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Procedura civile lezione 4

L’articolo 7 della legge 1034 del ‘71 (legge esecutiva dei TAR) così come modificata dall’art 7 della
legge 205 del 2000 riformulava l’art.7 nei seguenti termini:
il tribunale amministrativo regionale nell’ambito della sua giurisdizione conosce anche di tutte le
questioni relative all’eventuale risarcimento del danno anche attraverso la reintegrazione in forma
specifica e agli altri diritti patrimoniali conseguenziali.
Concentriamoci sulla prima parte che è la parte più importante e oggetto di interpretazione
contrapposte ad opera del Consiglio di Stato e della Corte di Cassazione.
In base alla legge 1034 del ‘71 i TAR non potevano condannare al risarcimento del danno, nella
prospettiva originaria potevano solo valutare se l’atto amministrativo era legittimo o meno e
annullarlo.
La possibilità di condannare al risarcimento del danno è comparsa per la prima volta per un giudice
amministrativo con l’istituzione dell’ipotesi di giurisdizione esclusiva dove la giurisdizione del
giudice era agganciata non al concetto di diritto soggettivo o interesse legittimo ma alla materia, al
giudice era attribuita la competenza esclusiva sulla materia, poteva annullare l’atto e di
conseguenza anche condannare al risarcimento del danno.
La novità introdotta dall’art.7 della legge 205 del 2000 rispetto all’istituzione dell’ipotesi esclusiva:
in ogni ambito di giurisdizione del giudice amministrativo è possibile condannare al risarcimento
del danno, che è quello che diceva anche la Cassazione la quale affermava che anche se il giudice
amministrativo ora possa anche condannare al risarcimento del danno, ciò non esclude che se si
voglia solo il risarcimento del danno e non anche l’annullamento dell’atto si possa andare dal
giudice ordinare richiedere solo il risarcimento, il giudice disapplica l’atto amministrativo con
riferimento al singolo atto di specie. (riferimento art. 4 lezione precedente)
qual è il contributo ulteriore del Consiglio di Stato?
La volontà del legislatore era stata non solo attribuire anche al giudice amministrativo il potere di
condannare al risarcimento del danno, ma anche di attribuirgli il potere in via esclusiva di
condannare al risarcimento del danno qualora tale danno derivi da un atto legislativo illegittimo.
La scelta del codice di processo amministrativo è in linea con interpretazione della Cassazione o del
Consiglio di Stato?
Con l’interpretazione del Consiglio di Stato perché la scelta che è stata fatta è far rientrare il
risarcimento del danno da atto amministrativo illegittimo solo nella competenza del giudice
amministrativo, ridimensionando fortemente la strada aperta dalla corte di cassazione con
sentenza n°500 del 1999.
Secondo altri tale scelta è stata fatta perché le richieste di risarcimento del danno tendevano ad
aumentare.
Giurisdizione e competenza
rientrano nell’ambito più ampio della legittimazione del giudice.
Il processo è una species del procedimento, è una sequenza coordinata di atti, ogni atto
processuale è l’espressione dell’esercizio di un potere processuale esercitato dal giudice e dalle
parti, tali soggetti per porre in essere atti validi devono essere legittimati.
Il giudice per essere legittimato a porre in essere atti processuali validi, sequenza procedimentale e
ultimo atto la sentenza, deve essere provvisto di giurisdizione e competenza. Sul piano logico viene
prima la giurisdizione e poi la competenza.
Prima dobbiamo delimitare i confini di giurisdizione del giudice ordinario, e far riferimento al
concetto di competenza, concetto più ristretto rispetto al concetto di giurisdizione; primo
problema: quali sono i limiti di giurisdizione del giudice ordinario?
Tali confini vanno delimitati rispetto ai giudici speciali, ai giudici amministrativi, alla PA, che non è
un giudice ma il codice lo qualifica come un limite di giurisdizione (in realtà il problema si pone in
merito ai poteri che il giudice ordinario ha nei confronti della PA perché tradizionalmente si
insegna che il giudice ordinario non può mai sostituirsi alla valutazione discrezionale della PA).
Un altro limite è quello della giurisdizione italiana nel suo complesso, deve confrontarsi con la
giurisdizione degli altri stati; in tale ambito vi è stata una grandissima evoluzione dal criterio
originario scelto dal codice del ’40 ispirato da un criterio nazionalistico: vi è giurisdizione italiana se
il cittadino è italiano e la giurisdizione italiana è inderogabile. Vi è stata un’evoluzione passata
prima da una serie di sottoscrizione di trattati poi per la riforma di diritto internazionale privato che
ha totalmente rovesciato tale informazioni: criterio non più nazionalistico, criteri non più legati alla
cittadinanza italiana del convenuto per un verso e per l’altro verso la possibilità di derogare alla
giurisdizione italiana in relazione a determinate materie.
