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GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA
La giustizia amministrativa può essere definita come l’insieme dei rimedi giurisdizionali e non
giurisdizionali che possono essere esperiti dai soggetti titolari di diritti soggettivi o di
interessi legittimi lesi da atti o da comportamenti della pa.
In Italia la giustizia amministrativa si è sviluppata - a partire dalla legge di abolizione del
contenzioso amministrativo (l 2248/1865) - in modo empirico e graduale; ciò ad opera del
legislatore e della giurisprudenza che via via hanno accresciuto il livello di tutela del cittadino.
Il sistema della giustizia amministrativa va innanzitutto collocato nel contesto dell’affermarsi dello
Stato di diritto in Europa. Lo Stato di diritto si regge su alcuni elementi strutturali: a) trasferimento
della sovranità dal rex legibus solutus a un parlamento; b) separazione dei poteri; c) inserimento
nelle costituzioni di riserve di legge; d) possibilità per il cittadino di ottenere tutela delle proprie
ragioni nei confronti della pa innanzi a un giudice imparziale e indipendente dal potere esecutivo.
Quest’ultimo elemento rappresenta la saldatura di tutti gli altri elementi.
Il sistema della giustizia amministrativa ha anche una dimensione organizzativa che si manifesta
su più versanti: organici dei magistrati e del personale; distribuzione dei carichi di lavoro tra
collegi giudicanti e all’interno di questi; informatizzazione degli uffici e degli adempimenti
processuali ecc. Il “servizio pubblico” giustizia deve essere dunque organizzato in modo da
assicurare livello elevati di efficienza e di efficacia.
della “parità delle armi”: la paritarietà delle parti innanzi a un giudice terzo e imparziale nel
contraddittorio è ormai espressamente enunciata dall’art 111.2 Cost.
Fonti normative
La Costituzione pone i principi fondamentali relativi alla tutela dei diritti soggettivi e degli
interessi legittimi e alla giurisdizione del giudice ordinario e del giudice amministrativo.
L’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo e il processo amministrativo sono
disciplinati dal Codice del processo amministrativo. Il codice contiene anche un rinvio (cd rinvio
esterno), per quanto in esso non espressamente previsto, alle disposizioni del cpc “in quanto
compatibili o espressione di principi generali” (art 39).
Il codice precisa anche che la giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena e effettiva,
oltre che in base ai principi della Costituzione, secondo i principi del diritto europeo.
L’ambito della giurisdizione del giudice ordinario e le forme di tutela ammissibili nei confronti
della pa sono definiti dalla l 2248/1865 All. E; la disciplina processuale è essenzialmente quella
prevista dal cpc.
La disciplina processuale dei giudizi innanzi alla Cdc è contenuta nel Codice della giustizia
contabile del 2016.
Alcune regole speciali sono peraltro poste dal testo unico sull’Avvocatura dello Stato.
I ricorsi amministrativi sono disciplinati dal dpr 1199/1971.
Il sistema della giustizia amministrativa si è formato in Italia secondo un andamento poco lineare.
Le tappe più importati sono: il sistema del contenzioso amministrativo negli Stati preunitari; il
sistema del giudice unico; l’istituzione del g.a. nel 1889; il Cpa del 2010.
Un mutamento formale di ruolo del Conseil d’Etat si ebbe nella seconda metà del XIX secolo
quando la legge gli attribuì funzioni giurisdizionali (cd giustizia delegata, cioè attribuita come
competenza esercitata in nome proprio).
In definitiva nell’esperienza francese il contenzioso amministrativo sfociò nell’istituzione di una
giurisdizione amministrativa parallela e separata da quella ordinaria.
Esperienza italiana —> in Italia erano già state sperimentate forme di tutela giurisdizionale e va
ricordata in particolare la Regia camera della sommaria operante nel Regno di Napoli come
tribunale amministrativo supremo. Il contenzioso amministrativo modellato sull’esperienza
francese venne imposto con l’occupazione napoleonica. Nel Regno di Sardegna nel 1831 un
Consiglio Stato e negli anni successivi fu introdotto e perfezionato un sistema articolato di
contenzioso amministrativo.
Con l’unificazione nazionale nel 1861 si pose il problema di uniformare anche la materia della
giustizia amministrativa. I modelli cui fare riferimento erano all’epoca 2: a) contenzioso
amministrativo francese; b) devoluzione al giudice ordinario delle controversie tra cittadino e pa
prevista dalla costituzione belga del 1831, secondo l’esperienza inglese della common law (che
non ammette né un diritto né un giudice speciale per la pa; l’amministrazione era sottoposta alla
legge alla stregua dei privati e non godeva di privilegi).
★ Il dibattito che accompagnò in Italia i progetti di riforma presentati al Parlamento tra il 1861 e il
1864 e l’approvazione della l 2248/1865 contrappose i fautori della continuità del sistema del
contenzioso amministrativo opportunamente perfezionato e i fautori dell’abolizione integrale del
precedente sistema ritenuto illiberali. Secondo questi ultimi “uno è il diritto e una quindi la
giustizia” con la conseguente necessità di sopprimere forme di tutela diverse da quella offerta dal
giudice ordinario. Prevalse alla fine questa impostazione recepita nella l 2248/1865 All. E.
L’allegato in questione fa parte di un pacchetto di 6 testi legislativi che realizzarono l’unificazione
amministrativa del nuovo Stato.
Innanzitutto contiene una pars destruens: abolisce i giudici ordinari del contenzioso
amministrativo conservando alcune giurisdizioni speciali e in particolare quella della Corte dei
conti e del Consiglio di Stato in materia di contabilità e pensioni.
Nella pars costruens prevede che le controversie attribuite in precedenza al contenzioso
amministrativo “saranno d’ora in poi devolute alla giurisdizione ordinaria o all’autorità
amministrativa secondo le norme dichiarate dalla presente legge” (art 1). Il criterio di riparto
viene stabilito dai due successivi articoli, il primo ancora oggi in vigore, il secondo rimasto
sostanzialmente inattuato.
L’art 2 devolve alla giurisdizione ordinaria “tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materie per le
quali si faccia questione di un diritto civile o politico” —> traccia i limiti esterni della giurisdizione
ordinaria in base al criterio del diritto soggettivo.
L’art 3 attribuisce alle autorità amministrative “gli affari non compresi nell’articolo precedente” —>
introduce un criterio negativo residuale che abbraccia le situazioni che non hanno la consistenza
di un diritto soggettivo.
L’art 3 introduce alcune regole procedimenti volte a ridurre l’arbitrarietà delle determinazioni
assunte dall’amministrazione attiva —> prevede la necessità del contraddittorio sotto forma di
deduzioni e osservazioni scritte delle parti interessate, l’acquisizione dei pareri dei consigli
amministrativi, la motivazione dei decreti emanati dall’amministrazione, il rimedio del ricorso
gerarchico.
Mentre l’art 2 individua i limiti esterni alla giurisdizione del giudice ordinario, gli art 4 e 5 tracciano i
limiti interni cioè i tipi di sentenze che il giudice ordinario può emanare in presenza di un atto
emanato dalla pa.
Queste disposizioni mirano a realizzare un equilibrio tra esigenza di tutela dei diritti del cittadino e
principio della separazione dei poteri secondo un’impostazione che ruota essenzialmente attorno
ad alcuni punti essenziali.
In primo luogo, secondo l’art 4.1 ove la controversia riguardi “un diritto che si pretende leso da un
atto dell’autorità amministrativa” i giudici “si limiteranno a conoscere degli effetti dell’atto stesso
in relazione all’oggetto dedotto in giudizio” —> oggetto della cognizione del giudice ordinario
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sono solo gli affetti prodotti dall’atto sul diritto soggettivo dedotto in giudizio al fine di reintegrarlo nel
caso in cui venga accertata una violazione: la sentenza resa dal giudice ordinario non investe l’atto
in se stesso e di conseguenza tutti gli effetti da esso prodotti eventualmente anche nei confronti
di altri soggetti e non può contenere una dichiarazione di illegittimità del medesimo a valenza
generale.
Ciò è confermato dall’art 4.2 e dal successivo art 5. L’art 4.2 prevede che “l’atto amministrativo
non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità
amministrative”: solo queste ultime possono rimuovere l’atto illegittimo con effetti nei confronti di
tutti i potenziali destinatari. Per contro il giudice ordinario non può emanare sentenze costitutive
sotto forma di annullamento, revoca, modifica, sospensione di un atto amministrativo e più in
generale di sostituzione diretta o indiretta della volontà espressa dall’amministrazione con l’atto
amministrativo: le pronunce di questo genere finirebbero per incidere sulla sfera di attività
riservate alla pa e ciò in contrasto con il principio della separazione dei poteri.
Peraltro per non vanificare la portata precettiva delle sentenze del giudice, l’art 4.2 pone in capo
all’amministrazione l’obbligo di conformarsi al giudicato (“le amministrazioni si conformeranno
al giudicato dei tribunali in quanto riguarda il caso deciso”). Tale obbligo non è munito dalla legge
del 1865 di alcuno strumento esecutivo atto a garantirne l’osservanza effettiva.
L’art 5 stabilisce che “le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi e i regolamenti
generali e locali in quanto siano conformi alle leggi” —> la disposizione consente al giudice di
disapplicare il provvedimento illegittimo e lesivo del diritto soggettivo cioè di decidere la
controversia senza tener conto di esso.
La l 2248/1865 segnò una cesura netta rispetto al sistema precedente del contenzioso
amministrativo. Questa legge finì per deludere le aspettative dei suoi fautori —> determinò anzi
una situazione nella quale il cittadino si trovò ancora meno tutelato nei suoi rapporti con
l’amministrazione. A questo risultato concorsero più fattori: l’incerta determinazione dell’ambito di
cognizione del giudice ordinario; la mancanza di strumenti efficaci per indurre l’amministrazione a
conformarsi al giudicato del giudice ordinario; l’assenza di strumenti di tutela giurisdizionale per
interessi individuali diversi dai diritti soggettivi che in precedenza potevano essere fatti valere
almeno in parte all’interno del sistema del contenzioso amministrativo
Quanto al primo aspetto la legge del 1865 non chiariva un punto fondamentale cioè il rapporto tra
provvedimento amministrativo illegittimo e diritto civile o politico inciso dal provvedimento. In
astratto due potevano essere le interpretazioni in ordine al rapporto tra provvedimento e diritto
soggettivo, la prima più aderente allo spirito della riforma, la seconda, accolta dalla
giurisprudenza e tramandatasi pressoché inalterata fino ai nostri giorni che favorì l’insuccesso
della riforma:
a) In base alla prima interpretazione il principio di legalità doveva essere inteso in un’accezione
rigorosa —> il provvedimento non conforme alla legge non è in grado di produrre alcun effetto
costitutivo, modificativo, estintivo delle situazioni giuridiche delle quali è titolare il soggetto
destinatario del provvedimento. Il diritto soggettivo è impermeabile e resiste di fronte al
provvedimento illegittimo, pertanto il giudice ordinario concepito come giudice dei diritti
soggettivi, accertata la non conformità del provvedimento alla legge lo disapplica.
b) La seconda interpretazione, ispirata a una concezione rigorosa del principio della separazione
dei poteri, si fondava su un’equiparazione tra provvedimento invalido (non conforme alla legge)
e provvedimento valido —> il primo sia pure in via provvisoria e precaria cioè fin tanto che non
viene annullato da un giudice o dalla stessa amministrazione in sede di autotutela è in grado di
produrre tutti i suoi effetti, come se si trattasse di un provvedimento conforme alla legge. Il
provvedimento amministrativo invalido non perde il suo carattere imperativo cioè l’attitudine a
incidere in via unilaterale nella sfera giuridica dei destinatari: è in grado di travolgere i diritti
soggettivi con i quali entra in contatto. Estinto il diritto soggettivo viene meno per ciò stesso il
presupposto stabilito dall’art 2 della l 2248/1865 per incardinare la giurisdizione del giudice
ordinario cioè la titolarità di un diritto soggettivo. Secondo questa ricostruzione provvedimento
Un altro difetto della legge del 1865 era rappresentato dal divieto di annullare o modificare gli
atti amministrativi illegittimi imposto al g.o. e dalla mancata previsione di strumenti per
garantire l’adempimento da parte dell’amministrazione dell’obbligo di conformarsi al giudicato
ex art 4.2. L’obbligo in capo all’amministrazione di conformarsi al giudicato del giudice ordinario
era in realtà incoercibile cioè rimesso al senso di legalità dell’amministrazione stessa.
La legge del 1865 era carente sotto un terzo aspetto: la presenza di situazioni prive diprotezione
—> la mancanza di un giudice competente a conoscere di quelle situazioni sempre più frequenti
nelle quali i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione non potevano essere ricostruite in
termini di diritti soggettivi.
Tra le questioni cd di “amministrazione pura” sprovviste di tutela giurisdizionale rilevate da Silvio
Spaventa in un celebre discorso pronunciato a Bergamo che diede un impulso decisivo alla riforma
del sistema della giustizia amministrativa finirono per rientrare per esempio nel solo settore della
polizia preventiva, il rilascio del porto d’armi, l’autorizzazione all’apertura di esercizi commerciali,
l’avvio di attività economiche.
Per tutti questi rapporti di interesse in cui un cittadino può essere offeso non vi era altro rimedio
che il ricorso gerarchico, uno strumento che non offriva una garanzia sufficiente di giustizia.
In presenza di questa situazione di sostanziale regresso della tutela rispetto al sistema del
contenzioso amministrativo si aprì un dibattito politico e dottrinale.
Il ddl Crispi presentato al senato nel 1887 e che si traduce nella legge 5992/1889 proponeva
l’attribuzione di nuove competenze al Consiglio di Stato; la ragione di questa preferenza va
rintracciata anche nel fatto che il supremo organo consultivo del Governo aveva già maturato
un’esperienza significativa di risoluzione di controversie tra cittadino e pa.
La l 5992/1889 istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato venne emanata nel segno della
continuità sia rispetto alla legge del 1865 sia rispetto all’esperienza ritenuta positiva dell’attività
svolta dal Consiglio di Stato.
Alla IV Sezione venne attribuita la competenza a “decidere sui ricorsi per incompetenza, eccesso
di potere o per violazione di legge contro atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa o di un
corpo amministrativo deliberante, che abbiano per oggetto un interesse di individui o di enti morali
giuridici, quando i ricorsi medesimi non siano di competenza dell’autorità giudiziaria ne sitratti di
materia spettante alla giurisdizione o alle attribuzioni contenzione di corpi o collegi
amministrativi”.
Questa scarna disposizione chiariva dunque che essa era concepita come un completamento della
tutela garantita dal g.o., la cui competenza era espressamente fatta salva. Inoltre delineò
l’ossatura del nuovo tipo di procedimento con alcune disposizioni poi confluite nel testo unico
delle leggi sul Consiglio di Stato del 1924, nella legge istitutiva dei Tar del 1971 e finanche nel
Cpa.
L’art 3 costruì il nuovo rimedio come ricorso avente per oggetto l’impugnazione di
provvedimenti illegittimi lesivi di un interesse individuale; proprio sulla base di questa
disposizione la giurisprudenza elaborò la teoria dei vizi del provvedimento e la nozione di interesse
legittimo.
L’art 3.2 chiarì che il ricorso alla IV Sezione non è ammesso contro i provvedimenti emanati dal
governo nell’esercizio del potere politico.
Sotto il profilo procedimentale l’art 7.1 stabilì che il ricorso alla IV Sezione poteva essere proposto
solo contro i provvedimenti definitivi, esperiti cioè i ricorsi gerarchici (regola che venne superata
solo con la legge del 1971 istitutiva dei Tar).
L’art 7.2 pose anche l’alternatività del ricorso alla IV Sezione rispetto al ricorso straordinario al Re:
il nuovo tipo di rimedio venne concepito come aggiuntivo anche rispetto ai rimedi amministrativi
già previsti nell’ordinamento.
L’art 9 fissò in 60 gg il termine generale per la notifica del ricordo all’autorità che ha emanato l’atto
e in 30 gg il termine per il deposito.
Quanto ai tipi di pronuncia l’art 17 pose la regola che in caso di accoglimento del ricorso, la IV
Sezione “annulla l’atto o il provvedimento, salvi gli ulteriori provvedimenti dell’autorità
amministrativa”: alla IV Sezione venne attribuito espressamente quel potere di emanare pronunce
costitutive espressamente negato al giudice ordinario dall’art 4 l 2248/1865.
In definitiva la legge del 1889 concepì il ricorso alla IV Sezione come rimedio impugnatorio a
carattere generale di atti amministrativi illegittimi lesivi di interessi individuali.
Accanto alla competenza generale di legittimità, la l del 1889 attribuì alla IV Sezione una
competenza speciale di merito in alcune materie indicate tassativamente dall’art 4. Nell’ambito
di questa particolare giurisdizione, il giudice era titolare di poteri non solo di annullamento del
provvedimento, ma anche di decisione “nel merito”, cioè di sostituzione della decisione assunta
dall’amministrazione e formalizzata nell’atto impugnato.
Tra le competenze di merito l’art 4.4 includeva i “ricorsi diretti a ottenere l’adempimento
dell’obbligo dell’autorità amministrativa di conformarsi, in quanto riguarda il caso deciso, al
giudicato dei Tribunali che abbia riconosciuto la lesione di un diritto civile o politico”. La legge
colmò così una lacuna della legge del 1865 consistente nella incoercibilità delle sentenze del
giudice ordinario.
Con la legge del 1889 il sistema della giustizia amministrativa italiano assunse una configurazione
dualistica.
della IV Sezione. Ammise pertanto contro di esse il ricorso innanzi alle proprie Sezioni Unite e
riconobbe alle decisioni autorità di giudicato anche nei confronti dell’autorità giudiziaria.
Anche parte della dottrina negò inizialmente la natura giurisdizionale in base all’argomento che
una natura propriamente giurisdizionale poteva essere riconosciuta soltanto agli organi preposti
alla tutela di interessi garantiti come veri e propri diritti soggettivi. Un’altra parte della dottrina, pur
favorevole alla tesi della natura giurisdizionale, fu incline a definirla come giurisdizione di tipo
oggettivo ossia finalizzata al mero ripristino, nell’interesse pubblico, della legalità violata, anziché
nell’interesse individuale di chi propone il ricorso. A questa ricostruzione si oppose poi la
ricostruzione in chiave soggettiva divenuta col tempo prevalente.
Anche la questione del riparto di giurisdizione tra g.o. e IV Sezione fu oggetto di un dibattito.
Ci si interrogò in particolare se il criterio del riparto dovesse fondarsi sul petitum (tipo di
provvedimento giurisdizionale richiesto) ovvero sulla causa petendi (situazione giuridica fatta
valere).
Venne prospettata inizialmente la cd teoria della doppia tutela —> il titolare del diritto soggettivo
leso da un provvedimento amministrativo era posto innanzi a una scelta: azionare il diritto
soggettivo in via autonoma innanzi al g.o. ai fini dell’accertamento della lesione; ovvero farlo
valere come interesse legittimo innanzi alla IV Sezione allo scopo di ottenere l’annullamento.
Questa teoria individuava quindi nel petitum il criterio.
Sulla questione intervenne nel 1891 una celebre pronuncia delle SSUU (caso Laurens) seguita nel
1897 da un’altra pronuncia famosa (caso Trezza): queste sentenze introdussero il criterio della
causa petendi. La Corte di cassazione rigettò poi la cd teoria della prospettazione che per
determinare la sussistenza in concreto della causa petendi, faceva riferimento esclusivo alla
prospettazione della situazione giuridica della parte che promuove il giudizio anziché la reale
consistenza della medesima situazione giuridica (causa petendi sostanziale o petitum sostanziale).
Un’altra questione riguardava la distinzione tra giudizio di legittimità e giudizio esteso al
merito riferito a un elenco tassativo di materie e caratterizzato da poteri di cognizione e decisione
più ampi. Tracciare la linea di confine tra sindacato di legittimità e di merito significava definire
l’estensione della competenza generale della IV Sezione: una definizione troppo ampia della
nozione di merito avrebbe ampliato l’area della insindacabilità degli atti amministrativi riducendo
la portata innovativa della legge.
Altra questione atteneva alla tripartizione dei vizi di legittimità deducibili innanzi alla IV
Sezione. Poiché infatti nel corso dell’iter parlamentare di approvazione della legge erano stati
espunti due altri vizi si poteva ritenere che il sindacato di legittimità esercitato dalla IV Sezione
dovesse essere mantenuto entro limiti ristretti e che comunque non abbracciasse tutte le possibili
configurazioni dell’illegittimità.
Dopo qualche incertezza iniziale la IV Sezione affermò che un apprezzamento dell’autorità
amministrativa non può essere censurato in sede di legittimità se “non contiene nulla di illogico,
irrazionale o di contrario allo spirito della legge” —> se ne poteva dedurre a contrario una nozione
di legittimità piuttosto ampia che innescò poco a poco quel lungo processo di elaborazione
dell’eccesso di potere e di individuazione delle figure sintomatiche e di costruzione dei principi
generali dell’azione amministrativa.
Quanto alla competenza della IV Sezione estesa al merito, una prima caratteristica venne
individuata nel potere del giudice di conoscere e valutare direttamente il fatto, anche a
prescindere dalla ricostruzione operata dall’amministrazione nel provvedimento: la competenza di
merito venne cioè intesa come una “giurisdizione piena” che muove da un accertamento diretto
del fatto, contrapposta alla competenza generale di legittimità che invece venne ricostruita
secondo il modello del giudizio di cassazione nel quale il sindacato sulla ricostruzione dei fatti è
sempre indiretto.
Ulteriore questione riguardava la nozione di atto politico che per espressa previsione dell’art
3.2 non poteva essere oggetto di impugnazione innanzi alla IV Sezione.
La IV Sezione assunse un atteggiamento restrittivo al fine di evitare erosioni del proprio ambito di
cognizione.
In definitiva emerge come il processo amministrativo si venne via via consolidando come un
processo da ricorso di tipo essenzialmente cassatorio, cioè di caducazione (annullamento) di
provvedimenti amministrativi illegittimi.
L’oggetto immediato della cognizione era l’atto emanato dall’amministrazione. Peraltro a
differenza di quanto accadeva nei giudizi innanzi al g.o. involgenti soggetti privati, il rapporto
giuridico sostanziale restava sullo sfondo e poteva emergere solo attraverso la cognizionedell’atto
dell’amministrazione che fungeva da schermo tra il g.a. e il fatto.
Il processo delineato dalla legge del 1889 assunse progressivamente una configurazione
soggettiva. Sintomatica di questa evoluzione fu in particolare l’affermarsi del vincolo del giudice
ai motivi di ricorso: la IV Sezione fece progressivamente proprio il principio secondo il quale il g.a.
non può emettere pronunce “se non nei limiti dei motivi di impugnazione”.
Collegata all’emergere della colorazione soggettiva fu anche la caratterizzazione del processo
come processo di parti poste su un piano di tendenziale parità.
Inizialmente la IV Sezione negò che l’amministrazione potesse essere condannata alle spese del
giudizio in quanto “non assume mai la veste di parte soccombente” in quanto compare in giudizio
esclusivamente allo scopo di difendere nell’interesse generale l’efficacia del provvedimento
emanato: si riteneva che intervenisse in giudizio non come parte ma come autorità.
Poneva l’amministrazione su un piano diverso rispetto a quello del ricorrente anche la costruzione
del processo amministrativo come processo da ricorso cioè nel quale la domanda viene proposta
contro un atto proveniente dall’amministrazione che poi è libera di decidere se costituirsiin giudizio,
anziché come processo da citazione nel quale l’altra parte è tenuta a presentarsi e chein mancanza
viene dichiarata contumace.
Nel 1906 il governo sottopose al Parlamento un progetto di riforma che sfociò nella l 42/1907
che istituisce la V Sezione del CdS alla quale venne deferita la giurisdizione di merito con
contestuale ampliamento dei mezzi istruttori esperibili, mentre la giurisdizione di legittimità restò
attribuita alla IV Sezione.
La l 42/1907 istituì anche l’Adunanza Plenaria delle Sezioni giurisdizionali per dirimere i conflitti
interpretativi e quelli relativi alla competenza delle due Sezioni
Nel 1923 venne realizzata una riforma la cui innovazione più significativa fu l’attribuzione al g.a.
della cd giurisdizione esclusiva per le controversie relative a alcune materie tassativamente
elencate (ad es impiego pubblico). Si trattava di materie in cui l’intreccio tra diritti soggettivi e
interessi legittimi creava una situazione di incertezza tale da rendere preferibile la concentrazione
della tutela di entrambe innanzi al g.a: la cognizione di alcuni diritti soggettivi veniva così sottratta
al g.o. Peraltro la tutela offerta a questi ultimi dal g.a. non era equiparata del tutto a quella offerta
dal g.o: non aveva la possibilità di esperire mezzi di prova aggiuntivi rispetto a quelli previsti per la
competenza generale di legittimità; inoltre la tutela dei diritti soggettivi era sottoposta al termine di
decadenza, anziché al regime della prescrizione (più favorevole al privato).
Verso la fine degli anni ’30 la giurisprudenza traccia la distinzione tra atti amministrativi
autoritari e atti “paritetici”: questi ultimi non vennero ritenuti espressivi di un potere pubblicistico
in senso proprio, ma meramente ricognitivi di diritti e obblighi discendenti direttamente dalla legge
e dunque emanati dall’amministrazione non in veste di autorità ma su base paritaria; pertanto i
diritti potevano essere fatti valere innanzi al g.a. senza necessità di impugnare l’atto e senza dover
rispettare il termine di decadenza.
In sede di Assemblea costituente la giustizia amministrativa non fu oggetto di particolare
attenzione. Fu respinta la proposta di riforma radicale avanzata da Calamandrei volta a eliminare
la struttura dualistica attribuendo al solo g.o. la tutela giurisdizionale nei confronti della pa.
Il quadro iniziò a mutare in seguito alla sentenza della CC che dichiarò incostituzionali le
disposizioni relative alla composizione delle Giunte provinciali amministrative.
Dal vuoto normativo creato da questa e da altre sentenze della Corte relative a organi
amministrativi periferici trasse origine la l 1034/1971 che istituì i Tar (insediati effettivamente nel
1974) rimasta in vigore fino al Cpa del 2010.
Le novità più rilevanti contenute nella 1034 furono anzitutto l’aver qualificato i Tar come organi
generali di giustizia amministrativa di primo grado, superando il principio dell’enumerazione
delle materie che caratterizzava la competenza delle giunte provinciali amministrative —> di
conseguenza il Consiglio di Stato assunse la configurazione di giudice essenzialmente d’appello.
Inoltre la l 1034/1971 ampliò le materie devolute alla giurisdizione esclusiva del g.a. includendo
quelle di concessione di beni o di servizi pubblici, ad esclusione delle controversie concernenti le
indennità e i canoni di concessione che restano attribuite alla competenza del giudice ordinario e
quelle dei tribunali delle acque pubbliche.
Per quanto riguarda gli aspetti organizzativi va ricordata la l 186/1982 che contiene una serie
di disposizioni organizzative e di funzionamento del CdS e dei Tar.
I Tar possono essere divisi in più sezioni composte da non meno di 5 magistrati e sezioni staccate
possono essere istituite con legge. I Tar pronunciano con l’intervento del Presidente e di 2
componenti.
La legge del 1982 istituì come organo di autogoverno un Consiglio di presidenza che è composto
dal presidente del CdS (membro di diritto con funzioni di presidenza), 4 magistrati in servizio
presso il CdS e 6 magistrati in servizio presso i Tar, 4 membri cd laici eletti due dalla Camera e
due dal Senato.
In epoca successiva il legislatore operò una serie di interventi settoriali ampliando le materie
attribuite alla competenza esclusiva del g.a (passaporti, diritto di accesso, autorità indipendenti
ecc).
Un intervento importante riguarda il pubblico impiego: il d lgs 165/2001 fa venire meno la
giurisdizione esclusiva del g.a. relativamente ai rapporti privatizzati.
Il d lgs 80/1998 ampliò in modo significativo le materie attribuite al g.a. (servizi pubblici,
urbanistica e edilizia) prevedendo anche che in esse il giudice “dispone, anche attraverso la
reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto”. Una siffatta estensione, che
sembrava preludere a un superamento del criterio di riparto di giurisdizione fondato sulle
situazioni giuridiche soggettive a favore di un nuovo criterio costituito da blocchi di materie,
venne censurato dalla CC poiché risulta contrastante con l’art 103.1 Cost in tema di giurisdizione
esclusiva.
La l 205/2000 introdusse una serie di novità confluite poi nel Cpa, nell’obiettivo di accrescere
l’effettività della tutela offerta dal g.a. in particolare al g.a. venne attribuito il potere di disporre la
consulenza tecnica e, nell’ambito della giurisdizione esclusiva, di assumere tutti i mezzi di prova
previsti dal cpc, esclusi l’interrogatorio formale e il giuramento; viene prevista inoltre la possibilità
di esperire l’azione risarcitoria, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica. Introdusse
inoltre un rito speciale accelerato applicabile a un elenco di controversie tassativamente
individuate (ad es appalti) volto per un verso a promuovere una conclusione più rapida del processo
riducendo i termini processuali e per altro verso a limitare i casi in cui può essere concessa la
misura cautelare.
Va richiamato poi anche il Codice dei contratti pubblici che disciplina un rito speciale accelerato
per le controversie in tema di procedure di gara.
L’esigenza di un riordino complessivo della disciplina del processo amministrativo era
avvertita da tempo. Nel 2009 il Parlamento concesse al governo una delega legislativa al riordino
della normativa che poneva una serie di criteri ad ampio raggio “al fine di adeguare le norme
vigenti alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori e di coordinarle
con le norme del cpc in quanto espressione di principi generali e di assicurare la concentrazione
delle tutele”. La legge delega prevedeva che si potesse demandare la predisposizione dello schema
di decreto legislativo delegato al CdS.
Il Codice non ha operato solo un riordino e una razionalizzazione della normativa esistente; al
contrario accoglie definitivamente la concezione soggettiva della tutela, introduce azioni e
strumenti processuali volti a garantire una tutela piena e effettiva, cogliendo appieno lo spirito
della Costituzione, attinge all’esperienza del cpc.
I PRINCIPI COSTITUZIONALI
Premessa
10
La Costituzione rappresenta la testa di capitolo del Codice. Già l’art 1 richiama i principi
costituzionali; l’art 2 poi richiama il principio del giusto processo ex art 111 Cost; l’art 3 prevede
l’obbligo di motivazione in conformità con l’art 111.6 Cost.
11
I diritti soggettivi e gli interessi legittimi hanno un rilievo parallelo paritario negli artt 24 e 113 Cost
—> l’art 24 Cost prevede che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e
interessi legittimi; analogamente l’art 113 Cost precisa che “contro gli atti della pubblica
amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale di diritti e interessi legittimi dinanzi
agli organi della giurisdizione ordinaria o amministrativa”.
L’attribuzione agli interessi legittimi di un rango paritario rispetto ai diritti soggettivi consente di
dire che almeno la Costituzione ha affrancato i primi dalla minorità rispetto ai secondi; sembrano
superate le teorie che consideravano l’interesse legittimo come interesse indirettamente o
occasionalmente protetto asservito alla tutela del solo interesse pubblico e sembra essere stata
dunque rafforzata la concezione individualista di matrice liberale della giustizia amministrativa: il
processo amministrativo serve a risolvere controversie nelle quali sono implicati interessi
individuali in cerca di tutela di fronte a lesioni operate dalla pa.
Per entrambe le situazioni giuridiche oggettive gli art 24 e 113 enunciano il principio
dell’effettività della tutela giurisdizionale ribadito anche dalle disposizioni europee.
In forza di questo principio nella sua doppia accezione di indefettibilità e pienezza della tutela, la
CC nel corso degli anni ha integrato disposizioni legislative lacunose e ampliato i livelli di tutela
offerti al cittadino nelle controversie con la pubblica amministrazione.
Così per esempio in epoca antecedente la privatizzazione del rapporto di impiego dei dipendenti
delle pa avvenuta negli anni Novanta del secolo scorso, con due sentenze additive la Corte ha
riconosciuto in capo al g.a. il potere di adottare misure cautelari analoghe a quelle previste dall’art
700 cpc; la Corte ha anche dichiarato incostituzionali disposizioni di legge che creavano disparità
di trattamento tra dipendenti delle pa e dipendenti privati non consentendo al g.a. di far ricorso a
mezzi istruttori previsti nel processo del lavoro oppure che in settori particolari escludevano o
limitavano la tutela cautelare.
L’art 113.2 Cost prevede che la tutela giurisdizionale “non può essere esclusa o limitata a
particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti”: la disposizione venne
introdotta per reagire alla tendenza a sottrarre per legge intere materie o tipologie di atti al
controllo giurisdizionale. Si è discussa anche la compatibilità con l’art 113.2 Cost dell’esclusione
della tutela giurisdizionale contro gli atti politici confermata dall’art 7.1 del Codice e sembra da
accogliere la tesi della compatibilità sempre che di tale categoria di atti venga data
un’interpretazione restrittiva di tipo oggettivo, cioè di atti di governo emessi nell’esercizio di
funzioni costituzionali.
La Costituzione afferma il dualismo delle giurisdizioni e con il richiamo parallelo contenuto nell’art
113.1 Cost alla giurisdizione ordinaria e alla giurisdizione amministrativa assegna a esse un ruolo
paritario.
Come affermato dalla CC nella sentenza 204/2004, la Costituzione ha riconosciuto al g.a. piena
dignità di giudice ordinario per la tutela nei confronti della pa, di situazioni soggettive non
contemplate nell’art 2 della legge del 1865; del resto il rilievo paritario nella Costituzione dei diritti
soggettivi e degli interessi legittimi implica anche un rango tendenzialmente paritario delle due
giurisdizioni.
Al di la di queste affermazioni di principio la Costituzione contiene disposizioni più precise volte a
definire l’ambito della giurisdizione ordinario e amministrativa e i rapporti tra esse.
Quanto alla giurisdizione amministrativa l’art 103.1 Cost stabilisce che “il Consiglio di Stato e gli
altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica
amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei
diritti soggettivi”.
Il comma 2 attribuisce alla Corte dei conti la giurisdizione “nelle materie di contabilità pubblica e
nelle altre specificate dalla legge” che rappresenta l’unica giurisdizione speciale insieme a quella
amministrativa e dei tribunali militari ammessa dalla Costituzione.
Il g.a. è il giudice “naturale” degli interessi legittimi e della legittimità dell’esercizio della
funzione pubblica. È controversa in dottrina la questione se la Costituzione configuri addirittura
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una riserva di competenza a favore del g.a. tale da escludere che la cognizione degli interessi
legittimi possa essere attribuita al giudice ordinario.
