrimoniale e dall’altro quello non patrimoniale) non si può
mettere il danno biologico nell’art. 2043, perché si ricadrebbe nella logica del caso Gennarino.
Gli sforzi della dottrina e della giurisprudenza, ai fini d'inquadramento sistematico del danno
biologico, si sono infatti, coerentemente orientati verso una lettura dell'art. 2043 c.c. diversa da
quella tradizionale: il problema del danno biologico si e', in definitiva, risolto nel problema d'una
particolare lettura dell'art. 2043 c.c. Soltanto la tesi (oggi, peraltro, quasi del tutto respinta)
secondo la quale, poiche' l'integrita' psico - fisica dell'uomo e' sempre impiegata per realizzare
attivita' volte all'acquisizione od alla conservazione di beni patrimoniali, la stessa integrita'
costituisce bene patrimoniale e, conseguentemente, ogni riduzione della medesima realizza un
deficit patrimoniale, lascia inalterata la lettura tradizionale dell'art. 2043 c.c.
Allorche', invece, si e' sostenuto rientrare il danno biologico nella categoria dei danni economici
(questi sarebbero caratterizzati dall'obiettiva e diretta valutabilita' in danaro) ed allorche' si e'
assunto che lo stesso danno consiste nell'effetto dannoso della lesione dell'integrita' psico - fisica
del soggetto offeso, che rende il medesimo incapace, anche solo in parte, di ricevere utilita' dalla
propria attivita' o dal mondo esterno, si e' offerta, in definitiva, nel sottoporre a revisione la
nozione di danno, una lettura dell'art. 2043 c.c. diversa da quella tradizionale.
Sennonche', soltanto il collegamento tra l'art. 32 Cost. e l'art. 2043 c.c., come si dira' meglio oltre,
imponendo una lettura "costituzionale" di quest'ultimo articolo, consente di interpretarlo come
comprendente il risarcimento, in ogni caso, del danno biologico: e' la lettura "costituzionale" dello
stesso articolo, correlato con l'art. 32 Cost., che soddisfa le esigenze sottostanti a tutte le tesi
proposte in materia.
Va, intanto, precisato che in questo giudizio e' stato invocato l'art. 32, primo comma, Cost., quale
parametro di riferimento delle questioni di costituzionalita' relative all'art. 2059 c.c.
(nell'ordinanza del Tribunale di Padova, promotrice del procedimento concluso con sentenza di
questa Corte n. 87 del 26 luglio 1979, erano stati invocati, invece, quale fondamento della
richiesta dichiarazione d'incostituzionalita' dello stesso art. 2059 c.c., gli artt. 3 e 24 Cost.) e che,
conseguentemente, soltanto in questo giudizio, e non in quello concluso con la predetta sentenza,
e' consentito (e doveroso) rivolgere particolare attenzione all'art. 32, primo comma, Cost.
D'altra parte, da un canto la sentenza ora citata, nel dichiarare rientrante nella discrezionalita'
del legislatore adottare trattamenti differenziati in relazione alle differenti situazioni, per
presupposti e gravita', del fatto costituente reato e del fatto dannoso integrante esclusivamente
illecito civile, esclude dalla predetta discrezionalita' le "situazioni soggettive costituzionalmente
garantite", dall'altro, la sentenza di questa Corte n. 88 del 1979, nel riaffermare che il bene
afferente alla salute e' tutelato, come diritto fondamentale della persona, direttamente dalla
Costituzione, dichiara che la violazione di tal diritto, nel costituire illecito civile, determina, per se',
il sorgere dell'obbligazione riparatoria. La lettera del primo comma dell'art. 32 Cost., che non a
caso fa precedere il fondamentale diritto della persona umana alla salute all'interesse della
collettivita' alla medesima, ed i precedenti giurisprudenziali, inducono a ritenere sicuramente
superata l'originaria lettura in chiave esclusivamente pubblicistica del dettato costituzionale in
materia.

La corte dà per scontato che l’art. 2059 non può catturare il danno biologico, perché ha limiti troppo rigidi.
Allora l’alternativa, se non si vuole dichiarare incostituzionale l’art., è una rilettura dell’art. 2043, perché il
danno biologico non trova posto neanche l’art. 2043 (né nell’art. 2059, né nell’art. 185). L’art. 2043, se letto
in modo tradizionale, è votato alla tutela contro il danno patrimoniale. L’art. 2043 sembra avere preso le
distanze dal danno non patrimoniale, e non si può ripetere l’operazione fatta sull’art. 1151 del previgente
codice. L’art. 2059 si occupa del danno morale soggettivo e il danno biologico viene ri-spostato verso l’art.
2043, allora si torna al punto di partenza: il danno alla salute è tutelato solo strumentalmente: è il diritto del
soggetto di essere in grado di produrre reddito. La questione è rendere autonomo il danno alla salute come
danno non patrimoniale. La via d’uscita individuata è la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2043
alla luce dell’art. 32 Cost.
Il riconoscimento del diritto alla salute come diritto pienamente operante anche nei rapporti di
diritto privato, non e' senza conseguenza in ordine ai collegamenti tra lo stesso art. 32, primo
comma, Cost. e l'art. 2043 c.c. L'art. 2043 c.c. e' una sorta di "norma in bianco": mentre nello
stesso articolo e' espressamente e chiaramente indicata l'obbligazione risarcitoria, che consegue
al fatto doloso o colposo, non sono individuati i beni giuridici la cui lesione e' vietata: l'illiceita'
oggettiva del fatto, che condiziona il sorgere dell'obbligazione risarcitoria, viene indicata
unicamente attraverso l'"ingiustizia" del danno prodotto dall'illecito. E' stato affermato, quasi
all'inizio di questo secolo (l'osservazione era riferita all'art. 1151 dell'abrogato codice civile ma
vale, ovviamente, anche per il vigente art. 2043 c.c.) che l'articolo in esame "contiene una norma
giuridica secondaria, la cui applicazione suppone l'esistenza d'una norma giuridica primaria,
perche' non fa che statuire le conseguenze dell'iniuria, dell'atto contra ius, cioe' della violazione
della norma di diritto obiettivo".
Il riconoscimento del diritto alla salute, come fondamentale diritto della persona umana,
comporta il riconoscimento che l'art. 32 Cost. integra l'art. 2043 c.c., completandone il precetto
primario. E' il collegamento tra gli artt. 32 Cost. e 2043 c.c. che ha permesso a questa Corte
d'affermare che, dovendosi il diritto alla salute certamente ricomprendere tra le posizioni
subiettive tutelate dalla Costituzione, "non sembra dubbia la sussistenza dell'illecito, con
conseguente obbligo della riparazione, in caso di violazione del diritto stesso". L'ingiustizia del
danno biologico e la conseguente sua risarcibilita' discendono direttamente dal collegamento tra
gli artt. 32, primo comma, Cost. e 2043 c.c.; piu' precisamente dall'integrazione di quest'ultima
disposizione con la prima.
Senonche', leggendo l'art. 2043 c.c. nel sistema dell'intero titolo Ix del libro IV del codice civile, il
danno biologico dovrebbe ritenersi risarcibile soltanto quando il medesimo produca danni
patrimoniali, comunque intesi. E' ben vero che l'interpretazione letterale del solo art. 2043 c.c.,
che non menziona la patrimonialita' delle conseguenze dannose risarcibili ma fa espresso
riferimento esclusivamente all'ingiustizia del danno, potrebbe condurre, come ha sostenuto una
parte della giurisprudenza, a ritenere il danno biologico rientrante, quale species, nel genus
"danno ingiusto": l'interpretazione letterale del solo art. 2043 c.c. non puo', tuttavia, prevalere
sull'interpretazione sistematica dello stesso articolo, nel quadro dell'intero titolo Ix del libro IV del
codice civile. Ed e' per queste ragioni che ad altra parte della dottrina e della giurisprudenza non
e' restato che allargare la nozione di danno ex art. 2043 c.c., fino a comprendere tutte le
menomazioni direttamente ed obiettivamente valutabili in danaro (e quindi anche il danno
biologico) oppure assumere quest'ultimo come comprensivo di tutti i pregiudizi che riducono la
capacita' del soggetto a produrre e ricevere utilita' derivanti dalla sua attivita' o dal mondo
esterno. Tuttavia, il danno biologico, come s'e' gia' avvertito, e', in ogni caso, un tipo di fatto
(menomazione dell'integrita' psico - fisica del soggetto) ed un tipo di lesione della salute, sempre
presente, nel doloso o colposo illecito realizzativo della predetta menomazione.
Tale tipo di fatto e di lesione non vanno in alcun modo confusi con l'eventuale presenza, in
concreto, di danni patrimoniali od economici, conseguenti al fatto ed alla lesione ora specificati.
Basterebbe, ancora una volta, ribadire che uno speciale tipo di danno ed uno specifico bene
tutelato, leso da un fatto tipico (la predetta menomazione) non possono confondersi con una
categoria generale di danni che conseguono, eventualmente (ed in ogni caso devono
esserprovati) al danno biologico, sempre presente, invece, nella predetta menomazione e sempre
lesivo, senza bisogno di alcuna prova, del bene - giuridico salute.
Certo, la lesione della salute non coincide con la lesione di un arto o, in generale, dell'integrita'
fisio - psichica, per se' considerata (si e' gia' avvertito che tale lesione e' l'evento naturalistico del
fatto offensivo del bene giuridicamente tutelato - salute: e l'evento naturalistico, per se', avulso
dal significato giuridico dell'intero fatto, del quale e' elemento, non ha significato).
Ma non e' neppur vero che la lesione dell'arto o della generale integrita' bio - psichica venga
perseguita, attraverso il risarcimento ex art. 2043 c.c., solo se e nei limiti in cui rende, in concreto,
il soggetto passivo dell'illecito incapace, in tutto od in parte, di produrre o ricevere le utilita'
derivanti dal mondo esterno o dalla sua attivita'. E l'ingiustizia (lesione del diritto alla salute)
insita nel fatto menomativo dell'integrita' bio - psichica, il fondamento giuridico del risarcimento
del danno biologico ed eventualmente, ove esistano, anche di altre conseguenze dannose.
Non e', l'esistenza, in concreto, di conseguenze dannose (quali che siano) a costituire il
fondamento dell'ingiustizia del fatto illecito e, pertanto, anche della menomazione bio - psichica.
In tanto le ulteriori (oltre l'evento) conseguenze dannose sono rilevanti e risarcibili in quanto,
prima, gia' esiste un'ingiustizia dell'illecito (determinata dalla violazione della norma primaria
desunta dal combinato disposto degli artt. 32 Cost. e 2043 c.c.) ed una lesione, presunta, del bene
- giuridico salute.

È un passaggio cruciale della sentenza.


