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CAPITOLO I: LE FONTI DEL DIRITTO PROCESSUALE CIVILE

Il significato dell’accoglimento nella Costituzione dei principi generali del processo


Il processo è retto dai seguenti principi:

a) Nemo judex in re sua (nessuno può essere giudice se non è sufficientemente distaccato dall’affare
b) Nemo judex sine actore (il giudice non può iniziare il processo senza domanda di parte)
c) Audiatur et altera pars (alle parti del processo deve essere garantita la possibilità di difendersi)
d) Jura novit curia (il giudice conosce la legge, a questa deve attenersi)

Questa è, negli ordinamenti pervenuti ad un livello di civiltà corrispondente allo standard, l’ossatura del
essenziale del processo, alla quale la nostra Carta fondamentale ha aggiunto ulteriori garanzie (obbligo
della motivazione dei provvedimenti giudiziari, possibilità-necessità del ricorso per cassazione avverso le
sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale, divieto di istituzione di giudici speciali, inserimento dei
pubblici ministeri nell’ordine della magistratura), le quali nella prassi risultano però spesso vanificate dalla
lentezza dei processi.

La legge cost 23 novembre 1999 n.2 (c.d. legge sul giusto processo) ha riformato l’art 111 cost,
introducendo alcuni nuovi commi. La riforma ha solennemente proclamato che la legge è l’unico strumento
idoneo a regolare il processo, e deve essere formulata in modo da assicurarne una ragionevole durata.
Questa tuttavia, oltre a risultare inidonea per la regolazione di modelli processuali duttili ed elastici, ha
inserito nel testo costituzionale, con particolare riguardo al processo penale, disposizioni di dettaglio che
avrebbero trovato collocazione adeguata nella legislazione ordinaria. Questa vicenda pone in risalto una
singolarità del nostro paese: mentre gli altri paesi appartenenti all’area di civiltà e cultura di cui siamo parte
si muovono verso modelli processuali flessibili, affidando al giudice il compito di organizzare il processo
secondo le esigenze della singola controversia (c.d. case management), in Italia non ci si distacca dall’idea di
un modello processuale regolato nei dettagli. La ragione di tale fenomeno potrebbe essere individuata nella
generale sfiducia che la società nutre nei confronti delle istituzioni, motivo per il quale si cerca di ridurre al
minimo la discrezionalità del giudice, tramite l’elaborazione di molteplici riti “differenziati” volti a
compensare l’anelasticità del sistema, ovvero il ricorso a procedimenti sommari, variamente atteggiati,
sostitutivi del modello processuale ordinario. D’altro canto, la giurisprudenza, mossa dalla necessità di
assicurare giustizia in tempi ragionevoli, è sempre più incline ad accogliere interpretazioni evolutive della
disciplina processuale, il che crea una discrasia tra quanto scritto nel codice di procedura e quanto
risultante dall’interpretazione della giurisprudenza.

Poiché secondo la Carta costituzionale al giudice è inibito di disapplicare le norme che risultino in un
contrasto insanabile con la stessa (in via interpretativa), ovvero quelle contrarie a quanto contenuto nella
Convenzione dei diritti dell’uomo, al giudice ordinario è oggi affidato il compito di filtrare le questioni di
costituzionalità in ordine non soltanto alle norme “interne” (costituzione), ma anche alla Convenzione dei
diritti dell’uomo, potendo l’incompatibilità dare luogo ad una questione di illegittimità costituzionale per
violazione dell’art 117 co 1 cost. Nel nostro ordinamento le questioni di costituzionalità possono essere
sollevate soltanto dal giudice in pendenza di un processo, sia su istanza di parte che d’ufficio; da ciò deriva
che la Corte, nel valutare preliminarmente l’ammissibilità della domanda, dovrà compiere una duplice
verifica:

1) Che la questione sia rilevante ai fini della decisione della lite (il filtro può essere più o meno stretto,
la valutazione infatti può essere rilevante sia in concreto che in astratto)
2) Che il soggetto che l’ha sollevata sia legittimato a farlo.

Al riguardo la Corte ritiene che “l’applicazione della legge da parte del giudice deve essere caratterizzata da
entrambi gli attributi dell’obiettività e della definitività, nel senso dell’idoneità del provvedimento reso a
divenire irrimediabile attraverso l’assunzione di un’efficacia analoga a quella del giudicato, poiché è in
questo caso che il mancato riconoscimento della legittimazione comporterebbe la sottrazione delle norme
al controllo di costituzionalità”.

Analisi dei principi fondamentali del processo accolti nella Costituzione


Prima ancora delle garanzie “nel” processo, la Carta fondamentale, all’art 24, pone una garanzia “del”
processo, riconoscendo al singolo un generale diritto d’azione “per la tutela dei propri diritti ed interessi
legittimi”. Lo stesso fanno le Corti europee di Strasburgo (Consiglio d’europa) e Lussemburgo (UE): la Corte
di Strasburgo, a partire dal caso Golden del 1975, ha iniziato a interpretare l’art 6 CEDU nel senso che la
norma garantisce anche il diritto di accesso ai tribunali; la Corte del Lussemburgo, a partire dal caso
Johnston del 1986, ha stabilito che la garanzia di giustizia offerta dagli stati membri deve essere “effettiva”.
Allo stesso scopo mira la Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea (Nizza, 2000), con l’art 47, il
quale enuncia il diritto di ogni persona non soltanto ad adire il giudice, ma anche ad ottenere un “rimedio
effettivo”.

Con riguardo alle garanzie “nel” processo, hanno la funzione di garantire la neutralità del giudice:

- L’art 111 co 2 cost


- L’art 24 co 1, che prevede il divieto di iniziativa processuale d’ufficio. Il divieto di iniziativa
processuale d’ufficio emerge da una lettura in controluce dell’art 24 co 1, il quale esprime in primis
il fondamentale principio secondo cui non è possibile porre ai cittadini, per nessuna ragione,
limitazioni od ostacoli alla loro difesa nel processo delle posizioni sostanziali, siano esse di diritto
soggettivo o di interesse legittimo. Neppure la particolare posizione del convenuto può giustificare
deroghe a tale principio, l’art 113 cost si preoccupa infatti di ribadirne la validità anche nell’ipotesi
in cui convenuta sia la P.A., sottolineando che “tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o
limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti”. Dal punto di vista
negativo quindi la norma impone che chi si afferma portatore della situazione sostanziale possa
decidere se ricorrere o no alla tutela giurisdizionale. Sotto questo profilo l’art 24 co 1 si salda con
l’art 112, il quale affida al p.m. la funzione di esercitare l’azione penale, riaffermando l’esigenza che
non sia chi giudica ad assumere l’iniziativa dell’affare che dovrà essere giudicato.
- L’art 25 co 1, che dispone la garanzia del giudice naturale. È naturale il giudice che sia scelto sulla
base di criteri oggettivi preesistenti alla nascita del processo.
- L’art 102, che dispone il divieto di istituire giudici straordinari o speciali. Questo divieto nasce da
ragioni storiche, che hanno portato a identificare una magistratura con competenze generali,
qualificata come magistratura ordinaria, alla quale non possono essere sottratte materie per
affidarle ad un organo diverso, a meno che questo non sia espressamente riconosciuto dalla
costituzione (questi sono i giudici amministrativi, militari e contabili).
- L’art 101 co 2, che impone la soggezione del giudice alla legge. Nella sua forma positiva, garantisce
l’autonomia e l’indipendenza del giudice, il quale è indipendente dagli altri organi costituzionali,
essendo soggetto soltanto alla legge. Guardata in controluce, la norma pone un limite alla
discrezionalità del giudice, egli infatti, essendo soggetto alla legge, non può oltrepassarla, e in essa
deve ricercare il canone di valutazione (precostituito) dei singoli casi concreti. Una conferma di
questo aspetto del nostro processo la si ritrova all’art 116 co 6, secondo il quale “tutti i
provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati” e co 7, per il quale “contro le sentenze e
contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o
speciali, è sempre ammesso il ricorso in Cassazione per violazione di legge”. Ciò implica che il
discorso giustificativo della decisione, nel quale si concreta la motivazione, deve essere condotto
utilizzando strumenti obiettivamente controllabili, razionali, in caso contrario infatti il dovere
imposto dalla norma costituzionale sarebbe eluso. Deve in ultimo constatarsi che la motivazione
non svolge soltanto una funzione c.d. endoprocessuale (nei confronti delle parti e dell’eventuale
giudice dell’impugnazione), ma rileva anche nei confronti della collettività, la quale attraverso essa
svolge un controllo sul corretto esercizio della funzione.