Il giudice civile va considerato come giudice “naturale” dei diritti soggettivi, e ciò anche se l’art
103 consente al legislatore ordinario di attribuire al g.a. la cognizione di diritti soggettivi in
particolari materie. La CC nella fondamentale sentenza 204/2004 ha chiarito come debba essere
interpretata questa espressione: deve trattarsi di materie nelle quali la pa agisce comunque come
“autorità” cioè come titolare di un potere amministrativo in senso proprio e nelle quali dunque la
tutela dei diritti soggettivi è ancillare rispetto a quella degli interessi legittimi.
Quanto alla tipologia delle sentenze l’art 113.3 Cost stabilisce relativamente al potere di
annullamento che “la legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della
pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge”. Questa disposizione per un
verso evita di costituzionalizzare il divieto di annullamento degli atti amministrativi sancito dall’art
4.2 della legge del 1865; il legislatore ordinario in più occasioni ha attribuito al giudice ordinario il
potere di emanare sentenze di annullamento di atti amministrativi. Per altro verso, come chiarito
dalla CC, la disposizione non può essere intesa neppure nel senso di garantire “una tutela
giurisdizionale illimitata e invariabile contro l’atto amministrativo” cioè nel senso di richiedere
sempre e necessariamente che il g.a. abbia il potere di annullare i provvedimenti illegittimi: il
legislatore può limitare discrezionalmente la tutela a quella meramente risarcitoria.
Inoltre nel rinviare alla legge ordinaria la determinazione degli effetti dell’annullamento l’art 113.3
Cost sembra consentire un’estensione di tali effetti anche al di la della mera caducazione dell’atto
annullato legittimando interventi più penetranti di tipo sostitutivo nei confronti
dell’amministrazione. In definitiva lascia aperto al legislatore ordinario un ampio spazio per
modellare il sistema della giustizia amministrativa: non cristallizza l’impostazione tradizionale
secondo la quale il giudice amministrativo è il giudice dell’annullamento dei provvedimenti
illegittimi mentre il giudice ordinario è principalmente il giudice del risarcimento del danno.
Fino ad anni relativamente recenti le due giurisdizioni erano ritenute non comunicanti: l’errore sulla
giurisdizione era in molti casi fatale perché la pronuncia sul difetto di giurisdizione interveniva
spesso dopo che era prescritto il diritto soggettivo o si era prodotta una decadenza, precludendo
cosi al titolare della situazione giuridica soggettiva di avviare un nuovo giudizio innanzi al giudice
dotato di giurisdizione. A questa situazione insoddisfacente ha posto rimedio la Corte
costituzionale che ha sancito il principio della translatio iudicii.
Sui rapporti tra g.o. e g.a. rileva ancora l’art 111.7 Cost secondo il quale il ricorso in Cassazione
contro le sentenze del CdS “è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”. La disposizione
esclude dunque che il ricorso in Cassazione possa essere proposto per violazione o falsa
applicazione delle norme di diritto e pertanto la Cassazione non può sovrapporsi al g.a.
nell’interpretazione delle leggi e esercitare una funzione nomofilattica. Quest’ultima è svolta
dall’Adunanza Plenaria del CdS.
Su questo aspetto inoltre è intervenuta la CC fornendo una nozione restrittiva di motivi inerenti
alla giurisdizione, ribadendo così la piena autonomia delle due giurisdizioni nell’interpretazione del
diritto applicato.
L’art 111.7 Cost conferma che il dualismo del sistema di giustizia amministrativa non è
perfettamente paritario, ma a prevalenza istituzionale del g.o, proprio perché i limiti della
giurisdizione del g.a. sono stabiliti dalla Corte di cassazione.
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imparzialità nel momento in cui il CdS dovesse giudicare su una questione in relazione alla quale
ha espresso in precedenza un parere. In realtà la funzione consultiva va considerata anch’essa
come una funzione neutrale che acquista maggiore effettività proprio in virtù del fatto che
l’amministrazione che riceve il parere ha un forte incentivo a uniformarsi considerata l’eventualità che
la sua decisione possa poi essere sottoposta al vaglio del CdS nella veste di giudice.
In ogni caso secondo la Corte EDU il cumulo di funzioni consultive e giurisdizionali non costituisce
un elemento che mina sempre e necessariamente l’imparzialità in senso oggettivo dell’organo
giudicante: il principio può essere violato solo se il caso è esattamente identico e se ilcollegio
giudicante è composto anche solo in parte dagli stessi giudici che hanno espresso il parere.
L’art 125.2 Cost prevede che in ciascuna Regione “sono istituiti organi di giustizia
amministrativa di primo grado secondo l’ordinamento stabiliti dalla legge della Repubblica”
confermando e perfezionando il principio del doppio grado di giudizio. L’istituzione dei Tar ha
avvicinato notevolmente il cittadino alla giustizia amministrativa; ciò tanto più che il giudice di
primo grado soddisfa alla domanda di tutela pronunciando sentenze che in massima parte
diventano definitive o perché non appellato o perché confermate dal CdS nel giudizio di appello.
Il secondo grado di giudizio è costituzionalmente garantito solo nei confronti delle pronunce degli
organi di giustizia amministrativa di primo grado e non esclude che il legislatore possa prevedere
ipotesi di competenza in unico grado attribuita al CdS.
Secondo l’art 100.3 Cost “la legge assicura l’indipendenza” del Consiglio di Stato e della
Corte dei conti e dei loro componenti dal Governo.
La CC ha dichiarato incostituzionali una serie di organi amministrativi investiti di funzioni
giurisdizionali (Consigli di prefettura e Giunte provinciali). Ha invece ritenuto compatibile col
principio di indipendenza la nomina governativa di 1/4 dei consiglieri di Stato, a condizione “che
le persone a cui poter affidare funzioni giurisdizionali siano idonee allo svolgimento di esse e che
tale idoneità venga concretamente accertata”.
A presidio dell’indipendenza del g.a. è istituito un organo di autogoverno specifico cioè il
Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa disciplinato dalla legge 186/1982. Esso è
composto dal presidente del Consiglio di Stato e da magistrati designati dai Tribunali
amministrativi regionali e dal Consiglio di Stato nonché da 4 membri ‘laici’ nominati dal
parlamento. L’organo di autogoverno assume i provvedimenti relativi allo status dei magistrati
amministrativi (ad es assegnazioni di sedi e funzioni).
Sempre con riguardo agli aspetti organizzativi va richiamato l’art 102.2 Cost che vieta
l’istituzione di giudici speciali. Si tratta di un divieto posto per reagire alla tendenza emersa
durante il regime autoritario a moltiplicare le magistrature speciali nel perseguimento di un
disegno di riduzione dell’ambito della tutela dei cittadini. Inoltre la VI disposizione transitoria
prevede entro 5 anni dall’entrata in vigore della Costituzione “una revisione degli organi speciali di
giurisdizione attualmente esistenti, salvo le giurisdizioni del Consiglio di Stato, della Corte dei
conti e dei tribunali militari”.
In relazione a queste disposizioni si sono poste varie questioni e se il legislatore ordinario possa
istituire in aggiunta agli organi di giustizia amministrativa di primo grado ex 125. 2 Cost altri organi
di giustizia amministrativa; se la revisione prevista dalla VI disposizione transitoria significhi
necessariamente “soppressione” delle giurisdizioni speciali diverse; quali siano le conseguenze
della scadenza del termine quinquennale. È prevalsa in realtà una interpretazione flessibile da
parte della CC che ha ritenuto legittimo in linea di principio il mantenimento delle preesistenti
giurisdizioni speciali.
La tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive delle quali sono titolari i soggetti
privati nei rapporti con la pa pone il problema preliminare dei rapporti tra diritto sostanziale e
processo.
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Il diritto processuale e i suoi meccanismi hanno il carattere della strumentalità rispetto al diritto
sostanziale in quanto diretti a garantire che la norme sostanziale sia attuata anche nel caso di
mancata cooperazione spontanea da parte di chi vi è tenuto. Del resto il diritto sostanziale senza il
processo si riduce a poco perché è di regola l’unico strumento a disposizione dei privati per far
valere le proprie ragioni e porre rimedio a illeciti dato il divieto di autotutela privata.
Il diritto processuale è strumentale rispetto al diritto sostanziale anche nel senso che il processo
deve garantire una tutela piena e effettiva delle ragioni della parte vittoriosa, ossia la effettività
della tutela del ricorrente.
Il diritto processuale è autonomo dal diritto sostanziale, nel senso che ha regole e principi (ad es
contraddittorio) che non dipendono dal regime posto dalle norme sostanziali relative alle situazioni
giuridiche fatte valere in giudizio (cd autonomia e astrattezza del cd rapporto giuridico
processuale). Vi è comunque un legame stretto tra diritto processuale e sostanziale: per un verso,
il processo scollegato dal diritto sostanziale sarebbe privo di contenuto e di scopo; inoltre “la
tutela giurisdizionale deve partire dalla realtà sostanziale e alla realtà sostanziale deve tornare”
[Luiso].
Questo è particolarmente vero nel caso del processo amministrativo di impugnazione di
provvedimenti amministrativi che può essere considerato come una sorta di “parentesi tra
l’azione amministrativa precedente e quella successiva” [Nigro]: si inserisce cioè nel flusso
dell’azione amministrativa e nella dinamica dei rapporti intercorrenti sul piano sostanziale tra
privati e pa. Si interpone, come momento di verifica dell’operato della pa, tra due fasi
procedimentali: una prima fase nella quale l’amministrazione esercita il potere e emana l’atto la
cui legittimità è contestata; una seconda fase successiva alla sentenza di annullamento del
provvedimento illegittimo nella quale l’amministrazione ove possibile esercita nuovamente il
potere, tenendo conto della portata prescrittiva della sentenza, emanando un nuovo
provvedimento sostitutivo di quello annullato.
In definitiva si può dire che il processo amministrativa si differenzia da quello civile che ha una
visione essenzialmente retrospettiva perché interviene su situazioni di regola cristallizzate; il
processo amministrativo ha invece anche una visione prospettica in quanto indirizza la futura
attività dell’amministrazione che riprende corso in base al principio della doverosità dell’esercizio
dei poteri.
Nell’esperienza storica del g.a. una peculiarità è che prima si creò il rimedio, poi la situazione
giuridica: fu l’istituzione nel 1889 del g.a. a indurre a costruire una situazione giuridica sostanziale
oggetto della tutela giurisdizionale, l’interesse legittimo.
I bisogni di tutela
Conviene ora analizzare le principali situazioni nelle quali il rapporto sostanziale tra un soggetto
privato e la pa può entrare in crisi tanto da far sorgere la necessità dell’attivazione di una tutela
giurisdizionale.
La prospettiva da cui occorre porsi è principalmente quella del soggetto titolare di una situazione
giuridica di diritto soggettivo o interesse legittimo nei confronti di una pa e dei bisogni di tutela
che devono essere soddisfatti dal processo.
La prospettiva inversa appare meno rilevante per la possibilità della pa di farsi giustizia da sé
attraverso il potere di autotutela.
Per individuare i principali bisogni di tutela e gli strumenti per soddisfarli conviene distinguere
due tipi di relazioni:
a) Relazioni di diritto privato —> involgono diritti soggettivi che rientrano di regola nella
giurisdizione del g.o. e presentano gli stessi problemi che possono sorgere tra privati (così ad es
se un comune occupa sine titulo una porzione di un terreno di proprietà privata per ampliare una
strada pubblica, il privato proprietario promuoverà un’azione possessoria e in caso di
inottemperanza un processo di esecuzione forzata).
b) Relazioni di diritto pubblico —> involgono interessi legittimi che rientrano nella giurisdizione
del g.a. (ad es se un comune espropria in modo illegittimo un terreno di proprietà privata, il
proprietario ha necessità di ottenerne la restituzione, nonché il ristoro del danno subito:
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Al pari delle relazioni di diritto privato, le relazioni di diritto pubblico tra pa e privati possono dare
origine a un rapporto giuridico bilaterale caratterizzato da una serie di facoltà e doveri reciproci.
Peraltro solo in epoca relativamente recente la nozione di rapporto giuridico amministrativo ha
trovato un riconoscimento. Nella visione tradizionale invece lo Stato era concepito come un’entità
collocata in una posizione di sovraordinazione istituzionale rispetto ai privati, tale da escludere la
configurabilità di vincoli giuridici bilaterali; l’ordinamento giuridico poteva anche disciplinare il
potere dell’amministrazione con norme volte a orientarne l’attività nell’interesse della stessa
amministrazione (norme d’azione) ma senza che si instaurasse una relazione giuridica in senso
proprio (come nel caso delle ccdd norme di relazione tipiche dei rapporti privatistici).
In una concezione moderna che tiene conto dell’evoluzione dell’interesse legittimo invece potere
amministrativo e interesse legittimo possono essere ricostruiti come i termini di una relazione
giuridica bilaterale che si sviluppa innanzitutto nel procedimento amministrativo e si connota per
una serie di diritti e obblighi reciproci.
I rapporti giuridici interprivati vengono ricostruiti partendo dalla coppia diritto soggettivo-
obbligo; il diritto soggettivo consiste in un potere di agire (riconosciuto e garantito
dall'ordinamento giuridico), per soddisfare un proprio interesse.
Accanto a tale coppia il diritto privato conosce altri tipi di relazioni che si avvicinano alla dinamica
del rapporto amministrativo, caratterizzato invece dalla sussistenza di una relazione non paritaria.
Per un verso infatti viene riconosciuta la potestà, situazione giuridica soggettiva attiva che, a
differenza di quanto accade per il diritto soggettivo attivo, è attribuita al singolo soggetto per il
soddisfacimento di un interesse altrui. Si tratta, cioè, di un potere-dovere, nel senso che il
soggetto è tenuto a esercitarla secondo criteri non già di “pieno” ma di “prudente arbitrio” e nel
farlo deve perseguire la finalità della cura dell’interesse altrui (nel diritto di famiglia, tipicamente, la
potestà genitoriale).
Per altro verso una particolare categoria di diritti soggettivi è costituita dal diritto potestativo:
esso consiste nel potere di produrre un effetto giuridico, con una propria manifestazione
unilaterale di volontà; ciò sul presupposto di una prevalenza attribuita dalla norma all'interesse del
titolare del potere rispetto a quello del soggetto che subisce una modificazione nella propria sfera
giuridica: quest’ultimo si trova in uno stato, definito, di soggezione, ovvero nella posizione di colui
sul quale ricadono, ineluttabilmente le conseguenze della dichiarazione di volontà altrui (es nei
rapporti interprivati sono il diritto di prelazione, diritto di recesso).
La produzione degli effetti giuridici segue usualmente lo schema norma-fatto-effetto giuridico:
la norma individua gli elementi della fattispecie e l’effetto giuridico che ad essa si ricollega,
ponendo direttamente essa stessa la disciplina degli interessi in conflitto in relazione a un
determinato bene. Tutte le volte che nella vita economica e sociale si verifica un fatto concreto
che è riconducibile nella fattispecie normativa si produce, in modo automatico un effetto giuridico.
Il diritto conosce anche un’altra tecnica di produzione degli effetti che segue lo schema norma-
fatto-potere-effetto giuridico; questa sequenza si differenzia da quella sopra poiché viene meno
l’automatismo nella produzione dell’effetto giuridico: infatti, il verificarsi di un fatto concreto
conforme alla norma attributiva del potere determina in capo a un soggetto, il titolare del potere,
la possibilità di produrre l’effetto giuridico individuato a livello di fattispecie normativa attraverso
una propria dichiarazione unilaterale di volontà. Tra il fatto e l’effetto giuridico si interpone un
elemento aggiuntivo, il potere e il titolare di quest’ultimo è libero di decidere se provocare con una
propria manifestazione di volontà l’effetto giuridico tipizzato dalla norma. È questo lo schema
proprio del diritto potestativo.
Il diritto potestativo può essere suddiviso in:
a) Diritto potestativo stragiudiziale —> l’effetto giuridico discende direttamente dalla
manifestazione di volontà del titolare del potere (ad es licenziamento di un lavoratore): anche in
questo caso vi può essere intervento giudiziale ma ex-post rispetto alla produzione dell'effetto
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giuridico).
b) Diritto potestativo a necessario esercizio giudiziale —> l'effetto giuridico discende da un
previo accertamento giudiziale, in aggiunta alla dichiarazione di volontà del titolare del potere (ad
es separazione giudiziale tra coniugi).
Il potere amministrativo rientra nello schema del diritto potestativo stragiudiziale: la produzione
dell'effetto giuridico discende in modo immediato dalla dichiarazione di volontà della pa che
emana il provvedimento. L’accertamento giurisdizionale può avvenire solo ex-post innanzi al
giudice amministrativo su iniziativa del soggetto privato nella cui sfera giuridica l'atto impugnato
ha prodotto l'effetto. Perché si sceglie il primo tipo? Per garantire l'immediata realizzazione
dell'interesse pubblico, la cui cura è affidata all’amministrazione.
Specificità del potere amministrativo rispetto al diritto potestativo stragiudiziale:
• Il diritto potestativo stragiudiziale trova un fondamento consensuale di tipo pattizio (ad es
contratto di lavoro); l’atto amministrativo invece trova fondamento nella legge, cioè nella norma di
conferimento del potere e senza che sussista di regola un rapporto giuridico preesistente
• La fattispecie descritta dal diritto potestativo è vincolata e non trova spazio discrezionalità: il
solo ambito di scelta riconosciuto al titolare del diritto attiene al se esercitarlo (potere sull’an); il
potere conferito dalla legge alla PA non è sempre integralmente vincolato ma di regola è lasciato
spazio alla discrezionalità (e questo comporta che in presenza di contestazione relativa all’atto di
esercizio del potere, il giudice potrà operare un sindacato pieno soltanto sugli aspetti vincolati del
potere e non potrà sostituirsi al titolare del potere nell’operare la valutazione discrezionale:
accertato che il potere è stato esercitato in modo non corretto dovrà limitarsi a annullarlo.
L’interesse legittimo
Il termine passivo del rapporto giuridico amministrativo è l’interesse legittimo. Trattasi di una
situazione giuridica soggettiva che costituisce una specificità del nostro ordinamento.
Al pari del diritto soggettivo, l’interesse legittimo trova un riconoscimento costituzionale nelle
disposizioni dedicate alla tutela giurisdizionale ed è quindi una situazione giuridica soggettiva
dalla quale non si può prescindere.
La rilevanza della distinzione tra le due categorie di situazioni giuridiche è duplice: a) è assunta a
criterio di riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, il primo
investito della giurisdizione sui diritti soggettivi, il secondo della giurisdizione sugli interessi
legittimi; b) è servita a delimitare l'ambito della responsabilità civile della pa che non includeva il
danno derivante da una lesione di interessi legittimi: questo secondo aspetto è stato superato ad
opera di una sentenza della Cassazione (500/99) che ha aperto la strada alla risarcibilità del danno
da lesione di interesse. Il primo aspetto mantiene invece la sua attualità: la CC nella sent 204/04
ha sconfessato il tentativo del legislatore di superare la distinzione come criterio di riparto della
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giurisdizione sostituito dal criterio oggettivo dei blocchi di materie, ribadendo che la giurisdizione
amministrativa ha per oggetto gli interessi legittimi.
Quanto alla evoluzione storica dell'interesse legittimo, la l del 1865 adotta il modello belga e
inglese del giudice unico, ma a causa della “timidezza” del giudice civile a sindacare gli atti della
pa si creò un vuoto di tutela di fronte a numerosi casi di illegittimità e abusi da parte della pa; da
qui nasce la l del 1889 che introduce un nuovo rimedio per tutelare le situazioni non qualificabili
come diritto soggettivo: si investiva la IV Sezione del CdS del compito di annullare per
“incompetenza, eccesso di potere o violazione di legge contro gli atti o provvedimenti
amministrativi aventi per oggetto un interesse d'individui o di enti morali giuridici”.
Nacque il problema in giurisprudenza e dottrina di definire il termine “interesse”, e nel tempo sono
state offerte varie interpretazioni:
◦ Diritto fatto valere come interesse —> si propose come criterio quello del petitum ossia alla
richiesta del ricorrente di annullamento del provvedimento emanato piuttosto che la richiesta del
mero risarcimento del danno
◦ Interesse legittimo come interesse di mero fatto —> l’interesse legittimo fu cioè considerato
come un interesse di mero fatto, correlato alla norma d’azione volta a tutelare in modo esclusivo
l’interesse pubblico;
◦ Diritto alla legittimità degli atti —> diritto soggettivo avente per oggetto esclusivamente la
pretesa formale a che l’azione amministrativa sia conforme alle norme
◦ Diritto affievolito —> cioè come la risultante dell'atto di esercizio del potere amministrativo che
incide su un diritto soggettivo: il provvedimento ancorché illegittimo è idoneo a “degradare” il
diritto soggettivo trasformandolo in interesse legittimo (ad es diritto di proprietà degradato da
espropriazione).
Questa categoria fa coppia con quella simmetrica dei ccdd diritti soggettivi “in attesa di
espansione”: si tratta di diritti già attribuiti in astratto alla titolarità di un soggetto privato il cui
esercizio è però condizionato all’esercizio di un potere dell’amministrazione nei confronti del quale
il privato vanta un semplice interesse legittimo (tipico es è l’autorizzazione).
◦ Interesse occasionalmente (indirettamente) protetto —> solo ove si sia in presenza di un
diritto soggettivo, l’interesse del privato correlato a un bene della vita è oggetto di una tutela
diretta e immediata da parte dell’ordinamento. L’interesse legittimo si distingue dal diritto
soggettivo per il fatto che l'acquisizione o conservazione di un determinato bene della vita non è
assicurata in modo immediato dalla norma, che tutela in modo diretto l'interesse pubblico, bensì
passa attraverso l'esercizio del potere amministrativo, senza che peraltro sussista alcuna garanzia
in ordine alla sua acquisizione o conservazione. La presenza di un ambito di discrezionalità
esclude infatti che il soggetto titolare sia in grado di prevedere ex ante l’assetto finale degli
interessi posto dal provvedimento emanato. Così per esempio chi partecipa a un concorso
pubblico che si svolge in modo regolare e tuttavia non si colloca nella graduatoria dei vincitori
vede comunque soddisfatto il suo interesse legittimo: il bene della vita è esterno all’interesse
legittimo e rileva tutt’al più alla stregua di un mero presupposto di fatto o come “substrato
economico”.
Quindi l'interesse legittimo fonda in capo al suo titolare soltanto la pretesa a che
l'amministrazione eserciti il potere in modo legittimo, cioè in conformità con la norma d'azione.
La norma attributiva del potere offre in definitiva al titolare dell'interesse legittimo unatutela
strumentale, mediata attraverso l'esercizio del potere, anziché finale, come accade inveceper il
diritto soggettivo, nel quale la norma attribuisce al suo titolare in modo diretto un certo bene
della vita o utilità. Ove il potere sia stato esercitato in modo non conforme alla norma attributiva
del potere, il titolare dell’interesse legittimo può proporre ricorso al g.a. al fine di ottenere
l’annullamento del provvedimento lesivo, cioè la rimozione con efficacia ex tunc degli affetti da
esso prodotti.
Ricostruzioni recenti dell’interesse legittimo —> Le soluzioni fino ora dette sono state sempre
criticate in dottrina, la quale ha messo in luce la loro connotazione ideologica, collegata a una
visione autoritaria dei rapporti tra Stato e cittadino e fondata sul postulato di generale sovra-
ordinazione della pa. Si è anche criticata la tesi secondo la quale la norma d’azione tutela il
privato in via indiretta e occasionale.
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Per il superamento della concezione tradizionale è stata determinante la sent 500/99 della Cass
con cui ha posto una linea di confine della risarcibilità tutta all’interno dell’interesse legittimo in
ragione della rilevabilità nella situazione concreta di una lesione a un bene giuridico già ascrivibile
in qualche modo alla sfera giuridica del privato; se invece in base alla specifica situazione emerge
che il titolare dell’interesse legittimo, soprattutto in presenza di poteri discrezionali, non ha una
ragionevole aspettativa di poter acquisire o conservare un bene della vita, non vi è spazio per una
tutela risarcitoria.
La connotazione sostanziale dell’interesse legittimo emerge anche dal modo nel quale la
giurisprudenza ha inquadrato la tutela risarcitoria dell’interesse legittimo (devoluta ora alla
giurisdizione del g.a. ex art 7 Cpa): la CC nella sent 204/04 ha inteso l’azione risarcitoria non già
come volta a tutelare un diritto soggettivo autonomo bensì in funzione “rimediale” ossia come
tecnica di tutela dell’interesse legittimo che si affianca e integra la tecnica di tutela più
tradizionale costituita dall’annullamento —> se l’interesse legittimo incorpora anche una pretesa
risarcitoria, è evidente che ha per oggetto un bene della vita che il titolare mira a acquisire o a
conservare, sia pure tramite l’intermediazione del potere amministrativo, e che è suscettibile di
essere leso da un provvedimento illegittimo.
La natura sostanziale dell’interesse legittimo è confermata indirettamente anche dal Cpa che
prende ora l’azione di adempimento, cioè di condanna dell’amministrazione a attribuire il bene
della vita al quale il soggetto privato aspira; a valle della sentenza di condanna il rilascio del
provvedimento richiesto è un atto dovuto e se l’amministrazione persiste nel rifiuto il bene della
vita potrà essere accordato direttamente dal giudice dell’ottemperanza o dal commissario ad acta.
In definitiva nella ricostruzione dell’interesse legittimo il baricentro si sposta dal collegamento con
l’interesse pubblico a quello con l’utilità finale o bene della vita.
Si può dire che la norma di conferimento del potere abbia la doppia ed equiordinata funzione di
tutelare l'interesse pubblico (così da consentire la cura da parte dell’amministrazione, anche a
costo del sacrificio di interessi privati) e di tutelare l'interesse legittimo privato (che mira ad
acquisire o conservare una utilità finale o bene della vita).
Definizione di interesse legittimo —> è una situazione giuridica soggettiva, correlata al potere
della PA e tutelata in modo diretto dalla norma di conferimento di potere, che attribuisce al
suo titolare una serie di poteri e facoltà volti a influire sull'esercizio del potere medesimo allo
scopo di conservare o acquisire un bene della vita.
I poteri e le facoltà sopracitate si esplicano principalmente nel procedimento attraverso l'istituto
della partecipazione che consente al privato di rappresentare il proprio punto di vista
presentando memorie e documenti e mediante l'accesso agli atti del procedimento; in questo
modo il privato può cercare di orientare le valutazioni discrezionali dell’amministrazione in senso a
sé favorevole.
Questi poteri e facoltà tendono a riequilibrare la posizione di soggezione nei confronti del titolare
del potere: l’interesse legittimo - che pur costituisce il termine passivo del rapporto giuridico che
intercorre con l’amministrazione se ci si pone dall’angolo visuale della produzione degli effetti
giuridici - acquista così una dimensione attiva. Ad essa corrispondono in capo
all’amministrazione una serie di doveri comportamentali nella fase procedimentale e nella fase
decisionale.
È emersa nella dottrina più recente una visione che dissolve l’interesse legittimo nella figura più
generale del diritto soggettivo: infatti il diritto soggettivo include anche figure di diritti diverse da
quelle più tipiche correlate in modo diretto e immediato a un bene della vita (ad es
comportamento secondo buona fede nelle trattative).
In definitiva l’interesse legittimo presenta sia una dimensione passiva (soggezione rispetto al
potere esercitato) sia una dimensione attiva (pretesa a un esercizio corretto del potere alla quale
corrispondono una serie di poteri e facoltà nei confronti dell’amministrazione da far valere nel
procedimento o anche in sede giurisdizionale).
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Sotto il profilo funzionale gli interessi legittimi possono essere suddivisi in interessi legittimi
oppositivi e interessi legittimi pretensivi.
a) Gli interessi legittimi oppositivi sono correlati a poteri amministrativi il cui esercizio determina
una restrizione della sfera giuridica del privato.
Qui il rapporto giuridico amministrativo ha una dinamica di contrapposizione, nel senso che il
suo titolare cercherà di intraprendere tutte le iniziative volte a contrastare l’esercizio del potere
che sacrifica un bene della vita. L’interesse sarà soddisfatto se l’amministrazione all’esito del
procedimento si astiene dall’emanare il provvedimento (pretesa a un non facere). Non rileva
peraltro, dal punto di vista del privato (ma non dell’interesse pubblico) se l’omessa emanazione
del provvedimento sia legittima o illegittima.
b) Gli interessi legittimi pretensivi sono correlati a poteri amministrativi il cui esercizio determina
un effetto ampliativo. Consistono in una “pretesa a che l’amministrazione provveda
legittimamente in vista di un provvedimento positivo”.
Qui il rapporto assume una dinamica più collaborativa: il titolare dell’interesse legittimo
preventivo cercherà di porre in essere tutte le attività volte a stimolare l’esercizio del potere e a
orientare la scelta dell’amministrazione in modo tale da poter conseguire il bene della vita.
L’interesse è soddisfatto se l’amministrazione emana il provvedimento (pretesta a un facere).
Anche qui non rileva se l’emanazione del provvedimento è legittima o illegittima.
I due tipi di dinamiche si riflettono sia sulla struttura del procedimento, sia su quella del processo
amministrativo:
• Nel caso di interessi legittimi oppositivi il procedimento si apre d’ufficio e la comunicazione di
avvio del procedimento instaura il rapporto giuridico amministrativo;
• Nel caso di interessi legittimi pretensivi il procedimento si apre in seguito alla presentazione di
un’istanza o domanda di parte che fa sorgere l'obbligo di procedere e di provvedere in capo
all'amministrazione titolare del potere e che instaura il rapporto giuridico amministrativo.
Anche il processo amministrativo e la tipologia di azioni esperibili presentano caratteri propri in
funzione del diverso bisogno di tutela:
• Nel caso di interessi legittimi oppositivi l'annullamento dell'atto impugnato soddisfa il modo
specifico il bisogno di tutela;
• Nel caso di interessi legittimi pretensivi il bisogno di tutela è correlato invece all'interesse
all'acquisizione del bene della vita per mezzo dell'emanazione del provvedimento ampliativo
della sfera giuridica del privato e soltanto una sentenza che accerti la spettanza del bene della
vita e che condanni l’amministrazione a emanare il provvedimento richiesto risulta pienamente
satisfattiva e l’azione che consente questo risultato è l’azione di adempimento, cioè l’azione di
condanna a un facere specifico.
Anche la tutela risarcitoria si atteggia diversamente:
• Con riferimento a quelli oppositivi riguarda i danni derivanti dalla privazione o limitazione nel
godimento del bene della vita;
• Con riferimento ai secondi la tutela risarcitoria riguarda i danni conseguenti alla mancata o
ritardata acquisizione del bene della vita.
La distinzione tra i due tipi di interessi legittimi consente di inquadrare i ccdd provvedimenti “a
doppio effetto”, i quali producono ad un tempo un effetto ampliato e un effetto restrittivo nella
sfera giuridica di due soggetti distinti e che danno origine a un rapporto giuridico trilaterale (es.
rilascio di un permesso a costruire un edificio che impedirebbe una vista panoramica al
proprietario del terreno confinante).
In questo caso si instaura anche una dialettica che vede contrapposti due interessi privati.
Nella fase procedimentale le parti private tenderanno a sottoporre all’amministrazione gli elementi
istruttori e valutativi che inducano quest’ultima a provvedere in senso conforme al proprio
interesse e contrario all’altra parte privata.
Nella fase processuale successiva all’emanazione del provvedimento che determina un effetto
ampliativo nei confronti di un soggetto e uno restrittivo nei confronti dell’altro, accanto alla parte
ricorrente che impugna il provvedimento chiedendone l’annullamento e all’amministrazione
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Gli interessi legittimi devono essere distinti non solo dai diritti soggettivi ma anche dagli interessi
di fatto o interessi semplici cioè interessi di soggetti privati che non assurgono al rango di una
situazione giuridica protetta dall’ordinamento e per i quali non sono previsti di regola rimedi di tipo
giurisdizionale ne innanzi al giudice amministrativo, ne innanzi a quello ordinario.
Le norme che disciplinano l’organizzazione e l’attività della pa possono imporre
all’amministrazione doveri di comportamento non correlati a situazioni giuridiche soggettive,
finalizzati alla tutela di interessi pubblici (ad es norme che impongono di adottare atti di
pianificazione, di realizzare determinate opere).
La violazione di siffatti doveri rileva di regola solo all’interno dell’organizzazione degli apparati
pubblici e può dar origine a interventi di tipo propulsivo o sostitutivo da parte di organi dotati di
poteri di vigilanza, all’irrogazione di sanzioni che colpiscono i dirigenti e i funzionari responsabili
della violazione o ad altre forme di penalizzazione
I soggetti privati che possono trarre un beneficio o un pregiudizio indiretto da siffatte attività
vantano un interesse di mero fatto (o interesse semplice) a tutela del quale non è attivabile alcun
rimedio giurisdizionale. I portatori di un interesse di mero fatto possono tutt’al più promuovere
l’osservanza da parte dell’amministrazione dei doveri, per esempio sollecitandole ad attivarsi o
attraverso campagne di sensibilizzazione dell’opinione pubblica o intraprendendo azioni di tipo
politico.
I criteri di distinzione tra interessi di fatto e interessi legittimi sono essenzialmente 2:
a) Differenziazione —> al primo criterio perché possa configurarsi l’esistenza di un interesse
giuridicamente protetto occorre che la posizione in cui si trova il soggetto privato rispetto
all’amministrazione che esercita il potere sia in qualche modo differenziata rispetto a quella della
generalità dei soggetti dell’ordinamento. Può essere rilevante a questo riguardo l’elemento fisico
spaziale della vicinanza o vicinitas che rende più concreto il pregiudizio in capo a taluni soggetti
(così ad es il proprietario di un terreno che confina con il terreno al cui proprietario è stato
rilasciato un permesso a costruire un edificio che impedirebbe una vista panoramica o
determinerebbe un altro tipo di pregiudizio si trova in una posizione differenziata rispetto al
proprietario di aree non contigue poste magari a grande distanza). In alcuni casi la giurisprudenza
intende questo criterio come ‘vicinanza stabile’ o di ‘stabile collegamento giuridico’
b) Qualificazione giuridica dell’interesse —> Una volta appurato il carattere fattualmente
differenziato di un interesse rispetto a quello della generalità dei soggetti, occorre appurare se tale
interesse rientri in qualche modo nel perimetro della tutela offerta dalle norme attributive del
potere e se pertanto il suo titolare possa vantare una posizione qualificabile come interesse
legittimo.