All’inizio del discorso, in modo bizzarro, il giudice riferendosi all’art. 1151 dice che contiene norma giuridica
secondaria, che ha bisogno di una norma primaria. Questa architettura si è già incontrata parlando della
convenzione interpretativa, l’idea che la norma sull’illecito civile sia norma secondaria che ha bisogna di
essere riempita da qualcosa di esterno. Questa tesi è servita per limitare l’ambito di operatività della regola
di responsabilità civile alla lesione dei soli diritti assoluti. La tesi viene ripescata in un’ottica evolutiva: se l’art.
2043, erede dell’art. 1151, è una norma secondaria, che si rimette ad altre disposizioni del sistema la
selezione di ciò che è risarcibile, posto che l’art. 32 Cost. fa del diritto alla salute interesse giuridicamente
protetto allora la lesione del diritto alla salute può essere senza dubbio agganciata dall’art. 2043 che accoglie,
nella sua secondarietà, l’art. 32 Cost.
È un discorso confuso, perché in realtà la secondarietà serviva a chiudere il sistema. Qui il giudice dice
qualcosa di più vicino a quello che si dirà nel 1990: la rilevanza del danno dipende dalla circostanza che il
bene la lesione del quale genera il danno sia protetto dall’ordinamento in qualsiasi forma. È un modo diverso
di essere della responsabilità civile diverso da come era tradizionalmente inteso. Allora, se il diritto alla salute
rientra nel novero dei danni ingiusti allora si pone il problema della sua risarcibilità a prescindere dalle
conseguenze, sia patrimoniali (altrimenti si tornerebbe al caso Gennarino) sia non patrimoniali (altrimenti si
torna al danno morale soggettivo). Per sfuggire a questo dilemma, cioè se la casa del danno biologico è l’art.
2043 allora è necessario che si generi un danno patrimoniale, e se è così non si è fatto un passo in avanti. Se
si mette nell’art. 2059 il danno biologico si va incontro a quei limiti già esaminati. Dove sta il danno biologico?
C’è un solo modo, secondo l’estensore, di dare un “tetto” al danno biologico che è quello di “amputare” l’art.
2043. La struttura triadica (condotta-lesione interesse giuridicamente protetto (danno ingiusto) - danno
conseguenza) nel caso del danno biologico applicando questo schema si torna al caso Gennarino: si deve
considerare la salute come strumento della produzione di reddito.
La Corte risolve il problema in modo improprio, dice che è l’ingiustizia il fondamento giuridico del danno
biologico. L’ingiustizia è il fondamento del risarcimento del danno, ma non può mai essere il “bersaglio” del
risarcimento del danno. Altro è il problema della individuazione del criterio in base al quale selezionare danni
risarcibili e non risarcibili, invece per capire quando il danno (il danno-conseguenza) pone un problema di
risarcimento inteso come scrutinio delle conseguenze. Invece la Corte qui amputa questa struttura e la riduce
a due elementi: condotta e ingiustizia. Qui si dice che l’ingiustizia sia il danno (la perdita).
Non tutte le condotte lesive danno luogo ad una perdita: se entro nel tuo fondo abbandonato e faccio un
orto fiorente, puoi ottenere un provvedimento del giudice che faccia cessare la condotta (lesiva del tuo diritto
di proprietà) ma non c’è un danno vero e proprio, non si può chiedere un risarcimento. C’è un danno ingiusto
(danno-evento) ma non un danno conseguenza.
Non è il danno ingiusto ad essere risarcito, ma il danno patrimoniale ovvero la perdita patrimoniale.
Il problema è se questa perdita patrimoniale è risarcibile: è risarcibile quando sia lesione di un interesse
giuridicamente protetto.
Quando la corte deve fronteggiare il problema della risarcibilità del danno biologico, essendo chiusa in questo
“loop” fra l’art. 2043 con la sua struttura triadica e l’art. 2059 con il rinvio all’art. 185 c.p., fa questa
operazione di amputazione e trasforma il danno ingiusto nel danno risarcibile.
LEZIONE 28
07/12/20

Ne' vale sostenere che, allorche' s'identifichi il danno con l'illecito, il risarcimento perde la sua
funzione risarcitoria per assumere la natura di pena privata. Anzitutto, il danno non s'identifica
con l'illecito; questo (che, peraltro naturalisticamente considerato, non ha il benche' minimo
significato) intanto sostanzia e concreta la lesione al bene giuridico - salute in quanto e'
oggettivamente antigiuridico, e' in contrasto con il divieto primario (di cui al combinato disposto
degli artt. 32 Cost. e 2043 c.c.) che lo investe d'un autonomo disvalore giuridico. Precipuo compito
della norma di diritto privato e', appunto, la tutela di tipici beni, di specifici interessi, costituenti
l'oggetto garantito dal predetto divieto primario.
Si osservi: antiche, consolidate indagini di teoria generale, nel distinguere l'illecito civile
extracontrattuale dagli illeciti di diritto pubblico, hanno sostenuto che, violando sempre il fatto
antigiuridico un duplice ordine di interessi, immediati (diretti) e mediati (indiretti), l'illecito civile
extracontrattuale viene considerato dall'ordinamento soprattutto in funzione della lesione di
interessi immediati (oggetto sostanziale specifico: ad esempio, nel nostro caso, la salute, come
bene del privato) a differenza dell'illecito di diritto pubblico, riguardato dallo stesso ordinamento
precipuamente in funzione della lesione di interessi mediati (danno o pericolo sociali ecc.).
Ed allorche' il fatto oggettivamente antigiuridico costituisce anche reato, la doppia conseguenza
giuridica e' il piu' evidente segno del diverso profilo dal quale viene considerato il medesimo
illecito: come precipuamente lesivo dell'interesse specifico immediato o come principalmente
lesivo di interessi sociali indiretti.
Il risarcimento del danno, sanzione riparatoria (appartenente alla categoria delle sanzioni
esecutive del precetto primario) tendendo a ripristinare l'equilibrio tra gli interessi privati in gioco,
segue alla violazione della norma di diritto privato e, pertanto, soprattutto alla lesione
dell'oggetto specifico, immediatamente garantito dalla stessa norma; la pena (appartenente alla
categoria delle sanzioni punitive, nettamente distinte dalle esecutive), tendendo, invece, a
principalmente rieducare il reo od a riaffermare l'autorita' statale ed a prevenire i pericoli sociali
indiretti (recidiva, vendetta privata ecc.) consegue alla violazione della norma di diritto penale e,
pertanto, soprattutto, allalesione degli oggetti giuridici mediati, garantiti precipuamente dalla
norma penale. E' si ripete, prevalente scopo del divieto primario, in sede di responsabilita' civile
extracontrattuale, garantire i beni immediati, specifici, tipicamente individuati dal medesimo:
nella specie, la salute come bene individuale del privato, a parte i conseguenti, eventuali danni
patrimoniali.
Certo, la strada per rileggere tutto il sistema del codice civile alla luce della Costituzione e per
ricondurre l'illecito civile, pur nelle innegabili specificita', ai principi generali dell'illecito giuridico
e', forse, ancora lunga: le teorie e la giurisprudenza che allargano l'ambito di operativita' dell'art.
2043 c.c. ai danni economici (misurabili direttamente ed obiettivamente in moneta) che
comprendono ma non esauriscono i danni patrimoniali in senso stretto o che si riferiscono
all'incidenza del danno biologico sulle attivita' extralavorative non retributive, meritano, nella
previsione di tale strada, particolare attenzione.
Va, infatti, riconosciuto che, pur essendo, come s'e' detto, il danno biologico nettamente distinto
dal danno patrimoniale od economico; pur assumendo un ruolo autonomo sia in relazione al lucro
cessante da invalidita' lavorativa (temporanea o permanente) in concreto incidente sulla
capacita' di guadagno del danneggiato sia nei confronti del danno morale in senso stretto; pur
essendo sempre presente nell'avvenuta menomazione psico - fisica, e sempre risarcito, a
differenza delle due voci (eventuali) del (predetto) lucro cessante e del danno morale subiettivo;
da una parte il risarcimento del danno biologico costituisce un primo, essenziale, prioritario
risarcimento, che ne condiziona ogni altro e, pertanto, anche quello del preindicato lucro cessante
(non vi puo' esser risarcimento di danni patrimoniali derivanti da fatto illecito lesivo della salute
senza il necessariamente preliminare risarcimento del danno biologico); e dall'altra parte, la
ragione per la quale e' vietato causare menomazioni dell'integrita' psico - fisica (ossia la tutela
delle manifestazioni della vita ordinaria, del soggetto passivo del fatto, sia lavorativa che
extralavorativa) e' quella stessa che fonda la risarcibilita' del danno patrimoniale Una sola e',
invero, la ratio del combinato disposto degli artt. 32 Cost. e 2043 c.c.
Va a questo punto, tuttavia, sottolineato che l'attenzione al solo art. 2043 c.c., anche in una
lettura aggiornata, secondo nuove nozioni di danno economico e di patrimonio, non sembra
sufficiente a rendere piena efficacia all'art. 32 Cost. ed ai nuovi valori prospettati dalla
Costituzione. Il combinato disposto degli artt. 32 Cost. e 2043 c.c. importa una rilettura
costituzionale di tutto il sistema codicistico dell'illecito civile. L'interpretazione giudiziaria ha gia'
iniziato la revisione di alcune nozioni tradizionali; dall'esperienza giudiziaria sono nati il danno
alla vita di relazione, il danno alla sfera sessuale, il danno estetico non concretamente incidente
sulla capacita' di guadagno, ecc. e sono state prese in considerazione, ad esempio, le ipotesi di
piccole invalidita' permanenti non influenti sul reddito del soggetto nonche' quelle relative a
periodi di malattia temporanea durante la quale il lavoratore ha continuato a percepire l'intera
retribuzione.
Tutto cio' ha costituito l'immediato "precedente" giurisprudenziale del danno biologico. Il fatto
che le esigenze innovatrici siano partite dall'esperienza, ispirata ai valori, personali,
esplicitamente garantiti dalla Carta costituzionale, e' garanzia di verita' delle medesime, anche se
lasciano ancora la dottrina incerta in ordine alla strada da intraprendere per raggiungere l'esatta
risposta alle stesse esigenze.
Ed e' appunto il clima creato dalla Costituzione che rende necessario ricondurre l'illecito civile ai
principi ed alle regole della teoria generale dell'illecito. In tempi nei quali non erano prospettate
ipotesi di specifici interessi garantiti anche nei rapporti tra privati, ritenendosi il danno ex art.
2043 c.c. limitato al danno emergente ed al lucro cessante (e cioe' alla lesione direttamente od
indirettamente incidente sul patrimonio del danneggiato) si e' individuato un principio, valido in
sede di responsabilita' extracontrattuale, secondo il quale il danno si sostanzia esclusivamente
nelle conseguenze patrimoniali (e non) dell'illecito. Gli interessi sostanziali, a tutela dei quali
s'impone l'obbligazione risarcitoria, passavano in secondo piano: nessuno avvertiva il bisogno
d'esplicitarli; e, data, da un canto, la conclamata atipicita' dell'illecito civile e dall'altro la facilita'
della prova del danno emergente e del lucro cessante, ogni indagine s'incentrava
sull'obbligazione risarcitoria d'un danno patrimoniale (o non) comunque da provare, di volta in
volta, conseguente all'illecito.
Venute, invece, in rilievo esigenze di tutela, anche in sede di diritto privato, di specifici valori,
determinati soprattutto dalla vigente Costituzione, valori personali, prioritari, non tutelabili,
neppure in sede di diritto privato, soltanto in funzione dei danni patrimoniali (e non) conseguenti
all'illecito, occorre fare un passo ulteriore, rompere lo schema dell'esistenza, in tema di
responsabilita' civile extracontrattuale, soltanto di danni - conseguenze, in senso stretto, e
incentrando l'attenzione sul divieto primario violato dall'illecito extracontrattuale (e in particolare
sui valori tutelati, lesi da quest'ultimo) chiarire gli effetti che il bene tutelato dal divieto primario
opera sul precetto secondario del risarcimento del danno. E' la natura (il valore, il significato
giuridico) del bene garantito che, riverberandosi sul precetto secondario, lo condiziona,
sottraendolo, ove del caso, ad arbitrarie determinazioni del legislatore ordinario.

