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DIRITTO COSTITUZIONALE

Professore Cesare Pinelli

X. IL POTERE GIUDIZIARIO

• La struttura del Titolo IV della Seconda Parte

Il titolo IV della Seconda Parte della Costituzione, dedicato a “La Magistratura”:


- enuncia innanzitutto i princìpi che “I giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art.101) e che la
funzione giurisdizionale è esercitata dai magistrati ordinari (art.102) con il divieto di istituire
giudici straordinari o giudici speciali e il riconoscimento delle giurisdizioni amministrativa,
contabile e militare (art.103)
- Seguono disposizioni sugli aspetti strutturali e organizzativi del potere giudiziario (art.104-110)
- e sulle modalità di esercizio della giurisdizione (art.111-113).

Tale struttura riflette le due principali preoccupazioni dei Costituenti:


1. Quella di garantire ai giudici, un tempo soggetti al Governo regio (bouche de la
loi), l’indipendenza dagli altri poteri, onde garantire senza riserva la tutela dei diritti e
degli interessi legittimi. E a questo stesso fine indirizzarono tutte le altre disposizioni.
2. L’altra preoccupazione riguarda l’articolazione interna del potere giudiziario. All’epoca la
funzione giurisdizionale risultava suddivisa tra giudici ordinari e numerosi giudici speciali
(molti dei quali istituiti durante il periodo fascista). Si spiegano così:
- il divieto di istituire “giudici straordinari”, creati appositamente per definire un
particolare tipo di controversie. Si tratta di un divieto assoluto;
- il divieto di istituire “giudici speciali”, competenti a definire controversie su materie
predeterminate. Si tratta, anche in questo caso, di divieto assoluto a partire dall’entrata in
vigore della Costituzione, valido perciò per il futuro, dal momento che sono stati “salvati” i
giudici istituiti prima dell’entrata in vigore della stessa (l’amministrativo, il contabile e il
militare art.103).
Pur senza contraddire tale divieto, l’art.102 prevede la facoltà per il legislatore di istituire
sezioni specializzate di giudici per determinate materie, anche con la partecipazione di
cittadini idonei estranei alla magistratura.

A caratterizzare ulteriormente la struttura del Titolo IV, è la distinzione dei giudici nella più ampia
categoria della magistratura: mentre il principio di esclusiva soggezione alla legge è riferito solo
ai giudici (art.101), la qualificazione di “ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” si
riferisce alla magistratura (art.104).
• L’esclusiva soggezione dei giudici alla legge

Art.101: “La giustizia è amministrata in nome del popolo.


I giudici sono soggetti soltanto alla legge.”

L’esclusiva soggezione dei giudici alla legge costituisce la specifica garanzia di indipendenza che
li assiste sotto il profilo funzionale.

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Al secondo comma si afferma che nessuna autorità può ingerirsi nel giudizio, nemmeno il
Parlamento, che è autore delle leggi cui il giudice è soggetto. La legge è sì il prodotto di decisioni
politiche adottate dal Parlamento ma, dal punto di vista del giudice, rileva solo in quanto atto
normativo.
Questa conseguenza è un riflesso del processo di astrazione della legge e, nello Stato
costituzionale, di ogni atto normativo, compresa la Costituzione, dalla volontà politica di cui è
espressione.
Per questo, la ‘legge’ di cui si parla va dunque estesa anche alla Costituzione, perché se i giudici
non fossero soggetti anche a questa, non potrebbero sollevare questioni di legittimità costituzionale
di una legge o applicare direttamente la Costituzione, ove possibile.
La parola legge, intesa quindi come atto normativo, comporta poi alcune conseguenze:
1. la conseguenza di circoscrivere la portata delle leggi di interpretazione autentica da parte
del legislatore. A tal fine è intervenuta la Corte Costituzionale con diverse sentenze. Infatti,
se il significato di una disposizione legislativa risulti controverso in sede giurisdizionale, il
legislatore può adottare una legge, c.d. “di interpretazione autentica”, che ne chiarisca il
significato normativo. Quando la legge di interpretazione autentica non si limita ad agire sul
“piano astratto delle fonti normative” (ossia determinando un’indiretta incidenza sui giudizi,
senza però far venire meno la potestas iudicandi), ma, al contrario vincola il giudice “ad
assumere una determinata decisione in specifiche controversie”, allora la funzione
legislativa “perde la propria natura” perché una legge di interpretazione autentica, che
imponga al giudici simili vincoli, rimane un atto di volontà insuscettibile di obiettivarsi in
un atto normativo.
2. Per il fatto che la legge di cui parla l’art.101 non si riferisce alla volontà del legislatore,
ma all’atto normativo, l’interpretazione del giudice che vi è soggetto può non esaurirsi nel
ricordo ai canoni letterale o dell’intento originario, ma può avvalersi di altri canoni (es.
sistematico, teleologico).
• L’autonomia e l’indipendenza della magistratura da ogni altro potere

I principi di autonomia e indipendenza della magistratura da ogni altro potere, sanciti


all’art.104 (“La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”),
introducono una serie di disposizioni dedicate alla struttura del potere giudiziario e allo status dei
magistrati.
Il principio di autonomia (parola intesa in senso generico e non tecnico) consiste nell’attribuzione
al Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) delle funzioni attinenti allo status dei
magistrati diversi dalle nomine (che avvengono per concorso, art.106), con l’intento di assicurare
il pieno rispetto dello status dalle ingerenze di altri poteri, soprattutto del Ministro della giustizia e
con esso del Governo. L’art.105 le enumera: “le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le
promozioni ed i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”.
La sottrazione al Ministro della giustizia di ogni potere riguardo allo status dei magistrati, e la
loro inamovibilità, con riserva al Consiglio superiore di ogni decisione circa la loro dispensa o
sospensionedal servizio (art.107) mirano a garantire l’indipendenza dei magistrati ordinari.

La composizione del Consiglio Superiore della Magistratura (art.104.) è assai complessa:


o l’organo è presieduto dal Presidente della Repubblica, che ne fa parte di diritto insieme al
primopresidente e al procuratore generale della Corte di Cassazione;
o tutti gli altri componenti sono elettivi: per 2/3 da magistrati ordinari tra gli appartenenti alle
varie categorie; per 1/3 dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in
materiegiuridiche ed avvocati dopo 15 anni di esercizio;
o il Consiglio, poi, elegge un vicepresidente fra i componenti designati dal Parlamento, detti
“laici”(e non “togati”, se designati dai magistrati).
o I membri elettivi durano in carica quattro anni, non sono immediatamente rieleggibili e non
possono essere iscritti, finchè in carica, in albi professionali o nel Parlamento o in un Consiglio
regionale.

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Data la compartecipazione di membri designati dall’istituzione rappresentativa (Parlamento) e
soprattutto l’assegnazione della presidenza al Presidente della repubblica (“rappresentante
dell’unità nazionale), la struttura del CSM riflette il bisogno di contemperare i principi di
autonomia e indipendenza con apertura alla società, onde evitare un modello di “autogoverno
magistratuale”.
• Le funzioni del Consiglio superiore della magistratura

Ferme le competenze del CSM, spettano al Ministro della giustizia:


- art. 110: “l’organizzazione e il funzionamento relativi alla giustizia”. Tra i provvedimenti che
spettano al Ministro, si ricordi, non vi sono quelli concernenti lo status dei magistrati, che spetta
alCSM.
- art. 107, secondo comma: la “facoltà di promuovere l’azione disciplinare”. Tale facoltà del
Ministro nei confronti dei magistrati non contrasta con la sottrazione allo stesso di ogni potere
circa lo status dei magistrati, dato che la decisione spetta poi al Consiglio superiore (art.105,
“provvedimenti disciplinari”).
È rimasta, però, una zona grigia riguardante la direzione degli uffici giudiziari: la legge di
attuazione del CSM (n. 195 del 1958) prevede che il CSM deliberi su proposta, formulata in
concerto con il Ministro della giustizia, di una commissione formata da sei dei suoi componenti. A
tal proposito la Corte Costituzionale ha previsto che il “concerto” tra CSM e Ministro non equivale
ad accordo, dato che il CSM può disattendere valutazioni difformi del Ministro sulla scelta del
candidato a rivestire l’incarico di direzione dell’ufficio giudiziario, ma la commissione dei sei
componenti non può inoltrare la proposta al Consiglio se non dopo aver svolto opera di
concertazione, nel rispetto del principio di “leale cooperazione” con il Ministro.
Gli atti del CSM sono impugnabili davanti al giudice amministrativo, salvo quelli della Sezione
disciplinare che sono impugnabili davanti alle Sezioni Unite della Corte di cassazione.
Il Consiglio superiore svolge nella prassi funzioni ulteriori rispetto a quelle attribuitegli dalla
Costituzione. Si tratta di funzioni c.d. “paranormative”, che per quanto riguarda:
- la forma: in base al regolamento interno possono essere o “risoluzioni”, che il Consiglio può
adottare per quanto attiene all’esercizio delle sue competenze; oppure “circolari e direttive”, per
dareesecuzione o interpretazioni alla legge o ai regolamenti.
- il contenuto: talvolta si tratta di colmare lacune legislative, soprattutto per quanto riguarda le
norme sull’ordinamento giudiziario; altre volte invece il CSM adotta tali atti per stabilire i criteri
generali che seguirà nell’approvazione di provvedimenti di propria competenza.
• L’indipendenza interna

Oltre a tutelare l’indipendenza della Magistratura da ogni altro potere, indipendenza esterna, la
Costituzione protegge anche l’indipendenza del singolo magistrato nell’ambito del potere
giudiziario, detta anche indipendenza interna. L’art.107 afferma “I magistrati si distinguono fra
loro soltanto per diversità di funzioni” dove quel soltanto esclude che fra magistrati possano
esservi rapporti gerarchici, anche in riferimento ai diversi gradi del giudizio.
Così come il CSM salvaguardia l’indipendenza esterna della magistratura per far sì che i giudici
siano soggetti soltanto alla legge; così l’esclusiva distinzione per funzioni dei magistrati salvaguarda
la loro indipendenza interna sempre al fine di far sì che siano soggetti soltanto alla legge (e non
anche a ordini o direttive impartite da altri giudici).
Le funzioni diverse alle quali l’articolo si riferisce sono:
- da un lato i giudizi di merito, che definiscono controversie civili e penali, e i giudizi di
legittimità assegnati alla Corte di Cassazione (che riesaminano le sentenze emesse dai giudici di
merito in base alla loro conformità alla legge);
- dall’altro le funzioni giudicanti e le funzioni requirenti assegnate al pubblico ministero.

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Vediamo quindi l’intento della Costituente di scongiurare una strutturazione gerarchica all’interno
della magistratura. Del resto, il potere giudiziario viene anche definito “bicefalo”, visto che,
accantoalla Cassazione, va considerato l’altro vertice del CSM.

Dall’esclusiva soggezione dei giudici alla legge e dall’esclusiva distinzione dei magistrati in base
alle funzioni esercitate deriva poi la qualifica del potere giudiziario come potere diffuso. Infatti,
ciascun giudice è legittimato a sollevare ricorso per conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato
davanti allaCorte Costituzionale, senza che sia richiesto a giudici di grado superiore di sollevarlo.
Così non è per i pubblici ministeri.
• Il pubblico ministero

Ai sensi dell’art. 112, “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione


penale”.Questo garantisce, secondo la Corte Costituzionale (sent. n.84 del 1979):
- sia l’indipendenza (esterna) del Pubblico Ministero nell’esercizio della propria funzione;
- sia l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale, dato che, all’azione del Pm, non è
consentito alcun margine di discrezionalità (c.d. esercizio obbligatorio dell’azione penale).
Si presuppone che un esercizio discrezionale di tale azione sarebbe suscettibile di condizionamenti
da parte di altri poteri, con la conseguenza di menomare l’indipendenza del pubblico ministero.
L’art. 109, inoltre, prevedendo che “l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia
giudiziaria”, garantisce non solo il giudice, ma soprattutto il pubblico ministero, da interferenze
nell’esercizio delle sue funzioni, che potrebbero derivare dal Governo, per tramite del Ministro
dell’interno.
Oltre alla garanzia dell’indipendenza da altri poteri, vediamo che:
- nella composizione del CSM, una quota della componente togata è rappresentativa dei pubblici
ministeri;
- allo stesso sono riservate le attribuzioni relative allo status dei pubblici ministeri.

Per quanto riguarda l’indipendenza interna, l’art.107, quarto comma, riserva alla legge la
disciplina della materia (“il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle
norme sull’ordinamento giudiziario”), la quale ha sempre configurato un rapporto gerarchico fra il
procuratore della Repubblica e i sostituti procuratori (che insieme compongono l’ufficio del
pubblico ministero). Queste disposizioni non devono, secondo la Corte, essere ritenute illegittime
dato che a differenza delle garanzie dell’art.101, riferite al singolo giudice, quelle che riguardano il
pubblico ministero si riferiscono all’ufficio unitariamente inteso e non ai singoli componenti di
esso. Lo stesso si può dire per il principio di esclusiva distinzione dei magistrati in base alle
funzioni.

• Indipendenza e responsabilità dei magistrati


Tra i “funzionari” responsabili per atti compiuti in violazione di legge, ai sensi dell’art.28, ben
presto la Corte comprese anche i magistrati, poiché “l’autonomia e l’indipendenza della
magistratura e del giudice non pongono l’una al di là dello Stato né l’altro fuori dall’organizzazione
statale”.
Infatti, il magistrato è e deve essere indipendente da poteri estranei alla giurisdizione, ma
quest’ultima è funzione statale e i giudici, esercitandola, svolgono attività a servizio dello Stato.
Tale principio, tuttavia, comporta da un lato che essi siano personalmente responsabili, ma
dall’altro, non esclude che questa responsabilità possa essere disciplinata variamente per categorie e
situazioni (sent. n. 2 del 1968). Per la Corte, dunque, l’indipendenza dei magistrati non equivale
a irresponsabilità, ma comporta “condizioni e limiti alla loro responsabilità” (sent. n.26 del
1987).
La l.n.117 del 1988 ha così individuato tali condizioni e limiti:
1. l’azione può essere promossa solo se si ritiene di aver subìto un danno per “effetto di un
comportamento, di un atto, o di un provvedimento posto in essere dal magistrato con dolo o colpa
grave nell’esercizio delle sue funzioni”,

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2. l’azione non può essere proposta nei confronti del magistrato ma solo contro lo Stato, che potrà
poi rivalersi nei confronti del magistrato;
3. l’attività interpretativa di norme di diritto, o quella di valutazione del fatto e delle prove, non può
dar luogo a responsabilità.
Tuttavia, la giurisprudenza, a tal riguardo, mostrò una netta tendenza a ricondurre le ipotesi di
responsabilità civile anche all’attività interpretativa e di valutazione del fatto e delle prove, col
risultato di vanificare l’impianto della legge. Nel frattempo, nei casi Traghetti del Mediterraneo
(2006) e Commissione c. Italia (20111), la Corte di Giustizia dell’Unione Europea affermò che
lo Stato dovesse rispondere, quanto all’esercizio della funzione giurisdizionale, per ogni “manifesta
violazione” : quindi anche l’attività interpretativa, a differenza della legge del 1988. Evidente era il
contrasto con la disciplina nazionale. Per questo, la l.n.18 del 2015 ha modificato la 117 del
1988, estendendo la responsabilità civile del magistrato alle ipotesi di violazione manifesta di legge o
diritto UE, ovvero di travisamento del fatto o delle prove (ferma la regola che l’azione può essere
proposta solo contro lo Stato, caposaldo dell’indipendenza del magistrato).
• Organi di giurisdizione amministrativa: Consiglio di Stato e Tribunali amministrativi regionali

Secondo l’art.100, primo comma, “Il Consiglio di Stato è organo di consulenza giuridico-
amministrativa e di tutela della giustizia nell’amministrazione”. La Costituzione riflette il
doppio volto del Consiglio di Stato, consultivo e giurisdizionale, al pari di quello, di controllo e
giurisdizionale proprio della Corte dei Conti. Un ulteriore elemento comune ai due organi
(Consiglio di Stato e Corte dei Conti) è la previsione di riserve di legge a garanzia della loro
indipendenza, anziché di apposita disciplina costituzionale. Al terzo comma si dispone “la legge
assicura l’indipendenza dei due Istituti e dei loro componenti di fronte al Governo”.

Per quanto riguarda la composizione del Consiglio di Stato la legge n.186 del 1982 dispone che:
- i membri provengano per metà dal ruolo dei magistrati dei Tribunali amministrativi regionali;
- per ¼ dai magistrati, avvocati dello Stato e dirigenti statali che abbiamo superato il concorso;
- per il restante quarto sono nominati dal Presidente della Repubblica con decreto, su delibera del
Consiglio dei Ministri, prescelti fra professori universitari in materie giuridiche, magistrati,
dirigenti generali o equiparati dei Ministeri o di organi costituzionali (con specifici requisiti di
professionalità). La l.n.186 del 1982 ha poi istituito il Consiglio di Presidenza della Giustizia
Amministrativa, composto di magistrati amministrativi e poi integrato (con l. n. 205 del 2000) da
una minore percentuale di professori universitari e avvocati.

Il Consiglio di Stato, in corrispondenza del suo doppio volto, è articolato in:


- 4 sezioni consultive (una delle quali dedicata ai pareri sugli atti normativi);
- 3 sezioni giurisdizionali insieme all’Adunanza plenaria;
- l’Adunanza generale, composta da tutti i magistrati del Consiglio di Stato, investita di
competenzeconsultive su atti legislativi o regolamentari di particolare rilievo.

Un secondo organo di giustizia amministrativa è costituito dai Tribunali amministrativi regionali


(TAR).
L’art.125 prevede infatti che “Nella Regione sono istituiti organi di giustizia amministrativa di
primo grado, secondo l’ordinamento stabilito da legge della Repubblica. Possono istituirsi sezioni
con sedediversa dal capoluogo della Regione”.
I TAR sono stati istituiti con l. n.1034 del 1971 e sono organi dello Stato, cui spetta ogni
competenza in materia di giurisdizione, mentre la Regione è intesa dall’art. 125 come mero ambito
territoriale in cui hanno sede i TAR. Si tratta di giudici amministrativi di primo grado, le cui
sentenze sono appellabili dinanzi al Consiglio di Stato. Per il medesimo motivo, è l'unico tipo di
magistratura speciale a prevedere il doppio grado di giurisdizione (sent. n. 8 del 1982).

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Su ogni atto di qualunque pubblica amministrazione (ivi compresa quella statale), giudica ora in
prima istanza il TAR (Tribunale Amministrativo Regionale), mentre il Consiglio di Stato (che fino
alla istituzione dei tribunali regionali giudicava normalmente in unica istanza) è chiamato a
pronunciarsi solo in appello.
PARTE TERZA

I. DIRITTI FONDAMENTALI. Parte Generale

• Il dibattito all’Assemblea Costituente


Prima di analizzare i diritti fondamentali nel nostro ordinamento, è indispensabile tornare sul
dibattito alla Costituente. In particolar modo, ricordiamo due momenti cardine di tale dibatti che
sembrano aver maggiormente inciso sulla stesura del testo: (1) l’approvazione dell’ordine del
giornoDossetti e (2) il dibattito sul Preambolo.
• Significato dell’approvazione dell’ordine del giorno Dossetti

Il 9 settembre 1946 la Prima Sottocommissione della Commissione per la Costituzione


(“Commissione dei 75”), istituita in vista della redazione del progetto su cui l’Assemblea
Costituenteavrebbe basato i propri lavori, approvò l’ordine del giorno presentato dall’on. Dossetti.
La Prima Sottocommissione, dopo aver esaminato le possibili impostazioni sistematiche di una
dichiarazione dei diritti dell’uomo (escludendo sia quella ispirata a visione individualistica; sia
quella ispirata a visione totalitaria), ritiene che la sola impostazione conforme è quella che:
- riconosca la precedenza sostanziale della persona umana rispetto allo Stato e la destinazione di
questo al servizio di quella;
- riconosca la necessaria socialità di tutte le persone, destinate a completarsi a vicenda, mediante
reciproca solidarietà economica e spirituale, dapprima in comunità intermedie (famiglia, religione,
professione) e poi nello Stato;
- affermi l’esistenza sia dei diritti fondamentai e dei diritti della comunità anteriormente ad ogni
concessione da parte dello Stato.

Quando si afferma il primato della persona umana rispetto allo Stato (primo punto), non ci si
riferisce all’esito di un compromesso fra individualismo e totalitarismo, bensì una terza
impostazione: una visione relazionale, e con essa il principio di pluralismo, quale libera
articolazione in comunità delle persone e della società nel suo insieme.
Da tale impostazione conseguiva che né i diritti delle persone né quelli delle comunità si sarebbero
potuti basare su una concessione da parte dello Stato.

Questo principio risulta chiaro dall’analisi di alcuni articoli della Costituzione:


- Art. 2 Cost. : “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come
singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei
doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
Analisi: l’articolo riflette l’intento dei Costituenti di non considerare l’individuazione dei diritti
inviolabili nel testo costituzionale come atto di concessione degli stessi da parte dello Stato, in
quanto era la Costituzione a “riconoscere e garantire” tali diritti, che non possono intendersi come
un precipitato del diritto naturale.
- Art. 29 Cost. : “ La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul
matrimonio”.
Analisi: al tempo stesso, vediamo che la Costituzione, con l’espressione “riconosce”, non intende
affermare l’anteriorità di un gruppo sociale (famiglia) che la Costituzione si limiterebbe a
riconoscere,dato che sia i diritti della famiglia, sia l’istituto del matrimonio sono creazioni di diritto
positivo.

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- Art. 27, terzo comma, Cost: “ Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di
umanità”.
Analisi: tale proposizione viene interpretata come divieto di sanzioni che possano ledere i diritti
inviolabili del condannato.
Il riconoscimento dei diritti inviolabili non solo al singolo in quanto tale ma anche come partecipe
di formazioni sociali presuppone dunque la natura intrinsecamente e necessariamente relazionale
degli individui.
• Il dibattito sul Preambolo

Un altro importante momento fu il dibattito intorno alla scelta se menzionare i diritti che
richiedevano interventi attivi dei pubblici poteri solo in un preambolo oppure direttamente nel
testo della Costituzione (come alla fine venne stabilito).
La prima ipotesi, sostenuta dal giurista Piero Calamandrei, muoveva dalla distinzione tra:
a. diritti di libertà negativa, che comportano obblighi di astensione da parte dei pubblici poteri
e con essi il fatto che il cittadino possa richiedere al giudice di sanzionare ogni forma di
ingerenzada parte degli stessi;
b. diritti di libertà positiva, che invece richiedono un intervento attivo da parte dei pubblici
poterie ritenuti privi di tutela giurisdizionale, poiché subordinati a interventi da parte dei primi
che ilgiudice non può imporre.
Secondo Calamandrei, questi ultimi, i c.d. “diritti sociali” (es. diritto al lavoro, alla casa) non sono
veri diritti ma soltanto “programmi, desideri” e per questo parrebbe più opportuno che “questi
desideri che hanno carattere sentimentale, ma non giuridico, fossero sistemati nel preambolo della
Costituzione, e che le vere norme giuridiche fossero limitate a quei diritti che sono diritti nel senso
tecnico e perfetto della parola”.
Da questa visione si distaccarono i Costituenti dei maggiori partiti:
c. Secondo il comunista Palmiro Togliatti, relegare nel preambolo i diritti sociali, massima
espressione dei diritti di libertà positiva, significava negarne la giuridicità e dismettere ogni
impegno politico ad assicurarne l’attuazione. Infatti, tali diritti assumono importanza
costituzionalmente e giuridicamente, quando siano posti in determinati articoli della
Costituzione, con proprio carattere normativo e precettivo.
d. Secondo il democristiano Fanfani, tutto ciò che riguarda l’azione sociale del nuovo Stato
deve entrare nel testo articolato della Costituzione: la norma concreta spetterà sì al legislatore
futuro, ma il principio deve essere indicato solennemente nel testo costituzionale. Non si parla
quindi di “desideri” (come affermava Calamandrei), bensì di precisa volontà.
e. Secondo il socialista Lelio Basso, occorre introdurre tali diritti direttamente nel testo della
Costituzione, senza però introdurre anche la giustificazione ideologica di questi. Questo
porterebbe infatti a un conflitto di ideologie, che vanno al di là della giuridicità della norma.
• Significato e portata della locuzione “diritti inviolabili dell’uomo”

La Costituzione adopera più volte il termine “diritti inviolabili” : in generale all’art. 2, e poi agli artt.
13, 14, 15 e 24. Occorre, in primo luogo, soffermarsi sul significato dell’inviolabilità:
- l’opinione più ricorrente fra gli studiosi la intende come sottrazione della disciplina di tali diritti
alla disponibilità del legislatore ordinario e di ogni altro pubblico potere, nonché del legislatore
costituzionale per quanto riguarda il loro “contenuto essenziale”. Nel caso del legislatore ordinario,
la sottrazione discende dalle regole di gerarchia delle fonti; nel caso di legislatore costituzionale,
invece, è frutto di interpretazione giurisprudenziale. Il riconoscimento e la garanzia dei diritti
inviolabili vennero compresi dai costituzionalisti tra i “limiti impliciti” alla revisione costituzionale
e secondo la Corte (sent. n. 1146 del 1988) rientrano tra i “principi supremi” che non possono
essere sovvertiti o modificati neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi
costituzionali.

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Inoltre, l’inviolabilità comporta l’ulteriore vincolo, in capo a Governo e pubbliche amministrazioni,
di poter procedere a restrizioni di tali diritti solo quando siano previste da leggi cui la Costituzione
riserva la disciplina della materia (a meno che la Costituzione non riservi già norme direttamente
applicabili).
- Vi è poi un ulteriore significato di “diritti inviolabili” in Costituzione, là dove designa i soli
diritti che formano oggetto di riserva di giurisdizione , oltre che riserva di legge. Si tratta della
libertà personale, della libertà di domicilio, della libertà e segretezza della corrispondenza e di
ogni altra forma di comunicazione (artt. 13, 14, 15) e della libertà di manifestazione del
pensiero (art.21). La riserva di giurisdizione consiste nell’attribuire ai soli giudici il potere di
procedere a restrizioni di tali diritti di libertà: anche in quei casi eccezionali in cui i provvedimenti
restrittivi sono adottati dall’autorità di pubblica sicurezza, quest’ultima deve comunque comunicarli
entro il terminedi 48h all’autorità giudiziaria, che può convalidarli o meno.
Il solo caso ulteriore in cui la Costituzione definisce “inviolabile” un singolo diritto è previsto all’art.
24 (“la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”, nel senso di processo).

Vediamo che la qualifica dell’inviolabilità ai diritti costituzionalmente garantiti non comporta che
essi non siano in alcun modo limitabili. Se così fosse, i pubblici poteri non potrebbero procedere
allerestrizioni previste dalla Costituzione nei confronti dei singoli diritti.
La qualifica piuttosto esclude la previsione di restrizioni diverse da quelle previste dalla
Costituzione, ad opera del legislatore ordinario; o da quelle che intacchino il contenuto essenziale
dei diritti, ad opera del legislatore costituzionale.
• La locuzione “diritti inviolabili dell’uomo” come clausola aperta o chiusa

Negli anni Settanta, di fronte all’emersione di “nuovi diritti” (inizialmente si trattava di diritti alla
riservatezza, all’immagine, al nome, non espressamente riconosciuti dalla Costituzione; ma i casi
sono aumentati successivamente), si pose la questione se l’art.2 si riferisse ai soli diritti inviolabili
riconosciuti dalla Costituzione (artt.13,14,15 e 24) come “clausola a fattispecie chiusa” oppure
come “clausola aperta” alle altre libertà e agli altri valori non espressamente tutelati dal testo
costituzionale (“costituzione materiale”).

Portate all’estremo, nessuna delle due tesi è convincente:


- come clausola chiusa: può comportare il rischio di generare contraddizioni insormontabili in una
rischiosa attività ermeneutica contrastante col principio di certezza del diritto. (es. conseguenze
dellamancata previsione espressa nella Costituzione del diritto alla vita o della libertà di coscienza);
- come clausola aperta: può comportare una svalutazione della Costituzione (immaginando una
fontedi diritti inviolabili concorrente con la Costituzione).

La Costituzione è un catalogo dei diritti governato da una clausola generale caratterizzata da ampia
formulazione (ad es. art. 2), e ripartito in Titoli facenti capo a “Rapporti” riferiti ai diversi ambiti
della convivenza (civili, etico-sociali, economici, politici). Già per queste sue caratteristiche, il
catalogo invita a cogliere anche quelle fattispecie di diritti da esso non contemplate, ma
desumibili in via interpretativa. La giurisprudenza costituzionale segue ormai questo
orientamento, superandocosì l’alternativa tra clausola aperta o chiusa dell’art.2

La questione resta aperta e di notevole interesse. Il diritto alla vita, ad esempio, ha trovato una
piena ed effettiva tutela come principio inviolabile dell’ordinamento seppur non annoverato fra
quelli cosìdefiniti in modo espresso.

• Il ricorso alla locuzione “diritti fondamentali” in luogo di “diritti inviolabili”

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La locuzione “diritti inviolabili” , imprescindibile per quanto riguarda i rapporti fra titolari di tali
diritti e pubblici poteri, presenta però il limite di non dire molto circa i rapporti intercorrenti tra i
diritti stessi.
Ecco perché molti giuristi preferiscono ricorrere alla locuzione “diritti fondamentali”, che ne
presuppone l’inviolabilità, ma offre un contenuto informativo più ricco.
Infatti:
- pone l’accento sul “fondamento” dell’ordinamento costituzionale: i diritti inviolabili
- suggerisce la reciproca implicazione fra diritti civili e sociali, nonché quella dei diritti civili e
socialicon i diritti politici: in quanto fondamentali per i cittadini sono indivisibili.

Tale locuzione, induce poi a porre la questione circa i rapporti reciproci fra i diritti stessi. All’epoca
dello Stato liberale, l’efficacia di tali diritti nei rapporti tra privati, ossia la c.d. efficacia
orizzontale dei diritti fondamentali, era esclusa (data la separazione netta tra diritto privato e
diritto costituzionale). Il costituzionalismo del secondo dopoguerra ha però mutato orientamento,
dato che la formazione nella società di poteri privati tali da determinare disparità strutturali nei
confronti di “soggetti deboli”, ha fatto sì che apposite enunciazioni costituzionali venissero dedicate
ai diritti o alle libertà di tali soggetti, al fine di correggere gli squilibri. Nella nostra Costituzione
questo orientamento permea le disposizioni dedicate al lavoro.
Inoltre, l’efficacia orizzontale dei diritti fondamenti rappresenta un aspetto della questione del
conflitto fra più diritti costituzionalmente garantiti, che si pone non tra singolo diritto e limiti
ad esso apposti da statuizione costituzionale, ma fra diritti tutelati da statuizioni costituzionali
diverse (es. tra libertà di manifestazione del pensiero e diritto alla riservatezza). Tale conflitto è
stato affrontato dalla Corte ricorrendo a tecniche interpretative che si sarebbero in seguito chiamate
di “bilanciamento” fra i diritti in questione.
• La ripartizione dei diritti fondamentali operata dalla Costituzione e il suo significato per le
classificazioni scientifiche

La Parte I della Costituzione, denominata “Diritti e doveri dei cittadini”, si ripartisce in quattro Titoli:
- Titolo I Rapporti civili (artt. 13-28)
- Titolo II Rapporti etico-sociali (artt. 29-34)
- Titolo III Rapporti economici ( artt. 35-47)
- Titolo IV Rapporti politici ( artt. 48-54)

E la ripartizione non coincide con le classificazioni correnti in ambito scientifico: ad esempio


nella classe dei diritti sociali i costituzionalisti fanno rientrare tanto il diritto alla salute quanto il
diritto all’assistenza, che nella Costituzione si trovano rispettivamente enunciati al Titolo I e II.
Vediamo le ragioni di questa mancata coincidenza:
- mentre le classificazioni scientifiche si riferiscono soltanto ai diritti la Costituzione distribuisce
nei quattro Titoli l’enunciazione non solo dei diritti ma anche dei doveri. Questo avviene non per
stabilire una meccanica coincidenza tra diritti e doveri, ma per fornire un orientamento circa le
situazioni soggettive di volta in volta enunciate.
- il fatto che la ripartizione avvenga a seconda dei “Rapporti” dimostra il carattere
intrinsecamente relazionale della persona. Postula in costante intreccio fra individuo, formazioni
sociali e pubblico potere, che si articola nelle diverse dimensioni della convivenza.
Questo però non vuol dire escludere l’utilità derivante dalle classificazioni scientifiche dei diritti
fondamentali, che però, quando si riferiscono agli stessi profili cui si riferisce la ripartizione
costituzionale per titoli, vanno rese compatibili.
• La distinzione fra libertà negative e positive

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Sempre in sede scientifica, si sono prospettate distinzioni di ordine generale fra i diritti
fondamentali: una prima distinzione è quella tra libertà negative e positive, precedentemente
incontrata a proposito del dibattito dei Costituenti sul Preambolo (vedi supra), sulla quale fece leva
Calamandrei per sostenere l’ipotesi di riconoscere nel testo della Costituzione solo le prime, in
quanto direttamente giustiziabili, e relegare le seconde nel Preambolo, in particolare i diritti sociali.
Questa tesi, dopo essere stata respinta dalla Costituente, continuò a circolare fra i commentatori della
Costituzione, finoa che non se ne dimostrò l’inconsistenza:
- in primo luogo, anche le libertà negative più tradizionali richiedono prestazioni da parte dello
Stato. Si pensi ad esempio all’art. 13 circa la “libertà personale”, dove lo Stato entra in gioco come
detentore legale del monopolio di forza: l’apparato della pubblica sicurezza, il funzionamento del
servizio carcerario, le spese necessarie al funzionamento della giurisdizione sono tutte prestazioni e
spese pubbliche;
- in secondo luogo, la visione delle libertà negative come “incontaminate” da interferenze del
pubblico potere riflette un’idea primitiva di libertà, che non tiene conto dell’evoluzione storica e
giuridica che ha superato l’idea di “ingerenza pubblica” ottocentesca (ossia, solo eccezionale).