Questi principi vanno letti insieme all’art 6 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, e con l’art 47
della Carta dei diritti fondamentali UE.

La riserva di legge processuale


La costituzione fissa una regola di competenza in ordine alla produzione delle norme processuali. L’art 117
co 2 lett. l. attribuisce allo Stato la potestà esclusiva di legislazione per “giurisdizione e norme processuali”.
L’essenza della garanzia prestata dalla riserva di legge sta nell’impedire l’ingresso, tra le fonti del diritto
processuale (civile), del potere regolamentare del Governo (art 3 preleggi), sì da preservare l’indipendenza
anche del singolo giudice e assicurare che l’amministrazione della giustizia proceda pienamente “in nome
del popolo” (art 101 co 1). Se ciò può consentire ad escludere i regolamenti, e più in generale le fonti
amministrative, dal novero delle fonti del processo civile, non necessariamente implica l’impossibilità di
integrazione della trama legislativa del processo mediante fonti diverse, sempre se prive della capacità di
attentare all’indipendenza del giudizio. Si prendano ad esempio le dismissioni che la legge opera nei
confronti del giudice riguardo alla capacità di regolare il processo, al quale talvolta rimette di “determinare
il corso della procedura” (art 140 bis co 11 cod. consumo), ovvero alle regole dei c.d. “protocolli”, redatti di
intesa da magistrati e avvocati del foro locale, che presso la singola sede giudiziaria codificano negli spazi
lasciati da norme elastiche (art 175 c.p.c), o in fine alle “misure organizzative” che gli organi di autogoverno
delle magistrature sono autorizzati a prendere al fine di incidere su tempi e modi di compimento degli atti
processuali. Tali fonti di disciplina del processo, non aventi rango di legge, trovano crescente spazio in un
contesto di progressiva relativizzazione della riserva stabilita, la quale emerge ora anche in relazione alle
prassi telematiche cui le normative impongono di conformarsi, con riguardo alla sottoscrizione,
trasmissione e ricezione dei documenti informatici. Le regole tecnico-operative poste per l’uso di strumenti
informatici e telematici nel processo trovano la loro naturale collocazione in provvedimenti sub-primari,
suscettibili di un più rapido adattamento alle incessanti novità delle “tecnologie dell’informazione”.

Le fonti dell’”ordinamento comunitario” e gli altri “obblighi internazionali”.

La giurisprudenza fonte del diritto processuale?


Prende sempre più piede l’idea che nella gerarchia delle fonti processuali debba farsi spazio alla
giurisprudenza. L’art 360 bis c.p.c. (introdotto nel 2009) consente, aggravando gli oneri formali da rispettare
quando si redige un ricorso per cassazione, che sia dichiarato inammissibile (quindi non esaminato nel
merito) il ricorso, qualora non siano offerti elementi per confermare o mutare la “giurisprudenza della
Corte” alla quale il giudice della decisione impugnata si sia adeguato. Più in generale, si è arrivati a
sostenere l’immanenza di un limite oggettivo alla modificazione di orientamenti giurisprudenziali del
giudice di legittimità, il quale avalla la tesi che, tra due o più orientamenti, deve preferirsi quello sulla cui
base si è formata una certa stabilità di applicazione della norma processuale (corte cass 31 luglio 2012 n
13620). Nonostante ciò, la Corte costituzionale ha inteso ribadire che il giudice resta subordinato alla legge,
anche quando questa lo eleva a occasionale fonte di diritto (ad es quando la giurisdizione deve svolgersi
secondo equità). È proprio il precetto fondamentale di soggezione del giudice alla legge, riconosciuto anche
dalla Corte Cass, ad impedire che l’interpretazione di quest’ultimo divenga fonte di diritto, sicchè quella
non può mai rappresentare la lex temporis acti, ossia il parametro di verifica del singolo atto processuale.
Alla giurisprudenza della Corte (di cassazione) spetta sicuramente il ruolo di assicurare l’osservanza della
legge e la sua uniforme interpretazione nel tempo, in modo da evitare risultati contrari a “giustizia”. È
tuttavia evidente che il confine tra l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge e
l’integrazione della stessa è assai labile, collocandosi sul territorio mobile dei “valori”.

I caratteri del (le norme di) diritto processuale civile


La giurisdizione civile nasce come giurisdizione ordinaria, la quale conosce di tutte le cause civili in senso
stretto e amministrative, eccezion fatta per quelle singole controversie che la legge attribuisce a organi
appositi, che costituiscono le giurisdizioni speciali. La giurisdizione civile si estende tendenzialmente a
qualsiasi controversia che non richieda l’irrogazione di sanzioni penali, tant’è che essa non ha bisogno di
disposizioni espressamente attributive della propria materia. Oggi tuttavia, a seguito di una prassi avallata
dalla stessa corte Cost, non può dirsi che la giurisdizione dei giudici speciali costituisca un’eccezione rispetto
a ciò che è “ordinario”, dovendo invece affermarsi che la giurisdizione civile ordinaria è residuale, ovvero si
estende laddove la legge non abbia attribuito la competenza ad altro giudice. Giurisdizione e processo
stanno in un rapporto di mezzo a fine: la giurisdizione si attua mediante il processo; sicchè le regole
processuali devono essere volte a concretare il diritto alla tutela giurisdizionale. Nel 1999, in accoglimento
del principio del giusto processo previsto all’art 6 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, fu
modificato l’art 111 cost. Ciò ha posto dei problemi nel nostro ordinamento, perché il principio nasce in
Paesi nei quali la legge, quale fonte del diritto, non è sovraordinata alla giurisprudenza. Deve quindi
ritenersi giusto il processo che rispetti le prescrizioni della legge o quello che tenda ad un risultato giusto? È
giusto il processo secondo legge o secondo diritto? Se si accoglie la seconda opzione, come fatto dalla
giurisprudenza maggioritaria, bisogna ritenere che un processo legittimo (svolto secondo legge), abbia
comunque bisogno di ulteriori norme (ad es l’applicazione di principi regolatori che precedono la fonte
diretta di regolazione) per risultare giusto.

In virtù della particolare connotazione che prende la legalità processuale, è possibile affermare una serie di
caratteristiche ulteriori delle norme di diritto processuale civile, naturalmente limitando il discorso
all’attività degli organi statuali: il principio di legalità non può non implicare la tipicità degli atti, la tassatività
e la determinatezza delle relative fattispecie, il disfavore per l’irretroattività e l’analogia. La tipicità diviene
concetto di sintesi delle fondamentali garanzie di tassatività e determinatezza, volte ad evirare l’arbitrio del
giudice, la prima è diretta proprio a quest’ultimo, mentre la seconda si rivolge al legislatore. Tassatività e
determinatezza diventano anche essenziali fattori di orientamento della condotta delle parti, è per questo
che vale il principio “tempus regit actum” (la norma processuale applicabile è quella vigente al momento in
cui l’atto viene compiuto), ed è per questo che la norma processuale civile deve essere irretroattiva (art 11
disp prel: “essa non dispone che per l’avvenire”). La riserva relativa agli atti processuali civili non è in favore
del solo codice di procedura civile, avendo la legge in generale capacità normativa in materia, ciò non toglie
che il codice sia fonte cogente per la via diretta del suo art 1 (la giurisdizione civile, salvo speciali
disposizioni di legge, è esercitata dai giudici ordinari secondo le norme del presente codice). Si tratta di una
norma dotata di notevole vis expansiva, dato che non osta all’essenza di giurisdizione civile la circostanza
che il relativo processo non si svolga innanzi ai giudici ordinari.