Il discorso della corte è molto ingarbugliato: la Corte ha un problema, si sta trattando della legittimità dell’art.
2059 in rapporto al danno biologico, perché se si aderisce alla lettura tradizionale dell’art. 2059 il danno
biologico sarà risarcibile soltanto se esso si collega ad un reato, e sempre che ricorra il danno morale
soggettivo. Se si passa all’art. 2043, il problema della riserva di legge è superato perché il presupposto è il
danno ingiusto, che è una formula che consente di immettere nel circuito della tutela aquiliana la lesione di
tutti gli interessi che l’ordinamento tutela a prescindere dall’espressa previsione della tutela risarcitoria. Una
volta decostruita la convenzione interpretativa la formula dell’ingiustizia del danno si presta a fornire una
copertura anche ad una pluralità di interessi. l’art. 2043 ha la capacità di captare gli impulsi protettivi che
scaturiscono dal sistema. Esiste un bene giuridico “salute”, tutelato in sede costituzionale, la lesione di questo
bene è apprezzabile nell’ottica dell’art. 2043 c.c.: la lesione del diritto alla salute integra gli estremi del danno
ingiusta. Così si sfugge alla riserva di legge dell’art. 2059, ma l’art. 2043 ha una struttura triadica. Ma il danno
alla salute qui vuole essere tutelato a prescindere dalle sue conseguenze patrimoniali, e quindi la corte adotta
una strategia penalistica. Per non tornare al punto di parte si amputa la struttura triadica dell’art. 2043.

Va dato atto ad una parte autorevole della dottrina d'aver intuito che, anche se l'art. 32 Cost. non
contempla espressamente il risarcimento, in ogni caso, del danno biologico, e' dallo stesso
articolo che puo' desumersi, in considerazione dell'importanza dell'enunciazione costituzionale
del diritto alla salute come diritto fondamentale del privato, la difesa giuridica che tuteli nella
forma risarcitoria il bene della salute personale. Cio' non e', tuttavia, riferibile alla norma di cui
all'art. 2059 c.c. (stante l'interpretazione limitativa che, come si e' ricordato, il diritto vivente da'
di quest'ultimo articolo) ma va ricondotto alla norma risultante dal combinato disposto degli artt.
32 Cost. e 2043 c.c., giacche' lo stesso diritto vivente quest'ultimo articolo ritiene, direttamente
od indirettamente, applicabile al risarcimento del danno biologico.
V'e' da sottolineare che, mentre chi ritiene direttamente applicabile al danno biologico l'art. 2043
c.c., non affronta la problematica relativa all'interpretazione dello stesso articolo alla luce del
sistema di cui al titolo Ix del libro IV del codice civile, e, fermandosi, alla sola interpretazione
letterale dell'articolo in esame, riconduce, come s'e' rilevato, al genere "danno ingiusto" anche la
specie "danno biologico", chi, invece, e' dell'avviso che ne' l'art. 2059 c.c. ne' l'art. 2043 c.c. siano
direttamente applicabili al risarcimento del danno biologico, ravvisa nel sistema della legislazione
civile un principio generale costituito dalla previsione d'una sanzione risarcitoria come
conseguenza della lesione d'una situazione giuridica subiettiva e, pertanto, applica l'art. 2043
c.c., espressione anch'esso di tal principio, al danno biologico per analogia iuris.
Va qui, a parte ogni altra considerazione, in ogni caso rimarcato che e' l'art. 32 Cost. che,
collegato all'art. 2043 c.c., fa si' che quest'ultimo non possa essere interpretato come applicantesi
esclusivamente al danno patrimoniale od al danno economico derivanti dalla menomazione psico
- fisica: questi danni, come si e' notato, sono soltanto ulteriori ed eventuali conseguenze della
lesione del bene - giuridico salute, prodotta dall'intero fatto lesivo, compreso, ovviamente,
l'evento della menomazione bio - psichica.
Poiche', come si e' gia' notato, l'art. 2043 c.c., a parte l'indicazione della iniuria, attiene a
conseguenze sanzionatorie di un illecito e poiche' la sanzione deve esser adeguata a quest'ultimo
ed idonea a validamente compensare l'offesa al bene tutelato, realizzata dall'illecito stesso,
l'articolo in esame va correlato alla disposizione che prevede il bene giuridico tutelato attraverso
la posizione del divieto primario.
L'art. 2043 c.c., correlato ad articoli che garantiscono beni patrimoniali, non puo' che esser letto
come tendente a disporre il solo risarcimento dei danni patrimoniali (in senso stretto): e' per
questi motivi che, essendo il diritto privato orientato per il passato, almeno prevalentemente, alla
tutela di beni patrimoniali, lo stesso articolo e' stato dal legislatore volto alla tutela di soli beni
patrimoniali e dalla dottrina letto nel senso voluto dal legislatore del 1942.
La vigente Costituzione, garantendo principalmente valori personali, svela che l'art. 2043 c.c. va
posto soprattutto in correlazione agli articoli dalla Carta fondamentale (che tutelano i predetti
valori) e che, pertanto, va letto in modo idealmente idoneo a compensare il sacrificio che gli stessi
valori subiscono a causa dell'illecito. L'art. 2043 c.c., correlato all'art. 32 Cost., va,
necessariamente esteso fino a comprendere il risarcimento, non solo dei danni in senso stretto
patrimoniali ma (esclusi, per le ragioni gia' indicate, i danni morali subiettivi) tutti i danni che,
almeno potenzialmente, ostacolano le attivita' realizzatrici della persona umana.
Ed e' questo il profondo significato innovativo della richiesta di autonomo risarcimento, in ogni
caso, del danno biologico: tale richiesta contiene un implicito, ma ineludibile, invito ad una
particolare attenzione alla norma primaria, la cui violazione fonda il risarcimento ex art. 2043
c.c., al contenuto dell'iniuria, di cui allo stesso articolo, ed alla comprensione (non piu' limitata,
quindi, alla garanzia di soli beni patrimoniali) del risarcimento della lesione di beni e valori
personali.
Se e' vero che l'art. 32 Cost. tutela la salute come diritto fondamentale del privato, e se e' vero
che tale diritto e' primario e pienamente operante anche nei rapporti tra privati, allo stesso modo
come non sono configurabili limiti alla risarcibilita' del danno biologico, quali quelli posti dall'art.
2059 c.c., non e' ipotizzabile limite alla risarcibilita' dello stesso danno, per se' considerato, ex art.
2043 c.c. Il risarcimento del danno ex art. 2043 e' sanzione esecutiva del precetto primario: ed e'
la minima (a parte il risarcimento ex art. 2058 c.c.) delle sanzioni che l'ordinamento appresta per
la tutela d'un interesse.
Quand'anche si sostenesse che il riconoscimento, in un determinato ramo dell'ordinamento, d'un
diritto subiettivo non esclude che siano posti limiti alla sua tutela risarcitoria (disponendosi ad
esempio che non la lesione di quel diritto, per se', sia risarcibile ma la medesima purche'
conseguano danni di un certo genere) va energicamente sottolineato che cio', in ogni caso, non
puo' accadere per i diritti e gli interessi dalla Costituzione dichiarati fondamentali.
Il legislatore ordinario, rifiutando la tutela risarcitoria (minima) a seguito della violazione del
diritto costituzionalmente dichiarato fondamentale, non lo tutelerebbe affatto, almeno nei casi
esclusi dalla predetta tutela. La solenne dichiarazione della Costituzione si ridurrebbe ad una
lustra, nelle ipotesi escluse dalla tutela risarcitoria: il legislatore ordinario rimarrebbe arbitro
dell'effettivita' della predetta dichiarazione costituzionale.
Con l'aggravante che, mentre il combinato disposto degli artt. 32 Cost. e 2043 c.c. porrebbe il
divieto primario, generale, di ledere la salute, il fatto lesivo della medesima, per il quale non e'
previsto dalla legge ordinaria il risarcimento del danno, o, assurdamente, impedirebbe al precetto
primario d'applicarsi (il risarcimento del danno rientra, infatti, nelle sanzioni che la dottrina
definisce esecutive) o dovrebbe ritenersi giuridicamente del tutto irrilevante. Dalla correlazione
tra gli artt. 32 Cost. e 2043 c.c., e' posta, dunque, una norma che, per volonta' della Costituzione,
non puo' limitare in alcun modo il risarcimento del danno biologico.
La precedente disamina conduce a ribadire conclusivamente che, oltre alla voce relativa al
risarcimento, per se', del danno biologico, ove si verifichino, a seguito del fatto lesivo della salute,
anche danni - conseguenze di carattere patrimoniale (esempio lucro cessante) anch'essi vanno
risarciti, con altra autonoma voce, ex artt. 32 Cost. e 2043 c.c.
Cosi', ove dal fatto in discussione derivino danni morali, subiettivi, i medesimi, in presenza, nel
fatto, anche dei caratteri del reato, vanno risarciti ex art. 2059 c.c.
Il cumulo tra le tre voci di danno, pur generando pericoli di sperequazioni (i soggetti che
percepiscono un attuale reddito lavorativo hanno diritto a richiedere una voce di danno in piu')
dovrebbe consigliare cautela nella liquidazione dei danni in esame, onde evitare da un canto
duplicazioni risarcitorie e dall'altro gravi sperequazioni nei casi concreti.

Qui la Corte ripete e approfondisce le conclusioni alle quali era già pervenuta, enfatizzando la matrice
costituzionale del diritto alla salute. Intanto la corte dice che si è in presenza di un bene primario, anche
perché lo prevede la Costituzione. È un interesse giuridicamente protetto. Il luogo della rilevanza giuridica di
questo bene non è solo il diritto pubblico ma anche il diritto privato. Vero è che l’art. 2043 è concepito in
funzione del risarcimento dei danni patrimoniali, ma siccome si sa che il diritto alla salute ha una sua rilevanza
inter privatos, e siccome il modo più naturale di rendere più effettiva questa rilevanza è la tutela “minima”
risarcitoria (minima nel senso che è l’unico modo in cui si può dare effettività al diritto alla salute inter
privatos), né ci sono norme (ai tempi della sentenza, mentre oggi sì) che prevedono una forma di risarcimento
del danno biologico. È anche vero che l’unico modo per rendere rilevante sul piano dei rapporti privati il bene
giuridico “salute” è quello di dotarlo di tutela risarcitoria, grazie alla formulazione dell’art. 2043 che ha ampie
braccia, grazie alla formula del danno ingiusto, che consente di intercettare e includere nel processo
risarcitorio, anche beni rispetto ai quali l’unico indicatore è rappresentato dalla presa di posizione del
legislatore. Se non si facesse quest’operazione si lascerebbe questo bene primario nelle mani del legislatore
ordinario, cioè si dovrebbe aspettare una norma che lo prevedesse, ma è inammissibile, e dunque si deve
immaginare che alla lesione del bene alla salute consegua il risarcimento del danno. Altrimenti ci sarebbe
una regola senza sanzione. L’unica sanzione disponibile è quello dell’art. 2043, bisogna immaginare che si
tratti anche del danno non patrimoniale. Altrimenti andrebbe dichiarato illegittimo l’art. 2059 nella parte in
cui non prevede la risarcibilità del danno biologico, per questo la Corte fa questo ragionamento. Il giudice
costituzionale preferisce salvare l’art. 2059 e scombinare la lettura dell’art. 2043, dando un’interpretazione
estensiva (più negli effetti, che nella decifrazione della fattispecie).