Per esaminare la giurisdizione non possiamo guardare solo le regola, ma anche cosa succede se tali
regole non sono rispettate e pesare la gravità del vizio.
La massima gravità del vizio processuale comporta: la rilevabilità anche d’ufficio, non in limine litis
o solo entro termini stringenti, ma anche durante tutto il corso del giudizio, o addirittura in ogni
stato e grado del processo. Nasce come un vizio gravissimo, si dice tradizionalmente che è
rilevabile su istanza di parte o d’ufficio in ogni stato e grado del processo, la storia e l’evoluzione di
tale vizio ne hanno ridimenzionato la portata, operando un distinguo tra i diversi tipi di
giurisdizione: per lungo tempo la regola di carattere generale ha trovato applicazione con
riferimento ai limiti di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti dei giudici speciali ivi
compreso il giudice amministrativo, del giudice ordinario e della PA. Nei confronti del convenuto
straniero inizialmente, poi legato alla giurisdizione italiana nel suo complesso, il regime è stato
diversificato dall’art. 11 della legge 218 del 1995 ossia dalla riforma del diritto internazionale
privato. Quindi quando sono stati modificati i criteri sulla cui base si stabilisce se c’è o non c’è
giurisdizione del giudice italiano, con la stessa legge è stato modificato il regime del difetto di
giurisdizione prevedendo che il difetto di giurisdizione del giudice italiano è rilevabile d’ufficio in
ogni stato e grado del processo, in caso di:
1. contumacia del convenuto,
2. controversia che verte su azioni reali aventi ad oggetto beni immobili situati all’estero,
3. giurisdizione italiana esclusa per effetto di una norma internazionale.
Dunque il regime che valeva per tutte le ipotesi di giurisdizione è stato circoscritto solo a queste tre
ipotesi.
Per l’ipotesi in cui il convenuto si costituisca in giudizio solo lui potrà eccepire il difetto di
giurisdizione a condizione che non abbia tacitamente (convenuto compare in giudizio senza
eccepire il difetto di giurisdizione nel primo atto difensivo= il convenuto si può costituire quando
vuole in giudizio ma nel primo atto difensivo deve eccepire il difetto di giurisdizione) o
espressamente accettato la giurisdizione italiana.
La presa di posizione della corte di Cassazione si pone in contrasto con la lettera del codice di
procedura civile che espressamente indicava come regime di rilevabilità del difetto di giurisdizione,
la rilevabilità a istanza di parte o di ufficio in ogni stato o grado del processo, la corte di Cassazione
fa leva sulla ragionevole durata del processo e su un concetto di giudicato implicito.
Sostanzialmente in base al codice di procedura civile il regime rilevabilità di difetto di giurisdizione
funzionava nel seguente modo: se la parte faceva valere questo vizio, il giudice era tenuto in primo
grado a decidere sul punto, se esiste chiude in giudizio, se non esiste decide nel merito. Dunque
ogni qualvolta la parte o il giudice aveva alzato la questione di giurisdizione diveniva oggetto di
pronuncia in sentenza, se la parte voleva mettere in discussione la pronuncia del giudice doveva
impugnare la sentenza su quel determinato punto, altrimenti la questione passa in giudicato e non
potrà essere più rilevata nei successivi gradi di giudizio.
Di conseguenza se le parti o il giudice non rilevano il vizio di giurisdizione, tale questione è
rilevabile d’ufficio anche in cassazione(anche dopo 10 anni), per disinnescare tale meccanismo la
Cassazione ha invocato il principio di giudicato implicito : anche in tutte le ipotesi in cui la
questione di giurisdizione in primo grado non è rilevata d’ufficio o dalla parte, con la sentenza di
merito è come il giudice avesse implicitamente detto che è provvisto di giurisdizione quindi o la
parte nell’impugnare la sentenza fa valere anche la questione di giurisdizione oppure non può più
essere fatta valere.
La riforma Cartabia ha modificato l’art. 36 del codice di procedura civile, la norma che sanciva a
chiare lettere la rilevabilità d’ufficio in ogni grado e stato del processo del difetto di giurisdizione in
tali termini: il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica
amministrazione è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo; dunque si è
mantenuta l’originario regime della rilevabilità del difetto di giurisdizione solo con riferimento
all’ipotesi del difetto di giurisdizione del giudice nei confronti della PA.