L’organizzazione dei giudici civili in Italia


In senso proprio e in senso stretto i giudici civili (che esercitano la giurisdizione civile quali giudici ordinari)
sono:

a) Il giudice di pace ufficio composto da un magistrato onorario (in quanto non ha un rapporto di
impiego con lo stato) che svolge funzioni giurisdizionali di primo grado, in un territorio che può
comprendere uno o più comuni, ovvero essere limitato a una o più circoscrizioni dello stesso
comune. Limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, l’art 116 co 2 dispone che possono
essere eccezionalmente attribuite alle Regioni (diverse da quelle a Statuto speciale), con legge dello
Stato, “forme e condizioni particolari di autonomia”.
b) Il tribunale ordinario ufficio al quale sono addetti magistrati ordinari e onorari, si compone di 1/3
magistrati e si articola attualmente in 140 sedi sul territorio nazionale. Esso svolge funzioni
giurisdizionali di primo o secondo grado (queste ultime nei confronti delle decisioni del giudice di
pace).
c) La corte di appello Il tribunale decide collegialmente, con il numero invariabile di 3 componenti
(art 56 ord. Giud.) La corte di appello giudica in unico ovvero in secondo grado presso 26 distretti (e
3 sezioni distaccate). La giurisdizione civile è esercitata pure da sezioni specializzate del tribunale e
della corte d’appello, le quali giudicano “per determinate materie, anche con la partecipazione di
cittadini idonei estranei alla magistratura” (art 112 co 2 cost). La riserva di collegialità è, in via di
principio, una riserva di giudizio e non di semplice decisione, sicchè è da ritenersi
costituzionalmente legittima l’eventuale attribuzione di funzioni specifiche ad organi monocratici,
purchè la sezione sia costituita “senza estranei alla magistratura”. In talune ipotesi, quali il tribunale
per i minorenni, le sezioni specializzate previste dalla legge 69/1963, le sezioni agrarie previste dalla
legge 320/1963 etc, il procedimento deve essere interamente collegiale. Le sezioni speciali sono
costituite altresì presso la corte di appello, allo scopo di far conoscere le impugnazioni al giudice
parimenti costituito, sono istituite presso la corte d’appello. Sebbene insediati ancora presso la
Corte d’appello, agiscono come sezioni specializzate di primo grado gli otto tribunali regionali delle
acque pubbliche, i quali decidono di diritti soggettivi nelle controversie intorno alla demanialità
delle acque, o riguardanti l’occupazione di fondi e le conseguenti indennità, ovvero per risarcimenti
dei danni dipendenti da qualunque opera eseguita dalla pubblica amministrazione. Sulle loro
decisioni decide in grado d’appello il Tribunale superiore delle acque pubbliche. La legge 45/2004
ha stabilito che “il Tribunale regionale è costituito da una sezione ordinaria della Corte d’appello
designata dal presidente, integrata con tre esperti, iscritti nell’albo degli ingegneri e nominati con
decreto del Ministro della giustizia in conformità alla deliberazione del Consiglio superiore della
magistratura, adottata su proposta del presidente della corte d’appello”; la medesima legge ha
inoltre stabilito che “il tribunale regionale decide con l’intervento di 3 votanti, tra i quali uno degli
esperti di cui al secondo comma (art 138 co 2 e 4 l. 1775/1933)”.
d) La corte di cassazione svolge in via esclusiva funzioni di impugnazione, ed è stabilmente
composta in forma collegiale, con sede a Roma. La Costituzione delinea la Cassazione come ufficio
caratterizzato da unicità (artt. 104 co 3 e 111 co 7 ss.), collegialità (art 106 co 2 ss.) e supremazia
(art 135c co 1). La corte è costituita in sezioni, ciascuna sezione giudica con numero invariabile di 5
votanti, 9 nel caso delle c.d. sezioni unite. La ripartizione degli uffici giudiziari in sezioni, la
destinazione dei singoli magistrati alle sezioni, il conferimento di specifiche attribuzioni processuali
individuate dalla legge e la formazione dei collegi sono demandati alle c.d. “tabelle”, le quali
vengono adottate dal Consiglio superiore della magistratura, contestualmente ai “criteri per
l’assegnazione degli affari e la sostituzione dei giudici impediti”. Tutto ciò per attuare il valore della
precostituzione del magistrato-persona, dopo quello relativo al giudice-ufficio.

Singolare è la questione della distribuzione della materia penale e civile tra i giudici ordinari: la questione si
misura in termini di improponibilità della domanda di tutela o di incompetenza. Tuttavia, né la proponibilità
della domanda né la competenza del giudice civile potrebbero ricavarsi con sicurezza dalla disciplina del
processo, essendo la disciplina processuale penale ammessa dall’ordinamento in alcune ipotesi per adire il
giudice civile, ed essendo ammessa la procedura civile per adire un giudice diverso.

CAPITOLO II: LA GIURISDIZIONE

I caratteri della funzione giurisdizionale.


La divisione dei poteri dello Stato ha posto le basi per una concezione della giurisdizione non come esercizio
di un potere, eventualmente delegato, ma come erogazione di un servizio, al quale lo Stato è tenuto.

I nostri codici e la nostra Costituzione sintetizzano questa idea in poche e concise disposizioni normative.
L’art 1 c.p.c. dispone: “la giurisdizione civile, salvo speciali disposizioni di legge, è esercitata dai giudici
ordinari secondo le norme del presente codice” (Giurisdizione dei giudici ordinari). Non diversamente recita
la Costituzione all’art.102 1°co, secondo il quale “la funzione giurisdizionale è esercitata dai magistrati
ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario” (segue: “non possono essere istituiti
giudici straordinari o giudici speciali. Possono soltanto istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni
specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla
magistratura. La legge regola i casi e le forme della partecipazione diretta del popolo all’amministrazione
della giustizia”). La costituzione dispone che è giudice chi è istituito e regolato dalle norme sull'ordinamento
giudiziario, il quale distingue, all'art 4, i giudici di carriera (uditori, giudici di ogni grado dei tribunali delle
corti e magistrati del PM) e giudici onorari (giudici di pace, giudici onorari di tribunale, vice procuratori,
esperti del tribunale e delle sezioni delle corti di appello per i minorenni, giudici popolari delle corti di
assise).
Quanto detto fino a ora ci può spingere ad alcune deduzioni:
- La giurisdizione come servizio – La funzione giurisdizionale è un servizio. Questa definizione è in
linea con l’art.104 1°co cost a norma del quale la magistratura costituisce un “ordine”.
Art. 104 Costituzione  La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.
Il Consiglio superiore della magistratura è presieduto dal Presidente della Repubblica.
Ne fanno parte di diritto il primo presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione.
Gli altri componenti sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, e per un terzo dal Parlamento in seduta
comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio.
Il Consiglio elegge un vice presidente fra i componenti designati dal Parlamento.
I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili.
Non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale.
Ma aggiunge anche che è un ordine autonomo e indipendente “da ogni altro potere”. Ordine o
potere? Per conto nostro l’idea che costituisce un ordine va associata all’idea che il giudice è
chiamato ad applicare la legge, che costituisce il limite oltre il quale non può andare e dentro il
quale deve svolgere la sua attività in piena autonomia (art.101 2° co Cost).
Art. 101 La giustizia è amministrata in nome del popolo.
I giudici sono soggetti soltanto alla legge.
Tuttavia, benchè la giurisprudenza non sia annoverata nel nostro Paese tra le fonti del diritto, non si
può negare che partecipa, e in misura sempre crescente, alla sua formazione. Seguendo questa
linea evolutiva, la magistratura va sempre più delineandosi come un potere, seppure “neutro”,
poiché esercitato in maniera imparziale.

- Esiste un monopolio statale della giurisdizione? – Anche in questo campo, l’evoluzione ha avuto il
suo peso. Con l’avvento degli Stati-nazione si affievolisce l’idea che il giudice possa essere soltanto
chi riceve l’investitura autoritaria e, di contro, si afferma l’esigenza di esaminare i contenuti della
funzione, distinguendo ciò che può fare un qualsiasi soggetto “terzo ed imparziale”, cui sia affidato
il compito di risolvere una controversia, e ciò che può fare soltanto un soggetto investito di
autorità. Per questa strada si è ammessa la rilevanza immediata nel nostro ordinamento delle
decisioni dei giudici stranieri (che nel nostro ordinamento non hanno investitura autoritaria) e la
possibilità di ricorso all’arbitrato, ripetutamente affermata dalla Corte Cost. Senza dimenticare che
la costituzione europea ha portato ad una indubbia contrazione della sovranità degli Stati-membri
anche nel settore della giustizia.