Nella casistica giurisprudenziale i due criteri appaiono strettamente collegati nel senso che quanto
più differenziato in base a criteri materiali risulta un interesse, tanto più è probabile che esso
venga ritenuto anche oggetto di una tutela giuridica da parte dell’ordinamento, e ciò anche senza
che sia richiesta l’individuazione di una specifica disposizione normativa espressamente finalizzata
a proteggere l’interesse del soggetto privato.
In realtà le incertezze relative alla distinzione tra interessi di mero fatto e interessi legittimi
dipendono dalla particolare configurazione delle norme attributive del potere amministrativo
rispetto a quelle di diritto privato. Le norme di diritto privato individuano in modo puntuale i diritti
e gli obblighi reciproci delle parti di un rapporto giuridico e quindi è di regola agevole individuare e
distinguere nella casistica concreta i titolari di situazioni giuridiche soggettive rispetto ai portatori
di interessi di mero fatto. Le norme attributive del potere tendono a definire in modo esplicito e
puntuale le caratteristiche formali e sostanziali del potere attribuito all’amministrazione piuttosto
che gli interessi privati qualificabili come interessi legittimi: questi ultim i possono essere individuati
spesso con sufficiente precisione solo in sede di applicazione della norma attributiva del potere,
21
avendo riguardo alla platea dei soggetti destinatari degli effetti diretti dei provvedimenti emanati.
In definitiva la situazione giuridica fatta valere in giudizio amministrativo collegata al potere
esercitato dall’amministrazione spesso ha una consistenza indeterminata non appartenendo a
catalogazioni legislative specifiche.
Gli interessi di mero fatto possono avere una dimensione individuale o superindividuale: è così
emersa la nozione di interessi collettivi e interessi diffusi
Gli interessi collettivi sono riferibili a specifiche categorie o gruppi organizzati —> a questi
organismi rappresentativi della categoria o del gruppo è stata riconosciuta una legittimazione
processuale autonoma collegata a una situazione di interesse legittimo distinto da quello dei
singoli appartenenti alla categoria legittimati ad agire in giudizio solo nel caso in cui subiscano
una lesione diretta nella loro sfera giuridica individuale.
Gli interessi diffusi sono stati variamente definiti come interessi non personalizzati (o adespoti,
senza struttura, riferibili in modo indistinto alla generalità della collettività o a categorie più o meno
ampie di soggetti. Il carattere diffuso dell’interesse deriva dalla caratteristica del bene materiale o
immateriale ad esso correlato che non è suscettibile di appropriazione e di godimento esclusivi; si
tratta in genere di beni pubblici “non rivali” (perché il loro consumo o utilizzo da parte di uno non
ne impedisce la fruizione da parte di un altro) e “non escludibili” (perché, una volta fornito il bene
nessuno può esserne escluso dalla fruizione).
Nonostante gli interessi diffusi costituiscano una nozione dai confini incerti, l’ordinamento
giuridico ha iniziato a prendere in considerazione gli interessi diffusi, della cui tutela si fanno
carico associazioni e altre organizzazioni del terzo settore, attribuendo ad essi una certa rilevanza
sia in sede procedimentale che processuale.
Quanto alla tutela procedimentale l’art 9 della l 241/1990 attribuisce la facoltà di intervenire nel
procedimento a qualsiasi soggetto portatore di interessi pubblici o privati e ai “portatori di
interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati” ai quali possa derivare un pregiudizio dal
provvedimento. Il diritto di partecipazione consente di immettere nel procedimento interessi
riferibili alla collettività.
Più complessa è la questione della tutela giurisdizionale degli interessi diffusi che ha avuto
oscillazioni in dottrina e in giurisprudenza. I principali criteri per aprire la strada alla tutela
giurisdizionale azionabile dalle associazioni e enti del terzo settore sono essenzialmente:
① Il collegamento con la partecipazione procedimentale —> La prima strada proposta indottrina
che non ha trovato un riscontro positivo nella giurisprudenza è stata quella di individuarenella
partecipazione al procedimento amministrativo ai sensi della 241 un elemento di differenziazione
e qualificazione tale da consentire l’impugnazione innanzi al giudice amministrativo del
provvedimento conclusivo del procedimento.
Peraltro diritto di partecipazione al procedimento e legittimazione processuale hanno funzioni
diverse: la partecipazione al procedimento assolve non solo alla funzione di tutela preventiva degli
interessi dei soggetti suscettibili di essere incisi dal procedimento ma anche a quella di fornire
all’amministrazione una gamma più ampia di informazioni utili per esercitare meglio il potere: essa
ha un ambito naturale più ampio della legittimazione processuale che può essere riconosciuta solo
al titolare di una situazione giuridica soggettiva in senso proprio che ha subito una lesione alla
quale occorre porre rimedio
② L’elaborazione della nozione di interesse collettivo quale specie particolare di interesse
legittimo —> Un’altra via è stata quella di ampliare le maglie dell’interesse legittimo fino a
includervi alcune situazioni nelle quali il ricorrente agisce in giudizio per tutelare un interesse
superindividuale. Su questa strada si è avviata la giurisprudenza più recente che riconosce la
legittimazione a ricorrere a certe condizioni a associazioni e altre organizzazioni che si fanno
portatori di interessi diffusi facendo valere un interesse distinto da quello dei singoli individui
inteso come “sintesi e non sommatoria di tutti gli appartenenti alla collettività”
③ La legittimazione ex lege —> In settori particolari il legislatore ha attribuito a determinati
soggetti istituti per la cura di interessi diffusi una legittimazione speciale a ricorrere non collegata
a alcuna situazione giuridica sostanziale.
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Queste previsioni legislative lungi dal trasformare gli interessi diffusi in situazioni giuridiche
soggettive di interesse legittimo o di diritto soggettivo in senso proprio, hanno una rilevanza
prettamente processuale.
Gli interessi individuali omogenei o isomorfi vanno distinti dagli interessi diffusi e collettivi che
hanno una dimensione superindividuale in senso proprio.
Gli interessi isomorfi mantengono una natura individuale e acquistano una dimensione collettiva
solo per il fatto di essere comuni a una pluralità o molteplicità di soggetti. In questi casi l’interesse
leso resta un interesse individuale e l’elemento di omogeneità e comunanza consiste nel fatto che
la lesione deriva da un’attività illecita o illegittima plurioffensiva.
La tutela di questo tipo di interessi individuali non è diversa da quella prevista per ciascun diritto
soggettivo o interesse legittimo di cui sono titolari i soggetti coinvolti i quali possono agire in
giudizio autonomamente per il ristoro del loro specifico danno. Peraltro molto spesso (ad es nel
settore dei rapporti di utenza nei servizi pubblici) si tratta di situazioni nelle quali il danno
individuale è di entità limitata, tale da scoraggiare in base a un’analisi costi-benefici l’esperimento
di un’azione in sede giurisdizionale (ccdd small claims).
Per questi interessi l’ordinamento prende anche forme di tutela non giurisdizionale semplificate.
In alcuni casi l’ordinamento prevede le ccdd azioni di classe che consentono di aggregare le
pretese di numeri anche elevati di soggetti che vantano la stessa pretesa.
Nel processo civile si riscontra generalmente una simmetria piena tra posizione attiva nel rapporto
giuridico sostanziale controverso e posizione attiva nel rapporto giuridico processuale con tutto
ciò che ne consegue in termini di dialettica processuale e in particolare sul piano dell’onere della
prova.
Nel processo amministrativo, in particolare con riferimento all’azione di annullamento di un
provvedimento amministrativo illegittimo si registra una inversione tra posizione sostanziale e
posizione processuale delle due parti fondamentali del rapporto giuridico sostanziale e
processuale, cioè il titolare dell’interesse legittimo che propone il ricorso e la pa titolare del potere
che il ricorrente assume essere stato esercitato in modo illegittimo.
Sul piano sostanziale la pa che esercita un potere è parte attiva del rapporto giuridico che si
instaura con il titolare dell’interesse legittimo, destinatario degli effetti prodotti da un
provvedimento dotato di imperatività che invece è collocato in una posizione di soggezione.
Sul piano processuale nel momento in cui quest’ultimo propone il ricorso esercita un potere
rispetto al quale l’amministrazione resistente in giudizio si trova in una posizione di soggezione.
La natura costitutiva dell’azione promossa tende a riequilibrare la natura costitutiva (imperativa)
del provvedimento impugnato.
La struttura tipica delle relazioni giuridiche sostanziali tra pa titolare di un potere e destinatario del
provvedimento non è frequente nei rapporti tra privati. Infatti di regola le norme sostanziali
attribuiscono a un soggetto privato un potere unilaterale secondo la tecnica del diritto potestativo
giudiziale. L’esercizio del medesimo e la produzione dell’effetto tipico presuppongono un previo
accertamento giudiziale: il titolare del potere assume la veste di attore all’interno del processo ed
è assoggettato all’onere di provare i fatti costitutivi del potere esercitato.
La posizione di disparità sul piano dei rapporti sostanziali e l’inversione tra posizione sostanziale e
posizione processuale delle parti condizionano la struttura e la dinamica del processo
amministrativo.
In primo luogo connotano il processo amministrativo come un processo da ricorso anziché come
processo da citazione, instaurato non in base a una vocatio in ius ma in base a una vocatio iudicis
cioè come reazione di un soggetto nei confronti di un atto di esercizio del potere.
Inoltre grava sul ricorrente la necessità di instaurare il giudizio di impugnazione entro il termine
perentorio di 60 gg: la brevità e perentorietà del termine di impugnazione è correlata all’esigenza
di certezza dell’assetto degli interessi determinato dal provvedimento impugnato, assetto che
peraltro può essere ancora rimesso in discussione sul piano dei rapporti sostanziali
dall’amministrazione attraverso l’esercizio del potere di autotutela.
23
La proposizione del ricorso non determina poi in modo automatico la sospensione dell’efficacia del
provvedimento impugnato che invece deve essere richiesta dal ricorrente con apposita istanza
cautelare e può essere concessa dal giudice in presenza di un danno grave e irreparabile.
Il ricorrente inoltre si trova in una situazione di squilibrio rispetto alla amministrazione anche
perché grava su di lui l’onere della prova. L’amministrazione non deve provare l’esistenza dei fatti
costitutivi del potere esercitato: i fatti costitutivi e le ragioni sono invece esplicitate nel
provvedimento assunto all'esito del procedimento. Spetta al ricorrente esporre nel ricorso in modo
sommario i fatti e indicare i mezzi di prova che consentono di dimostrare l’illegittimità del
provvedimento impugnato (art 40 Cpa). In passato per giustificare il ribaltamento dell'onere della
prova veniva utilizzata la nozione di presunzione di legittimità del provvedimento.
Per porre parzialmente rimedio a questa situazione intervenivano alcune regole confermate anche
dal Codice: in primo luogo la pa deve produrre in giudizio il provvedimento impugnato insieme a
tutti gli atti del procedimento; in secondo luogo il giudice può disporre anche d’ufficio l’assunzione
dei mezzi istruttori e assume dunque una funzione per così dire riequilibratrice.
Più in generale l’inversione tra posizione sostanziale e processuale delle parti spiega anche il ruolo
fisso e precostituito che queste assumono nel processo amministrativo.
L’amministrazione resistente che sul piano dei rapporti sostanziali ha già esercitato il potere di cui
è titolare, determinando un certo assetto di interessi ritenuto legittimo e congruo in relazione alla
fattispecie concreta, in sede processuale non può far altro che difendere tale assetto cosi come è
stato configurato e giustificato in sede di motivazione del provvedimento. In particolare
l’amministrazione non può ne integrare in giudizio tale motivazione, ne ampliare l’oggetto del
giudizio proponendo eccezioni dii merito in senso proprio o esercitando un’azione riconvenzionale,
potere invece riconosciuto ove ne sussistano i presupposti al convenuto in un giudizio civile.
Inoltre la mancata costituzione in giudizio dell’amministrazione alla quale sia stato notificato
ritualmente il ricorso non fa scattare l’istituto della contumacia e ciò proprio perché
l'amministrazione ha già rappresentato e concretizzato il proprio punto di vista e le proprie ragioni
nel provvedimento impugnato.
In buona sostanza a un'ampia disponibilità degli interessi in gioco riconosciuta
all'amministrazione sul piano dei rapporti sostanziali corrisponde una posizione di mera reazione e
di passività sul piano processuale. Al contrario, il ricorrente che sul piano dei rapporti sostanziali
ha subito passivamente il prodursi degli effetti costitutivi del provvedimento, sul piano
processuale ha la piena disponibilità oltre che dell’oggetto del processo, del processo in quanto
tale.
Diversamente da quanto accade nel processo civile la rinuncia al ricorso non presuppone
l’accettazione dell’amministrazione resistente anche se il Codice innovando rispetto alla disciplina
preesistente prevede che le parti che hanno interesse alla prosecuzione del giudizio possono
opporsi alla rinuncia e alla conseguente estinzione del processo.
In definitiva lo squilibrio tra le parti nel rapporto sostanziale viene superato nell’ambito del
processo nel quale vigono i principi della parità delle parti, del contraddittorio e del giusto
processo.
Giurisdizione ordinaria —> La giurisdizione del g.o. è definita in termini generali dalla
Costituzione (art 102.1 Cost) e dal cpc che all’art 1 stabilisce che la giurisdizione civile è esercitata
da giudici ordinari secondo le norme dello stesso codice “salvo speciali disposizioni di legge”. La
giurisdizione del giudice ordinario si espande fino ai confini estremi dell’attività giurisdizionale e
ha portata generale e residuale; la legge può prevedere deroghe alla giurisdizioneordinaria rispetto
per esempio rispetto alla giurisdizione di giudici stranieri oppure nei confronti delle giurisdizioni
speciali.
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L’art 37 cpc stabilisce poi che il difetto di giurisdizione nei confronti della pa o dei giudici speciali
è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio atteso il carattere inderogabile delle regole
sulla giurisdizione.
Per quanto riguarda le controversie con la pa l’art 2 della legge 2248/1865 All. E devolve alla
giurisdizione ordinaria "tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materie per le quali si faccia
questione di un diritto civile o politico”.
Alcune tipologie di controversie con la pa sono devolute direttamente per legge alla giurisdizione
ordinaria. Si riferiscono o a rapporti giuridici di tipo privatistico o a situazioni nelle quali entrano in
gioco diritti fondamentali della persona costituzionalmente protetti. Tra di esse conviene limitarsi a
quelle più rilevanti e cioè alle controversie in materia di sanzioni pecuniarie, di rapporto di
pubblico impiego privatizzato, di protezione dei dati personale e di immigrazione.
La disciplina del procedimento per l’irrogazione delle sanzioni pecuniarie e del giudizio di
opposizione è posta dalla l 689/1981: contro l’ordinanza ingiunzione che irroga la sanzione e che
viene emanata in seguito alla contestazione della violazione accertata e di una fase di
contraddittorio può essere proposta opposizione davanti al g.o. entro 30 gg dalla notifica.
Il processo segue il rito del lavoro e all’esito del giudizio il giudice può annullare in tutto o in parte
l’ordinanza opposta o modificarla limitatamente all’entità della sanzione dovuta.
In seguito alla privatizzazione del rapporto di lavoro di gran parte dei dipendenti pubblici avviato
negli anni 90 le controversie in materia fino a quel momento devolute alla giurisdizione del
g.a. sono state attribuite al g.o: quest’ultimo può emanare tutti i tipi di sentenze di accertamento,
costitutive e di condanna previste in sede civile per la tutela dei diritti soggettivi tutelati e può
anche reintegrare il dipendente nel posto di lavoro.
In materia di immigrazione sono attribuite alla giurisdizione ordinaria i ricorsi contro i
procedimenti del prefetto di espulsione dello straniero entrato nel territorio clandestinamente o
privo del permesso di soggiorno, ad esclusione dei provvedimenti di espulsone emanati dal ministro
dell’Interno per motivi di ordine pubblico e sicurezza dello Stato, atteso che questi ultimiinvolgono
valutazioni prettamente discrezionali.
Tutte le controversie relative all’applicazione della normativa in materia di dati personali sono
devolute alla giurisdizione ordinaria: in essa sono inclusi anche ricorsi contro i provvedimenti
emanati dal Garante per la protezione dei dati personali che è titolare di poteri assai ampi come il
potere di ordinare la rettifica, la cancellazione di dati o la limitazione del trattamento di dati da
parte di soggetti terzi.
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possono avere una configurazione autonoma e è questa anzi la regola visto che il dirittosoggettivo
è usualmente correlato a un obbligo e non a un potere.
Pertanto il riferimento all’esercizio del potere contenuto nell’art 7.1 con riguardo ai diritti soggettivi
sta a significare che per poter rientrare nel perimetro della giurisdizione esclusiva essi devono
attenere a situazioni e vicende nelle quali, in linea di massima, l’amministrazione è investita di
poteri non bastando un “generico coinvolgimento dell’interesse pubblico”.
Agire come autorità significa poter emanare in base a una norma attributiva di potere atti e
provvedimenti di natura autoritativa: questi vanno distinti dagli atti di natura non autoritativa
emanati secondo le norme di diritto privato e sottoposti al regime di quest’ultimo ai quali fa
riferimento espresso l’art 1 co 1-bis della legge 241/1990.
L’art 7.1 richiama con un rinvio implicito all’art 11 della 241/1990 anzitutto gli accordi che
possono essere conclusi dalle pa con i soggetti privati “al fine di determinare il contenuto
discrezionale del provvedimento finale o in sostituzione di questo” che costituiscono una modalità
alternativa dell’esercizio del potere rispetto all’emanazione di un provvedimento unilaterale. Essi
dunque sono riconducibili a una posizione di autorità della pa la quale valuta discrezionalmente se
sia preferibile nel caso concreto negoziare il punto di equilibrio tra interesse pubblico e interesse
privato con il titolare di quest’ultimo da formalizzare in un accordo
L’art 7.1 fa riferimento in secondo luogo ai comportamenti riconducibili al potere; a questo
riguardo emerge una distinzione tra due tipi di comportamenti patologici dell’amministrazione:
a) Da un lato vi sono i meri comportamenti o comportamenti senza potere assunti in violazione
di una norma di relazione, che ledono un diritto soggettivo e che sono ascrivibili alla categoria
della illiceità —> essi sono equiparabili in tutto ai comportamenti posti in essere da soggetti privati
non conformi alle norme civilistiche e pertanto sono devoluti alla giurisdizione del g.o. (ad es un
fatto illecito ex 2043 cc).
b) Dall’altro vi sono comportamenti che si sostanziano in un’attività materiale esecutiva di un
provvedimento e per i quali sussiste un collegamento funzionale con un potere amministrativo così
che l’attività stessa integra direttamente una violazione della norma attributiva del potere elede
un interesse legittimo, ne consegue la giurisdizione del g.a.
L’esempio principale è costituito dall’espropriazione per pubblica utilità dove è emersa in
giurisprudenza la contrapposizione tra “occupazione usurpativa” e “occupazione appropriativa”
—> la prima si ha allorché l’amministrazione si impossessa del terreno in carenza di qualsivoglia
titolo, in via di fatto; la seconda allorché l’occupazione avviene nell’ambito di una procedura di
espropriazione ancorché illegittima. In quest’ultimo caso secondo la Corte costituzionale
(191/2006) i comportamenti costituiscono “esercizio, ancorché viziato da illegittimità della
funzione pubblica della pubblica amministrazione” e pertanto sono inclusi nella giurisdizione del
giudice amministrativo. Al contrario i comportamenti che danno origine a un’occupazione
usurpativa vanno qualificati come illeciti e sono attribuiti alla giurisdizione del giudice ordinario: la
Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art 53 Testo unico sulle espropriazioni che
attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia
espropriativa nella parte in cui vi includeva anche le controversie relative “a comportamenti non
riconducibili nemmeno mediatamente all’esercizio del potere”.
Un nesso tra illiceità del comportamento dell’amministrazione e illegittimità del provvedimento
emerge in relazione al risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo a opera di un
provvedimento amministrativo illegittimo —> quest’ultimo è uno degli elementi costitutivi
dell’illecito extracontrattuale ai sensi del 2043 cc e rileva negli stessi termini in cui rileverebbe un
comportamento o una condotta della pa produttiva di un danno. Come ha chiarito la
giurisprudenza il danno non è cagionato dal provvedimento in se stesso, ma da un fatto, ossia da
un comportamento e assume rilievo non già una mera illegittimità del provvedimento in se ma
un’illiceità della condotta complessiva.
In ogni caso l’art 7 ai commi 4 e 5 attribuisce al g.a. la giurisdizione per le controversie risarcitorie
che inizialmente la sentenza 500/1999 aveva fatto rientrare nella giurisdizione del g.o. in base
all’argomento che la pretesa risarcitoria è correlata a un diritto soggettivo.
Secondo la Corte costituzionale l’art 24 Cost nel garantire alle situazioni soggettive devolute alla
giurisdizione amministrativa piena e effettiva tutela, da un lato “implica che il giudice sia munito di
adeguati poteri” e l’azione risarcitoria costituisce “uno strumento di tutela ulteriore rispetto a
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quello classico demolitori da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della
pubblica amministrazione”, e ciò secondo una concezione rimediale di tipo anglosassone dei mezzi
di tutela; dall’altro l’art 24 Cost giustifica la concentrazione dei due strumenti di tutela presso un
unico giudice.
L’art 7.7 rende ancor più esplcito che “il principio di effettività è realizzato attraverso la
concentrazione davanti al giudice amministrativo di ogni forma di tutela degli interessi legittimi e
dei diritti soggettivi”.
L’art 7.1 fa riferimento anche al mancato esercizio del potere che si verifica ove
l’amministrazione non avvii un procedimento d’ufficio doveroso o rimanga inerte nei confronti di
un’istanza proposta da un soggetto in violazione dell’obbligo di procedere e di provvedere stabilito
dall’art 2 della legge 241/1990. Il mancato esercizio del potere costituisce un comportamento
omissivo. In realtà sembra addirittura ovvia l’assimilazione del mancato eserciziodel potere al suo
esercizio in presenza di obbligo giuridico di esercitarlo e forse si potrebbe ritenere superfluo il
riferimento contenuto nell’art 7.1; anche in ambito civilistico in alcuni caso può assumere rilevanza
non solo l’esercizio della capacità negoziale ma anche il mancato esercizio della medesima
capacità (ad es obbligo di concludere un contratto ex art 2932).
L’art 7.1 ultimo periodo esclude dall’ambito della giurisdizione del g.a. gli atti o provvedimenti
emanati dal governo nell’esercizio del potere politico, come già prevedeva la legge del 1889
istitutiva della IV sezione del Consiglio di Stato.
La nozione di atto politico è dibattuta —> il g.a. e la Corte di cassazione hanno via via ristretto la
nozione di atto politico abbandonando la teoria di origine francese del movente o dei motivi
soggettivi (finalità) dell’atto che allargava troppo l’area della insindacabilità, e hanno accolto una
nozione oggettiva di atto politico distinguendola da quella di atto di alta amministrazione cioè di
un atto emanato da un organo politico ma nell’esercizio di una funzione amministrativa. Gli atti
politici sono invece quelli emanati da un organo costituzionale in particolare il governo
nell’esercizio di una funzione di governo (ad es è questo il caso delle deliberazioni del Consiglio
dei ministri che approvano un decreto legge o un decreto legislativo, che pongono la questione di
fiducia al parlamento su un disegno di legge).
Per qualificare un atto come politico, la giurisprudenza richiede due requisiti: a) Sotto il profilo
soggettivo l’atto deve provenire da un organo preposto all’indirizzo e alla direzione della cosa
pubblica al massimo livello (in particolare il Governo); b) Sotto il profilo oggettivo l’atto deve
essere libero nei fini perché riconducibile a scelte supreme dettate da criteri politici.
La nozione di atto politico è comunque di stretta interpretazione e ha carattere eccezionale
perché altrimenti si svuoterebbe di contenuto la garanzia della tutela giurisdizionale.
La giurisprudenza più recente più che far leva sul criterio soggettivo e oggettivo pone l’accento
sul fatto che sussista o meno una norma che predetermini le modalità di esercizio della
discrezionalità politica o che comunque la circoscriva ovvero al contrario che sia impossibile
individuare un parametro giuridico sulla base del quale svolgere il sindacato giurisdizionale (ad es
il diniego di rinnovo del benestare del ministero degli Affari esteri per l’esercizio delle funzioni di
console onorario di uno Stato estero costituisce un atto politico perché le norme internazionali
che regolano le relazioni consolari non pongono alcun vincolo o criterio).
Gli atti emanati dagli organi politici vanno dunque qualificati di regola come atti di alta
amministrazione: hanno natura amministrativa anche se sono caratterizzati da un’amplissima
discrezionalità e rientrano nel perimetro della giurisdizione amministrativa (ad es provvedimenti di
nomina e revoca dei vertici militari o dei ministeri o dei direttori generali delle asl); questi atti
operano un raccordo tra funzione di indirizzo politico e la funzione amministrativa. Essi devono
essere motivati e sono impugnabili dinanzi al g.a. il quale però esercita su di essi un sindacato
meno intenso limitandosi a rilevare le violazioni più macroscopiche dei principi che presiedono
all’esercizio del potere discrezionale.
La giurisdizione amministrativa può includere anche taluni atti posti in essere da soggetti
privati. Infatti l’art 7.2 include tra le pa richiamate dal co 1 “anche i soggetti ad essa equiparati o
comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo”. Questa disposizione
rinvia essenzialmente all’art 1.1ter della 241/1990 che richiede il rispetto dei principi generali
dell’attività amministrativa e anche del procedimento amministrativo “ai soggetti privati preposti
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all’esercizio di attività amministrative”; in modo più specifico l’art 29 della legge 241/1990 include
nel campo di applicazione di quest’ultima anche le società con totale o prevalente capitale
pubblico limitatamente all’esercizio di funzioni amministrative.
Pertanto tutte le volte che in base a leggi speciali un soggetto privato svolge attività qualificabili
sul piano oggettivo come amministrative gli atti nei quali l’attività in questione si esplica rientrano
nella giurisdizione del g.a.
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La giurisdizione esclusiva alla quale fa riferimento l’art 103.1 Cost consente al g.a. di conoscere
“anche delle controversie nelle quali si faccia questione di diritti soggettivi” (art 7.5); un elenco
delle materie devolute alla giurisdizione esclusiva è contenuto nell’art 133.
Il legislatore a partire dagli anni Venti del secolo scorso ha attribuito al giudice amministrativo
questo tipo di giurisdizione in alcune materie nelle quali le situazioni di interesse legittimo e di
diritto soggettivo sono intrecciate in modo inestricabile tanto da rendere preferibile devolverne la
cognizione a un unico giudice —> esigenze di concentrazione delle tutele e di specializzazione del
giudice sono state addotte per giustificare l’espansione dell’ambito della giurisdizione esclusiva
Si è anche osservato che affidare la tutela di alcuni diritti soggettivi al g.a. abbia determinato
inizialmente una riduzione del livello di tutela assicurato; ciò perché il processo amministrativo era
concepito come un processo di impugnazione di provvedimenti illegittimi entro un breve termine
di decadenza nel quale la cognizione dei fatti avveniva in via indiretta tramite la ricostruzione
operata di essi nel provvedimento stesso, nel quale i mezzi istruttori erano fortemente limitati e la
tutela era limitata esclusivamente all’annullamento dell’atto impugnato.
Questo difetto originario che solo con il Cpa può ritenersi superato venne via via corretto dalla
stessa giurisprudenza del g.a. e della Corte costituzionale nonché dal legislatore.
Negli anni 30 la giurisprudenza introdusse un primo correttivo introducendo la categoria degli atti
“paritetici” non espressivi di un potere pubblicistico in senso proprio ma meramente ricognitivi di
diritti e obblighi discendenti dalla legge con la conseguenza di poter essere fatti valere nel giudizio
nel termine ordinario di prescrizione anziché entro il termine decadenziale di 60 gg.
Inoltre in occasione dell’istituzione dei TAR il legislatore attribuì al g.a. nelle materie devolute alla
giurisdizione esclusiva il potere di emanare sentenze di condanna al pagamento di somme di
denaro delle quali la pa risulti debitrice superando le limitazioni di un processo di impugnazione
finalizzato all’annullamento del provvedimento impugnato.
Anche la Corte costituzionale operò una progressiva parificazione della tutela dei dipendenti
pubblici a quella dei dipendenti privati: riconobbe in particolare in capo al g.a. il potere di adottare
nelle controversie patrimoniali misure cautelari analoghe a quelle previste dall’art 700 e di far
ricorso a mezzi istruttori previsti nel processo del lavoro.
Una svolta in tema di giurisdizione avvenne alla fine del secolo scorso con il d lgs 80/1998 che da
un lato ampliò le materie devolute al g.a. in particolare in materia di servizi pubblici e di
urbanistica e di edilizia devolvendo al g.o. le controversie in materia di rapporto di lavoro di gran
parte delle categorie di dipendenti pubblici; dall’altro consentì al g.a. di condannare
l’amministrazione al risarcimento del danno, di assumere i mezzi di prova previsti dal cpc escluso
il giuramento e l’interrogatorio formale, di disporre la consulenza tecnica.
In questo modo il g.a. è stato messo in grado, al pari del giudice civile, di avere un accesso pieno
ai fatti di causa e di offrire una tutela più completa dei diritti soggettivi assumendo le funzioni,
nell’ambito della giurisdizione esclusiva, di giudice di piena giurisdizione.
La legge 205/2000 in funzione del medesimo obiettivo attribuì al g.a. sempre nell’ambito della
giurisdizione esclusiva il potere di emanare decreti ingiuntivi ai sensi del cpc e di disporre il
pagamento in via provvisionale di somme di denaro, in particolare di quelle non contestate.
In conseguenza di questa evoluzione secondo la Corte di cassazione pur con le differenze di regole
processuali, non vi è una significativa differenza nel livello di tutela dei diritti soggettivi affidati
alla giurisdizione esclusiva del g.a. rispetto a quello assicurato dal g.o.
La stessa Corte costituzionale ha affermato che il g.a. “è idoneo a offrire piena tutela ai diritti
soggettivi anche costituzionalmente garantiti, coinvolti nell’esercizio della funzione
amministrativa”.
Peraltro rispetto all’ampliamento e alla riconfigurazione della giurisdizione esclusiva da parte del
legislatore ordinario va ripresa la sent 204/2004 che nel dichiarare incostituzionali gli art 33 e 34
del decreto 80/1998 ha offerto un’interpretazione più rigorosa dell’art 103 Cost in base al quale il
g.a. può conoscere i diritti soggettivi “in particolari materie”.
La Corte ha definito tali materie come quelle nelle quali la pa agiste in veste di autorità e risultano
comunque prevalenti le situazioni giuridiche di interesse legittimo —> deve trattarsi di materie che
in assenza di una disposizione legislativa che le devolve alla giurisdizione esclusiva
“contemplerebbero pur sempre in quanto vi opera la pubblica amministrazione-autorità la
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giurisdizione generale di legittimità”. Non è sufficiente per rispettare il parametro dell’art 103 della
Costituzione che si tratti di controversie nelle quali parte del giudizio sia una pubblica
amministrazione ne che sia presente un generico coinvolgimento dell’interesse pubblico.
A escludere il criterio di riparto fondato sulla mera presenza nella controversia di una pubblica
amministrazione milita anche l’art 100 Cost secondo il quale il Consiglio di Stato è giudice
nell’amministrazione che non può essere dunque trasformato in giudice dell’amministrazione
cioè di tutte le controversie che riguardino quest’ultima senza alcuna limitazione o specificazione.
Secondo la Corte questi parametri non erano rispettati dall’art 33 del 80/1998 che aveva incluso
nel perimetro della giurisdizione esclusiva tutta la materia dei pubblici servizi includendovi anche
controversie aventi natura prettamente privatistica senza alcun collegamento con un atto di
esercizio di un potere amministrativo (come in particolare quelle riguardanti prestazioni anche di
natura patrimoniale rese nell’espletamento del servizio in cui la controversia instaurata riguardava
un’obbligazione contrattuale prettamente civilistica e cioè il corrispettivo per prestazioni di
ricovero effettuate da una casa di cura privata per conto di un’azienda sanitaria locale sulla base
di una concezione).
In definitiva la Corte costituzionale ha riaffermato il ruolo del g.a. come giudice naturale di
situazioni soggettive collegate con il potere amministrativo —> ha ritenuto insuperabile il criterio
tradizionale di riparto di giurisdizione fondato sulla distinzione tra diritti soggettivi e interessi
legittimi che il decreto 80/1998 tendeva a superare a favore di un criterio diverso dei blocchi di
materie attribuite dalla legge con ampia discrezionalità al giudice ordinario o amministrativo
rendendo quest’ultimo a lungo andare una sorta di doppione inutile rispetto al primo.
La cognizione di diritti soggettivi nell’ambito della competenza esclusiva non è peraltro integrale:
restano riservate all’autorità giudiziaria ordinaria come nel caso della giurisdizione generale di
legittimità le questioni pregiudiziali riguardanti lo stato e la capacità dei privati e la risoluzione
dell’incidente di falso.
Inoltre, poiché la cognizione di diritti soggettivi è aggiuntiva rispetto a quella degli interessi
legittimi la giurisdizione esclusiva finisce per avere un carattere composito.
Infatti, se il ricorrente fa valere in giudizio solo un interesse legittimo il processo segue le regole
proprie della giurisdizione generale di legittimità; se invece il ricorrente fa valere solo un diritto
soggettivo cambia oltre che la causa petendi, il termine per proporre l’azione che è quello relativo
alla prescrizione del diritto anziché il termine decadenziale di 60 gg previsto per l’azione di
annullamento degli atti amministrativi illegittimi.
Cambiano altresì le azioni proponibili che sono tutte quelle necessarie per tutelare in modo pieno
e effettivo il diritto soggettivo. Non a caso l’art 30 in tema di azione di condanna chiarisce che nei
casi di giurisdizione esclusiva essa può essere proposta sempre anche in via autonoma cioè
senza la contestuale impugnazione di un atto amministrativo.
Inoltre il g.a. (a differenza del g.o.) non soggiace ai limiti posti dall’art 4 e 5 della 2248/1865 e
pertanto in relazione a una controversia avente per oggetto un diritto soggettivo non dovrà limitarsi
a disapplicare l’atto amministrativo ritenuto illegittimo ma potrà annullarlo ove il ricorrente lo abbia
tempestivamente impugnato.