LEZIONE 29
09/12/20

SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE n. 372/1994


Questa sentenza prende le mosse dal problema di risarcibilità del danno da morte del congiunto. Il giudice
estensore è Mengoni.
La questione riguarda il danno biologico che viene in considerazione iure successionis (o ereditario) e iure
proprio.
Iure ereditario: la vittima perde la vita, la perdita della vita può essere considerata la forma più radicale di
danno alla salute, a seguito dell’evento matura un diritto al risarcimento del danno, il quale a seguito della
morte si trasmette agli eredi.
Iure proprio: risarcimento del danno per lesione del diritto alla salute, che spetta ai parenti per il danno (non
patrimoniale) da lesione del diritto alla salute provocata dalla morte di una persona cara.
Queste sono le due questioni.
Per rapporto ad entrambe le questioni si pone il problema del risarcimento del danno biologico e la Corte è
chiamata a pronunciarsi, ancora una volta, sulla legittimità costituzionale dell’art. 2059 e 2043.
Sulla legittimità dell’art. 2059, sempre a causa della limitazione che si conosce: si limiterebbe entro gli angusti
limiti del danno morale soggettivo e quindi sotto questo aspetto non riuscirebbe a farsi carico della
risarcibilità del danno biologico, che è qualcosa in più del danno morale soggettivo.

Sotto il profilo del "danno alla salute iure proprio" la questione è infondata in relazione all'art.
2043 cod. civ., ed è infondata, nei sensi appresso precisati, anche in relazione all'art. 2059 cod.
civ. […] Contro la pretesa di risarcimento l'ordinanza ripropone le medesime difficoltà esposte
nella prima parte, procedenti dalla limitazione della previsione dell'art. 2043 ai danni patrimoniali
e dell'art. 2059 al danno morale soggettivo. Ma il conseguente sospetto di illegittimità
costituzionale per contrasto con la tutela del diritto alla salute è avanzato tralasciando l'esame
della dottrina accolta dalla Corte di cassazione (sentenze nn. 357 e 2009 del 1993), che ritiene
applicabile l'art. 2043 cod. civ. (e insieme l'art. 1223, richiamato dall'art. 2056) per analogia iuris.
Dalla ratio dell'art. 2043, coordinata con l'esigenza di effettività della tutela dei diritti
fondamentali, questa soluzione ermeneutica argomenta un principio di risarcibilità dei danni più
generale di quello originariamente tradotto nella regola del codice civile, comprendente non solo
i danni patrimoniali, ma pure i danni non patrimoniali causati dalla lesione di un diritto personale
costituzionalmente protetto, quale il diritto alla salute.

Dunque, questo capoverso della sentenza affronta il seguente problema: il giudice remittente (che solleva la
questione di legittimità costituzionale) aveva preso di petto l’art. 2043 perché dice che la soluzione accolta
dalla sentenza del 1986 è una soluzione sbagliata, perché il danno non patrimoniale è un danno conseguenza
(non un danno evento). Quindi, per quanto ingegnosa la soluzione della Corte del 1986 è comunque
insoddisfacente perché non tiene in considerazione la struttura triadica dell’illecito aquiliano. Siccome l’art.
2043 si occupa soltanto del danno patrimoniale, nella misura in cui lascia fuori quello non patrimoniale è
costituzionalmente illegittimo, si potrebbe obiettare che lo fa perché del danno non patrimoniale si occupa
l’art. 2059. Il punto è che il “pasticcio” lo combina la sentenza del 1986, perché la sentenza avrebbe dovuto
lavorare sull’art. 2059, e invece rinuncia a intervenire sull’art. 2059 che assume la sua interpretazione
tradizionale, e prova a recuperare la risarcibilità del danno biologico attraverso l’operazione dell’art. 2043,
che però violenta la struttura dell’art. 2043 amputandolo.
Il giudice remittente avrebbe buon gioco a dire che l’art. 2043 non si occupa dei danni non patrimoniali. Però
in effetti la Corte di Cassazione, alla cui giurisprudenza la Corte costituzionale del 1994 si ispira, dice che in
realtà vero è che l’art. 2043 si occupa dei soli danni patrimoniali, ma esso è suscettibile di applicazione
analogica (analogia iuris ex art. 12 disp. Prel. Cod. civ.).
Art. 12 disp. Prel. – […] Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo
alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo
i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato.
Nella prima parte si occupa dell’analogia legis. La seconda parte si occupa dell’analogia iuris, per cui non è
prevista una norma puntuale ma un principio generale, che qui è il diritto alla salute sancito dall’art 32 della
Cost. Allora la Corte di Cassazione, richiamata dalla Corte Costituzionale in questa sentenza, dice che è vero
che l’art. 2043 si occupa solo di danni patrimoniali, però c’è un problema, che è rappresentato
dall’apprezzamento della tutela risarcitoria di un bene di primaria rilevanza. Applicare analogicamente
significa includere tra i danni conseguenza anche i danni non patrimoniali: l’illecito civile è un dispositivo che
funziona secondo la struttura triadica; il danno alla salute è un danno conseguenza (non è un danno evento),
perché si atteggia allo stesso modo del danno patrimoniale, per es. Tizio va in giro con la sua macchina che
gli viene distrutta a seguito di un incidente stradale, causando impoverimento del patrimonio di Tizio (si
hanno danno emergente e lucro cessante perché Tizio perde la possibilità di andare a lavorare in macchina),
c’è la lesione di un interesse giuridicamente protetto (danno ingiusto, diritto di proprietà). Il danno biologico
invece funziona che Tizio perde anche l’arto oltre che la macchina, c’è una condotta illecita, poi c’è la lesione
di un interesse giuridicamente protetto (un danno ingiusto) e un danno conseguenza. Si tratta di beni diversi,
ma sono entrambi interessi della tutela dei quali l’ordinamento si fa carico. Se questa è la struttura dell’illecito
civile perché non interpretare analogicamente l’art. 2043, in modo che il suo campo di applicazione non
venga esteso anche al danno non patrimoniale? Il genus sarebbe il danno conseguenza e le specie il danno
patrimoniale e quello non patrimoniale. L’art. 2043 contempla solo quello patrimoniale, rimane fuori l’altro
ma l’art. 2043 funge benissimo da “caso simile” e quindi è suscettibile di interpretazione analogica. Potrebbe
non essere un’analogia legis, per cui si va sul sicuro con l’analogia iuris, perché c’è un principio generale che
è l’art. 32 Cost.
È una soluzione ingegnosa e meno difficoltosa di quella dell’86, è più lineare perché salva la struttura
tripartita dell’illecito civile. Si potrebbe dire addirittura che non sarebbe necessario ricorrere all’analogia, ma
a questo punto operare un’interpretazione estensiva dell’art. 2043. Ma come si fa a dire che ci sta anche il
danno non patrimoniale nell’art. 2043 visto che esiste anche l’art. 2059? Il limite di questa soluzione è che
non tiene conto della coesistenza dei suoi articoli, a meno che non si dica che l’art. 2059 è stato pensato per
il solo danno morale soggettivo, e quindi strutturalmente inidoneo a farsi carico di altri danni non
patrimoniali.
L’altro problema che si potrebbe sollevare rispetto a questa soluzione è che in realtà si interpreta
analogicamente l’art. 2043 per la sua struttura tripolare, se si accetta l’idea che il danno di cui l’art. 2043 è il
danno patrimoniale, il salto al danno non patrimoniale diventa più complicato.
La struttura del ragionamento della Corte è il seguente: l’art. 2043 contempla il danno patrimoniale, il danno
non patrimoniale è danno conseguenza come il danno patrimoniale, e a questo punto si è capaci di fare
interpretazione analogica con il richiamo all’art. 2043 e si conclude che l’art. 2043 si fa carico tanto del danno
patrimoniale quanto di quello non patrimoniale.
Nell'ordinanza di rimessione si obietta che i "danni non patrimoniali" previsti dall'art. 2059 si
restringono al danno morale soggettivo, che deve essere tenuto distinto dal danno alla salute
"pena la confusione fra nozioni completamente diverse, quali sono il danno evento e il danno
conseguenza". Ma va replicato anzitutto che un simile criterio di differenziazione è legato alla
premessa di fondo, già confutata, da cui muove il giudice a quo. Il danno biologico, al pari di ogni
altro danno ingiusto, è risarcibile soltanto come pregiudizio effettivamente conseguente a una
lesione. In secondo luogo, nell'ipotesi particolare di cui si discute l'interpretazione restrittiva
dell'art. 2059, in relazione all'art. 185 cod. pen., non regge alla prova dell'argomento pratico
dell'irrazionalità di una decisione che nelle conseguenze dello shock psichico patito dal familiare
discerna ciò che è soltanto danno morale soggettivo da ciò che incide sulla salute, per ammettere
al risarcimento solo il primo. Il danno alla salute è qui il momento terminale di un processo
patogeno originato dal medesimo turbamento dell'equilibrio psichico che sostanzia il danno
morale soggettivo, e che in persone predisposte da particolari condizioni (debolezza cardiaca,
fragilità nervosa, ecc.), anziché esaurirsi in un patema d'animo o in uno stato di angoscia
transeunte, può degenerare in un trauma fisico o psichico permanente, alle cui conseguenze in
termini di perdita di qualità personali, e non semplicemente al pretium doloris in senso stretto, va
allora commisurato il risarcimento.