Dunque, non solo i diritti sociali (prototipo delle libertà positive) ma anche i diritti civili
(prototipo delle libertà negative) presuppongono prestazioni pubbliche. A conferma di quanto
appena detto viè il secondo comma dell’art.117 che afferma che tra le materie oggetto di legislazione
esclusiva dello Stato vi è la “determinazione dei livelli delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali”.

Tuttavia, data questa evidente analogia, diritti civili e sociali si differenziano in ragione della
funzione che le prestazioni pubbliche vi assolvono:
- nel caso dei diritti civili, la prestazione pubblica costituisce spesso soltanto un presupposto (es.
art.13, dove la garanzia agli individui da possibili azioni arbitrarie degli agenti di polizia,
presupponel’apparato di polizia, le cui prestazioni sono però rivolte alla collettività);
- nel caso dei diritti sociali, la prestazione pubblica assurge a contenuto della fattispecie dei diritti
stessi (come nei casi del diritto all’assistenza o alla pensione).
A questa distinzione ne è collegata un’altra (risalente ai giuspubblicisti francesi Hauriou e Duguit)
tra:
- servizi pubblici a fruizione collettiva (es. difesa, pubblica sicurezza, protezione civile);
- servizi pubblici a fruizione individuale o privata (es. istruzione, salute, assistenza).
L’elemento comune è la prestazione pubblica consistente in un’erogazione di un’utilità per il
pubblico.
La distinzione riguarda i destinatari di tale erogazione:
- nel primo caso, la collettività si parla di “servizi pubblici in senso soggettivo”, in quanto prodotti
e distribuiti dai pubblici poteri; l’interesse alla prestazione non è tutelabile in sede giurisdizionale.
- nel secondo caso, i singoli si parla di “servizi pubblici solo in senso oggettivo”, in quanto i
soggetti abilitati alle prestazioni possono essere anche privati o organizzazioni del volontariato;
l’interesse del singolo alla prestazione è tutelabile in sede giurisdizionale.
• La classificazione dei diritti fondamentali in ragione della loro natura individuale o funzionale

Un’altra classificazione sorta all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione fu quella fra
diritti individuali e diritti funzionali, sul presupposto che nell’art.2:
- alcuni diritti sono attribuiti all’ “uomo” in quanto tale, ossia al singolo, per ciò che tali diritti
rappresentano nelle sue qualità universali o per l’appagamento egoistico dei suoi bisogni e desideri
individuali;
- altri invece sono attribuiti al singolo nella sua specifica qualità di membro o di partecipe di
determinate comunità, per le funzioni che in esse il singolo debba esplicare.

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La distinzione perseguiva una rilevante finalità pratica: quella di ritenere costituzionalmente
inammissibili o ammissibili limiti legislativi ai diritti di libertà, posti a tutela di esigenze
dell’ordinamento (es. ordine pubblico), a seconda che si tratti di diritti individuali (es. libertà di
manifestazione) oppure funzionali (es. libertà di associazione in partiti o libertà di iniziativa
economica).
Tuttavia, l’art.2 non considera i diritti dell’uomo come membro di formazioni sociali “meno
inviolabili” di quelli riconosciuti e garantiti al singolo, ma equipara, attraverso il “sia…sia”, il
trattamento da riservare ai diritti dell’uomo singolo a quello da riservare all’uomo partecipe.
Sottoporre i diritti inviolabili a limiti ulteriori rispetto a quelli previsti dalla costituzione urterebbe
contro l’art.2 dire che la libertà di manifestazione del pensiero è funzionale alla democrazia non
vuol dire legittimare limiti al contenuto della stessa, ma al contrario, li esclude.

• Il principio di eguaglianza dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo alla Costituzione


repubblicana

L’affermazione del principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge costituì un elemento
fondamentale del costituzionalismo realizzato dalle Rivoluzioni francese e americana del XVIII
secolo e successivamente radicato anche negli ordinamenti europei. L’affermazione contenuta nella
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 ossia che “gli uomini nascono
rimangono liberi ed eguali nei diritti” e che “le distinzioni sociali non possono essere fondate che
sull’utilità comune” si saldava con l’idea di cittadinanza intesa come condizione dell’individuo nei
rapporti con lo Stato.
- Questo impianto fu mantenuto dalle costituzioni approvate all’epoca dello Stato liberale
ottocentesco anche se, l’art. 24 dello Statuto Albertino nell’affermare che “Tutti i regnicoli,
qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge” e che “tutti godono egualmente
i diritti civili e politici” distingueva l’eguaglianza dei diritti civili e politici dall’eguaglianza
dinanzi alla legge sul presupposto che quest’ultima non si riferisse necessariamente al godimento
dei diritti testualmente indicati.
- Lo stesso principio ricorre poi nell’art. 3 della Costituzione del 1948 ma con una formulazione
diversa e più impegnativa:

Vediamo che l’eguaglianza davanti alla legge è garantita dalla Costituzione con maggior
ampiezzarispetto allo statuto Albertino:
1. in primo luogo, l’enunciazione è preceduta dalla formula “Tutti i cittadini hanno pari
dignità sociale” che illustra il fondamento di tale eguaglianza: in tanto si è eguali davanti
alla legge in quanto si è per la costituzione parimenti degni dal punto di vista sociale
(introdotto principio di dignità);
2. in secondo luogo, l’articolo è preceduto dall’art.2, dove il riconoscimento e la garanzia dei
diritti inviolabili dell’uomo ne presuppone già l’eguale trattamento: per cui la Costituzione,
a differenza dello Statuto, non deve ripetere in che cosa reputa che cittadini debbano essere
uguali davanti alla legge.
3. in terzo luogo, il principio di eguaglianza è specificato sotto forma di un divieto per il
legislatore di distinguere tra cittadini, disponendo trattamenti privilegiati a favore di alcuni
o discriminatori a danno di altri, in ragione delle condizioni soggettive indicate nell’articolo
(sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali sociali ). Qui, il
principio di eguaglianza davanti alla legge è formulato in senso opposto rispetto allo
Statuto,che lo riconosceva “qualunque fosse il titolo o il grado”, prescindendo da condizioni
soggettive, che venivano implicitamente ammesse. In ogni caso, il divieto si risolve in una
specificazione del principio di eguaglianza senza esaurirne la portata.
• Le interpretazioni del principio di eguaglianza davanti alla legge (o eguaglianza ‘formale’)

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Lungo è il dibattito, in sede sia giurisprudenziale sia scientifica, sull’interpretazione del “ principio
di eguaglianza davanti alla legge ”.
Con la sent. n.3 del 1957, la Corte Costituzionale si trovò a giudicare di una disposizione che
trattavain modo diseguali situazioni (ritenute dal legislatore) diverse. Tale disposizione consentiva a
un commercialista, in possesso del diploma di ragioniere, di iscriversi sia nell’albo degli esercenti
economia e commercio sia nell’albo dei ragionieri; mentre vietava al ragioniere di iscriversi
nell’albo degli esercenti economia e commercio, senza essersi previamente cancellato dall’albo dei
ragionieri.Secondo la Corte il principio di eguaglianza non va inteso nel senso che il legislatore non
possa dettare norme diverse per situazioni diverse, ma, lo stesso principio deve assicurare ad
ognuno eguaglianza di trattamento, quando eguali siano le condizioni soggettive e oggettive alle
quali le norme si riferiscono. La valutazione della rilevanza delle diversità non può non essere
riservata alla discrezionalità del legislatore, nell’osservanza dei limiti dell’art.3.
Che l’eguaglianza dinnanzi alla legge dovesse intendersi come trattamento eguale di situazioni
eguali e trattamento diseguale di situazioni diseguali, era affermazione basata sull’argomento logico
che untrattamento eguale di situazioni diseguali violerebbe il principio. Argomento che però presume
il fattoche in Costituzione manchi un vincolo assoluto per il legislatore a disciplinare, in via eguale,
tutte lesituazioni.
Nella sentenza la Corte riservava inoltre alla “discrezionalità del legislatore” la valutazione delle
diversità di situazioni in cui si trovano i soggetti dei rapporti da regolare. Invece, già tre anni più
tardi, con la sent. n 15 del 1960, la Corte giustificava una legge di Bolzano, che prevedeva che gli
aspiranti segretari dei Comuni posti al confine dovessero essere nati in tali Comuni e conoscere
lingua italiana e tedesca, in quanto “risponde alle esigenze del pubblico servizio in un settore ben
delineato”. La Corte aggiungeva che il principio di eguaglianza è violato anche quando “la legge
faccia un trattamento diverso ai cittadini che si trovino in eguali situazioni”. Il punto è che la
valutazione circa la ragionevolezza della differenziazione era stata compiuta dalla Corte e non dal
legislatore.
Da allora si può dire che la Corte si sia sempre riservato l’apprezzamento del rispetto del canone di
ragionevolezza da parte del legislatore, fondato però sul confronto, in termini di rispetto
dell’eguaglianza, fra la disciplina impugnata e altra ritenuta affine a quella impugnata, secondo il
criterio del tertium comparationis. Ma tale criterio non è sempre stato eseguito e il giudizio di
ragionevolezza si è sganciato dal giudizio sul rispetto dell’eguaglianza in una duplice direzione:
- intesa come canone di proporzionalità tra i fini della disciplina impugnata e gli strumenti disposti
per perseguirli;
- oppure, più raramente, come rispetto delle esigenze di giustizia sostanziale da parte della
disciplinaimpugnata.
• L’eguaglianza in senso sostanziale

A differenza del primo comma, il secondo comma dell’art.3 Cost. è privo di precedenti storici.
Riflette una scelta originaria dei Costituenti, convinti che l’eguaglianza davanti alla legge (o
formale, al primo comma) non consentisse di affrontare il problema delle c.d. disuguaglianze di
fatto. Per affrontare tale problema erano necessari interventi dei pubblici poteri. Allo scopo, i
Costituenti mossero dalla duplice presunzione della sussistenza nella società:
a. di “ostacoli di ordine economico e sociale” che “limitino di fatto la libertà e l’eguaglianza
dei cittadini”;
b. tali da “impedire il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Posero in capo alla Repubblica, intesa come sintesi di tutti gli enti e poteri pubblici, il “compito di
rimuovere” tali ostacoli.
La richiesta ai pubblici poteri di rimuovere tali ostacoli non va intesa nel senso di indirizzare la
persona umana verso un approdo precostituito e imposto, ma nell’assicurarne, il “pieno
sviluppo”,

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lasciando la libera scelta degli approdi preferiti; non consiste nell’inquadrare tutti i lavoratori in una
caserma, ma far sì che anche gli addetti ai lavori più umili possano partecipare all’organizzazione
della vita pubblica in modo “effettivo”.
In una società in cui ciascuno è posto in grado di sviluppare la propria persona e di partecipare
effettivamente alla vita pubblica non può essere ingabbiata in un modello, in ragione del dinamico
pluralismo che la contraddistingue. Pluralismo che comporta l’inevitabile e continuo riprodursi di
“ostacoli di ordine economico e sociale” , per questo motivo, il compito dei pubblici poteri di
rimuoverli è un compito permanente, mai esauribile in un insieme di interventi considerati
definitivi.Inoltre, tale compito va visto sempre in connessione con l’eguaglianza davanti alla legge:
- il primo comma enuncia il principio di eguaglianza dinnanzi alla legge o “in senso formale”;
- il secondo comma enuncia il principio di eguaglianza “in senso sostanziale” (consistendo nella
rimozione di ostacoli di fatto).
Questi due principi sono complementari e lo sono reciprocamente: ad esempio, come può
accadere che una legge che disponga a favore di quote obbligatorie di assunzione degli invalidi di
guerra sia giustificata in nome dell’eguaglianza sostanziale; la riserva obbligatoria di quote alle
donne nell’accesso alle cariche pubbliche elettive può apparire alla Corte ingiustificata per
violazione del divieto di distinzioni di sesso posto dal 1° comma dell’art.3.
Peraltro il principio di eguaglianza sostanziale non si presta facilmente a fungere da parametro di
legittimità costituzionale delle leggi, dato che il compito di rimuovere gli ostacoli presuppone
scelte politiche ritenute proprie del legislatore: quasi mai troviamo leggi annullate per violazione di
tale principio (dato che la Corte dovrebbe poi ricorrere a una sentenza additiva, indicando
l’intervento del legislatore, con una forte ingerenza nell’attività di quest’ultimo); il legislatore in
primis non ha mai fatto ricorso a tale principio astrattamente e in sè.
• Lo ‘status’ di cittadino

Il solo espresso riferimento alla cittadinanza, all’interno della Costituzione, è negativo ed è


l’art.22 che afferma: “Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica,
della cittadinanza, del nome”. La disposizione riflette il rifiuto di esporre scelte su situazioni
soggettive fondamentali, come appunto la cittadinanza. Ma perché la Costituzione non disciplina in
positivo lo status di cittadino?
Ritroviamo due possibili ragioni:
1. La discrezionalità solitamente attribuita al legislatore sui modi di acquisizione della
cittadinanza: ius soli, secondo cui si considera cittadino chi risieda stabilmente sul
territorio dello Statto; ius sanguinis, che si basa sulla discendenza di un individuo dal
cittadino dello Stato.
2. La Costituzione non configura tale status come criterio di individuazione dell’appartenenza
del singolo al popolo e, attraverso questo, allo Stato. Lo vede piuttosto come un aspetto
delle modalità di esercizio e della garanzia dei diritti fondamentali nonché
dell’adempimento deidoveri inderogabili costituzionalmente riconosciuti.
• La condizione giuridica e i diritti fondamentali degli stranieri

Secondo l’art.10, secondo comma, Cost. : “La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla
legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali”. Dato che il primo comma dello stesso
articolo afferma che “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto
internazionale generalmente riconosciute”, il secondo comma va interpretato nel senso che la
disciplina della condizione giuridica dello straniero, laddove non disciplinata da consuetudini
internazionali (“norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”), va regolata con
legge, che deve adeguarsi all’ordinamento internazionale. Questa disciplina mira a superare il
principio di reciprocità previsto dall’art.16 delle Disposizioni preliminari al codice civile (“lo
straniero è

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ammesso a godere dei diritti civili attribuiti al cittadino a condizione di reciprocità”), riflettendo
l’apertura verso la comunità internazionale che animava i Costituenti.

È più dubbio invece se l’attribuzione allo straniero dei diritti fondamentali riconosciuti ai cittadini
italiani sia rimessa alla legge cui fa riferimento l’art.10 Cost., se non altro per l’attribuzione
all’uomodei diritti inviolabili contenuta all’art.2 Cost. e di alcuni diritti inviolabili specificatamente
riconosciuti a tutti anziché ai soli cittadini (artt. 19,21,24).
Poiché però altri articoli della Costituzione, a cominciare dall’art.3, fanno riferimento ai cittadini,
dottrina e giurisprudenza hanno dovuto ricercare una soluzione. La Corte, fin dalla sent. n. 120 del
1967, si è sempre attenuta all’indirizzo secondo cui “se è vero che l’art.3 si riferisce ai soli
cittadini, è anche certo che il principio di eguaglianza vale pure per lo straniero quando si tratta di
rispettare tali diritti fondamentali”. Questo orientamento è stato confermato poi con la sent. n. 62 del
1994, con la quale ha differenziato nettamente la situazione dello straniero residente (che gode dei
diritti fondamentali nei termini ora visti), da quella dello straniero che richiede di uscire dal
territorio della Repubblica e di rientrarvi (posizione peculiare e non comparabile con quella del
cittadino, per la mancanza di un nesso giuridico con lo Stato italiano), con la conseguenza che la
regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno dello straniero è rimessa alla discrezionalità del
legislatore.
Il legislatore ha recepito la distinzione, prevista dalla Corte, con il d.lgs. n.286 del 1998:
1. riconoscendo allo straniero i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme
di diritto interno, dalle convenzioni internazionali e dai principi di diritto internazionale
generalmente riconosciuti;
2. disciplinando con specifiche disposizioni l’ingresso e il soggiorno degli stranieri.

- Per quanto riguarda il primo aspetto, la normativa parla di “diritti fondamentali della persona
umana”, escludendo implicitamente il diritto di voto, riconosciuto ai soli cittadini in ragione della
specifica connessione con lo status di membro della comunità politica, ricollegato alla cittadinanza.
Secondo alcuni costituzionalisti, un’estensione del diritto di voto agli stranieri residenti
contrasterebbe con la qualificazione costituzionale di “elettori” e con il principio democratico;
secondo altri invece, tali ostacoli non sussisterebbero. Vediamo che, per quanto riguarda gli
stranieri regolarmente residenti che adempiono ai doveri costituzionali, il mancato riconoscimento
del diritto di voto si risolve in una disparità di trattamento rispetto ai cittadini. Nonostante la
discrezionalità del legislatore (circa la cittadinanza e requisiti dello status di cittadino), non può
negarsi che la categoriadi stranieri residenti si trovi nella medesima situazione dei cittadini: non solo
nel godimento dei diritti inviolabili; ma anche nell’assolvimento dei doveri inderogabili. Il mancato
riconoscimento dello status di cittadino in capo ad essi si traduce in un’illegittima differenziazione.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, l’ingresso e il soggiorno degli stranieri vediamo che
o l’ingresso è subordinato a un visto rilasciato da ambasciate o consolati italiani presso lo Stato di
cui lo straniero richiedente è cittadino e, se motivato da ragioni di lavoro, deve rispettare
determinate quote stabilite annualmente con decreto governativo.
o Per il soggiorno è richiesto un permesso temporaneo, rilasciato dal questore della provincia in
cui lo straniero si trova, o un permesso a tempo indeterminato per lo straniero che si trovi
regolarmente in Italia da almeno cinque anni e dimostri di trovarsi in possesso di determinati
requisiti.
Quanto agli stranieri che risultino soggiornare irregolarmente sul territorio nazionale, sono
previste le sanzioni dell’espulsione, oppure (quando non la si possa eseguire immediatamente)
del trattenimento presso i centri di identificazione ed espulsione.
In caso di trasgressione dell’ordine di espulsione ed allontanamento, è stata introdotta prima
come aggravante del reato la clandestinità e poi lo specifico reato di immigrazione clandestina.
La Corte ha però dichiarato illegittima la norma sull’aggravante di clandestinità che, sulla base
di una presunzione della maggior pericolosità dell’immigrato irregolare, colpisce il soggetto in
ragione di una qualità che viene astrattamente ascritta, violando così l’art. 25 Cost. secondo cui

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“un soggetto debba essere sanzionato per le condotte tenute e non per le sue qualità personali”
(sent. n. 249 del 2010).
Allo straniero che richieda asilo, l’art. 10, 3° comma, riserva un trattamento specifico secondo cui
“Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche
garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le
condizioni stabilite dalla legge” legge che però tuttora manca (salvo le condizioni di maggior
favore per il rilascio del permesso di soggiorno ai richiedenti asilo previste dalla l. n. 189 del 2002).

La categoria dei rifugiati, introdotta con la Convenzione di Ginevra del 1951 (ratificata con legge
del 1954), comprende invece gli stranieri che per fondati timore di venire perseguitati per motivi di
razza, religione, nazionalità, condizione sociale o opinione politica, si trovino fuori dal territorio
dello Stato di cui siano cittadini.
Procedimento: 1) la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato deve essere presentata
presso l’ufficio di polizia di frontiera o alla questura; 2) viene esaminata da Commissioni apposite,
le quali debbono accertare se il timore di persecuzione sia fondato, se la violazione dei diritti umani
sia sufficientemente grave e se il richiedente abbia commesso reati gravi o non ricada fra le altre
ipotesi per le quali la Convenzione ha escluso l’accoglimento della domanda; 3) se la Commissione
accerta la ricorrenza di tale status, a costui è accordato un trattamento di maggior favore anche
rispetto ai richiedenti asilo.
• La cittadinanza europea

Differenziato da quello dello straniero è lo status di cittadino degli Stati membri dell’Unione
europea. Con il Trattato istitutivo dell’UE, stipulato a Maastricht nel 1992, è stata introdotta la
cittadinanza europea, che si acquista automaticamente all’atto di acquisizione della cittadinanza
diuno Stato membro dell’Unione, e che si concretizza in una serie di diritti, in aggiunta a quello di
libertà di circolazione e soggiorno nel territorio degli Stati membri (previsto fin dal Trattato di
Romadel 1957), che comprende:
- diritto alla tutela delle autorità diplomatiche di ogni Stato membro a favore del cittadino europeo
che si trovi in un paese terzo;
- diritto di petizione al Parlamento europeo;
- diritto di ricorrere al Mediatore europeo;
- diritto di elettorato attivo e passivo nello Stato di residenza alle stesse condizione dei cittadini di
tale Stato per le elezioni comunali e per quelle di rinnovo del Parlamento europeo.
Più di recente, la “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”, allegata al Trattato di
Lisbona (entrato in vigore nel 2009), ha dettato un organico catalogo di diritti nei confronti degli
atti dell’UE e di quelli degli Stati membri esclusivamente “nell’attuazione del diritto dell’Unione”
(art.51). La Carta ha contribuito a costruire un sistema di protezione dei diritti nell’ordinamento
dell’Unione, che fino ad allora era rimesso alla Corte di giustizia che tutelava i cittadini contro le
violazioni degli atti degli Stati membri, ma non nei confronti di atti dell’Unione lesivi di diritti
fondamentali. Il sistema di protezione, quindi, risulta sempre più intrecciato con quelli degli
ordinamenti degli Stati membri, con difficili demarcazioni dei confini fra giurisdizioni nazionali e
dell’Unione.

• La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
(CEDU)

La Convenzione europea dei diritti dell’uomo fu stipulata a Roma nel 1950 dagli Stati membri
del Consiglio d’Europa, organizzazione internazionale che radunava la gran parte degli Stati del
solo versante occidentale del continente, per dar vita a un sistema di protezione internazionale dei
diritti dell’uomo nei confronti degli atti degli Stati membri nel caso di lesioni di tali diritti. Si
tratta di un

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sistema di protezione sussidiario rispetto ai sistemi nazionali, poiché la sua attivazione presuppone
che siano già stati esperiti tutti i ricorsi giurisdizionali previsti dagli ordinamenti nazionali.
La Convenzione contiene un catalogo dei diritti civili e politici.
Rispetto alla Costituzione italiana, a parte la mancata previsione dei diritti sociali, la CEDU
contiene limiti più stringenti ai diritti civili: il limite posto alla libertà di pensiero, di coscienza, di
religione delle “misure necessarie alla pubblica sicurezza, protezione dell’ordine, salute e morale
pubblica” non trova riscontro nell’art.19 Cost.; né i limiti alla libertà di espressione e di riunione e
di associazione compare nel testo degli artt. 21,17 e 18 Cost. Per contro, però, la CEDU prevede
espressamente il diritto alla vita, la proibizione della tortura e la proibizione della schiavitù e
dellavoro forzato, che non risultato testualmente indicati dalla nostra Costituzione.

La garanzia giurisdizionale dei diritti riconosciuti dalla Convenzione europea è rimessa alla
Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo. Le sue sentenze accertano se l’atto
dello Statomembro impugnato ha violato uno dei diritti riconosciuti dalla Convenzione, e in tal caso
lo Stato inquestione vi si dovrà conformare (art. 46 CEDU).

Per lungo periodo la Corte costituzionale italiana aveva considerato il catalogo dei diritti della
CEDU come un “mero ausilio interpretativo” nella giurisprudenza sui diritti fondamentali, anche
per la considerazione della legge di esecuzione della CEDU come legge ordinaria e perciò
suscettibile di abrogazione ad opera di leggi nazionali successive (criterio cronologico). Un netto
mutamento di indirizzo si avrà con le sentenze nn. 348 4 249 del 2007. In esse la Corte, facendo
leva sul vincolo degli “obblighi internazionali” posto alle leggi dello Stato e delle Regioni
dall’art.117 (dopo la modifica del 2001), ha configurato la legge di esecuzione della CEDU come
norma interposta fra la Costituzione e la legge ordinaria di volta in volta oggetto del giudizio di
costituzionalità. Il che ha comportato l’obbligo per i giudici comuni di promuovere un giudizio
davanti alla Corte ogni volta che dubitino della legittimità costituzionale di leggi nazionali in
riferimento alla CEDU.

II. LIBERTÀ CIVILI

• Libertà personale

L’ art.13, 1° comma, Cost. afferma: “La libertà personale è inviolabile”. Una prima questione è
sela parola “personale” riguardi solo la sfera fisica della persona o anche quella psichica.
Infatti, libertà personale inviolabile dell’art. 13 comma 1 può essere intesa: a) in senso fisico
(habeas corpus) ossia libertà dagli arresti ed ogni altra restrizione, e allora bisogna guardare all’art.
13 commi 2 e segg. e 25; b) in senso psicofisico (habeas mentem) e allora bisogna guardare all’art.
2 e a tutti i diritti personalissimi, che riguardano cioè̀ l’identità̀ della persona, e quindi riconducibili
all’uomo “come singolo e nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità” (costituisce
l'indispensabile condizione per poter godere dell'autonomia ed indipendenza necessarie per
esercitaregli altri diritti fondamentali).
Mentre l’ habeas corpus, ossia la garanzia della libertà dagli arresti, risale agli albori del
costituzionalismo (Magna Charta libertatum, 1215); l’habeas mentem, ossia la libertà psichica della
persona, è stata garantita molto più di recente da alcune Costituzioni. Quella italiana, ad esempio,
che dedica i commi 2° e 3° dell’art.13 Cost. alle condizioni di legittimità della disciplina delle
restrizionidella libertà fisica, prevede al 4° comma che “è punita ogni violenza fisica e morale sulle
persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”, cui si correda il divieto di infliggere al
condannato “trattamenti contrari al senso di umanità” (art.27, 3°comma). Non vi sono dunque dubbi
che, sul pianodel diritto positivo, la libertà personale comprenda la sfera psichica.

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Si può notare, casomai, che per quanto riguarda il riconoscimento di tale libertà personale, mentre
sul piano psichico si traduce in divieti suscettibili di specificazione legislativa (ad es. il senso di
“violenza morale” è rimesso alla legge), sul piano fisico diventa molto più stringente. Infatti, la
Corte costituzionale affermò, con la sent. n. 11 del 1956, che “il diritto di libertà personale non si
presenta come illimitato potere di disposizione della persona fisica, bensì come diritto a che
l’opposto potere di coazione personale, di cui lo Stato è titolare, non sia esercitato se non in
determinate circostanze e col rispetto di talune forme.” Vediamo quindi che l’art.13 presuppone
prestazioni pubbliche volte a tutelare la sicurezza collettiva nei confronti della violenza privata
(potere di coazione personale) ma le sottopone a limiti di esercizio molto stringenti, poiché mettono
in gioco la libertà individuale.
Ecco perché la pena privativa della libertà personale si mostra come “un’arma a doppio taglio”
perché impedendo l’aggressione a certi beni giuridici, aggredisce esso stesso altri beni, ossia la
libertà dell’individuo destinatario della sanzione. Per questo motivo, i Costituenti hanno previsto:
- due istituti volti a garantire l’individuo, ossia riserva assoluta di legge, ossia la competenza
esclusiva della legislazione ordinaria a disciplinare l'inviolabilità della libertà personale e riserva
digiurisdizione, ossia che solo l'autorità giudiziaria può emanare provvedimenti restrittivi (habeas
corpus),
- una serie di regole dettagliate.

Tali istituti e regole operano diversamente, a seconda che non ricorrano (2°comma) o ricorrano
(3°comma) “casi eccezionali di necessità e urgenza”:
o Nel primo caso, comma 2, la disciplina generale prevede che qualunque forma di restrizione
della libertà personale, anche diversa da detenzione, ispezione o perquisizione personale, sia
ammessa solo “per atto motivato dell’autorità giudiziaria” (riserva di giurisdizione) e “nei
soli casi e modi previsti dalla legge” (riserva di legge). Questo vuol dire che la polizia
giudiziaria, che dipende funzionalmente dal pubblico ministero (art.109) e organicamente
dal Governo, non può procedere senza atto motivato del pubblico ministero, atto che a sua
volta deve rientrare fra i modi e casi previsti dalla legge (riserva assoluta di legge).
o Nel secondo caso, comma 3, in “casi eccezionali di necessità e urgenza” la Costituzione
prevede una deroga alla disciplina generale. Anzitutto tali casi devono essere “indicati
tassativamente dalla legge” (l’avverbio esclude che se ne possano dare interpretazioni
estensive o procedersi in via analogica). Qui la riserva di legge è rinforzata, nel senso che
il legislatore è tenuto a uniformarsi a prescrizioni costituzionali. In questi casi tassativi,
l’autorità di pubblica sicurezza, ossia la polizia giudiziaria, “può adottare provvedimenti
provvisori”, restrittivi della libertà personale, che vanno comunicati entro 48ore all’autorità
giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive 48ore, si intendono “revocati e privi
di ogni effetto”.Sono regole abbastanza dettagliate per impedire che una materia così delicata
possa essere esposta a possibili arbitri da parte del legislatore.

Gli strumenti restrittivi della libertà personale utilizzabili dalla polizia, disciplinati dal codice di
procedura penale, sono l’arresto in flagranza e il fermo:
1. La flagranza è descritta come lo stato di “chi viene colto nell’atto di commettere il delitto”
o “chi, subito dopo il reato, è inseguito dalla polizia giudiziaria, dalla persona offesa o da
altre persone, ovvero è sorpreso con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia
commesso il reato immediatamente prima”. In questi casi, è previsto l’arresto ove si tratti di
un delitto non colposo, consumato o tentato: può essere “obbligatorio” quando per quel
delitto sia previsto l’ergastolo o una reclusione fra i 5 e i 20 anni; o “facoltativo” quando per
quel delitto sia prevista una reclusione massima superiore a 3 anni.
2. Il fermo è invece previsto dal codice a 2 condizioni:
- anche fuori dai casi di flagranza “quando sussistono specifici elementi che, anche in
relazione all’impossibilità di identificare l’indiziato, fanno ritenere fondato il pericolo di
fuga”;

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- quando la persona sia “gravemente indiziata di un delitto per il quale la legge stabilisce la
pena all’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a 2 anni e superiore nel
massimo a 6 anni, ovvero di un delitto concernenti le armi da guerra e gli esplosivi”.
≠ Le due discipline, arresto in flagranza e fermo, differiscono tra loro non solo per la fattispecie, ma
soprattutto perché diversi sono i requisiti circa la conformità a Costituzione dell’una e dell’altra:
o L’arresto in flagranza comporta infatti, una volta provata la flagranza, la certezza che
l’arrestato abbia commesso il fatto, salvo a provare che quel fatto sia previsto come reato.
o Per quanto riguarda il fermo, ogni valutazione circa la legittimità costituzionale della sua
disciplina, deve pertanto tener conto che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla
condanna definitiva”(art.27, 2° comma):c.d. presunzione costituzionale di non
colpevolezza.

Anche l’obbligo in capo al legislatore di determinare i limiti massimi della carcerazione


preventiva, comma 5° art.13, va collegato al rispetto della presunzione di non colpevolezza
dell’imputato. Se infatti il legislatore fosse arbitro assoluto di fissare i limiti temporali della
carcerazione preventiva, la c.d. “custodia cautelare”, questa diventerebbe una pena anticipata.
Secondo la Corte, pronunciatasi a tal riguardo con la sent. n. 229 del 2005, i limiti che deve
incontrare la durata della custodia cautelare, discendono direttamente dalla natura servente che la
Costituzione assegna alla carcerazione preventiva (così come ad arresto in flagranza e fermo) sia
rispetto al perseguimento delle finalità del processo penale sia alle esigenze di tutela della
collettività, così da giustificare il temporaneo sacrificio della libertà personale di chi non è ancora
colpevole.
Inoltre, a garanzia di chi è stato prosciolto, è previsto l’istituto della riparazione, a carattere
patrimoniale, per ingiusta detenzione, in attuazione dell’art.24, 4° comma Cost., secondo cui “la
legge determina le condizioni e i modi di riparazione degli errori giudiziari”. La Corte, con la
sent.
n. 219 del 2008, ha esteso tale istituto al condannato che sia rimasto detenuto per una durata
superiorea quella della pena che gli era stata comminata.