Una peculiarità della giurisdizione esclusiva è che almeno con riguardo ad alcune materia il
processo può essere instaurato dalla pa nella veste di ricorrente contro un soggetto privato,
evenienza esclusa nella giurisdizione generale di legittimità nella quale tutt’al più una pa può
ricorrere contro un atto di un’altra amministrazione lesivo di una propria situazione giuridica
soggettiva.
Si pensi per esempio la materia di accordi integrativi e sostitutivi di un provvedimento: da questo
tipo di accordi procedimenti possono derivare obblighi non solo in capo alla pa ma anche in capo
a soggetti privati e pertanto in caso di inadempimento di questi ultimi la tutela giurisdizionale può
essere attivata anche dall’amministrazione. Né l’ordinamento conosce materie “a giurisdizione
frazionata” in funzione della natura del soggetto coinvolto nella controversia e ciò anche per
ragioni di coerenza e parità di trattamento che giustificano la concentrazione delle tutele che è
propria della giurisdizione esclusiva.
Un elenco molto ampio di materie devolute alla giurisdizione esclusiva è contenuto nell’art
133 che rinvia anche a casi previsti da ulteriori previsioni di legge.
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Sarebbe ultroneo richiamare tutte le controversie richiamate dall’art 133 essendo sufficiente
individuare le principali fattispecie
Un primo gruppo si riferisce a controversie relative all’applicazione di vari istituti previsti dalla
legge 241/1990 sul procedimento amministrativo come il danno da ritardo nell’emanazione del
provvedimento amministrativo, la formazione conclusione e esecuzione di accordi per la
determinazione del contenuto discrezionale del provvedimento o tra amministrazioni, il silenzio-
assenso e la SCIA, la nullità del provvedimento adottato in violazione o elusione del giudicato,
l’indennizzo in caso di revoca del provvedimento amministrativo, il diritto di accesso.
Un secondo gruppo attiene alle concessioni di beni pubblici e di pubblici servizi; per entrambi i
casi è esclusa la giurisdizione del g.a. per le controversie relative a indennità, canoni e altri
corrispettivi
Un terzo gruppo riguarda le controversie relative alle procedure di affidamento di pubblici lavori,
servizi o forniture la cui disciplina generale è contenuta nel Codice dei contratti pubblici, incluse
quelle sull’inefficacia del contratto conseguente all’annullamento dell’aggiudicazione, al rinnovo
tacito dei contratti e alla revisione dei prezzi
Un quarto gruppo riguarda la materia dell’urbanistica, dell’edilizia e dell’espropriazione per
pubblica utilità, escluse per quest’ultima le controversie relative alla determinazione dell’indennità
di esproprio
Un quinto gruppo si riferisce agli atti delle autorità amministrative indipendenti inclusi i
provvedimenti sanzionatori; escluse sono solo le sanzioni irrogate dalla Banca d’Italia e dalla
Consob che tradizionalmente sono devolute alla giurisdizione ordinaria con competenza della
Corte d’Appello
Ulteriori rinvii contenuti nell’art 133 si riferiscono a tipologie variegate di controversie che non si
prestano a essere ricondotte a un filone unitario come i passaporti, i provvedimenti contingibili e
urgenti del sindaco e la produzione di energia elettrica.
Nel complesso una parte consistente del contenzioso amministrativo è attribuita alla
giurisdizione esclusiva del g.a. anche se trattandosi comunque di eccezioni rispetto alla regola
della giurisdizione generale di legittimità, le fattispecie richiamate sono di stretta interpretazione.
Secondo la giurisprudenza che ha via via precisato la portata della sentenza della Corte 204/2004,
la giurisdizione del g.a. nelle materie dell’art 133 non si estende a tutte le controversie,ma soltanto
alle controversie che abbiano ad oggetto, in concreto, la valutazione di legittimità diprovvedimenti
amministrativi espressione di pubblici poteri e si richiedano dunque verifiche o controlli
riconducibili all’amministrazione autorità (ad es per quanto la materia della gestione delciclo dei
rifiuti ricada nella giurisdizione esclusiva del g.a., rientra nella giurisdizione del g.o. la domanda
inibitoria e il risarcimento del danno proposta da un privato che lamenti un danno alla salute o
l’intollerabilità delle immissioni da un impianto di trattamento dei rifiuti già raccolti e dalla relativa
discarica: la giurisdizione ordinaria si incardina se le modalità tecniche di esercizio del relativo
ciclo produttivo dipendano da scelte di chi gestisce l’impresa. Un altro es riguarda le procedure
di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture: l’atto conclusivo del procedimento
amministrativo per la scelta del contraente è l’aggiudicazione definitiva perché solo in tale fase la
pa agisce esercitando il suo potere autoritativo che invece non è ravvisabile quando esaurita la
fase pubblicistica sia sorto il vincolo contrattuale e siano in contestazione la delimitazione del
contenuto del rapporto paritetico, gli adempimenti delle obbligazioni contrattuali e i relativi effetti sul
rapporto —> l’aggiudicazione costituisce lo spartiacque delle giurisdizioni).
In ogni caso la giurisdizione esclusiva non consiste sempre nell’attribuzione di una intera materia
alla cognizione del g.a. perché lo stesso art 133 introduce eccezioni riservando al g.o. alcuni profili
specifici.
Va osservato che le due giurisdizioni generale e esclusiva hanno subito un processo di
avvicinamento quanto a livello di tutele assicurato —> anche nell’ambito della giurisdizione
generale di legittimità il giudice amministrativo dispone ormai in base al Codice di strumenti
istruttori che consentono una ricostruzione piena e autonoma del fatto e può pronunciare una
gamma di sentenze in grado di soddisfare tutti i bisogni di tutela degli interessi legittimi incluso il
risarcimento del danno.
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La giurisdizione di merito è richiamata dall’art 7.6 che rinvia all’art 134 il quale elenca 5 casi
tassativi in cui essa è eccezionalmente prevista e chiarisce che in caso di accoglimento del ricorso
“il giudice amministrativo può sostituirsi all’amministrazione”.
Già la legge del 1889 aveva ammesso la giurisdizione di merito in alcune materie tassativamente
elencate attribuendo il potere non solo di annullare gli atti impugnati ma anche di sostituirsi
all’amministrazione.
Su come si debba intendere la giurisdizione estesa al merito sono state avanzate una pluralità di
opinioni. Secondo una prima interpretazione nella giurisdizione di merito il giudice può conoscere
e valutare direttamente e autonomamente il fatto anche a prescindere dalla ricostruzione operata
dall’amministrazione nel provvedimento impugnato: la competenza di merito venne intesa come
una giurisdizione piena contrapposta alla competenza generale di legittimità che venne ricostruita
secondo il modello del giudizio di cassazione nel quale il sindacato sulla ricostruzione dei fatti
operata dalla sentenza impugnata è sempre indiretto; peraltro tenuto conto dei poteri istruttori
attribuiti dal Codice in modo unitario senza distinguere la tipologia delle giurisdizioni di merito,
legittimità o esclusiva questa specificità è venuta meno. Più dibattuta è una seconda
interpretazione secondo la quale il giudice può sindacare oltre che la legittimità anche l’equità,
l’opportunità e la convenienza economica e amministrativa dell’atto anche se in questo modo
viene superata la linea di confine tra giurisdizione e amministrazione.
L’interpretazione preferibile è che anche nell’ambito della giurisdizione di merito il giudice è tenuto
a decidere in base a parametri giuridici. Ciò sembra confermato da uno dei casi tassativi di
giurisdizione di merito e cioè il contenzioso elettorale: la verifica della regolarità delle operazion i di
voto e di scrutinio non richiede valutazioni di opportunità dovendo essere basata su regole e
principi giuridici previsti dalle norme vigenti. Per contro in un altro caso di giurisdizione estesa al
merito cioè il giudizio di ottemperanza che può essere instaurato per l’attuazione delle pronunce
giurisdizionali esecutive o del giudicato sembra difficile negare che il giudice possa operare anche
una valutazione e ponderazione degli interessi: ove accolga il ricorso, il giudice può prescrivere le
modalità di ottemperanza anche mediante la determinazione del contenuto del provvedimento
amministrativo o l’emanazione dello stesso in luogo dell’amministrazione e ciò anche ove sia
necessario operare valutazioni discrezionali; ma in questo caso si tratta di una scelta quasi
obbligata atteso che il giudizio di ottemperanza è volto a superare l’inadempimento
dell’amministrazione nel porre in essere le attività materiali e provvedimentali necessarie per dare
corretta esecuzione alla sentenza emessa all’esito del processo di cognizione.
Quanto alle controversie in materia di sanzioni pecuniarie che riguardano anche quelle
irrogate da quasi tutte le autorità amministrative indipendenti esse sono devolute in parallelo
anche alla giurisdizione esclusiva del g.a. configurando un’ipotesi di giurisdizione esclusiva e di
merito. La giurisdizione esclusiva si giustifica per il fatto che è discusso se le controversie in
materia di sanzioni pecuniarie abbiano per oggetto un’obbligazione pecuniaria che sorge ex lege
in seguito alla commissione dell’illecito amministrativo oppure il provvedimento che determina in
capo al soggetto l’obbligo di pagare la sanzione secondo lo schema usuale potereamministrativo-
interesse legittimo. In ogni caso il giudice proprio perché è investito di una competenza estesa al
merito, ove accolga il ricorso può modificare l’entità della sanzione ove accerti che la
quantificazione sia avvenuta applicando in modo non corretto i parametri fissati dalle norme.
Questo potere è attribuito peraltro anche al g.o. nel giudizio di opposizione alle sanzioni
pecuniarie irrogate in base alla l 689/1981.
In conclusione la giurisdizione di merito appare recessiva proprio perché poco coerente col
principio della separazione dei poteri. La specificità di questo tipo di giurisdizione al di la del
significato che può assumere la nazione di merito consiste essenzialmente nel fatto che il giudice
amministrativo può sostituirsi all’amministrazione.
Il riparto di giurisdizione
Il riparto di giurisdizione tra g.o. e g.a. si fonda sul criterio della causa petendi e ciò è ribadito
costantemente dalla giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione secondo le quali
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la giurisdizione va determinata sulla base dell’oggetto della domanda. A questo fine non rileva la
prospettazione soggettiva compiuta dalle parti in termini di affermazione della titolarità di una
posizione giuridica di diritto soggettivo ma il giudice deve valutare sul piano oggettivo il petitum
sostanziale. Quest’ultimo va identificato non tanto nel tipo di azione proposta e di pronuncia
richiesta ma in funzione della causa petendi ossia dell’intrinseca natura della posizione dedotta in
giudizio e individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati. Pertanto anche se la pretesa
giudiziale sia prospettata come richiesta di annullamento di uno o più atti amministrativi “questo
non può portare di per se a escludere che sia in contestazione una posizione di diritto soggettivo
e che quindi la giurisdizione appartenga al giudice ordinario”.
La giurisprudenza ha individuato da tempo alcuni criteri interpretativi per distinguere diritti
soggettivi e interessi legittimi; i criteri in questione non riguardano le materie attribuite per legge in
quanto in tal caso il riparto è operato direttamente dalla legge
Così con riguardo al criterio delle materie è stato dibattuto come deve essere interpretata la
nozione di controversie relative alle procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle
pa che restano devolute alla giurisdizione del g.a. Mentre è certo che le procedure di assunzione
di personale aperte a candidati esterni rientrano nella giurisdizione esclusiva meno chiaro è il
quadro con riferimento ai concorsi interni riservati ai dipendenti in servizio e ad altri tipi di
procedure selettive —> secondo la giurisprudenza occorre distinguere tra progressioni verticali
cioè procedure selettive attraverso le quali i candidati interni possono accedere ad aree più
elevate e che sono dunque assimilabili ai concorsi esterni e progressioni orizzontali cioè all’interno
delle stesse aree anche se con una progressione economica: solo le prime rientrano nel campo di
applicazione del decreto 165/2001 e sono incluse nella giurisdizione esclusiva del g.a.
Passando quindi ai criteri, essi sono riconducibili a 3 tipologie: distinzione tra norma di azione e
norma di relazione; tra potere vincolato e potere discrezionale; tra carenza di potere in astratto e
cattivo esercizio del potere. Spesso peraltro vengono usati cumulativamente.
★ Quanto al primo criterio ricorre ancora nella giurisprudenza la distinzione tra norma di
relazione e norma d’azione.
La prima è volta a disciplinare il rapporto giuridico intercorrente tra pa e cittadino delimitando le
rispettive sfere giuridiche e a essa è correlato il diritto soggettivo.
La seconda è volta a disciplinare l’attività dell’amministrazione ai fini di tutela dell’interesse
pubblico e ad essa è correlato l’interesse legittimo.
Nella prima la produzione dell’effetto giuridico avviene in modo automatico sulla base dello
schema norma-fatto-effetto: l'atto o comportamento assunto in violazione di una norma di
relazione va qualificato come illecito e lesivo del diritto soggettivo e l'accertamento della illiceità
spetta di regola al g.o.
Nella norma di azione la produzione dell'effetto giuridico avviene secondo lo schema norma-fatto-
potere-effetto; il provvedimento emanato dall'amministrazione nell'esercizio del potere
disciplinato dalla norma d’azione ha un carattere costitutivo dell'effetto giuridico nella sfera
giuridica del destinatario. Il provvedimento assunto in violazione della norma di azione va
qualificato come illegittimo e lesivo dell'interesse legittimo; la giurisdizione spetta al g.a.
La violazione di una norma di relazione avviene di regola ad opera di comportamenti
dell'amministrazione qualificati come illeciti ai sensi dell’art 2043 o assunti in violazione di obblighi
contrattuali (categoria dei meri comportamenti che ricadono nella giurisdizione del giudice
ordinario). La violazione di norme di relazione può avvenire anche attraverso l'emanazione di un
atto da parte dell'amministrazione meramente ricognitivo dei diritti e degli obblighi posti in capo
alle parti direttamente dalla norma medesima e che non può essere considerato come espressione
di poteri pubblicistici in senso proprio (atti paritetici): si pensi ad es all’atto che dichiara la
decadenza da presidente di un ente pubblico economico in relazione a inadempimenti o altri fatti
rispetto ai quali l’atto contestato non va considerato provvedimento autoritativo.
In realtà la distinzione tra norma di relazione e norma di azione è tutt'altro che chiara e non
regge sotto il profilo teorico una volta che anche alla norma di azione vada riconosciuta una
valenza relazionale, cioè di disciplina del rapporto giuridico amministrativo, e di protezione anche
dell'interesse privato
★ Un secondo criterio consiste nella distinzione tra potere vincolato e potere discrezionale.
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non risulta cedevole rispetto al diniego di autorizzazione a effettuare cure all’estero opposto a un
malato dall’amministrazione sanitaria sulla base di un giudizio tecnico scientifico secondo il quale
le strutture sanitarie italiane erano sin grado di assicurarle una cura con le medesime modalità.
La categoria dei diritti fondamentali non delimita sempre e necessariamente un’area impenetrabile
all’intervento di poteri autoritativi essendo talora necessario un bilanciamento con altri interessi
pubblici legati per esempio alla funzionalità di un servizio pubblico attraverso provvedimenti che
sono espressione dell’amministrazione autorità e che possono rientrare nella giurisdizione del g.a.
La giurisprudenza della Corte di cassazione tendeva a includere nella carenza di potere anche
la carenza di potere in concreto; questa ipotesi i verifica nei casi in cui esiste una norma che
attribuisce il potere all’amministrazione ma manca un presupposto essenziale tipizzato e richiesto
dalla norma per poterlo concretamente esercitare. In epoca più recente vi è stato un ripensamento
alla luce dell’art 21 septies disposizione introdotta nel 2005 che disciplinando la nullità elenca tra
le ipotesi tassative di nullità anche il difetto assoluto di attribuzione che coincidecon la carenza di
potere in astratto; per implicazione negativa, la carenza di potere in concreto èinquadrabile nella
categoria generale della violazione di legge e determina solo l’annullabilità del provvedimento
emanato. La giurisprudenza ha preso atto di questa novità legislativa limitando la categoria della
carenza di potere come causa di nullità alla sola ipotesi della carenza di potere in astratto:
quest’ultima è l’unica che consente di configurare nel sindacato giurisdizionale relativo alle
funzioni restrittive la giurisdizione del giudice civile e ciò perché l’azione amministrativa che si riversa
in un provvedimento nullo per difetto di attribuzione non è idonea a scalfire il diritto soggettivo.
Diverso è il caso della carenza di potere in concreto che attiene non all’an ma al quomodo della
potestà pubblica; ove “la pubblica amministrazione sia munita dell’astratta titolarità del potere
esercitato e sia dedotto il vizio del suo concreto esercizio, il provvedimento è annullabile e
comunque in grado di degradare la posizione soggettiva del privato”. Da ciò consegue che la
giurisdizione è rimessa al g.a. I casi che sono stati occasione di chiarimenti da parte della
giurisprudenza guardavano l’esercizio dei poteri amministrativi dopo che era scaduto il termine
perentorio previsto dalla legge a pena di decadenza (in particolare uno di essi riguardava
l’esercizio tardivo da parte di un Comune della prelazione in relazione a un bene di rilievo storico e
artistico oggetto di una compravendita tra soggetti privati; l’esercizio della prelazione avviene
attraverso un provvedimento autoritativo discrezionale incidente in modo negativo nella sfera
giuridica del destinatario titolare di un interesse legittimo oppositivo e la scadenza del termine
attiene alle modalità stabilite dalla norma attributiva del potere).
A conclusione dell’analisi, occorre rimarcare come i 3 criteri non risolvono nella pratica tutti i
problemi e il riparto di giurisdizione continua a alimentare un contenzioso consistente.
Peraltro l’errore nell’individuare il giudice dotato di giurisdizione non è più irreparabile atteso che
la giurisprudenza anche costituzionale alla quale si ispira ora il codice ha ritenuto applicabile il
principio della traslatio iudicii che consente alla parte che vi abbia interesse di riassumere la causa
innanzi al giudice investito di giurisdizione.
Un problema particolare di qualificazione della situazione giuridica soggettiva ai fini del riparto di
giurisdizione, riguarda atti e comportamenti della pa che fanno sorgere in capo al privato un
affidamento incolpevole che, ove disatteso, può causare un danno risarcibile, a titolo di
responsabilità contrattuale.
Le fattispecie principali che hanno dato origine a orientamenti giurisprudenziali oscillanti sono
due: la prima riguarda gli affidamenti ingenerati, anche tramite rassicurazioni informali e scambi d i
comunicazioni con gli uffici competenti, circa l’esito positivo di procedimenti su istanza di parte
conclusisi senza l’emanazione di alcun provvedimento; la seconda fattispecie riguarda il rilascio
illegittimo di una concessione o di un’autorizzazione successivamente annullata in sede di
autotutela o in seguito a ricorso giurisdizionale.
In entrambe le fattispecie il soggetto privato, facendo affidamento sull'esito positivo del
procedimento o sul provvedimento favorevole poi annullato, può aver intrapreso un'attività,
assunto impegni, avuto esborsi economici che poi risultano vanificati.
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In queste ipotesi, che attengono a vicende procedimentali nelle quali l’amministrazione è titolare
di poteri autoritativi, è stato dibattuto se il danno subito dal privato si ricollega all'esercizio del
potere e se dunque possa emergere una lesione dell'interesse legittimo attratto nella giurisdizione
amministrativa; oppure se il danno è arrecato a un diritto soggettivo ad opera, più che di un atto,
di un comportamento della pa la cui cognizione rientra nell'ambito della giurisdizione del g.o.
a) Con riguardo alla mancata adozione dell’atto favorevole richiesto, non essendo intervenuto
alcun atto dell’amministrazione rileva solo il comportamento tenuto dall’amministrazione
nell’ambito del procedimento
b) Con riguardo alla seconda fattispecie del provvedimento favorevole poi annullato, la questione
è piu complessa. Si è infatti argomentato che la situazione giuridica soggettiva coinvolta ha la
consistenza di un interesse legittimo: quest’ultimo può essere leso non solo quando
l’amministrazione nega illegittimamente un provvedimento ampliativo della sfera giuridica del
soggetto privato ma anche nella situazione simmetrica cioè quando emani illegittimamente un
provvedimento ampliativo —> in entrambi i casi viene lesa la pretesa, che sta alla base della
ricostruzione tradizionale dell’interesse legittimo, a che l’amministrazione provveda legittimamente
L’interesse legittimo pretensivo si sostanzia nella pretesa che l’amministrazione “provveda
legittimamente in vista di un provvedimento positivo” con conseguente attribuzione di un’utilità o
bene della vita” e può essere soddisfatto, dal punto di vista del privato, anche se il bene della vita
viene ottenuto sulla base di un provvedimento illegittimo: quest’ultimo può determinare
l’insorgenza di un incolpevole affidamento del privato beneficiario nella permanenza della
situazione di vantaggio. Se un siffatto affidamento viene disatteso in seguito a un annullamento
d’ufficio o per effetto di una sentenza o in seguito alla mancata adozione dell’atto amministrativo
richiesto, il soggetto privato subisce una lesione nella sua sfera giuridica, ma la situazione giuridica
lesa non ha la consistenza di un interesse legittimo ma di diritto soggettivo.
Il danno lamentato dal soggetto privato non è la conseguenza diretta e immediata dell’atto
illegittimo poi definitivamente annullato ma dipende da una fattispecie complessa che richiede
una valutazione dell’operato dell’amministrazione in base al principio di diligenza e buonafede.
Il soggetto danneggiato che propone la domanda risarcitoria non introduce alcuna controversia
sull’esercizio del potere dell’amministrazione; l’illegittimità del provvedimento stata già accertata e
anche il provvedimento di autotutela non è suscettibile di un’ulteriore contestazione —> entrambi
gli aspetti rientrano nell’oggetto del giudizio solo come elementi di fatto a supporto della domanda
risarcitoria.
La lesione dell’affidamento incolpevole richiede dunque l’accertamento di un quid pluris rispetto
alla mera illegittimità di tale atto nel senso che devono essere valutate tutte le circostanze che
connotano la vicenda (ad es possono rilevare la conoscenza e il dubbio in capo al soggetto
privato circa la legittimità del provvedimento emanato, la lunga distanza temporale intercorsa tra
l’emanazione dell’atto emanato e l’annullamento d’ufficio).
Quanto alla situazione giuridica lesa, secondo un’interpretazione giurisprudenziale essa va
rinvenuta nel diritto soggettivo all’integrità patrimoniale conseguente alla sottrazione del bene
della vita pur acquisito illegittimamente.
Secondo un’altra più recente interpretazione giurisprudenziale ad essere leso è direttamente
l’affidamento del privato da intendersi come affidamento incolpevole di natura civilistica poi
disatteso da un comportamento della pa contrario al principio di correttezza e buona fede: da
questo principio ormai applicabile alla pubblica amministrazione in tutti i rapporti anche di natura
pubblicistica con i soggetti privati in conformità all’idea di un diritto amministrativo paritario
coerente con i principi di buon andamento e di imparzialità dell’amministrazione discendono una
serie di diritti e obblighi reciproci, desumibili anche dalla legge 241/1990 —> la violazione di tali
obblighi da origine a una responsabilità relazionale o da contatto sociale qualificato da inquadrare
nell’ambito della responsabilità contrattuale.
A prescindere da come si definisce la situazione giuridica lesa, la giurisdizione spetta al g.o.
Le azioni proponibili nel processo di cognizione per la tutela delle situazioni giuridiche soggettive
sono riconducibili a tre tipi: mero accertamento, condanna e costituiva.
L’azione di mero accertamento mira a stabilire in presenza di una contestazione il modo d’essere
di un determinato rapporto giuridico e si conclude in caso di accoglimento con una sentenza che
constata la piena conformità della situazione di fatto alla situazione di diritto.
L’accertamento, che mira a “eliminare l’incertezza intorno all’esistenza, inesistenza o modalità di
un rapporto giuridico” ha una valenza anche prescrittiva nel senso che le parti saranno tenute a
conformare i propri comportamenti al contenuto della sentenza.
L’azione di condanna, mira a indurre la parte soccombente a porre in essere un’attività volta a
rimuovere una difformità tra la situazione di fatto e la situazione di diritto accertata dal giudice.
La sentenza di condanna include un accertamento ma a questo si aggiunge anche un elemento di
tipo ordinatorio in quanto è diretta ad eliminare gli effetti della violazione già accertata.
A valle della condanna la parte soccombente è tenuta a porre in essere le attività necessarie per
conformare la situazione di fatto alla situazione di diritto come accettata dalla sentenza; ove la
parte non ponga in essere le attività necessarie per dare esecuzione alla condanna l’altra parte
potrà attivare la tutela esecutiva.
La condanna può avere ad oggetto un facere specifico o un non facere; può anche essere diretta
inibire pro futuro determinati comportamenti.
La condanna può anche disporre il risarcimento del danno patrimoniale o non patrimoniale.
L’azione costitutiva che nel processo civile è ammessa solo in casi predeterminati è volta a
modificare tali rapporti cioè a costituire, modificare o estinguere le situazioni giuridiche soggettive
delle quali sono titolari le parti. È correlata ai diritti potestativi a necessario esercizio giudiziale che
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non consentono al soggetto che ne è titolare di operare direttamente con un proprio atto
unilaterale una modifica nella sfera giuridica di un altro soggetto.
A differenza delle sentenze di accertamento e di condanna la sentenza costitutiva opera una
modifica nella configurazione del rapporto giuridico intercorrente tra le parti; anche nella sentenza
costitutiva vi è una componente di accertamento ossia l’accertamento delle condizioni volute
dalla legge perché possa prodursi il mutamento giuridico.
L’azione costitutiva è espressione di una funzione di controllo dei diritti potestativi o poteri, cioè di
verifica giudiziale del rispetto delle condizioni.
Per completezza un cenno va dedicato alle azioni sommarie, cioè a procedimenti speciali che
danno luogo a una definizione rapida della lite e che acquistano subito un’efficacia esecutiva. Tra
queste il decreto ingiuntivo disciplinato dal cpc che può essere emanato anche dal g.a. nelle
materie di giurisdizione esclusiva.
Il processo amministrativo ha tradizionalmente avuto al suo centro la tutela costitutiva nel senso
che l’azione proposta è tipicamente un’azione di annullamento di procedimenti amministrativi
illegittimi; il processo civile ha invece al suo centro la tutela di accertamento e di condanna
INTRODUZIONE
Premessa
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pretesa sostanziale fatta valere dal ricorrente. Qualche elemento oggettivo è presente nel giudizio
di ottemperanza e nel giudizio cautelare ove il giudice valuta anche l’interesse pubblico.
I principi generali
Un primo gruppo di principi ha carattere generalissimo nel senso che essi valgono con gli
adattamenti necessari per tutti processi e hanno in massima parte un fondamento costituzionale
esplicito.
Un primo principio è il principio della effettività della tutela giurisdizionale espresso in
attuazione degli artt 24 e 113 Cost, dall’art 1 cpa secondo il quale la giurisdizione amministrativa
“assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”.
Il principio è richiamato dall’art 7 del Codice secondo il quale esso è realizzato attraverso la
concentrazione davanti al g.a. di ogni forma di tutela degli interessi legittimi e nell’ambito della
giurisdizione esclusiva dei diritti soggettivi.
Il Codice enuncia in secondo luogo i principi della parità delle parti, del contraddittorio e del
giusto processo (art 2), in conformità con l’art 111 Cost e art 101 cpc.
Questi principi acquistano un rilievo particolare nel processo amministrativo se si considera che,
sul versante sostanziale, cioè del rapporto giuridico amministrativo, l’amministrazione titolare del
potere si colloca in una posizione di sovraordinazione rispetto al soggetto privato titolare
dell’interesse legittimo. Peraltro almeno all’interno del processo, le parti sono poste su un piano di
parità nel seno che ad esse sono riconosciute le medesime garanzie.
Il Codice sviluppa il principio del contraddittorio ribadendo le regole tradizionali secondo le quali il
ricorso deve essere notificato oltre che alla pa ad almeno uno dei controinteressati, e il giudice
ove necessario deve ordinare l’integrazione del contraddittorio. Il Consiglio di Stato, ove rilevi in
sede di appello che nel giudizio di primo grado è mancato il contraddittorio, riforma la sentenza e
rimette la causa al giudice di primo grado (art 195).
Il Codice prevede inoltre che se il giudice ritiene di porre a fondamento della decisione una
questione rilevabile d’ufficio deve darne atto in udienza o comunque consentire alle parti di
controdedurre anche dopo che la causa è passata in decisione —> il contraddittorio è dunque
assicurato sia nei rapporti tra le parti sia tra queste e il giudice.
Il contraddittorio precede di regola la decisione ma eccezionalmente esso può essere posticipato
e eventuale: nel processo amministrativo ciò accade solo nel processo cautelare nel quale i decreti
monocratici possono essere emanati inaudita altera parte cioè senza aver sentito prima le
controparti e nel quale è ammessa in casi di eccezionali di gravità e urgenza anche la tutela
cautelare ante causam.
L’art 2.2 richiama il principio della ragionevole durata del processo, già enunciato dall’art
111.2 Cost e dal diritto europeo.
Ad esso si ispirano alcuni istituti processuali acceleratori (la sentenza in forma semplificata, la
definizione del giudizio all’esito dell’udienza cautelare e la previsione di riti abbreviati con termini
ridotti).
Peraltro l’inclusione nell’art 111 Cost del principio in questione e i tentativi del legislatore di
semplificare le regole processuali non risolvono il problema annoso dei tempi lunghi della giustizia
specie civile e penale. In realtà il contenimento dei tempi è più che altro un fatto di organizzazione
di mezzi e soprattutto di uomini e solo molto secondariamente di riti e nuove norme.
Anche il giudice concorre all’obiettivo della ragionevole durata del processo applicando il principio
di economia processuale —> il giudizio può essere concluso ponendo alla base della decisione la
“ragione più liquida” cioè quella più facile da accertare e meno dispendiosa sotto il profilo
istruttorio anche se ciò comporta un’alterazione dell’ordine logico delle questioni. Il giudice può cioè
derogare all’ordine logico delle questioni pregiudiziali di rito e successivamente quelle dimerito.
In base al principio di economia processuale il giudice può prescindere da incombenti inutili
quando le risultanze acquisite consentono di definire il giudizio in senso sfavorevole per la parte
ricorrente. Può decidere in particolare la controversia nel caso in cui il ricorso sia manifestamente
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Un secondo gruppo di principi riguarda più specificamente la struttura del processo e incarnano
la concezione soggettiva della tutela.
Il processo amministrativo è promosso su impulso esclusivo della parte interessata: è retto cioè
dal principio della domanda corrispondente al brocardo nemo iudex sine actore.
Esso è enunciato in termini generali dall’art 99 del cpc secondo il quale “chi vuol far valere un
diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente”.
Il principio della domanda riflette la disponibilità esclusiva della posizione giuridica sostanziale in
relazione alla quale viene instaurato il processo e favorisce una maggiore terzietà e imparzialità
del decisore perché non coinvolge il giudice nella definizione del perimetro della controversia.
Il principio è richiamato dal codice all’art 34.1 il quale stabilisce che in caso di accoglimento del
ricorso il giudice emana la sentenza tra quelle elencate nella disposizione “nei limiti della
domanda”.
In applicazione di questo principio rientra tra le prerogative del ricorrente non solo l’impulso
processuale ma anche “l’indicazione dell’oggetto della domanda” ivi incluso il provvedimento
eventualmente impugnato (art 40)
Correlato al principio della domanda è il principio della corrispondenza tra chiesto e
pronunciato (art 112 cpc).
Questo principio è violato quando il giudice si pronuncia oltre il limite della domanda con
conseguente nullità della sentenza.
Il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato non è peraltro di ostacolo a che il
giudice operi una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti o
applichi una norma diversa da quella da esse invocata sempre che restino immutati causa petendi
e petitum: il principio iura novit curia non contraddice il principio della domanda che rimette in via
esclusiva al ricorrente l’individuazione della situazione giuridica fatta valere nel giudizio.
Il principio è violato poi allorché il giudice non si pronunci su tutta la domanda. Il principio non è
però assoluto: così ad es è stato ritenuto che in una controversia volta a contestare la legittimità
di un concorso pubblico, la sentenza che accerti l’illegittimità tenuto conto del lungo lasso di
tempo trascorso dal concorso e degli interessi dei vincitori possa limitarsi a condannare
l’amministrazione al risarcimento del danno senza disporre l’annullamento del provvedimento
impugnato richiesto dal ricorrente.
L’oggetto della domanda concorre a definire l’oggetto del giudizio che segna il perimetro della
cognizione del giudice. Quest’ultimo peraltro può essere ampliato laddove lo stesso ricorrente,
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dopo il deposito del ricorso originario, propone motivi aggiunti oppure il controinteressato
propone un ricorso incidentale.
Manifestazione del principio della domanda è anche il potere del ricorrente di rinunciare al ricorso,
potere che è speculare a quello di proporlo. Il codice prevede che possano opporsi alla rinuncia le
parti che abbiano interesse alla prosecuzione del giudizio; questa evenienza sembra da escludersi
nei giudizi di impugnazione di un provvedimento amministrativo considerato che l’interesse
dell’amministrazione che lo ha emanato e dell’eventuale controinteressato è quello di evitare che
esso venga annullato, obiettivo che viene conseguito, oltre che dal rigetto del ricorso anche dalla
rinuncia che lascia irrisolta la questione della legittimità dell’atto.
Collegato al principio della domanda è il principio dell’impulso di parte in base al quale il
ricorrente deve rendersi parte diligente affinché la causa instaurata prosegua fino alla sua
conclusione naturale con l’emanazione della sentenza. A questo fine va presentata un’istanza di
fissazione dell’udienza; una nuova istanza di fissazione della udienza va presentata per evitare che
il ricorso, dopo 5 anni dalla data del deposito venga dichiarato perento.
Il principio dispositivo riguarda la trattazione e istruzione della causa. Da un lato vige nel
processo amministrativo la regola propria del processo civile secondo la quale le parti devono
individuare e allegare i fatti rilevanti e fornire la prova dei medesimi. Dall’altro, il principio
dell’onere della prova connaturale ai processi informati al principio dispositivo trova
un’attenuazione nel processo amministrativo, nel quale si applica entro certi limiti anche il
principio inquisitorio atteso che il g.a. può anche d’ufficio assumere mezzi di prova.
Altri principi del processo amministrativo sono quelli della concentrazione, collegialità e oralità.
In base al principio di concentrazione che è un corollario del principio di effettività il g.a.
nell’ambito della propria giurisdizione può accordare anche secondo la giurisprudenza
costituzionale ogni forma di tutela agli interessi legittimi e ai diritti soggettivi.