In realtà il danno biologico è il danno ingiusto, che è una cosa diversa dal danno conseguenza. La corte dice
che anche il danno biologico, come conseguenza della lesione del diritto alla salute, è danno conseguenza. Il
confinamento del danno biologico entro i confini e i limiti del danno-evento è concettualmente inaccettabile.
In premessa, si dice che il danno alla salute è danno conseguenza. In secondo luogo, è danno conseguenza
anche il danno morale soggettivo, se l’art. 2059 davvero limitasse il proprio ambito di operatività al danno
morale soggettivo l’art. 2059 dimostrerebbe di lasciare fuori il danno alla salute. Che a questo punto non
sarebbe neanche un gran problema perché il danno alla sua salute ormai ha trovato dimora all’art. 2043.
Comunque viene allargato anche il campo di applicazione dell’art. 2059 dicendo che in realtà è riduttiva l’idea
che il danno non patrimoniale ex art. 2059 debba necessariamente èssere il danno morale soggettivo, perché
il danno alla salute è momento terminale di un processo patogeno originato dal medesimo turbamento
dell'equilibrio psichico che sostanzia il danno morale soggettivo, e che in persone predisposte da particolari
condizioni, anziché esaurirsi in un patema d'animo o in uno stato di angoscia transeunte, può degenerare in
un trauma fisico o psichico permanente, alle cui conseguenze in termini di perdita di qualità personali, e non
semplicemente al pretium doloris in senso stretto, va allora commisurato il risarcimento: il fatto che al reato
consegua il danno morale soggettivo non significa che non possa seguire anche il danno alla salute, come
perdita permanente (trauma fisico-psichico permanente), perché questo non si può affatto escludere. Non
si può escludere la possibilità che il danno morale soggettivo non si accompagni al danno biologico di
principio.

In conclusione, il danno biologico rientra come il danno conseguenza sotto la protezione dell’art. 2043.
Rimane aperto il problema del modo in cui risolvere il danno non patrimoniale per liquidarlo. Ma dal punto
di vista di una profilassi del pensiero in effetti l’idea che il danno non patrimoniale sia perdita (come il danno
patrimoniale) ma di una qualità della vita (invece che del patrimonio). Dall’altro lato l’art. 2059, non è che
siccome il danno non patrimoniale dell’art. 185 c.p. è il danno morale soggettivo allora non ci può essere
anche il danno alla salute. Si può essere vittime di un reato che procura il trauma sul momento, ma poterebbe
avere conseguenze più gravi e permanenti. Viene fuori un sistema in cui il danno non patrimoniale se non
conseguenza del reato ricade sotto l’art. 2049 e se conseguenza del reato allora ricade sotto l’art. 2059.
Rimane aperto il problema dell’art. 2059 per cui il danno non patrimoniale deve essere espressamente
previsto dalla legge, verosimilmente (anche se il discorso non viene espressamente affrontato in questa
sentenza) rimane tra le righe della sentenza che la riserva di legge è soddisfatta dalla norma costituzionale
che sancisce la tutelabilità del diritto alla salute, che è sempre una norma di legge che in quanto tale consente
di ritenere soddisfatta la riserva di legge dell’art. 2059. Si potrebbe obiettare che però un conto è dire che un
interesse giuridico è incluso nel novero di quelli di cui si prende cura la carta costituzionale e altro è dire che
questo basti a soddisfare la riserva di legge dell’art. 2059: all’art. 32 Cost. non è previsto il risarcimento del
danno ma l’interesse da tutelare.
La risposta arriverà nel 2008 dalle sezioni unite: visto che dire un interesse è tutelato, ci vuole una
conseguenza quando viene violato. Allora tutte le volte che il legislatore costituzionale annovera un bene tra
quelli protetti, allora anche se non è espressamente detto questo può essere risarcibile sia ex art. 2043 che
ex art. 2059.

LEZIONE 30
14/12/20

Prima di passare all’analisi della prossima sentenza è opportuno analizzare brevemente i due precedenti
giurisprudenziali. Si tratta di due sentenze gemelle nn. 8827-8828 del 2003, della Cassazione, che danno una
consacrazione di legittimità alla figura del danno esistenziale, che diventa una terza manifestazione del
danno non patrimoniale.
Il danno esistenziale consiste in qualsiasi compromissione della serenità della persona, che si distingue da
quello biologico perché non implica la lesione dell’integrità psico-fisica e dal danno morale soggettivo perché
non si riduce al patema d’animo. Si risolve nella compromissione delle attività realizzatrici della persona
umana.
Le due sentenze forniscono un’esemplificazione di cosa debba essere inteso per danno esistenziale. Le due
fattispecie da cui le pronunce originano sono:
1) a una coppia di genitori nasce un figlio affetto da grave patologia, al punto che la vita del bambino è
vegetativa, che avrebbe comportato cure per tutta la vita del bambino e assistenza ininterrotta, e
non erano stati informati dai medici e quindi posti davanti alla possibilità di interrompere la
gravidanza, il fondamento dell’istanza è l’art. 29 Cost. che riconosce la famiglia come istituto sociale.
La famiglia è un gruppo sociale in cui si esplica la personalità dell’individuo, questo diritto viene ri-
declinato come diritto a una vita famigliare serena. La presenza di un figlio che assorbe buona parte
delle energie dei genitori pregiudica in radice questa possibilità.
2) Marito che perde a seguito di un incidente stradale la funzione erettile, diventa impotente. Il
soggetto leso è la moglie che lamenta il pregiudizio alla qualità della sua vita coniugale (fondamento
anche qui art. 29 Cost.) per impossibilità di avere rapporti sessuali con il legittimo consorte.
I genitori e la moglie sono fisicamente integri (non è danno biologico), e non è danno morale soggettivo
perché si è oltre lo shock transeunte.
Le sentenze del 2003 cambiano strategia rispetto alle ultime due pronunce esaminate (della corte
costituzionale in merito al danno biologico).
I giudici del 2003 risolvono definitivamente il problema dicendo che la riserva di legge dell’art. 2059 è
soddisfatta anche dai precetti costituzionali. Altrimenti si sarebbe in presenza di una norma che pone un
divieto, riconosce un diritto e quindi si fa carico della sua protezione, e la protezione non può che avvenire
attraverso la “tutela minima”, ovvero la tutela risarcitoria che presenta il maggiore grado di generalizzazione.
Quindi, mettendo insieme questi due tronconi del ragionamento della Cassazione si ottiene che il
risarcimento del danno non patrimoniale è previsto dalla legge, e la riserva è soddisfatta anche dalla norma
costituzionale. L’art. 2043 esce di scena per quanto riguarda il danno non patrimoniale, e la dimora di questo
danno è finalmente l’art. 2059.

Cass., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972


Così riassunti i contrapposti orientamenti, l'ordinanza di rimessione conclude invitando le Sezioni
unite a pronunciarsi sui seguenti otto "quesiti".

1. Se sia concepibile un pregiudizio non patrimoniale, diverso tanto dal danno morale quanto dal
danno biologico, consistente nella lesione del fare areddituale della vittima e scaturente dalla
lesione di valori costituzionalmente garantiti. 2. Se sia corretto ravvisare le caratteristiche di tale
pregiudizio nella necessaria sussistenza di una offesa grave ad un valore della persona, e nel
carattere di gravità e permanenza delle conseguenze da essa derivate. 3. Se sia corretta la teoria
che, ritenendo il danno non patrimoniale "tipico", nega la concepibilità del danno esistenziale. […]

Il risarcimento del danno non patrimoniale è previsto dall'art. 2059 c.c. ("Danni non
patrimoniali") secondo cui "Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi
determinati dalla legge". All'epoca dell'emanazione del codice civile l'unica previsione espressa
del risarcimento del danno non patrimoniale era racchiusa nell'art. 185 cod. pen. del 1930. La
giurisprudenza, nel dare applicazione all'art. 2059 c.c., si consolidò nel ritenere che il danno non
patrimoniale era risarcibile solo in presenza di un reato e ne individuò il contenuto nel c.d. danno
morale soggettivo, inteso come sofferenza contingente, turbamento dell'animo transeunte. 2.1.
L'insostenibilità di siffatta lettura restrittiva è stata rilevata da questa Corte con le sentenze n.
8827 e n. 8828/2003 8828/2003 , in cui si è affermato che nel vigente assetto dell'ordinamento,
nel quale assume posizione preminente la Costituzione - che, all'art. 2, riconosce e garantisce i
diritti inviolabili dell'uomo - il danno non patrimoniale deve essere inteso nella sua accezione più
ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da
rilevanza economica. Sorreggono l'affermazione i seguenti argomenti: a) il cospicuo incremento,
nella legislazione ordinaria, dei casi di espresso riconoscimento del risarcimento del danno non
patrimoniale anche al di fuori dell'ipotesi di reato, in relazione alla compromissione di valori
personali (L. n. 117 del 1998, art. 2; L. n. 675 del 1996, art. 29, comma 9; D.Lgs. n. 286 del 1998,
art. 44, comma 7; L. n. 89 del 2001, art. 2, con conseguente ampliamento del rinvio effettuato
dall'art. 2059 c.c., ai casi determinati dalla legge; b) il riconoscimento nella giurisprudenza della
Cassazione (a partire dalla sentenza n. 3675/1981 3675/1981 ) di quella peculiare figura di danno
non patrimoniale, diverso dal danno morale soggettivo, che è il danno biologico, formula con la
quale si designa la lesione dell'integrità psichica e fisica della persona; c) l'estensione
giurisprudenziale del risarcimento del danno non patrimoniale, evidentemente inteso come
pregiudizio diverso dal danno morale soggettivo, anche in favore delle persone giuridiche (sent. n.
2367/2000); d) l'esigenza di assicurare il risarcimento del danno non patrimoniale, anche in
assenza di reato, nel caso di lesione di interessi di rango costituzionale, sia perchè in tal caso il
risarcimento costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela minima non è assoggettabile a
limiti specifici, poichè ciò si risolve in rifiuto di tutela nei casi esclusi, sia perchè il rinvio ai casi in
cui la legge consente il risarcimento del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo
l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il
riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti la persona non aventi natura
economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un
caso determinato dalla legge, al massimo livello, di risarcimento del danno non patrimoniale.