Da quanto detto emerge come le garanzie nei confronti di misure restrittive della libertà personale,
se trovano la loro sede primaria nell’art.13, non si esauriscono in esso, ma se ne incontrano di
ulteriori in altri principi, costituzionalmente previsti, come ad esempio gli artt. 27, 2°comma o 24,
4°comma.Inoltre, le garanzie predisposte dall’art.13 trovano ulteriore rafforzamento nell’art.111, 7°
comma che afferma “contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale è sempre
ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge”; in alternativa, l’imputato può chiedere il
riesame dellemisure coercitive adottate nei suoi confronti al Tribunale della libertà.

Oltre alla disciplina delle restrizioni della libertà personale prevista dall’art.13, la Costituzione
dopo aver sancito all’art.25, 2° comma, il principio nullum crimen sine praevia lege poenali
(“Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto
commesso”) prevede, al comma 3°, che “nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se
non nei casi previsti dalla legge”.
Le misure di sicurezza si basano sulla previa commissione dei reati, vengono disposte dal giudice
co la stessa sentenza di condanna quali sue ulteriori conseguenze, e sono eseguite al termine
dell’esecuzione della pena, come ad esempio la libertà vigilata, al fine di prevenire nuovi reati e di
reinserire il condannato nella vita civile.
Diverse da tali misure sono le misure di prevenzione, che consistono nella “sorveglianza
speciale”,nel divieto di soggiorno in uno o più comuni e nell’obbligo di soggiorno in un Comune, le
quali prescindono dal processo penale. Esse sono previste da leggi speciali (es. l. n. 1423 del 1956)
a carico di soggetti sospettati di pericolo per la sicurezza pubblica (es. dediti a traffici delittuosi,
indiziati di appartenere ad associazioni mafiose, persone denunciate, condannate per porto d’armi
ecc.). Il potere di disporre di tali misure spetta all’autorità giudiziaria. Nonostante la Corte abbia
ricompreso le misure di prevenzione tra le misure di sicurezza (data la comune finalità di
prevenzione di fronte alla pericolosità del soggetto), molti costituzionalisti continuano a
dubitare della loro

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legittimità sia per la differenza rispetto alle misure di sicurezza sia perché la sola attribuzione al
giudice di comminare tali misure non basta a escludere la violazione di principi costituzionali, tra i
quali ad esempio, la presunzione di non colpevolezza.
Per quanto riguarda il divieto posto dall’art.13,4°comma di “ogni violenza fisica o morale sulle
persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà” che, vedi supra, consente di includere
nella nozione di libertà personale anche la sfera psichica dell’individuo. Data la sua ampia
formulazione (“ogni violenza”), il divieto equivale innanzitutto a escludere il ricorso a strumenti di
tortura.
Strumento del pari vietato dall’art.1 della “Convenzione contro la tortura” delle Nazioni Unite del
1984, secondo cui il termine “tortura” indica: qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona
dolore o sofferenze, fisiche o psichiche, al fine di ottenere da questa o da un terzo informazioni o
confessioni, di punirla per un atto che questa o un terzo ha commesso, di intimidirla o esercitare
pressioni su di lei o su un terzo, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di
discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da
qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, oppure con il suo consenso espresso o tacito.
Nel 1988 l’Italia ratificava la Convenzione, la quale però richiedeva alle parti contraenti
l’introduzione del reato di tortura, che in Italia non era ancora stato introdotto. Nel 2015 la Corte
europea dei diritti dell’uomo riteneva inadeguata la legislazione italiana, invitando l’Italia a
introdurretale rato. A tale adempimento si è provveduto con l.n.110 del 2017, intitolata “Introduzione
del delittodi tortura nell’ordinamento italiano”.
o Libertà di domicilio

Questione: la nozione di domicilio deve intendersi nel senso di “sede principale degli affari e degli
interessi della persona” (art.43 c.c.), oppure nel senso più ampio di “luogo di privata dimora”
(art.614cod.pen.), o ancora in un senso diverso?
Dato che l’art.14 Cost. non solo qualifica il domicilio come “inviolabile” ma aggiunge che le
restrizioni alla relativa libertà (“ispezioni, perquisizioni e sequestri”) possono eseguirsi solo “nei
casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale”,
vediamo che la nozione costituzionale di domicilio è più ampia di quella civilistica e
penalistica: è “quasi prolungamento” della libertà personale, costituendo il domicilio l’ambito
necessario allo svolgimento della personalità e soddisfacendo il “diritto all’intimità”, ossia la
pretesa all’esclusione di ogni altro da qualsiasi intrusione nella sfera della vita privata, che si svolge
nelle varie direzioni enei vari ambiti delle o dei quali si ha disponibilità.
Dunque, ai sensi dell’art.14, non solo la casa di abitazione, ma anche una camera d’albergo o una
roulotte può ritenersi “domicilio”, così come l’ambiente ove l’individuo svolga il proprio lavoro.
L’oggetto della tutela quindi non sono la casa, o altri beni in quanto tali, ma la sfera della vita
privata: rappresenta dunque uno dei punti di distacco dal costituzionalismo dello Stato liberale,
doveinvece la tutela dell’individuo era riferita al diritto di proprietà di determinati beni.
Per quanto riguarda le modalità delle restrizioni alla relativa libertà, esse sono costituzionalmente
ammesse dall’art.14, il quale le equipara in linea generale a quelle della libertà personale, ma il 3°
comma riserva a “leggi speciali” la disciplina de “gli accertamenti e le ispezioni per motivi di
sanità e di incolumità pubblica o a fini economici fiscali”. In questi casi, tassativamente indicati, la
riserva di legge non si accompagna alla riserva di giurisdizione (a differenza delle restrizioni
poste alla libertà personale), dato che la Costituzione presume che il perseguimento di tali obiettivi
(sanità, incolumità ecc.) prevalga sull’esigenza di garanzia dell’intervento del giudice.
o Libertà di comunicazione

Secondo l’art. 15, l’inviolabilità della libertà e segretezza “della corrispondenza e di ogni altra
formadi comunicazione” può essere limitata “soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con
le garanzie stabilite dalla legge”. Incontriamo, di nuovo, i due istituti di riserva di legge e riserva
di

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giurisdizione (=libertà personale) ma la specificità di tale diritto consiste nel fatto che
l’inviolabilità copre non solo la libertà ma anche la segretezza. L’articolo protegge non solo la
libertà di inviare comunicazioni a chiunque e riceverle da chiunque, ma anche l’esercizio in segreto
di tale libertà.
Inoltre, a differenza della libertà personale e di quella di domicilio (che presuppongono un rapporto
diretto fra singolo e Stato) ≠ la libertà di comunicazione presuppone un rapporto tra due o più
individui, rispetto al quale lo Stato si pone come terzo: di conseguenza, le restrizioni all’esercizio
del diritto di comunicare del mittente valgono anche nei confronti del diritto del destinatario, e
viceversa.

In cosa consistono le “garanzie stabilite dalla legge”?


Può il legislatore limitare la libertà di comunicazione in nome dell’interesse pubblico o può farlo
soloquando l’interesse rifletta il perseguimento di altri principi costituzionali?
Se talvolta è la stessa Costituzione a dare risposta, come nel caso di libertà di domicilio (circa la
finalizzazione delle leggi speciali limitative della libertà); molto spesso le riserve di legge non
indicano le finalità in vista delle quali la legge può prevedere restrizioni dei diritti inviolabili
(non si tratta cioè di riserve rinforzate).
Allora in questi casi spetta alla Corte costituzionale ricostruire i limiti e le finalità che circondano
lariserva di legge. Nel caso della libertà di comunicazione la Corte ha affermato, con la sent. n. 366
del 1991, che: il limite posto dall’art.15 a interventi restrittivi del legislatore è individuato non in
un qualsiasi interesse pubblico, ma nella “stretta necessità” di un “inderogabile soddisfacimento di
un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante”.

Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione verificatosi negli ultimi anni, a partire da Internet, pone
agli interpreti il problema della delimitazione dell’area di tutela della libertà di comunicazione da
quella della libertà di manifestazione del pensiero (art.21). Il fatto che la Costituzione esprima il
massimo favore per gli strumenti attraverso cui le due libertà si esplichino (“ogni altra forma di
comunicazione” e “ogni altro mezzo di diffusione”) non esclude che non assoggetti a limiti diversi
le due libertà, il che comporta l’esigenza di una delimitazione tra le rispettive aree. Il criterio
adoperato, ricavabile dalla Costituzione, è quello di determinazione dei destinatari: se nel caso
della libertà di comunicazione i destinatari sono determinati, a tutela del diritto alla riservatezza, chi
intenda manifestare il proprio pensiero si rivolge a un pubblico indifferenziato dato che l’interesse
generaleè realizzato meglio garantendo la libera circolazione delle idee.
o Libertà di circolazione, di soggiorno ed espatrio

Secondo l’art.16 la libertà di circolazione e soggiorno si può esercitare “in qualsiasi parte del
territorio nazionale”, come anche conferma il divieto previsto all’art.120 alle Regioni di “adottare
provvedimenti che ostacoli in qualsiasi modo la libera circolazione di persone e delle cose tra le
Regioni”.
Le relative limitazioni sono stabilite con legge “in via generale per motivi di sanità o di
sicurezza” e non possono essere determinate da “ragioni politiche”. Le restrizioni alla libertà di
circolazione e soggiorno non formano oggetto di una riserva di giurisdizione, mentre la riserva di
legge è, oltre che assoluta, doppiamente rinforzata: “in via generale” e “per motivi di sanità o di
sicurezza”.
È proprio il divieto di leggi provvedimento, destinate a restringere la libertà di circolazione e di
soggiorno, che spiega perché secondo la Costituzione l’intervento giurisdizionale non sia
necessario.Infatti, proprio perché le limitazioni alla relativa libertà vanno disposte dalla legge in via
generale oltre che per i motivi, tassativamente indicati, della sanità e della sicurezza, sono ammessi
regolamenti esecutivi e ordinanze amministrative adottate alla stregua di tale normativa, seppur
sempre suscettibili di sindacato del giudice amministrativo.
Rimane invece controverso se l’inciso “in via generale”, collegato ai motivi di “sanità o di
sicurezza”, escluda o meno che le limitazioni possano presupporre giudizi sulla personalità o su
comportamento dei singoli. Per giustificare le misure di prevenzione, la Corte, con la sent.n.68 del
1964 rispose così:

20
il fatto che l’art.16 accomuni, mettendole sullo stesso piano, le ragioni di sanità e di sicurezza è
indice che non può trattarsi solo di ragioni di carattere generale ma anche da esigenze che si
riferiscono a casi individuali (si pensi alla necessità di isolare individui affetti da malattie
contagiose).
La libertà di circolazione rappresenta una delle libertà riconosciute con particolare ampiezza dal
diritto primario dell’Unione europea, oggetto di una significativa evoluzione:
1. Infatti, inizialmente, nel Tratto istituivo della Comunità economica europea del 1957, la
sola libertà riconosciuta, insieme a quella di concorrenza era la “libertà di circolazione delle
merci, delle persone, dei servizi e dei capitali” , confermando la finalizzazione
all’integrazione dei mercati. Era fin da allora vietata ogni discriminazione fra i lavoratori
subordinati in base alla nazionalità in riferimento alla circolazione sul territorio di Stati
membri diversi da quelloin cui il lavoratore era cittadino.
2. A partire dagli anni ’70, la giurisprudenza della Corte di Giustizia (e una serie di successive
direttive) estese la portata oggettiva e soggettiva della nozione di “lavoratori subordinati”
(fino a comprendere gli studenti Erasmus) preparando il terreno all’istituzione della
cittadinanza europea: nella sua dimensione transnazionale ha trovato formulazione nel
TUE del 1992, mentre la sua dimensione sovranazionale, circa le garanzie dei diritti dei
cittadini nei confronti degli atti dell’UE, è stata riconosciuta dalla Carta dei diritti
fondamentali dei cittadini europei di Nizza nel 2000 e poi allegata al Trattato di Lisbona
del2007.
3. Va infine menzionato l’accordo di Schengen del 1985, sull’eliminazione dei controlli alle
frontiere fra gli Stati membri dell’Ue che hanno sottoscritto l’accordo.

Il 2° comma dell’art.16 prevede che “ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della
Repubblica e di rientrarvi”, ossia la c.d. libertà di espatrio, riconosciuta “salvo gli obblighi di
legge”.
Dato che tali obblighi consistono nel munirsi di passaporto, per analizzare i margini effettivi di tale
libertà occorre guardare alla legislazione in materia: la legge vigente n.1185 del 1967 esclude un
potere discrezionale dell’autorità amministrativa circa il rilascio del passaporto, questa deve solo
accertare che il richiedente non rientri tra le categorie di soggetti che non possono ottenerlo (i
sottoposti a potestà dei genitori o a potestà tutoria privi dell’assenso della persona che la esercita; i
genitori con prole minore che non ottengano l’autorizzazione del giudice tutelare; i sottoposti a
misura di prevenzione o di sicurezza detentiva) e se non vi rientra, il richiedente vanta un diritto
soggettivo all’ottenimento del passaporto, tutelato dinnanzi al giudice amministrativo in sede
giurisdizionale.

Dalla libertà di espatrio la Costituzione distingue ≠ la libertà di emigrazione, prevista


dall’art.35,4° comma: “la Repubblica riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti
dalla legge nell’interesse generale”. La differenza consiste in quell’interesse generale, che configura
un’ulteriorelimitazione agli “obblighi di legge” dell’art.16.
o Libertà di manifestazione del pensiero

La libertà di manifestazione del pensiero, riconosciuta dall’art.21, ha portata cruciale nel nostro
ordinamento, confermata sia dalla sua riconduzione in sede scientifica fra le libertà “individuali”,
siadalla Corte costituzionale che l’ha definita come “pietra angolare dell’ordine democratico” (sent.
n. 84 del 1969). Abbiamo visto come la libertà di manifestazione del pensiero si distingua ≠ dalla
libertà di corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione (art.16), per il fatto che la libera
espressione del pensiero si riferisce a un pubblico indifferenziato, e non a determinati destinatari.
Il fatto che la manifestazione del pensiero si rivolga alla generalità, da un lato ne attesta il
carattereintersoggettivo e sociale (divulgare e persuadere), dall’altro, non basta a funzionalizzarla
a scopi determinati. Ed è questo un criterio per distinguere un ordinamento totalitario da uno
democratico: nel primo, si vietano le opinioni contrastanti con le verità del regime e si esigono
quelle utili al suo

21
rafforzamento; nel secondo, riconoscere il diritto di esprimere il proprio pensiero include quello di
non esprimerlo.
Infatti, con l’avverbio “liberamente”, la Costituzione riconosce e garantisce il risvolto negativo
della relativa libertà che si traduce nel “diritto al silenzio”, a non essere costretti a esprimere un’
opinione. Sempre dal 1° comma vediamo che la libertà di manifesta il proprio pensiero è
riconosciuta “con la parola, con lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, la latitudine della
libertà di manifestare il diffondere il proprio pensiero è la medesima della libertà di manifestarlo.
Tuttavia, la libertà di diffusione del pensiero non equivale né ad assenza di disciplina dei mezzi di
diffusione, né significa che tutti debbano essere messi in grado di utilizzare qualunque mezzo
disponibile. Come precisò la Corte con la sent. n.105 del 1972, il fatto che “tutti” possano
manifestare il proprio pensiero “con ogni mezzo”, non significa che tutti debbano avere la
materiale disponibilità di tutti i possibili mezzi, ma che a tutti la legge deve garantire la giuridica
possibilità diusare o di accedervi.

Dal 2° al 5° comma, l’articolo è dedicato alla disciplina delle libertà di stampa:


o 2° comma: contiene il divieto di autorizzazioni o censure, che non ammette alcuna deroga.
Netto è il distacco dall’art.28 dello Statuto albertino che, dopo aver proclamato la libertà di
stampa, aggiungeva “ma una legge ne reprime gli abusi”, vanificandola (cfr. fascismo);
o 3° comma: ritroviamo i due istituti della riserva di legge e della riserva di giurisdizione. La

restrizione ammessa è il sequestro dello stampato, disciplinato dalla l.n.47 del 1948 che
distingue le pubblicazioni periodiche da quelle non periodiche, prevedendo per tutte l’obbligo di
indicare nome e domicilio di stampatore e di editore, e solo per le prima anche quello di designare
un direttore responsabile. In caso di mancata indicazione del direttore responsabile, l’autorità
giudiziaria può motivatamente procedere a sequestro dello stampato, così come può procedervi
nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi;
o 4° comma: nei casi previsti dal comma precedente, “quando vi sia assoluta urgenza e non sia

possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria”, la polizia giudiziaria può procedere a


sequestro della stampa periodica e denunciarlo entro 24h all’autorità giudiziaria, che a sua volta
deve convalidarlo entro altre 24h, altrimenti il sequestro sarà “revocato e privo di ogni effetto”;
o 5°comma: prevede che la legge può “stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i

mezzi di finanziamento della stampa periodica”. Questo per assicurare la trasparenza della
proprietà dei giornali, fondamentale per una democrazia. Il quinto comma è stato attuato con
l.n.416 del 1981, intitolata “Disciplina delle imprese editrici e provvidenze per l’editoria”, che
istituiva anche un Garante per garantire la continuità di vigilanza del Parlamento sull’attuazione
della presente legge.

Infine, il 6° comma, vieta le “pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni
contrarie al buon costume”, riservando alla legge il potere di stabilire “provvedimenti adeguati a
prevenire e reprimere le violazioni”.
Come si nota, salvo il riferimento agli spettacoli, l’art.21 disciplina esclusivamente le modalità di
esercizio della libertà di stampa. L’attenzione dei Costituenti a questo specifico mezzo di
diffusione del pensiero si spiega con le numerose vicende di compressione della libertà di stampa
verificatosi in regime statutario, e proprio per questo può suonare anacronistica visto che dagli anni
30 la radio era presente nelle case degli italiani, pochi anni dopo la televisione, e altri nuovi mezzi
di diffusione.

Fino a che punto l’impressione la Costituzione del 1948 abbia guardato al passato può ritenersi
fondata?

In proposito occorre distinguere due aspetti a) la disciplina delle modalità per far valere i limiti
di contenuto alla libertà di espressione e delle altre regole del suo esercizio b) l’individuazione
di limiti di contenuto a tale libertà.

22
a) Le difficoltà tecniche che si incontrano nella ricerca dei responsabili dei reati diffusi in rete,
devono essere risolte con leggi (purchè conformi alla Costituzione) e non con un
aggiornamento della Costituzione.

Questo per due motivi:


-sia perchè la struttura rigida della Costituzione rischia di rendere obsolescenti le regole di
esercizio della libertà, mal conciliandosi con un continuo e celere sviluppo tecnologico;
- sia perché se le Costituzioni dettano in primo luogo princìpi, alla cui concretizzazione
provvedono spesso regole e istituti, questo vale soprattutto sul terreno dei diritti fondamentali.

b) Per quanto riguarda i limiti di contenuto alla libertà di manifestazione del pensiero, l’unico
limite previsto dall’art.21 (6° comma) a tutte le manifestazioni del pensiero è il “buon
costume”. Storicamente, l’accezione di tale espressione ha oscillato fra una massima di
“morale pubblica” e una minima di “oscenità”. I Costituenti, preoccupati per la protezione
della gioventù, oltre a prevedere il limite del buon costume, approvarono una legge sulla
censura degli spettacoli chelo configurava come “morale pubblica”.
Nella giurisprudenza costituzionale l’interpretazione del buon costume è stata finalizzata
all’esigenza di assicurare una convivenza sociale “conforme ai principi costituzionali
inviolabili”, con riguardo ai contenuti morali e alle modalità di espressione del costume
sessuale e con riguardo anche al “comune sentimento della morale”, inteso come contenuto
minimo. Soltanto quando la comunità civile viene colpita e offesa dalle pubblicazioni di
scritti o immagini, lesivi della dignità di ogni essere umano, avvertibili dall’intera collettività,
scatta la reazione dell’ordinamento. L’uso prudente dello strumento punitivo si spiega con la
necessitàdi non ignorare il valore cardine della libertà di manifestazione del pensiero.

Il limite dell’ordine pubblico non è invece previsto dall’art.21, né da questo può desumersi.
Tale esclusione non è casuale: nel caso della libertà di espressione, l’ordine pubblico non
potrebbe riguardare azioni o comportamenti (c.d. ordine pubblico materiale), bensì opinioni e
pensieri (c.d. ordine pubblico ideale),e la nostra Costituzione presuppone che anche le
opinioni più distanti da quelle comune siano le benvenute nel libero confronto tra punti di
vista.
(vedi sul libro sentenze della Corte: n.19 del 1962; n.87 del 1966 e n.168 del 1971).

Fra i beni pubblici costituzionalmente rilevanti che possono limitare le manifestazioni del
pensiero si annoverano:
- l’interesse al regolare funzionamento della giustizia, che giustifica il divieto di
pubblicazione in determinati atti processuali;
- l’interesse alla sicurezza dello Stato, in nome del quale è punita la rivelazione di segreti di
Stato, il segreto d’ufficio. Tuttavia, più che a libere manifestazioni del pensiero, i segreti
costituiscono un limite alla ricerca e all’acquisizione di notizie da parte dell’autorità
giudiziaria. Altri limiti di contenuto alla libertà di espressione costituzionalmente ammissibili
investono diritti o interessi dei singoli, quali:
- l’onore e la reputazione altrui, che trova fondamento nel principio di “pari dignità dell’art.3”;
- il diritto alla riservatezza.

Questi sono i principali limiti indicati nei manuali, soffermiamoci adesso su un complesso di
disposizioni di rango legislativo:
- legge sulla stampa, art.15: divieto di stampati che descrivano con “particolari
impressionanti, avvenimenti realmente verificati o anche immaginari, in modo da poter
provocare la diffusionedi suicidi o delitti”;

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- legge sulla stampa, art.4: divieto di trasmissioni che contengono “messaggi cifrati o di
carattere subliminale” o che contengono “incitamenti all’odio o che possono nuocere allo
sviluppo psichico, fisico o morale dei minori”;
- d.lgs. n.74 del 1992: sulla pubblicità ingannevole, ossia quella pubblicità che possa
minacciare la sicurezza dei minori e che abusi della loro naturale credulità o mancanza di
esperienza.
Tali disposizioni non sono previste solo a tutela dei minori, riguardando più ampiamente i casi
in cui il destinatario del messaggio o della trasmissione diventi oggetto passivo di un potere di
suggestione che va oltre il confine della persuasione (esempio nella modernità di tale
propaganda: i foreign fighters reclutati dallo Stato islamico grazie alla potenza di suggestione
di sofisticati filmati trasmessi su Internet).
• Libertà di religione

L’art.19 Cost. riconosce il diritto di “professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi
forma, individuale e associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il
culto, purchè non si tratti di riti contrari al buon costume”. Il riconoscimento di tale libertà trova un
complemento nel successivo art.20 Cost. secondo cui “il carattere ecclesiastico e il fine di
religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali
limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e
ogni forma di attività”.
Possiamo analizzare l’art.19 in parallelo con l’enunciato dell’art.9 CEDU “Ogni persona ha diritto alla
libertà di pensiero, di coscienza, di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di
manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto,
l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti”.
Tuttavia, mentre il solo limite posto dall’art.19 è il buon costume ≠ l’art.9 CEDU ammette la
legittimità di prevedere con legge “misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica
sicurezza, alla protezione dell’ordine , della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei
diritti o delle libertà altrui”.
Nonostante ciò, il parallelo con l’art.9 rimane significativo: in ambedue i casi, la libertà di religione
è accolta non solo in riferimento alle convinzioni religiose di ogni individuo (dimensione
interiore), ma anche come libertà di manifestarle all’esterno in qualsiasi forma (dimensione
esteriore), tanto chela nostra Costituzione parla di “farne propaganda”.
In altri Stati della CEDU (es. Francia), la libertà di religione è riconosciuta solo nel primo senso
(dimensione interiore) e ciò è dovuto a diverse versioni del principio di laicità ossia il carattere
non confessionale dello Stato moderno, che non significa indifferenza di fronte all’esperienza
religiosa ma comporta equidistanza e imparzialità della legislazione rispetto a tutte le confessioni
religiose.
L’art.19 qualifica tale principio come “equidistanza e imparzialità verso tutte le religioni” (sent.
n. 168 del 2005), richiedendo il pari trattamento delle religioni anche e soprattutto per le
manifestazioni esterne di ciascuna, e quale uno dei “principi supremi” dell’ordinamento
costituzionale (sent. n. 203 del 1989). Questi orientamenti della giurisprudenza costituzionale, però,
sono relativamente recenti: in una prima fase, la Corte riconosceva una speciale preminenza della
religione cattolica rispetto allealtre, tanto da giustificare disposizioni che punivano con sanzioni più
gravi il vilipendio portato alla prima (sent.n.125 del 1957), questo sia perché la religione cattolica
era professata dalla quasi totalità della popolazione italiana, sia perché pesava il perdurare dei Patti
Lateranensi del 1929 (che definivano la religione cattolica come “religione di Stato”). Con la
revisione del Concordato del 1985, che ha abolito la qualifica di “religione di Stato” e ha aperto la
via ad una equiparazione della religione cattolica alle altre anche nei rapporti istituzionali, la Corte
ha mutato giurisprudenza nel senso visto supra.

I principi di equidistanza e imparzialità fanno ormai parte del bagaglio della giurisprudenza della
Corte, che vi si è richiamata nei casi in cui era in discussione il rapporto tra libertà di religione

24
(art.19) e i rapporti dello Stato con le confessioni religiose diverse da quella cattolica (art.8). La
Corte ha però distinto l’eguale libertà di tutte le confessioni davanti alla legge e il diritto delle
confessioni diverse da quella cattolica di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non
contrastino con l’ordinamento giuridico italiano (art.8, commi 1° e 2°) ≠ dalla regolazione dei
rapporti di tali confessioni con lo Stato per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze
(comma 3°).
- La libertà di religione e l’eguale libertà di tutte le confessioni davanti alla legge, infatti, in
assenza di una legge generale sui procedimenti di intesa, non comporterebbero un obbligo per lo
Stato di avviare il procedimento di intesa con la singola confessione e una corrispondente
pretesa alla sua positiva conclusione. Infatti, secondo la sent. n. 52 del 2016 vi sono una serie di
motivi e vicende, non tipizzati, che possono indurre il Governo, al quale spetta ampia
discrezionalità, a non concedere all’associazione che lo richiede l’avvio delle trattative.
- L’eguale trattamento delle religioni è stato al centro di una controversia sollevata dalla madre di
uno studente davanti ai giudici amministrativi e poi, esauriti i ricorsi interni, davanti alla
CorteEDU, nei confronti del rifiuto dei dirigenti della scuola di rimuovere il crocefisso dalle pareti
dell’aula dove il figlio studiava, rifiuto motivato dall’obbligo di affiggere il crocefisso nelle aule
scolastiche previsto dai decreti regi del 1924 e 1925. La normativa italiana è stata ritenuta
compatibile con l’art.9 CEDU,con la motivazione che esso vieta l’indottrinamento e il proselitismo
di una religione, mentre nelle scuole italiane non è vietato agli allievi di indossare veli islamici o
altri abbigliamenti religiosi e vi si tengono corsi di insegnamento facoltativo di tutte le fedi religiose
riconosciute, senza che nulla induca a ravvisare un’intolleranza delle autorità verso alunni di altre
religioni o non credenti (Corte EDU, Lautsi c. Italie, 18 marzo 2011).
• Libertà dell’arte e della scienza

Secondo il 1° comma dell’art.33 Cost., “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è


l’insegnamento”. Il riconoscimento della libertà dell’arte e della scienza risponde a una pluralità di
esigenze:
- in primo luogo, quella di distinguere tali manifestazioni del pensiero dalle altre, al fine di
sottrarle al limite del buon costume previsto dall’art.21, anche se non al rispetto di altri diritti
inviolabili (es. caso estremo di scultura vivente, pag.414);
- in secondo luogo, l’enunciato esclude l’ipotesi di una scienza o di un’arte di Stato, nonché
protegge la libertà della scienza da condizionamenti esterni, non solo politici ma anche economici
provenienti da ogni potere, privato o pubblico. Sotto tale profilo, l’articolo va letto congiuntamente
all’art.9, 1°comma, secondo cui “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca
scientifica e tecnica”: tale compito, da realizzare anche con incentivi economici, non può per
questo condizionare i contenuti della ricerca.
• Diritto di difesa

Ai sensi del 1°comma dell’art. 24 Cost., “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri
diritti e interessi legittimi”.
Secondo la Corte (sent. n. 48 del 1968) si tratta di una “formulazione tanto generale da colpire
qualsiasi limitazione che ne renda impossibile o difficile l’esercizio da parte di uno qualunque degli
interessati”.
Come emerge dal 2° comma, il diritto di agire in giudizio si connette inscindibilmente
all’inviolabilità del diritto di difesa “in ogni stato e grado del procedimento”.
Inoltre, il diritto di agire in giudizio, si connette anche all’art.111, 2° comma, secondo cui “ogni
processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo
e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata” e all’art.113, 1°comma, che ammette
“sempre” la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi contro atti amministrativi.
Vediamo quindi con le espressioni “sempre”, “a tutti”, “in ogni processo” e “in ogni stato e grado
delprocedimento”, la Costituzione ha esplicitato il diritto alla tutela giurisdizionale.

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Inoltre, il diritto di difesa è munito dalla Costituzione di garanzie effettive:
1. l’obbligo per il legislatore di assicurare “ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per
agire e difendersi davanti a ogni giurisdizione.”, art.24 3°comma, che richiama l’istituto
delgratuito patrocinio, garantito dallo Stato;
2. il “giusto processo” e in particolare il principio del contraddittorio, ritenuto dalla Corte
coessenziale al diritto di difesa e previsto dall’art.111 Cost;
3. l’art.25,1°comma, affermando che “nessuno può essere distolto dal giudice naturale
precostituito per legge”, dispone una riserva di legge circa l’assegnazione delle competenze
giurisdizionali onde garantire che ogni controversia, prima che sorga, venga assegnata a un
ufficio giudiziario, in corrispondenza con il divieto posto dall’art. 102, 2° comma, di
istituiregiudici straordinari o speciali;
4. l’ obbligo di motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali sancito dall’art.111 nel
testo originario, che imponendo al giudice di indicare le ragioni di fatto e di diritto che ne
giustificano la decisione, consentono il sindacato giurisdizionale sulla stessa.

La Costituzione fornisce ulteriori e non meno importanti garanzie del diritto di difesa ma le
differenzia in ragione delle giurisdizioni:
5. come quella fondamentale dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudice, assicurata
nella sua pienezza ai giudici ordinari e in misura più attenuata ai giudici amministrativi,
contabili emilitari;
6. Sono poi regole specifiche, nei commi da 3 a 5 dell’art.111, per assicurare il principio del
contradditorio nel processo penale, il cui ulteriore svolgimento è rimesso alla legge. Tali
regole riguardano in primo luogo la persona accusata di un reato e consistono nell’obbligo
di informarla riservatamente e al più presto della “natura e dei motivi dell’accusa elevata a
suocarico”, nonché di consentirle di preparare la sua difesa, di interrogare o di far interrogare
persone che rendano dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio
di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa, di acquisire ogni mezzo di prova
a suo favore, di venire assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua
impiegata nel processo. L’articolo prevede in secondo luogo che il principio del
contraddittorio regola la formazione della prova, con specifico divieto di provare la
colpevolezza dell’imputato in base a dichiarazioni rese da “chi, per libera scelta, si è sempre
sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore”; eccezioni al principio
(ossia quando la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio” possono ammettersi
“per consenso dell’imputato, per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di
provata condotta illecita”.

L’art.111 fu soggetto a revisione nel 1999 necessaria per adeguare l’ordinamento italiano ai
principi sul giusto processo previsto dall’art.6 CEDU, uno dei quali, il principio di ragionevole
durata del processo, è stato frequente motivo di condanna dell’Italia da parte della CorteEDU per
l’eccessiva lunghezza dei processi. La modifica dell’art.111 non fu però sufficiente a risolvere il
problema, tanto che la Corte europea ha ritenuto che i ricorsi contro l’Italia per tale motivo, data la
loro frequenza, dovessero rientrare fra i casi oggettivi di “sentenze pilota”.