Il principio di concentrazione può essere inteso nel senso che per quanto possibile le attività
processuali finalizzate a rendere la causa matura per la decisione devono svolgersi in un lasso
temporale il più breve possibile.
Il principio è previsto in modo esplicito nella legge processuale amministrativa tedesca secondo la
quale il presidente del collegio deve porre in essere tutti gli adempimenti necessari affinché la
controversia si concluda in un’unica udienza fissata per la discussine orale; il cpa non contiene una
disposizione analoga ma all’art 75 prevede genericamente che il collegio “dopo la discussione”
decide la causa.
Il principio della concentrazione delle tutele e di economia processuale viene richiamato in
giurisprudenza in relazione al cumulo di domande proposte con un unico ricorso in deroga alla
regola tradizionale che il ricorso “deve essere diretto contro un solo provvedimento e proposto da
un solo soggetto ricorrente”.
In ogni caso poiché il processo amministrativo non contempla una fase istruttoria obbligatoria,
nella maggior parte dei casi, dopo la proposizione del ricorso viene fissata l’udienza di merito per
la discussione della causa che poi passa in decisione.
Il principio di collegialità costituisce una garanzia di una maggior ponderazione della decisine
assunta ed è recepito dal codice con poche eccezioni. La principale, giustificata dalle ragioni di
estrema urgenza nel provvedere, costituita dal potere attribuito al presidente del Tar di disporre
con decreto misure cautelari provvisorie da confermare o meno nella prima camera di consiglio
collegiale utile.
Anche nella fase istruttoria di regola rimessa al collegio, un giudice monocratico su istanza
motivata di parte può adottare i provvedimenti necessari; il codice non ha peraltro recepito la
proposta di introdurre nel processo amministrativo la figura collaudata nel processo civile del
giudice istruttore. Peraltro va segnalato che un ruolo di fatto preponderante è svolto dal
presidente del collegio e dal giudice relatore.
Quanto al principio dell’oralità, va sottolineato che il processo amministrativo è un processo
principalmente “cartolare” —> infatti esso si basa di regola sul provvedimento impugnato, su atti
del procedimento, su prove di tipo documentale e per quanto riguarda gli atti delle parti su
memorie e repliche scritte.
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La discussione orale è prevista nell’udienza di merito e il Codice precisa che “le parti possono
discutere sinteticamente” (art 73.2).
Nell’udienza cautelare la discussione orale è ammessa se i difensori ne facciano richiesta ma ciò
accade quasi sempre visto che per essi è l’occasione di un primo contratto con il giudice;
quest’ultimo inoltre dovendo assumere una decisione immediata sulla base di una prima
delibazione degli elementi di fatto e di diritto da approfondire poi nella fase di merito può avere
necessità di qualche chiarimento preliminare; la discussione si svolge anche in questa sede in modo
sintetico
Il principio del doppio grado di giudizio è enunciato dall’art 125.2 Cost, attuato
compiutamente dalla legge del 1971 istitutiva dei Tar e ora previsto dall’art 100 cpa secondo il
quale avverso le sentenze dei Tar è ammesso appello al Consiglio di Stato.
La Corte Costituzionale che ha sempre escluso anche in altri ambiti l’esistenza di una norma
costituzionale che garantisca il principio del doppio grado di giudizio, ha confermato questa tesi
anche con riguardo all’art 125.2 Cost: quest’ultimo è stato interpretato nel senso di escludere che
si possa attribuire al Tar competenze giurisdizionali in unico grado e la conseguente necessaria
appellabilità di tutte le sue pronunce e nel senso di escludere altresì che il Consiglio di Stato debba
essere considerato come giudice solo di secondo grado.
In altri termini il legislatore ordinario potrebbe introdurre ipotesi di ricorso in unico grado al
Coniglio di Stato come è stato talvolta ipotizzato con riguardo ai regolamenti governativi e agli atti
delle autorità amministrative indipendenti, considerato che questi ultimi sono assunti in forme
“paragiurisdizionali” cioè con garanzie accentuate di contraddittorio e con la separazione
tendenziale tra ufficio istruttore e collegio giudicante.
necessariamente un’omologazione piena alle regole del processo civile ordinario. Anche in ambito
civile i modelli processuali sono plurimi e calibrati alla specificità delle controversie sottoposte alla
cognizione del giudice, specificità innegabile per quanto riguarda le controversie tra i privati e la
pa-autorità.
Il giudice
Il g.a. si articola a livello regionale nei Tar come giudici di primo grado e nel Consiglio di Stato
come giudice di appello (art 4).
I Tar sono istituiti uno per capoluogo di regione ma in alcune regioni sono previste anche sezioni
distaccate. Le sentenze sono assunte da collegi composti da 3 magistrati (art 5 co 2).
Nella regione Trentino Alto Adige è presente in base allo Statuto speciale un Tribunale regionale di
giustizia amministrativa con sede a Trento e una sezione autonoma con sede a Bolzano.
La competenza dei Tar è definita dal Codice come inderogabile —> e questo allo scopo di porre
fine alla prassi del forum shopping cioè della scelta del giudice territoriale al quale proporre il
ricorso sulla base di preferenze soggettive poco trasparenti.
I criteri stabiliti per la ripartizione della competenza tra i vari Tar, che attuano il principio
costituzionale del giudice precostituito per legge tendono a promuovere la prossimità del giudice
rispetto alle parti del giudizio in modo tale da rendere più agevole instaurare la controversia e
svolgere le difese.
■ Il primo criterio si riferisce alla sede dell’amministrazione che ha emanato l’atto (criterio
della sede) —> è competente a conoscere la controversia il Tar nella cui circoscrizione è stabilita
tale sede (art 13.1)
■ Il secondo criterio è quello degli effetti diretti del provvedimento (criterio dell’efficacia
dell’atto) —> se questi sono limitati all’ambito territoriale della regione in cui il tribunale ha sede,
la competenza si radica in capo a quest’ultimo anche se si tratta di atti statali (art 13.1). Questo
criterio che deroga al primo realizza l’obiettivo del decentramento. Per gli atti statali aventi
efficacia ultraregionale competente è invece il Tar del Lazio
■ Un terzo criterio si applica solo alle controversie riguardanti dipendenti pubblici (criterio del
foro del pubblico impiego) —> è competente il Tar nella cui circoscrizione è situata la sede del
servizio (art 13.2), sempre in funzione dell’obiettivo di rendere più agevole l’accesso alla giustizia
La competenza territoriale determinata in relazione al provvedimento oggetto principale del
giudizio attrae anche quella relativa agli atti presupposti dello stesso provvedimento, escluso il
caso degli atti normativi e degli atti generali.
Il Tar del Lazio ha un ruolo preminente a livello nazionale perché è investito in via esclusiva di
una serie di controversie indicate tassativamente in un elenco contenuto nell’art 135 del Codice e
in altre disposizioni di legge. Si tratta della cd competenza funzionale avente anch’essa natura
inderogabile.
L’elenco contenuto nell’art 135 è piuttosto lungo e riguarda controversie di grande rilievo come
quelle relative agli atti delle autorità indipendenti, ai diritti di uso delle frequenze radio, ai
rigassificatori e ai gasdotti, alle centrali elettriche di maggior capacità, ai provvedimenti
commissariali adottati in situazioni di emergenza ecc.
Secondo alcuni il Tar del Lazio ha assunto un ruolo cosi preponderante da porre qualche dubbio
in ordine alla compatibilità con l’art 125 Cost che pone il principio dell’articolazione territoriale
della giustizia amministrativa. La Corte Costituzionale ha individuato alcuni criteri,
necessariamente elastici, per poter derogare al principio posto dall’art 125 Cost: il legislatore
ordinario può prevedere la competenza funzionale del Tar del Lazio solo se essa persegue uno
scopo legittimo giustificato da un interesse pubblico apprezzabile che non sia semplicemente
quello di assicurare l’uniformità della giurisprudenza a livello nazionale; sulla base di questi criteri
la Corte ha dichiarato incostituzionale la previsione della competenza funzionale del Tar del Lazio
in materia di autorizzazioni di polizia in materia di giochi pubblici con vincita di denaro non
ravvisando alcuna ragione particolare che giustifichi la deroga.
Il principio della inderogabilità della competenza del giudice di primo grado trova sviluppo nel
Codice in una serie di regole sulla competenza (artt 15 e 16): la logica che le ispira è che la
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questione di competenza deve essere sollevata e decisa nei tempi più celeri possibile allo scopo
di non ritardare la conclusione del giudizio con una sentenza definitiva.
A questo fine in primo luogo la parte interessata deve eccepire l’incompetenza immediatamente
(entro il termine per la costituzione in giudizio) mentre il giudice può sollevarla d’ufficio finché la
causa non è decisa in primo grado e non può dunque sollevarla in sede di appello.
In secondo luogo è previsto un procedimento speciale accelerato, il regolamento di competenza
che provoca una decisione del Consiglio di Stato vincolante per i Tar.
Inoltre per precludere il forum shopping il Tar innanzi al quale è stato proposto il ricorso non può
pronunciarsi sulla domanda cautelare, ove presentata, prima di aver deciso sulla questione della
competenza. Se si ritiene incompetente indica con ordinanza il Tar ritenuto competente innanzi al
quale la causa va riassunta e che dovrà pronunciarsi sulla domanda cautelare anche nel caso si
ritenga incompetente e richieda d’ufficio il regolamento di competenza.
La Corte Costituzionale ha ritenuto non lesiva del diritto di difesa e della ragionevole durata del
processo la scelta del Codice, innovativa rispetto al regime precedente che vieta al Tar che si
ritiene incompetente di esaminare l’istanza cautelare anche se ciò comporta una dilatazione dei
tempi: una diversa soluzione potrebbe consentire a una parte di adire un giudice incompetente e
sarebbe proprio tale opzione a determinare la lesione di tutti gli altri principi enunciati dagli artt 24
e 111Cost.
Il regolamento di competenza può essere richiesto d’ufficio o dalle parti del giudizio che lo
promuovono dopo l’emanazione dell’ordinanza che pronuncia sulla competenza (art 16).
Il Consiglio di Stato decide con ordinanza in camera di consiglio in contraddittorio con le parti; se
viene indicato un Tar diverso da quello adito, il giudizio deve essere riassunto entro 30 gg davanti
al Tar competente.
Il Consiglio di Stato è definito come “organo di ultimo grado della giurisdizione
amministrativa”. I collegi che compongono le sezioni giurisdizionali decidono con l’intervento di 5
magistrati tra i quali un presidente di sezione.
Qualche considerazione in più merita l’Adunanza plenaria composta dal presidente del Consiglio
di Stato e da 12 magistrati provenienti da tutte le sezioni (art 6.3).
L’Adunanza plenaria svolge una funzione nomofilattica volta a favorire l’applicazione uniforme
del diritto da parte dei g.a: ha un ruolo analogo a quello delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione nell’ambito della giustizia civile.
Il deferimento del ricorso all’Adunanza plenaria può avvenire con 3 modalità differenti (art 99):
a) La prima è il deferimento su impulso di una sezione allorché rilevi d’ufficio o su istanza di parte
che il punto di diritto sottoposto al suo esame ha dato o possa dar luogo a contrasti
giurisprudenziali. L’Adunanza plenaria non è tenuta a decidere, anzi può restituire per ragioni di
opportunità gli atti alla sezione
b) La seconda modalità è il deferimento su impulso del presidente del Consiglio di Stato sempre
d’ufficio o su istanza di parte quando ritenga che la questione da risolvere riguardi “questioni di
massima di particolare importanza” ovvero possa essere opportuno per dirimere contrasti
giurisprudenziali (art 99.2). Secondo alcuni interpreti questa modalità specie se usata in modo
troppo frequente potrebbe essere considerata lesiva del principio del giudice naturale
precostituito per legge.
c) La terza modalità è il deferimento obbligatorio sempre su impulso di una sezione allorché essa
non condivida un principio di diritto enunciato dall’Adunanza plenaria (art 99.3).
Le sezioni non sono libere di discostarsi dai precedenti dell’Adunanza plenaria ma possono solo
sollecitare un ripensamento da parte di quest’ultima. Il vincolo del precedente è di tipo
“processuale negativo” nel senso che la Sezione non ho l’obbligo di adottare l’interpretazione
adottata dall’adunanza plenaria ma non può neppure adottare una pronuncia contrastante. In caso
di dissenso può soltanto investire l’Adunanza plenaria con ordinanza interlocutoria —>
quest’ultima deve essere motivata e ha un contenuto assimilabile a una dissenting opinion in
funzione di anticipatory overruling affinché sia la stessa Adunanza plenaria a rimuovere il
precedente che tale vincolo crea. Peraltro non è previsto alcun rimedio specifico nel caso in cui la
sezione decida un caso in difformità dall’orientamento dell’Adunanza senza investirla.
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Il vincolo processuale negativo non è assoluto perché esso non si applica allorché si tratti di
questioni che attengono all’interpretazione del diritto europeo: in questi casi la sezione, se non
condivide il principio di diritto enunciato dall’Adunanza plenaria, può adire direttamente la CGUE
in via pregiudiziale senza dover rimettere la questione all’Adunanza plenaria. Inoltre anche ove tale
principio di diritto risulti manifestamente in contrasto con l’interpretazione fornita in modo chiaro e
univoco dalla giurisprudenza europea la sezione può farne applicazione diretta, senza dover
preventivamente investire l’Adunanza plenaria.
Mentre i principi di diritto sono vincolanti nei termini ora precisati, per le sezioni del Consiglio di
Stato non esiste alcuna disposizione espressa che preveda un analogo vincolo per i Tar. Peraltro
una pronuncia del giudice di primo grado che si discosti da un precedente dell’Adunanza plenaria
ha più probabilità di essere appellata.
Quanto ai poteri decisionali, l’Adunanza plenaria decide l’intera controversia, ma può anche
limitarsi a enunciare il principio di diritto svolgendo cosi solo la funzione nomofilattica e
restituendo per il resto il giudizio alla sezione remittente (art 99.4) —> in quest’ultimo caso la
statuizione dell’Adunanza plenaria non ha carattere neppure parzialmente decisorio o definitorio
della controversia e pertanto non può essere oggetto di ricorso per cassazione.
La funzione nomofilattica emerge allo stato ancora più puro, cioè senza un collegamento diretto
con una controversia da decidere nel merito, allorché l’Adunanza plenaria dichiara il ricorso
irricevibile, inammissibile, improcedibile o dichiara l’estinzione del giudizio ma enuncia comunque
il principio di diritto nell’interesse della legge su una questione ritenuta di particolare importanza
(art 99.5). Alle pronunce dell’Adunanza plenaria che enunciano un principio di diritto è
riconosciuta natura essenzialmente interpretativa tesa a orientare i giudici amministrativi
soprattuto per casi futuri.
L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha ritenuto eccezionalmente di poter limitare al futuro
l’applicazione del principio di diritto (prospective overruling) derogando alla regola della
retroattività e ciò in presenza di alcune condizioni tra le quali: l’esistenza di un orientamento
interpretativo consolidato costituente diritto vivente, imprevedibilmente modificato
dall’interpretazione fatta propria dall’Adunanza plenaria; necessità di evitare gravi ripercussioni
socio-economiche derivanti dall’applicazione retroattiva e una lesione del principio di certezza del
diritto a danno dei destinatari di un precetto normativo.
Qualche accenno va dedicato agli istituti della astensione e della ricusazione (artt 17 e 18).
Per quanto riguarda l’astensione, l’art 17 si limita a un rinvio al cpc che all’art 51 individua i casi
di astensione obbligatoria e prevede che il giudice possa chiedere al capo dell’ufficio di astenersi
per gravi ragioni di convenienza.
Per quanto riguarda la ricusazione, l’art 18.1 opera un rinvio generale al cpc e ciò consente di
rendere applicabile l’art 52 di quest’ultimo secondo il quale le parti possono proporre la
ricusazione nei casi in cui il giudice ha l’obbligo di astenersi. L’art 18 pone alcune regole
procedurali sui termini e le modalità (necessità che la domanda sia sottoscritta dalla parte oltre
che dall’avvocato munito di procura speciale) che riprendono e riadattano delle contenute nel cpc
La principale differenza consiste nel fatto che il giudizio non è sospeso automaticamente ma il
collegio può disporne la prosecuzione se a un sommario esame ritiene l’istanza inammissibile o
manifestamente infondata.
La giurisprudenza anche antecedente al Codice ha chiarito che la ricusazione può riguardare i
singoli giudici ma non l’intero collegio e che i casi di astensione e ricusazione sono di stretta
interpretazione.
Secondo l’art 100 Cost, il Consiglio di Stato esercita anche una funzione consultiva soprattutto
nei confronti del governo ma anche delle regioni e delle autorità amministrative indipendenti che
hanno per oggetto gli atti normativi del governo e questioni giuridiche di massima. Questo compito
è di regola assegnato alla prima sezione.
Un cenno va dedicato al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica —> mentre in
passato il Consiglio di Stato si limitava a esprimere al governo un parere obbligatorio ma non
vincolante su questo particolare tipo di ricorso amministrativo, modifiche legislative recenti
assegnano un ruolo sostanzialmente decisorio della controversia, analogo a quello di una
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sentenza, al parere del Consiglio di Stato. Esso è infatti vincolante per il ministro che formula la
proposta della decisione al Presidente della Repubblica.
Qualche considerazione finale può essere svolta sul ruolo complessivo del Consiglio di Stato e dei
Tar a circa 50 anni dalla loro istituzione.
I dati quantitativi del contenzioso nel 2019 (i nuovi ricorsi presentati innanzi al tar sono stati più di
50.000 mentre nello stesso anno sono stati definiti circa 66.000 giudizi contribuendo a ridurre
l’arretrato; per quanto riguarda il Consiglio di Stato i ricorsi presentati sono stati più di 10.000
mentre sono stati definiti circa 12.000 giudizi) dimostrano che il g.a. nel suo complesso svolge un
ruolo significativo nell’amministrare la giustizia nei rapporti tra cittadini o le imprese nelle
controversie contro la pa, e dimostrano inoltre che la percentuale delle sentenze dei Tar appellate
è molto bassa e le statistiche conferma che le sentenze dei Tar nella maggior parte dei casi
vengono confermate in sede d’appello —> il decentramento della giustizia amministrativa attuata
dalla Costituzione ha fatto si che il livello regionale sia quello che soddisfa quasi sempre in modo
definitivo la domanda di giustizia.
Le parti
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tipologia di elicotteri che possono essere impiegati: un’impresa specializzata in questo tipo di
servizi che ha a disposizione elicotteri di tipo non conforme al bando e che dunque non è in grado
di partecipare, propone ricorso; l’impresa ce glieli ha forniti può proporre ricorso ad adiuvandum.
Per legittimare un intervento non è invece sufficiente allegare di essere parte di un giudizio
parallelo (con diversa causa petendi e petitum) nel quale viene posta la stessa questione giuridica.
Per giurisprudenza consolidata non può proporre un intervento ad adiuvandum il soggetto titolare
di un interesse legittimo autonomo che legittimerebbe la possibilità di proporre un ricorso
autonomo perché ciò potrebbe costituire un modo per eludere il termine perentorio di 60 gg.
L’intervento in giudizio può essere anche disposto dal giudice d’ufficio ove ritenga opportuno e
necessario che il processo si svolga nei confronti dei terzi.
I FILTRI PROCESSUALI
La legittimazione a ricorrere
(capacità di esser parte, legittimazione e interesse ad agire) —> l’elemento unificante consiste in
ciò che la loro assenza determina ossia un vizio del processo da accertarsi con una sentenza di
rito anziché di merito.
Peraltro il sistema processuale è ispirato a un principio generale che vede la sentenza di merito
come conclusione per così dire naturale del processo da favorire per quanto possibile e a questo
fine predispone tutta una serie di strumenti diretti a depurare il processo da eventuali vizi formali o
extraformali (ad es si è gia fatto cenno alla regola secondo la quale l’errore sulla giurisdizione può
essere sanato attraverso la traslatio iudici o per quanto riguarda la competenza al meccanismo
per consentire la prosecuzione del giudizio davanti al giudice competente; si pensi anche alla
regola applicabile anche al processo amministrativo secondo la quale la nullità per inosservanza
di forme di un atto processuale non può essere pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo).
Occorre soffermarsi sulla legittimazione e l’interesse ad agire muovendo sempre dalle coordinate
della teoria generale del processo. Entrambi devono essere accertati dal giudice prima dell’esame
del merito della controversia e attengono alla titolarità del diritto di azione in senso formale e
astratto (legittimazione a ricorrere) e in senso concreto (interesse a ricorrere).
La legittimazione ad agire ordinaria trova un fondamento nell’art 81 cpc secondo il quale
“nessuno può far valere nel processo in nome proprio un interesse altrui’ e ciò fuori dai casi
tassativamente indicati dalla legge”: la disposizione richiede la normale correlazione tra titolarità
del diritto sostanziale e titolarità del diritto d’azione e mira a garantire il titolare di una situazione
sostanziale protetta dalle ingerenze altrui.
All’interesse ad agire è dedicato l’art 100 cpc che stabilisce che “per proporre una domanda o
per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse”: l’interesse ad agire tende a evitare che
possano essere proposte domande giudiziali quando il loro accoglimento non produce alcun effetto
utile nella sfera giuridica di chi le ha proposte. L’interesse ad agire “deve essere concreto eattuale
e non solo teorico e generico” perché non è consentito al giudice di risolvere questioni “puramente
astratte o accademiche”: risponde a finalità di economia processuale.
L’interesse ad agire va distinto dalla legittimazione ad agire: la legittimazione ad agire attiene alla
relazione del soggetto con il diritto sostanziale dedotto in giudizio; l’interesse ad agire indica una
situazione di fatto in cui versa il diritto e l’accertamento della prima è logicamente antecedente
all’accertamento dl secondo.
L’interesse ad agire va tenuto distinto anche dalla situazione giuridica sostanziale fatta valere nel
giudizio in quanto attiene più correttamente al merito della controversia l’accertamento della
lesione della situazione giuridica dedotta in giudizio.
La verifica da parte del giudice della legittimazione ad agire e dell’interesse ad agire va effettuata
in astratto cioè sulla base di quanto affermato dalla parte che propone il giudizio nella sua
domanda.
La legittimazione ad agire e l’interesse ad agire devono sussistere al momento della presentazione
della domanda e devono permanere per tutta la durata del giudizio.
Un cenno va dedicato al diritto europeo: in base all’art 263 TFUE sono impugnabili gli atti
destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi e qualsiasi persona fisica o giuridica può
proporre un ricorso contro gli atti adottati nei suoi confronti o che la riguardano direttamente o
individualmente. Il criterio del destinatario diretto dell’atto è di applicazione univoca mentre
presenta qualche incertezza quello dei soggetti diversi dai destinatari della decisone: questi ultimi
secondo giurisprudenza costante sono legittimati a proporre il ricorso solo se l’atto “li concerne a
causa di determinate qualità loro personali o di situazione di fatto che li caratterizzi rispetto a
chiunque altro e quindi li distingua in modo analogo ai destinatari”.
L’approccio della giurisprudenza europea è di tipo empirico e tendenzialmente restrittivo in
quanto richiede la dimostrazione da parte del ricorrente che l’atto incide nella sua sfera giuridica
come un atto diretto nei suoi confronti.
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L’interesse a ricorrere
L’interesse a ricorrere ha una rilevanza pratica notevole nel processo amministrativo e ha dato
origine a un’ampia casistica giurisprudenziale con riguardo soprattutto alla giurisdizione generale
di legittimità e dunque all’azione di annullamento dei provvedimenti illegittimi.Nel processo civile
al contrario in particolare per quanto riguarda le azioni costitutive l’interesse ad agire sussiste
sempre visto che la valutazione relativa all’interesse è stata già fatta dal legislatore allorché ha
ammesso la singola azione costitutiva.
Dal punto di vista sistematico l’interesse a ricorrere conferma la concezione soggettiva della tutela
propria anche del processo amministrativo: nel caso della giurisdizione generale di legittimità una
sentenza di merito che accerti l’illegittimità del provvedimento impugnato può essere emanata
solo se da essa il ricorrente ricava un’utilità concreta non rilevando pertanto l’interesse generale al
ripristino della legalità violata.
L’interesse a ricorrere risponde a ragioni di economia processuale ed è utilizzato dalla
giurisprudenza come “filtro processuale” ma non come fattore che giustifica in positivo l’azione
bensì come fattore la cui mancanza preclude la pronuncia sul merito del ricorso in una logica
prevalentemente negativa.
Il codice non contiene una disposizione analoga all’art 100 del cpc che si applica in virtù del rinvio
esterno di cui all’art 39; peraltro alcune disposizioni specifiche fanno riferimento a questa nozione.
In particolare l’art 35 prevede che il giudice dichiara anche d’ufficio il ricorso inammissibile
quando è carente l’interesse oppure improcedibile quando nel corso del giudizio sopravviene il
difetto di interesse delle parti alla decisione. Queste disposizioni chiariscono che l’interesse a
ricorrere deve sussistere al momento in cui viene proposto il ricorso e deve perdurare fino alla
sentenza
Inoltre l’art 34.3 prevede in termini generali l’ipotesi che nel corso del giudizio l’annullamento del
provvedimento “non risulta più utile per il ricorrente” enucleando implicitamente il concetto di
utilità concreta della sentenza. Peraltro se ciò accade il giudice deve accertare comunque
l’illegittimità dell’atto se sussiste interesse ai fini risarcitori.
Nell’ambito del processo amministrativo l’interesse a ricorrere viene generalmente definito anche
dalla giurisprudenza amministrativa alla stregue dell’art 100 cpc come “la prospettazione di una
lesione concreta e attuale della sfera giuridica del ricorrente, nonché l’effettiva utilità che potrebbe
derivare al ricorrente dall’annullamento dell’atto impugnato”.
La sussistenza dell’interesse a ricorrere richiede una valutazione che la lesione cosi come
affermata abbia il carattere dell’attualità e della concretezza: manca questo carattere ad es
51
quando il provvedimento impugnato non è ancora efficace o quando la lesione si può produrre solo
in seguito all’emanazione di ulteriori atti o avvenimenti futuri.
Inoltre il beneficio o utilità attende dalla sentenza favorevole devono riferirsi direttamente al
ricorrente (personalità) e devono essere effettivi (concretezza).
La verifica di tale interesse va operata sulla base degli elementi desumibili dal ricorso introduttivo
del giudizio, dalle domande in esso formulate e dai motivi dedotti.
Tale verifica prescinde dall’accertamento della sussistenza effettiva della situazione giuridica
dedotta in giudizio e della lesione che il ricorrente afferma di aver subito ad opera di un
provvedimento illegittimo, questioni che entrambe attengono al merito.
In definitiva va verificato che la situazione giuridica soggettiva affermata possa avere subito una
lesione e non che abbia subito una lesione.
Nel caso dei regolamenti e degli atti amministrativi generali illegittimi l’interesse al ricorso di
regola sorge solo nel momento in cui viene emanato un atto applicativo che rende concreta e
attuale la lesione —> il ricorrente può rinviare l’impugnazione del regolamento o dell’atto generale
al momento in cui propone ricorso contro questi ultimi. Così per esempio un regolamento comunale
che individua le tipologie di concessioni da assoggettare a pagamento di un canone e ne definisce
i presupposti e i criteri di quantificazione non è immediatamente lesivo della sfera giuridica di tali
imprese fin tanto che non vengono emanati atti applicativi nei loro confronti che radicano
l’interesse a ricorrere. Questo principio vale non solo quando gli atti applicativi abbiano natura
discrezionale ma anche allorché contenga previsioni attributive di poteri di natura vincolata. In
materia di procedure per l’aggiudicazione di contratti di lavori, beni o servizi l’impresa che
presenta domanda di partecipazione può contestare le clausole del bando ritenute illegittime solo
nel momento in cui la stazione appaltante le applica in concreto escludendola dalla procedura
poiché solo in questo momento la lesione diviene attuale: le clausole del bando devono essere
impugnate immediatamente se prescrivano il possesso di requisiti di ammissione o di
partecipazione alla gara la cui carenza determina immediatamente l’effetto escludente
configurandosi il successivo atto di esclusione come meramente dichiarativo e ricognitivo di una
lesione già prodotta. L’impugnazione del regolamento o dell’atto generale è peraltro necessaria
una volta che viene adottato l’atto applicativo atteso che se fosse impugnato solo quest’ultimo il
ricorso sarebbe inammissibile per mancata impugnazione dell’atto presupposto dalla cui
illegittimità discenda in via derivata l’illegittimità dell’atto applicativo. È necessaria anche
l’impugnazione dell’atto applicativo nei casi in cui sia stata proposta impugnazione immediata del
regolamento o dell’atto generale perché in mancanza verrebbe meno l’interesse al loro
annullamento.
Per quanto riguarda la concretezza dell’utilità o del beneficio derivante dall’accoglimento del
ricorso in molte fattispecie rileva la cd prova di resistenza. Così per esempio in materia di
procedure per l’aggiudicazione di contratti alla pa l’interesse a ricorrere assume il carattere della
concretezza solo se l’impresa risultata seconda in graduatoria lamenti un’attribuzione errata dei
punteggi e dia una dimostrazione a priori, che se le operazioni si fossero svolte correttamente la
ricorrente sarebbe risultata con certezza aggiudicataria.
L’utilità o il beneficio atteso possono consistere anche in un interesse morale (ad es un ricercatore
che impugna la graduatoria di un concorso a professore universitario di ruolo che nelle more del
giudizio viene collocato in quiescenza e che dunque non potrebbe conseguire il titolo).
LE AZIONI
Evoluzione storica
L’annullamento dell’atto illegittimo costituì un rimedio efficace nei casi nei quali l’amministrazione
aveva il potere di sacrificare o di incidere negativamente sulla posizione giuridica soggettiva del
privato titolare di un interesse legittimo oppositivo, ripristinando a favore del privato la situazione
precedente all’emanazione dell’atto amministrativo ed eliminava la lesione subita.
Peraltro il rimedio si rivelò carente in altri tipi di situazioni ossia negli interessi pretensivi. Si pensi
al caso in cui il privato chiedeva all’amministrazione il rilascio di una autorizzazione o di una
licenza per poter avviare un’attività e l’amministrazione rigettava la domanda: il privato poteva
certamente impugnare il provvedimento di diniego ma il g.a. poteva solo verificare se il motivo del
diniego era legittimo o illegittimo e in questo secondo caso annullare l’atto negativo. Il giudice non
poteva stabilire direttamente se l’amministrazione fosse tenuta a emanare l’atto amministrativo
richiesto: dopo l’annullamento dell’atto di diniego l’amministrazione doveva operare una nuova
valutazione della domanda proposta dal privato e all’esito di queste poteva ben accadere che
l’amministrazione confermasse il diniego dell’atto richiesto per un motivo diverso da quello posto
alla base del primo diniego annullato. A questo punto si apriva la strada per un nuovo ricorso
innescando un circolo vizioso potenzialmente senza fine
Ancora più critico era il caso nel quale di fronte a una domanda di autorizzazione o di una licenza
l’amministrazione restava inerte cioè non prendeva alcuna decisione esplicita ne positiva ne
negativa: contro il silenzio della pa il ricorso per annullamento non era configurabile in quanto il
giudice non si trovava di fronte a un atto da annullare ma a un mero comportamento omissivo. Ciò
determinava un paradosso: da un lato nel caso meno grave di un provvedimento di rigetto
dell’istanza del privato, nel quale almeno l’amministrazione l’aveva esaminata e respinta, il privato
poteva ricorrere al giudice amministrativo al fine di ottenere annullamento del provvedimento di
diniego; dall’altro, nel caso più grave di inerzia totale che poteva essere dovuta alla negligenza
dell’amministrazione o alla volontà di non assumere il rischio di una decisione il privato era privo
di ogni tutela.
Per risolvere questo problema di diniego di giustizia il Consiglio di Stato fin dai primi anni del
secolo scorso fece ricorso a un artificio interpretativo: qualificò il silenzio mantenuto
dall’amministrazione oltre un certo tempo di fronte all’istanza di un privato come un atto tacito di
diniego del provvedimento, e contro questa finzione di atto ritenne pertanto proponibile il ricorso
per annullamento.
Il privato peraltro prima di poter adire il giudice doveva notificare all’amministrazione una diffida
assegnandole un termine congruo entro il quale rispondere all’istanza; decorso il termine senza
che l’amministrazione avesse emanato un atto positivo o negativo il silenzio poteva essere
impugnato come atto tacito di diniego. Ma anche la sentenza di annullamento lasciava
insoddisfatta la pretesa a ottenere il provvedimento favorevole richiesto.
Alla fine degli anni Settanta del secolo scorso il Consiglio di Stato ritenne che di fronte al silenzio
dell’amministrazione il privato potesse proporre un’azione di accertamento volto a far dichiarare
illegittimo il comportamento inerte mantenuto sull’istanza presentata del privato e addirittura
condannare l’amministrazione a provvedere in modo espresso sull’istanza. In alcune sentenze
(rimaste isolate) il Consiglio di Stato si spinse fino al punto di stabilire che il giudice amministrativo
avesse anche il potere di condannare l’amministrazione a emanare l’atto richiesto ove
quest’ultimo non avete natura discrezionale.
Il Consiglio di Stato operò così un primo passo verso l’introduzione nel processo amministrativo
di un’azione di accertamento e di un’azione di condanna di tipo pubblicistico all’adozione di un
provvedimento oggi disciplinate dal cpa che disciplina l’azione di adempimento.
L’azione di condanna fece ingresso nel processo amministrativo in connessione con un’altra
vicenda ossia l’introduzione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo che
comportava la possibilità per il giudice di conoscere in alcune materie anche di diritti soggettivi.
La dottrina si pose la questione se per evitare una compressione ingiustificata della tutela dei
diritti soggettivi il giudice potesse emanare anche sentenze diverse dall’annullamento dei
provvedimenti. L’esigenza era quella di consentire la condanna dell’amministrazione al pagamento
di somme dovute.
Solo in seguito all’istituzione dei Tar fu prevista esplicitamente la possibilità di chiedere al giudice
amministrativo una condanna di tipo sostanzialmente privatistico.
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Le azioni di condanna a un facere specifico e di accertamento furono tipizzate per legge solo in
fattispecie particolari.
Così in tema di diritto di accesso ai documenti amministrativi secondo l’art 25 l 241/1990 il giudice
“sussistendone i presupposti ordina l’esibizione dei documenti richiesti” e dunque condanna a un
facere specifico.
Per l’azione di condanna al risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi si dovette
attendere la svolta della Corte di cassazione (500/1999). Allo scopo di superare i contrasti
giurisprudenziali sulla giurisdizione e sulle modalità di proposizione dell’azione risarcitoria l’art 7 l
205/2000 attribuì al giudice amministrativo il potere di condannare l’amministrazione al
pagamento dei danni provocati dall’atto illegittimo.