Invece per il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti dei giudici speciali tra cui
anche il giudice amministrativo è rilevato anche d’ufficio nel giudizio di primo grado, nel giudizio di
impugnazione può essere rilevato solo se oggetto di specifico motivo, ma l’attore non può
impugnare la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione per il giudice da lui adito.
In sintesi:
Questo regime di difetto giurisdizione ha subito una riforma sia a livello normativo che
giurisprudenziale, originariamente tutte e tre le ipotesi di difetto di giurisdizione erano trattate allo
stesso modo e inizialmente era trattato come uno dei difetti più gravi del processo civile e il regime
era per tutte e tre era rilevabilità su istanza di parte o d’ufficio in ogni stato e grado del processo,
per prima è stata diversificata la disciplina del limite giurisdizione del giudice italiano ad opera
legge 218/95 cioè la riforma di diritto internazionale privato perché nel riformare i criteri che
delimitano la giurisdizione del giudice italiano, quindi abbandonando il criterio nazionalistico, ha
ritenuto opportuno ridisciplinare con art. 18 anche il regime di rilevabilità del difetto, facendo
rilievo sul distinguo di fondo di costituzione o meno del convenuto.
Le altre due ipotesi sono rimaste soggette per lungo tempo al regime originario, la portata del vizio
è stata ridimensionata dalla cassazione con il concetto del giudicato implicito, svuotando il
contenuto nell’art. 36.
La scelta della corte di cassazione è stata appoggiata dalla riforma Cartabia, che a sua volta ha
però dettato disciplina ancora diversa: per un verso ha distinto ipotesi del difetto di giurisdizione
nei confronti della PA rispetto alla quale resta la rilevabilità, in ogni stato e grado del processo per
altro verso in riferimento all’ipotesi del difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti del
giudice speciale ha previsto la rilevabilità solo nel giudizio di primo grado e la possibilità di farlo
valere in appello solo per il tramite di motivi specifici di impugnazione e solo ad opera di parti
differenti dall’attore che individuato quel giudice come provvisto di giurisdizione.

La translatio iudicii.
In assenza di una disposizione che consentisse la translatio iudicii per la giurisdizione
analogamente a quanto avveniva invece per la competenza opinione assolutamente maggioritaria
in giurisprudenza era nel senso di impossibilità di translatio iudicii in caso di difetto di giurisdizione,
il giudizio in queste ipotesi si doveva chiudere in rito, cioè l’assenza di giurisdizione era l’unico
oggetto della pronuncia della sentenza con la quale si chiudeva il giudizio, era ostativa alla
possibilità di esaminare nel merito la causa e non c’era la possibilità che la causa trasmigrasse
dinanzi al giudice provvisto di giurisdizione per entrare nel merito. Vi era una dottrina minoritaria
che la pensava diversamente la quale argomentava segnatamente ad una norma in tema di
giudizio di cassazione, l’art. 382, in particolare nelle ipotesi in cui la cassazione cassa con rinvio o
senza rinvio; la corta quando decide una questione di giurisdizione statuisce su questa
determinando quando occorre il giudice competente, quando cassa per la violazione delle norme
sulla competenza statuisce su questa, se riconosce che il giudice del quale si impugna il
provvedimento e ogni altro giudice difetta di giurisdizione cassa senza rinvio. Dunque loro
dicevano che la cassazione senza rinvio è circoscritta da questa norma alle sole ipotesi in cui
nell’ordinamento non vi è un altro giudice provvisto di giurisdizione, ma nel caso di difetto di
giurisdizione del giudice ordinario nei confronti del giudice amministrativo c’è un altro giudice
provvisto di giurisdizione ed è quello amministrativo( ipotesi più delicata in cui più frequentemente
si verificava il vizio di giurisdizione e più frequentemente c’era il rischio che il soggetto non potesse
conservare il diritto d’azione e non potesse più agire), in queste ipotesi la corte di cassazione
dovrebbe cassare con rinvio al giudice speciale e dunque consentire la translatio iudicii.