III. LIBERTÀ COLLETTIVE

• Libertà di riunione

La libertà di riunione, che rientra tra le libertà collettive, è riconosciuta dall’art.17, che dopo aver
stabilito le modalità con cui può esercitarsi, ossia “pacificamente e senz’armi” (1°comma),
esclude che per le riunioni in luogo aperto al pubblico debba darsi preavviso (2°comma), mentre lo
richiede

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per le riunioni in luogo pubblico, che le autorità di pubblica sicurezza possono vietare “soltanto per
comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica” (3°comma).
La “riunione” si differenzia sia dall’assembramento, dove l’incontro di più̀ persone è casuale, sia
dall’associazione, i cui membri sono legati da un ideale o un interesse che va oltre uno scopo
specificoche li porti a riunirsi.
La disciplina costituzionale attribuisce rilevanza alla compresenza fisica di più persone in un
certo luogo, non anche al fatto che queste non possono riunirsi se non in vista di un obiettivo. È la
compresenza a costituire il presupposto necessario e sufficiente a individuare tanto i limiti
all’esercizio del diritto a seconda dei diversi luoghi in cui la riunione può svolgersi, quanto i
congegniorganizzativi volti a farli valere:
- i limiti consistono per tutte le riunioni nello svolgimento pacifico e nell’assenza di armi e per vietare
le riunioni in luogo pubblico nell’assenza di comprovati motivi di sicurezza o incolumità pubblica;
- la libertà di riunione può essere esercitata:
a) in luogo privato, previo consenso di chi ne disponga giuridicamente (es. proprietario di
un’abitazione)
b) in luogo aperto al pubblico, subordinatamente alla condizione richiesta da chi ne disponga
anchemomentaneamente (es. pagamento del biglietto di accesso ad una fiera);
c) in luogo pubblico, previo preavviso all’autorità.
La disciplina di questa libertà conferma il favor libertatis che ispira la Costituzione, il suo spirito
di apertura alla più ampia interazione tra individui e circolazione delle idee, a differenza ≠ dello
Statuto che dopo aver riservato alla legge la disciplina dell’esercizio del diritto di riunione,
sottoponeva alle norme di polizia le adunanze in luogo pubblico e in luogo aperto al pubblico
(che entramberichiedevano il preavviso).
Il preavviso non è una richiesta di autorizzazione, che l’autorità di pubblica sicurezza possa o
meno conferire secondo valutazione discrezionale; bensì una comunicazione (recante giorno, ora,
luogo e oggetto della riunione, oltre alla generalità dei promotori) che i promotori devono inviare al
questore almeno 3 giorni prima, pena l’arresto e un’ammenda. Gli ulteriori effetti del mancato
preavviso possono consistere, secondo la sent. n. 54 del 1961, anche nello scioglimento della
riunione, anche se questa tesi presuppone un generale potere amministrativo di controllo preventivo
da ritenersi estraneo alla Costituzione ed estraneo, nello specifico, all’art.15 che tra i “comprovati
motivi” per cuil’autorità può vietare la riunione non fa rientrare il mancato preavviso.
• Libertà di associazione

La portata innovativa del riconoscimento di tale libertà è maggiore rispetto a quella della libertà
di riunione: mentre la libertà di riunione era riconosciuta dalle Carte del XIX secolo, quella di
associazione non lo era in ragione del sospetto che i poteri dei “corpi intermedi” potessero
interrompere la linea diretta tra individuo e autorità pubblica che caratterizzava l’epoca dello Stato
liberale in Europa. Dunque, il riconoscimento della libertà di associazione conferma la
prefigurazione di un modello pluralistico di convivenza (principio sancito dall’art.2 “nelle
formazioni sociali”) con la differenza che solo alcune formazioni sociali rientrano fra le
associazioni (es. partiti e sindacati) mentre in altre l’elemento associativo manca o è scarsamente
rilevante (es. famiglie, imprese, scuole), con la conseguenza che solo alle prime si applica la
disciplina dell’art.18.
Nel caso della libertà di associazione, a differenza della libertà di riunione, le finalità degli
associati acquistano rilevanza costituzionale. Attribuendo ai cittadini “il diritto di associarsi
liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale”,
l’art.18 coglie proprio neifini delle associazioni il carattere distintivo di tale libertà, che consente di
introdurre una disciplina di impianto altrettanto garantistico di quella riservata alle riunioni.
La libertà di associarsi “per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale” significa,
comedisse il relatore Basso all’Assemblea Costituente (seduta del 10 aprile 1947), che “tutto quello
che un cittadino può fare da solo, che può compiere senza urtare i precetti della legge penale, può
essere

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oggetto e scopo di associazione. Secondo la Corte (sent. n.417 del 1993) il riconoscimento
costituzionale della libertà di associazione rappresenta la proiezione, sul piano dell’azione
collettiva, della libertà individuale. Con la sent. n. 243 del 2001 la Corte, dopo aver dichiarato
illegittima, per violazione dell’art.21, una disposizione del codice penale che puniva “chiunque fa
propaganda per distruggere il sentimento nazionale”, dichiarò parimenti illegittima la disposizione
che puniva le condotte delle associazioni che svolgono attività dirette al medesimo scopo, dato che
se non è illecito penale per il singolo non lo è neppure per l’associazione volta a compiere ciò che è
consentito all’individuo (ossia per fini “che non siano vietati ai singoli da parte della legge penale).
L’intento garantistico si avverte inoltre nella previsione che i singoli possono associarsi
“liberamente”, oltre che “senza autorizzazione”.
La libertà di non associarsi riprende il significato delle, già analizzate, libertà di non manifestare il
proprio pensiero o di non professare una fede religiosa. Con la sent. n. 248 del 1997 la Corte ha,
però, giustificato le leggi richiedenti l’iscrizione obbligatoria ad enti pubblici associativi o ad
ordini professionali ai fini dell’esercizio della professione, purchè si tratti degli strumenti più
idonei a garantire diritti fondamentali. Solo a tale condizione potrebbe dunque giustificare, volta
per volta, l’obbligatoria adesione ad una associazione, in deroga al principio di libertà negativa
di associazione (vedi sul libro, pag,419, esempi di medici, avvocati e giornalisti).

Divieti specifici alla libertà di associarsi sono previsti, dal 2°comma dell’art.18, sono invece
previsti per “le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici
mediante organizzazioni di carattere militare”.
La proibizione delle prime è stata disciplinata, in via generale, dalla l. n. 17 del 1982, approvata
dopo la scoperta dell’elenco di affiliati a una Loggia massonica segreta dedita ad attività sovversive
dell’ordine costituzionale. La legge definisce “segreta”, e quindi vietata, l’associazione che occulti
la sua esistenza, o le sue finalità e attività, o i nomi dei soci, onde interferire sull’esercizio delle
funzioni di organi costituzionali o di pubbliche amministrazioni.
Quanto alle associazioni paramilitari aventi scopi politici, un decreto legislativo del 1948
(abrogato nel 2010) le individuava in quelle costituite con un inquadramento di membri e un ordine
interno analoghi al sistema militare, organizzate in modo da consentire azioni violente o minacce.
Al di là delle diverse vicende legislative, il tratto comune a queste due tipologie di associazione
proibite dalla Costituzione è costituito dall’intento di condizionare lo svolgimento di funzioni
pubbliche con modalità, come la segretezza o la strutturazione militare, tali da farne presumere
l’illiceità penale. In virtù di questa presunzione, la Costituzione introduce una deroga alla regola
generale secondo cui il singolo può associarsi per fini non vietati ai singoli dalla legge penale.
• Libertà di associarsi in partiti

Ai sensi dell’art.49, “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per
concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. L’articolo considera
dunque i (1) partiti come associazioni liberamente costituite e liberamente operanti e (2) il limite del
“metodo democratico” non impone loro il perseguimento di determinati fini, ma solo il rispetto di
procedure democratiche.
1. Per quanto riguarda il primo punto, il regime costituzionale di base dei partiti è stabilito
dall’art.18, con la precisazione che, a differenza del diritto di aderire ad altre associazioni, il
diritto di iscriversi ai partiti può con legge subire limitazioni a carico di determinate
categorie di soggetti, precisamente “per i magistrati, i militari in carriera in servizio attivo, i
funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero”(art.98,
3°comma).
2. Per quanto riguarda il secondo punto, l’analisi muove in due direzioni:
o A differenza di altre Costituzioni (ad es. quella tedesca), la nostra non limita i partiti dal
punto di vista dei fini che possono perseguire. Lo attesta l’inciso “con metodo
democratico” dove la parola metodo sta per “procedure”, e lo conferma il divieto di
“riorganizzazione, sotto

28
qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” (XII Disp. Trans. Fin.), in quanto riferito a una
riorganizzazione. La nostra non rientra, dunque, tra le “democrazie protette”, nelle quali
sono previste sanzioni a carico dei partiti che si dimostrino avversari della libertà e della
democrazia.La liceità di partiti contrari all’ordinamento costituzionale non toglie nulla, però,
all’obbligo per tutti i partiti di rispettare il metodo democratico (che differenzia i partiti
dalle altre associazioni) che si spiega con la speciale funzione ad essi ascritta (da non
confondere con i fini politici liberamente perseguibili) di “concorrere a determinare la
politica nazionale”, e che consiste innanzitutto nel rispettare le procedure democratiche
nella competizione politica.
o In secondo luogo, l’orientamento dominante fra i costituzionalisti è ormai nel senso che
l’inciso “con metodo democratico” si riferisca non solo al rapporto fra i partiti
(nellacompetizione politica), ma anche al loro interno.

Nella seduta dell’Assemblea Costituente del 22 maggio 1947, vi fu rigetto di un


emendamento Mortati- Ruggero volto a richiedere la conformità dei partiti al metodo
democratico “nell’organizzazione interna”. Quel rigetto rifletteva la diffidenza dei partiti a
vedersi comprimere la loro autonomia con regole e controlli amministrativi (diffidenza che
perse con il tempo giustificazione, man mano che le funzioni pubbliche assolte dai partiti
acquistavano rilievo decisivo).
Un primo intervento legislativo si è avuto solo con la l. n. 13 del 2014, che dopo aver
richiesto l’obbligo per i partiti di dotarsi di uno statuto recante requisiti relativi alla loro vita
interna, ha subordinato all’assolvimento di tale obbligo la facoltà per i partiti di avvalersi di
determinate agevolazioni fiscali, e di usufruire delle destinazioni del 2 per mille dell’IRPEF
(imposta sul reddito delle persone fisiche). Tuttavia, pur avendo per la prima volta introdotto
forme di regolamentazione interna dei partiti, la legge ha paradossalmente abolito il
finanziamento pubblico nei loro confronti. La legge così introdotta non può considerarsi una
soddisfacente attuazione dell’art.49 e la scarsa credibilità della legislazione in materia (come
dimostrano le stesse proposte di legge presentate di recente) riflette la crescente crisi dei
partiti, di cui quelladella loro organizzazione interna è solo un sintomo.
o Libertà di organizzazione sindacale e diritto di sciopero

Come i partiti, anche i sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro trovano la loro disciplina
costituzionale nell’art.18, e un riconoscimento e una specifica disciplina in un altro articolo,
l’art.39. Quest’ultimo articolo, tuttavia, anziché parlare di “associazione” stabilisce, al 1° comma,
che “l’organizzazione sindacale è libera”: questo perché, secondo la Costituzione , nel caso dei
sindacati il momento associativo sta e cade con quello organizzativo, che è a sua volta preliminare
ad ogni attività di gruppo, compresa la contrattazione collettiva. Ecco perché, secondo la Corte,
con la sent.
n. 29 del 1960, il significato dell’art.39 Cost. non può essere circoscritto entro i limiti angusti di
una dichiarazione di mera libertà organizzativa, mentre esso si presenta come affermazione
integrale della libertà di azione sindacale.
Oltre che sul piano collettivo, la libertà sindacale può essere analizzata sotto profilo individuale e
infatti, l’art.39, 1°comma, garantisce allo stesso modo la libertà dei singoli di fondare sindacati e
di iscriversi ad essi (libertà positiva) segnando uno spartiacque ≠ rispetto all’ordinamento
corporativo istituito dal fascismo (che richiedeva l’obbligo di lavoratori e datori di lavoro di
iscriversi alle corporazioni di categoria per poter svolgere la rispettiva attività) e
corrispondentemente, la libertà di non associarsi in sindacati o di cessare di farne parte (libertà
negativa).
La libertà di associarsi in sindacati, vietata ai i militari di carriera e consentita ai dipendenti della
pubblica sicurezza limitatamente ai sindacati privi di legami organizzativi con quelli operanti nel
mondo del lavoro, è stata garantita anche nei confronti dei datori di lavoro dallo Statuto dei
lavoratori (l. n. 300 del 1970) anzitutto con la libertà di svolgere attività sindacale nei luoghi di

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lavoro, e poi con una serie di garanzie (es. nullità dei patti intesi a licenziare o a discriminare un
lavoratore in ragione della sua iscrizione a un sindacato).
Ulteriori garanzie riguardano direttamente la condizione del lavoratore nell’impresa e sono, per
questo, da ritenersi attuative dell’art.41, 2°comma, secondo cui l’iniziativa economica privata “non
può svolgersi (…) in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

Infine, lo Statuto riserva una serie di poteri e diritti alle sole associazioni sindacali aderenti alle
confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale oppure firmatarie di contratti
collettivi nazionali o provinciali applicati nell’unità produttiva, a partire dalla costituzione delle
rappresentanze sindacali aziendali (art.19), cui sono attribuiti i diritti di tenere riunioni, disporre
dei locali dell’azienda, indire referendum. Tuttavia, la presunzione di effettiva rappresentatività dei
lavoratori da parte di tali associazioni, con il tempo è venuta meno, come riconobbe la stessa Corte
(sent. n.30 del 1990), anche a seguito delle trasformazioni imposte dalle innovazioni tecnologiche
alla modalità tradizionale di svolgimento del lavoro subordinato in un unico luogo della fabbrica.
Di questa crisi del modello originario, fu sintomo l’esito positivo del referendum abrogativo
dell’art.19 svoltosi nel 1995 che portava ad attribuire la costituzione di rappresentanze sindacali
aziendali alle associazioni firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva. Questa
normativa consentiva però alla controparte (come si vide in una controversia FIAT-FIOM), di
negare la legittimazione a costituire tali rappresentanze ad associazioni sindacali non firmatarie dei
contratti, quand’anche partecipanti alle trattative che li avevano preceduti, e largamente
rappresentative dei lavoratori. La corte, ravvisandovi una violazione degli art.2,3 e 39 Cost., ha
disposto una sentenza additiva, la n.231 del 2013, secondo cui le rappresentanze sindacali aziendali
possono costituirsi anche ad opera delle associazioni sindacali predette.

I commi da 2 a 4 dell’art.39 prevedono un complesso meccanismo in virtù del quale i sindacati


che si siano dati “un ordinamento interno a base democratica”, tale da garantire la
rappresentatività, e che siano conseguentemente registrati presso appositi uffici amministrativi,
abbiano personalità giuridica e possano, “rappresentati unitariamente in proporzione dei loro
iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti (erga omnes) gli
appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. Tale meccanismo non è stato attuato:
sia a causa della resistenza dei sindacati ad accettare controlli pubblici sulla loro organizzazione
interna, sia a causa della loro capacità di imporla in virtù della larga rappresentatività di cui
godevano presso i lavoratori. Che cos’è accaduto in assenza di quel meccanismo? Inizialmente il
legislatore tentò la strada della disciplina eteronoma (vedi eteronomia), delegando in via transitoria
il Governo a recepire con decreti legislativi i contratti collettivi al fine di conferire ad essi efficacia
erga omnes (l. n. 741 del 1959). La Corte, tuttavia, ne affermò l’incostituzionalità per violazione
dell’art.39 (sent. n. 106 del 1962). Da allora, l’efficacia dei contratti collettivi di diritto privato
stipulati dai sindacati, in quanto associazioni non riconosciute, non è stata estesa ai lavoratori di
categoria ad essi non iscritti. Costoro si sono però visti riconoscere, in virtù dell’art.36 “il diritto a
una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad
assicurare a sè e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Si ha dunque un aggiramento di
una norma costituzionale (art.39) tramite ricorso a un’altra (art.36).

Quanto detto vale per il settore del lavoro privato. I contratti collettivi dei lavoratori nelle
pubblicheamministrazioni, stipulati fra l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche
amministrazioni (ARAN) e le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, diventano
immediatamente efficaci nei confronti di tutti i lavoratori.

Il diritto di sciopero, garantito dall’art.40, si esercita “nell’ambito delle leggi che lo regolano” e
consiste nel diritto del lavoratore di astenersi dal lavoro in via unilaterale, perdendo il diritto alla
retribuzione durante l’astensione, ma senza che il datore di lavoro possa sanzionarlo.

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Pur essendo un diritto individuale, nel senso che presuppone una scelta del singolo, è attivabile solo
su iniziativa dei sindacati e alle condizioni da essi dettate: ecco perché lo si qualifica come diritto
individuale ad esercizio collettivo, e perché secondo la Corte (sent. n. 29 del 1960) sebbene
enunciati in due distinte norme, il principio di libertà di sciopero (art.40) e il principio di libertà
sindacale (art.39) non possono non considerarsi logicamente disgiunti.

Le finalità legittime dello sciopero si sono progressivamente allargate ad opera della


giurisprudenza costituzionale:
o Prima, sent. n. 123 del 1962: la Corte osservava che lo sciopero di cui all’art.40 è legittimo
solo quando rivolto a conseguire fini di carattere economico e lo si può desumere dalla
collocazione del medesimo sotto il Titolo III della Parte I della Costituzione, che si intitola ai
rapporti economici;
o Dopo, sent. n. 290 del 1974: la Corte afferma la legittimità dello “sciopero economico-
politico”, volto a rivendicare non già miglioramenti economici in ambito aziendale, ma
obiettivi politici attinenti all’eguaglianza sostanziale, quali investimenti pubblici o
contenimento dei prezzi dei generi di prima necessità, i cui destinatari sono pertanto i
pubblicipoteri.

Per quanto riguarda l’inciso all’art.40 “nell’ambito delle leggi che lo regolano”, esso non è mai
stato inteso nel senso che l’esercizio del diritto di sciopero fosse subordinato fosse subordinato alla
previa adozione di una disciplina legislativa. Infatti, l’art.40, così come l’art.36, è sempre stato
intesocome norma direttamente applicabile, senza interpositio legislatoris.
Questo però non vuol dire che la Costituzione non richieda leggi volte, non a limitare, ma a
regolare l’esercizio dello sciopero l’assenza di disciplina legislativa si fece particolarmente sentire
nel settore dei servizi pubblici essenziali, dove il diritto di sciopero contrastava con altri diritti
fondamentali, come il diritto alla salute, all’istruzione o alla libera circolazione, fino a quando la l.
n. 146 del 1990 non previde una regolamentazione della materia, demandando alla “Commissione
di garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali” (una delle Autorità Indipendenti, istituita
proprio per contemperare il diritto di sciopero con i diritti fondamentali), le funzioni di attuazione e
attribuendole poteri sanzionatori in caso di inosservanza.

IV. DIRITTI POLITICI

o Diritto di voto

L’art.48 Cost., dopo aver previsto che “Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno
raggiunto la maggiore età”, afferma, al 2°comma, che “Il voto è personale ed eguale, libero e
segreto. Il suo esercizio è dovere civico”.

Analisi:
o Il carattere “personale” del voto significa che tale diritto deve essere esercitato
personalmente dall’elettore, non può cioè essere esercitato da altri che da lui. L’elettore non
può affidare ad altri una procura a votare, ma deve recarsi alle urne per tale scopo. Nei casi in
cui ciò si riveli assolutamente impossibile per disabilità dell’elettore, come nel caso di cecità,
la legge ne consente l’accompagnamento nella cabina elettorale da parenti o persone di
fiducia.
o Il carattere “eguale” del voto esclude la possibilità di voti ponderati: i voti alle elezioni “si
contano e non si pesano”. Il principio che nessun elettore possa godere di un voto plurimo
distingue il corpo elettorale ≠ dagli organi collegiali, dove il voto del presidente vale doppio
in caso di risultato pari. L’eguaglianza del voto rientra fra i princìpi fondamentali delle
moderne democrazie e riguarda il computo dei voti dati dagli elettori, compresa la ripartizione
dei seggi

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nei collegi (sarebbe incostituzionale, ad esempio, l’assegnazione di 7 seggi a un collegio
plurinominale di una zona e di 2 seggi ad uno di pari dimensione territoriale), ma, per
giurisprudenza costante, tale principio non investe il meccanismo di traduzione dei voti in
seggi, ossia il sistema elettorale, dove più che l’eguaglianza del voto viene in gioco la
rappresentativitàdell’investitura alla carica di parlamentare.
o Il carattere “libero” del voto sta a significare che l’elettore non può essere condizionato da
chi occupi una posizione capace di influenzarne la scelta, né essere tratto in confusione. Per
quanto riguarda il primo aspetto, la legge tutela la libertà di voto con la previsione
dell’ineleggibilità di quanti ricoprano certe cariche tassativamente individuate, e con il divieto
penalmente sanzionato nei confronti di chiunque coarti la volontà dell’elettore. Quanto al
secondo aspetto, la Corte con la sent. n. 16 del 1978, ritenne inammissibili richieste di
referendum abrogativo di disposizioni non legate fra loro da un nesso accertabile. Inoltre, la l.
n. 28 del 2000 ha previsto la regola della par condicio fra soggetti politici nell’uso degli spazi
radiotelevisivi.
o Il carattere “segreto” del voto, finalizzato anch’esso al principio di libertà dell’elettore da
condizionamenti altrui, si afferma a fine ‘800 con l’allargamento del suffragio al di là della
stretta cerchia dei notabili (che ne erano i soli titolari) e viene ribadito in tutte le legislazioni
deiPaesi democratici. In Italia acquista l’ulteriore significato di impedire allo stesso elettore di
far conoscere il proprio voto ad altri , e infatti la legge sancisce la nullità delle schede
elettorali recanti segni idonei allo scopo. Sebbene oggi la tecnologia consentirebbe il ricorso al
voto elettronico, le legislazioni statali tuttora lo prevedono raramente e con grandi cautele,
proprio per i rischi di violazione della segretezza del voto.
o La qualificazione del voto come “dovere civico”, emersa alla Costituente come soluzione di
compromesso fra quanti optavano per il voto obbligatorio, ricollegando al voto una funzione
pubblicistica e all’elettorato la natura di organo dello Stato, e quanti erano contrari. La
qualificazione di voto come “dovere civico” trova, però, un’eccezione nell’art.75 che col
richiedere che “la proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato la
maggioranza degli aventi diritto”, presuppone l’ammissibilità dell’astensione. La
qualificazione del voto come “dovere civico” inoltre, non perde senso solo perché manca la
relativa sanzione la sanzione non è infatti un elemento indefettibile delle norme giuridiche. Da
un lato, gli attributi e le garanzie che lo circondano fanno del diritto di voto un diritto
tipicamente individuale, dall’altro, è attraverso il suo esercizio che gli elettori investono gli
eletti nella funzione di rappresentanti, oltre ad esprimere le loro scelte in occasione di
referendum. In questo senso, la qualificazione di voto come “dovere civico” acquista il
significato di un consiglio. Come la Costituzione affida alla valutazione del singolo l’uso che
può fare della propria libertà, così esprime un favor per la scelta di partecipare al voto come
possibile dimensione di quel “pieno sviluppo della persona umana”, che lascia però parimenti
al libero apprezzamento individuale.

I limiti posti al diritto di voto, oltre alla maggiore età (comma1°), sono tassativamente indicati
dall’art.48, 4°comma: “per incapacità civile, o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei
casidi indegnità morale indicati dalla legge”. Nella legislazione:
- i casi di incapacità civili: sono ridotti ai minori, agli interdetti e parzialmente agli inabilitati;
- i casi di indegnità morale: ai falliti per non più di 5 anni, ai sottoposti a misure di prevenzione o a
misure di sicurezza, e a poche altre categorie;
- le sentenze penali irrevocabili di condanna: dalle quali deriva la perdita definitiva del diritto di
voto, sono quelle relative ai condannati in base alle leggi dell’immediato dopoguerra relative alle
sanzionicontro il fascismo.

Rispetto all’originaria coincidenza fissata dall’art.48 dello status di cittadino con quello di elettore,
la titolarità del diritto di voto è stata ampliata: sono altresì titolari del diritto di elettorato attivo e
passivo: i cittadini italiani residenti all’estero, con istituzione di una “circoscrizione Estero per

32
l’elezione delle Camere” (3°comma); i cittadini europei, limitatamente alle elezioni del Parlamento
Europeo o dei Consigli comunali e dei Sindaci, in base al Trattato istitutivo dell’UE del 1993.

o Diritto di elettorato passivo

Secondo l’art.51, 1°comma, “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli
uffici pubblici e alle cariche pubbliche in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla
legge.A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le parti opportunità tra donne
e uomini.”
Il secondo periodo del comma in esame, aggiunto con la l. cost. n.3 del 2001, ha inteso arricchire il
principio di eguaglianza fra cittadini dell’uno e dell’altro sesso, che era già previsto nel primo
periodo con l’espressione “in condizioni di eguaglianza”. Il verbo “promuove” allude alle c.d.
azioni positive, dirette a correggere diseguaglianze fra sessi nell’accesso alle cariche pubbliche che
il solo principio di eguaglianza formale si era rivelato insufficiente (tramite la previsione delle c.d.
“quote rosa”, ossia quote obbligatoriamente riservate alle donne nelle liste elettorali).
Il maggiore problema interpretativo rimane quello del rapporto fra diritto di voto (o di elettorato
attivo) e il diritto di accedere alle cariche pubbliche (o di elettorato passivo). Mentre l’art.48
prevede espressamente e tassativamente le categorie di fattispecie di esclusione dal diritto di voto
(“incapacità civile” ecc, vedi supra) ≠ l’art.51 attribuisce alla legge l’individuazione dei “requisiti”
per l’elettorato passivo.
Questo vuol forse dire che la legge possa limitare con piena discrezionalità l’esercizio di tale
diritto? La Corte si è premurata di affermare, con la sent. n. 46 del 1969, che la discrezionalità
legislativa va esercitata “entro i limiti di quanto sia ragionevolmente indispensabile per garantire la
soddisfazione delle esigenze di pubblico interesse”. Infatti, l’eleggibilità è la regola,
l’ineleggibilità è l’eccezione. Con le successive sentenze del 1984 e 1985 la Corte ha ristretto il
significato di “pubblico interesse” alla duplice finalità di garantire lo svolgimento della
competizione elettorale in condizioni di eguaglianza e di assicurare l’autenticità del voto. Si
presume, ad esempio, che l’attribuzione del diritto di elettorato passivo possa essere limitata nei
confronti di chi ricopra cariche pubbliche che si prestino a divenire centri di potere, di raccolta di
voti.
In ogni caso il diritto di elettorato passivo si presenta come diritto inviolabile, e va dunque
disciplinato con leggi generali che possono limitarlo solo al fine di realizzare altri interessi
costituzionali, senza porre discriminazioni sostanziali tra cittadini.

o Diritto di petizione

Secondo l’art.50, “Tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere per chiedere
provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità”.
La petizione popolare è un antico istituto del sistema parlamentare inglese, poi riconosciuto dallo
Statuto, col quale i cittadini potevano prospettare alle assemblee rappresentative reclami di
carattere personale o collettivo. I Costituenti conservarono l’istituto limitatamente al secondo aspetto
(carattere collettivo). In questi termini, tenendo anche conto della collocazione dell’art.50 nel Titolo
sui “Rapporti politici”, il diritto di petizione rientra tra i diritti politici.
La petizione, anche quando sia volta a chiedere “provvedimenti legislativi”, non va confusa con ≠
l’iniziativa legislativa popolare disciplinata dall’art.71 (rivedi) che, in quanto sottoscritta da almeno
50.000 elettori e consistente in un progetto redatto in articoli, è in grado di attivare un
procedimento legislativo. I regolamenti parlamentari affidano alle Commissioni competenti per
materia l’esame delle petizioni, che si può concludere con un invito al Governo a provvedere alle
necessità esposte nella petizione o con la decisione di abbinare la richiesta di provvedimento
legislativo a un eventuale

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progetto di legge all’ordine del giorno. In definitiva, le petizioni si configurano come forme di
stimolo di interventi degli organi di indirizzo politico sulle questioni che ne formano l’oggetto.

Nella storia repubblicana i cittadini hanno esercitato tale diritto con una frequenza direttamente
proporzionale alla distanza da essi avvertita nei confronti delle istituzioni politiche e dei partiti. In
ogni caso, il seguito parlamentare è sempre stato assai scarso.
V. DIRITTI SOCIALI e FORMAZIONI SOCIALI

L’art.4 Cost. costituisce una prima specificazione dell’affermazione contenuta nell’art.1 “L’Italia
è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” e del compito della Repubblica di “rimuovere gli
ostacoli di ordine economico sociale” non solo al “pieno sviluppo della persona umana” ma anche
alla “effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale
delpaese”, art.3, 2°comma.
• Secondo il 1°comma dell’art.4, “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al
lavoroe promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.
- La prima proposizione è autosufficiente sotto il duplice profilo: del diritto alla scelta dell’attività
lavorativa (dimensione individuale) e della libertà di accesso al lavoro, con conseguente
illegittimitàdi irragionevoli barriere all’ingresso in certi ambiti lavorativi poste con legge. Anche se,
con la sent.
n. 41 del 1971, la Corte ha previsto che il principio di libertà di scegliere un’attività di lavoro non è
leso o compresso per effetto di limitazioni poste dalla legge a tutela di altri interessi ed
esigenzesociali (es. iscrizione in albi professionali, requisiti particolari, modi e condizioni per
l’assunzione). Sotto un terzo profilo, si è posta la questione se la Costituzione garantisca il diritto al
lavoro nel sensodi una pretesa di accesso al lavoro, e di conservazione del posto di lavoro. La
Corte ha sempreescluso (sent. n. 238 del 1988) che dall’art.4 derivi una “pretesa di accesso al
lavoro”, nonché undiritto alla sua conservazione.
- Inoltre, la prima proposizione del primo comma, proseguendo nell’analisi, va letta
congiuntamente alla seconda proposizione, la quale richiede che i pubblici poteri promuovano le
“condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Si tratta di un obbligo preciso, anche se politico e
non giuridico, ossia, più di preciso, di una “direttiva costituzionale in materia di politica
occupazionale”, alla quale, se non può corrispondere un diritto al conseguimento o alla
conservazione del posto di lavoro, deve corrispondere il massimo impegno della Repubblica per
favorire la crescita dell’occupazione. La Costituzione, dunque, presuppone un mercato del lavoro,
su cui i pubblici poteri intervengono con interventi correttivi in vista della massima occupazione
possibile.
Storicamente, l’andamento dell’occupazione non è andato nella stessa direzione dell’attuazione
delle norme costituzionali sul lavoro, infatti: se nei primi anni ’60 del secolo scorso, in condizioni di
piena occupazione, le tutele dei lavoratori erano molto ridotte; nei decenni successivi i lavoratori
occupati furono più tutelati, a fronte però di una crescente disoccupazione.

Analizziamo quindi le garanzie dei lavoratori nella prospettiva dell’interpretazione e dell’attuazione


degli enunciati costituzionali sul lavoro (diversi dai già trattati artt. 39 e 40):
o ART. 36 : 1°comma “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla
quantità e alla qualità del suo lavoro in ogni caso sufficiente ad assicurare a sè e alla
famiglia un’esistenza libera e dignitosa.” A parte l’applicazione diretta che ne è stata fatta dai
giudici comuni, la disposizione si è rivelata cruciale nell’individuare le garanzie del lavoratore
nei confronti del datore di lavoro anche grazie all’interpretazione fornita dalla Corte, con la
sent. n.
559 del 1987, secondo cui il concetto di retribuzione previsto dall’articolo non è mero
corrispettivo del lavoro, ma compenso del lavoro proporzionale alla sua quantità e qualità.
Strettamente complementari al principio di giusta retribuzione sono la riserva di legge sulla
durata massima della giornata lavorativa (2°comma), nonché il riconoscimento del diritto
irrinunciabile al riposo settimanale e alle ferie retribuite (3°comma) che “garantisce la

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soddisfazione di primarie esigenze del lavoratore, dalla reintegrazione delle sue energie
psicofisiche allo svolgimento di attività ricreative e culturali, che” e richiede che
l’imprenditore, nello scegliere il periodo di godimento di ferie, non vanifichi il diritto, ad es.
frantumando le feriein brevissimi periodi o rinviandole (sent. n. 543 del 1990).

o ART. 37 : il primo comma, vieta le discriminazioni a danno della donna lavoratrice in


ordine ai diritti e alle retribuzioni spettante al lavoratore e prevede l’obbligo che le condizioni di
lavoro consentano alla donna lavoratrice “l’adempimento della sua essenziale funzione
familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. Simili
enunciati sembrano riflettere una visione anacronistica della maternità e del ruolo della donna
nella famiglia, è vero infatti che vanno contestualizzati, ma non per questo possono dirsi
superati. I Costituenti si preoccuparono di garantirle parità di diritti nel lavoro, ma senza
ignorarne il ruolo nella famigliaproprio per assicurare in tal campo condizioni di eguaglianza.
In una prima fase fu soprattutto la Corte a svolgere un ruolo di garanzia dalle discriminazioni
della donna nel lavoro (ad. es. sent. n. 27 del 1969 con la quale la Corte si trovò a giudicare di
una legge che sanciva la nullità dei licenziamenti delle lavoratrici a causa dei matrimoni);
successivamente si è avuta un’attuazione in sede legislativa del divieto di discriminazioni
postodall’art.37:
- la l. n. 903 del 1977 sanciva il principio di parità tra uomini e donne nell’accesso al lavoro, nella
retribuzione, nell’assegnazione delle mansioni;
- la l. n. 860 del 1950 che prevede l’astensione obbligatoria del lavoro della donna prima e dopo
il parto, dapprima previsto solo per le lavoratrici subordinate e poi esteso agli altri tipi di lavoro
(la l. n. 1204 del 1971);
- il d.lgs. n. 5 del 2010, attuativo della direttiva UE del 2006, ha previsto ulteriori e sofisticate
garanzie dalle discriminazioni fra sessi nel lavoro.