- La giurisdizione affidata alla magistratura ordinaria – L’idea del costituente è stata quella di
assegnare alla magistratura ordinaria una funzione di assoluto rilievo; né è la prova il sistema di
garanzie che circonda la magistratura ordinaria, la quale non a caso è chiamata a designare tre
giudici costituzionali, a fronte dell'unico giudice designato dal Consiglio di Stato e dalla Corte dei
conti, giudici speciali ai quali è destinata soltanto una generica norma che ne assicura
l'indipendenza (art 108). Si ricordi poi la previsione della Corte di Cassazione, sia come organo di
vertice della magistratura ordinaria che come giudice di conflitti (anche tra Consiglio di Stato e
Corte dei Conti, art 111 ult. Co).
Anche in questo caso l’evoluzione ha rotto l’originario equilibrio: la Corte di Conti, infatti, ha visto
allargarsi l’area delle sue competenze in conseguenza delle riforme sull’organizzazione dei servizi
pubblici, ai quali si accompagna, ovviamente, il costante finanziamento con danaro pubblico.
Per quanto riguarda il giudice amministrativo, la vicenda è più complessa: i costituenti erano partiti
dall’idea di tenere ferma la giurisdizione amministrativa, rivelatasi uno strumento prezioso di
tutela, il quale consentiva il controllo della discrezionalità amministrativa, in particolare grazie
all’uso accorto del vizio dell’eccesso di potere. Tuttavia, all’epoca si riteneva del tutto esaustiva una
tutela di mero annullamento, la quale comportava il degrado di diritti soggettivi a meri interessi
legittimi, per opera di un atto amministrativo anche illegittimo. Di conseguenza, appariva del tutto
naturale che fosse necessario il ricorso al giudice amministrativo affichè questi, annullando l’atto,
ripristinasse la situazione di diritto del soggetto, il quale, a sua volta, solo in questo momento
poteva agire dinanzi al giudice ordinario per la tutela risarcitoria. Il sistema è entrato in crisi quando
si è avvertito che la tutela di annullamento non era esaustiva, potendo anche la violazione di
interessi legittimi dare luogo a pretese risarcitorie o perfino reintegratorie. Si prenda il caso delle
espropriazioni illegittime, ove si manifestava in pieno la non esaustività del mero annullamento
dell’atto. Così, la Suprema Corte ha affermò il principio della risarcibilità anche degli interessi
legittimi violati. Affermatosi tale principio, sorgeva però problema di tecnica legislativa, anche
perché la frammentazione delle tutele fra due giudici diversi finiva con l'essere in contrasto con il
principio costituzionale della ragionevole durata del processo. C’era da scegliere tra due diverse
soluzioni:

a) Concentrare tutta la giurisdizione dinanzi al giudice ordinario;


b) Concentrare tutta la giurisdizione dinanzi al giudice amministrativo;
Si scartò la prima soluzione, dal momento che avrebbe portato alla sostanziale soppressione del
giudice amministrativo (non vi sarebbe stato interesse ad agire per l'annullamento, quante volte il
soggetto avesse avuto di mira il risarcimento del danno), e ci si orientò la seconda, affidando così al
giudice amministrativo la giurisdizione per blocchi di materie (urbanistica, edilizia e servizi pubblici),
a prescindere dalla natura della situazione giuridica dedotta in giudizio, rendendolo inoltre giudice
della reintegrazione e del risarcimento, anche quando è giudice di sola legittimità (mentre in capo
al giudice ordinario si concentrava la giurisdizione in materia di impiego pubblico).
In questo modo, però, si era aperto un nuovo contrasto tra giudice ordinario e giudice
amministrativo. Infatti, mentre quest’ultimo continuava a ritenere che l’azione risarcitoria dovesse
essere preceduta dalla tempestiva impugnazione dell’atto amministrativo illegittimo al quale si
faceva risalire il danno (pregiudiziale amministrativa), il giudice ordinario statuiva la possibilità di
proporre l’azione risarcitoria in via automatica e diretta, configurando la decisione del Consiglio di
Stato, che avesse dichiarato l’inammissibilità dell’azione risarcitoria per mancanza di preventiva
azione di annullamento, come una violazione sulla giurisdizione, ex art 111 co 8 cost. Il conflitto ha
trovato soluzione con il d.lgs. 2 luglio 2010 n°104 Codice del Processo Amministrativo, che stabilisce
che l’azione di condanna per lesione di interessi legittimi può essere esercitata anche in via
autonoma, ma che la relativa domanda va proposta entro 120 giorni da quello in cui si è verificato
l’evento o dalla conoscenza del provvedimento. In tal modo, l’azione di condanna diventa
improponibile in via autonoma quando l’atto amministrativo non può più essere annullato in via
giurisdizionale, essendo decorso il termine di qualsiasi impugnativa; ed il termine dei 120 giorni
finisce per essere un termine assai breve per l’esercizio del diritto al risarcimento, così sancendo un
favor per l’amministrazione.

- Verso la giurisdizione unica? – Sembra chiaro che l’originario disegno, che contrapponeva a una
giurisdizione ordinaria una giurisdizione speciale, è stato compromesso; la giurisdizione del giudice
amministrativo (e di quello contabile) ha finito con l’essere non più speciale, ma col costituire una
diversa maniera di esercitare un’unica funzione. Non dimentichiamo che la Costituzione aveva
collocato il giudice amministrativo in “particolari materie”, dandogli una giurisdizione
sostanzialmente “residuale”. La Corte Cost, chiamata ad arbitrare la questione, ha chiarito il punto,
riconoscendo la giurisdizione al giudice amministrativo, purchè quest’ultimo non si trasformi in
giudice “dell’amministrazione”, ossia in un giudice competente a decidere per il solo fatto che nella
controversia si coinvolta una pubblica amministrazione.

In conclusione, il criterio di riparto fissato dai costituenti è venuto meno, l’impianto risulta modificato.
D’ora in avanti i problemi sempre meno quelli relativi al riparto di giurisdizione, essendo il legislatore
ordinario libero di risolverli come crede, e sempre più concernenti le garanzie della giurisdizione e del
processo, essendo evidente che se siamo di fronte ad un’unica funzione giurisdizionale non c’è ragione per
distinguere i modelli processuali, così come non c’è ragione per immaginare giudici diversi e diversamente
regolati e organizzati. Siamo di fronte ad un processo di osmosi e, per tale motivo, si dovrebbe adottare il
sistema della giurisdizione unica, già propugnato, ma non accolto, in seno ai Lavori preparatori della
Costituente.

Distinzione della funzione giurisdizionale dalle altre funzioni dello Stato.


Le tradizionali funzioni dello Stato, secondo il pensiero illuministico, erano tre e ben distinte fra loro:
Esecutivo, Legislativo e Giudiziario. Una tale netta separazione, però, appare come uno schema astratto
nello Stato moderno. Così, da un lato si dubita che le funzioni dello Stato siano soltanto tre e, dall’altro, è
sempre più difficile stabilire i confini tra l’una e l’altra.