Tale dottrina minoritaria non è stata seguita per lungo tempo, poi nel 2007 nello stesso anno sono
intervenute la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale. La corte di cassazione con la sentenza
22 febbraio 2007 n° 4109, corte costituzionale 12 marzo 2007 n° 76; entrambe hanno accolto
questo indirizzo minoritario. La Corte di Cassazione a sezione unite ha ritenuto possibile
ammettere in via interpretativa che il processo dopo una declinatoria di giurisdizione, non importa
se della cassazione o del giudice di merito, continui innanzi al giudice fornito di giurisdizione, il che
consente di considerare la causa come iniziata dinanzi al giudice sprovvisto di giurisdizione e di
evitare le decadenze e cioè di conservare gli effetti sostanziali della domanda giudiziale.
Alla stessa conclusione è arrivata la Corte Costituzionale perché ha dichiarato la parziale
incostituzionalità dell’art.30 della legge 1034 del 71, ma in realtà ha affermato un principio più
ampio: gli effetti sostanziali e processuali della domanda non possono essere travolti dalla
sentenza declinatoria di giurisdizione e vengono dunque ripresi dinanzi al giudice munito di
giurisdizione. La Corte Costituzionale ha affrontato la questione di legittimità costituzionale, solo
indirettamente è arrivata alla stessa conclusione affermata direttamente dalla corte di cassazione
poiché la stessa si è occupata specificamente della translatio iudicii. La corte costituzionale ha
indirettamente affermato la possibilità di translatio iudicii.
Tale passaggio importante non ha risolto definitivamente il problema, ma ha richiesto una seconda
fase. Hanno entrambe affermato il principio, ma non hanno potuto colmare la lacuna normativa.
Non hanno infatti affermato come sviluppare la translatio iudicii, hanno solo affermato la
possibilità di proseguire dinanzi un altro giudice.
Si pone il problema delle modalità mediante le quali realizzare la translatio iudicii, è intervenuto il
legislatore nel 2009 con la legge 69 e ha dettato questa disciplina analitica delle modalità di
realizzazione della translatio iudicii. La disciplina viene fissata al di fuori del codice di procedura
(art.59 legge 69/2009).
Art.59:
il giudice sprovvisto di giurisdizione non può limitarsi a effettuare una declinatoria che si limita ad
affermare la mancanza di giurisdizione, ma deve indicare il giudice provvisto di giurisdizione, il
giudice dinanzi al quale riassumere il giudizio.
Il giudice ad quem non è vincolato dall’indicazione giudice a quo, il secondo giudice resta vincolato
solo se vi è una sentenza della cassazione a sezioni unite. Il secondo giudice qualora non fosse
d’accordo non potrà rimandare la decisione al primo giudice, ma dovrà rivolgersi subito alla
cassazione che stabilisce in modo vincolante qual è il giudice provvisto di giurisdizione.
Se entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della pronuncia, la domanda è
riproposta (termine erroneo perché per far salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda,
la domanda non può essere riproposta perché significherebbe proporre una nuova domanda
distinta dalla precedente, il termine giusto sarebbe RIASSUMERE) al giudice ivi indicato, le parti
fanno salvi effetti sostanziali e processuali della domanda, fermo restando le preclusioni e
decadenze intervenute. La forma per la riassunzione si ricava dalle modalità di disciplina del
giudice dinanzi al quale la causa si deve riassumere.
Il mancato rispetto dei termini fissati dall’articolo determina che il giudizio si estingue e vengono
travolti gli effetti sostanziali e processuali.
Nel caso di riassunzione della domanda le prove raccolte davanti al giudice privo di giurisdizione
possono essere valutati come argomenti di prova. Dunque degradano da prove a argomenti di
prova ma restano ferme preclusioni e decadenze maturate prima dell’inizio del giudizio; quindi il
legislatore ha emanato una disciplina in parte lacunosa che necessità di una interpretazione
correttiva, oggi possiamo aggiornare che competenze e giurisdizione non si differenziano tra di loro
tra la possibilità o impossibilità di effettuare translatio iudicii ma secondo i diversi profili in cui si
possono effettuare tali translatio. Le modalità di translatio di competenza sono differenti da quelle
disciplinate da tale articolo 59.
In sintesi:
è possibile la traslatio, il giudice non si può limitare a dichiarare il difetto ma deve anche indicare il
giudice munito di giurisdizione, il secondo giudice non è vincolato all’indicazione del primo giudice
ma solo alla sentenza a sezioni unite della cassazione, se non è d’accordo e non vi è sentenza a
seziono unite della cassazione lui può investire la stessa e lo deve fare entro la prima udienze di
trattazione, nella fase introduttiva del giudizio altrimenti non può più farlo, una volta che il primo
giudice ha indicato il giudice provvisto di giurisdizione è onere della parte riassumere entro tre
mesi dinnanzi al giudice indicato perché solo questo consente di fare salvi effetti sostanziali e
processuali della domanda giudiziaria perché se non lo fa il giudizio primo si estingue.