Gli ultimi due commi, 2° e 3° sono dedicati al lavoro dei minori, con una riserva di legge circa
la fissazione del limite minimo di età per il lavoro salariato, nonché di “speciali norme” a
tuteladel lavoro dei minori, e con una garanzia ad essi, a parità di lavoro, del diritto alla parità
di retribuzione. In questo caso, la tutela muove dalla necessità del raccordo dell’attività
lavorativacon le esigenze dello sviluppo fisico e della formazione scolastica.
L’attuazione costituzionale è stata realizzata gradualmente:
- l. n. 1325 del 1961 ha vietato di adibire al lavoro i minori di età inferiore ai 15 anni;
- l. n. 977 del 1967 ha fissato la regola generale per cui il loro lavoro non può in nessun caso
pregiudicarne l’impegno scolastico;
- l. n. 296 del 2006 è stata fissata l’età minima per lavorare alla conclusione del periodo di
istruzione obbligatoria e comunque non prima del compimento dei 16 anni;
- l. n. 148 del 2000 in attuazione di Convenzioni internazionali sulla proibizione di forme di
sfruttamento minorile.

o ART. 35 : 1° comma, “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”.
L’articolo è significativamente posto all’inizio del Titolo III, dedicato ai “Rapporti economici”
e per metà al lavoro. Eppure, rispetto agli altri enunciati sul lavoro, ha ricevuto forme di
attuazionemodeste e distorte.
Nonostante il tenore simile all’art.2060 c.c. (vedi), l’enunciato non solo si inserisce nella trama
dei principi, regole ed istituti che la Costituzione dedica al lavoro, ma a sua volta la permea,
estendendo ad ogni tipologia di lavoro l’obbligo di tutela da parte dei pubblici poteri.

Inizialmente, la convinzione prevalente era che gli artt. 36-40 fossero applicabili solo al lavoro
subordinato. Una volta constatato però che la subordinazione non costituiva la forma
assolutamente prevalente d’impiego, la presenza dell’obbligo della Repubblica di tutelare il

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lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni” (art.35) non ha indotto però a una rilettura degli
altri principi costituzionali, emarginando così tutta una serie di forme di erogazione di lavoro
come ad es. a termine, a brevi periodi, a tempo ridotto o le forme di erogazione di lavoro
estranee al tipo di lavoro subordinato. Negli anni ’90 la Corte negava che “sarebbe già in fase
avanzata un processo legislativo di detipizzazione del contratto di lavoro, nel senso di collegare
la tutela del lavoratore alla prestazione considerata in sè, a prescindere dal tipo di contratto” e
definiva il concetto “subordinazione in senso stretto” è un concetto più pregnante e insieme
qualitativamente diverso dalla subordinazione riscontrabile in altri contratti, come quelli
associativi, pur coinvolgenti la capacità di lavoro di una delle parti. La differenza è determinata,
dal concorso di due condizioni che negli altri casi non si trovano mai congiunte: la prima è
costituita dall’alienità
– nel senso di destinazione esclusiva ad altri – del risultato per il cui conseguimento la
prestazione di lavoro è utilizzata; mentre la seconda è rappresentata dall’alienità
dell’organizzazione produttiva in cui la prestazione si inserisce (c.d. etero-organizzazione).
Solo di recente si è proposta una reinterpretazione degli artt. 3 e 35 in “un’ottica di
differenziazione che rispetti il principio di ragionevolezza” e tale da autorizzare il legislatore a
una “equilibrata distribuzione delle tutele dei lavoratori subordinati e autonomi”.
La l. n. 183 del 2014 ha poi limitato, con il “contratto a tutele crescenti”, la detipizzazione del
contratto di lavoro.
• Diritto all’assistenza e alla previdenza

I diritti sociali riconosciuti dal 1° e dal 2° comma dell’art.38, pur rientrando entrambi nel genus
del diritto alla protezione o alla sicurezza sociale, corrispondente a un obbligo dello Stato a
realizzarein ogni caso la “libertà dal bisogno”, differiscono in due casi:
o in via soggettiva: per il fatto di riferirsi, rispettivamente, a “Ogni cittadino inabile al lavoro e
sprovvisto dei mezzi necessari per vivere” ≠ ed a “I lavoratori (…) in caso di infortunio,
malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.
o in via oggettiva: la Costituzione ne fa seguire una riguardante l’oggetto della prestazione: che
consiste nel “mantenimento” e nella “assistenza sociale” per quanto riguarda gli inabili al
lavoro e per quanti siano sprovvisti di mezzi necessari per vivere (1° comma) ≠ mentre consiste
nei “mezzi adeguati alle loro esigenze di vita” per i lavoratori che si trovino nelle condizioni
indicate. Secondo la Corte, il primo comma si riferisce “al minimo esistenziale, alimentare”,
mentre il secondo “garantisce non soltanto la soddisfazione dei bisogni alimentari, di pura
sussistenza materiale bensì anche il soddisfacimento di ulteriori esigenze relative al tenore di
vita di lavoratori”.
Inoltre, dalla differenza soggettiva, sempre la Corte ha desunto, con la sent. n. 31 del 1986) che
mentre per i singoli cittadini del 1° comma, per i quali sarebbe impossibile invocare
una solidarietà di gruppo o di categoria, la pensione sociale si fonda unicamente sulla
solidarietà collettiva; per i lavoratori del 2°comma la prestazione previdenziale si rifà alle
contribuzioni versate durante i periodi di lavoro.
Più di recente, la qualificazione della pensione di vecchiaia come “retribuzione differita”, che
deve essere proporzionata alla qualità e quantità di lavoro prestato e sufficiente ad assicurare al
lavoratore e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, in pieno rispetto dell’art.36, ha
accentuato ancora di più il distacco rispetto al mero “mantenimento” indicato dal primo comma.

L’attuazione legislativa dei primi due commi dell’art.38 ha sollevato problemi ulteriori sul piano
dell’effettivo godimento dei diritti:

- primo comma: nonostante il crescente numero di cittadini “sprovvisti di mezzi necessari per
vivere”, la quota dei bilanci pubblici destinata a spese per l’assistenza è sempre stata assai
modesta. La legge generale sull’assistenza n. 328 del 2000, che aveva attuato il precetto
costituzionale, è

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rimasta inattuata. Quanto ai portatori di handicap, la legge quadro n.109 del 1994 prevede invece il
relativo diritto soggettivo all’assistenza e all’istruzione, ma le modalità di finanziamento della
spesaper tale scopo, mettono a repentaglio l’effettività del godimento di tale diritto.

- secondo comma: il discorso è del tutto diverso per le pensioni dei lavoratori, in ragione di una
assai più elevata percentuale del bilancio dello Stato destinata al loro finanziamento (la previdenza
sociale è materia oggetto di competenza legislativa esclusiva dello Stato a differenza
dell’assistenza, ripartita tra Stato e Regioni). L’incidenza del finanziamento delle prestazioni
previdenziali sulla dinamica della spesa pubblica ha posto la Corte nella condizione di dover
stabilire di volta in volta, con i vari bilanciamenti, quando e in quale misura la legge possa
sacrificare legittimamente il diritto alla pensione dei lavoratori in nome delle esigenze di
contenimento finanziario.

Il 5° comma dell’articolo, per il quale “L’assistenza privata è libera” consente prestazioni


erogate a fini di profitto come per fini non lucrativi, ma di solidarietà sociale. A tal riguardo,
acquista specifico significato il 4° comma, secondo cui “Ai compiti previsti in questo articolo
provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato”, dove il riferimento
all’ “integrazione” non equivale a ridurre l’obbligo dello Stato di assicurare la libertà dal bisogno, ma
a chiarire che le relative prestazioni possono essere erogato non solo da pubbliche amministrazioni
ma anche da terzi concessionari, quali associazioni private e di volontariato non lucrative, purchè si
rivelino in grado di garantire il servizio.

• Diritto allo studio

Una prima espressione del diritto allo studio è il diritto di accesso alla scuola, riconosciuto
pienamente dall’art.34 che afferma al 1°comma che “La scuola è aperta a tutti” e al 2°comma
che“L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”, previsione
quest’ultima essenziale nel 1948 per l’incivilimento degli italiani.
La sua prima attuazione avvenne con la “riforma della scuola media unica”, la l. n. 1859 del
1962, che condizionò l’assolvimento dell’obbligo al conseguimento del diploma di scuola media, o
al compimento del 15esimo anno a patto di aver frequentato la scuola per almeno 8 anni. Con la l.
n. 9 del 1999 il periodo di istruzione obbligatoria è stato elevato a 10 anni.
Il 3° comma dell’articolo riconosce il diritto dei “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, di
raggiungere i gradi più alti degli studi”, impegnando la Repubblica, 4° comma, a “rendere
effettivoquesto diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono
essere attribuite per concorso”. Il trattamento di favore verso costoro (capaci e meritevoli) si
propone di correggere sperequazioni alla luce del principio di eguaglianza sostanziale, e si traduce
nel rendere per loro gratuiti i corsi di studio non solo, come per la generalità degli studenti, circa
l’insegnamentoobbligatorio, ma anche “per i gradi più alti degli studi”, compresi quelli universitari.

Alla linearità dei principi e delle regole sul diritto allo studio previste dall’art.34 ≠ corrisponde la
complessità di quelli sulle prestazioni e sull’organizzazione del relativo servizio previsti
dall’art.33. La previsione, al 2° comma, che “La Repubblica detta le norme generali
sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi”, che configura il servizio
pubblico come l’asse portante del sistema scolastico, è seguita da prescrizioni dedicate
rispettivamente ad “Enti e privati”, 3° comma, e alle “scuole non statali che chiedono la parità”,
4° comma.
La Costituzione distingue dunque le scuole in pubbliche, private paritarie e private non paritarie,
con diverse conseguenze:
1) In primo luogo, “il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione”, 3°comma, cui
corrisponde, la libertà di scelta del tipo di scuola che si preferisce frequentare: entrambe
sono condizioni indefettibili del pluralismo scolastico, riconducibile all’art.2 Cost., dal
momento che la scuola rientra tra le formazioni sociali in cui svolge la personalità umana.

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2) In secondo luogo, l’equiparazione delle sole “scuole non statali che chiedono la parità”
alle scuole statali, oggetto di una riserva di legge rinforzata per “assicurare ad esse piena
libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole
statali”(art.33, 4°comma). Tali scuole, a differenza delle private che non chiedono la parità,
restano soggette alle “norme generali sull’istruzione” dettate dalla Repubblica (circa materie di
insegnamento, piano di studio, metodi). La l. n. 62 del 2000, attuativa del disposto, ha definito le
scuole paritarie private come “tutte le istituzioni scolastiche non statali che, a partire dalla scuola
per l’infanzia, corrispondono agli ordinamenti generali dell’istruzione”.
3) Il sostegno finanziario pubblico è ammesso per le scuole paritarie private ma non per quelle
non paritarie, come indica l’espressione “senza oneri per lo Stato” (3°comma)
4) La libertà di insegnamento (art.33, 1°comma) incontra un limite nelle scuole (e nelle
Università) non statali, dove l’insegnamento può essere impartito sulla base di un
particolareindirizzo culturale o ideologico.
Il riconoscimento della libertà di insegnamento costituisce il fondamento più autentico
dell’autonomia universitaria, oltre che delle istituzioni di alta cultura e delle accademie, di
“darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato” (art.33, 6°comma). La
Corte, a conferma di tale principio, ha affermato con la sent. n. 1017 del 1988 che tra
autonomia universitaria e libertà di ricerca e di insegnamento vi è una “diretta correlazione
funzionale”.
• Diritto alla salute

Secondo l’art.32, 1°comma, “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto
dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.

Nel 1990 (sent. n. 455) la Corte aveva osservato che la tutela della salute si articola in situazione
giuridiche soggettive diverse in dipendenza della natura e del tipo di protezione assicurate
dall’ordinamento:
1) così, considerato sotto il profilo della difesa dell’integrità psicofisica della persona umana, di
fronte alle aggressioni o alle condotte lesive dei terzi, il diritto alla salute è un diritto erga
omnes , immediatamente garantito dalla Costituzione e direttamente tutelabile e azionabile dai
soggetti legittimati nei confronti degli autori dei comportamenti illeciti.
2) invece, considerato sotto il profilo del diritto a trattamenti sanitari, il diritto alla salute è
soggetto alla determinazione degli strumenti, dei tempi e dei modi di attuazione della relativa
tutela da parte del legislatore ordinario, con la conseguenza che, il diritto a ottenere trattamenti
sanitari è garantito a ogni persona come un diritto costituzionale condizionato dall’attuazione che
il legislatore ordinario ne dà, bilanciando l’interesse tutelato da quel diritto con gli altri interessi
costituzionalmente protetti, tenendo conto dei limiti che incontra in relazione alle risorse
organizzative e finanziarie di cui dispone al momento. La tutela dunque, rispetto al primo caso non
è concessa immediatamente ma gradualmente, a seguito di un ragionevole bilanciamento di
interessi che godono di pari tutela costituzionale.

La distinzione tracciata nel 90 dalla Corte rifletteva un’esperienza giurisprudenziale matura.


Vediamo due esempi che mostrano come il principio costituzionale della tutela dell’integrità
psicofisica abbia inciso sul regime civilistico preesistente:
- Si pensi (circa la tutela dell’integrità fisiopsichica della persona da lesioni di terzi) all’evoluzione
avutasi a proposito del danno biologico da quanto la Corte di Cassazione, seguita dalla Corte
costituzionale, aveva esteso il concetto di danno, fino ad allora ritenuto inerente all’art. 2043 c.c.
sulla responsabilità extracontrattuale (“qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un
danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”), combinandolo con
l’art. 32 Cost. per l’affermazione che il risarcimento non riguarda solo il danno patrimoniale ma
tutti i danni che ostacolino le attività che realizzano la persona umana.

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- Oppure, l’art. 5 c.c. che vieta “gli atti di disposizione del proprio corpo quando cagionino una
diminuzione permanente dell’integrità fisica”, è stato più volte derogato dalla legislazione sui
trapianti di organi a vantaggio di terzi e in vista della tutela del diritto alla salute.
La distinzione fra le due accezioni sul diritto alla salute, tracciata nel 90, è tuttora utile, anche se la
giurisprudenza successiva induce a considerarla come un inquadramento di massima della duplice
dimensione di tale diritto:
A) Come diritto all’integrità psicofisica, il diritto alla salute, oltre ad essere immediatamente
applicabile, senza bisogno di intermediazione della legge, veniva inteso nel 1990 come non
“condizionato alle risorse organizzative e finanziarie di cui il legislatore dispone”.
Ma nel gravissimo caso della società ILVA di Taranti, i cui impianti erano stati posti sotto
sequestro dall’autorità giudiziaria, per via di emissioni nocive alla salute e all’ambiente ai
danni della popolazione circostante, una disposizione di legge aveva reimmesso la società nel
possesso degli impianti ed era stata impugnata per violazione degli artt. 32 e 9. La Corte (sent.
n. 85 del 2013) ha replicato che la Costituzione “richiede un continuo bilanciamento tra
principi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi”. La
qualificazione come “primari” dei diritti dell’ambiente e della salute significa che non possono
essere sacrificati ad altri interessi (costituzionalmente tutelati) e non che siano posti sulla
sommità di ordine gerarchico di diritti. Il punto di equilibrio, dinamico e non prefissato, deve
essere valutato – dal legislatore nella statuizione delle norme e dal giudice in sede di controllo
– secondo criteri di proporzionalità e ragionevolezza. Questo dimostra che il diritto alla salute
può costituire oggetto di bilanciamento con altri diritti anche quale diritto all’integrità
psicofisica.
B) Anche gli orientamenti del 90 sulla dimensione del diritto come diritto a prestazione pubblica
(diritto a trattamenti sanitari) sono stati in seguito corretti e precisati.
La legge di attuazione dell’art.32. (l. n. 833 del 1978), nell’istituire il Servizio Sanitario
Nazionale, attribuisce alla legge statale la fissazione di “livelli delle prestazioni sanitarie che
devono essere, comunque, garantiti a tutti i cittadini”. Improntando il servizio sanitario sul
principio di eguaglianza sostanziale, la legge superava il limite soggettivo posto alla
Repubblica dall’art.32 di “garantire cure gratuite agli indigenti”. La spettanza alla legge statale
di determinare i “livelli essenziali delle prestazioni”, si è progressivamente estesa ad altri diritti
sociali. La Corte, con la sent. n. 282 del 2002, ha poi identificato i “livelli essenziali” con “il
contenuto essenziale dei diritti fondamentali”.
Il richiamo al “contenuto essenziale” segna una tappa ulteriore rispetto alla configurazione del
diritto alla salute come “diritto costituzionalmente condizionato” dalle risorse finanziarie, oltre
che organizzative, di cui il legislatore disponga al momento. Infatti, era evidente come nel
processo di “bilanciamento” del legislatore le esigenze della finanza pubblica (esigenze di
contenimento finanziario) avessero preso il sopravvento sul soddisfacimento dei diritti a
prestazione pubblica (venir meno della gradualità nel processo di attuazione costituzionale).
Per questo, di fronte a un irragionevole esercizio della discrezionalità legislativa (tale da
comprimereil nucleo essenziale del diritto alla salute), fermo restando che il legislatore è il solo
“costituzionalmente abilitato” a compiere apprezzamenti necessari per garantire l’equilibrio nel
bilanciamento di interessi, alla Corte tuttavia “compete di garantire la misura minima
essenziale di protezione delle situazioni soggettive che la Costituzione qualifica come
diritti”, al di sotto della quale questi ultimi verrebbero violati.
Fino a che punto la giurisprudenza, riesce così a limitare gli effetti delle restrizioni finanziarie?
La legge del 1978 (attuativa dell’articolo) è stata così integrata: “Le prestazioni sanitarie
comprese nei livelli essenziali di assistenza sono garantite dal Servizio Sanitario Nazionale a
titolo gratuito o con partecipazione alla spesa (ad es. ticket) , nelle forme e modalità previste
dalla legislazione vigente”. Di fatto, però, nonostante le previsioni costituzionali e la
giurisprudenza della Corte, il servizio sanitario offre ai cittadini prestazioni estremamente
differenziate, a seconda delle regioni (con gravi sperequazioni tra cittadini).

39
Il 2° comma dell’art.32 stabilisce che “Nessuno può essere obbligato a un determinato
trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso
violarei limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
La riserva di legge circa l’individuazione dei trattamenti sanitari obbligatori conduce alla
definizione di salute non solo come “diritto fondamentale” ma anche come “interesse della
collettività”. È proprio per tutelare la salute collettiva, oltre a quella del singolo, che tali
trattamentipossono venire disposti, sempre che non violino il “rispetto della persona umana”.
L’eccezione voluta dai Costituenti “dei limiti imposti dal rispetto della persona umana” si risolve
nell’impedimento a trattamenti sanitari obbligatori contrastanti con la espressa volontà del
paziente,assistito al consenso informato.
Lo sviluppo delle biotecnologie, che consente di mantenere in vita il paziente che si trovi in “stato
vegetativo permanente”, ha posto ovunque la questione della ricostruzione della sua volontà
circa la prosecuzione della sua vita in tale stato. La questione è stata a lungo esasperata in Italia
dall’assenza di una disciplina del consenso informato che consenta a chi sia maggiorenne e capace
di intendere e di volere di esprimere le proprie volontà in ordine ai trattamenti sanitari nell’ ipotesi
di incapacità di autodeterminarsi, il c.d. “testamento biologico”. Una disciplina in tal senso è stata
approvata con la l. n. 219 del 2017 intitolata “Norme in materia di consenso informato e
didichiarazioni anticipate di volontà nei trattamenti sanitari.” (vedi caso del 2007, pag. 447-448).
• Diritti della famiglia

Ai sensi dell’art. 29, 1°comma, “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società
naturale fondata sul matrimonio.”
Già si è visto come, nemmeno quando (come in questo caso) si parla di società naturale la
Costituzione abbia inteso riconoscere le formazioni sociali alla stregua di un preesistente diritto
naturale.
Secondo C. Esposito: la Costituzione “non ha proclamato i diritti della famiglia contro lo Stato, o
che la famiglia sia sovrana, indipendente o superiore allo Stato, sicché possa vantare diritti su di
esso, maha semplicemente riconosciuto i diritti, le facoltà, le potestà che si svolgono all’interno della
famigliasui propri membri” e nel qualificare la famiglia come società naturale non ne ha fornito una
“definizione platonica” ma ha attribuito “rilievo giuridico alla constatazione di fatto che, tra
membridella famiglia, non sussistono solo freddi vincoli giuridici, ma legami affettivi, sentimentali,
spontanei e di sangue”.
La peculiarità della disciplina della famiglia rispetto alle altre formazioni sociali, deriva dal fatto
di non costituire un’associazione, ma appunto una “società naturale”, con una serie di conseguenze
sulla posizione dei relativi membri. Innanzitutto, ai coniugi è dedicato il 2°comma, per il quale “Il
matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti
dalla legge a garanzia dell’unità familiare”. Il principio di eguaglianza non solo giuridica ma, per
l’unica volta nella Costituzione, anche morale, rinnova profondamente l’istituto del matrimonio
rispetto
≠ all’impostazione paternalistica che traspariva dal codice civile, con disposizioni che
qualificavano il marito “capo della famiglia” facendone discendere una serie di poteri che si
estendevano ai figli con la “patria potestà”, nonché rispetto al codice penale, dove l’adulterio era
punito solo quando ne fosse colpevole la moglie. Dalla seconda metà degli anni ’60, la Corte
comincia, sollecitata da mutamenti sociali grazie ai quali la donna ha acquistato pienezza di
diritti, ad annullare quelle disposizioni, sollecitando il Parlamento a dettare una compiuta
disciplina del diritto di famiglia.
Nel frattempo, era stata approvata la legge sul divorzio (l. n. 898 del 1970), esito di un
compromesso politico tra la maggioranza del centrosinistra (socialisti e laici), che avevano
promosso la legge, e la Democrazia cristiana, che l’accettò a condizione che venisse varata la legge
di attuazione dell’art.75,

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in modo da consentire che la disciplina del divorzio fosse sottoposta a referendum abrogativo. Ma
al referendum abrogativo tenutosi nel 1974 oltre il 60% votò a favore del mantenimento della
legge. L’anno successivo, con la l. n. 151 del 1975, il Parlamento varò la riforma del diritto di
famiglia che, in attuazione dell’art.29 Cost. stabilisce che:
- col matrimonio il marito e la moglie “acquistano gli stessi diritti” e “assumono i medesimi doveri”;
- impegna i coniugi a concordare “l’indirizzo della vita familiare” e la comune residenza, per
contemperare le necessità personali con “le esigenze di entrambi e con quelle della famiglia”;
- affida l’educazione dei figli alla “potestà dei genitori” da esercitarsi da entrambi di “comune
accordo”;
- attua l’art.30, per il quale “È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i
figli,anche se nati fuori dal matrimonio”.
Nei decenni successivi si è posta la questione delle possibilità e dei limiti di un’equiparazione alla
famiglia delle “unioni di fatto” anche tra persone dello stesso sesso (questione estranea ai
Costituenti).
La Corte Costituzionale ha osservato che la famiglia di fatto “non è costituzionalmente irrilevante”
in quanto protetta come formazione sociale dall’art.2 Cost., tanto più quando la presenza della
prolecoinvolge i principi costituzionalmente apprezzati del mantenimento, istruzione ed educazione
dellaprole stessa”, anche se alla famiglia di fatto non è riferibile l’art.29, dettato esclusivamente per
la famiglia legittima fondata sul matrimonio (sent. n. 237 del 1986). E in seguito ha precisato che,
alla luce della distinzione tra famiglia di fatto e quella legittima fondata sul matrimonio, a entrambe
si riconosce “una propria specifica dignità”, si evita di configurare la convivenza come forma
minore del rapporto coniugale.
La Corte ha in seguito respinto la questione di legittimità, per violazione del principio di
eguaglianza, degli articoli del codice civile nella parte in cui non consentono “che le persone di
orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso”,
osservando come l’art.29,2°comma, affermando il principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei
coniugi, ebbe riguardo alla posizione della donna cui intendeva attribuire pari dignità e diritti nel
rapporto coniugale. Conseguentemente la normativa impugnata (del codice civile) “non dà luogo ad
una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute
omogenee al matrimonio” (sent. 138 del 2010). Al termine di un acceso dibattito, in Parlamento e
nell’opinione pubblica, la regolamentazione delle unioni di fatto di coppie omosessuali ed
eterosessuali, non equiparate ai matrimoni, è stata operata con l. n. 76 del 2016.

VI. LIBERTÀ ECONOMICHE

• Iniziativa economica privata

L’art.41 Cost., dopo avere affermato al 1°comma che “L’iniziativa economica privata è libera”
aggiunge, al 2°comma, che “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da
recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” e prevede, al 3°comma, che “La
legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e
privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
Gli espressi richiami a “l’attività economica pubblica e privata” e la successiva statuizione che “la
proprietà è pubblica o privata (art.42), prefigurano un modello di economia mista (necessaria
compresenza di imprese e strutture proprietarie pubbliche e private).
Al diritto di proprietà, non più “inviolabile” come nello Statuto albertino (dove il binomio
proprietà- libertà era inscindibile), i Costituenti affiancarono la libertà di produzione economica,
dedicandole apposita disciplina (art.41).
Quanto ai limiti apponibili in capo all’iniziativa economica privata, a parte quello di “non recare
danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana”, l’art.41 prevede il vincolo di portata
generale a non potersi svolgere “in contrasto con l’utilità sociale”, nonché quello dei “programmi
e

41
contratti opportuni” disposti con legge “per indirizzare e coordinare a fini sociali” l’attività
economica privata con quella pubblica.
In un contesto di massimo favore per l’intervento pubblico in economia, si spiega la tendenza dei
giuspubblicisti a considerare “l’utilità sociale” non come un limite all’iniziativa economica privata,
ma come un vincolo positivo tale da funzionalizzare le scelte imprenditoriali: la libertà di iniziativa
economica diventa così una libertà “funzionale” (vedi supra).
Le interpretazioni allora prevalenti presupponevano che la libertà di iniziativa economica privata e
l’utilità sociale corrispondessero, necessariamente, l’una alla tutela del singolo imprenditore ,
l’altra alla valutazione compiuta dal pubblico dei margini per limitarla in vista di obiettivi di
interesse generale, la senza mai considerare condizione – monopolistica, oligopolistica e
concorrenziale – del settore. Anche la Corte (sent. n. 97 del 1969) affermò che la libertà di
commercio soggiace al limite dell’utilità sociale, “alle cui esigenze deve essere subordinata anche
la concorrenza, che il sistema vigente non considera di per sè idonea a realizzare gli interessi della
società”. Rimase isolata a lungo la voce di Luigi Einaudi, che alla Costituente aveva proposto un
emendamento per tutelare esplicitamente la libertà di concorrenza.
Nel frattempo, l’Italia aveva aderito al Trattato di Roma, istitutivo della Comunità Economica
Europea (1957), il cui principale obiettivo consisteva nella creazione di un “mercato comune”
eliminando dazi doganali e altre barriere poste alla concorrenza; e poi all’Atto Unico Europeo
(1986), che poneva le premesse per trasformare il mercato da “comune” a “unico”: il dibattito sulla
tutela della concorrenza prese allora voce in sede nazionale.
La Corte Costituzionale con la sent. n. 548 del 1990 precisò che l’intervento legislativo per far
valerel’utilità sociale nei confronti dell’iniziativa privata non dovrebbe essere tale da condizionare le
scelte imprenditoriali in grado così elevato da indurre la funzionalizzazione dell’attività economica
di cui si tratta, restringendo in rigidi confini lo spazio e l’oggetto delle scelte dell’imprenditore.
Emerge dunque un indirizzo volto a comprendere la libertà di concorrenza nella libertà di
iniziativa economica privata e, parallelamente, a respingere l’ipotesi della funzionalizzazione
(propria dei giuspubblicisti). E la l. n. 287 del 1990 recante “Norme per la tutela della
concorrenza e del mercato”, stabilì l’applicabilità delle “disposizioni della presente legge in
attuazione dell’articolo 41 Cost. a tutela della garanzia del diritto di iniziativa economica” alle
intese, agli abusi di posizione dominante alle concentrazioni.
Come tutte le discipline antimonopolistiche, la legge si basa sulla presunzione che un mercato di
regime concorrenziale differisca da uno dominato da grandi monopoli, per la capacità di generare
benessere collettivo e di garantire i consumatori, e che per mantenere un regime concorrenziale si
renda necessaria la creazione di una apposita autorità indipendente (sia dai pubblici poteri sia da
quelli privati). A tale scopo la legge ha istituito l’Autorità Garante per la concorrenza ed il
mercato (AGCM), la quale dispone di distinti poteri in materia di intese, abuso di posizione
dominante, concentrazioni. L’apprezzamento dell’utilità sociale deriva dunque dalle valutazioni
dell’AGCM, oltre che da quelle del legislatore: a) quando la normativa europea consenta “aiuti di
Stato”; b) nella disciplina del commercio, dei servizi e delle altre materie su cui rilevi il profilo
della tutela della concorrenza; c) nei casi di interventi straordinari statali nei confronti della singola
attivitàimprenditoriale.
• Diritto di proprietà

Dopo aver sancito al 1°comma che “La proprietà è pubblica o privata. I beni economici
appartengono allo Stato, ad enti o a privati”, l’art.42 dedica alla sola proprietà privata il 2° e il
3°comma affermando, rispettivamente che “è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne
determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione
sociale e di renderla accessibile a tutti” e che “può essere, nei casi preveduti dalla legge, e
salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale”.

42
La disciplina si differenzia ≠ da quella dell’impresa (iniziativa economica) sia per la presenza di
riserve di legge sugli oggetti, sia per l’assenza di riferimenti a programmi per indirizzarla.
La differenza si spiega con le diverse nozioni che i Costituenti avevano dell’iniziativa economica e
della proprietà:
- iniziativa economica: era un’attività imprenditoriale, di cui aveva senso disciplinare non modi di
acquisto e godimento, ma programmi per indirizzarla;
- proprietà: era vista nell’ aspetto statico di assoluta “signoria” su un bene (retaggio
giusprivatistico)e, muovendo da tale visione, la riserva di legge rinforzata del 2°comma consentiva
di indicare gli obiettivi della funzione sociale e della accessibilità per tutti.
Ulteriori distinzioni sono legata, invece, al loro diverso regime giuridico:
1. Innanzitutto, nell’art.42 la “funzione sociale” e la “accessibilità a tutti della proprietà” non
sono limiti al diritto di proprietà, come lo è invece “l’utilità sociale” per l’iniziativa
economica privata, bensì obiettivi (“allo scopo”) cui la legge deve conformare la disciplina
dei modi di acquisto, di godimento e dei limiti della proprietà.
2. Inoltre, la proprietà privata può essere espropriata per motivi di interesse generale nei casi
previsti dalla legge e salvo indennizzo (3°comma); mentre l’espropriazione salvo
indennizzo di “determinate imprese o categorie d’imprese” può essere prevista dalla legge a
fini di utilitàgenerale nelle sole ipotesi indicate dall’art.43.
Rimane indeterminato il limite oltre il quale una legge possa vincolare la proprietà privata al
perseguimento degli obiettivi costituzionali senza intaccarne il contenuto essenziale. Questione
che si pone sia perche la proprietà privata non è soltanto riconosciuta ma anche garantita, sia
perché, ove ne fosse intaccato il contenuto essenziale, si avrebbe espropriazione, che ne richiede
l’indennizzo(3°comma).
Il problema si è posto alla giurisprudenza costituzionale soprattutto in riferimento alla legislazione
urbanistica: in una celebre sentenza, la sent. n. 55 del 1968, circa la questione dell’apposizione di
vincoli di inedificabilità a tempo indeterminato non indennizzati, la Corte:
- ha escluso che il diritto di proprietà possa venire inteso come dominio assoluto ed illimitato sui
beni propri, essendo invece caratterizzato dall’attitudine di essere sottoposto nel suo contenuto
adun regime che la Costituzione lascia determinare al legislatore, comprese “imposizioni”;
- ha però affermato che queste “non possono mai eccedere, senza indennizzo, quella portata al di
là della quale il sacrificio imposto venga a incidere sul bene, oltre ciò che è connaturale al
diritto dominicale, quale viene riconosciuto nell’attuale momento storico. Al di là di tale confine,
essa (la portata) assume carattere espropriativo”.