Viene ripercorsa la vicenda del danno non patrimoniale, concentrandosi sulle pronunce del 2003. Le S.U.
stanno dicendo che in principio era il danno morale soggettivo, perché sulla base di una lettura ancora non
costituzionalmente orientata dell’art. 2059 l’unica ipotesi di danno non patrimoniale previsto dalla legge era
quello dell’art. 185 c.p. che fa riferimento al danno morale soggettivo. Però questo poteva andare bene fin o
a quando non era entrata in vigore la costituzione, ma poi questo assetto così costrittivo è divenuto
incompatibile con i valori consacrati dalla carta costituzionale del 1948, in particolare con l’art. 2 Cost. il quale
laddove riconosce i diritti inviolabili della persona, pone al centro del progetto costituzionale la persona
stessa, la persona intesa come insieme di capacità e potenzialità, sia come singolo che nelle formazioni sociali.
Art. 2 Cost. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà
politica, economica e sociale.
L’uomo è inteso come compendio non racchiudibile dentro un registro chiuso di potenzialità e capacità e di
plasmare, nei limiti del possibile, la propria vita. Rispetto ad un’opzione di valore così forte l’approccio molto
angusto dell’art. 2059 è incompatibile. Del resto le sentenze del 2003 ricordano che ci sono una serie di
indicatori normativi che documentano in modo inequivocabile il superamento dei limiti rigidi posti dall’art.
2059. Per esempio, nella legislazione ordinaria affiorano figure di danno non patrimoniale espressamente
riconosciute: es. art. 29 L. 675/1996 che prevedeva il risarcimento del danno alla riservatezza come danno
non patrimoniale. Una previsione di questo genere soddisfa pienamente la riserva di legge, ma modifica
contemporaneamente il contenuto del danno non patrimoniale che non è più riducibile al danno morale
soggettivo.
Già la legislazione ordinaria dunque mostra di muoversi verso una nozione di danno non patrimoniale più
estesa rispetto a quella inchiodata sul danno morale soggettivo. Poi emerge la figura del danno biologico,
che è un’altra figura di danno non patrimoniale, che rispetto alla formulazione dell’art. 2059 che nella
prospettiva della ricostruzione storica quando emerge in effetti, essendo creazione giurisprudenziale, soffre
il rapporto con l’art. 2059, tant’è vero che nelle sentenze della Corte Costituzionale i giudici provano a
dislocare il danno biologico dentro l’orizzonte dell’art. 2043.
Si arriva alla questione della idoneità dei precetti costituzionali, che riconoscono un diritto della persona, a
soddisfare la riserva di legge dell’art. 2059. Non ha nessun senso immaginare un diritto costituzionalmente
garantito che non sia presidiato da una “sanzione”, altrimenti questa rilevanza costituzionale della persona
si riduce a una mera dichiarazione di intenti. Se invece si abbina il diritto soggettivo della persona
costituzionalmente riconosciuta, come nel caso del diritto ricavabile dall’art. 29 ad una vita familiare serena
(come nei precedenti del 2003), il quadro si completa con la tutela risarcitoria. La corte dice che se a questi
diritti soggettivi si nega anche la tutela risarcitoria che cosa resta di questo riconoscimento costituzionale?
Non resta niente, non c’è alcuna tutela giurisdizionale ed è come se non ci fossero.
Se l’obiettivo è quello di superare la strettoia dell’art. 2059 bisogna dire che c’è il riconoscimento del diritto
e la previsione implicita che in caso di lesione si è tenuti al risarcimento del danno.
Nel momento in cui si dice che il diritto alla salute è anche un diritto soggettivo immediatamente rilevante
nelle relazioni tra privati si deve necessariamente predicarne la risarcibilità, altrimenti è un’operazione senza
alcuna rilevanza pratica. Questo è il punto di partenza delle S.U. del 2008, condividendo il discorso nelle sue
linee generali riprendendolo da dove era stato lasciato dalle due sentenze gemelle del 2003.

LEZIONE 31
15/12/20

Queste Sezioni unite condividono e fanno propria la lettura, costituzionalmente orientata, data
dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 8828/2003 all'art. 2059 c.c., e la completano nei termini
seguenti.

Il danno non patrimoniale di cui parla, nella rubrica e nel testo, l'art. 2059 c.c., si identifica con il
danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza
economica. Il suo risarcimento postula la verifica della sussistenza degli elementi nei quali si
articola l'illecito civile extracontrattuale definito dall'art. 2043 c.c.. L'art. 2059 c.c., non delinea
una distinta fattispecie di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma consente la
riparazione anche dei danni non patrimoniali, nei casi determinati dalla legge, nel presupposto
della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell'illecito civile, che si ricavano
dall'art. 2043 c.c. (e da altre norme, quali quelle che prevedono ipotesi di responsabilità
oggettiva), elementi che consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di
danno, connotato quest'ultimo dall'ingiustizia, determinata dalla lesione, non giustificata, di
interessi meritevoli di tutela, e nel danno che ne consegue (danno-conseguenza, secondo
opinione ormai consolidata: Corte cost. n. 372/1994; S.U. n. 576, 581, 582, 584/2008).

Questo è il primo assunto da cui muovono le S.U.: l’illecito civile è unico, la sua struttura è quella descritta
dall’art. 2043 e si articola negli elementi della condotta, imputabilità, causalità, ingiustizia del danno e danno
conseguenza, che sono le invarianti dell’illecito civile. Il danno non patrimoniale sotto questo profilo non si
distingue dal danno patrimoniale. Dopo la sent. Mengoni questa omologia di struttura tra i due danni è stata
definitivamente acquisita quando il danno non patrimoniale è stato ascritto alla tipologia dei danni
conseguenza, correggendo la sent. dell’Andro in cui il danno non patrimoniale era stato schiacciato sul danno
evento.

L'art. 2059 c.c., è norma di rinvio. Il rinvio è alle leggi che determinano i casi di risarcibilità del
danno non patrimoniale. L'ambito della risarcibilità del danno non patrimoniale si ricava
dall'individuazione delle norme che prevedono siffatta tutela. Si tratta, in primo luogo, dell'art.
185 c.p., che prevede la risarcibilità del danno patrimoniale conseguente a reato ("Ogni reato,
che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il
colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui"). Altri
casi di risarcimento anche dei danni non patrimoniali sono previsti da leggi ordinarie in relazione
alla compromissione di valori personali. Al di fuori dei casi determinati dalla legge, in virtù del
principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, la tutela è
estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona
riconosciuti dalla Costituzione. Per effetto di tale estensione, va ricondotto nell'ambito dell'art.
2059 c.c., il danno da lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost.) denominato danno
biologico, del quale è data, dal D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139, specifica definizione
normativa. In precedenza, come è noto, la tutela del danno biologico era invece apprestata grazie
al collegamento tra l'art. 2043 c.c. e l'art. 32 Cost. (come ritenuto da Corte Cost. n. 184/1986), per
sottrarla al limite posto dall'art. 2059 c.c., norma nella quale avrebbe ben potuto sin dall'origine
trovare collocazione (come ritenuto dalla successiva sentenza della Corte n. 372/1994 per il
danno biologico fisico o psichico sofferto dal congiunto della vittima primaria). Trova adeguata
collocazione nella norma anche la tutela riconosciuta ai soggetti che abbiano visto lesi i diritti
inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.) (sent. n. 8827 e n. 8828/2003 8828/2003,
concernenti la fattispecie del danno da perdita o compromissione del rapporto parentale nel caso
di morte o di procurata grave invalidità del congiunto). Eguale sorte spetta al danno conseguente
alla violazione del diritto alla reputazione, all'immagine, al nome, alla riservatezza, diritti
inviolabili della persona incisa nella sua dignità, preservata dagli artt. 2 e 3 Cost. (sent. n.
25157/2008).

Le S.U. qui ripetono lo stesso iter che è seguito dalle due sentenze del 2003: le S.U. dicono che l’art. 2059 è
norma di rinvio, che richiede che si individuino i casi nei quali il danno non patrimoniale è risarcibile.
Storicamente la prima ipotesi è il danno non patrimoniale come conseguenza del reato (danno morale
soggettivo ex art. 185 c.p.). a questa prima ipotesi nel corso del tempo se ne sono affiancate altre (lesione
del diritto alla riservatezza, al diritto a non essere discriminato, lesione della libertà personale per ingiusta
detenzione…) e si tratta di figura espressamente contemplate dalla legge. Esiste una terza “casistica” di danni
non patrimoniali che sono i danni da lesione di un diritto inviolabile della persona costituzionalmente
garantito. Il prototipo di questo terzo gruppo di casi di danno non patrimoniale risarcibile è il danno biologico,
cioè il danno da lesione del diritto alla salute, di cui si conosce attraverso la lettura delle due sentenze della
Corte Cost. la parabola. Tra l’altro il danno biologico, anche se storicamente ha svolto l’importante funzione
di apripista a questa terza casistica, ormai è migrato all’interno del gruppo di casi di risarcibilità
espressamente previsti da una legge ordinaria (artt. 138-139 del codice delle assicurazioni). Dopo le pronunce
del 2003 a incarnare la tipologia di casi di danno non patrimoniale risarcibile in conseguenza della lesione di
un diritto costituzionalmente garantito sono i danni legati alla compromissione del rapporto parentale
provocata dalla morte del congiunto o dalla procurata grave invalidità del congiunto. La norma di riferimento
qui è l’art. 29 Cost e dall’art. 30. Una norma costituzionale che regola la famiglia, viene convertita in una
norma costituzionale che istituisce, attraverso il procedimento ermeneutico, un diritto soggettivo. La
rilevanza di questi diritti soggettivi è apprezzabile ad una sola condizione: la risarcibilità del danno della
lesione del diritto soggettivo elaborato dalla giurisprudenza, non c’è altra possibilità di assicurare concretezza
a questi diritti soggettivi se non predicandone la risarcibilità ex art. 2059, altrimenti resterebbero pure
enunciazioni di principio.
L’inclusione della terza categoria ha una importanza fondamentale perché consente di considerare risolto il
problema della riserva di legge dell’art. 2059.

La rilettura costituzionalmente orientata dell'art. 2959 c.c., come norma deputata alla tutela
risarcitoria del danno non patrimoniale inteso nella sua più ampia accezione, riporta il sistema
della responsabilità aquiliana nell'ambito della bipolarità prevista dal vigente codice civile tra
danno patrimoniale (art. 2043 c.c.) e danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) (sent. n. 8827/2003
8827/2003 ; n. 15027/2005; n. 23918/2006). Sul piano della struttura dell'illecito, articolata negli
elementi costituiti dalla condotta, dal nesso causale tra questa e l'evento dannoso, e dal danno
che da quello consegue (danno-conseguenza), le due ipotesi risarcitorie si differenziano in punto
di evento dannoso, e cioè di lesione dell'interesse protetto. Sotto tale aspetto, il risarcimento del
danno patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità, postulando l'ingiustizia del danno di
cui all'art. 2043 c.c., la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante (sent. 500/1999),
mentre quello del danno non patrimoniale è connotato da tipicità, perchè tale danno è risarcibile
solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato da un evento di danno
consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona (sent. n. 15027/2005; n.
23918/2006).