Solitamente, si assume che la funzione legislativa consiste nella produzione delle norme, aventi carattere
generale e astratto, che vanno a comporre l’ordinamento giuridico, mentre la funzione giurisdizionale si
pone, rispetto a questa, come continuazione o specificazione, in quanto si esplica con atti a contenuto
concreto, nei quali la norma giuridica diventa criterio di giudizio. E si precisa che l’attività amministrativa – e
quella di governo - pur svolgendosi con atti di contenuto concreto e di esecuzione della legge (al pari della
giurisdizione), si caratterizza per la specifica finalità degli atti, che perseguono sempre la cura di determinati
interessi pubblici (sicurezza, salute, istruzione, etc.), rispetto ai quali la legge fornisce soltanto la disciplina
del comportamento dell’autorità amministrativa, regolando il quando e il come della sua attività. Ma, come
già rilevato, si tratta di definizioni che hanno inevitabilmente carattere relativo, soprattutto con riferimento
alla giurisdizione, dove si è sempre più consapevoli che non è possibile demarcare con uno staccato i confini
tra attività legislativa e attività giurisdizionale, posto che la seconda integra la prima, seguendo una linea di
continuità che non può interrompersi.
La dottrina ha così tentato di elaborare una definizione unitaria sotto l’aspetto contenutistico e strutturale,
ma tutte le definizioni appaiono lacunose. Raduno ha parlato della giurisdizione come attuazione del diritto
oggettivo sostanziale, tuttavia questo non è compito esclusivo dei giudici, ma riguarda anche gli
amministratori e i governanti; talaltro della composizione della lite da pretesa contestata o insoddisfatta,
tuttavia i giudici non si limitano a comporre liti e non sempre applicano sanzioni.
Si perviene, in tal modo, alla conclusione, condivisibile, che l’unica definizione possibile è quella che fa leva
sull’aspetto soggettivo, così ripetendo l’incontestabile verità contenuta nella formula tautologica dell’art.1
cpc, secondo cui è giurisdizione l’attività esercitata dai giudici.
Art. 1. (Giurisdizione dei giudici ordinari) La giurisdizione civile, salvo speciali disposizioni di legge, è esercitata dai giudici ordinari secondo le norme del
presente codice.
Da questa prospettiva diventano rilevanti i requisiti che devono accompagnare la posizione del giudice, che
è tale se terzo, indipendente ed imparziale, e la sua azione nel processo, che si svolge su impulso delle parti
e nel rispetto del contraddittorio e si conclude con una decisione emessa sulla base di prove analitiche e
razionali, dando conto delle ragioni per cui è stata emessa. Tale conclusione potrebbe apparire
contraddetta dalla Corte costituzionale, alla quale i giudici possono rimettere la questione di costituzionalità
insorta nel corso di un giudizio, la quale però viene ritenuta inammissibile dalla Corte, qualora questa rilevi
che il giudice che gliel'ha rimessa non esercitava in quel contesto, per ragioni del suo ufficio, funzioni
giurisdizionali, ma organizzative e amministrative. La contraddizione si risolve ove si rifletta che, ai sensi
dell'art 26, non è necessario soltanto che la questione sia sollevata da un giudice, ma anche che sia
sollevata nel corso di un giudizio, inteso dalla Corte quale procedimento nel corso del quale vengono
esercitate funzioni giurisdizionali decisorie.

Le varie forme di giurisdizione.


Attualmente si distinguono 5 tipi di giurisdizione:

1. Penale
2. Civile
3. Amministrativa
4. Contabile
5. Costituzionale
La giurisdizione penale è la funzione dello Stato preposta all’attuazione delle norme penali, caratterizzate
dal fatto di essere accompagnate dalla sanzione penale. Il campo affidato alla giurisdizione civile viene
ricavato per differenza, nel senso che vi rientrano tutte le materie che la legge non affida alla giurisdizione
penale, a quella amministrativa e a quella contabile. L’introduzione di un sistema costituzionale rigido,
secondo il quale le norme non possono contrastare con le disposizioni costituzionali, ha imposto
l’introduzione della Corte Costituzionale, il cui compito più rilevante è quello di sindacare la conformità
delle leggi e degli atti aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni, alle norme della Cos tituzione.
Accanto a questo, l’art.134 Costituzione, affida alla Corte la funzione di giudicare sui conflitti di attribuzione
fra i poteri dello Stato e su quelli tra Stato e Regioni e tra le Regioni, nonché sulle accuse mosse al
Presidente delle Repubblica, a norma della Costituzione.
Art. 134 Costituzione  La Corte costituzionale giudica: sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge,
dello Stato e delle Regioni; sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni, e tra le Regioni; sulle accuse promosse contro
il Presidente della Repubblica, a norma della Costituzione.
È interessante notare che la Corte costituzionale, anche quando giudica in materia penale, emana decisioni
non impugnabili. La Corte afferma che in questo caso essa non agisce come giudice, essendo la sindacabilità
della decisione elemento essenziale della giurisdizione. Tuttavia, la rime di abilità e garanzia virgola e non
elemento, essenziale della giurisdizione, fa parte del regime che accompagna l'esercizio della giurisdizione,
al quale si può eccezionalmente derogare, ma non rientra nella sua struttura.

Le varie forme di giurisdizione civile (in particolare la c.d. volontaria giurisdizione).


In linea di massima approssimazione, si può dire che esiste una giurisdizione contenziosa, caratterizzata
dall’esservi una controversia tra più soggetti che si presentano davanti al giudice in posizione contrapposta;
una giurisdizione esecutiva, che ha la funzione di tradurre in atto e, quindi, di realizzare anche in modo
coattivo determinati comandi ai quali l’ordinamento riconosce particolare efficacia; una giurisdizione
volontaria, nella quale non vi è controversia da risolvere, ma da gestire un negozio o un affare che per
svariate ragioni richiede l’intervento (partecipativo) di un terzo estraneo ed imparziale.
Se prendiamo in esame la contrapposizione tra giurisdizione contenziosa e volontaria, viene fuori la prima
differenza fondamentale: nel decidere una controversia, in sede contenziosa i giudici tendono ad emettere
un provvedimento che sia in grado di regolare con stabilità il rapporto controverso tra le parti in lite. Ciò
vuol dire che il provvedimento diviene stabile, ex art.324 cpc – cosa giudicata formale, in modo da porsi da
questo momento in poi come fonte della normativa che disciplina il rapporto sostanziale (c.d. art.2909 cc –
cosa giudicata sostanziale).
Art. 324. (Cosa giudicata formale)Si intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta né a regolamento di competenza, né ad
appello, ne' a ricorso per cassazione, né a revocazione per i motivi di cui ai numeri 4 e 5 dell'articolo 395.
Art. 2909 codice civile (Cosa giudicata) L'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro
eredi o aventi causa.
Nulla di tutto questo è previsto e necessario nell’ambito della giurisdizione volontaria, dove i provvedimenti
del giudice sono emessi sulla base di una valutazione di opportunità, per la migliore gestione di negozi o
affari, che può anche mutare nel tempo. Non bisogna tuttavia cadere in contrapposizioni troppo rigide:
natura non facit saltus; Esiste una molteplicità di situazioni, le quali possono richiedere forme assai semplici
ovvero articolate e complesse di volontaria giurisdizione (vedi pag 33).

L’arbitrato.
Abbiamo visto che la funzione giurisdizionale è affidata a magistrati di carriera, inseriti nell’organizzazione
dello Stato. La Costituzione all’art.24 Costituzione, garantisce il diritto di azione esercitato sia dinanzi al
giudice statale, sia dinanzi al giudice privato, sia che non sia affatto esercitato.
Art. 24 CostituzioneTutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.
La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione.
La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.
Bisogna però stabilire quando ciò sia possibile. Non lo è per tutte le forme di processo volontario, che sono
contrassegnate dall’essere affidate a un magistrato di carriera. È difficilmente immaginabile nell'ambito del
processo esecutivo, dal momento che non può essere consentito l'uso della forza per costringere altri ad
adempiere alle proprie obbligazioni apro (le uniche forme pensabili sono quelle di una autotutela esecutiva,
che si svolga con il preventivo consenso dell'obbligato, es nel caso di pegno art 2784, o per sua stessa
iniziativa, es cessione dei beni ai creditori, art 1977 ss.) È più facile da ipotizzare nel campo della
giurisdizione contenziosa, dove nulla sembra ostacolare i soggetti che vogliano far decidere la controversia
non dai giudici dello Stato ma da persone di loro fiducia. Questo tradizionale istituto prende il nome di
arbitrato, regolato dagli artt.806 ss. cpc.
Art. 806 (Controversie arbitrabili)Le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte che non abbiano per oggetto diritti
indisponibili, salvo espresso divieto di legge.
Le controversie di cui all'articolo 409 possono essere decise da arbitri solo se previsto dalla legge o nei contratti o accordi collettivi di lavoro.
Art. 807 (Compromesso) Il compromesso deve, a pena di nullità, essere fatto per iscritto e determinare l'oggetto della controversia.
La forma scritta s'intende rispettata anche quando la volontà delle parti è espressa per telegrafo, telescrivente, telefacsimile o messaggio telematico nel
rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la trasmissione e la ricezione dei documenti teletrasmessi.
Possiamo sintetizzarlo così: le parti hanno la possibilità di fare ricorso all’arbitrato mediante un contratto,
da redigere per iscritto, con il quale convengono di far decidere dagli arbitri una controversia già insorta e
ben individuata (o anche controversie future relative ai rapporti non contrattuali) che abbia ad oggetto
diritti disponibili. Le stesse possono stabilire con una clausola di un più complesso contratto che stipulano o
con atto successivo che si collega ad esso, di far decidere dagli arbitri le controversie (future) scaturenti dal
contratto stesso. Una volta investiti della controversia, gli arbitri emettono la decisione. La pronuncia
prende il nome di lodo, al quale l’art.824 bis cpc attribuisce gli “effetti della sentenza pronunciata
dall’autorità giudiziaria”.
824-bis (Efficacia del lodo) Salvo quanto disposto dall'articolo 825, il lodo ha dalla data della sua ultima sottoscrizione gli effetti della sentenza
pronunciata dall'autorità giudiziaria.