Per quanto riguarda la misura dell’indennizzo, la legislazione non ha mai offerto criteri
attendibili,visto chela misura fissata al prezzo di mercato (c.d. “valore venale”), prevista dalla legge
del 1865, era stata superata. La misura costituzionalmente dovuta dell’indennizzo è stata dunque
definita di volta in volta dalla Corte:
- in un primo tempo, si pronunciò con formulazione in negativo affermando che l’indennizzo non
poteva essere “irrisorio o apparente” (sentt. nn. 61 del 1957, 67 del 1959 e 5 del 1960) ma deve
rappresentare un “serio ristoro” del pregiudizio economico derivante dall’espropriazione (sentt.
nn.91del 1963 e 22 del 1965).
- Una legge che secondo la Corte aveva stabilito quel “serio ristoro” è stata però ritenuta dalla
Corteeuropea dei diritti dell’uomo incompatibile con il diritto di proprietà. Chiamata nuovamente a
giudicare della costituzionalità della stessa legge, la Corte l’ha giudicata incostituzionale (sent. nn.
348 e 349 del 2007) per avere omesso di fissare l’indennizzo in un rapporto di ragionevole
legamecon il valore legale del bene.
• Proprietà terriera

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Secondo l’art.44, “Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi
rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti
allasua estensione secondo le regioni e le zone agrarie, promuove ed impone la bonifica delle
terre, latrasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive; aiuta la piccola e
la mediaproprietà (1°comma). La legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane
(2°comma).” Più ancora dell’art.43, l’art.44 aiuta a cogliere le intenzioni dei Costituenti sul
fronte dei rapportieconomici.
Sorge ora una domanda: perché troviamo un elenco di precisi interventi pubblici – bonifica,
trasformazione del latifondo, favore per la piccola e media proprietà – che invece non compaiono
nei testi degli artt. 41 e 42? Il fatto è che, sulle riforme nel settore agricolo, i partiti condividevano
un sufficiente grado di condivisione; mentre così non era per l’industria, per l’edilizia, per la
pianificazione urbanistica (come dimostrano i “programmi finalizzati” e la riserva di legge previsti,
rispettivamente, per l’iniziativa economica e per la proprietà privata). Nel secondo dopo guerra,
tutti sapevano che il futuro del paese si sarebbe giocato nell’industria, tuttavia i profondi dissensi
politici e il vento della guerra fredda, rinviarono a tempo indeterminato le riforme di struttura a essa
riferite. Invece, per l’agricoltura, i tempi delle riforme erano già maturi: un’importante
attuazione dell’art.44 si ebbe con la l. n. 230 del 1950, la c.d. “legge Sila” e la l. n. 841 del 1950, la
c.d. “legge stralcio”, che previdero l’espropriazione dei latifondi suscettibili di trasformazione
agraria e la loro assegnazione a “lavoratori manuali della terra” (in aree come Altopiano della Sila,
Sardegna, Maremma, il Delta del Po). Il grande latifondo veniva così a scomparire dalle parti più
povere delpaese.
Più tardi la Corte Costituzionale desumerà dagli obiettivi del “razionale sfruttamento del suolo” e
della determinazione di “equi rapporti sociali” dell’art.44 una “riserva di legge rinforzata” in
quanto indica al legislatore ordinario determinati scopi.
• Beni pubblici e beni privati

L’art.42, 1°comma, secondo cui “La proprietà è pubblica o privata. I beni economici
appartengono allo Stato, ad enti o a privati”, oltre a prefigura un disegno di economia “mista”,
richiede che ci si soffermi sulla distinzione tra “proprietà” e “appartenenza” (dei beni economici).
Tale distinzione era presente già nel codice civile (Titolo I del Libro terzo “Della proprietà” è
dedicato ai “beni” ed esordisce con l’art.810 secondo cui “Sono beni le cose che possono formare
oggetto di diritti” e contiene un Capo II intitolato “Dei beni appartenenti a Stato, agli enti pubblici e
agli enti ecclesiastici”; il Titolo II del Libro terzo è dedicato alla proprietà mentre i restanti
disciplinano gli altri diritti reali) e fu ripresa dalla Costituzione al fine di disegnare il regime
giuridico della proprietà (pubblica e privata) e di individuare i soggetti cui i beni possono
appartenere (Stato, enti, privati). La distinzione tra regime giuridico (privatistico o pubblicistico) e
appartenenza comporta che beni appartenenti allo Stato possono essere soggetti a un regime
giuridico privatistico e beni appartenenti ai privati possono essere soggetti ad un regime giuridico di
diritto pubblico, entro il limite dell’art.42, 1° comma, della necessaria compresenza dei due regimi
proprietari e della necessaria appartenenza dei beni alle tre categorie di soggetti indicati. Mentre la
proprietà privata incontra alcuni fondamentali limiti e modi di esercizio, il regime della proprietà
pubblica è contenuto solo nella legislazione ordinaria.
Nel Capo II del Libro terzo c.c., che detta la disciplina generale della materia, i beni appartenenti
allo Stato vengono distinti in: (1) quelli oggetto del demanio pubblico come lido del mare,
spiagge, opere destinate alla difesa e, se appartengono allo Stato, strade, autostrade, ferrovie,
acquedotti (art.822) che sono “inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi,
se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano” (art.823), e su cui i privati
possono acquistarediritti attraverso concessioni; e (2) i beni oggetto del patrimonio indisponibile,
che “non possono essere sottratti alla loro destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi che li
riguardano” (art.828).

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Infine, i beni oggetto del patrimonio disponibile, di cui il codice non parla, interamente soggetti a
norma di diritto privato.

La regola costituzionale della distinzione tra regime, privatistico o pubblicistico, e appartenenza del
bene ha fatto lunga strada, prestandosi ad applicazioni sempre più sofisticate. La crescente
importanza dei beni immateriali, piuttosto, o delle reti necessarie a svolgere servizi pubblici
essenziali (trasporto ferroviario, energia, telecomunicazioni), o ancora, i problemi di scarsità o
depauperamento di “beni comuni” (acqua, aria, beni culturali), ha fatto ritenere che il corpo
normativo, costituito dal codice civile, mostra enormi limiti. Occorre una disciplina che si basi
maggiormente su aspetti sostanziali (e non formali, non a chi o a che cosa appartiene ma a chi o a
che cosa serve) legati alle utilità prodotte del bene. (Rivedi teoria di Giannini e rivedi discorso sui
beni comuni).

VII. DOVERI COSTITUZIONALI

• Doveri interindividuali

L’art.2 affianca al riconoscimento e alla garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, la richiesta de
“l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Non si
tratta di una corrispettività tra diritti e doveri (tesi sostenuta nella prospettiva di funzionalizzazione
dei diritti). Oggetto di tali doveri è la “solidarietà politica, economica e sociale”, la quale si riferisce
anzitutto a rapporti interindividuali, e solo più indirettamente a quelli dell’individuo nei confronti
del potere pubblico (che trovano distinta disciplina nel Titolo dedicato ai Rapporti politici, artt.52-
54). Derivano da ciò due implicazioni:
1) Il collegamento dei “doveri inderogabili” ai “diritti inviolabili” sollecita un uso responsabile
delle libertà;
2) Al pubblico potere spetta indicare con legge il fine o l’esigenza per il cui soddisfacimento la
“solidarietà” nei confronti di altri diventa “inderogabile” per il cittadino (ossia una
“prestazione imposta”, secondo l’art.23).
(vedi libro pag.461- 462)
Non mancano, in Costituzione, ipotesi più specifiche di doveri interindividuali:
- oltre al dovere (e diritto) dei genitori di “mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati
fuoridal matrimonio”, art.30;
- vi rientra il dovere del lavoro, dell’art.4, 2°comma, “Ogni cittadini ha il dovere di svolgere,
secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al
progresso materiale o spirituale della società”. Al pari del “dovere civico” del voto, anche il
dovere del lavoro è rimasto non sanzionato (dopo il rigetto da parte dei Costituenti delle proposte
di Mortati e Basso di sanzionare con la perdita del diritto di voto i cittadini che si fossero astenuti
volontariamente dal lavorare). Vediamo infatti che il dovere del lavoro non è derogato ma è
specificato dalla libertà di lavorare “secondo le proprie possibilità e la propria scelta” ed è
finalizzato al “al progresso materiale o spirituale della società”. Ricollegandosi all’affermazione
dell’art.1 secondo cui “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, lo si può
considerare un dovere civico al pari del voto, anche se, a differenza di questo, presuppone
“condizioni che rendano effettivo” il corrispondente diritto, ed è compito della Repubblica
promuoverle (comma 1°, art.4).

In una più ampia prospettiva, vediamo che, così come il riconoscimento del diritto di raggiungere i
gradi più alti degli studi per “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi” (art.34) mira ad una
selezione delle capacità, non ostacolata dalle condizioni di inferiorità economica; allo stesso modo,
una discesa nella scala sociale non dovrebbe trovare ostacolo nella trasmissione di “posizioni di
vantaggio” a chi sia sprovvisto delle capacità che dovrebbero corrispondervi.
Lo conferma il ricorso alle parole “concorso al progresso materiale o spirituale della società”,
legato al principio di eguaglianza. Così l’art.4 esprime una visione di favore per il lavoratore che
concorra

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liberamente al progresso sociale in condizioni di eguaglianza, dove non può esservi posto né per
l’individuo che si afferma nella selezione naturale, né per l’ “uomo assistito” che accampa pretesa
dallo Stato.
• DOVERI PUBBLICI

Diversamente dai doveri interindividuali ≠ i doveri pubblici si caratterizzano per un rapporto


diretto e necessario fra individuo e pubblico potere: si tratta dei doveri previsti dagli artt. 52, 53
e 54, non a caso contenuti nel Titolo sui Rapporti politici. Vale anche per essi, la riserva di legge
disposta dall’art.23 circa l’imposizione di ogni “prestazione personale o patrimoniale”.
Secondo la Corte, tale riserva ha indubbiamente “carattere relativo”, lasciando all’autorità
amministrativa ampi margini di regolazione della fattispecie, ma questo carattere non relega
tuttavia la legge sullo sfondo: per cui, la legge che attribuisca a un ente il potere di imporre una
prestazione non può lasciare all’arbitrio dell’ente impositore la determinazione della prestazione.
• Dovere tributario

La riserva di legge ricopre un ruolo rilevante nel caso delle “prestazioni patrimoniali” connesse
con i doveri tributari, indicati dall’art.53 : “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche
in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di
progressività.”
La sua funzione garantistica non si limita ad assicurare che le scelte politiche fondamentali in una
materia così incidente sulle prestazioni patrimoniali siano adottate dall’organo rappresentativo
degli elettori, ma consente il controllo di legittimità costituzionale sulle leggi tributarie. E queste
leggi devono rispettare il duplice requisito che il concorso dei contribuenti alle spese pubbliche
avvenga “in ragione della loro capacità contributiva”, e che il “il sistema tributario” sia “informato
a criteri diprogressività”.
A differenza del criterio di proporzionalità, previsto dallo Statuto albertino, secondo il quale
ciascuno doveva versare le imposte in misura proporzionale al reddito; il criterio di progressività
esige una percentuale di tassazione che cresce in proporzione geometrica, ossia più che
proporzionale, al reddito: così da colpire i contribuenti più ricchi con aliquote maggiori di quanto
l’altro criterio richiederebbe (principio di eguaglianza sostanziale). Il fatto che il criterio di
progressività sia testualmente riferito al “sistema tributario”, attenua le conseguenze
dell’applicazione dello stesso sul piano redistributivo. Poiché il criterio è dunque riferito al “sistema
tributario”, secondo la Corte, al legislatore non è inibito ispirare la commisurazione del singolo
tributo ad altri criteri diversi da quello di progressività. Ecco perché il precetto sulla progressività
avrebbe finalità politico-sociali la cui attuazione sarebbe in linea di massima rimessa alla
discrezionalità legislativa. Tuttavia, è viceversa pacifico che la “capacità contributiva” limiti la
discrezionalità legislativa: salvo a vedere come e fino a che punto. Secondo la Corte, deve essere
intesa come “specificazione del generale principio diuguaglianza” ed “espressione dell’esigenza che
ogni prelievo tributario abbia causa giustificatrice in indici rivelatore di ricchezza”. Più
precisamente la capacità contributiva non è rivelata soltanto dal reddito che percepisce di fatto la
persona gravata dal tributo: quando oggetto dell’imposta sia una cosa produttiva, la base per la
tassazione è data dall’attitudine del bene a produrre reddito economico e non dal reddito che ne
ricava il possessore.
Si sono posti numerosi problemi: dalla necessità di specificare l’attitudine del bene a produrre un
reddito in casi quali la svalutazione monetaria, alle distorsioni della legislazione tributaria,
derivanti dall’arbitrarietà delle norme o dalla loro frequente efficacia retroattiva. Quest’ultimo
aspetto fu oggetto di un’ importante evoluzione per la giurisprudenza: se all’inizio si esclude che
una legge tributaria retroattiva violi il principio di capacità contributiva, la Corte ha specificato che
deve essere verificato di volta in volta, in relazione alla singola legge tributaria, se questa abbia
violato o meno il precetto costituzionale. In questi casi, è in gioco il principio di legittimo
affidamento del

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contribuente, a tutela del quale lo “Statuto dei diritti del contribuente” (2000) ha stabilito un
principio generale di irretroattività delle disposizioni tributarie ha posto il divieto di istituire
tributi con decreto legge. Nonostante ciò, le leggi successive (alle disposizioni tributarie) possono
pur sempre derogare a tale limite, previsto con legge ordinaria (vale criterio cronologico).
• Dovere di difesa della patria

L’art.52, dopo aver qualificato la “difesa della Patria” come “sacro dovere del cittadino”,
1°comma, afferma che “Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge.
Ilsuo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti
politici.”, 2°comma.
L’affermazione del 1°comma è, secondo la Corte “di altissimo significato morale e giuridica” che
comporta che per tutti i cittadini, senza esclusioni, la difesa della Patria (fondamentale per la
conservazione della comunità nazionale) rappresenta un dovere che, proprio perché “sacro”, si
collega indissolubilmente all’appartenenza alla comunità nazionale identificata nella Repubblica
italiana (e perciò alla cittadinanza). Inoltre, sempre secondo la Corte, questo dovere trascende e
supera il dovere del servizio militare (allora obbligatorio senza eccezioni): infatti mentre
quest’ultimo “è obbligatorio nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge”, il dovere contemplato nel
primo comma è insuscettibile di essere rimosso con legge.
Il 2°comma dell’art.52 prevede poi, ad ulteriore garanzia del cittadino, che l’adempimento
dell’obbligo militare non pregiudica la posizione di lavoro né l’esercizio dei diritti politici.
La l. n. 772 del 1972 aveva previsto che “gli obbligati alla leva che dichiarino di essere contrari in
goni circostanza all’uso personale delle armi per imprescindibili motivi di coscienza” potessero
venire ammessi a prestare un “servizio sostitutivo civile” (poi denominato “servizio civile
nazionale”). La Corte osservò come questa eccezione, disposta in caso di obiezione di coscienza,
sitraduca non in una deroga al dovere di difesa della Patria, ma in una prestazione avente ad oggetto
“comportamenti di impegno sociale non armato” (sent. n. 164 del 1985) e dichiarò incostituzionali
quelle disposizioni che prevedevano una maggiore durata del servizio sostitutivo civile non
giustificata, trovandosi a coincidere con il servizio armato in tutte le modalità (sent. n. 470 del
1989). Più di recente, un indirizzo legislativo avviato con la l. n. 331 del 2000 ha condotto
all’abolizione dell’obbligo del servizio militare, sostituito con un servizio militare professionale
su base volontaria, e ha riconvertito il servizio civile nazionale in una modalità operativa
concorrente ed alternativa alla difesa dello Stato, con mezzi non militari. In entrambi i casi il
dovere del cittadino di difesa della Patria si è ridotto a una sua scelta volontaria. La Corte ha
giustificato l’operazione affermando che il dovere di difendere la Patria deve essere letto alla luce
del principio di solidarietà dell’art.2, chiamando la persona ad agire non solo per l’imposizione di
una autorità, ma anche per libera e spontanea espressione della socialità che caratterizza la persona
stessa.

• Dovere di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione e delle leggi

Secondo l’art.54, 1°comma, “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e
di osservarne la Costituzione e le leggi”.
Sono sorte a tal riguardo 2 questioni (rimaste in ambito scientifico senza trovare riscontro
giurisprudenziale):
1) Se il dovere di fedeltà alla Repubblica sia concettualmente autonomo da quello di
osservanza della Costituzione (sul presupposto che “Repubblica” coincida con
“Costituzione”);
2) Se il dovere di osservare le leggi possa prescindere dalla conformità delle leggi alla
Costituzione;
Si tratta di due questioni distinte ma che possono entrambe essere analizzate attribuendo autonomia
concettuale alle parole. Quanto all’ipotesi di un dovere di osservanza della legge
indipendentemente dalla sua conformità alla Costituzione fino a quando la Corte non ne
abbia

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accertato l’incostituzionalità, essa è implicita nel sistema accentrato di giudizio sulle leggi, come
l’art.101, col richiedere che “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”, non può non far salva la
loro abilitazione a sollevare davanti alla Corte questione di costituzionalità della legge che
dovrebbero applicare.
L’esigenza di autonomia concettuale delle parole usate dalla Costituzione va a maggior ragione
soddisfatta con riguardo ai due doveri richiesti dall’art.54, dato che la distinzione è ribadita nella
formula del giuramento (art.91) “di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione”, che
il Presidente della Repubblica deve prestare dinnanzi al Parlamento in seduta comune: infatti, se i
duegiuramenti si risolvessero in uno solo, anche il Presidente dovrebbe giurare sullo stesso oggetto.
Naturalmente, i due doveri vanno interpretati alla luce di un ordinamento costituzionale di
democrazia pluralista che, a differenza delle democrazie protette, ammette il più ampio dissenso
diopinioni nonché partiti contrari alle sue premesse ideali.
Dunque, dovere di fedeltà e il dovere di osservanza della Costituzione e delle leggi sono
accomunatiper il fatto di riferirsi a comportamenti, non ad opinioni e meno ancora a un’adesione
interiore ai principi costituzionali.
Conseguentemente i due doveri si differenziano solo in riferimento ai comportamenti cui,
entrambi, si riferiscono:
- dovere di fedeltà: vi sono alcuni reati – “attentato contro la costituzione dello Stato”, “attentato
contro organi costituzionali e contro le Assemblee regionali”, “attentati contro i diritti politici del
cittadino” , annoverati fra quelli previsti dalla l. n. 1317 del 1947, “recante modificazioni al codice
penale per la parte riguardante i delitti contro le istituzioni costituzionali dello Stato”, che, vista la
data di approvazione, aiuta a comprendere perché i Costituenti abbiano voluto inserire nel teso il
dovere di fedeltà, e a differenziarlo da quello di osservanza della Costituzione e delle leggi. Si
tratta di un nucleo minimo di fedeltà, e tale perché, ben più dell’osservanza alla Cost. e alle leggi,
la nozione di fedeltà può prestarsi a sconfinamenti nel campo delle opinioni e delle adesioni ideali.
La disciplina consente di riferire l’oggetto del dovere, “la Repubblica”, alle attribuzioni e
prerogative delle istituzioni costituzionali.
- dovere di osservanza: il dovere di osservare la Costituzione e le leggi designa il rispetto dei testi
in questione, ossia della legalità costituzionale e ordinaria: dove, nel linguaggio corrente, a un
contenuto del dovere circoscrivibile nell’accezione di un comportamento, corrisponde un oggetto
deldovere più ampio di quello di fedeltà.
• Dovere di adempiere alle funzioni pubbliche con disciplina e onore

L’art.54, 2°comma, nello stabilire che “I cittadini cui sono affidate le funzioni pubbliche hanno
il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla
legge”, indica una duplice modalità del dovere di adempiere le funzioni pubbliche, con “disciplina
e onore”, destinata ad accomunare tutti “i cittadini cui sono affidate”. Fra costoro però, la
Costituzioneinstaura importanti differenze di status:
1) in ragione delle rispettive funzioni: ad esempio, la prescrizione secondo cui “I pubblici
impiegatisono al servizio esclusivo della Nazione” (art.98), consente di ritenere che per i pubblici
impiegati il momento della “disciplina” prevalga su quello dell’ “onore”. Invece, le variegate
“funzioni pubbliche” affidate ai titolari di organi costituzionali, e ai “funzionari onorari” diversi
dai titolari di organi costituzionali, inducono a ritenere che, per costoro, dovrebbe al contrario
prevalere il momento dell’ “onore”.
2) a seconda che la Costituzione e le leggi prevedano o meno l’obbligo di prestare giuramento:
infatti, solo nella prima ipotesi, l’adempimento di tali funzioni “con onore” si ricollega
all’espletamento di un giuramento.
Il Progetto di Costituzione stabiliva che il giuramento di fedeltà alla Costituzione e alle leggi
della Repubblica per il Capo dello Stato, i membri del Governo, i Presidenti delle Deputazioni
regionali, i magistrati, le forze armate e quelle assimilate. Il testo definitivo ha mantenuto il

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giuramento solo per il Capo dello Stato (art.91) e per i membri del Governo (art.93). La
legislazione, lo mantiene attualmente per i soli appartenenti alle forze armate.
• L’inosservanza dei doveri pubblici e le sue conseguenze

L’evoluzione della legislazione sui doveri pubblici riflette il progressivo svuotamento del loro
significato presso larghe fasce di popolazione (principali sintomi: evasione ed elusione fiscale,
inosservanza della legalità). A questi comportamenti hanno fatto riscontro compiacenti attitudini
dei pubblici poteri, dalla legislazione sui condoni (fiscali, edilizi, valutari) a frequenti dichiarazioni
di “lotta all’evasione fiscale” prive di seguito amministrativo, nonché carenza dei controlli delle
pubbliche amministrazioni. Il disconoscimento di tali doveri genera, a sua volta, conseguenze sulla
finanza pubblica e la sfiducia dei cittadini verso lo Stato favorisce la diffusione della corruzione,
tale da aver richiesto l’istituzione di un’autorità indipendente apposita a prevenire il fenomeno nelle
pubbliche amministrazioni (ANAC: autorità nazionale anticorruzione).

VIII. GIUSTIZIA COSTITUZIONALE

• Il dibattito alla Costituente

Quando trattarono del tema della giustizia costituzionale, i Costituenti si concentrarono quasi
esclusivamente sul giudizio delle leggi, quasi sconosciuto nell’ordinamento italiano.
o All’epoca, la sola esperienza davvero consolidata era quella statunitense, nella cui
Costituzione del 1787 non vi era però traccia di un giudizio del genere. Era stata la Corte
Suprema, a partire da una sentenza del 1803 (Marbury v. Madison), a ricavarlo dalla stessa
superiorità della Costituzione sulle leggi, e a inaugurare un controllo diffuso, perché affidato ad
ogni giudice che, di fronte a una legge da lui ritenuta incostituzionale, la disapplica, con
un’efficacia riferita solo alle parti del giudizio, pur se limitata dall’obbligo di attenersi ai
precedenti (stare decisis) tipico del sistema di common law. La stessa Corte Suprema, quando
dichiara che una legge contrasta con la Costituzione, non l’annulla, ed è solo la sua
autorevolezza a far sì che gli altri giudici si uniformino alla decisione.
o Il giudizio sulle leggi teorizzato da Hans Kelsen nei primi decenni del XX sec., consiste invece
in un controllo accentrato, perché affidato esclusivamente a una corte istituita appositamente,
echiamata a valutare in astratto, a prescindere da concrete controversie, la conformità delle leggi
alla costituzione ed eventualmente ad annullarle con effetti di portata generale (erga omnes).
La soluzione kelseniana poteva sembrare più vicina alla cultura giuridica e alla prassi
giurisprudenziale italiane, ma all’inizio dei lavori della Costituente, l’instaurazione di una Corte era
tutt’altro che scontata. Tuttavia, nonostante l’avversione di alcuni esponenti del mondo liberale
prefascista (Orlando e Nitti) e quella di socialisti e comunisti, la Commissione dei 75 superò ostilità
e diffidenze, tanto che il progetto di Costituzione affidava al Parlamento la nomina di tutti i giudici
costituzionali. Ma l’Assemblea, se riuscì a fissare le modalità di nomina (art.135, 1°comma),
rinviò(per dissensi irriducibili) a una legge costituzionale la disciplina de “le condizioni, le forme,
i termini di proponibilità dei giudizi di legittimità costituzionale e le garanzie di indipendenza
dei giudici della Corte” (art.137,1°comma), poi dettata con l. cost. n. 1 del 1953, e a una legge
ordinaria “le altre norme necessarie per la costituzione e il funzionamento della Corte”
(art.137,2°comma).
I soli punti fermi del testo erano: le attribuzioni della Corte (art.134), le modalità di nomina e di
composizione (art.135) e l’efficacia delle sentenze dichiarative di illegittimità di leggi o di atti
equiparati (art.136).
• Criteri di nomina e altri requisiti strutturali dell’organo.

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L’art.135, 1°comma stabilisce le seguenti modalità di nomina: “la Corte costituzionale è
compostada 15 giudici nominati per 1/3 dal Presidente della Repubblica; per 1/3 dal Parlamento
in sedutacomune e per 1/3 dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrative”.
Ad esse, fa seguire al 2°comma i requisiti per essere nominati prevedendo che i giudici della
CorteCostituzionale sono scelti fra:
- i magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinaria ed amministrative;
- i professori ordinari di università in materie giuridiche;
- gli avvocati dopo venti anni di
esercizio.Inoltre:
- i 5 giudici costituzionali nominati dalle supreme magistrature sono eletti in numero di 3 dalla
Cortedi cassazione, e di 1 per ciascuno dal Consiglio di Stato e dalla Corte dei conti (l. n. 87 del
1953);
- i 5 giudici costituzionali nominati dal Parlamento sono eletti da questo in seduta comune, a
scrutinio segreto e con la maggioranza dei 2/3 dei componenti dell’assemblea nelle prime due
votazioni, e dei3/5 a partire dalla terza (l. cost. n. 2 del 1967);
- i 5 giudici costituzionali nominati dal Presidente della Repubblica sono nominati con suo decreto,
controfirmato dal Presidente del Consiglio dei Ministri (l. n. 87 del 1953).

La disciplina tende ad assicurare una composizione bilanciata del collegio e nella stessa direzione
muove la previsione, del 3°comma, secondo cui: i giudici della Corte costituzionale sono nominati
per 9 anni, “decorrenti per ciascuno di essi dal giorno del giuramento, e non possono essere
nuovamente nominati”. L’avvicendamento parziale nell’ufficio di giudice evita così la necessità
di prevedere il ricorso alla prorogatio, esclusa, come previsto al 4°comma, dalla cessazione “dalla
carica e dall’esercizio delle funzioni” alla scadenza del termine, eliminando i rischi di
oscillazioni giurisprudenziali che deriverebbero da un rinnovo integrale dell’organo, e fa pure sì che,
al momentodella designazione, l’attenzione si concentri sulla personalità, del nominato (≠CSM con
scadenza simultanea di tutti i componenti del collegio).
Così, il mandato novennale, la non rinnovabilità del mandato (che preclude al singolo giudice
ogni velleità di esercitare le proprie funzioni in vista di una riconferma), sono tutte regole sullo
status dei giudici costituzionali che mirano a tutelare l’indipendenza della Corte. Lo stesso vale
per le incompatibilità con l’ufficio di “membro del Parlamento, di un Consiglio regionale, con
l’eserciziodi avvocato e con ogni carica ed ufficio indicati dalla legge” (art.135, 6°comma); e per il
divieto di “svolgere attività inerente ad una associazione o partito politico” (l. n. 87 del 1953).
I giudici della Corte “prestano giuramento di osservare la Costituzione e le leggi, nelle mani del
Presidente della Repubblica, alla presenza dei Presidenti delle due Camere del Parlamento” (l. n. 87
del 1953) e, sempre a tutela dell’indipendenza dell’organo, godono di una serie di prerogative
(disposte per i membri delle Camere):
- l’attribuzione alla Corte del controllo “sull’esistenza dei requisiti soggettivi di ammissione dei
propri componenti”, o verifica dei poteri;
- l’insindacabilità per i voti dati e le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni;
- l’immunità accordata nel 2°comma dell’art.68 ai membri delle due Camere, con attribuzione alla
Corte dell’autorizzazione a procedere;
- il livello di retribuzione, aumentato della metà, del primo presidente della Corte di cassazione,
dunque particolarmente elevato.
È deliberata dalla Corte anche la rimozione o sospensione dall’ufficio dei giudici costituzionali
“persopravvenuta incapacità fisica o civile o per gravi mancanze nell’esercizio delle loro funzioni”,
deliberazione che deve essere adottata a maggioranza di 2/3 dei componenti che partecipano
all’adunanza; mentre è disposta la decadenza automatica per il giudice che “per sei mesi non
esercitile sue funzioni”, a meno che non sia legittimamente impedito.

Vi sono poi altre garanzie di indipendenza, analoghe a quelle di cui dispongono le Camere, seppure
prive di espresso fondamento costituzionale, dettate dalla l. n. 87 del 1953: l’autonomia

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regolamentare; l’autodichia; l’autonomia finanziaria e organizzativa; la garanzia della sede
(con attribuzione al Presidente del potere di ordinare l’accesso della forza pubblica nel palazzo
dellaConsulta).
Di queste garanzie, la più importante è l’autonomia regolamentare, grazie a cui la Corte
disciplina con proprie norme integrative le regole disposte con legge anche per quanto concerne il
processo costituzionale. In assenza di espressa statuizione costituzionale, il fondamento di tale potere
attribuito alla Corte risulta controverso anche se, nella pratica, il problema si porrebbe solo se le
norme integrative disponessero non praeter legem, integrando la disciplina legislativa, ma contra
legem.