In questo nuovo giudizio pur degradando le prove ad argomento di prova resterebbe ferma la
possibilità di chiedere nuovi mezzi di prova e quel “ferme restando le preclusioni e le decadenze “si
fa riferimento a quelle preclusioni e decadenze maturate prima del giudizio o non nel corso dello
stesso.

Diverse modalità medianti le quali la questione di giurisdizione può essere portata dinanzi alla
corte di cassazione.
Esiste un istituto ad hoc:
Regolamento preventivo di giurisdizione art.41 (NON E’ UN MEZZO DI IMPUGNAZIONE)
tale istituto consente alle parti, anche allo stesso attore, di portare la questione di giurisdizione
dinanzi alla corte di cassazione già durante la pendenza del giudizio di merito, la logica è la
seguente: l’attore o il convenuto possono avere un dubbio in ordine alla sussistenza della
giurisdizione del giudice e l’ordinamento pone un rimedio per ricorrere direttamente alla
cassazione per togliersi tale dubbio. Nasce come esigenza di economia processuale.
Consente prima che si svolgano tre gradi di giudizio alle parti di sospendere il giudizio di primo
grado di rivolgersi alla Cassazione. Non è un mezzo di impugnazione perché può essere utilizzato
anche dall’attore.
Tale istituto nato con esigenza di economia processuale si è rilevato un pericoloso strumento
dilatorio proprio in ragione di quell’effetto di sospensione automatico del giudizio di merito
previsto originariamente dal codice di procedura civile; tale strumento si prestava ad un uso
distorsivo, la parte che intendeva lucrare sui tempi processuali o per ritardare una condanna
sollevava una questione infondata che sospendeva il giudizio di merito in attesa della decisione
della cassazione che non decide subito per via dei molti ricorsi.
Ulteriore problema di tale istituto è che si rischiava una decisione definitiva sulla giurisdizione che
ove negativa pone anche fine al processo in alcuni casi fondata su indagini di fatti dinanzi alla corte
di cassazione che non è un giudice del fatto (es. se la questione dipende dalla residenza o dal
domicilio del convenuto è un’ indagine di fatto stabilire se il convenuto ha la residenza o il
domicilio in un determinato luogo, la corte di cassazione è un giudice di legittimità e non di merito,
non si fa nessuna indagine di fatto.)
Il primo problema circa la sospensione automatica è stato risolto dalla novella del 90 la quale ha
eliminato la sospensione obbligatoria ed automatica e l’ha subordinata ad una valutazione del
giudice di non manifesta infondatezza, ora il giudice sospende con ordinanza solo quando non
ritiene l’istanza manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione
manifestamente infondata.
Limiti a tale istituto:
La dottrina e la cassazione hanno circoscritto l’ambito di applicazione dell’istituto: solo processi a
cognizione piena, esclusi procedimenti sommari e quelli aventi natura cautelari.
Ha circoscritto anche il numero delle questioni inerenti alla giurisdizione che possono essere fatti
valere con il regolamento preventivo: si è ritenuto che rientra il difetto di giurisdizione del giudice
ordinario rispetto al giudice speciale, si è invece escluso il difetto di giurisdizione del giudice
ordinario nei confronti della PA in quanto non sarebbe in realtà un difetto di giurisdizione, si
ricomprende il difetto di giurisdizione del giudice italiano anche se la legge 218 del 95 e il codice di
procedura civile non prevedono espressamente tali ipotesi tra quelle a fronte delle quali è
esperibile tale istituto.
La dottrina ha circoscritto anche il termine ultimo entro il quale esperire l’istituto:
Art.41 c.p.c. sostiene che esiste il regolamento preventivo di giurisdizione e può essere utilizzato
per le questioni di cui al 37(dunque non menzionava solo il processo a cognizione piena,
(limitazione effettuata dalla dottrinata, doveva essere ricompresa anche il difetto di giurisdizione
del giudice ordinario nei confronti della PA, ma la giurisprudenza ha limitato anche tali ipotesi)
finchè la causa non sia decisa nel merito del primo grado; il fattore complicante è il seguente:
nell’ambito del processo civile è possibile che vi siano sentenze definitive e non definitive, di
merito e di rito, il problema che si pone in astratto è : tale termine preclusivo scatta solo a fronte di
una sentenza definitiva di merito o anche a fronte di una sentenza non definitiva di merito o non
definitiva di rito?