Le S.U. completano la ricostruzione del sistema della responsabilità civile ponendo a confronto gli artt. 2043
e 2059. Si era detto che il danno non patrimoniale soggiace alle regole dell’illecito civile previste dall’art.
2043. Poi all’interno di questo quadro c’è un momento di differenziazione, perché mentre nel caso dell’art.
2043 la regola sarebbe quella dell’atipicità, nel caso dell’art. 2059 la regola quella della tipicità. Questa
posizione è discutibile. Si diceva commentando la sentenza 500/1999 che questo modo di ragionare è fragile:
come le stesse S.U. dicono, l’interesse la lesione del quale dà accesso alla tutela risarcitoria è pur sempre un
interesse giuridicamente protetto, quindi questa atipicità è molto fragile e impalpabile, perché già
l’ordinamento ha manifestato il suo proposito di manifestare una tutela giurisdizionale a questi interessi, a
meno che per atipicità non si intenda che il legislatore non proferisce espressamente la parola “risarcimento
del danno”. Allora si potrebbe obiettare che anche con riguardo alla terza casistica di danno non patrimoniale
risarcibile questo requisito non ricorre, perché il legislatore costituzionale non menziona la risarcibilità dei
diritti previsti dalla Carta Costituzionale.
La risarcibilità del danno non patrimoniale postula, sul piano dell'ingiustizia del danno, la
selezione degli interessi dalla cui lesione consegue il danno. Selezione che avviene a livello
normativo, negli specifici casi determinati dalla legge, o in via di interpretazione da parte del
giudice, chiamato ad individuare la sussistenza, alla stregua della Costituzione, di uno specifico
diritto inviolabile della persona necessariamente presidiato dalla minima tutela risarcitoria.
Nell'ipotesi in cui il fatto illecito si configuri (anche solo astrattamente: S.U. n. 6651/1982) come
reato, è risarcibile il danno non patrimoniale, sofferto dalla persona offesa e dagli ulteriori
eventuali danneggiati (nel caso di illecito plurioffensivo: sent. n. 4186/1998; S.U. n. 9556/2002),
nella sua più ampia accezione di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona
non connotati da rilevanza economica. La limitazione alla tradizionale figura del c.d. danno
morale soggettivo transeunte va definitivamente superata. La figura, recepita per lungo tempo
dalla pratica giurisprudenziale, aveva fondamento normativo assai dubbio, poichè nè l'art. 2059
c.c., nè l'art. 185 c.p., parlano di danno morale, e tantomeno lo dicono rilevante solo se sia
transitorio, ed era carente anche sul piano della adeguatezza della tutela, poichè la sofferenza
morale cagionata dal reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l'effetto penoso
protrarsi anche per lungo tempo (lo riconosceva quella giurisprudenza che, nel caso di morte del
soggetto danneggiato nel corso del processo, commisurava il risarcimento sia del danno biologico
che di quello morale, postulandone la permanenza, al tempo di vita effettiva: n. 19057/2003; n.
3806/2004; n. 21683/2005). Va conseguentemente affermato che, nell'ambito della categoria
generale del danno non patrimoniale, la formula "danno morale" non individua una autonoma
sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di
pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sè considerata.
Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del
danno, ma solo della quantificazione del risarcimento. In ragione della ampia accezione del
danno non patrimoniale, in presenza del reato è risarcibile non soltanto il danno non
patrimoniale conseguente alla lesione di diritti costituzionalmente inviolabili (come avverrà, nel
caso del reato di lesioni colpose, ove si configuri danno biologico per la vittima, o nel caso di
uccisione o lesione grave di congiunto, determinante la perdita o la compromissione del rapporto
parentale), ma anche quello conseguente alla lesione di interessi inerenti la persona non
presidiati da siffatti diritti, ma meritevoli di tutela in base all'ordinamento (secondo il criterio
dell'ingiustizia ex art. 2043 c.c.), poichè la tipicità, in questo caso, non è determinata soltanto dal
rango dell'interesse protetto, ma in ragione della scelta del legislatore di dire risarcibili i danni
non patrimoniali cagionati da reato. Scelta che comunque implica la considerazione della
rilevanza dell'interesse leso, desumibile dalla predisposizione della tutela penale.

Qui le S.U. dicono due cose importanti e sensate:


1- il danno non patrimoniale ex. art. 15 non è necessariamente il sanno morale soggettivo, questo
confinamento era conseguenza della percezione degli interpreti che la finalità della norma fosse di aggravare
la punizione del colpevole, ed era perciò sufficiente immaginare che il danno non patrimoniale si esaurisse
nello stato d’animo negativo subito dalla vittima a seguito della perpetrazione ai suoi danni del reato. Nulla
esclude che invece il danno non patrimoniale ex art. 185 abbia una consistenza diversa: per esempio, si risolva
nella alterazione permanente dell’integrità psico-fisica del soggetto.
2- Per converso le S.U. nel momento in cui allargano il perimetro del danno non patrimoniale ex art. 185 c.p.
avvertono l’esigenza di precisare che il danno non patrimoniale ex art. 185 sia risarcibile solo quando coincida
con la lesione di un diritto della persona costituzionalmente garantito: anche quando si tratti di danni che
non impingono la sfera di questi interessi apicali, anche quando il danno non è conseguenza di un diritto
costituzionalmente garantito, il danno è risarcibile, perché deve semplicemente essere conseguente al reato.
Negli altri casi determinati dalla legge la selezione degli interessi è già compiuta dal legislatore.
Va notato che, nei casi previsti da leggi vigenti richiamati in precedenza, il risarcimento è
collegato alla lesione di diritti inviolabili della persona: alla libertà personale, alla riservatezza, a
non subire discriminazioni. Non può tuttavia ritenersi precluso al legislatore ampliare il catalogo
dei casi determinati dalla legge ordinaria prevedendo la tutela risarcitoria non patrimoniale
anche in relazione ad interessi inerenti la persona non aventi il rango costituzionale di diritti
inviolabili, privilegiandone taluno rispetto agli altri (Corte Cost. n. 87/1979). Situazione che non
ricorre in relazione ai diritti predicati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo, ratificata con la L. n. 88 del 1955, quale risulta dai vari Protocolli susseguitisi, ai quali
non spetta il rango di diritti costituzionalmente protetti, poichè la Convenzione, pur essendo
dotata di una natura che la distingue dagli obblighi nascenti da altri Trattati internazionali, non
assume, in forza dell'art. 11 Cost., il rango di fonte costituzionale, nè può essere parificata, a tali
fini, all'efficacia del diritto comunitario nell'ordinamento interno (Corte Cost. n. 348/2007).

Qui si è nell’ambito del secondo gruppo di casi: quelli nei quali il legislatore ordinario individua le ipotesi in
cui danno non patrimoniale è risarcibile. Si richiamo ancora gli stessi diritti inviolabili della persona. Tutti
questi sono figure di danno non patrimoniale risarcibile in presenza di una puntuale previsione di legge. Poi
le S.U. aggiungono una cosa che non è molto superflua: il legislatore ordinario può ampliare il catalogo. Non
c’è conseguenza a non scrivere queste informazioni, la corte è molto didascalica e un po’ scolastica.

Fuori dai casi determinati dalla legge è data tutela risarcitoria al danno non patrimoniale solo se
sia accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona: deve sussistere una ingiustizia
costituzionalmente qualificata. In tali ipotesi non emergono, nell'ambito della categoria generale
"danno non patrimoniale", distinte sottocategorie, ma si concretizzano soltanto specifici casi
determinati dalla legge, al massimo livello costituito dalla Costituzione, di riparazione del danno
non patrimoniale. E' solo a fini descrittivi che, in dette ipotesi, come avviene, ad esempio, nel caso
di lesione del diritto alla salute (art. 32 Cost.), si impiega un nome, parlando di danno biologico. Ci
si riferisce in tal modo ad una figura che ha avuto espresso riconoscimento normativo nel D.Lgs.
n. 209 del 2005, artt. 138 e 139, recante il Codice delle assicurazioni private, che individuano il
danno biologico nella "lesione temporanea o permanente all'integrità psicofisica della persona
suscettibile di accertamento medicolegale che esplica un'incidenza negativa sulle attività
quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da
eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito", e ne danno una definizione suscettiva di
generale applicazione, in quanto recepisce i risultati ormai definitivamente acquisiti di una lunga
elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. Ed è ancora a fini descrittivi che, nel caso di lesione
dei diritti della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), si utilizza la sintetica definizione di danno da
perdita del rapporto parentale. In tal senso, e cioè come mera sintesi descrittiva, vanno intese le
distinte denominazioni (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale)
adottate dalle sentenze gemelle del 2003, e recepite dalla sentenza, n. 233/2003 della Corte
Costituzionale. Le menzionate sentenze, d'altra parte, avevano avuto cura di precisare che non
era proficuo ritagliare all'interno della generale categoria del danno non patrimoniale specifiche
figure di danno, etichettandole in vario modo (n. 8828/2003 8828/2003 ), e di rilevare che la
lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., doveva essere riguardata non già come
occasione di incremento delle poste di danno (e mai come strumento di duplicazione del
risarcimento degli stessi pregiudizi), ma come mezzo per colmare le lacune della tutela
risarcitoria della persona (n. 8827/2003 8827/2003 ). Considerazioni che le Sezioni unite
condividono.

Il catalogo dei casi in tal modo determinati non costituisce numero chiuso. La tutela non è
ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel
presente momento storico, ma, in virtù dell'apertura dell'art. 2 Cost., ad un processo evolutivo,
deve ritenersi consentito all'interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che
siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente
rilevanti per l'ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della
persona umana.

Si sta parlando della “nuova” classe di danni non patrimoniali risarcibili. Il primo degli elementi di cui si
compone questa classe è il danno biologico, che nasce come frutto dell’elaborazione giurisprudenziale e
trasmigra nella seconda classe. Poi c’è la “new entry” che è rappresentato dal danno da perdita del rapporto
parentale, delle due sentenze del 2003. C’è un diritto soggettivo ricavabile da precetti costituzionali, che non
può non beneficiale della minima tutela risarcitoria, in più c’è l’art. 2 Cost. che può funzionare come punto
di riferimento per eventuali future elaborazioni che portino ad elaborare nuovi diritti soggettivi passibili del
medesimo trattamento.

LEZIONE 32
16/12/20

Si pone ora la questione se, nell'ambito della tutela risarcitoria del danno non patrimoniale, possa
inserirsi, come categoria autonoma, il c.d. danno esistenziale. Secondo una tesi elaborata in
dottrina nei primi anni '90 il danno esistenziale era inteso come pregiudizio non patrimoniale,
distinto dal danno biologico (all'epoca risarcito nell'ambito dell'art. 2043 c.c., in collegamento con
l'art. 32 Cost.), in assenza di lesione dell'integrità psicofisica, e dal c.d. danno morale soggettivo
(unico danno non patrimoniale risarcibile, in presenza di reato, secondo la tradizionale lettura
restrittiva dell'art. 2059 c.c., in collegamento all'art. 185 c.p.), in quanto non attinente alla sfera
interiore del sentire, ma alla sfera del fare non reddituale del soggetto. Tale figura di danno
nasceva dal dichiarato intento di ampliare la tutela risarcitoria per i pregiudizi di natura non
patrimoniale incidenti sulla persona, svincolandola dai limiti dell'art. 2059 c.c., e seguendo la via,
già percorsa per il danno biologico, di operare nell'ambito dell'art. 2043 c.c., inteso come norma
regolatrice del risarcimento non solo del danno patrimoniale, ma anche di quello non
patrimoniale concernente la persona. Si affermava che, nel caso in cui il fatto illecito limita le
attività realizzatrici della persona umana, obbligandola ad adottare nella vita di tutti i giorni
comportamenti diversi da quelli passati, si realizza un nuovo tipo di danno (rispetto al danno
morale soggettivo ed al danno biologico) definito con l'espressione "danno esistenziale". Il
pregiudizio era individuato nella alterazione della vita di relazione, nella perdita della qualità
della vita, nella compromissione della dimensione esistenziale della persona. Pregiudizi diversi dal
patimento intimo, costituente danno morale soggettivo, perchè non consistenti in una sofferenza,
ma nel non poter più fare secondo i modi precedentemente adottati, e non integranti danno
biologico, in assenza di lesione all'integrità psicofisica.