Quanto all’organizzazione della Corte, l’art.135, 5°comma, prevede soltanto che “La Corte elegge
fra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica
perun triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dell’ufficio di giudice”. Il
Presidente è eletto a scrutinio segreto, nella prassi fra i giudici più anziani nella carica, per cui
raramente si sono avute le presidenze triennali previste dalla Costituzione, anzi dal 1991 la regola
dell’anzianità è stata seguita molto più fedelmente, col risultato che si è avuta una media di una
presidenza all’anno.
La legge del 1953, il regolamento generale e le norme integrative attribuiscono poi al presidente una
serie di poteri fra i quali:
- rappresentare la Corte all’esterno (anche con le conferenze stampa di fine anno);
- presiedere il collegio;
- nominare il giudice relatore della causa;
- fissare il calendario delle cause;
- convocare la Corte in camera di consiglio nei casi di mancata costituzione delle parti e di
ritenutamanifesta inammissibilità o infondatezza della questione;
Inoltre, sempre secondo la l. n. 87 del 1953, la Corte “funziona con l’intervento di almeno 11
giudici” e le sue decisioni sono “deliberate in camera di consiglio dai giudici presenti a tutte le
udienze in cui si è svolto il giudizio e vengono prese con la maggioranza assoluta di votanti”. Nel
caso di parità di voto prevale quello del Presidente, salvo che per i giudizi di accusa, dove prevale
l’opinione più favorevole all’accusato. Vale comunque la regola della collegialità delle decisioni,
secondo cui non vi è menzione dell’esito della votazione né di eventuali opinioni dissenzienti o
concorrenti.
• Le funzioni della Corte

Secondo l’art.134, la Corte giudica:


1) “sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi
forzadi legge dello Stato e delle Regioni”;
2) “sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni, e
trale Regioni”;
3) “sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica, a norma della Costituzione”.
Il testo originario estendeva ai Ministri l’attribuzione sui giudizi di accusa, poi eliminata con l.
cost.
n.1. del 1989, e non assegnava alla Corte l’ulteriore funzione, prevista poi con l. cost. n.1 del 1953 di:
4) “giudicare se le richieste di referendum abrogativo presentate a norma dell’art. 75 della
Costituzione siano ammissibili ai sensi del 2°comma dello stesso articolo.
= Le funzioni della Corte, che possono esserle attribuite solo con legge costituzionale, sono tutte
preordinate a quella garanzia della Costituzione di cui al Titolo VI della Seconda parte
(“GaranzieCostituzionali”).
≠ Le sue funzioni differiscono, invece, quanto agli aspetti per i quali la Costituzione viene
garantita. Di regola, nei giudizi per conflitto di attribuzione, di accusa, di ammissibilità dei
referendum abrogativi e di legittimità se promossi in via principale dallo Stato o dalle Regioni, la
Corte opera come organo di giurisdizione di diritto obiettivo (ossia di accertamento della legalità
costituzionale

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degli atti dei pubblici poteri). Nei giudizi di legittimità sollevati da un giudice nel corso di un
giudizio, o in via incidentale, la funzione della Corte consiste anche nella tutela dei diritti
fondamentali nei confronti di leggi che li abbiano violati (altro lato della garanzia della
Costituzione).
• IL GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DELLE LEGGI

Secondo l’art.134, il giudizio di legittimità costituzionale ha ad oggetto “leggi ed atti aventi forza
di legge dello Stato e delle Regioni, e presuppone che tali atti possano risultare affetti da vizi di
legittimità in riferimento a un parametro, che è anzitutto la Costituzione.
• Oggetto del giudizio

La Costituzione stessa prescrive che formano oggetto del giudizio di legittimità costituzionale:
- leggi statali e regionali ;
- atti normativi qualificati come aventi forza di legge.
Accanto a questi atti, si apre il campo all’interpretazione:
- è in base alla giurisprudenza della Corte che i regolamenti parlamentari non sono suscettibili di
formare oggetto del giudizio di legittimità costituzionale (anche se, dal punto di vista della loro
collocazione nel sistema delle fonti, i regolamenti parlamentari sono atti immediatamente
subordinati alla Costituzione e separati da leggi e atti aventi forza di legge in base al criterio di
competenza);
- ed è stata sempre la Corte ad affermare la sottoponibilità a proprio giudizio delle leggi
costituzionali in riferimento ai principi supremi dell’ordinamento ricavati dal testo della
Costituzione, nonostantel’assenza di una formale differenziazione tra le disposizioni da cui ricavare
i principi supremi e le altre disposizioni contenute nel testo.
• Parametro del giudizio

Analogo discorso vale per il parametro: è indubbio che la Costituzione sia il parametro dei
giudizi di legittimità costituzionale, ma in via interpretativa la Corte ha esteso tale parametro, oltre
che ai principi supremi con riguardo alla legittimità delle leggi costituzionali, ad una serie di altre
ipotesidi parametri integrativi della Costituzione:
• intanto gli stessi principi supremi fungono da parametro di legittimità costituzionale del diritto

internazionale generale (art.10), della legge di adesione all’UE (art.11), della legge di esecuzione
del Concordato (art. 7).
• sono poi integrative del parametro della Costituzione le norme interposte (fra Costituzione ed

atto ad essa subordinato):


- es. leggi di delegazione rispetto ai decreti legislativi (art.76);
- es. regolamenti parlamentari (quando direttamente attuativi di norme costituzionali) rispetto
alleleggi (art.72);
- es. leggi statali recanti principi fondamentali rispetto alle leggi regionali (art.117,3°comma);
- es. statuti regionali rispetto alle leggi regionali (art.123);
- es. leggi di esecuzione dei trattati internazionali rispetto alle leggi statali (art.117,1°comma).
• nei giudizi sul rispetto del principio di eguaglianza formale (art.3), diventa parametro normativo

integrativo della Costituzione la legge che regoli situazioni affini a quelle regolate dalla legge
impugnata, e che funge da termine di paragone (tertium comparationis) alla cui stregua giudicarne
la legittimità; lo stesso vale per il canone di ragionevolezza delle leggi.

In tutti i casi riportati, l’estensione del parametro non ha a che vedere con l’ordine delle fonti, a
conferma che il trattamento giurisdizionale di un atto normativo non coincide
necessariamente con la sua collocazione nel quadro delle fonti del diritto. La funzione cui
assolve la Corte costituzionale non è infatti preordinata a fini sistematici, ma a far valere in
concreto la Costituzione.

52
Ciò che conta è che la corte motivi perché un certo atto normativo rientri o meno fra “le leggi e gli
atti aventi forza di legge” dell’art.134, e quindi possa o non possa ricadere nel suo sindacato. In
questo secondo caso, la Corte emette una pronuncia di inammissibilità della questione.
L’ammissibilità opera quindi come “filtro preventivo” dei giudizi (può però operare anche per
ragioni ulteriori).
• Disposizione e norma nel giudizio di legittimità

La possibilità che l’atto sia annoverabile fra quelli indicati dall’art.134 è dunque condizione per
proseguire il giudizio nel merito.
La distinzione fra disposizione e norma è usata quotidianamente dai giudici dato che, per poter
applicare una certa disposizione, si trovano nella necessità di interpretarla, di estrapolarne il
significato, quindi la norma, concretamente riferibile alla fattispecie oggetto della controversia; ma
il giudizio nel quale tale distinzione ha trovato le sue utilizzazioni più importanti è il giudizio di
legittimità costituzionale.
Occorre chiederci come la distinzione venga in rilievo per la Corte: con la sent. n. 84 del 1996, la
Corte afferma che “La disposizione costituisce il necessario veicolo di accesso della norma al
giudizio della Corte, che si svolge sulla norma quale oggetto del raffronto con il contenuto
precettivo del parametro costituzionale e rappresenta il tramite di ritrasferimento
nell’ordinamento della valutazione così operata dalla Corte stessa, che giudica su norme, ma
pronuncia su disposizioni” (il che spiega la “funzione servente e strumentale della disposizione
rispetto alla norma”).
• Vizi di legittimità costituzionale

La questione su cui si concentra la Corte verte su disposizioni viziate da illegittimità


costituzionale. Una legge o un atto avente forza di legge, quando è contrario alla Costituzione, è
Viziato, sub specie di "invalidità"; ossia, l'atto, che pur viola una fonte sovraordinata, continua a
produrre i suoi effetti fino al momento in cui non interviene una pronuncia che ne dichiara il vizio
(principio cosiddetto delfavor legis).
Quali sono le tipologie di vizio da cui tali disposizioni possono ritenersi affette?

Una distinzione di base è quella tra


- vizi formali: sono vizi che incidono sull’intero atto e che riguardano il procedimento di
formazione dell’atto legislativo, o più ampiamente lo schema legale, cui l’atto deve per Costituzione
uniformarsi,e differiscono dai vizi sostanziali (o di contenuto) anche per gli effetti che ne derivano.
Infatti, una volta sollevata, e poi accolta dalla Corte, la questione di legittimità di un atto legislativo
per un vizio relativo al suo procedimento di formazione, è l’intero atto che viene ad essere
annullato. Inoltre, sarebbe illogico ritenere che l’illegittimità per vizi formali possa operare per gli
atti legislativi adottati anteriormente alla data di entrata in vigore della Costituzione, essendo allora
previste regole diverse per il procedimento di formazione degli atti legislativi. Infine, non si è mai
dubitato della sindacabilità di eventuali vizi formali delle leggi costituzionali (dunque del rispetto
del procedimento di revisionedell’art.138).
- vizi sostanziali: sono vizi che incidono su singole disposizioni e non sul testo completo e che
riguardano il contenuto dell’atto. Al di là delle diverse classificazioni di tali vizi, c’è un punto che
merita attenzione, ossia la previsione contenuta all’art.28 della l. n. 87 del 1953, secondo cui “Il
controllo di legittimità della Corte costituzionale su una legge o un atto avente forza di legge
esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale
del Parlamento”. La prima parte è pleonastica, dato che un giudizio di legittimità che ha per
parametro la Costituzione esclude già di per sè ogni valutazione di natura politica (valutazione di
approvazione o di rifiuto di scelte politiche). Più problematico è il secondo divieto di “ogni
sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento” che, presupponendo una concezione
della legge come atto libero nel fine e nella scelta degli strumenti per conseguirlo, salvo il rispetto
della Costituzione, a sua volta

53
intesa come insieme di regole che limitano le scelte discrezionali del Parlamento;
corrispondentemente presuppone una concezione della Corte come guardiano che vigila sul rispetto
dei limiti alla sfera di discrezionalità del Parlamento. La scarsità di tali presupposti giustifica
“l’estensione” del parametro di legittimità: canone di ragionevolezza.
Secondo l’art.27 della l. n. 87 del 1953, quando accoglie una istanza o un ricorso relativo a
questioni di legittimità, la Corte “dichiara nei limiti dell’impugnazione, quali sono le disposizioni
legislative illegittime. Essa dichiara altresì, quali sono le altre disposizioni legislative, la cui
illegittimità deriva come conseguenza della decisione adottata”. Come per gli altri giudici, vale
dunque anche per la Corte il principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato, secondo cui
la pronuncia giurisdizionale non può andare al di là di quanto richiesto dalle parti (ultra petitia);
principio che a sua volta discende dal principio della domanda, in base al quale al giudice non è
mai consentito avviare un qualsiasi processo di sua iniziativa o d’ufficio (≠attività legislativa).
Tuttavia, per i giudizi di legittimità, la legge pone una limitata eccezione al principio di
corrispondenza fra chiesto e pronunciato: la Corte può d’ufficio dichiarare l’illegittimità
costituzionale consequenziale di disposizioni legislative identiche o connesse a quella annullata.
Nella giurisprudenza si è poi affermata una seconda eccezione: è il caso della Corte operante come
giudice a quo, che si verifica quando in un giudizio già instaurato davanti alla Corte, questa,
riconosciuta la rilevanza di una disposizione non impugnata, rimette davanti a sè la questione,
sospende il primo giudizio e decide con sentenza della questione in via incidentale da essa stessa
sollevata, per poi riprendere il giudizio che aveva in corso.
• I modi di accesso al giudizio di legittimità costituzionale: in via incidentale e in via principale

• Il giudizio in via incidentale

Secondo l’art.1 della l. cost n.1 del 1948, “La questione di legittimità costituzionale di una legge o
diun atto avente forza di legge della Repubblica, rilevata d’ufficio o sollevata da una delle parti nel
corso di un giudizio e non ritenuta dal giudice manifestatamente infondata, è rimessa alla Corte
costituzionale per la sua decisione”.
Il modo incidentale di accesso al giudizio è così denominato perché si basa sulla necessità che
avvenga “nel corso di un giudizio”, che sia cioè un incidente processuale. Nel caso in cui il
giudice ritenga di dover sollevare questione di legittimità, d’ufficio o su richiesta delle parti, emette
ordinanza di rimessione alla Corte con la quale contestualmente sospende il giudizio in corso (o
giudizio principale), che riprenderà una volta che sia terminato il giudizio davanti alla Corte.

Affinchè il giudizio in via incidentale possa validamente instaurarsi, occorrono le seguenti


condizioni:
1) Giudice a quo: in primo luogo occorre che il giudice a quo (lett. dal quale parte la
vicenda), così chiamato in quanto giudice (criterio soggettivo) che nel corso del giudizio
solleva la questione (criterio oggettivo), sia legittimato allo scopo. Il problema non si pone
per i giudici appartenenti all’autorità giudiziaria comune (civile, penale e amministrativa)
che si trovino a giudicare una certa controversa, dato che, in questo caso, i due criteri sono
riuniti.
Il problema si pone nelle numerose situazioni in cui la qualifica di “giudice” e di “giudizio”
è dubbia poiché:
ricorre il solo criterio oggettivo nel caso di autorità non appartenenti al potere
giudiziario che potrebbero tuttavia dirsi “giudici”, trovandosi a decidere
dell’applicazione di una norma in posizione di terzietà rispetto alle parti e in
contraddittorio con esse (es. Consiglio nazionale forense in sede disciplinare);
ricorre il solo criterio soggettivo nel caso opposto in cui giudici appartenenti al potere
giudiziario potrebbero non trovarsi a svolgere un’attività giurisdizionale (es. attività di
volontaria giurisdizione dove manca la lite).

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La giurisprudenza costituzionale ha adottato, per risolvere tale problema, il seguente
orientamento: ammette la legittimazione a sollevare la questione da parte di giudici per il
qualiricorre il criterio soggettivo o il criterio oggettivo, e non entrambi.

2) Rilevanza: la 2° condizione di valido accesso al giudizio in via incidentale è costituita dalla


rilevanza della questione. L’art.23 della l.n.87 del 1953 afferma che il giudice può
sollevare la questione “qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla
risoluzione della questione di legittimità costituzionale”. L’articolo 24, riferendosi alla
richiesta al giudice da una delle parti di sollevare la questione, aggiunge che “L’ordinanza
che respinge l’eccezione di illegittimità costituzionale per manifesta irrilevanza (o
infondatezza, vedi condizione successiva) deve essere adeguatamente motivata”.
La rilevanza appare come quel nesso che fa derivare la definizione del giudizio che si
svolge davanti al giudice a quo dalla risoluzione della questione di legittimità della legge: il
primo non si può definire se non si risolve la seconda. E nella motivazione dell’ordinanza
con cui il giudice rimette la questione alla Corte, deve essere dimostrato questo nesso.
Secondo altri, la rilevanza non è intesa nel senso, appena detto, che la questione di
legittimità è necessariamente pregiudiziale alla definizione del giudizio, bensì nel senso che
perché il giudice ritenga rilevante la questione basta l’astratta possibilità che egli applichi
la legge della cui costituzionalità dubiti.

3) Non manifesta infondatezza: è poi necessario che la questione non sia manifestatamente
infondata (art.1 della l.cost.n.1 del 1948 e art.23 della l.n.87 del 1953). La formula è
strutturata in una duplica negazione: “non” e “infondata” che equivalgono ad affermare che
la questione è fondata. Tuttavia, tra questi due termini vi è “manifestatamente” che cambia
il senso della formula: da ammissione che la questione è fondata a dubbio che la questione
sia fondata, ossia che la legge sia costituzionalmente illegittima. Con l’inserimento, quindi,
di tale avverbio la formula perde ogni senso di certezza per acquistarne uno di possibilità e,
nell’ordinanza di rimessione alla Corte, il giudice deve motivare la non manifesta
infondatezza, ossia la sussistenza di un dubbio di legittimità della legge.

4) Obbligo di ricercare un’interpretazione adeguatrice: una quarta condizione, non dettata


dalla legge ma richiesta dalla stessa Corte, prevede che nell’ordinanza di remissione, prima
di esprimere il suo dubbio di legittimità della legge impugnata, e anzi per poterlo esprimere,
il giudice deve dimostrare di aver ricercato senza successo un’interpretazione della
legge conforme a Costituzione, dato che altrimenti potrebbe proseguire il suo giudizio
senza investire la Corte. Dunque, il giudice deve provare che il dubbio rimane nonostante
abbia ricercato di adeguare a Costituzione la disposizione, perché, secondo la Corte, le leggi
si impugnano non perché per il giudice esiste un’ interpretazione (della disposizione)
contraria a Costituzione, ma quando per il giudice non esistano interpretazioni ad essa
conformi (sent.n.356 del 1996). L’indirizzo della Corte ha interrotto la tendenza a rimettere
questioni alla Corte anche quando effettivamente si poteva interpretare la legge in senso
conforme allaCostituzione.
• Il processo

Secondo la legge del 1953 e le norme integrative:


- una volta che l’ordinanza di remissione sia pervenuta alla Corte, la causa viene iscritta a ruolo e
ilPresidente dispone la pubblicazione dell’ordinanza sulla Gazzetta Ufficiale;
- dalla data di pubblicazione decorre il termine perentorio (non superabile) di 20 giorno entro il
qualele parti costituite nel processo possono, anche se non devono necessariamente, costituirsi;

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- ad esse può aggiungersi il Presidente del Consiglio dei Ministri tramite l’Avvocatura dello Stato,
secondo una valutazione di opportunità circa la “difesa” della legge oggetto del giudizio e della
discrezionalità del Parlamento (in linea generale, la giurisprudenza costituzionale non ammette
l’intervento di terzi, ossia di parti non costituite nel giudizio a quo).
- Decorsi 20 giorni dalla presentazione delle deduzioni delle parti, il Presidente nomina un giudice
relatore della causa, ed entro i successivi 20 giorni, convoca la Corte per la discussione in udienza
pubblica. Se nessuna delle parti si è costituita, o se il Presidente, d’intesa col giudice relatore,
ritiene che la questione possa risultare inammissibile o manifestatamente infondata, la
convocazione può avvenire in camera di consiglio;
- Fino a 12 giorni prima dell’udienza o della camera di consiglio, le parti possono presentare
memorie nella cancelleria della Corte (non possono modificare i termini della questione, il
cosiddetto thema decidendum, possono solo addure argomenti a favore o contro l’incostituzionalità
della disciplina impugnata).

Le caratteristiche di questo processo sono dunque: la non necessità di costituzione delle parti ai fini
della prosecuzione del giudizio; la fissazione dei limiti indicati in capo alle parti costituite; il
tendenziale divieto di intervento di terzi; l’ammissione della costituzione in giudizio dell’Avvocatura.
• Il giudizio in via principale

Vedi art.127 Cost., nel testo adottato con l.cost.n.3 del 2001.
Il giudizio in via principale (o diretta o d’azione), è così denominato per il fatto di prescindere da
un incidente di costituzionalità sollevato nel corso di giudizio.
Nell’art.127, a proporre giudizio è lo Stato (1°comma), o la Regione (2°comma), quando ritengano
violate le rispettive competenze legislative da parte, rispettivamente di una legge regionale o di una
legge statale. E tale loro considerazione si pone in astratto, nel senso che non ha riguardo ad
alcuna controversia concreta. Nel nostro sistema di giustizia costituzionale, infatti, il giudizio in via
principale è il prototipo di giudizio astratto (insieme al giudizio di ammissibilità del referendum
abrogativo).
La l.cost.n.3 del 2001 ha modificato l’articolo equiparando alle condizioni del giudizio di
legittimità sulla legge e sugli atti con valore di legge dello Stato quelle del giudizio sulla legge
regionale: in entrambi i casi l’ente ricorrente può promuovere questione di legittimità davanti alla
Corte entro 60giorni dalla pubblicazione dell’atto legislativo.
Rispetto alla formulazione originaria, è stato dunque eliminato (≠) il complesso controllo statale
preventivo sulla legge regionale previsto dalla formulazione originaria; mentre è rimasta (=) la
differente formulazione secondo cui il Governo può promuovere ricorso “quando ritenga che una
legge regionale ecceda la competenza della Regione”, mentre la Regione può promuoverlo
“quandoritenga che una legge o un atto avente valore di legge dello Stato o di un’altra Regione leda
la sua sfera di competenza. La differente formulazione prevede che mentre l’impugnativa della
legge regionale possa riguardare non solo la violazione delle competenze legislative previste nel
Titolo V della 2° parte, ma anche di altre norme costituzionali (dato che basta che la legge regionale
“ecceda” la competenza regionale); l’impugnativa della legge dello Stato può riguardare solo la
violazione delle competenze legislative della Regione previste dal Titolo V 2° parte (della sua
“sfera di competenza”).
Inoltre, la l.cost.n.1 del 1999 ha attribuito alla Corte il giudizio di legittimità costituzionale sugli
statuti delle Regioni ad autonomia ordinaria (e delle leggi di Sicilia), ove il Governo promuova
la relativa questione entro 30 giorni dalla loro pubblicazione (che è solo notiziale) ex. art.123 Cost.
Rispetto ai casi precedenti, dove il giudizio è successivo alla pubblicazione della legge, è in questo
caso preventivo
A differenza del giudizio in via incidentale ≠ quello in via principale è un giudizio tra parti
necessarie: per potersi avere giudizio, occorre che si sia costituito almeno il ricorrente, il quale

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può rinunciare al ricorso, e la rinuncia “qualora sia accettata da tutte le parti costituite, estingue il
processo”. Questo elemento non nega però la connotazione astratta del giudizio in via principale:
le parti sono enti, Stato e Regione, che a differenza dei privati cittadini decidono di promuovere
ricorsoe di rinunciarvi secondo valutazioni di opportunità politica.
- Processo: la Corte fissa l’udienza di discussione entro 90 giorni dal deposito del ricorso, e può,
entro 20 giorni dal deposito del ricorso, sospendere l’esecuzione dell’atto impugnato se ritenga che
possa comportare il rischio di un irreparabile pregiudizio all’interesse pubblico o all’ordinamento
giuridico della Repubblica, o il rischio di un pregiudizio grave per i diritti dei cittadini.
• Le decisioni della Corte e i loro effetti

Le decisioni della Corte costituzionale, contro le quali “non è ammessa alcuna impugnazione” (ex.
art.137) sono adottate in forma di: ordinanza o sentenza.
Entrambe sono costituite da: una motivazione, distinta in un “Ritenuto in fatto” che espone i fatti
della causa e in un “Considerato in diritto” che espone le ragioni che stanno alla base della
decisione;e un dispositivo, che enuncia la decisione vera e propria.
Per quanto riguarda il loro contenuto, le decisioni della Corte possono essere: di inammissibilità,
o, tra le decisioni che definiscono il giudizio nel merito, di rigetto o di accoglimento. Quando la
Corte dichiara l’inammissibilità della questione o la rigetta, può adottare la forma dell’ordinanza o
della sentenza; quando invece accoglie la questione, adotta sempre la forma della sentenza.

• Le ordinanze sono:
- Interlocutorie, quando restituiscono gli atti al giudice a quo per una rivalutazione della
questione (ad es. ius superveniens, entrata in vigore di una legge che abbia modificato quella
impugnata), o siano finalizzate ad acquisire dati sulle norme impugnate (ordinanze istruttorie),
odi inammissibilità per vizio sanabile (non adeguata motivazione sulla rilevanza);
- Definitive, quando dichiarino la inammissibilità della q.l.c. (quando l’atto è ritenuto privo di
forza di legge; l’autorità che ha sollevato la questione non è ritenuto giudice a quo; manca o è
erroneamente individuato il parametro; non è stata ricercata un’interpretazione adeguatrice; la
questione è irrilevante) o la manifesta infondatezza della q.l.c. (il caso è analogo o identico ad
altro già deciso con sentenza di rigetto; oppure l’infondatezza è immediatamente rilevabile; per
errata individuazione o interpretazione della norma impugnata.);
- Di correzione di errori materiali, quando riguardano sviste o imprecisioni di precedenti
decisioni della Corte.
• Le sentenze, a differenza delle ordinanze, decidono nel merito la q.l.c. e sono:
- di rigetto, sono strettamente riferite all’infondatezza della questione e sono così dette in
quanto respingono la q.l.c. ma non per questo “la norma è costituzionale”. L’effetto è infatti
limitato a quel singolo giudizio, con la conseguenza che possono ripresentare la questione non
solo altri giudici, ma anche lo stesso giudice e nello stesso giudizio in cui l’aveva proposta la
prima volta, purchè non si tratti di questione identica quanto a norme impugnate, profili di
incostituzionalità e argomentazione. La pronuncia non implica perciò il definitivo accertamento
della conformità a Costituzione della disciplina impugnata. E i suoi effetti sono limitati alle
partiper il caso specifico che le ha coinvolte.
- di accoglimento, quando accolgono la q.l.c e pertanto annullano la norma. Secondo l’art.136
“la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”,
gli effetti di una sentenza di accoglimento, quindi, operano dal momento della pubblicazione e
non sono retroattivi. Tuttavia, il sistema incidentale comportava un’evidente contraddizione
con tale regola, dato che la sentenza non avrebbe avuto effetto nemmeno sulla norma oggetto
della sentenza, necessariamente vigente prima che la sentenza venisse decisa. Per questo, l’art.30
della legge del 53 ha previsto che “Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere
applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”. Il divieto non si

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riferisce solo al giudizio a quo, ma è un divieto di portata generale, estendendo gli effetti
della sentenza di accoglimento a tutti i giudizi in corso alla data della sua pubblicazione nei
quali la norma annullata sia applicabile, ossia ai rapporti giuridici pendenti. Gli effetti non si
estendono, però, ai rapporti esauriti, salvo che si tratti di sentenza irrevocabile di condanna
(favor rei).
In definitiva, di regola l’efficacia delle sentenze di accoglimento è irretroattiva, ossia incide solo
sui rapporti che nasceranno da quel momento in poi; la retroattività degli effetti delle sentenze di
accoglimento vale solo per i rapporti pendenti alla data della pubblicazione della sentenza, mentre
per quelli esauriti (ossia per i quali siano decorsi termini di decadenza o prescrizione o sui quali sia
intervenuta sentenza passata in giudicato) continua a restare in vigore la legge annullata, salvo che
si tratti di legge penale, per la prevalenza del favor rei (vedi libro), o meglio del principio di libertà
personale.
La formazione del giudicato costituzionale, che concerne gli effetti delle sentenze di
accoglimento, comporta l’incostituzionalità di ogni norma di legge che costituisca una “mera
riproduzione” di quellagià dichiarata incostituzionale o che miri a “perseguire esiti corrispondenti”.
• Tipi di sentenze

Nell’ambito della fondamentale distinzione tra sentenze di rigetto e di accoglimento, la Corte


costituzionale ha ampliato i tipi di sentenze cui si può, di volta in volta, ricorrere:
• sentenze interpretative: così denominate non perché con esse “la Corte interpreta” (la Corte

infatti interpreta sempre), ma perché in tali casi la norma desunta dalla disposizione entra a far
parte del dispositivo, o per relationem (nelle interpretative di rigetto, “nel senso di cui in
motivazione”) o direttamente (nelle interpretative di accoglimento). Distinguiamo:
- s.i. di rigetto: la Corte rigetta la questione limitatamente a un significato della disposizione, o
norma, da essa ricavata, e diversa da quella, individuata dal giudice a quo nell’ordinanza di
rimessione, in base alla quale abbia dubitato della sua conformità. La norma ritenuta non
incostituzionale viene precisata in motivazione, e ad essa il dispositivo fa rinvio con la dizione
“nei sensi di cui in motivazione”). Pongono perlomeno un vincolo negativo in capo al giudice a
quo, nel senso che egli non può interpretare la disposizione nel senso disatteso dalla Corte
- s.i. di accoglimento: sono anch’esse sentenze fondate sulla distinzione tra disposizione e
norma, ma con la differenza di indirizzarsi non alla norma ritenuta conforme alla Costituzione
(rigetto), bensì alla norma ritenuta incostituzionale, che, oltre ad essere precisata in
motivazione, è citata nel dispositivo ed espressamente annullata. La Corte fa così valere il
potere di dichiarare l’incostituzionalità di leggi e atti aventi forza di legge, colpendone in tali
casi solamente il significato incostituzionale. Colpiscono il significato della disposizione che la
Corte abbia giudicato incostituzionale e quindi annullano quella norma con le stesse
conseguenze di una sentenza di accoglimento.
• sentenze sostitutive: dove una disposizione è dichiarata incostituzionale perché è dato desumerne

un significato incostituzionale anziché un altro che sarebbe invece conforme a Costituzione


(quando la Corte annulla una disposizione che dice X anziché Y)
• sentenze additive: dove una disposizione è dichiarata incostituzionale nella parte in cui non

prevede una norma che l’avrebbe resa conforme a Costituzione. Ad essere censurata è qui
un’omissione legislativa, che viene colmata dall’addizione compiuta dalla stessa Corte. (Quando
la Corte annulla una disposizione nella parte in cui non prevede X). La Corte ha chiarito come
l’addizione “non debba essere frutto di una valutazione discrezionale, ma consegua
necessariamente al giudizio di legittimità” così che la Corte procede ad un’estensione necessitata e
non una “creazione” libera che spetta invece al legislatore.
• additive di prestazione (pure): comportano una certa “spesa”; sono autoapplicative, ma possono

presentare un problema di costi, oltre che di mancato rispetto della discrezionalità legislativa (la
Corte venne accusata di porre a carico del bilancio di Stato un onere non previsto da art.81);

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• additive di principio: nate alla fine degli anni ’80 appunto per risolvere i problemi ora detti. Ciò
che si aggiunge non è una regola ma un principio generale suscettibile di una pluralità di scelte
fra cui era il Parlamento a decidere la più opportuna. Si raggiunge così l’equilibrio fa intervento
della Corte e Parlamento, che recuperava i margini discrezionali e il potere di decisione di spesa,
previsto da art.81.
• I CONFLITTI DI ATTRIBUZIONE

Secondo l’art.134, i conflitti di attribuzione che la Corte è chiamata a giudicare possono aversi
fra i poteri dello Stato (detti interorganici, in quanto intercorrenti tra organi dello stesso soggetto-
ente), o fra Stato e Regioni, e fra Regioni (detti intersoggettivi, intercorrenti tra diversi soggetti-
enti).
Si tratta di giudizi sull’attribuzione delle competenze garantite dalla Costituzione a ciascun
organo o ente, sollevabili davanti alla Corte con ricorso dell’organo o dell’ente che ritenga lesa la
propria competenza, rispettivamente, da parte di un altro organo o di un altro ente.
Il giudizio è tra parti necessarie (=giudizio in via principale), suscettibile di rinuncia, che se
accettata dall’altra parte estingue il processo. La Corte ha da tempo affermato che il conflitto di
attribuzione non si riferisce alla sola ipotesi di contestazione circa l’appartenenza del medesimo
potere, che ciascuno dei soggetti contendenti rivendichi per sè (c.d. vindicatio potestatis, prevista
da
l.n.87 del 53), ma si estende a comprendere ogni ipotesi in cui, dall’illegittimo esercizio di un
potere, derivi la “menomazione di una sfera di attribuzioni assegnate, costituzionalmente, ad
altro soggetto”. Nei conflitti di menomazione, l’organo o l’ente ricorrente non denuncia la diretta
violazione di una propria competenza, ma assume che l’organo o l’ente resistente abbia esercitato
una competenza, di cui pure è titolare, tale da menomare la sua sfera di attribuzioni cost. garantita.
• Conflitti fra poteri dello Stato

• 1a questione: nozione di “potere dello Stato” (fra teoria costituzionale e giurisprudenza). La


nozione di “potere dello Stato” (superata la teoria di Montesquieu che escluderebbe il Presidente
della Repubblica, la Corte Costituzionale, il CSM) individua gli organi costituzionali che possono
configurarsi quali parti nei conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato che la Corte
Costituzionaliè chiamata a dirimere ex.art.134. Il criterio di individuazione dei poteri dello
Stato è dato
dall’attribuzione che il “potere dello Stato” è chiamato ad esercitare per Costituzione, e che
puòrivendicare, o che può essere chiamato a difendere, in contenzioso giurisdizionale contro altro
potere.Per questo, la Corte ha esteso la nozione di “potere dello Stato” in via interpretativa
ad organiche, senza essere indicati dalla Costituzione, siano chiamati a svolgere funzioni in essa
previste: ad.es. con sent.n.68 del 1978, l’Ufficio centrale per il referendum (composto dai
Presidenti di sezionedella Corte di Cass.) e il Comitato promotore per il referendum (composto
da cittadini-elettori),superando, in quest’ultimo caso, il presupposto secondo cui i poteri dello
Stato fosseronecessariamente interni allo Stato-persona e non anche allo Stato-comunità. Più di
recente (sentt. del2006 e 2009) la Corte ha negato la qualifica ai partiti politici, ritenendoli non
titolari di specificheattribuzioni costituzionali.
• 2a questione: quale sia l’organo del potere dello Stato abilitato a sollevare ricorso per
conflitto di attribuzione o a resistervi.
La questione non si pone quando organo e potere coincidono (es. PdR), ma quando il potere è
interamente composto di più organi. È previsto, dall’art.37 della legge del 53, che il conflitto
insorga “tra gli organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà dei poteri cui
appartengono”: dunque, non l’organo gerarchicamente sovraordinato, perché vi sono poteri, come
il giudiziario che non è organizzato in senso gerarchico (ma diffuso), e nello stesso Governo vi sono
organi come il Ministro della giustizia titolare di attribuzioni costituzionali. Un organo che a)
impegna il potere di appartenenza b) nell’esercitare una funzione che rientri anche in via
interpretativa fra le attribuzioni costituzionalmente garantite (come l’Ufficio centrale per il
referendum e il Comitato promotore).
• 3° questione: quali sono gli atti su cui può sorgere conflitto?