Quanto all’azione di adempimento prima del codice solo qualche isolata pronuncia dei giudici di
primo grado aveva provato ad ammetterla.
In conclusione alla vigilia del Codice il quadro delle azioni esperibili nel processo amministrativo si
presentava frastagliato e richiedeva una razionalizzazione complessiva.
Il Codice dedica alcuni articoli alle azioni esperibili nel processo di cognizione.
Le azioni assumono una posizione di centralità nella struttura del Codice segnando un
cambiamento netto di prospettiva rispetto all’approccio tradizionale.
Infatti, il sistema normativo previgente aveva come punto focale i poteri del giudice partendo dai
quali l’interprete ricostruiva a ritroso le azioni ammissibili nel processo amministrativo e prima
ancora le situazioni giuridiche soggettive. Questa sorta di inversione è ormai superata dal Codice
anche sotto il profilo espositivo perché la disciplina delle azioni è autonoma e precede le
disposizioni relative al contenuto delle sentenze.
Fin dall’inizio l’intenzione del legislatore codificante era peraltro quella di improntare il sistema
delle azioni al principio della completezza dei mezzi di tutela e della strumentalità delle azioni
rispetto ai bisogni di tutela correlati alle situazioni giuridiche.
Su questi presupposti, la commissione istituita presso il Consiglio di Stato per la predisposizione di
una bozza di articolato ipotizzò una disciplina esaustiva prevedendo le seguenti azioni: azione di
accertamento dell’esistenza o inesistenza di un rapporto giuridico contestato e di accertamento
della nullità di un provvedimento; l’azione avverso il silenzio; l’azione di annullamento; l’azione di
condanna al pagamento di somme di denaro e di risarcimento del danno; l’azione di adempimento
cioè di condanna della pa all’emanazione del provvedimento richiesto e negato; le azioni
esecutive; l’azione cautelare.
In sede di approvazione del Codice la disciplina delle azioni venne rivista per ragioni ma venne
mantenuta l’unitarietà della disciplina delle azioni, senza separare quelle esperibili nell’ambito
della giurisdizione generale di legittimità e nell’ambito della giurisdizione esclusiva.
Il Capo II “Azioni di cognizione” inserito nel Titolo III “Azioni e domande” individua le seguenti
azioni esperibili nel processo di cognizione:
a) Azione di annullamento che in linea con la tradizione del processo amministrativo è collocata
simbolicamente al primo posto (art 29);
b) Azioni di condanna, avente natura sostanzialmente atipica che razionalizza soprattutto
l’evoluzione subita in seguito all’affermarsi del principio della risarcibilità del danno da lesione di
interesse legittimo (art 30);
c) Azioni avverso il silenzio e per la declaratoria delle nullità (art 31)
L’azione cautelare e l’azione di ottemperanza sono regolate a parte.
Nel processo civile si è da tempo superato il sistema rigido di rimedi e azioni tipiche.
La questione della tipicità o atipicità delle azioni si era posta in dottrina anche per il processo
amministrativo prima dell’emanazione del codice. La giurisprudenza si era orientata da ultimo nel
riconoscere sulla scorta del processo civile il principio della atipicità ammettendo in particolare
l’azione di accertamento. Questa impostazione è stata confermata dalla giurisprudenza dopo
l’emanazione del Codice proprio allo scopo di colmare la lacuna dovuta alla mancata previsione
esplicita di un’azione generale di accertamento, in aggiunta al caso tipizzato dell’azione di nullità.
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Il principio di atipicità delle azioni è stato esteso di recente non solo alla tipologia delle azioni ma
anche al contenuto delle medesime nel senso di ritenere in particolare che la sentenza che
accoglie l’azione di accertamento possa graduare sotto il profilo temporale l’effetto di
annullamento derogando al principio della retroattività.
In definitiva la disciplina del Codice in tema di azioni non introduce un principio di tassatività che
la stessa giurisprudenza ha ritenuto di dubbia costituzionalità.
In materia di azioni, il Codice pone il principio del cumulo delle domande all’interno di un unico
ricorso e il principio della conversione delle azioni.
Quanto al cumulo delle domande in alcuni casi è richiesto espressamente dal Codice (in
particolare per quanto riguarda l’azione di adempimento che può essere proposta solo insieme a
altra azione) o è comunque incentivato. Nel caso in cui le azioni sono sottoposte a riti diversi si
applica in linea di principio il rito ordinario (art 31.1).
Quanto alla conversione delle azioni, innanzitutto spetta al giudice qualificare l’azione proposta
in base ai suoi elementi sostanziali (art 31.2). Questa regola è espressione del principio iura novità
curia secondo cui spetta al giudice individuare le norme di diritto. Il giudice amministrativo al pari
di quello civile può interpretare e qualificare la domanda senza essere condizionato dalla formula
adottata dalla parte. Il giudice può anche riqualificare la domanda cioè “sussistendone i
presupposti può sempre disporre la conversione delle azioni” (art 32.2)
Questo principio persegue anche la finalità di garantire la ragionevole durata del processo evitando
così che il ricorrente debba sobbarcarsi l’onere di instaurare un nuovo giudizio.
L’azione di annullamento
L’azione di annullamento rientra nel genere delle azioni costitutive ed è esperibile nelle ipotesi di
violazione di legge, incompetenza e eccesso di potere entro un termine decadenziale di 60 gg (art
29).
La sua centralità nel sistema delle azioni emerge sotto più profili.
In primo luogo l’azione di annullamento costituisce la modalità principale per sottoporre al
giudice amministrativo la legittimità di un provvedimento amministrativo —> l’art 34 co 2
stabilisce espressamente che “il giudice non può conoscere della legittimità degli atti che il
ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l’azione di annullamento”.
Un’eccezione è l’azione risarcitoria autonoma o pura che può essere esperita senza la proposizione
contestuale dell’azione di annullamento (art 30.3) ma è soggetta a regole tali da disincentivarla.
A differenza del giudice civile il giudice amministrativo non può accertare in via incidentale la
legittimità di un provvedimento ai fini della disapplicazione.
Un’eccezione è peraltro la disapplicazione dei regolamenti nel caso in cui contrastino con norme
di rango sovraordinato: secondo la giurisprudenza essi possono essere disapplicati dal giudice
amministrativo; infatti oltre a essere atti formalmente amministrativi, sono fonti del diritto e
pertanto nel contrasto tra norma regolamentare e norma legislativa in base al principio di
gerarchia delle fonti deve disapplicare la prima.
In secondo luogo l’azione di adempimento deve essere proposta, nel caso in cui l’amministrazione
emani un provvedimento di diniego, unitamente all’azione di annullamento indispensabile per
accertare l’illegittimità e rimuovere quest’ultimo.
In terzo luogo il giudice amministrativo non può pronunciarsi in via preventiva con un’azione di
accertamento su poteri non ancora esercitati e questo implica che una volta esercitato il potere
con l’emanazione di un provvedimento, quest’ultimo può essere contestato soltanto proponendo
un’azione di annullamento.
Infine poiché nella sistematica del diritto amministrativo la nullità del provvedimento costituisce
un’eccezione alla regola dell’annullabilità anche l’azione di nullità nel processo amministrativo ha
un ruolo marginale.
In realtà la centralità dell’azione di annullamento nel processo amministrativo deriva dal fatto che
la giurisdizione amministrativa ha per oggetto le manifestazioni immediate e mediate del potere
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L’azione di annullamento può essere peraltro proposta oltre che nei confronti di provvedimenti
anche in relazione agli accordi sostitutivi del provvedimento e al silenzio assenso.
I primi costituiscono infatti solo una modalità alternativa di esercizio del potere e di produzione
degli effetti rispetto all’emanazione di un provvedimento: sono dunque suscettibili di
contestazione non tanto da parte del soggetto privato che ha concluso l’accordo sostitutivo del
provvedimento ma da soggetti terzi incisi negativamente nella propria sfera giuridica, legittimati a
proporre un’azione di annullamento.
Il silenzio-assenso costituisce una modalità alternativa con funzione acceleratoria nella produzione
degli effetti di un provvedimento espresso non emanato nel termine previsto e anchein questo
caso il terzo leso da tali effetti può attivare lo stesso rimedio impugnatorio che avrebbepotuto
esperire nei confronti del provvedimento espresso.
L’azione di annullamento non può essere esperita con riguardo all’altro strumento acceleratorio
della SCIA in relazione al quale la giurisprudenza aveva ritenuto esperibile da parte del terzo
un’azione di accertamento della mancanza delle condizioni previste dalla legge per lo svolgimento
di tale attività. Oggi la tutela del terzo è affidata all’azione avverso il silenzio
Qualche considerazione può essere svolta in relazione ai vizi deducibili con l’azione di
annullamento e al termine di 60 gg per la proposizione del ricorso.
I vizi deducibili sono gli stessi vizi di incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge ai
quali fa riferimento l’art 21-octies della 241/1990. Il secondo comma della disposizione ha ridotto
la rilevanza dei vizi formali dequotandoli a mere irregolarità che non possono essere fatte valere
innanzi al giudice amministrativo, qualora, per la natura vincolata del provvedimento sia palese
che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato; nel caso più particolare in cui il vizio consiste nell’omessa comunicazione di avvio del
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L’azione di condanna
L’azione di condanna, esperibile nel processo amministrativo a tutela degli interessi legittimi e dei
diritti soggettivi, è disciplinata in modo unitario nel Codice (art 30).
L’art 30.1 usa l’espressione generica di “azione di condanna” senza una tipizzazione dei contenuti
La stessa relazione governativa di accompagnamento al codice contiene un riferimento alla
atipicità dell’azione di condanna.
L’art 34.1 lett c) conferma questa impostazione individuando come contenuto della sentenza di
condanna oltre al pagamento di una somma di denaro anche a titolo di risarcimento e al rilascio di
un provvedimento richiesto in relazione all’azione di adempimento, “l’adozione delle misure
idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio”.
L’art 30.1 si riferisce dunque sia a prestazioni dovute nell’ambito di rapporti obbligatori sia a
pretese risarcitorie —> include sia l’azione di condanna privatistica correlata a diritti soggettivi sia
la cd. azione di condanna pubblicistica correlata a interessi legittimi.
L’azione di condanna privatistica esperibile in relazione ai diritti soggettivi nell’ambito della
giurisdizione esclusiva può essere proposta alle stesse condizioni e limiti previsti per la tutela
innanzi al giudice ordinario. Pertanto può essere proposta in via autonoma entro i termini ordinari
di prescrizione.
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La condanna può avere per oggetto non solo una somma di denaro ma tenuto conto dell’ampia
formulazione dell’art 30.1 anche altre prestazioni (ad es restituzione di un bene illegittimamente
espropriato).
Nei casi di giurisdizione esclusiva, l’azione di condanna al risarcimento del danno da lesione di
diritti soggettivi l’azione può essere proposta esclusivamente innanzi al giudice amministrativo e
può essere richiesto anche il risarcimento del danno in forma specifica.
L’azione di condanna può essere anche promossa dalla pa nei confronti di un concessionario di
un servizio pubblico che non corrisponde il canone dovuto.
L’azione di condanna pubblicistica correlata a interessi legittimi può essere esperita sia per
ottenere il rilascio di un provvedimento favorevole (azione di adempimento) sia il risarcimento del
danno in forma generica e specifica che come ha ritenuto la Corte costituzionale nella sentenza
204/2004 costituisce non già un diritto soggettivo autonomo ma una tecnica di tutela dell’interesse
legittimo (art 30.2).
Iniziando dall’azione risarcitoria di essa conosce esclusivamente il giudice amministrativo senza
alcuno spazio residuo per il giudice ordinario, che prima del codice aveva affermato la propria
giurisdizione anche in materia di risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi.
Il Codice ha risolto in modo definitivo il contrasto giurisprudenziale insorto tra giudice ordinario e
giudice amministrativo all’indomani della sentenza 500/1999 sui rapporti tra azione di
annullamento e azione di risarcimento. Da un lato la Corte di cassazione riteneva che il privato
fosse pienamente libero di scegliere se proporre l’azione di risarcimento in modo autonomo o in
connessione con l’azione di annullamento. Dall’altro il giudice amministrativo negava questa
possibilità di scelta affermando che stesse essere proposta l’azione di risarcimento solo se fosse
stata tempestivamente proposta l’azione di annullamento (la cd pregiudizialità amministrativa).
La tesi della pregiudizialità amministrativa che assegnava una priorità alla tutela specifica rispetto
a quella per equivalente rispondeva all’esigenza di limitare gli esborsi a carico dello Stato visto
che la tutela specifica non comporta oneri finanziari. Essa era anche più conforme alla visione
tradizionale dell’interesse legittimo come situazione giuridica strettamente legata e in qualche
misura servente rispetto all’interesse pubblico tanto da giustificare la regola che impone al
ricorrente di impugnare l’atto illegittimo anche nei casi in cui tale forma di tutela non soddisfa il
suo interesse effettivo.
Il Codice non accoglie il principio della pregiudizialità amministrativa. Ammette infatti l’azione
risarcitoria pura, ma le assegna comunque una funzione ancillare e complementare rispetto
all’azione di annullamento.
L’azione risarcitoria può esse proposta con due modalità: contestualmente a altra azione, o “anche
in via autonoma” (art 30.1).
a) Azione risarcitoria proposta unitamente ad altra azione —> questa modalità si riferisce
innanzitutto all’ipotesi nella quale è proposta unitamente all’azione di annullamento: in questo
caso l’azione risarcitoria ha la funzione di completare la tutela di annullamento che elide l’atto e i
suoi effetti con efficacia retroattiva ma può lasciare non reintegrato in modo completo l’interesse
legittimo leso (ad es l’annullamento di un provvedimento di esproprio che ripristina con effetto
retroattivo in capo all’avente diritto la proprietà, lascia scoperto il danno discendente dal mancato
godimento del bene espropriato nel periodo intercorrente tra l’apprensione del bene da parte
dell’amministrazione e la restituzione).
La prima modalità si riferisce anche all’azione avverso il silenzio e all’azione di adempimento
collegate a un interesse legittimo preventivo: anche in questo caso l’azione risarcitoria interviene
per reintegrare in modo completo l’interesse legittimo leso (ad es il rilascio tardivo di
un’autorizzazione in seguito all’accoglimento di queste due azioni lascia scoperto il danno
dipendente dal mancato svolgimento dell’attività nel periodo intercorrente dalla scadenza del
termine ex art 2 della legge 241/1990 per la conclusione del procedimento autorizzatorio e la data
dell’effettivo rilascio).
In definitiva il carattere complementare dell’azione di risarcimento emerge per il fatto che il danno
risarcibile è solo quello che non può essere ristorato attraverso l’altra azione proposta
contestualmente.
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Da un punto di vista procedurale l’azione risarcitoria se non è già inclusa nel ricorso introduttivo
del giudizio che propone l’azione principale può essere formulata nel corso del giudizio o anche
successivamente al passaggio in giudicato (entro 120 gg).
La contestualità non va intesa come coincidenza temporale della proposizione delle due azioni
essendo ammessa la loro proposizione in sequenza —> può essere ragionevole esperire l’azione
risarcitoria in un momento successivo quando magari risulta più chiaro in base agli elementi emersi
nel giudizio relativo all’azione principale se sussistono i presupposti per il suo accoglimento.
b) Azione risarcitoria “pura” —> l’azione di risarcimento proposta in modo autonomo è
sottoposta ad alcune regole che la disincentivano e che anzi secondo alcuni commentatori
introducono una sorta di “pregiudizialità mascherata”.
In primo luogo l’azione deve essere proposta entro un termine di 120 gg dal fatto o dalla
conoscenza del provvedimento che ha determinato il danno (art 30.3): si tratta di un termine assai
breve visto che in ambito civile l’azione per danni può essere proposta entro il termine
quinquennale di prescrizione.
Inoltre il termine di 120 giorni coincide con quello per la proposizione del ricorso straordinario al
Presidente della Repubblica volto all’annullamento del provvedimento impugnato: il termine che
rende inoppugnabile il provvedimento amministrativo coincide con quello previsto per l’azione
risarcitoria.
La Corte costituzionale ha ritenuto non irragionevole il termine breve tenuto conto dell’esigenza di
bilanciare l’interesse del danneggiato con l’interesse pubblico alla certezza del rapporto giuridico
amministrativo e a quello di consolidare i bilanci delle pa. Inoltre, quanto alla possibile violazione
del principio di uguaglianza, secondo la Corte, sebbene la tutela degli interessi legittimi davanti al
giudice amministrativo deve essere piena, anche sotto il profilo risarcitorio, ciò non fa scaturire
come inevitabile corollario che detta tutela debba essere del tutto analoga all’azione risarcitoria
del danno da lesione di diritti soggettivi proprio perché le due situazioni giuridiche soggettive sono
differenti.
La seconda regola disincentivante è che in sede di determinazione dell’ammontare del
risarcimento il giudice amministrativo deve escludere i danni “che si sarebbero potuti evitare
usando l’ordinaria diligenza anche attraverso l’esperimento dei mezzi di tutela previsti”. Questa
disposizione, che richiama implicitamente l’art 1227.2 cc, è stata interpretata dalla giurisprudenza nel
senso che si riferisce anche alla mancata proposizione dell’azione di annullamento dell’atto
illegittimo. La mancata richiesta di tutela specifica, sotto forma di azione di annullamento unita
anche alla richiesta di misure cautelari che in molti casi è in grado di evitare in tutto o in parte il
danno, costituisce una violazione dell’obbligo di cooperazione.
La giurisprudenza europea ha enunciato un principio analogo. Va considerato inoltre che proporre
l’azione di annullamento unitamente all’istanza cautelare non comporta costi e impegno superiori
a quelli connessi all’azione di risarcimento.
Questa interpretazione giurisprudenziale non sembra in linea con quella prevalente del cc che non
include nell’obbligo di cooperazione gravante sul creditore attività tali da comportare sacrifici,
esborsi o assunzione di rischi quale può essere l’esperimento di un’azione giudiziaria che
rappresenta l’esplicazione di una facoltà dall’esito non certo. Peraltro nel caso del processo
amministrativo il Codice stabilisce espressamente che l’ordinaria diligenza può consistere anche
nell’esperimento dei mezzi di tutela previsti
In realtà sono poco frequenti le situazioni nelle quali il ricorrente non è in grado di proporre
l’azione di annullamento o nelle quali questa non potrebbe portare a risultati utili perché il
provvedimento è già stato eseguito producendo una modificazione di fatto irreversibile.
Si discute se il riferimento contenuto nell’art 30.3 ultimo periodo all’esperimento dei mezzi di
tutela previsti possa includere anche il semplice invito rivolto all’amministrazione a esercitare il
potere di autotutela segnalando i profili di illegittimità dell’atto impugnato. L’articolo proposto dalla
Commissione del Consiglio di Stato che elaborò una bozza di codice era più chiaro su questo punto:
il giudice nel valutare la diligenza doveva tenere conto del comportamento complessivo delle parti
e poteva escludere i danni evitabili attraverso l’esercizio dei mezzi di tutela o l’invito
all’autotutela.
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Sotto il profilo procedurale il ricorso con il quale si propone l’azione di condanna autonoma deve
essere notificato anche agli eventuali beneficiari dell’atto illegittimo (si pensi al caso dell’azione
risarcitoria proposta da un concorrente che si ritenga danneggiato dal rilascio di un’autorizzazione
all’apertura di un esercizio commerciale posto nelle vicinanze).
L’obbligo di notifica può apparire poco giustificato: in base ai principi generali l’azione risarcitoria
autonoma attiene a un rapporto bilaterale tra soggetto danneggiato e amministrazione
danneggiante e non incide direttamente nella sfera giuridica di altri soggetti e in particolare del
destinatario del provvedimento.
La questione di legittimità del provvedimento viene conosciuta dal giudice in via incidentale, quale
presupposto logico dell’illecito ai sensi del 2043 cc, ma un siffatto accertamento può rivelarsi
almeno di riflesso lesivo della posizione giuridica soggettiva del destinatario dell’atto perché
potrebbe indurre l’amministrazione ad annullare d’ufficio il provvedimento.
Pertanto, la veste di litisconsorte necessario fa si che l’accertamento dell’illegittimità faccia stato
anche nei confronti del beneficiario dell’atto: quest’ultimo non potrà più contestare quello profilo
in un eventuale ricorso contro l’annullamento d’ufficio che l’amministrazione potrebbe
discrezionalmente disporre.
Sul piano formale la posizione di litisconsorte necessario è distinta da quella del controinteressato
nel giudizio di impugnazione che invece potrebbe subire una lesione diretta nella propria sfera
giuridica in caso di accoglimento del ricorso.
L’azione può essere finalizzata a ottenere anche il risarcimento in forma specifica (ad es in caso
di una revoca di una patente di guida, annullata per difetto di motivazione con condanna
dell’amministrazione alla consegna del documento).
Peraltro con riguardo agli interessi legittimi pretensivi il risarcimento del danno in forma specifica
non va confuso con la condanna a conseguire il bene della vita in accoglimento dell’azione di
adempimento poiché quest’ultima non presuppone un comportamento da parte
dell’amministrazione qualificabile come illecito ai sensi del 2043 cc.
L’azione risarcitoria non è omologata in tutto e per tutto all’azione di annullamento e dalla
sentenza che l’accoglie: per valutare gli elementi costitutivi dell’illecito il giudice può accertare
anche ipotetici vizi ulteriori del provvedimento a suo tempo annullato. Questo è del resto coerente
con il fatto che il Codice ammette l’azione risarcitoria pura nell’ambito della quale il giudice può
esaminare tutti i profili di illegittimità dedotti prescindendo dal previo accertamento giudiziale dei
vizi del provvedimento, che a quel punto può essere compiuto incidentalmente dal giudice
investito dell’azione risarcitoria.
Sotto il profilo probatorio l’onere della prova degli elementi costitutivi dell’illecito grava sul
ricorrente in particolare per quanto riguarda la prova dell’esistenza del danno subito e della sua
entità ed è comunque ineludibile l’obbligo di allegare circostanze di fatto precise, altrimenti la
domanda risarcitoria va considerata generica e pertanto inammissibile.
Per completezza va ricordato che il Codice prevede un’altra azione di condanna cioè quella
relativa al pagamento delle spese di giudizio: queste sono poste a carico della parte soccombente
salva la possibilità per il giudice di compensarla tra le parti.
L’azione di adempimento
L’azione di condanna pubblicistica o azione di adempimento può essere esperita per ottenere il
rilascio di un provvedimento favorevole (art 34.1 lett c). Costituisce lo strumento principale per
tutelare gli interessi legittimi pretensivi in caso di inerzia della pa o di diniego espresso del
provvedimento richiesto.
L’azione di adempimento deve essere proposta contestualmente all’azione avverso il silenzio o
avverso il provvedimento di diniego. Infatti da un lato l’accertamento dell’illegittimità del
silenzio costituisce il presupposto logico per la condanna dell’amministrazione al rilascio del
provvedimento richiesto che non potrebbe essere ammessa ove fosse accertata l’assenza
dell’obbligo di provvedere. Dall’altro lato, l’impugnazione e il successivo annullamento del
provvedimento di diniego all’esito del giudizio di cognizione costituiscono condizioni necessarie
per l’espletamento dell’azione di adempimento. Se il provvedimento non è impugnato, ammettere
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L’azione avverso il silenzio costituisce lo strumento tradizionale per la tutela degli interessi
legittimi pretensivi in presenza di un comportamento inerte della pa. Prima dell’introduzione
dell’azione di adempimento costituiva anzi l’unica azione disponibile per la tutela di tali interessi.
61
Essa è disciplinata nei suoi presupposti generali dall’art 31 e negli aspetti processuali dall’art 117
che configura un rito speciale. Può essere esperita una volta decorsi i termini per la conclusione
del procedimento e negli altri casi stabiliti dalla legge; il caso principale riguarda la SCIA.
L’azione avverso il silenzio è stata costruita in via essenzialmente giurisprudenziale come azione
di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo di provvedere e di condanna
dell’amministrazione a emanare un provvedimento di conclusione del procedimento.
L’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere va effettuato sulla base dei criteri
generali posti dall’art 2 della legge 241/1990 relativo all’obbligo di procedere e di concludere il
procedimento con un provvedimento espresso. Secondo l’art 2 la pubblica amministrazione è
tenuta a prendere in esame l’istanza del privato e a concludere il procedimento con un
provvedimento espresso di accoglimento o di rigetto dell’istanza entro il termine prestabilito: si
tratta di un obbligo meramente formale volto a garantire il principio della certezza, sotto il profilo
temporale, dell’agire amministrativo. La questione sostanziale della spettanza del bene della vita e
della fondatezza della pretesa e dell’accoglimento o rigetto dell’istanza è una questione che va
risolta in base alla disciplina posta dalle leggi amministrative di settore che individuano i
presupposti dell’esercizio del potere.
Questa distinzione si riflette sul piano processuale nel senso che il giudice prima accerta la
sussistenza e la violazione dell’obbligo meramente formale di provvedere, poi può accertare la
fondatezza della pretesa solo quando si tratti di attività vincolata o quando risulta che non
residuano ulteriori margini di discrezionalità o non sono necessari adempimenti istruttori che
devono essere compiuti dall’amministrazione (art 31.3). In primo luogo la disposizione consente al
giudice di accertare da un lato se il potere da esercitare è qualificabile come un potere vincolato,
operazione che va effettuata in astratto cioè attraverso l’interpretazione della norma attributiva del
potere; dall’altro, tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto e le acquisizioni
processuali, se l’amministrazione in realtà non ha alcun margine di scelta (vincolatezza in
concreto); se si superassero questi limiti il giudice si andrebbe a sostituire indebitamente alla
stessa pubblica amministrazione nelle sue valutazioni discrezionali. In secondo luogo,
l’accertamento della fondatezza della pretesa non può essere effettuato neppure quando sono
necessari adempimenti istruttori che non possano essere disposti dal giudice nella fase di
cognizione. In terzo luogo l’accertamento della fondatezza costituisce una facoltà e non un obbligo
per il giudice (cosa che non sembra in linea col principio della domanda).
In definitiva la sentenza che accoglie l’azione avverso il silenzio può, a seconda dei casi, limitarsi
ad accertare la sussistenza e la violazione dell’obbligo di provvedere (contenuto necessario) o
accertare anche la fondatezza della pretesa (contenuto eventuale). In questo secondo caso il
contenuto di accertamento e dunque la portata precettiva della sentenza risulta più condizionante
per l’amministrazione che, in presenza di un potere qualificato come vincolato e verificata la
sussistenza di tutti i presupposti di fatto non potrà far altro se non emanare il provvedimento
richiesto.
La differenza principale rispetto all’azione di adempimento sta nei poteri del giudice. Questo,
accertata la fondatezza della pretesa non può includere nel dispositivo della sentenza una
condanna diretta dell’amministrazione al rilascio del provvedimento richiesto, ma può soltanto
ordinare all’amministrazione di provvedere entro un termine di regola non superiore a 30 gg
traendo le conseguenze dall’accertamento contenuto nella sentenza. Il giudice può anche
provvedere alla nomina di un commissario ad acta nel caso in cui l’amministrazione non adotti il
provvedimento richiesto.
Peraltro all’atto pratico la differenza tra azione avverso il silenzio e azione di adempimento è in
molti casi minima: tenuto conto che quest’ultima deve essere proposta sempre insieme alla prima
in caso di inerzia dell’amministrazione, la differenza consiste essenzialmente in un “petitum
aggiuntivo” e cioè appunto la richiesta di condannare l’amministrazione all’emanazione del
provvedimento favorevole.
Un cenno finale va dedicato all’azione avverso il silenzio espressamente prevista dalla legge nel
caso della SCIA (art 19.6 ter l 241/1990).
La disposizione prevede che gli interessati, cioè i terzi che intendono contrastare l’avvio
dell’attività da parte del soggetto che ha presentato la SCIA, possano sollecitare l’esercizio delle
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verifiche da parte dell’amministrazione circa l’esistenza dei presupposti e dei requisiti di legge per
l’avvio dell’attività e se del caso l’esercizio del potere di vietare la prosecuzione dell’attività.
Dopo aver effettuato tale sollecito in caso di inerzia può essere esperita “esclusivamente l’azione
contro il silenzio”. L’avverbio “esclusivamente” è stato incluso nella disposizione come risposta
del legislatore a una varietà di soluzioni proposte in sede giurisprudenziale per offrire una tutela
adeguata al terzo in una fattispecie, come la SCIA, nella quale l’avvio della attività non è
subordinato all’emanazione di atti di assenso formali emanati dall’amministrazione che possano
essere impugnati con le modalità ordinarie. Lo stesso comma 6-ter chiarisce che la SCIA, la
denuncia o la dichiarazione di inizio di attività non costituiscono provvedimenti taciti
immediatamente impugnabili.
In giurisprudenza erano state prospettate più interpretazioni. Secondo una prima interpretazione il
terzo era legittimato a proporre un’azione di accertamento atipica volta a far dichiarare l’attività
avviata come non conforme alle norme e di conseguenza indurre l’amministrazione a esercitare i
poteri repressivi e interdittivi cioè il divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli
eventuali effetti dannosi da emanare entro 60 giorni; secondo un’altra interpretazione la mancata
emanazione del provvedimento di divieto di prosecuzione dell’attività nel termine previsto di 60 gg
veniva qualificata come provvedimento tacito impugnabile.
L’azione avverso il silenzio disciplinata dal comma 6-ter è stata oggetto di una pronuncia della
Corte costituzionale (45/2019) che ha ritenuto costituzionalmente legittima la disposizione pur
mettendo in luce alcune imperfezioni del meccanismo complessivo della SCIA. La Corte ha chiarito
che la sollecitazione all’esercizio delle verifiche non costituisce uno strumento efficace inpresenza
del termine perentorio di 60 gg per l’emanazione del provvedimento interdittivo non compatibile
con la durata di un giudizio: la perentorietà del termine ha pertanto una funzione essenziale nella
logica della liberalizzazione delle attività perché una volta che sia decorso la situazione
soggettiva del segnalante si consolida definitivamente nei confronti dell’amministrazione
ormai priva di poteri e quindi anche del terzo; il difetto, secondo la Corte, èche scaduto il termine,
il terzo ha a disposizione rimedi poco efficaci come richiedere all’amministrazione di attivare i
poteri di verifica di eventuali dichiarazioni mendaci o false, sollecitare i poteri generali di vigilanza
e repressivi, far valere la responsabilità per danni a caricodell’amministrazione e dei funzionari
che non hanno agito tempestivamente e del segnalante cheha intrapreso un’attività che potrebbe
essere qualificata civilisticamente come illecita.
La tutela processuale del terzo non appare risolta in modo soddisfacente e la stessa Corte
costituzionale nella sentenza ora citata suggerisce al legislatore quantomeno di introdurre
modalità per rendere possibile al terzo la conoscenza immediata dell’attività che il segnalante
vuole intraprendere e di impedire il decorso del termine in presenza di una sua sollecitazione.
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amministrativa antecedente al codice. In realtà non mancano nel diritto civile ipotesi di azioni di
nullità sottoposte a un termine non così breve (ad es 3 anni per le delibere sociali).
Il termine di 180 gg è giustificato dall’esigenza di assicurare certezza ai rapporti di diritto pubblico
—> il decorso del termine non determina una sorta di sanatoria del provvedimento nullo che
continua a non produrre effetti; la nullità può essere anzi opposta senza limiti di tempo dalla parte
resistente (e dal controinteressato) o rilevata d’ufficio dal giudice.
Peraltro come ha chiarito la giurisprudenza ove il ricorrente abbia proposto l’azione di nullità
senza rispettare il termine di 180 gg la nullità non può essere rilevata d’ufficio perché ciò
renderebbe vana la previsione stessa del termine decadenziale per la deduzione del vizio in via
autonoma da parte del ricorrente.
La rilevazione della nullità in via di eccezione o d’ufficio da parte del giudice ha uno scopo
essenzialmente dimensionale o comunque funzionale all’esame della fondatezza della domanda
giudiziale proposta: ha come scopo non tanto la declaratoria della nullità dell’atto amministrativo
ma la paralisi dell’argomento della parte avversaria comunque fondato sull’atto nullo.
Nel caso in cui venga eccepita la nullità il giudice può valutare se limitarsi ad accogliere
l’eccezione o procedere a una declaratoria formale della nullità “producendo l’effetto della
scomparsa dell’atto amministrativo dal mondo giuridico”.
Se la nullità viene rilevata d’ufficio, il giudice, in base alla regola generale deve avvertire le parti e
darne atto nel verbale.
In materia di contratti pubblici si è posta la questione se contro una clausola escludente di un
bando di gara affetta da nullità sussista un onere per l’impresa di proporre subito il ricorso. La
giurisprudenza ha chiarito che la clausola nulla è inefficace e improduttiva di effetti e si deve
considerare come non apposta a tutti gli effetti di legge, e questo esclude la necessità di proporre
l’azione di nullità nel termine di 180 gg; peraltro il provvedimento di esclusione conserva il suo
carattere autoritativo e va impugnato “per aver fatto illegittima applicazione della clausola
escludente nulla” nel termine ordinato di 30 gg (trattandosi di procedimento di aggiudicazione in
materia di contratti pubblici).
della pretesa che risulti fondata attraverso l’annullamento del provvedimento —> la domanda di
annullamento contiene sempre il quid minus della domanda di mero accertamento dell’illegittimità
Il contenuto di accertamento della sentenza che accoglie l’azione di annullamento concorre a
definire i limiti oggettivi del giudicato e dunque la portata del vincolo in capo all’amministrazione
in sede di nuovo esercizio del potere finalizzato all’emanazione di un provvedimento sostitutivo di
quello annullato.
Nell’ambito dell’azione di annullamento il momento dell’accertamento acquista un’autonomia
piena allorché il giudice applica l’art 34.3 del Codice in base al quale se l’annullamento del
provvedimento non risulta più utile per il ricorrente il giudice “accerta l’illegittimità dell’atto se
sussiste l’interesse ai fini risarcitori”. In questo caso infatti la sentenza ha un contenuto di mero
accertamento che è funzionale non più all’annullamento del provvedimento impugnato ma a una
futura azione risarcitoria. Peraltro secondo la giurisprudenza costante questa conversione
dell’azione di annullamento in un’azione di accertamento propedeutica a un’azione risarcitoria è
possibile solo se la parte abbia formulato la relativa domanda.
Anche con riferimento all’azione avverso il silenzio e all’azione di condanna, la sentenza che
accoglie il ricorso contiene un accertamento.