Cosa sono le sentenze non definitive?
Il giudice per decidere la causa affronta una serie di questioni, qualsiasi questione, qualsiasi diritto
sostanziale di cui bisogna accertare l’esistenza o l’inesistenza porta a stabilire sul piano logico tutta
una serie di cose. In questo ordine logico ci sono questioni preliminari o pregiudiziali, questioni che
devi esaminare prima delle altre, si dice pregiudiziali di rito o pregiudiziali di merito.
Questioni pregiudiziali di rito: esempio classico sono giurisdizione e competenza.
Il giudice ha la possibilità di decidere tali pregiudiziali di lite in limine litis o insieme al merito in
fondo al giudizio, non è specificato come il giudice debba stabilire se esaminare le questioni di rito
inizialmente o insieme al merito: il giudice deve delibare (fare esame sommario) la questione di
giurisdizione, dopo la delibazione va esaminata la questione e può essere confermata o meno.
Il criterio più razionale della dottrina è quello appena citato, si deliba la questione in limine litis se
sembra fondata la si riesamina subito, se la delibazione risulta corretta si emette una sentenza
definitiva perché è una declinatoria di giurisdizione, se dopo la delibazione ci si accorge di aver
sbagliato, viene emanata una sentenza non definitiva perché sarà dichiarativa di giurisdizione,
bisogna andare avanti, assumere i mezzi di prova ed esaminare il merito della causa.
Per competenza e giurisdizione le sentenze definitive e non definitive vengono fuori a seconda che
chiude o non chiude il giudizio.
Tornando al nostro problema, la giurisprudenza e corte di cassazione e la dottrine hanno detto che
quando si parla di decidere la causa nel merito può riferirsi non sono ad una definitiva di merito
ma anche ad una non definitiva di merito, quando si parla di sentenza definitiva può riferirsi non
sono ad una definitiva di merito ma anche di rito e l’ultimo passaggio della corte di cassazione ha
ritenuto che determini un effetto preclusivo in ordine alla possibilità di esperire un regolamento
preventivo di giurisdizione anche una sentenza non definitiva di rito, dunque ogni qualvolta il
giudice di merito si è occupato di questa questione scatta l’effetto preclusivo. Capiamo che è
un’interpretazione totalmente in contrasto con la lettera dell’art 41 che diceva finchè non è decisa
nel merito, stava a significare finchè non ha statuito nel merito durante tutto il giudizio di primo
grado avrete la possibilità di esperire il regolamento preventivo di giurisdizione.
In sintesi:
Siccome il regolamento non ha dato prova di essere un rimedio che soddisfa esigenze di economia
processuale, ma crea una serie di problemi, prima abbiamo eliminato la sospensione automatica
legislativamente, poi a livello interpretativo ad opera della dottrina e della giurisprudenza hanno
circoscritto l’ambito di applicazione (solo processo a cognizione piena), hanno escluso questioni di
giurisdizione nei confronti della PA, poi hanno lavorato anche sul termine ultimo per esperire il
regolamento preventivo restringendolo al massimo, non solo quando la causa è chiusa con
sentenza di merito, quando è chiusa con sentenza definitiva di rito o di merito o addirittura quando
è chiusa con sentenza non definitiva di rito o di merito; dunque qualsiasi forma di sentenza emessa
nel corso del giudizio definitiva o non, preclude la possibilità di esperire il regolamento preventivo
di giurisdizione.

La competenza.
La competenza è la parte di giurisdizione concretamente attribuita a ciascun giudice, una volta
delimitati i confini della giurisdizione ordinaria nel suo complesso bisogna stabilire come tale
giurisdizione ordinaria la ripartiamo tra tutti i giudici ordinari che abbiamo visto essere:
-Giudice di Pace, Tribunale, Corte d’Appello, Corte di Cassazione.
Tra cui abbiamo visto che la Corte d’Appello raramente svolge una funzione di impugnazione
rispetto alle sentenze delle Tribunale, che il Tribunale è giudice di primo grado e giudice d’Appello
rispetto alle sentenze del Giudice di Pace, che il giudice di pace è solo giudice di primo grado, che
la corte di cassazione è un giudice di legittimità, è agevole capire come tali regole di competenza
svolgono un ruolo importantissimo nel ripartire la competenza tra giudice di pace e tribunale, non
essendoci più le preture, i giudici di primo grado con cui abbiamo a che fare sono giudice di pace e
tribunale.