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Può dar luogo a conflitto qualunque atto o fatto, purchè il conflitto che lo abbia ad oggetto non
diventi l’occasione per stravolgere il sistema dei rimedi giurisdizionali altrimenti previsti. Così,
anche le leggi e gli atti aventi forza di legge, purchè non siano impugnabili in sede di giudizio
incidentale, e le sentenze, solo quando se ne contesti la riconducibilità al potere giurisdizionale o il
superamento dei limiti, non anche nei casi di error in iudicando o di cattivo esercizio del potere.
Processo: Secondo art.37 l.n.87 del 1953, “La Corte decide con ordinanza in camera di consiglio
sull’ammissibilità del ricorso” (3°comma) e se ritiene che esiste la materia di un conflitto “dichiara
ammissibile il ricorso e ne dispone la notifica agli organi interessati” (4°comma). Una volta
depositato il ricorso presso la cancelleria, la Corte decide della sua ammissibilità in via preliminare
(“delibazione”), prima di notificare il ricorso alla controparte, sotto il profilo soggettivo
(legittimazione del soggetto come potere dello Stato) e oggettivo (natura costituzionale
dell’attribuzione rivendicata). La fase di delibazione non esaurisce l’esame dell’ammissibilità del
conflitto dato che la controparte può prospettare profili di inammissibilità nel giudizio vero e
proprio. Secondo l’art.38 , la Corte risolve il conflitto dichiarando il potere al quale spettano le
attribuzioni (decisione indefettibile) e, ove sia stato emanato un atto viziato da incompetenza, lo
annulla (decisione eventuale).
• Conflitti fra Stato e Regioni

A differenza del conflitto fra poteri dello Stato, il conflitto di attribuzione tra enti (Stato-
Regioni) può investire un “atto” dello Stato o di una Regione che abbia violato in concreto la sfera
di attribuzione, rispettivamente, di un Regione o dello Stato: può essere un atto amministrativo, una
circolare, una sentenza, o anche un semplice comportamento, ma non una legge o un atto avente
forza di legge, dal momento che è previsto l’apposito rimedio del giudizio in via principale. Dal
punto di vista processuale, i ricorsi possono essere sollevati su impulso degli stessi soggetti che
possono proporre il giudizio in via principale, Stato o Regione, ed entro gli stessi termini di
decadenza (60gg) a decorrere dalla pubblicazione, o nel secondo caso, dalla pubblicazione,
notificazione, o avvenuta conoscenza dell’atto impugnato. Inoltre, come per l’esecuzione degli atti
legislativi impugnati in via principale è prevista l’ipotesi di sospensione anche per quella degli atti
oggetto del conflitto fra enti è prevista tale ipotesi, con la differenza che se nel primo caso la legge
disciplina le ipotesi che possono darvi luogo (vedi supra), nel secondo caso la Corte può disporre la
sospensione “per gravi ragioni, con ordinanza motivata” (art.40 l.n.87 del 1953).
• I GIUDIZI DI ACCUSA
Vediamo poi che, ex.art.134 Cost., la Corte costituzionale giudica “sulle accuse promosse contro
il Presidente della Repubblica, a norma della Costituzione” (non più reati dei Ministri)
ricollegandosi all’art.90 Cost., secondo cui “Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli
atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla
Costituzione. In tali casi è messo in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune, a
maggioranza assoluta dei suoi membri” nonché l’art.135,7°comma, prevede l’integrazione dei 15
giudici della Corte con altri 16 membri tratti a sorte da un elenco di cittadini eleggibili a carica di
senatore, che il Parlamento compila ogni 9 anni con le modalità previste per la nomina dei giudici
ordinari.
I reati di “alto tradimento” e “attentato alla Costituzione” sono per costituzione tipicamente
presidenziali: solo il PdR potrebbe commetterli. D’altra parte, altro aspetto di unicità, né la
Costituzione (neanche come opposti dei giuramenti dell’art.90) né la legislazione qualificano
comportamenti tipizzati che possono integrare gli estremi di tali reati, in deroga al principio nullum
crimen sine lege enunciato dall’art.25. È prevista, in via eccezionale, l’unificazione in capo ad uno
stesso organo, Parlamento in seduta comune, dei poteri di mettere in stato d’accusa un cittadino e
di concorrere a determinare la fattispecie di reato dopo la commissione del fatto (duplice deroga:
oltre all’art.25, anche all’obbligo del pubblico ministero di esercitare azione penale solo sulla base
di una notitia criminis circa il fatto previamente qualificato ‘reato’). Nella storia costituzionale,
accuse e

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giudizi su reati commessi da PdR sono stati spesso sottratti agli organi di giurisdizione penale
(ritenuti suscettibili di pressioni politiche improprie) e attribuiti al Parlamento(caratterizzazione
politica è prevalente) “giustizia politica” (sul libro esigenze). Quindi, le fattispecie dei reati
rimangono indeterminate, e ogni ulteriore specificazione è rimessa all’apprezzamento del
Parlamentoin seduta comune prima, e al giudizio della Corte Costituzionale (integrata) poi.
Procedimento di deliberazione della messa in stato d’accusa: 1° FASE: di indagine, svolta da un
Comitato parlamentare composto dai membri delle Giunte per le autorizzazioni a procedere delle
due Camere, che può archiviare il caso per manifesta infondatezza o ritenersi incompetente, oppure
presentare al Parlamento in seduta comune una relazione che introduce alla 2° FASE: sulla base
della detta relazione, il Parlamento vota a scrutinio segreto e a maggioranza assoluta sulla messa in
stato d’accusa, nel caso di voto favorevole, il Parlamento deve eleggere i Commissari che
sosterranno l’accusa davanti alla Corte.
Procedimento davanti alla Corte: Si articola in una fase istruttoria e una dibattimentale, al
terminedella quale la Corte si riunisce in camera di consiglio senza interruzione con la presenza dei
giudici ordinari ed aggregati intervenuti a tutte le udienze in cui si è svolto il giudizio (15+16). Nel
caso in cui pronunci sentenza di condanna, la Corte determina le sanzioni penali, nei limiti del
massimo di pena previsto da leggi vigenti al momento del fatto, che possono giungere fino
all’ergastolo, nonché le sanzioni costituzionali consente alla Corte di disporre la rimozione del
Presidente dalla carica.
• I GIUDIZI DI AMMISSIBILITÀ DEL REFERENDUM ABROGATIVO

La l.cost.n.1 del 1953 ha dotato, poi, la Corte costituzionale della sola competenza non attribuitale
dalla Costituzione, quella di giudicare “se le richieste di referendum presentate a norma dell’art.75
della Costituzione siano ammissibili ai sensi del 2°comma dell’articolo stesso”, rimettendone le
modalità alla legge sullo svolgimento del referendum popolare. E la l.n.352 del 1970 ha
configurato giudizio di ammissibilità delle richieste referendarie come l’ultima fase del
procedimento relativo a una richiesta di referendum abrogativo. Si tratta perciò di un giudizio
preventivo e obbligatorio, che differisce ≠ da quello di legittimità delle leggi:
- per il presupposto giudizio obbligatorio anziché eventuale;
- per l’oggetto richiesta di referendum anziché legge;
- per il parametro l’art.75 Cost anziché qualunque norma della Costituzione;
- per la sua natura accertare se la richiesta di abrogazione riguarda una legge sottratta per
Costituzione a referendum anziché valutare se una legge sia conforme o meno ad essa.
Nonostante la distanza tra i due giudizi si sia accorciata, la Corte ha continuato a ribadire che il
giudizio di ammissibilità non è la sede di un giudizio sulla legittimità costituzionale della legge di
cuisi chieda l’abrogazione. Tuttavia, all’ulteriore questione se la deliberazione di abrogazione in via
referendaria rientri fra gli atti aventi forza di legge ex.art.134 Cost., e perciò suscettibile di giudizio
di legittimità costituzionale, deve darsi risposta positiva, dato che non sussistono ragioni per
escludere da tale giudizio norme, come quelle scaturenti dall’avvenuta abrogazione, che potrebbero
porsi in contrasto con la Costituzione.

Con la sent.n.16 del 1978, la Corte stabilì che oltre alle leggi espressamente sottratte a referendum
dall’art.75 Cost. (elenco non tassativo) dovessero restarvi parimenti sottratte:
a) Le leggi strettamente connesse a quelle che l’art.75 sottrae a referendum (le leggi
finanziarierispetto alle leggi di bilancio, le leggi di esecuzione dei trattati internazionali rispetto
alle leggi di autorizzazione a ratificare i trattati internazionali);
b) Le leggi costituzionali e le fonti atipiche, (leggi a forza passiva rinforzata, es. esecuzione del
Concordato) in quanto dotate di una resistenza all’abrogazione da parte di leggi successive
maggiore delle leggi formali ordinarie e degli atti aventi forza di legge, e quindi insuscettibili di
essere abrogate dal referendum abrogativo, la cui forza di legge è equiparata a un atto avente
forzadi legge;

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c) Le leggi ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato, ossia le sole leggi il cui
contenuto non possa venire alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino lesi i
corrispondenti specifici disposti della Costituzione. Senza le quali l’operatività di un organo
costituzionale sarebbe paralizzata: ad es. leggi elettorali per le Camere e il CSM.
La Corte ha richiesto, per le leggi suscettibili di venir sottoposte a referendum, che il quesito
referendario fosse caratterizzato da una “matrice razionalmente unitaria”, così da vertere su
oggetti omogenei tra loro ed evitare che gli elettori, rispondendo a una sola domanda, si pronuncino
su norme che avrebbero voluto in parte abrogare e in parte mantenere (contrario a p. libertà di voto,
art.48).
Ben presto, il requisito della “matrice razionalmente unitaria” è stato riferito non solo al quesito,
ma anche al risultato, dunque all’univocità e chiarezza della normativa derivante dall’eventuale
abrogazione della norma (“normativa di risulta”). -vedi libro pag.501 e 502-

IX. GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA

Il fatto che i Costituenti, respinte le proposte di introdurre una giurisdizione unica, abbiano
mantenuto il riparto, proveniente dalla tradizione, tra giudici amministrativi e ordinari circa la
tutela delle situazioni giuridiche soggettive nei confronti degli atti della p.a., non esaurisce la
questione della “costituzionalizzazione” (o “recezione in Costituzione della tradizione”): sia alla
luce dei principi costituzionali, sia per i caratteri peculiari recepiti dalla tradizione.
• I principi costituzionali

La tutela generale delle situazioni giuridiche soggettive verso gli atti amministrativi è ricavabile
dall’art.24 secondo cui “Tutti (= persone fisiche e giuridiche, cittadini e stranieri) possono agire
in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi” e dall’art.113 secondo cui “Contro gli
atti della p.a. è sempre (= tutela garantita con assolutezza) ammessa la tutela giurisdizionale dei
diritti e degli interessi legittimi” e “tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a
particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti”. Infatti, secondo la Corte,
sent.n.212 del 1997, alla luce dei principi di assolutezza e universalità del diritto alla tutela
giurisdizionale (att.24 e 113), “non vi è posizione giuridica tutelata di diritto sostanziale, senza che
vi sia un giudice davanti al quale essa possa essere fatta valere”. È alla luce di questa premessa che
bisogna leggere le disposizioni della Costituzione in tema di riparto di giurisdizione: art.103;
art.113 (1°e 3°comma)e art.111, 8°comma.
Rispetto alle regole anteriormente in vigore, ≠ la Costituzione se ne distacca per 2 aspetti:
1) Le regole sul riparto di giurisdizione comportano che chi agisce in giudizio debba indirizzarsi
al giudice investito di giurisdizione intorno alla situazione soggettiva fatta valere (diritto
soggettivo o interesse legittimo). Nel caso in cui il ricorrente si indirizza al giudice che declini
la propria giurisdizione nel caso, la legge sui TAR del 1971 escludeva che il giudice
amministrativo potesse far salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda (translatio
iudicii).Questa disposizione venne dichiarata incostituzionale alla luce dei principi di
assolutezza e di effettività del diritto alla tutela giurisdizionale. Infatti, il principio di
incomunicabilità dei giudici appartenenti ad ordini diversi (retaggio della tradizione) è
incompatibile con i fondamentali valori costituzionali. È vero infatti che la Costituzione ha
recepito dalla tradizione la pluralità dei giudici, ma è anche vero che ha, fin dalle origini,
assegnato con l’art.24 all’intero sistema giurisdizionale la funzione di assicurare la tutela,
attraverso il giudizio, dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi. Dunque, la pluralità
dei giudici non implica una minor effettività o addirittura vanificazione della tutela
giurisdizionale.
2) Un secondo scostamento dalle regole previgenti, più tenue ma non meno significativo,
derivadal fatto che la legge abolitrice del contenzioso amministrativo disponeva che, di
fronte a un atto amministrativo ritenuto illegittimo, il giudice ordinario potesse solo
disapplicarlo, non annullarlo, mentre la legge istitutiva della IV sezione del Consiglio di
Stato gli

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riconosceva tale potere. Da allora le regole sul punto non sono mutate e la Costituzione si limita a
prevedere una riserva di legge circa la determinazione degli organi giurisdizionali abilitati ad annullare
gli atti della p.a. (art.113,3°comma). Nulla impedirebbe l’attribuzione di un simile potere al giudice
ordinario, dato che i principi costituzionali che governano il riparto di giurisdizione non obbediscono al
modello di riparto trasmesso dalla tradizione, ma all’effettività della tutela.
• Il riparto di giurisdizione

Circa il riparto di giurisdizione (basato sulla dicotomia diritto soggettivo/giudice ordinario


- interesse legittimo/giudice amministrativo), la Costituzione ha ripreso dalla tradizione della
giustizia amministrativa le seguenti regole:
1. L’individuazione, fra le situazioni soggettive che formano oggetto di tutela verso gli atti
amministrativi, di una denominata “interesse legittimo” (artt. 24,103 e 113) accanto al diritto
soggettivo;
2. L’attribuzione della cognizione di ambedue le situazioni “agli organi di giurisdizione
ordinariao amministrativa” (art.113);
3. I veri e propri criteri di riparto sono però previsti dall’attribuzione al giudice amministrativo
di (tutta) la “giurisdizione per la tutela degli interessi legittimi e, in particolari materie, anche
dei diritti soggettivi”(art.103);
4. E dagli art.113 e 103 si desume l’attribuzione al giudice ordinario della giurisdizione per i
diritti soggettivi verso gli atti amministrativi non compresi fra quelli che la legge può
assegnare, per talune materie, alla giurisdizione amministrativa (vedi supra);
5. Il criterio di riparto fondato sulla situazione soggettiva (diritto soggettivo/interesse
legittimo)è solo tendenziale (ossia regola generale), perché “in particolari materie” la legge può
attribuire la cognizione di ambedue le situazioni (interesse legittimo e diritto soggettivo) al
giudice amministrativo (giurisdizione esclusiva).
• Evoluzione della nozione di ‘interesse legittimo’

Fra queste regole, la più importante è quella che assegna al giudice amministrativo il monopolio della
giurisdizione degli interessi legittimi (2).
L’interesse legittimo è una delle situazioni giuridiche soggettive riconosciute dal diritto italiano.
La sua figura, asse portante del riparto di giurisdizione, si era sempre prestata a una pluralità di
ricostruzioni al pari della tradizione della stessa giustizia amministrativa, frutto della
giurisprudenza più che di un compiuto disegno legislativo.
Vediamo l’evoluzione di quest’ultima:
• I soli diritti oggetto di tutela giurisdizionale erano i diritti civili e politici. L’art. 24 dello Statuto
riconosceva il principio di eguaglianza limitatamente al godimento di tali diritti e l’Allegato E
alla legge di unificazione amministrativa del Regno del 20 marzo 1865 aboliva l’istituto del
contenzioso amministrativo, che attribuiva a speciali tribunali (interni alla p.a.) le
controversie in cui fosse parte la p.a., assegnando al giudice ordinario quelle relative ai diritti
civili e politici, e gli “affari” estranei a tali diritti all’autorità amministrativa. Nelle intenzioni del
proponente P.S. Mancini, ciò era sufficiente a garantire che tutti i diritti soggettivi vantati nei
confronti della p.a. rientrassero nella categoria dei diritti civili e politici, con un’applicazione
letterale del principio di separazione dei poteri (dato che i giudici ordinari potevano solo
disapplicare l’atto ma non annullarlo o sospenderlo, potere che spettava solo alla sola
amministrazione).
• Ma nella prassi, negli “affari” riservati all’amministrazione finirono molti diritti, così
declassatia interessi non giustiziabili. Situazione peggiore di quella precedente l’abolizione del
contenzioso amministrativo. Nel discorso di Bergamo del 1880 sulla “Giustizia
nell’amministrazione”, Silvio Spaventa propose di affidare la tutela di tali diritti al Consiglio di
Stato.
• La l.n.5992 del 1989 istituì la IV sezione del Consiglio di Stato per “decidere i ricorsi per
incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge contro atti o provvedimenti di
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un’autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante che abbiano per oggetto
un interesse di individui o di enti morali giuridici”. In caso di accoglimento del ricorso, il
Consiglio di Stato avrebbe annullato, e non disapplicato (come prima il giudice ordinario) l’atto
o provvedimento amministrativo.
• Venivano così poste le basi del riparto di giurisdizione fra autorità giudiziaria ordinaria e
giurisdizione amministrativa, fondato sul criterio della situazione giuridica soggettiva fatta valere
in giudizio: il diritto soggettivo e quell’ “interesse di individui o di enti morali giuridici” che più
tardi si darebbe denominato “interesse legittimo”, che, ove riconosciuto, comportava
l’annullamento di un atto amministrativo per vizi di legittimità.

Nozione di interesse legittimo: evoluzione


A lungo è stato a lungo considerato, anche dopo l’approvazione della Costituzione, come quella
situazione giuridica soggettiva che realizza una coincidenza (o almeno connessione) tra interesse
del privato di al godimento o all’ottenimento di un bene e l’interesse pubblico alla legittimità
degli atti amministrativi. Questa connessione si prestava a una pluralità di tesi, a seconda che si
privilegiasse l’uno o l’altro: dalla tesi che l’i.l. non fosse altro che un interesse occasionalmente
protetto in vista del ripristino della legittimità dell’ordinamento; fino alla tesi del diritto soggettivo
come presupposto necessario dell’i.l. A queste tesi seguirono obiezioni, dato che la prima rifletteva
l’antica concezione dei diritti individuali come mero riflesso del principio di legalità, la seconda
perché non sempre un diritto soggettivo è alla base di un i.l. Inoltre, la tesi stessa della connessione
fu criticata anche per la sua astrattezza.
Seguirono poi diverse elaborazioni scientifiche sul concetto di discrezionalità come aspetto tipico
del potere amministrativo (≠ attività amministrativa vincolata dalla legge, vedi pubblico) che
consentirono di connettere l’interesse del privato all’interesse alla legittimità, non più dell’atto ma
del potere amministrativo, e quindi di distinguere a seconda che l’atto fosse o meno espressione di
un potere discrezionale (tipico del potere amministrativo), soggetto non solo agli obiettivi stabiliti
con legge ma anche al principio di imparzialità della p.a.:
- nel primo caso, in cui la situazione soggettiva è comunque incisa dall’esercizio del potere
amministrativo, essa si qualifica come interesse legittimo;
- nel secondo caso, dove manca tale presupposto, o perché la legge impone all’amministrazione di
garantire il godimento della situazione soggettiva (attività vincolata) o perché non attribuisce
all’amministrazione il potere che questa ha esercitato (carenza di potere), la situazione soggettiva
siqualifica come diritto soggettivo.
Contestualmente all’evoluzione sul piano della natura giuridica degli interessi legittimi, anche dal
punto di vista della tutela giurisdizionale si è assistito al passaggio da un giudizio sull’atto ad un
giudizio sul rapporto in quanto, in conseguenza di detto mutamento vi è stato un ampliamento
dell’oggetto della giurisdizione del giudice amministrativo che ha profondamente inciso
sull’oggetto del giudizio dinanzi al giudice amministrativo e sul riparto di giurisdizione tra il
giudice amministrativo ed il giudice ordinario.
• La giustizia amministrativa nella fase più recente dell’esperienza repubblicana

In base alla tradizionale versione del riparto, al giudice ordinario spetta la giurisdizione sul
risarcimento del danno causato dall’amministrazione per la lesione dei diritti soggettivi; e la Corte
di cassazione aveva sempre ritenuto che il risarcimento, di fronte all’esercizio di un potere
amministrativo, potesse riconoscersi solo se il danno fosse causato da un provvedimento che aveva
inciso su un diritto soggettivo preesistente, e quindi solo in seguito all’annullamento del
provvedimento da parte del giudice amministrativo (sistema macchinoso). In seguito alla sentenza
della Corte di Cassazione n. 500/1999, è venuto meno il principio tradizionale che limitava l'area
della risarcibilità nei rapporti tra cittadino e p.a. alla lesione di diritti soggettivi: l'azione
risarcitoria può essere dunque proposta, come prevede ora espressamente la normativa
sulla giustizia

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amministrativa, anche in caso di lesione dell'interesse legittimo (basandosi sull’art.2043 c.c. che
descrive una fattispecie aperta “qualunque fatto doloso o colposo”).
Quindi, la sentenza afferma la giurisdizione del giudice ordinario a prescindere dalla natura della
situazione soggettiva (diritto soggettivo o interesse legittimo) e, apertasi una breccia nell’assetto del
riparto, non mancò la avversione dei giudici amministrativi, che fu recepita dal Parlamento.
Infatti, la l.n205 del 2000 attribuiva al giudice amministrativo la competenza a pronunciarsi in via
generale sul risarcimento del danno arrecato all’interesse legittimo; ma non solo, aveva anche
assegnato allo stesso la giurisdizione su una serie di materie (es. pubblici servizi, urbanistica,
edilizia), indipendentemente dalla loro inerenza all’esercizio del potere amministrativo, facendo
leva sul fatto che la regola che ripartisce la giurisdizione sia solo tendenziale (vedi supra). Ci si
chiede però fino a che punto, dato che l’eccezione della giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo “in particolari materie” si era così convertita in regola. Allora rispose la Corte
Costituzionale con la sent.n.204 del 20004 con conseguente dichiarazione di incostituzionalità
delle disposizioni della legge del 2000 nella parte in cui non prevedevano che, anche sulle materie di
giurisdizione esclusiva,la giurisdizione dovesse assegnarsi al giudice amministrativo nei soli casi in
cui l’amministrazione “agisca come autorità”.
La Corte afferma che l’ art. 103, 1°comma “non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta
ed incondizionata discrezionalità nell'attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla
sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare “particolari materie” nelle quali
“la tutela nei confronti della pubblica amministrazione” investe “anche” diritti soggettivi” : un
potere quindi che non è assoluto o incondizionato e del quale deve considerarsi anche la natura
delle situazioni soggettive coinvolte (e non solo l’aspetto oggettivo delle materie). Quelle materie
devono essere “particolari”, devono cioè essere contrassegnate dalla circostanza che la pubblica
amministrazione agisce come autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino
davanti al giudice amministrativo.

L’orientamento ha conosciuto ulteriori sviluppi in due direzioni:


1. La Corte è pervenuta, al termine di un lungo itinerario a riconoscere gli interessi legittimi
come diritti fondamentali al pari dei diritti soggettivi. Vediamo come: all’inizio, nei primi
decenni successivi all’entrata in vigore della Costituzione, si riteneva che, fra i diritti
costituzionalmente garantiti, quelli civili e politici fossero da considerarsi diritti soggettivi,
mentre i diritti sociali venivano considerati fra gli interessi legittimi (tendenza che si spiega con
la distinzione tra libertà negative e positivi, vedi supra, dove solo le prima erano da considerarsi
“veri diritti” mentre i diritti sociali esprimevano interessi collettivi e, solo di riflesso,
individuali). Questa visione venne però gradualmente superata dapprima con la sent.n.409 del
1988 con la quale la Corte afferma che “i principi costituzionali sulla tutela giurisdizionale
sono soddisfatti quando gli interessi legittimi possono essere fatti valere dinnanzi al
giudice” e poi con la sent.n.140 del 2007 con cui afferma che “non vi è alcun principio o
noma nel nostro ordinamento che riservi esclusivamente al giudice ordinario-escludendo il
giudice amministrativo- la tutela dei diritti costituzionalmente protetti”.
2. Il Codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104 del 2010) ha in seguito razionalizzato il
riparto di materie seguendo in parte l’orientamento della Corte, prevedendo che alla
giurisdizione amministrativa sono devolute quelle controversie: “nelle quali si faccia
questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti
soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti
provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili all’esercizio di tale potere, posti in
essere da pubbliche amministrazioni” . Oltre questi confini, nelle controversie con la p.a. la
giurisdizione è assegnata al giudice ordinario. Inoltre, ai fini di soddisfare a pieno
l’effettività della tutela giurisdizionale, il codice del processo amministrativo ha avvicinato le
sue regole a quelle del processo civile: le azioni risultano distinte in azioni di accertamento,
costitutive e di condanna (prima invece strettamente derivanti dalle pronunce del giudice e
sostanzialmente

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imperniate sull’azione costitutiva); le pronunce sono dirette a soddisfare le pretese della parte
vittoriosa (con inversione dell’ordine di priorità).

X. DIRITTI FONDAMENTALI E SERVIZI PUBBLICI

Abbiamo visto come l’obbiettivo di rendere effettive le garanzie dei diritti fondamentali abbia
orientato l’evoluzione sia della giustizia costituzionale sia della giustizia amministrativa. Tuttavia,
la protezione giurisdizionale può risultare inadeguata all’obbiettivo, specie nel vasto campo dei
dirittidegli utenti dei servizi pubblici.
• Principi generali dei servizi pubblici e diritti fondamentali degli utenti

Dal momento che sono riferiti a diritti degli utenti, i servizi pubblici in questione sono a fruizione
individuale, non a fruizione collettiva (ritenuti necessariamente indivisibili, rivedi differenze a
pag.10). Le accezioni di servizio pubblico variano ormai non tanto per esigenze di inquadramento
concettuale dei giuristi, quanto perché, a richiamare la nozione, a fini e sotto profili diversi, sono
discipline prodotte da diverse fonti (la Costituzione all’art.43; il diritto UE; la legislazione nazione e
regionale) nonché presenti in svariati ambiti di uno stesso livello normativo (es. legislazione
nazionale: codice penale; legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali; legislazione di settore
sui servizi pubblicinazionali; quella sui servizi pubblici locali ecc.).
Per quanto riguarda i servizi pubblici a fruizione individuale valgono alcuni specifici principi
rispetto a quelli che informano, in generale, l’azione delle pubbliche amministrazioni e che si
impongono anche a soggetti privati che li eroghino:
- principio di universalità: i servizi devono essere usufruibili da parte di tutti;
- principio di accessibilità: i servizi devono essere concretamente accessibili;
- principio di continuità: i servizi devono essere svolti senza interruzione.

Data la diretta connessione con i diritti fondamentali degli utenti, i quali sono cittadini che
usufruiscono di un servizio pubblico, ricaviamo la traduzione in termini costituzionali di tali
principi: il principio di universalità può tradursi nel principio di eguaglianza, e più concretamente
nell’attribuzione alla legge dello Stato della “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”
(art.117,2°comma); i principi di accessibilità e continuità sono traducibili in termini di effettività
delgodimento dei diritti fondamentali.
Il diritto dell’Unione europea riconosce direttamente questi principi o ne fa salva l’applicazione:
- li riconosce direttamente per i “servizi universali”;
- ne fa salva l’applicazione per i “servizi economici di interesse generale” (SIEG).
I principi che informano la gestione e l’erogazione dei servizi pubblici nei rapporti con gli utenti
sono dunque comuni a diverse categorie e soprattutto a diversi regimi di servizi pubblici: non
valgono solo per i tradizionali servizi sociali (es. salute e istruzione), ma anche per i servizi
pubblici sul cui regime giuridico ha maggiormente inciso la libertà di concorrenza, dietro la spinta
del diritto UE; nonvalgono solo per i servizi pubblici nazionali ma anche per quelli locali.
• Garanzie dei diritti fondamentali ed efficienza dei servizi pubblici

Ora, l’insufficienza della tutela giurisdizionale è attestata, in primo luogo, dagli stessi interventi
legislativi. Si pensi al caso dell’esercizio del diritto di sciopero dei lavoratori dei servizi
pubblici essenziali, un diritto garantito dalla Costituzione a loro come a tutti gli altri lavoratori, ma
che viola il principio di continuità nell’erogazione del servizio, e con esso, i diritti degli utenti
(es. salute,

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istruzione, trasporto pubblico). Dato che in tal caso i rimedi giurisdizionali giungerebbero troppo
tardi, è stata prevista una Commissione per contemperare l’esercizio di tali diritti con quello di
sciopero attraverso l’adozione di una serie di regole (“Commissione di garanzia per lo sciopero
nei servizi pubblici essenziali”, vedi pag.31). Sebbene la loro violazione possa comportare
sanzioni da parte della Commissione, suscettibili di impugnativa in sede giurisdizionale, la legge
istitutiva la dota di strumenti per soddisfare nell’immediato diritti che altrimenti resterebbero
irrimediabilmente compromessi dall’interruzione del servizio. La legge istitutiva riflette dunque la
consapevolezza che l’efficienza dei servizi pubblici essenziali è condizione per il godimento dei
diritti fondamentalidei cittadini-utenti.
Tuttavia, nei casi frequenti, in cui la condizione manca per disfunzioni organizzative o gestionali
delle stesse amministrazioni di erogazione del servizio, gli strumenti di tutela dei diritti
fondamentaliperdono presa.
E vedremo come l’introduzione con legge di strumenti alternativi mostra l’insufficienza del ricorso
al giudice e come i successivi rimedi alternativi si sono rivelati inferiori alle aspettative:
- L’adozione, nei primi anni ’90, di “Carte dei servizi pubblici” , a tutela degli utenti, si spiega
proprio con l’acquisizione che il ricorso al giudice, sia per l’annullamento degli atti davanti al
giudice amministrativo, sia per il risarcimento del danno davanti al giudice ordinario, risulta
comunque non adeguato e troppo costoso per i singoli utenti. Le Carte, che fissano gli obiettivi di
qualità e gli impegni assunti con gli utenti, al di là della mera informazione, non hanno però
conseguito i risultati attesi.
- Il d.lgs. n.198 del 2009 ha tentato un’ulteriore strada, quella del ricorso giurisdizionale non
individuale, ma collettivo dei “titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una
pluralità di utenti e consumatori” nei confronti “delle amministrazioni e dei concessionari dei
servizi pubblici”, in presenza di una “lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi”,
derivante anche “dalla violazione degli obblighi contenuti nelle carte di servizi”. La previsione di
un simile ricorso consente di superare alcuni limiti posti dai ricorsi individuali contro le disfunzioni
dei servizi pubblici (es. eccesso di costi); ma si mostra preordinato non a garantire i diritti degli
utenti, bensì a correggere quelle disfunzioni per il futuro. L’incongruenza appare evidente e
serve a spiegare come neanche questa disciplina si sia mostrata all’altezza delle aspettative.
• Garanzia dei diritti fondamentali e finanziamento dei servizi pubblici

La carenza di risorse finanziarie è il secondo, non meno importante, problema che mette a
repentaglio l’esercizio dei diritti fondamentali degli utenti dei servizi pubblici, soprattutto dei
servizisociali. Per carenza di risorse, il servizio:
- in frequenti ipotesi, è reso in condizioni di precarietà e di degrado (es. edilizia scolastica
pericolante; strade interrotte; illuminazione pubblica ridotta ecc.);
- in casi estremi, non è nemmeno disponibile, si tratti del bene oggetto della prestazione (es.
provvista minima idrica giornaliera; fornitura di energia elettrica o di gas) o degli addetti a una
prestazione di facere (cura, insegnamento, assistenza, trasporto).
La carenza di risorse non è però una variabile indipendente: riguarda le scelte del legislatore, che
dispone l’allocazione delle risorse, e un giudice diverso da quelli preposti direttamente alla tutela
dei diritti, la Corte costituzionale. Di quest’ultima ricordiamo gli indirizzi volti a salvaguardare il
“nucleo essenziale” dei diritti sociali da restrizioni finanziarie giustificate da vincoli di bilancio, che
spesso incidono sulla qualità e funzionalità dei servizi pubblici. Questi indirizzi possono solo
temperare la portata delle restrizioni finanziarie, dato che le scelte di allocazione delle spese
spettano al Parlamento. Ancora una volta, emergono i limiti degli interventi giudiziali a tutela dei
diritti fondamentali degli utenti dei servizi pubblici, e il ben più decisivo ruolo che giocano a tal
riguardo gli organi di indirizzo politico. Ci si dovrebbe allora interrogare sul comportamento di
questi ultimi,ma la domanda sarebbe incompleta visto che, in ogni democrazia, i titolari degli organi
di indirizzo politico devono essere rinnovati periodicamente dagli elettori, e il loro comportamento
inefficiente

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dura da troppo tempo per incolpare un singolo partito o una classe politica dominante in un
determinato periodo. La risposta va ricercata negli intrecci (aggiustamenti di interesse) di gruppi
sociali più o meno numerosi, potenti e abbienti, col potere politico e amministrativo, a spese della
generalità dei cittadini. È questo il lato oscuro del pluralismo italiano: compiacenti attitudini
verso l’inosservanza dei doveri (vedi pag.49) e noncuranza verso i servizi a fruizione
individuale.

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