Le questioni di giurisdizione.
A)Il codice fornisce la seguente definizione di giurisdizione: la giurisdizione ha per oggetto la sfera di potere
giurisdizionale attribuita ai giudici nei rapporti con i giudici di ordine diverso (mentre la competenza è la
misura del potere giurisdizionale attribuita ai giudici nei rapporti con altri giudici appartenenti allo stesso
ordine). Il legislatore aveva definito un regime giuridico della giurisdizione e della competenza, come se la
prima riguardasse la stessa capacità giuridica del giudice, e la seconda la sua legittimazione. Pertanto, era
inevitabile che non fossero consentiti accordi in deroga alla giurisdizione, che il difetto di giurisdizione fosse
rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo e che la mancanza di giurisdizione conducesse
ad una pronuncia di rito, a seguito della quale la parte non poteva far altro che proporre nuova domanda,
qualora fosse ancora nei termini. Il regime della competenza era invece regolato in maniera più elastica, si
ammetteva infatti che, dichiarata l’incompetenza del giudice originariamente adito, la causa fosse trasferita
al giudice competente. Questa era l’impostazione data dal legislatore oltre mezzo secolo fa, ma oggi è
ancora attuale? La riforma del 1995 ha abrogato l’art.2 cpc, che era l’unica disposizione dalla quale si
desumeva il divieto di patti in deroga alla giurisdizione;
Art. 2. (abrogato)
(Inderogabilità convenzionale della giurisdizione)
(1) L'articolo che recitava: "La giurisdizione italiana non può essere convenzionalmente derogata a favore di una giurisdizione straniera, né di arbitri
che pronuncino all'estero, salvo che si tratti di causa relativa ad obbligazioni tra stranieri o tra uno straniero e un cittadino non residente né
domiciliato nella Repubblica e la deroga risulti da atto scritto." è stato abrogato dall'art. 73, L. 31 maggio 1995, n. 218.

Oggi si prevede espressamente la possibilità delle convenzioni in deroga, purchè siano fatte per iscritto e
vertano su diritti disponibili (condizione opinabile dato che scambia lo strumento processuale con il suo
oggetto), subordinando la sola efficacia delle convenzioni a una sorta di consenso del giudice. Sempre più
spesso, il legislatore delinea le sfere di competenza dei giudici di diverso ordine per blocchi di materie. Il
d.lgs. 30 marzo 2001 n°165 ha attribuito al giudice ordinario tutte le controversie in materia di pubblico
impiego e al giudice amministrativo tutte le controversie in materia di servizi pubblici, di urbanistica, di
edilizia, comprese quelle per il risarcimento del danno e comunque relative ai diritti patrimoniali
consequenziali.

Di questi mutamenti non si è ancora del tutto consapevoli, tanto che fino a poco tempo fa si continuava a
ritenere che il difetto di giurisdizione avesse effetto caducatorio del processo. In realtà, l’unica disposizione
da cui si desume ciò e che il difetto di giurisdizione può essere rilevato anche d’ufficio in ogni stato e grado
del processo, è contenuta nell’art.37 cpc – difetto di giurisdizione.
Art. 37.
(Difetto di giurisdizione)
Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali e' rilevato, anche d'ufficio, in

qualunque stato e grado del processo.

Siccome le basi oggi sono ampiamente mutate, ci piace di pensare che l’evoluzione del nostro ordinamento
sia nel senso di restringere la portata dell’art.37 cpc – difetto di giurisdizione, limitandola al suo tenore
letterale, ovvero quello di norma destinata a regolare il fenomeno all’interno del processo. Dopotutto, la
convenzione dell’arbitrato (al quale si può ricorrere solo con riferimento a diritti disponibili) consente alle
parti di rinunciare alla giurisdizione dello Stato, derogando a tale principio. L’attuale giurisprudenza si è
addirittura spinta oltre, assumendo che, nel decidere nel merito, il giudice adito comunque afferma la sua
giurisdizione, sicchè in mancanza di impugnazione sul punto si forma il giudicato.
Ovviamente, quando l’evoluzione degli istituti porta a risultati diversi da quelli sperati, si evidenziano nel
sistema fratture e contraddizioni. La chiave per forzare il significato delle stesse disposizioni costituzionali e
per renderle compatibili con il “diritto vivente” sta nell’esigenza di offrire una giustizia effettiva in tempi
ragionevoli e l’occasione è data dall’incapacità delle nostre istituzioni di apportare le correzioni, anche a
livello costituzionale, all’organizzazione complessiva del nostro sistema giudiziario. La vicenda della c.d.
translatio judicii è esemplare.

L’art.50 cpc – riassunzione della causa, era stato formulato in considerazione di un sistema che distingueva
nettamente la giurisdizione dalla competenza. Pertanto, si riteneva che, qualora un giudice fosse stato
dichiarato incompetente in ordine alla domanda a lui proposta, le parti avrebbero potuto trasferire il
processo dinanzi al giudice competente, in modo tale che la porzione celebrata dinanzi al primo giudice si
saldasse con quella proseguita dinanzi al secondo giudice senza che si producessero effetti sfavorevoli di
alcun tipo ai danni delle parti. Se, invece, era stato dichiarato il difetto di giurisdizione in favore di un
giudice speciale, la parte avrebbe dovuto cominciare il processo daccapo, con la proposizione di una nuova
domanda, subendo il rischio di preclusioni, decadenze o prescrizioni nel frattempo verificatesi. Il sistema
conosceva un’unica eccezione: l’art.382 cpc – decisione delle questioni di competenza e giurisdizione, che
ammetteva la possibilità di trasferire il processo dal giudice speciale al giudice ordinario, qualora fosse stata
affermata la giurisdizione di quest’ultimo.
Art. 382.
(Decisione delle questioni di giurisdizione e di competenza)
La Corte, quando decide una questione di giurisdizione, statuisce su questa, determinando, quando occorre, il giudice competente.
Quando cassa per violazione delle norme sulla competenza, statuisce su questa.
Se riconosce che il giudice del quale si impugna il provvedimento e ogni altro giudice difettano di giurisdizione, cassa senza rinvio. Egualmente
provvede in ogni altro caso in cui ritiene che la causa non poteva essere proposta o il processo proseguito.
La motivazione è che, all’epoca, la giurisdizione dei giudici speciali si poneva come “residuale” e, in qualche
misura, come “eccezionale”.