Le S.U. affrontano il danno esistenziale, che è una figura che emerge nel corso degli anni ’90, sempre la
giurisprudenza di merito si rende artefice di questa elaborazione e la finalità a cui mira la invenzione di questa
nuova figura di danno è quella di ampliare la sfera dei danni non patrimoniali risarcibili al di là delle due
tipologie di danno non patrimoniale ormai definitivamente acquisite (danno morale soggettivo e biologico).
Da queste due si distingue perché il danno esistenziale non è riducibile ad una sofferenza interiore transeunte
(a differenza del danno morale soggettivo) e del resto difetta il requisito del permanente pregiudizio
all’integrità psico-fisica (a differenza del danno biologico).
In positivo consiste in un pregiudizio recato a quello che si suole chiamare il fare a-rituale della persona.
Dietro questa idea ci sta il convincimento che la persona umana, in quanto dotata di un corredo di
potenzialità abbia il diritto a dare piena esplicazione di queste potenzialità. Dietro a questa idea di danno
esistenziale, in definitiva, ci sta la formula adottata dal legislatore costituzionale all’art. 3 comma 2 Cost.
ART 3 C. 2 COST. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Il danno esistenziale è un accidente provocato da un terzo che inibisce e impedisce il libero sviluppo della
personalità di ciascuno, senza che però questo comporti pregiudizio all’integrità psico-fisica della persona.
Questa giurisprudenza, nel momento in cui teneva a battesimo il danno esistenziale lo dislocava all’interno
dell’art. 2043 perché, esattamente come accaduto con il danno biologico, si riproponeva il problema
rappresentato dalla formulazione dell’art. 2059 (riserva di legge). Il danno non patrimoniale era una figura
scomposta perché una delle sue estrinsecazioni trovavano dimora nell’art. 2059 (danno morale soggettivo)
e due sotto l’art. 2043. Per cui il danno non patrimoniale vagava a seconda delle forme che assumeva tra
questi due articoli.

Questi erano dunque i termini nei quali viveva, nelle opinioni della dottrina e nelle applicazioni
della giurisprudenza, la figura del danno esistenziale. Dopo che le sentenze n. 8827 e n.
8828/2003 8828/2003 hanno fissato il principio, condiviso da queste Sezioni unite, secondo cui, in
virtù di una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., unica norma disciplinante il
risarcimento del danno non patrimoniale, la tutela risarcitoria di questo danno è data, oltre che
nei casi determinati dalla legge, solo nel caso di lesione di specifici diritti inviolabili della persona,
e cioè in presenza di una ingiustizia costituzionalmente qualificata, di danno esistenziale come
autonoma categoria di danno non è più dato discorrere. Come si è ricordato, la figura del danno
esistenziale era stata proposta nel dichiarato intento di supplire ad un vuoto di tutela, che ormai
più non sussiste. In presenza di reato, superato il tradizionale orientamento che limitava il
risarcimento al solo danno morale soggettivo, identificato con il patema d'animo transeunte, ed
affermata la risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, anche il
pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare (ma sarebbe meglio dire: nella
sofferenza morale determinata dal non poter fare) è risarcibile. La tutela risarcitoria sarà
riconosciuta se il pregiudizio sia conseguenza della lesione almeno di un interesse giuridicamente
protetto, desunto dall'ordinamento positivo, ivi comprese le convenzioni internazionali (come la
già citata Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, ratificata con la L. n. 88
del 1955), e cioè purchè sussista il requisito dell'ingiustizia generica secondo l'art. 2043 c.c.. E la
previsione della tutela penale costituisce sicuro indice della rilevanza dell'interesse leso. In
assenza di reato, e al di fuori dei casi determinati dalla legge, pregiudizi di tipo esistenziale sono
risarcibili purchè conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona. Ipotesi che si
realizza, ad esempio, nel caso dello sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di
congiunto (c.d. danno da perdita del rapporto parentale), poichè il pregiudizio di tipo esistenziale
consegue alla lesione dei diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.). In questo caso,
vengono in considerazione pregiudizi che, in quanto attengono all'esistenza della persona, per
comodità di sintesi possono essere descritti e definiti come esistenziali, senza che tuttavia possa
configurarsi una autonoma categoria di danno. Altri pregiudizi di tipo esistenziale attinenti alla
sfera relazionale della persona, ma non conseguenti a lesione psicofisica, e quindi non rientranti
nell'ambito del danno biologico (comprensivo, secondo giurisprudenza ormai consolidata, sia del
c.d. "danno estetico" che del c.d. "danno alla vita di relazione"), saranno risarcibili purchè siano
conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona diverso dal diritto alla integrità
psicofisica. Ipotesi che si verifica nel caso (esaminato dalla sentenza n. 6607/1986) dell'illecito
che, cagionando ad una persona coniugata l'impossibilità di rapporti sessuali è immediatamente
e direttamente lesivo del diritto dell'altro coniuge a tali rapporti, quale diritto-dovere reciproco,
inerente alla persona, strutturante, insieme agli altri diritti-doveri reciproci, il rapporto di
coniugio. Nella fattispecie il pregiudizio è conseguente alla violazione dei diritti inviolabili della
famiglia spettanti al coniuge del soggetto leso nella sua integrità psicofisica.

Dopo avere ricostruito le vicende del danno esistenziale, le S.U. fanno il punto della situazione richiamando
le due sentenze gemelle, che rappresentano un precedente importantissimo per S.U., le quali hanno tenuto
a battesimo non il danno esistenziale (che era già emerso negli anni ‘90), ma la lettura costituzionalmente
orientata dell’art. 2059: si deve intendere una lettura alla stregua della quale considerare soddisfatta la
riserva di legge anche attraverso il rinvio a norme costituzionali che sanciscano diritti inviolabili della persona,
o dalle quali ricavare diritti inviolabili della persona.
A questo punto il danno non patrimoniale conquista una sua integrale unitarietà perché tutte le sue figure
che sono andate emergendo sono tutte allocate all’interno dell’art. 2059.
La Corte fornisce una precisazione, forse un po’ scolastica, in cui si dice che visto che il danno non
patrimoniale di cui all’art. 185 c.p. è sempre stato il danno morale soggettivo precisano che in realtà anche il
danno esistenziale può essere annoverato tra i danni non patrimoniale di cui all’art. 185 c.p., seguendo la
stessa linea della sentenza del 1994 (sent. Mengoni): il reato può generare anche altri pregiudizi che non
siano patemi d’animo transeunti. La conseguenza pratica di questa precisazione, forse un po’ ridondante, è
che se il danno esistenziale è conseguenza del reato non è necessario invocare la lesione di un diritto
costituzionalmente protetto della persona, perché supplisce il disvalore della condotta. Questo
ragionamento in concreto è molto difficile da immaginare che il danno esistenziale conseguente a reato non
sia anche contemporaneamente ascrivibile alla famiglia della lesione di diritti costituzionalmente garantiti.

Il risarcimento di pretesi danni esistenziali è stato frequentemente richiesto ai giudici di pace ed


ha dato luogo alla proliferazione delle c.d. liti bagatellari. Con tale formula si individuano le cause
risarcitorie in cui il danno consequenziale è futile o irrisorio, ovvero, pur essendo oggettivamente
serio, è tuttavia, secondo la coscienza sociale, insignificante o irrilevante per il livello raggiunto. In
entrambi i casi deve sussistere la lesione dell'interesse in termini di ingiustizia costituzionalmente
qualificata, restando diversamente esclusa in radice (al dei fuori dei casi previsti dalla legge)
l'invocabilità dell'art. 2059 c.c.. La differenza tra i due casi è data dal fatto che nel primo,
nell'ambito dell'area del danno-conseguenza del quale è richiesto il ristoro è allegato un
pregiudizio esistenziale futile, non serio (non poter più urlare allo stadio, fumare o bere alcolici),
mentre nel secondo è l'offesa arrecata che è priva di gravità, per non essere stato inciso il diritto
oltre una soglia minima: come avviene nel caso del graffio superficiale dell'epidermide, del mal di
testa per una sola mattinata conseguente ai fumi emessi da una fabbrica, dal disagio di poche
ore cagionato dall'impossibilità di uscire di casa per l'esecuzione di lavori stradali di pari durata
(in quest'ultimo caso non è leso un diritto inviolabile, non spettando tale rango al diritto alla
libera circolazione di cui all'art. 16 Cost., che può essere limitato per varie ragioni). La gravità
dell'offesa costituisce requisito ulteriore per l'ammissione a risarcimento dei danni non
patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili. Il diritto deve
essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve
eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole
di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza. Il filtro della gravità della
lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la
vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale
è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile.
Pregiudizi connotati da futilità ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve
accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone (art. 2 Cost.). Entrambi i
requisiti devono essere accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza
sociale in un determinato momento storico (criterio sovente utilizzato in materia di lavoro, sent.
n. 17208/2002; n. 9266/2005, o disciplinare, S.U. n. 16265/2002). I limiti fissati dall'art. 2059 c.c.,
non possono essere ignorati dal giudice di pace nelle cause di valore non superiore ad euro
millecento, in cui decide secondo equità. La norma, nella lettura costituzionalmente orientata
accolta da queste Sezioni unite, in quanto pone le regole generali della tutela risarcitoria non
patrimoniale, costituisce principio informatore della materia in tema di risarcimento del danno
non patrimoniale, che il giudice di pace, nelle questioni da decidere secondo equità, deve
osservare (Corte Cost. n. 206/2004). In conclusione, deve ribadirsi che il danno non patrimoniale è
categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate. In
particolare, non può farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata "danno
esistenziale", perchè attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale
nell'atipicità, sia pure attraverso l'individuazione della apparente tipica figura categoriale del
danno esistenziale, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla
norma ai fini della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal
legislatore ordinario nè è necessitata dall'interpretazione costituzionale dell'art. 2059 c.c., che
rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona presidiati da diritti
inviolabili secondo Costituzione (principi enunciati dalle sentenze n. 15022/2005, n. 11761/2006,
n. 23918/2006, che queste Sezioni unite fanno propri).

L’ultimo punto toccato dalla pronuncia riguarda il grave problema pratico emerso della proliferazione dei
danni esistenziali: specie i giudici di pace hanno usato questo strumento in modo sbagliato, liquidando il
danno esistenziale anche in presenza di semplici fastidi. Qui il tentativo della corte è quello di porre un argine
usando i due criteri della gravità del pregiudizio e della gravità dell’offesa. Il pregiudizio non deve essere
futile, e l’offesa arrecata deve incidere il diritto oltre a una soglia minima. Insomma, non si deve trattare di
sciocchezze, anche se astrattamente sia lesione di un diritto costituzionalmente garantito, però la circostanza
che il pregiudizio sia sotto una soglia minima di rilevanza esclude la sua risarcibilità l’intento è generoso, ma
il risultato è modesto: si tratta di affidarsi a una sorta di buon senso.
La conclusione del discorso è: si è ricondotto il danno esistenziale sotto l’insegna dell’art. 2059, a questo
punto, se tutte queste figure che sono andate emergendo nel corso degli anni sono direttamente o
indirettamente riconducibili all’art. 2059 a questo punto se ne deve concludere che il danno non patrimoniale
è una figura unitaria, che certo assume forme diverse, ma sempre di danno non patrimoniale si tratta. È un
modo per solennizzare “il ritorno a casa” del danno non patrimoniale, per salvare da possibili declaratorie di
legittimità costituzionale dell’art. 2059.

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