La giurisdizione= funzione giurisdizionale
La competenza= ufficio giudiziario
Costituzione del giudice= composizione organo giudicante.
Quali criteri si utilizzano tradizionalmente per ripartire la competenza tra giudici ordinari e
segnatamente tra giudici di pace e tribunale?

 Materia
 Valore
 Territorio
I criteri della materia e del valore servano per ripartire la competenza a livello verticale tra diverse
tipologie di giudici, invece la competenza per territorio serve a ripartire la competenza tra giudici
dello stesso tipo.
Una volta stabilito sulla base di criteri e valori se la competenza è del giudice di pace o del
tribunale, mediante il criterio di competenza territoriale se ho stabilito che il giudice competente è
il tribunale, quale tribunale è quello competente sul territorio.
La materia fa riferimento al tipo di rapporto controverso, il valore fa riferimento al rilievo
economico della causa, entrambi questi criteri servono a stabilire a livello verticale quale giudice è
competente a conoscere una determinata causa, il territorio ripartisce il contenzioso a livello
orizzontale. Tali criteri (materia e valore) operano indipendentemente dalla volontà delle parti
quindi possono approntare delle deroghe a questi criteri solo nei casi stabiliti dalla legge, art.6
c.p.c.
In realtà tale regola di carattere generale è ribaltata con riferimento alla competenza per territorio,
è derogabile salvo i casi eccezionali previsti dall’art. 28 c.p.c., di solito può essere
convenzionalmente derogabile purché accordo risulti da atto scritto, si riferisca ad uno o più affari
o cause specifiche, art. 28/29 c.p.c., la deroga attribuisce al giudice una competenza meramente
concorrente con quella dei criteri ordinari, salvo che le parti nell’accordo non attribuiscono al
giudice da loro individuato come competente per territorio una competenza esclusiva.
In alcune ipotesi anche la competenza per territorio è inderogabile: cause in cui a norma art
70c.p.c. è obbligatorio intervento del PM, processi esecuzione forzata e opposizione ad esecuzione
forzata, procedimenti cautelari possessori, procedimenti in camera di consiglio, negli altri casi di
espressa previsione legislativa di inderogabilità.
Talvolta accanto a tali criteri si affianca il concetto di competenza funzionale, si parla di competenza
funzionale quando si vuole designare uno specifico rapporto tra giudice competente e la causa, un
esempio classico è la competenza del giudice dell’impugnazione che è funzionalmente competente
a conoscere l’impugnazione di quella determinata sentenza.
Le regole di carattere generale che presiedono la competenza per materia e per valore:
norme di riferimento art.7 c.p.c. (competenza giudice di pace), art. 9 c.p.c. (competenza residuale
tribunale)
la competenza del giudice di pace è stata più volte modificata per attribuire maggior competenza al
giudice di pace.
(Il giudice di pace è competente qualunque sia il valore per le cause di apposizione di termine,
causa e materie degli edifici e dei condomini, materie e immissioni di fumo, rumori ecc.)
Il giudice di pace è competente purchè il valore della causa non sia superiore al 30000 euro per le
cause in materia di usucapione dei beni immobili.
La scelta è quella di determinare in modo analitico ex art 7c.p.c. nel corso del tempo modificato
sempre a rialzo la competenza del giudice di pace combinando tra loro, materia e valore o
utilizzando la competenza per materia e valore di volta in volta.
Mentre nell’art. 9c.p.c. la competenza viene definita in maniera residuale: il tribunale è
competente per tutte le cause che non sono di competenza di altro giudice, è altresì
esclusivamente competente per le cause in merito a imposte e tasse, querela di falso, esecuzione
forzata, ogni causa di valore indeterminabile, il riferimento è nell’art.10 e 11c.p.c. e seguenti che
dettano criteri specifici di valutazione della causa in relazione all’oggetto peculiare della causa. È
indeterminabile quando ai sensi dell’art 10 e seguenti non è determinabile il valore della causa.
L’art 10 c.p.c. stabilisce che il primo criterio per definire il valore della causa è l’indicazione della
domanda introduttiva da parte dell’attore, qualora l’attore proponesse più domande
congiuntamente nei confronti dello stesso soggetto, ai fini della determinazione del valore della
causa tutte le domande si sommano e il valore è dato dalla somma. Dunque cumulando una
pluralità di domande si può incidere sulla competenza del giudice.