Questa sistemazione, però è apparsa obsoleta e contrastante con un sistema di tutela effettivo. La Corte
Costituzionale e la Corte di Cassazione erano così pervenute a risultati diversi. La prima, aveva dichiarato
incostituzionale l’art 30 l. 1034/1971 (sulla istituzione dei T.A.R.) nella parte in cui “non prevede la
conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta al giudice incompetente”,
salvando così gli effetti della domanda e sterilizzando gli effetti negativi della pronuncia di difetto di
giurisdizione; la Corte di Cassazione era stata ancora più audace, stabilendo il principio secondo cui è
possibile la translatio anche dal giudice civile al giudice amministrativo, non preoccupandosi di come ciò
sarebbe potuto avvenire. Ovviamente, la decisione della SC era assai discutibile per chi ritiene che compito
degli interpreti (quindi anche quello dei giudici) è quello di applicare le leggi, non quello di crearle. Quello
della Corte Costituzionale lasciava perplessi, perché si risolveva in un intervento manipolativo del testo di
legge assai ardito, oltre tutto limitato ai soli rapporti tra giudice amministrativo e giudice civile, e non
applicabile qualora il processo amministrativo si fosse ritenuto concluso.
Per questi motivi, il legislatore è intervenuto con la l’art 59 l. 69/2009, di cui pare utile fissare i punti
principali. In virtù del principio per il quale ciascun giudice è giudice della propria competenza, se il primo
giudice ha declinato la sua giurisdizione, il secondo giudice al quale la domanda era stata posta ex novo
poteva anche egli rifiutare di avere giurisdizione. Vi era, e vi è, una sola eccezione, quando l’indicazione del
giudice sia fatta dalla SC, che, fra le altre cose, ha anche il compito di regolare la giurisdizione. Per
individuare sollecitamente la giurisdizione, il codice prevede l’istituto del regolamento preventivo (art 41
c.p.c.) il quale però, come stabilito dalla stessa SC, non è proponibile contro le decisioni sulla giurisdizione,
in quanto le stesse chiudono li processo, laddove il presupposto per fare ricorso al regolamento è che il
processo continui a pendere. L’art 59 dà quindi per scontato che contro le decisioni declinatorie della
giurisdizione sia possibile proporre l’impugnazione ordinaria e non il regolamento preventivo. Su questo
presupposto, si individuano 3 ipotesi:

a) Il giudice originariamente adito dichiara il suo difetto di giurisdizione (nel qual caso deve
indicare quale è il giudice che ne è munito), ma la decisione è ancora impugnabile.
b) In pendenza del processo originario la SC, investita della questione, ha regolato la
giurisdizione.
c) La pronuncia sulla giurisdizione è passata in giudicato (e ciò quando le parti non l’abbiano
impugnata o abbiano espressamente o tacitamente rinunziato ad impugnarla.
Nelle ipotesi b) e c) il legislatore ritiene che il processo dinanzi al primo giudice si sia chiuso. Di
conseguenza, non potendosi parlare di riassunzione, la parte potrà soltanto riproporre la domanda (nelle
forme richieste per il processo dinanzi al nuovo giudice) e se lo fa entro tre mesi salva gli effetti sostanziali e
processuali della prima domanda. Dal fatto che inizia un nuovo processo deriva che: 1) restano ferme le
preclusioni e le decadenze intervenute nel corso del processo chiuso; 2) le prove raccolte dinanzi al primo
giudice possono essere valutate come argomenti di prova; 3) il secondo giudice può, a sua volta, declinare
la sua giurisdizione, ma non può proporre regolamento preventivo.
Cosa comporta parlare di riassunzione e non di proposizione di nuova domanda? Comporta, in primo luogo,
che il processo “continua” dinanzi al nuovo giudice; le prove raccolte restano valide; le parti possono essere
rimesse in termini ex art.59, 2°co cpc; perdurando un conflitto con il primo giudice, il secondo può proporre
regolamento preventivo ad analogia di quanto previsto nell’art.45 cpc – conflitto di competenza.
Art. 49 (Sentenza di regolamento di competenza)Il regolamento è pronunciato con ordinanza in camera di consiglio entro i venti
giorni successivi alla scadenza del termine previsto nell’articolo 47, ultimo comma.
Con l’ordinanza la Corte di cassazione statuisce sulla competenza, dà i provvedimenti necessari per la prosecuzione del processo davanti al giudice
che dichiara competente e rimette, quando occorre, le parti in termini affinché provvedano alla loro difesa.
Art. 45 (Conflitto di competenza)Quando, in seguito alla ordinanza che dichiara la incompetenza del giudice adito per ragione di
materia o per territorio nei casi di cui all’articolo 28, la causa nei termini di cui all’articolo 50 è riassunta davanti ad altro giudice, questi,
se ritiene di essere a sua volta incompetente, richiede d’ufficio il regolamento di competenza.
Il co 4 dispone che “l’inosservanza dei termini fissati ai sensi del presente articolo per la riassunzione o per
la prosecuzione del giudizio comporta l’estinzione del processo e impedisce la conservazione degli effetti
sostanziali e procedurali della domanda”.
Si noti inoltre che l’art 59 non indica i termini per la riassunzione, ma solo quelli per la riproposizione utile
della nuova domanda, in questo secondo caso infatti, nel quale c’è un’ordinanza della SC o una declinatoria
passata in giudicato, il secondo giudice non deve (e non può) dichiarare l’estinzione di un processo già
chiuso, ma solamente dare atto della intempestività della domanda, per questo non idonea a fare salvi gli
effetti della domanda originaria. Nel caso della riassunzione, invece, il giudice, sul presupposto implicito che
il termine massimo a disposizione della parte sia tre mesi, dovrà accertare l’estinzione del primo processo e
dichiarare che la salvezza degli effetti non si è verificata. In questa ipotesi ci troviamo di fronte ad un atto
riassuntivo da convertire in proposizione di nuova domanda, sicchè il giudice dovrà valutare se sono decorsi
3 mesi dal passaggio in giudicato della sentenza declinatoria (solo se ciò si è verificato potrà ritenere che
non sono fatti salvi gli effetti della prima domanda).
B) L’art.37 cpc – difetto di giurisdizione, invece, non richiama più il rapporto tra il giudice italiano e
convenuto straniero, essendo stato abrogato dalla l.218/1995 il suo 2°co. È discutibile, oramai, che i
rapporti fra giudice italiano e giudice straniero siano inquadrabili nello schema normativo della
giurisdizione.
Art. 37 (Difetto di giurisdizione)Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici
speciali è rilevato, anche d'ufficio, in qualunque stato e grado del processo.
C) Restano altre due possibili situazioni:

a) La situazione non è affatto tutelabile in sede giurisdizionale.


b) Essa può rientrare nella sfera di giurisdizione di un giudice straniero.
C’è da dire, quanto alla prima, che essa è ipotizzabile soltanto nei rapporti fra cittadini e pubblica
amministrazione e che situazioni del genere sono destinate sempre più a ridursi.
Quanto ai rapporti col giudice straniero, il problema si pone soltanto nei casi in cui il soggetto residente
all’estero sia convenuto (e non attore). In queste ipotesi il giudice deve controllare se sussista un criterio di
collegamento tra la giurisdizione italiana e la controversia.

Oggi, per stabilire la giurisdizione italiana nella controversia in cui sia parte convenuta uno straniero basta
che: 1) il convenuto sia domiciliato o residente in Italia; 2) o abbia in Italia un rappresentante autorizzato a
stare in giudizio ai sensi dell’art 77 cpc; 3) o vi sia una espressa disposizione di legge (es art 14 codice della
navigazione); 4) o ricorrano i criteri stabiliti dalla Convenzione di Bruxelles, anche quando il convenuto non
sia domiciliato nel territorio di uno Stato contraente; 5) o sussistano, fuori dall’ambito di applicazione della
Convenzione, i criteri stabiliti per la competenza del territorio (art 18-27 cpc), salvo che si tratti di azioni
reali concernenti immobili situati all’estero.