Nel caso di azione avverso il silenzio l’accertamento ha per oggetto in primo luogo
l’inadempimento dell’obbligo formale di concludere il procedimento con un provvedimento
espresso; in secondo luogo l’eventuale fondamento della pretesa dedotta in giudizio.
Nel caso dell’azione di adempimento l’accertamento riguarda questo secondo aspetto nonché, nel
casso in cui essa è proposta contestualmente a un’azione di annullamento del provvedimento di
diniego, l’accertamento è dell’illegittimità di quest’ultimo.
Nel caso dell’azione di condanna il giudice deve accertare tutti gli elementi costitutivi della
pretesa fatta valere.
In conclusione, la funzione di accertamento esercitata dal giudice amministrativo assume una
rilevanza trasversale nella sistematica delle azioni.
Il ricorso è l’atto col quale si esercita il diritto di azione e si propone la domanda giudiziale.
La legge del 1889 già qualificava come ricorso l’atto introduttivo del giudizio; il processo civile
prevede invece di regola la citazione.
Secondo le ricostruzioni di teoria generale, l’azione proposta si individua sulla base di 3 elementi:
le parti, il titolo della domanda (causa petendi), il contenuto del provvedimento giurisdizionale
richiesto (petitum).
La domanda giudiziale, che concorre a definire l’oggetto del giudizio, si determina in relazione alla
situazione giuridica soggettiva fatta valere in giudizio, alla lesione subita, alla forma di tutela
richiesta.
Nel processo amministrativo le situazioni giuridiche soggettive che possono essere fatte valere
sono gli interessi legittimi e nell’ambito della giurisdizione esclusiva anche i diritti soggettivi. Con
riguardo a questi ultimi la domanda giudiziale si determina secondo i criteri generali che valgono
anche per il processo civile e non vi è motivo per introdurre alcun adattamento, il titolo o causa
pretendi si identifica con il fatto costitutivo del diritto fatto valere in giudizio dall’attore.
Un maggior approfondimento richiedono invece la domanda e l’oggetto del processo con
riferimento agli interessi legittimi.
Tradizionalmente in dottrina viene posta l’alternativa tra giudizio sull’atto e giudizio sul
rapporto.
La prima concezione che è quella più antica è condizionata dal dibattito sui rapporti tra diritto
sostanziale e processo e sulle diverse configurazioni dell’interesse legittimo: in origine l’oggetto
del processo doveva necessariamente ruotare intorno all’atto impugnato, e questo perché si
attribuiva al processo amministrativo una colorazione essenzialmente oggettiva, si negava
addirittura la esistenza di una situazione giuridica sostanziale in capo al soggetto che impugnava
il provvedimento e la si riconduceva tutt’al più alla nozione processuale di interesse a ricorrere. Da
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qui una pluralità di definizioni ormai superate dell’oggetto del processo: interesse della pubblica
amministrazione alla legalità della propria azione, validità o invalidità dell’atto, questione di
legittimità del provvedimento impugnato in relazione ai vizi motivi del ricorso; tra le definizioni
classiche può essere richiamata quella secondo la quale l’oggetto del processo è la verifica
dell’affermazione del ricorrente che esso ha il potere di provocare l’annullamento dell’atto.
Tuttavia man mano che si affermarono le ricostruzioni dell’interesse legittimo come situazione
giuridica sostanziale furono proposte definizioni dell’oggetto del giudizio che facevano riferimento
anche a quest’ultima oltre che al provvedimento impugnato.
Venne avanzata la tesi secondo la quale l’oggetto del processo amministrativo è il rapporto
giuridico amministrativo intercorrente tra soggetto titolare dell’interesse legittimo e pa (giudizio sul
rapporto) —> se ogni sentenza è essenzialmente un “fatto di accertamento”, oggetto del giudizio
non è tanto la situazione giuridica soggettiva fatta valere nel giudizio quanto il rapporto giuridico e
l’utilità o bene della vita del quale è controversa la spettanza.
Questa tesi trovò e trova ancora oggi pochi riscontri nel diritto positivo perché presuppone che
ricorrente e pubblica amministrazione debbano introdurre in via di azione e eccezione tutti gli
elementi di fatto e di diritto che consentono un accertamento pieno e definitivo del modo di essere
del rapporto giuridico amministrativo.
In realtà il Codice non consente la deduzione in giudizio e l’accertamento del rapporto giuridico
amministrativo nella sua integralità specie quando l’amministrazione è titolare di un potere
discrezionale.
Inoltre il Codice devolve alla giurisdizione amministrativa in generale le controversie relative a
interessi legittimi e a diritti soggettivi concernenti “l’esercizio o il mancato esercizio del potere
amministrativo” (art 7 co 1) e specifica che alla giurisdizione generale di legittimità sono attribuite
le controversie “relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni”
Su queste basi l’oggetto del processo amministrativo è stato definito come “il potere
amministrativo o più esattamente la legittimità degli atti e dei comportamenti che ne costituiscono
esercizio, in funzione della tutela dell’interesse legittimo”.
Sembra peraltro ormai giustificata una ricostruzione dell’oggetto del processo più in linea con le
acquisizioni processualcivilistiche: essa deve tener conto da un lato dell’impostazione del Codice
basata sulla sequenza situazioni giuridiche soggettive-bisogni di tutela-azioni-sentenza proiettati
verso la conservazione o all’acquisizione di una utilità o bene della vita; dall’altro della pluralità di
azioni ammissibili nel processo amministrativo, alcune delle quali non presuppongono
l’emanazione di un provvedimento o l’esercizio del potere.
Al di la della varietà delle situazioni giuridiche soggettive e dei mezzi di tutela azionabili la nozione
di oggetto del giudizio dovrebbe mantenere una configurazione unitaria.
Inoltre un’interpretazione corretta dell’art 7.1 del Codice che delimita il perimetro della
giurisdizione amministrativa deve porre l’accento sulla prima parte della disposizione che fa
riferimento alle situazioni giuridiche soggettive rientranti nella giurisdizione amministrativa e che
trovano ingresso nel processo attraverso lo strumento dell’azione più che sulla seconda parte che
fa riferimento all’esercizio o al mancato esercizio del potere; questa seconda parte serve
soprattutto a chiarire in linea con la sentenza della Corte 204/2004 anche anche i diritti soggettivi
per poter essere inclusi nella giurisdizione esclusiva devono inserirsi in contesti nei quali
l’amministrazione è per lo più titolare di poteri, e non a individuare l’oggetto del processo
amministrativo.
All’interno di queste coordinate l’oggetto del giudizio nell’ambito della giurisdizione generale di
legittimità perimetrato anzitutto nella domanda giudiziale può essere definito come
l’affermazione della titolarità di un interesse legittimo volto a conservare o acquisire un
bene della vita che è stato leso da un atto o un comportamento della pa non conformi alla
norma attributiva del potere. La domanda giudiziale deve specificare il petitum, cioè il mezzo di
tutela richiesto. Il baricentro della definizione si sposta dunque dal provvedimento amministrativo
all’interesse legittimo fatto valere in giudizio e al bene della vita a questo collegato.
Il provvedimento impugnato rileva in modo strumentale cioè soltanto ai fini dell’accertamento
della lesione dell’interesse legittimo e l’ingiustizia della lesione dipende dall’illegittimità del
provvedimento impugnato in relazione ai vizi-motivi dedotti nel ricorso. L’annullamento del
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provvedimento illegittimo e l’eventuale risarcimento del danno sono funzionali alla rimozione della
lesione.
Nel caso in cui non sia stato emanato alcun provvedimento, cioè nel caso di azione avverso il
silenzio, l’interesse legittimo pretensivo fatto valere nel giudizio subisce una lesione del
comportamento inerte dell’amministrazione: la rimozione della lesione avviene attraverso
l’accertamento dell’inadempimento dell’obbligo di provvedere e della fondatezza della pretesa; se
è proposta anche l’azione di adempimento il petitum include anche la condanna al rilascio del
provvedimento richiesto.
La causa petendi della domanda si identifica con il fatto costitutivo della situazione giuridica fatta
valere in giudizio dal ricorrente. Nel caso dell’interesse legittimo la causa petendi può essere
desunta da quelle che un tempo venivano definite come le posizioni legittimanti; tra le principali
può essere indicata la titolarità di un diritto soggettivo inciso da un provvedimento restrittivo, la
presentazione di una domanda o istanza volta al rilascio di un provvedimento amministrativo
favorevole, la partecipazione a una procedura concorsuale.
L’oggetto del giudizio è perimetrato anzitutto dal ricorso, integrato dalla eventuale introduzione di
motivi aggiunti (art 43), ma anche l’amministrazione resistente e gli eventuali controinteressati
possono concorre a definirlo ampliando il materiale sottoposto alla cognizione del giudice e dunque
dell’accertamento contenuto nella sentenza attraverso 3 strumenti: l’eccezione, il ricorso
incidentale e la domanda riconvenzionale.
Iniziando dal ricorso, il Codice indica il suo contenuto minimo (art 40). Rilevano soprattutto:
l’indicazione dell’oggetto della domanda, l’esposizione sommaria dei fatti, i motivi di ricorso,
l’indicazione dei provvedimenti richiesti al giudice.
Quanto all’oggetto della domanda essa deve indicare anche l’atto o il provvedimento
eventualmente impugnato; questa specificazione non è necessaria quando il ricorso è proposto
avverso il silenzio dell’amministrazione o viene proposta un’azione risarcitoria autonoma.
Per quanto riguarda l’esposizione dei fatti, essi vengono indicati nel ricorso a fondamento
delle domande e devono essere provati dal ricorrente; l’esposizione di fatti deve essere
“sommaria” senza ridondanze (anche in omaggio al principio della sinteticità degli atti) ma
comunque sufficientemente precisa in modo tale da consentire al giudice di avere una percezione
esatta della controversia e della corrispondenza tra la realtà fattuale cosi come rappresentata nel
ricorso e quella successivamente accertata nella fase istruttoria e posta a base della sentenza.
La narrazione dei fatti può essere più o meno sintetica anche in relazione alla complessità della
vicenda e al numero e alla tipologia delle censure formulate.
I motivi di ricorso consistono, nel contesto del giudizio di impugnazione di provvedimenti, nei
singoli vizi di legittimità (vizi-motivi) rientranti in una delle tipologie dell’incompetenza, della
violazione di legge o dell’eccesso di potere. Ciascun profilo di vizio, pur rientrante in una delle tre
fattispecie tipizzate, costituisce motivo autonomo e ciascuno di essi ove accolto è di per se
sufficiente a determinare l’annullamento del provvedimento impugnato.
I motivi devono essere “specifici”, nel senso che devono essere chiaramente enunciati: motivi
generici sono inammissibili. Inoltre devono essere indicati, sempre a pena di inammissibilità,
“distintamente”; vanno evitati i cd motivi intrusi, cioè inseriti nelle parti del discorso dedicate al
fatto che generano il rischio di sentenze che non esaminano tutti i motivi per la difficoltà di
individuarli in modo chiaro e univoco. Solo nel caso del ricorso “al buio” proposto in attesa di aver
contezza piena del provvedimento impugnato, i vizi-motivi possono essere meno precisi.
Una questione teorica dibattuta è se ciascun motivo di ricorso costituisce una causa petendi
autonoma e dunque un’azione autonoma o se una pluralità di motivi dedotti in funzione di un
unico effetto di annullamento del provvedimento impugnato danno origine a una causa petendi
unitaria e dunque identificano una sola azione.
Nell’interpretazione giurisprudenziale si è affermata la tesi che la domanda fondata su più ragioni
o motivi è unica perché “ciò che conta è l’effetto cassatorio avuto di mira che è unico” e la
questione della unicità o pluralità delle domande proposte dalle parti si determina
esclusivamente in funzione della richiesta di annullamento di uno o più provvedimenti.
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I motivi di ricorso vanno inquadrati nel contesto dei principi della domanda e della corrispondenza
tra chiesto e pronunciato: in base ad essi il giudice amministrativo è obbligato almeno di regola a
scrutinare, in caso di accoglimento del ricorso, tutti i vizi-motivi e le correlate domande di
annullamento. Il giudice non può limitarsi a esaminare un solo motivo e nel caso in cui lo ritenga
fondato annullare lauto dichiarando assorbiti gli altri motivi quando ciò va a pregiudicare il cd.
effetto conformativo della pronuncia. Sempre in base ai principi sopra richiamati il giudice non
può porre alla base della sua decisione profili di illegittimità del provvedimento impugnato non
dedotti nel ricorso, ampliando d’ufficio l’oggetto del giudizio (la sentenza sarebbe viziata da
ultrapetizione); per contro, in conformità alla regola del iura novit curia il giudice può invece
riqualificare i motivi di ricorso sussumendo la fattispecie concreta dedotta in un diverso parametro
normativo dando rilievo al contenuto sostanziale della domanda.
Espressione del principio della domanda è la facoltà riconosciuta al ricorrente di graduare i motivi
enucleati nel ricorso imponendo al giudice l’ordine dei motivi da esaminare e decidere.
Il ricorrente può indicare nel ricorso, il motivo dedotto in via principale e quelli dedotti in via
subordinata e gradata che il giudice può prendere in considerazione solo se ritiene infondato il
motivo dedotto in via principale.
Se dal ricorso non emerge in modo chiaro e univoco la volontà di graduare i motivi spetta al giudice
decidere l’ordine del loro esame.
La graduazione dei motivi da parte del ricorrente avviene generalmente in funzione della maggiore
o minore utilità che egli ritiene di poter trarre dalla pronuncia di accoglimento. Per esempio in
materia di procedimenti di aggiudicazione di contratti pubblici si presentano di frequente casi nei
quali l’impresa seconda classificata propone un motivo di ricorso volto a far escludere la prima
classificata perché per esempio è stata ammessa a presentare l’offerta essendo sprovvista di un
requisito di partecipazione o perché la sua offerta non è conforme alle regole stabilite dal
capitolato di gara: dall’accoglimento di questi motivi deriva per il ricorrente la possibilità di
conseguire il bene della vita cioè l’aggiudicazione del contratto a suo favore, quindi il ricorrente ha
interesse a proporre questi motivi in via principale; un interesse di secondo livello (cd interesse
strumentale) può sussistere nel caso in cui il bando dal quale ha preso avvio la procedura e la
documentazione di gara presentano alcuni vizi oppure la commissione di gara per la valutazione
delle offerte è stata nominata in modo irregolare: l’accoglimento di questi vizi travolgerebbe
l’intera procedura e ciò consentirebbe comunque all’impresa seconda classificata di partecipare a
una nuova procedura recuperando cosi la chance di aggiudicarsi la gara.
Motivi dedotti in via derivata —> Sempre in tema di ordine dei motivi, se il ricorso è rivolto contro
un regolamento, un atto generale o un atto presupposto unitamente all’atto applicativo o
consequenziale i vizi-motivi dedotti contro i primi vanno proposti anche “in via derivata” nei
confronti dei secondi: dall’illegittimità di questi ultimi discende l’illegittimità dei primi che va
accertata in via prioritaria.
L’oggetto della domanda e del giudizio può subire un ampliamento nei casi in cui il ricorrente
proponga i ccdd motivi aggiunti —> il codice in continuità con le regole precedenti prevede che
dopo la proposizione del ricorso il ricorrente può introdurre con motivi aggiunti (art 43) “nuove
ragioni a sostegno delle domande già proposte” e “domande nuove purché connesse con quelle già
proposte”.
I motivi aggiunti possono essere proposti anche scaduto il termine di 60 gg per l’impugnazione in
tutti i casi in cui non sarebbe stato possibile inserirli nel ricorso originario (ad es quando ulteriori
vizi del provvedimento impugnato emergono in seguito all’esercizio del diritto di accesso).
I motivi aggiunti non vanno confusi con i motivi nuovi che si riferiscono a vizi-motivi che vanno ad
aggiungersi a quelli già inclusi nel ricorso originario e che sono notificati nel termine di decadenza
di 60 gg per l’impugnazione.
Sotto il profilo procedurale i motivi aggiunti sono sottoposti alla disciplina prevista per i ricorsi e
vanno notificati alle controparti (art 43.2); ove il ricorrente preferisca proporli con un ricorso
separato il giudice può disporre la riunione dei ricorsi.
I motivi aggiunti ampliano dunque l’oggetto del processo. L’oggetto del processo può essere
ampliato per iniziativa della pa resistente e del controinteressato; le parti eventuali invece possono
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svolgere nel giudizio difese solo a supporto delle ragioni delle parti necessarie e dunque senza
modificare l’oggetto del giudizio e sulle domande proposte.
Le difese dell’amministrazione
Per quanto riguarda la pa si è osservato che tradizionalmente essa svolge un ruolo per così dire
fisso cioè finalizzato esclusivamente alla difesa in giudizio del provvedimento impugnato cosi
come è stato emanato. Inoltre la presenza in giudizio dell’amministrazione non è necessaria in
quanto il suo punto di vista è già rappresentato nell’atto impugnato, tant’è vero che il Codice in
linea con la tradizione non prevede neppure l’istituto della contumacia —> se l’amministrazione
non si costituisce in giudizio quest’ultimo procede fino alla sentenza senza alcuna alterazione.
Se l’amministrazione alla quale sia stato notificato il ricorso decide di costituirsi in giudizio, il suo
comportamento processuale è quello che viene generalmente definito come di semplice o mera
difesa cioè di contestazione della fondatezza del ricordo sia in fatto sia in diritto (in fatto per
esempio negando la sussistenza o offrendo una diversa ricostruzione dei fatti allegati dal
ricorrente; in diritto offrendo una diversa interpretazione delle norme che il ricorrente assume
siano state violate). Le mere difese attuano il principio del contraddittorio ma non arricchiscono il
processo di questioni nuove
In base al codice grava sull’amministrazione il cd onere di contestazione perché “i fatti non
specificamente contestati dalle parti costituite" possono essere posti dal giudice a fondamento
della propria decisione.
La pa può sollevare le ccdd eccezioni di rito tali da escludere il dovere decisorio del giudice adito
o da imporre la declaratoria di estinzione del processo (ad es tardività della proposizione del
ricorso). Si tratta in massima parte di eccezioni rilevabili anche dal giudice d’ufficio.
Per quanto riguarda le ccdd eccezioni di merito, cioè l’allegazione di fatti impeditivi modificativi e
estintivi che ampliano la cognizione del giudice, esse non trovano uno spazio significativo nel
processo amministrativo a differenza di quanto accade nel processo civile: ciò dipende
essenzialmente dal fatto che nel processo amministrativo non è ammessa l’integrazione della
motivazione del provvedimento impugnato in corso di giudizio.
Inoltre va tenuto conto che la pa resistente anche dopo l’instaurazione del giudizio, ha la piena
disponibilità del rapporto giuridico sostanziale perché conserva pur sempre il potere di modificare
o annullare d’ufficio l’atto impugnato. E qui emerge una differenza rispetto al processo civile, nel
quale, anche il convenuto per il pagamento di una somma o per l’adempimento di altro obbligo
potrebbe ritenere opportuno adempiere spontaneamente facendo venire meno la materia del
contendere e ciò in base a ragioni di opportunità e convenienza; la pa invece, essendo tenuta al
rispetto dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento ove traesse il convincimento che il
ricorso è fondato, sarebbe tenuta quanto meno a valutare un intervento in autotutela rimuovendo
l’atto e la lesione subita dal ricorrente. A questo tendeva in origine e fino al 1971 il principio
secondo il quale il ricorso giurisdizionale poteva essere proposto solo dopo aver esperito i rimedi
amministrativi così da promuovere una rivalutazione in sede amministrativa del provvedimento
illegittimo. Nella prassi peraltro non sono frequenti casi di annullamento d’ufficio in pendenza di
giudizio, magari sollecitato dal ricorrente anche attraverso un invito all’autotutela: le
amministrazioni preferiscono attendere la sentenza del giudice anche perché in questo modo non
sono esposte al rischio, in presenza di controinteressati, che questi ultimi contestino a loro volta il
provvedimento di annullamento d’ufficio.
Un esempio di eccezione in senso proprio potrebbe essere, secondo alcuni interpreti, l’art 21
octies l 241/1990 relativamente al vizio formale dell’omessa comunicazione di avvio del
procedimento: l’amministrazione infatti, al fine di impedire l’annullamento del provvedimento
impugnato, ha l’onere di dimostrare in giudizio che il contenuto del provvedimento non sarebbe
stato comunque diverso da quello emanato.
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Profili procedurali
Sotto il profilo procedurale, il ricorso redatto con i contenuti individuati dall’art 40 deve essere
sottoscritto da un avvocato sulla base di una procura alle liti.
Il ricorso deve essere notificato entro il termine previsto per le singole azioni all’amministrazione
resistente e agli eventuali controinteressati e deve essere depositato nella segreteria del giudice
entro 30 gg. Nel caso dell’azione di annullamento il ricorso deve essere notificato ad almeno uno
di questi a pena di inammissibilità del ricorso. La tardività della notificazione o del deposito è casa
di irricevibilità.
Il Codice dedica alcune disposizioni alla disciplina dei termini prevedendo che la parte può
proporre al giudice un’istanza di abbreviazione fino alla metà nei casi di urgenza, un’istanza di
autorizzazione per il deposito tardivo di memorie e documenti e inoltre vige il principio della
sospensione feriale dei termini processuali dall’1 al 31 agosto salvo che per quelli relativi al
processo cautelare.
Un adempimento necessario è l’istanza di fissazione dell’udienza di discussione che va
presentata entro il termine di un anno; l’utilità effettiva di questa istanza è discussa e salvo rari
casi nei quali si ritenga utile lasciare all’amministrazione tempo per adottare eventualmente un
provvedimento in autotutela è solo una formalità. Trascorso un certo lasso di tempo fisiologico la
parte può segnalare l’urgenza del ricorso depositando la cd istanza di prelievo che può consentire
al giudice di definire il giudizio in camera di consiglio con sentenza in forma semplificata.
Il ricorrente deve provvedere al pagamento del contributo unificato il cui importo varia in relazione
alla tipologia e al valore della controversia.
Le parti alle quali è stato notificato il ricorso possono costituirsi in giudizio presentando memorie,
formulando istanze e indicando mezzi di prova. L’amministrazione in particolare deve produrre
l’eventuale provvedimento impugnato insieme agli atti e documenti in base ai quali è stato
emanato e quelli in esso citate nonché gli altri ritenuti utili.
Dal 2018 è previsto il cd processo telematico, gestito dal Sistema informatico della giustizia
amministrativa.
La tutela cautelare
Una delle decisioni strategiche che deve prendere il ricorrente quando promuove il giudizio è se
inserire nel ricorso introduttivo anche una domanda cautelare. Ciò al fine di attivare una forma di
tutela che è funzionale all’adozione di misure urgenti provvisorie volte a impedire, nei casi in cui il
ricorso abbia un minimo di fondatezza sotto il profilo giuridico (fumus boni iuris), che nelle more
dell’emanazione della sentenza di merito si verifichino gravi danni e irreparabili in capo al
ricorrente (periculum in mora).
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La domanda cautelare introduce un vero giudizio incidentale di merito che si inserisce entro il
giudizio principale.
Al giudizio cautelare il Codice dedica varie disposizioni racchiuse in gran parte nel Titolo II del
Libro II che delineano una disciplina articolata tale da realizzare pienamente il principio
dell’effettività della tutela giurisdizionale.
In quanto espressione di questo principio la tutela cautelare nel processo amministrativo è stata
ritenuta indefettibile dalla Corte costituzionale.
In realtà fin dall’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato, il legislatore da un lato aveva
previsto che la proposizione del ricorso non determina in via automatica la sospensione degli effetti
del provvedimento impugnato, e ciò considerata l’esigenza che gli atti delle amministrazioni finalizzati
alla cura di interessi pubblici possano essere prontamente eseguiti; dall’altro lato avevastabilito
che il giudice potesse sospenderne l’esecuzione allorché il ricorrente allegasse gravi motivi cioè
in presenza di un danno imminente grave e irreparabile.
In origine peraltro la tutela cautelare era prevista in un’unica forma tipica cioè la sospensione degli
effetti dell’atto impugnato: essa era pensata essenzialmente in relazione al caso dei provvedimenti con
effetti restrittivi della sfera giuridica del destinatario cioè con riguardo agli interessi legittimi
oppositivi, e non per gli interessi legittimi pretensivi.
Anche per queste situazioni la giurisprudenza amministrativa già prima del Codice aveva ampliato
le maglie della tutela cautelare, ammettendola anche nei confronti di alcuni tipi di atti negativi (il
diniego di rinnovo di provvedimenti favorevoli precedentemente rilasciati o il diniego di esonero
dal servizio militare obbligatorio). In questi casi la sospensione del provvedimento di diniego
consentiva il mantenimento dello status quo, in attesa della sentenza di merito.
Inoltre nel silenzio della legge, la giurisprudenza amministrativa si spinse fino al punto di
ammettere la possibilità di proporre appello avverso l’ordinanza cautelare emessa dal giudice di
primo grado —> il Consiglio di Stato era pervenuto a questa conclusione sottolineando da un lato
l’autonomia sostanziale del processo cautelare rispetto al processo di merito, dall’altro la natura
decisoria della pronuncia cautelare, assimilabile sotto questo profilo alla sentenza. Anche la Corte
costituzionale ritenne che nel processo amministrativo “il principio del doppio grado di
giurisdizione abbia rilevanza costituzionale” e che esso vada garantito anche per quanto riguarda
la fase cautelare.
Sulla scorta di queste aperture giurisdizionali, la tutela cautelare ha assunto nel processo
amministrativo una rilevanza sempre maggiore. Il Codice ha preso atto di questa evoluzione.
L’art 55 del Codice individua i due requisiti per la concessione della misura cautelare cioè il fumus
boni iuris e il periculum in mora.
Fumus boni iuris —> l’ordinanza cautelare deve motivare in ordine ai profili che a un sommario
esame inducono a una ragionevole previsione sull’esito del ricorso; la valutazione del fumus da
parte del giudice non deve essere particolarmente approfondita e in ogni caso per prassi la
motivazione tende a essere piuttosto succinta.
Periculum in mora —> il ricorrente può proporre la domanda cautelare “allegando di subire un
pregiudizio grave e irreparabile durante il tempo necessario a giungere alla decisione del ricorso”.
La tutela cautelare ha carattere strumentale rispetto alla sentenza definitiva che conclude il
giudizio di cognizione: mira soltanto ad assicurare che quest’ultima non sia inutiliter data ove nelle
more risulti compromessa in modo definitivo la res oggetto del contendere.
Nell’ambito del giudizio di merito la fase della tutela cautelare costituisce una sorta di incidente
del processo.
L’art 55 del codice individua le misure cautelari che possono essere richieste. Non consistono
solo nella sospensione degli effetti del provvedimento impugnato ma sono quelle “che appaiono
secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul
ricorso” ivi inclusa "l’ingiunzione a pagare una somma di denaro”(principio dell’atipicità)
Il principio dell’atipicità della tutela cautelare è accolto anche nel processo civile (cfr art 700 cpc:
azione residuale volta all’emanazione di “provvedimenti d’urgenza che appaiono secondo le
circostanze i più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito”).
L’istanza cautelare può essere proposta in 3 momenti:
72
In base al principio dell’atipicità le misure cautelari possono avere il contenuto più vario.
Possono consistere in quella tradizionale della sospensione degli effetti del provvedimento
impugnato lesivo di un interesse legittimo oppositivo.
Per quanto riguarda gli interessi legittimi pretensivi possono essere emanate ordinanze ccdd
propulsive —> esse consistono in un ordine alla pa di riesaminare il provvedimento di diniego
emanato tenendo conto delle censure formulate nel ricorso e di altre indicazioni fornite dal giudice (cd
remand) anticipando in qualche modo il contenuto conformativo della sentenza.
73
Le ordinanze cautelari emesse dai Tar possono essere oggetto di appello al Consiglio di Stato entro
30 gg dalla notificazione o 60 gg dalla pubblicazione dell’ordinanza. Il giudizio di appello si svolge
secondo le regole del giudizio cautelare di primo grado.
In giurisprudenza si è posta la questione se anche i decreti cautelari monocratici possano essere
appellati o se il loro riesame può avvenire solo nella prima camera di consiglio utile nella quale il
collegio del Tar può confermare o meno il decreto. Nel silenzio del Codice il Consiglio di Stato
facendo leva sull’art 24 Cost e sugli artt 6 e 13 CEDU ha ritenuto proponibile l’appello innanzi al
giudice monocratico quando vi siano eccezionali ragioni di urgenza nell’intervallo di tempo tra il
decreto monocratico emanato dal Tar e la camera di consiglio fissata per la conferma del decreto
monocratico; il caso riguardava l’esclusione dalle prove scritte dell’esame di abilitazione di
avvocato al quale è seguito un decreto monocratico di rigetto della domanda cautelare con
fissazione della camera di consiglio in data successiva a quella fissata per la prova scritta.
L’istruttoria
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L’istruttoria è definita usualmente come l’attività processuale finalizzata alla raccolta delle prove
relative ai fatti allegati dalle parti affinché la controversia possa essere decisa. Peraltro può
risultare non necessaria quando la decisione dipende dalla risoluzione di questioni di puro diritto
ovvero quando le prove precostituite prodotte dalle parti sono sufficienti.
Tradizionalmente nel processo amministrativo l’istruttoria non è una fase necessaria e costante,
ma un elemento soltanto eventuale, e l’attività istruttoria è comunque ridotta data la maggior
importanza che assumono le prove documentali.
Questa impostazione originaria trovava una giustificazione nelle caratteristiche proprie dei giudizi
nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità nei quali quello che contava erano soprattutto gli
atti e documenti confluiti nel procedimento.
Il provvedimento impugnato costituisce l’atto conclusivo di un procedimento nel quale
l’amministrazione ha dedotto e accertato i fatti rilevanti attraverso un’attività istruttoria che si
caratterizza in una serie di atti endoprocedimentali —> nei giudizi di impugnazione la principale
fonte di prova è lo stesso atto amministrativo e l’istruttoria ha solo la funzione di completare la
ricostruzione operata dall’amministrazione.
Più precisamente in base alla 241/1990 il responsabile del procedimento dispone il compimento
degli atti necessari per accertare i fatti adottando “ogni misura per l’adeguato e sollecito
svolgimento dell’istruttoria”. Dell’istruttoria effettuata e della documentazione acquisita per
provare i fatti posti a fondamento della decisione deve dar conto il provvedimento.
Il difetto di istruttoria che costituisce una delle figure sintomatiche dell’eccesso di potere può
essere dedotto nel processo come motivo di ricorso.
L’istruttoria in sede processuale era una fase avviata solo per colmare lacune e incoerenze da
parte dell’istruttoria procedimentale emerse anche in seguito alla produzione in giudizio da parte
del ricorrente di documentazione aggiuntiva rispetto a quella prodotta dall’amministrazione volta a
contestare la ricostruzione dei fatti operata dal provvedimento.
In definitiva l’istruttoria nel processo aveva un ruolo circoscritto perché il giudizio di legittimità
originariamente non era un giudizio sul fatto che spettava solo all’amministrazione accertare ma
aveva per oggetto il provvedimento impugnato che fungeva da schermo tra giudice
amministrativo e fatto.
Gli stessi mezzi di prova nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità erano limitati rispetto
a quelli ammessi nel processo civile; erano più ampi nella giurisdizione di merito.
Progressivamente il giudice amministrativo superò la visione tradizionale rivendicando un potere
di accesso pieno e di ricostruzione autonoma dei fatti cosi come provati dalle parti nel giudizio e
ciò anche al di la della rappresentazione di fatti risultante dall’atto impugnato.
La Corte costituzionale, in linea con la visione tradizionale, ha ribadito che il processo
amministrativo presenta profili di specialità rispetto a quello ordinario poiché la tutela degli
interessi legittimi avviene attraverso il sindacato sull’esercizio del potere e tale sindacato deve
necessariamente muovere in primo luogo dall’esame del complesso degli elementi che
l’amministrazione ha posto a fondamento delle proprie valutazioni: è la stessa amministrazione a
dover fornire nel provvedimento la prova dei fatti posti a fondamento del potere esercitato.
La concezione tradizionale, che aveva un senso nel caso degli interessi legittimi oppositivi lesi da
un provvedimento, non poteva reggere in quello degli interessi legittimi pretensivi, lesi da un
comportamento inerte dell’amministrazione o da un provvedimento di rigetto. Infatti una volta che
l’oggetto della cognizione si estende alla fondatezza della pretesa del soggetto che presenta
un’istanza volta al rilascio di un provvedimento a lui favorevole, la funzione dell’istruttoria in sede
processuale deve essere necessariamente finalizzata all’accertamento autonomo di presupposti
di fatto e di requisiti previsti dalla legge per l’esercizio del potere, e ciò pone in capo al ricorrente
l’onere di allegare i fatti e di fornire le prove all’uopo necessarie.
La concezione tradizionale non poteva reggere neppure una volta che il processo amministrativo
si aprì alla tutela di situazioni giuridiche di diritto soggettivo nell’ambito della giurisdizione
esclusiva: in tal caso infatti gli eventuali atti dell’amministrazione hanno natura di atti paritetici non
provvedimenti e il processo ha per oggetto un rapporto obbligatorio analogo a quello usualmente
sottoposto alla cognizione del giudice ordinario.
La Corte costituzionale dichiarò pertanto incostituzionale disposizioni di legge che creavano una
disparità di trattamento tra dipendenti delle pubbliche amministrazioni e dipendenti privati non
75
consentendo al giudice amministrativo di far ricorso ai mezzi istruttori previsti nel processo del
lavoro.
Anche l’ingresso nel processo amministrativo dell’azione risarcitoria collegata alla lesione degli
interessi legittimi richiedeva un ripensamento: la prova del danno e dell’elemento psicologico
costituiscono infatti elementi distinti e ulteriori rispetto alla dimostrazione dell’illegittimità del
provvedimento e dipendono da elementi di fatto che sono spesso conosciuti e dimostrabili solo dal
ricorrente.
Di questa evoluzione ha tenuto conto il Codice che da un lato contiene disposizioni più precise in
tema di onere della prova, dall’altro prevede l’intero ventaglio delle prove previste dal cpc salvo
l’interrogatorio formale e il giuramento. Inoltre il codice pone una disciplina unitaria dell’istruttoria
che abbraccia la giurisdizione di legittimità, la giurisdizione esclusiva e la giurisdizione di merito.
Il Codice pone in capo alle parti l’onere della prova. Il principio dell’onere della prova è
connaturale ai processi informati al principio della domanda e al principio dispositivo in base ai
quali grava sulle parti l’onere di allegazione dei fatti rilevanti idonei a giustificare le domande
proposte e oggetto della prova sono solo i fatti allegati dalle parti.