Dagli 11 e seguenti vi sono criteri specifici a seconda del tipo di causa che viene in rilievo: per le
cause relative a quote di obbligazione tra più parti, se chiesto, da più persone o contro più persone
l’adempimento per quote di un’obbligazione, il valore della causa si determina dall’intera
obbligazione.
Il valore delle cause relative all’esistenza, alla validità, alla risoluzione di un rapporto giuridico
obbligatorio si determina in base a quella parte del rapporto che è in contestazione.
Il valore delle cause per divisione si determina da quello della massa attiva da dividersi.
Art 14.c.p.c.
Fino alla riforma dell’art 38 è stato il parametro di riferimento non solo per la determinazione del
valore della controversia ma anche per il modo in cui devono essere decise le questioni di
competenza.
Nelle cause relative a somme di denaro o beni mobili il valore si determina in base alla somma
indicata o al valore dichiarato dall’autore, in mancanza di indicazione la causa di presume di
competenza del giudice adito, il convenuto può contestare ma soltanto nella prima difesa il valore
in tal caso il giudice decide ai solo fini della competenza, in base a quello che risulta dagli atti e
senza apposita istruzione.
Tale articolo è rubricato come cause relative a somme di denaro o a beni mobili, ma in assenza per
lungo tempo nel codice del riferimento per decidere le questioni di competenza era assunto come
espressione di principio di carattere generale. È stato poi riproposto dall’art 38 che nel disciplinare
il regime dell’incompetenza all’ultimo comma dice che le questioni dei commi precedenti sono
decisi ai soli fini della competenza in base a quello che risulta dagli atti e quando sia reso
necessario dall’eccezione del convenuto o dal rilievo del giudice, assunte sommarie informazioni. Il
38 ha posto in essere una piccola correzione. Il problema che si poteva per la competenza per
materia e per valore era non solo tenere separato il merito dalla competenza, ma anche stabilire
quale era la regola di carattere generale ogniqualvolta il giudice doveva affrontare la stessa
questione sia ai fini della competenza che ai fini del merito, dunque il dubbio era se ciò dovesse
avvenire con un’istruttoria piena come nel caso in cui debba statuire nel merito in ordine
all’esistenza o all’inesistenza del diritto o con un’istruttoria sommaria, o ancora senza un’istruttoria
stando solo agli atti e soprattutto la decisione assunta ai fini della competenza lo vincolava anche ai
fini del merito? L’articolo 14 per le somme di danaro o beni mobili il valore della causa si determina
in base al valore stabilito dall’autore, in mancanza è competenza del giudice e stabilisce che il
giudice adotta una decisione rapida ai soli fini della competenza in base a quanto risulta dagli atti
senza nessuna istruttoria, la decisione di merito può giungere anche ad un risultato diverso sulla
base dell’istruttoria e dell’assunzione di prove. Oggi come oggi la regola di carattere generale è
contenuta nell’ultimo comma del 38 che condivide tutte le scelte di fondo ma appresta un
correttivo all’art 14: il giudice non decide sulla base gli atti ma deve assumere sommarie
informazioni e la decisione presa (come nell’art14) non lo vincola ai fini del merito.

Competenza per territorio:


tradizionale distinguo tra fori generali e fori speciali.
I fori generali sono quelli applicabili in via di principio a qualunque causa e individuati in basi a
criteri soggettivi, art.18 persone fisiche, art 19 persone giuridiche.
I fori speciali sono quelli utilizzabili per le sole cause aventi un determinato oggetto o riguardanti
determinati soggetti, vanno in questo ambito distinti i fori esclusi che prevalgono sui fori generali e
quelli concorrenti che non prevalgono ma concorrono con i fori generali (dà possibilità di scegliere
tra il foro generale e speciale). Alcuni sono elettivamente concorrenti ed altri sono
successivamente concorrenti, il legislatore dice che si può utilizzare un foro solo se non è possibile
utilizzarne un altro.
Art18 c.p.c.
per la determinazione della competenza territoriale si guarda la residenza o il domicilio del
convenuto, se non noti, la dimora, solo come criterio ultimo si fa riferimento alla residenza
dell’attore.
Art19
Per le persone giuridiche si guarda la sede.
Dall’art 20 fori esclusivi e concorrenti
Se la causa ha ad oggetto diritti di obbligazione vi è possibilità di scelta e possibilità di combinare
art 18 e 20. Si può scegliere in base al giudice competente in base alla residenza del convenuto o in
base al luogo dove l’obbligazione deve essere sciolta.
Cause che hanno ad oggetto diritti reali o azioni possessorie = foro esclusivo.

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