In materia di giurisdizione volontaria la giurisdizione italiana sussiste quando “il provvedimento richiesto
concerne un cittadino italiano o una persona residente in Italia o quando riguarda situazioni o rapporti ai
quali è applicabile la legge italiana”. Sussiste inoltre nei casi previsti dalla l. 218/1995 e in quelli in cui è
prevista la competenza per territorio di un giudice italiano (art 9 cpc). Il giudice italiano può emanare un
provvedimento cautelare quando il provvedimento deve essere eseguito in Italia, anche se non abbia
giurisdizione in merito.
Pur avendo la l. 218 portata generale, nulla è detto in riferimento alle esecuzioni e ai fallimenti, ed in
generale alle esecuzioni concorsuali. Decisivo è il luogo nel quale deve svolgersi l’esecuzione, tuttavia ciò
non sempre basta: si prenda il caso di un’espropriazione verso terzi, quando il debitore è in Italia e il terzo
(es la banca su cui il debitore ha un conto o un deposito) è all’estero (il processo esecutivo, iniziato in Italia,
potrebbe essere bloccato se il terzo contestasse il debito); ovvero al fallimento di un imprenditore che ha
sede legale in un Paese di comodo e sedi effettive e beni in altri paesi, tra cui l’Italia (il regolamento CE
1346/2000 si è occupato della materia, dando rilievo al centro principale degli interessi del debitore, a
prescindere da dove è fissata la sede legale).
Si segnali infine che, prima della riforma, non era dubbio che il regolamento di giurisdizione fosse
applicabile anche nel caso in cui la questione riguardasse un giudice straniero. L’art 41 prevede infatti il
regolamento come strumento per risolvere le questioni di cui all’art 37. Tuttavia, oggi il richiamo all’art 37
non contempla più il caso del giudice straniero, essendo stato abrogato il co 2, e la l. 218 non ha operato
alcun richiamo all’art 41. Da ciò si conclude che, con una interpretazione strettamente letterale, in queste
ipotesi il regolamento dovrebbe ritenersi inammissibile. Adottando però una lettura di tipo sistematico, si
può ritenere che, essendosi il contenuto del co 2 art 37 travasato nell’art 11 l. 218, oggi il rinvio dell’art 41
deve intendersi anche a tale disposizione. Tale lettura pone in evidenza una disattenzione del legislatore.

Il regolamento di giurisdizione.
Il regolamento di giurisdizione è un istituto processuale del ramo civile previsto e disciplinato dall'art.41
cpc – regolamento di giurisdizione.
Art. 41 (Regolamento di giurisdizione) Finche' la causa non sia decisa nel merito in primo grado, ciascuna parte può chiedere alle
Sezioni unite della Corte di cassazione che risolvano le questioni di giurisdizione di cui all'art. 37. L'istanza si propone con ricorso a norma
degli artt. 364 ss., e produce gli effetti di cui all'art. 367. La pubblica amministrazione che non e' parte in causa può chiedere in ogni stato
e grado del processo che sia dichiarato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione il difetto di giurisdizione del giudice ordinario a causa
dei poteri attribuiti dalla legge all'amministrazione stessa, finché la giurisdizione non sia stata affermata con sentenza passata in
giudicato.
È lo strumento attraverso il quale possono essere risolte preventivamente, cioè prima che il giudice stesso
decida la causa, le questioni di giurisdizione in caso di conflitto tra giudice civile, amministrativo, contabile,
tributario o giudici speciali. Prevede il ricorso con le forme definite agli artt.360 ss cpc. L'istanza è proposta
dalle parti o dal giudice.

Ai sensi dell'art.41 cpc infatti: “finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado, ciascuna parte può
chiedere alle Sezioni unite della Corte di Cassazione che risolvano le questioni di giurisdizione di cui
all'articolo 37”. Il regolamento cosiddetto "preventivo" di giurisdizione è strumento atto ad evitare che si
proceda davanti ad un giudice sfornito di giurisdizione e si veda poi cassata la sentenza dalla Corte
suprema. Ha una prevalente funzione di economia processuale. Non si tratta di un mezzo di impugnazione
perché non interviene su di una decisione resa da altro giudice, ma semplicemente rimette il potere di
decidere sulla questione di giurisdizione alla Corte suprema.
L’istituto da luogo a problemi applicativi: non essendo mezzi di impugnazione esso può essere proposto
anche dalle parti che non sono legittimate a proporre impugnazione in via autonoma (es interventori
adesivi) o non potrebbero proporla sulla questione di giurisdizione (come per l’attore) oltre che, anche
d’ufficio (in qualche caso). Inoltre, il controllo della SC riguarda i limiti esterni della giurisdizione, così che
resta escluso ogni sindacato sui c.d. limiti interni, cui attengono gli errores in iudicatio o in procedendo.
Un punto ampiamente dibattuto riguarda il termine ultimo entro cui può essere proposto il regolamento.
L'art.41 cpc dice che la preclusione non scatta "finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado...",
ma dottrina e giurisprudenza hanno interpretato questo dettato estendendo la preclusione alla
proponibilità del regolamento a qualunque sentenza definitiva o non definitiva di merito o processuale in
primo grado. Le ragioni sono chiare, il regolamento non è mezzo d'impugnazione, deve, quindi, essere
strumentale a prevenire decisioni impugnabili. Se il giudice emette sentenza l'ordinamento ha a
disposizione altri mezzi per porre rimedio all'errore. Il regolamento è proponibile, naturalmente, dal
convenuto, ma anche dall'attore che vi ha dato causa, per ribadire ulteriormente che lo scopo è di
prevenire passaggi inutili davanti al giudice. Le questioni per le quali è previsto il regolamento sono
individuate dall'art.37 cpc – difetto di giurisdizione "difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei
confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali...".
Art. 37 (Difetto di giurisdizione) Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei
giudici speciali è rilevato, anche d'ufficio, in qualunque stato e grado del processo.
L'istanza di regolamento si propone con ricorso alle Sezioni unite della Corte di Cassazione con le modalità
previste dall'art.365 ss cpc.

Nota di rilievo meritano tanto il disposto dell'art.367 cpc modificato con la riforma al codice di procedura
civile del 1990, riforma che ha attribuito al giudice davanti al quale pende la causa la valutazione circa la
sospensione del processo, subordinandola al ricorrere di due presupposti "...sospende il processo se non
ritiene l'istanza manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente
infondata", quanto la riforma del 2009 che ha introdotto la possibilità di operare una translatio judicii così
che se le parti riassumono, entro il termine di tre mesi dal passaggio in giudicato della pronuncia della
cassazione, la causa davanti al giudice indicato dalle Sezioni unite questa si considera proposta ex tunc. In
origine la sospensione era obbligatoria ed incondizionata e consentiva l'uso del regolamento per mere
finalità dilatorie. Con la translatio judicii non è più necessario riproporre la causa ma è sufficiente
riassumerla in termini perché siano fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda.

Art. 367.
(Sospensione del processo di merito)
Una copia del ricorso per cassazione proposto a norma dell'articolo 41, primo comma, è depositata, dopo la notificazione alle altre parti, nella
cancelleria del giudice davanti a cui pende la causa, il quale sospende il processo se non ritiene l'istanza manifestamente inammissibile o la
contestazione della giurisdizione manifestamente infondata. Il giudice istruttore o il collegio provvede con ordinanza.
Se la Corte di cassazione dichiara la giurisdizione del giudice ordinario, le parti debbono riassumere il processo entro il termine perentorio di sei
mesi dalla comunicazione della sentenza.

Un problema può sorgere nel caso in cui il processo di merito prosegua davanti al giudice adito, giungendo
a sentenza, nonostante penda il ricorso per il regolamento di giurisdizione davanti alla Suprema corte. Due
sono le possibili e contrarie soluzioni. La prima è lineare, la Cassazione afferma la giurisdizione del giudice di
merito, la sentenza resa dal giudice a quo è pienamente efficace. La seconda prevede che le due sentenze,
ovviamente opposte, trovino un coordinamento. La Cassazione arriva a negare la giurisdizione del giudice di
merito, il giudice nel frattempo ha reso sentenza di merito. Per la soluzione trova applicazione analogica
l’art.336 – effetti della riforma o della cassazione, che prevede che "La riforma o la cassazione estende i
suoi effetti a provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata."

Art. 336.
(Effetti della riforma o della cassazione)
La riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte
riformata o cassata.

La riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza
riformata o cassata.

Per quanto riguarda il processo amministrativo, l'art. 10 del Decreto legislativo 2 luglio 2010 n. 104
statuisce la rilevabilità del difetto di giurisdizione d'ufficio in primo grado davanti al giudice amministrativo,
nonché in grado di appello; esso può essere promosso secondo le norme del codice di procedura civile a cui
si rinvia, soltanto a condizione che non vi sia stata acquiescenza sul capo della sentenza che esplicitamente
o implicitamente abbia pronunciato sulla giurisdizione. Il regolamento di giurisdizione, sottoscritto da un
cassazionista e notificato a tutte le parti del processo amministrativo, può essere proposto in primo grado
solo finché la causa non sia stata decisa anche se solamente nel rito. Tale preclusione non opera se il
giudice abbia sollevato questione pregiudiziale alla Corte di giustizia delle Comunità europee.

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