Il processo amministrativo si ispira per tradizione al principio dispositivo con metodo
acquisitivo in base al quale l’onere della prova che grava sul ricorrente è meno rigoroso essendo
sufficiente che egli fornisca non già una prova piena dei fatti allegati ma solo un “principio di
prova”; soddisfatto questo onere attenuato interviene il metodo acquisitivo, consistente
nell’esercizio da parte del giudice dei poteri istruttori d’ufficio per l’accertamento dei fatti allegati
allo scopo di integrare la prova la dove essa non sia nella disponibilità del ricorrente.
Nell’impostazione del Codice da un lato “salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a
fondamento della decisione le prove proposte dalle parti” (principio dispositivo); dall’altro il
giudice può disporre anche d’ufficio l’acquisizione di vari mezzi di prova (principio inquisitorio).
Per soddisfare l’onere del principio di prova, assolto il quale il giudice può attivare i propri poteri
istruttori, secondo la giurisprudenza, il ricorrente deve prospettare al giudice una ricostruzione
attendibile sotto il profilo di fatto e giuridico delle circostanze addotte, mentre nei casi in cui gli
elementi probatori siano nella disponibilità della parte privata occorre che il ricorrente supporti la
propria domanda, allegando e dimostrando in giudizio tutti gli elementi costitutivi della sua
pretesa.
Il metodo acquisitivo viene giustificato in dottrina e giurisprudenza in relazione alla necessità di
equilibrare l’asimmetria informativa tra amministrazione e dunque nella sostanza trova
applicazione solo quando il privato per la sua posizione di disparità sostanziale con
l’amministrazione non sia in grado di provarli.
Nei casi in cui il ricorrente proponga un’azione risarcitoria a tutela del proprio interesse legittimo,
la giurisprudenza richiede una prova rigorosa del danno subito atteso che in relazione a tale azione
il criterio della vicinanza della prova determina il riespandersi del principio dispositivo.
Anche nell’ambito dei giudizi che involgono diritti soggettivi rientranti nella giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo, l’onere della prova non subisce attenuazioni attraverso il metodo
acquisitivo.
In realtà il principio dispositivo con metodo acquisitivo dovrebbe trovare ormai uno spazio limitato
nel processo amministrativo. In primo luogo infatti la pa all’atto di costituzione in giudizio deve
produrre l’eventuale provvedimento impugnato nonché gli atti e i documenti in base ai quali l’atto
è stato emanato, quelli in esso citati e quelli che l’amministrazione ritiene utili al giudizio, e ciò
riequilibra in buona parte la posizione di asimmetria informativa tra pubblica amministrazione e
ricorrente. In secondo luogo anche i soggetti privati in molti casi possono procurarsi le prove in
vista della proposizione del ricorso esercitando il diritto di accesso ai documenti amministrativi;
l’istanza di accesso può essere proposta anche all’interno del processo ove essa abbia per
oggetto documenti connessi con l’oggetto del giudizio.
Oggetto della prova sono soltanto i fatti controversi —> su questo aspetto il Codice richiama il
principio di non contestazione previsto nel processo civile prevedendo che il giudice
amministrativo può fondare la propria decisione oltre che sulle prove proposte dalle parti, sui fatti
non specificamente contestati dalle parti costituite. Questo principio non opera se la parte, e in
particolare la pa resistente, non si è costituita in giudizio e ciò in linea con quanto accade nel
76
processo civile nel caso di contumacia della parte. Peraltro per poter applicare questo principio
occorre che l’amministrazione sia stata ripetutamente compulsata dal giudice amministrativo a
prendere posizione sui fatti di causa, ad es attraverso un’ordinanza istruttoria. In realtà secondo la
giurisprudenza nel processo amministrativo, il principio trova un’applicazione temperata dalla
particolare struttura di quest’ultimo che di regola fa seguito a un procedimento amministrativo le
cui risultanze, tradotte nei relativi atti, vanno tenute per ferme, quantomeno sino a prova contraria.
Ai fini della specificità della contestazione richiesta dalla disposizione può essere sufficiente la
narrazione di fatti incompatibili con le affermazioni della parte avversaria purché riferibili in modo
specifico ancorché in modo non espresso.
Il giudice può inoltre desumere argomenti di prova dal comportamento tenuto dalle parti nel
corso del processo (ad es può essere valutato a questo fine il comportamento
dell’amministrazione che non produce in giudizio un documento in suo possesso che il giudice gli
ha ordinato di esibire).
Può porre a fondamento della decisione anche i fatti notori che rientrano nella comune esperienza
Deve infine valutare le prove acquisite secondo il suo prudente apprezzamento.
Il Codice amplia la gamma dei mezzi di prova esperibili nel processo amministrativo che non sono
solo quelli espressamente elencati ma in base a una disposizione di rinvio generale anche glialtri
previsti dal cpc esclusi l’interrogatorio formale e il giuramento.
Una siffatta esclusione si ispira alla tradizione secondo la quale le prove legali sono incompatibili
col processo amministrativo: quest’ultimo coinvolge almeno nel contesto della giurisdizione
generale di legittimità, interessi pubblici curati dall’amministrazione che esercita i poteri ma che
sono sottratti alla sua libera disponibilità; del resto anche nel processo civile il giuramento non è
ammesso nelle “cause relative a diritti di cui le parti non possono disporre”. In dottrina il tema è
dibattuto anche perché almeno nelle controversie che involgono diritti soggettivi devoluti alla
giurisdizione esclusiva, la giustificazione tradizionale ha oggi meno senso.
Passando a considerare i singoli mezzi di prova, innanzitutto il Codice conferma i 3 mezzi istruttori
previsti nella disciplina previgente (richiesta di chiarimenti o di documenti e verificazioni) e
aggiunge le ispezioni, la prova testimoniale e per quanto non sia un mezzo di prova in senso proprio
la consulenza tecnica.
Quanto all’acquisizione di documenti il giudice può rivolgere una richiesta anche d’ufficio alle
parti o a soggetti terzi; ove le parti non diano seguito alla richiesta il giudice può trarre argomenti
di prova a sfavore della parte.
La richiesta di chiarimenti può essere rivolta dal giudice sia alla pa parte del giudizio sia alle parti
private; è dubbio se questa facoltà costituisca una modalità per acquisire una prova in sensoproprio
e non sia assimilabile all’analogo potere del quale è titolare nel processo civile il giudiceistruttore.
La richiesta di chiarimenti alla pa non può costituire una modalità per consentire a quest’ultima
di integrare la motivazione del provvedimento impugnato e non deve alterare il principio della
parità delle armi.
La verificazione è prevista da sempre nel processo amministrativo, mentre lo strumento più
evoluto costituito dalla consulenza tecnica è stato introdotto solo nel 2000.
Entrambe possono essere disposte dal giudice quando sia necessario “l’accertamento di fatti o
l’acquisizione di valutazioni che richiedono particolari competenze tecniche”. Esse pongono in
condizione il giudice di effettuare un controllo più intenso sulle valutazioni tecniche; secondo la
giurisprudenza più recente il sindacato non è più soltanto estrinseco cioè formale, ma va a
sindacare l’attendibilità della valutazione espressa dall’amministrazione o addirittura la maggiore o
minore attendibilità di quest’ultima rispetto a quella espressa dal ricorrente.
La verificazione e la consulenza tecnica sono strumenti in qualche misura fungibili anche se il
Codice indica una priorità per la prima rispetto alla seconda che può essere solo se indispensabile.
La diversità funzionale tra verificazione e consulenza tecnica al di là della questione relativa alla
garanzia del contraddittorio e della maggior formalizzazione consiste essenzialmente nel fatto che
la prima di regola è volta ad appurare la realtà oggettiva delle cose e si risolve in un accertamento
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Quanto ai profili procedurali, il codice non prevede una fase istruttoria autonoma affidata a un
giudice istruttore.
L’istruttoria è disposta dal collegio con ordinanza o dal presidente della sezione.
Le parti che ritengono necessaria l’acquisizione di prove devono formulare un’istanza motivata.
La fase decisoria
Il giudizio di primo grado innanzi ai Tar si conclude di regola con una sentenza che accoglie o
respinge il ricorso.
L’udienza di discussione prima della decisione viene fissata in seguito alla presentazione di una
specifica istanza; nel corso dell’udienza le parti possono discutere sinteticamente, dopo aver avuto
l’opportunità di presentare documenti, memorie e repliche.
Le udienze sono pubbliche a pena di nullità, ma nei casi tassativamente previsti dalla legge sono
trattate in camera di consiglio. Dopo la discussione, la causa è trattenuta in decisione, presa in
camera di consiglio a maggioranza dei voti espressi.
La decisione può avere a seconda dei casi forma della sentenza che definisce in tutto o in parte il
giudizio ovvero della ordinanza con la quale vengono assunte pronunce interlocutorie.
Quanto alle tipologie di ordinanze, si è già fatto cenno a quelle cautelari e istruttorie.
Con ordinanza viene disposta anche la sospensione del processo, nei casi previsti dal cpc. Tra i
casi di sospensione necessaria vanno menzionati la rimessione alla Corte costituzionale di una
questione di legittimità costituzionale e il rinvio pregiudiziale alla CGUE (che per i Tar è facoltativo,
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mentre per il Consiglio di Stato, in quanto giudice di ultima istanza, è obbligatorio e la violazione
dell’obbligo può essere fonte di responsabilità dello Stato derivante da un’errata applicazione del
diritto europeo da parte di un giudice nazionale).
Va menzionata ancora l’ordinanza che rileva il difetto di competenza e che indica
contemporaneamente il Tar ritenuto competente; contro di essa le parti o il Tar possono proporre
il regolamento di competenza volto a investire della questione il Consiglio di Stato e a provocare
una decisione definitiva vincolante per i giudici di primo grado.
Un’altra ordinanza che determina la sospensione è quella emanata in seguito all proposizione del
regolamento preventivo di giurisdizione.
Sempre con ordinanza vengono decise le istanze di ricusazione del giudice amministrativo nei
casi previsti dal cpc e è disposta l’integrazione del contraddittorio.
Il processo amministrativo può subire una battuta d’arresto (interruzione del processo) anche in
seguito al verificarsi di fatti eccezionali.
Inoltre il processo può non raggiungere la fase della decisione nei casi di perenzione, dovuta a
una stasi prolungata dell’attività processuale o a rinuncia della parte. L’estinzione e
l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse, per mancata integrazione del
contraddittorio o per altre ragioni ostative, possono essere pronunciate con decreto del presidente
o da un magistrato delegato, contro cui le parti costituite possono proporre opposizione decisa dal
collegio con ordinanza appellabile.
La sentenza è la pronuncia decisoria collegiale che conclude il giudizio, salvo il caso della sentenza
non definitiva.
Le sentenze possono essere: di rito, che rigettano il ricorso in quanto irricevibile (ad es perché
proposto tardivamente), inammissibile (ad es perché proposto da un soggetto privo della
legittimazione o dell’interesse ad agire) o improcedibile (ad es difetto di interesse); di merito, che
presuppongono risolte in modo positivo le questioni rito, e che possono essere di accoglimento o
di rigetto del ricorso nel caso in cui le domande risultino rispettivamente fondate o infondate.
Il Codice contiene alcune regole generali che precisano il contenuto formale; prevedono altresì
che essa debba essere redatta nel termine di 45 giorni, che debba essere resa pubblica mediante
deposito nella segreteria che il giudice possa disporne la pubblicazione su giornali e altri media a
spese della parte soccombente allorché ciò possa contribuire a riparare il danno.
L’art 88 stabilisce in particolare che la sentenza debba contenere “la concisa esposizione dei
motivi in fatto e in diritto della decisione anche con rinvio a precedenti cui intende conformarsi, e
ciò in conformità al principio di sinteticità degli atti che si applica anche al giudice oltre che alle
parti”.
Nei casi di manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso il giudice può emanare una sentenza
in forma semplificata. La motivazione in questo caso può consistere “in un sintetico riferimento al
punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo”, essendo talora sufficiente il solo riferimento a un
precedente conforme.
Il codice individua i possibili contenuti delle sentenze di accoglimento in relazione all’azione
proposta (art 34). Così, nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità:
• Nel caso di azione di annullamento la sentenza “annulla in tutto o in parte il provvedimento”
• Nel caso di azione avverso il silenzio, la sentenza “ordina all’amministrazione, rimasta inerte, di
provvedere entro un termine”
• Nel caso di azione di adempimento insieme all’azione di annullamento o a quella avverso il
silenzio, la sentenza condanna l’amministrazione al rilascio del provvedimento richiesto.
• Nel caso di azione volta a far valere l’inadempimento di una obbligazione pecuniaria o al
risarcimento del danno, la sentenza dispone il pagamento della somma di danaro.
Una peculiarità del processo amministrativo è che il giudice, se non vi è opposizione delle parti,
nell’accogliere l’azione di condanna al pagamento di una somma di danaro può limitarsi ad
accertare l’an dell’obbligo e a stabilire i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore
del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine, e dunque promuovere un
accordo delle parti sul quantum (condanna limitata all’an del risarcimento).
Una questione che il collegio giudicante deve risolvere è l’ordine di trattazione delle questioni.
79
Innanzitutto il Codice richiama il cpc relativamente al principio secondo cui il giudice decide
“gradatamente le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabile d’ufficio e quindi il merito
della causa”, per ragioni di economia processuale. Quindi basta che il giudice averti un motivo di
irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso affinché sia respinto.
Un’alterazione dell’ordine logico delle questioni da trattare è prevista ex lege in relazione
all’integrazione del contraddittorio: in via eccezionale non viene disposta se il ricorso è
manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondato e venga deciso con sentenza
in forma semplificata.
L’ordine della trattazione delle questioni è condizionato dalla facoltà concessa al ricorrente di
proporre i motivi di ricorso in via graduata; il vincolo per il giudice che è espressione del principio
della domanda non è peraltro assoluto e subisce alcune eccezioni ove esso entri in contrasto con
altri principi.
In particolare rileva il principio secondo il quale il giudice amministrativo non può pronunciarsi su
poteri non ancora esercitati (art 34.2). Esso è stato interpretato nel senso che nel caso in cui la
sentenza accerti un vizio di incompetenza l’atto dee essere annullato senza che possano essere
esaminati altri motivi di ricorso.
Tale principio, espressione del principio della separazione dei poteri, è stato ritenuto applicabile a altri
due casi: quello di un provvedimento che per legge può essere emanato solo su proposta di un’altra
amministrazione che invece non l’ha formulata; quello di un provvedimento emanato senza
l’acquisizione di un parere obbligatorio per legge.
Due possono essere i criteri alternativi per stabilire l’ordine della trattazione:
a) Criterio del massimo interesse della parte —> chiede al giudice di valutare qual è l’utilità più
ampia che può offrire la sentenza di accoglimento
b) Criterio della radicalità del vizio —> dà priorità ai motivi che sul piano oggettivo fanno
emergere l’illegittimità più grave.
Questo secondo criterio è accolto dalla giurisprudenza.
Nella fase decisionale si pone anche la questione circa l’assorbimento dei motivi, ossia se accolto
un motivo di ricorso idoneo a giustificare l’annullamento, il giudice sia tenuto a esaminareulteriori
motivi anch’essi tali da determinare l’annullamento, ovvero possa non esaminarlidichiarandoli
assorbiti per ragioni di economia processuale. Si pensi per esempio a un ricorso articolato in due
motivi, il primo contenente una censura di eccesso di potere, il secondo un difetto di motivazione:
mentre l’accoglimento del primo preclude in modo assoluto di emanare unnuovo atto dal contenuto
identico, l’accoglimento del secondo consente di reiterare l’atto con unadiversa motivazione —> se
il giudice accogliesse il motivo di difetto di motivazione e dichiarasse assorbito l’altro, opererebbe
un assorbimento improprio, non rispettoso del principio della domanda. L’assorbimento
improprio dei motivi restringe infatti il cd effetto confermativo della sentenza di accoglimento, e
può anche pregiudicare l’eventuale azione risarcitoria che il ricorrente potrebbe proporre una volta
concluso il giudizio di annullamento.
In ogni caso la giurisprudenza ha affermato che, anche in assenza di una disposizione espressa
del Codice, l’assorbimento dei motivi è in linea di principio da considerarsi vietato.
È invece consentito quando è giustificato da ragioni di ordine logico-pregiudiziale (assorbimento
proprio). Si ha ad es quando una censura viene proposta in via alternativa o in via prioritaria a
un’altra.
Quanto ai rapporti tra ricorso principale e incidentale, l’interesse a proporre il ricorso
incidentale sorge solo in seguito alla proposizione di quello principale.
Di regola il ricorso principale va esaminato per primo.
L’esame del ricorso incidentale deve precedere quello del ricorso principale in un caso particolare,
cioè allorché il ricorso incidentale sottopone una questione che incide sulla legittimazione e
sull’interesse a proporre il ricorso principale.
Un esempio tratto dalla materia dei contratti pubblici ha dato origine a varie prese di posizioni
contrastanti sul punto tra giudice nazionale e giudice europeo. Va precisato che sotto il profilo
processuale, la legittimazione a contestare l’esito di un procedimento finalizzato
all’aggiudicazione di un contratto pubblico è attribuita solo alle imprese che hanno presentato
domanda di partecipazione; solo eccezionalmente è riconosciuta al cd operatore di mercato che
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non ha potuto partecipare alla procedura perché non preceduta dalla pubblicazione di un bando.
Si ipotizzi il caso di un ricorso principale proposto dall’impresa seconda classificata nella
graduatoria finale che contati l’irregolarità dell’offerta o l’errata attribuzione di un punteggio.
L’impresa prima classificata propone un ricorso incidentale lamentando che la seconda classificata
non doveva essere ammessa alla procedura non essendo in possesso di un requisito soggettivo
previsto dal bando di gara: l’accoglimento del ricorso incidentale determinerebbe per la ricorrente
principale una situazione concettualmente analoga a quella di un’impresa che propone un ricorso
nei confronti di una procedura alla quale non ha partecipato e che pertanto risulta priva di una
legittimazione a ricorrere; pertanto il ricorso incidentale va esaminato per primo perché teso a
paralizzare il ricorso principale per una ragione di tipo processuale.
Diverso ancora è il caso dei ccdd ricorsi incrociati reciprocamente escludenti, cioè quello nel
quale da un lato l’impresa seconda classificata contesta nel ricorso principale l’ammissione alla
procedura della prima classificata; dall’altro quest’ultima propone nel ricorso incidentale una
censura simmetrica —> in questa situazione la questione relativa a quale ricorso vada esaminato
per primo pone un problema di parità delle parti. Infatti in caso di accoglimento del ricorso
incidentale ove esso fosse esaminato per primo, il ricorrente principale risulterebbe privo di
legittimazione a ricorrere e il suo ricorso sarebbe dichiarato inammissibile; viceversa, in caso di
accoglimento del ricorso principale, ove esso fosse esaminato per primo, il ricorrente incidentale
risulterebbe privo di legittimazione a ricorrere e il suo ricorso sarebbe dichiarato inammissibile.
L’ordine dell’esame rischia di favorire o penalizzare uno dei due ricorrenti arbitrariamente.
Pertanto di fronte a due ricorsi incrociati reciprocamente escludenti il giudice è tenuto a esaminarli
entrambi, a prescindere dalla priorità data al ricorso principale o incidentale con la conseguenza
che ove entrambi risultino fondati la procedura si conclude senza alcuna aggiudicazione e
l’amministrazione può soltanto avviare una nuova procedura di gara.
Passando a esaminare gli effetti della sentenza di accoglimento, questa produce 3 tipi di effetti:
a) Effetto di annullamento —> la sentenza che accoglie il ricorso elimina ex tunc l’atto e tutti gli
effetti da esso prodotti medio tempore, cioè dal momento in cui è divenuto efficace. Peraltro il
principio dell’efficacia retroattiva della sentenza di annullamento è divenuto meno rigido poiché la
giurisprudenza in alcune pronunce ha affermato il proprio potere di modulare nel tempo gli effetti.
L’annullamento ripristina dunque la situazione di diritto preesistente all’emanazione dell’atto,
come se non fosse stato mai emanato. L’effetto di annullamento esprime il carattere propriamente
costitutivo della sentenza, e non varia in funzione del vizio dedotto.
L’effetto di annullamento può propagarsi automaticamente anche agli atti amministrativi che
trovano nell’atto invalido annullato il loro presupposto: si distingue a questo riguardo tra invalidità
derivata a effetto caducante (in caso di rapporto di consequenzialità diretta e necessaria, ad es
bando e atti successivi) o a effetto invalidante.
b) Effetto ripristinatorio —> mentre l’effetto di annullamento tende a ricostituire la situazione di
diritto esistente prima dell’emanazione del provvedimento, questo mira a ricostruire per quanto
possibile la situazione di fatto e di diritto nella quale si sarebbe trovato il ricorrente in assenza
dell’atto amministrativo illegittimo. Va quindi per così dire a integrare l’effetto di annullamento
richiedendo all’amministrazione di porre in essere le attività materiali e giuridiche necessarie per
elidere ogni pregiudizio subito dal privato nel periodo in cui l’atto ha prodotto effetti.
Ove la ripristinazione non sia più possibile può trovare spazio la tutela risarcitoria.
c) Effetto conformativo —> condiziona l’azione dell’amministrazione successiva al giudicato.
Rileva nel caso in cui, concluso il giudizio con una sentenza di annullamento, l’amministrazione
emana un nuovo provvedimento in sostituzione di quello annullato. In ossequio al principio della
doverosità dell’esercizio dei poteri, ove permangano le esigenze di tutela dell’interesse pubblico
che stavano alla base del provvedimento impugnato, l’amministrazione è tenuta se possibile a
emanare un nuovo provvedimento tenendo conto di quanto accertato nella sentenza di
accoglimento del ricorso.
L’ampiezza dell’effetto conformativo si determina in funzione dei motivi di ricorso. In generale nel
caso di accertamento di un vizio di natura sostanziale (ad es assenza di un presupposto di legge)
l’effetto confermativo determina talvolta una preclusione assoluta alla reiterazione del
provvedimento (effetto preclusivo).
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I riti speciali
Il libro IV del Codice disciplina i riti speciali, prevedendo una serie di regole derogatorie rispetto a
quelle del rito ordinario; in base al rinvio interno, ai riti speciali queste si applicano infatti “se non
espressamente derogate”.
In una visione d’insieme, il Codice disciplina i riti speciali in una logica acceleratoria (termini
ridotti, forme semplificate).
Rito avverso il silenzio —> il ricorso avverso il silenzio può essere proposto fintanto che
perdura l’inadempimento e comunque entro un anno dalla scadenza del termine di conclusione
del procedimento. Il termine di un anno ha natura processuale e non sostanziale: il suo decorso
non produce una decadenza che colpisce la posizione soggettiva, trattandosi di una merasanzione
processuale che non impedisce la proposizione di un autonomo giudizio a seguito della
presentazione di una nuova istanza volta al conseguimento del provvedimento.
Non è più richiesta la previa emanazione di una diffida con assegnazione di un ulteriore termine
per provvedere, che invece prima del Codice la giurisprudenza riteneva necessaria per
formalizzare in qualche modo il silenzio inadempimento.
Il ricorso deve essere notificato ad almeno un controinteressato secondo la regola generale che
vale per l’azione di annullamento: il rilascio di un provvedimento favorevole al ricorrente può
produrre effetti limitativi della sfera giuridica di un soggetto terzo che dunque deve essere evocato
in giudizio.
Il processo segue il rito camerale e il ricorso è deciso in forma semplificata; queste modalità si
giustificano soprattutto nei casi in cui l’accertamento richiesto si limita all’obbligo formale di
provvedere, accertamento che usualmente non presenta particolari difficoltà.
Se nel corso del giudizio sopravviene un provvedimento espresso quest’ultimo può essere
impugnato anche con motivi aggiunti e in questo caso il giudizio prosegue con le modalità del rito
ordinario. Il giudizio prosegue con il rito ordinario anche quando il ricorrente propone anche una
domanda risarcitoria e il giudice definisce con sentenza parziale solo l’azione avverso il silenzio.
A valle della sentenza il giudice può conoscere di tutte le questioni relative all’esatta adozione del
provvedimento richiesto.
Procedimento per ingiunzione —> Per il rito relativo al procedimento di ingiunzione riferito ai
diritti soggettivi aventi natura patrimoniale nell’ambito della giurisdizione esclusiva, il Codice si
limita a rinviare alla disciplina del cpc, precisando soltanto che l’opposizione si propone con
ricorso e che competente è il presidente o un magistrato da lui delegato.
Accesso ai documenti amministrativi —> Un rito speciale ha per oggetto l’accesso ai
documenti amministrativi la cui disciplina sostanziale è contenuta nella legge 241/1990.
È previsto un termine breve per la proposizione del ricorso (30 gg) dalla conoscenza del
provvedimento di diniego o dalla formazione del silenzio che ha valore di silenzio diniego; il
termine di 30 gg vale anche per eventuali ricorsi incidentali o motivi aggiunti.
Il ricorso deve essere notificato a almeno un controinteressato (in particolare allorché il diritto ha
per oggetto dati riguardanti la vita privata di persone fisiche coperti da riservatezza).
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Il ricorso può essere proposto anche in pendenza di un giudizio cui la richiesta di accesso è
connessa con istanza notificata e depositata che viene decisa con ordinanza separata.
Il giudice decide in camera di consiglio con sentenza in forma semplificata che in caso di
accoglimento del ricorso ha un contenuto ordinatorio.
Il giudice sussistendone i presupposti ordina l’esibizione dei documenti richiesti entro un termine
non superiore a 30 gg dettando ove occorra le relative modalità.
Rito abbreviato —> Lo scopo acceleratorio è particolarmente evidente nel rito abbreviato
introdotto con la l 205/2000 che riguarda un elenco piuttosto lungo di materie e tipologie di
controversie in relazione alle quali il legislatore ha avvertito la necessità di contenere i tempi della
definizione del giudizio. L’elenco include per esempio le procedure espropriative, gli atti delle
autorità indipendenti, i settori della difesa e della sicurezza nazionale, l’energia, i trasporti e la
protezione civile.
La disciplina prevede il dimezzamento di tutti i termini processuali esclusi quelli relativi alla
proposizione del ricorso introduttivo nonché del ricorso incidentale, dei motivi aggiunti e di altri
atti indicati.
Regole particolari sono previste per la tutela cautelare: le misure cautelari ordinarie possono
essere disposte in presenza di un pregiudizio grave e irreparabile e del fumus boni iuris solo in
caso di estrema gravità e urgenza; altrimenti la misura cautelare consiste soltanto nella fissazione
dell’udienza di merito entro un termine breve.
Resta in ogni caso salva la possibilità di definizione immediata del giudizio in forma semplificata.
All’udienza di merito la parte può richiedere la pubblicazione anticipata del dispositivo della
sentenza che deve essere depositato entro 7 gg e contro il quale può essere proposto
direttamente appello al fine di ottenere la sospensione dell’esecutività.
Rito accelerato in materia di contratti pubblici —> Le procedure di affidamento di lavori
pubblici, servizi e forniture sono inclusi nell’elenco delle materie e controversie alle quali si applica
il rito abbreviato. In aggiunta o in via derogatoria si applicano altre disposizioni che mirano a
rendere ancora più rapida la conclusione del giudizio e effettiva la tutela (artt 120 ss).
La disciplina speciale in questione ha in parte una matrice europea considerato che i mezzi di
tutela sono volti a garantire una concorrenza effettiva nel mercato degli appalti dotando le imprese
di strumenti efficaci per far valere le loro ragioni. Di derivazione europea sono due disposizioni
contenute nel Codice dei contratti pubblici che costituiscono un primo presidio dell’effettività della
tutela giurisdizionale.
In primo luogo, le stazioni appaltanti non possono sottoscrivere il contratto prima di un termine,
cd standstill, di 35 gg dalla comunicazione del provvedimento di aggiudicazione —> un siffatto
termine dilatorio consente alle imprese non aggiudicatarie di azionare i mezzi di tutela
giurisdizionale inclusa la tutela cautelare al fine di prevenire la firma del contratto che in molti casi
rende più difficile, a esecuzione del contratto avviata, la tutela in forma specifica.
In secondo luogo, se viene proposto un ricorso avverso l’aggiudicazione con contestuale
proposizione dell’istanza cautelare, la stazione appaltante non può stipulare il contratto prima che
il giudice si sia pronunciato su tale istanza —> in questo modo la firma del contratto può avvenire
solo e il giudice non concede la misura cautelare sulla base di un primo apprezzamento non positivo
del fumus boni iuris.
Queste regole hanno natura sostanziale ma hanno un riflesso processuale perché la loro violazione
è considerata grave e determina in caso di accoglimento del ricorso, non solo l’annullamento
dell’aggiudicazione ma anche la dichiarazione di inefficacia del contratto.
Le principali regole più prettamente processuali poste dall’art 120 del Codice sono le seguenti: il
ricorso giurisdizionale da proporre nel termine di 30 gg costituisce l’unico mezzo di impugnazione
perché non è ammesso il rimedio alternativo del ricorso straordinario al Presidente della
Repubblica; le domande devono essere formulate in modo specifico; nei casi in cui la stazione
appaltante usufruisce del patrocinio dell’Avvocatura di Stato la notifica va effettuata anche presso
la sede della stazione appaltante; gli atti ulteriori emanati devono essere impugnati solo tramite
motivi aggiunti e non con ricorso autonomo; gli atti delle parti e la sentenza devono essere sintetici
e la sentenza è emanata di regola in forma semplificata.
Quanto alla conclusione del giudizio il giudice è tenuto a definire il giudizio con sentenza in forma
semplificata. In ogni caso la sentenza deve essere depositata entro 15 gg dall’udienza di
83
adottata in forma semplificata nello stesso giorno e l’appello va proposto entro 2 gg dalla
pubblicazione della sentenza
b) Operazioni elettorali —> Quanto al contenzioso relativo alle operazioni elettorali una prima
regola è che tutti gli atti del procedimento possono essere impugnati solo una volta concluse le
operazioni insieme all’atto di proclamazione degli eletti: in questo modo tutto il contenzioso
interviene ex post senza possibili interferenze con le operazioni elettorali e possibili ritardi
nell’insediamento degli organi elettivi in composizione rinnovata.
Anche per questo tipo di contenzioso sono previsti termini brevi anche se non cosi ridotti come
quelli sul procedimento preparatorio (deposito del ricorso entro 30 gg, sentenza pubblicata entro il
giorno successivo alla decisione, appello entro 20 gg)
La legittimazione a ricorrere è attribuita a ciascun candidato o elettore e non è legata alla titolarità
di un interesse legittimo il quale può proporre il ricorso senza il patrocinio di un avvocato.
LE IMPUGNAZIONI
I mezzi di impugnazione costituiscono uno sviluppo del diritto di azione e del diritto di difesa
garantiti dall’art 24 Cost.
I vizi della sentenza possono riferirsi all’attività posta in essere dal giudice (errores in procedendo)
ovvero in errori di giudizio (errores in judicando). I primi rendono la sentenza invalida, i secondi la
rendono ingiusta. Gli errores in procedendo devono essere fatti valere attraverso gli stessi mezzi
di impugnazione previsti per gli errores in judicando —> principio della conversione delle cause di
nullità in motivi di impugnazione.
I mezzi di impugnazione sono soggetti al generale principio della iniziativa di parte: spetta di
regola solo alla parte interessata soccombente promuovere un nuovo esame della decisione che
ritiene errata e lesiva delle sue ragioni.
Secondo le classificazioni elaborate nel processo civile al quale si ispira il Codice, i mezzi di
impugnazione si distinguono in relazione alle seguenti variabili principali: che legittimati a proporli
siano solo le parti del processo o anche soggetti terzi; che il giudice legittimato a conoscere
dell’impugnazione sia un giudice sovraordinato o lo stesso; che i motivi siano tipizzati o a critica
libera; che il mezzo di impugnazione abbia solo la fase rescindente o anche una fase rescissoria;
che debbano essere esperiti entro un temine certo decorrente dalla pubblicazione o notificazione
della sentenza (mezzi ordinari) o senza termine o con un termine decorrente da quando la parte ha
preso conoscenza del vizio (mezzi straordinari).
Il Codice contiene una disciplina articolata dei mezzi di impugnazione, che prima erano disciplinati
in modo incompleto.
In primo luogo enuncia il principio di tipicità dei mezzi di impugnazione. L’elenco tassativo
contenuto nell’art 91 include: appello, revocazione, opposizione di terzo e ricorso per Cassazione.
Non è considerato mezzo di impugnazione nel processo amministrativo il regolamento di
competenza, che viene deciso dal Consiglio di Stato su istanza di parte o con ordinanza del Tar.
Non è considerato mezzo di impugnazione neppure il regolamento preventivo di giurisdizione,
perché viene proposto prima che il Tar si pronunci sulla controversia; e ciò a differenza del ricorso
per cassazione per motivi di giurisdizione che è proposto avverso le sentenze del Consiglio di Stato.
In secondo luogo, il Codice pone una disciplina che si ispira alla unità oggettiva e soggettiva del
processo d’impugnazione —> persegue l’obiettivo di una tendenziale identità del processo di
impugnazione rispetto al processo sfociato nella sentenza impugnata, sia per quanto riguarda le
parti sia per l’oggetto.
Iniziando dalle parti, l’impugnazione della sentenza deve essere notificata a tutte le parti in causa
del giudizio precedente, così da evocarle nel giudizio instaurato, quando si tratti di una causa
inscindibile o di cause dipendenti. Negli altri casi deve essere notificata solo alle parti che hanno
interesse a contraddire.
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La causa è inscindibile quando nel giudizio concluso con la sentenza “si è avuta una pluralità di
parti intorno a un unico oggetto del processo”; nel processo amministrativo ciò accade tipicamente
nel caso di giudizio nel quale sono coinvolti uno o più controinteressati.
La causa è invece scindibile quando un’unica sentenza si pronuncia su una pluralità di ricorsi
proposti in parallelo da una pluralità di ricorrenti che si ritrovano nella medesima posizione.
La legittimazione a esperire il mezzo di impugnazione è legata alla soccombenza, senza la quale
non sussiste un interesse processuale. La soccombenza consiste, per la parte ricorrente, nel
mancato accoglimento delle proprie domande; per l’amministrazione resistente viceversa
nell’accoglimento parziale delle domande proposte dal ricorrente o nel difetto delle proprie
eccezioni o domande. La soccombenza può essere totale o parziale e, di fronte a domande o
eccezioni incrociate, può essere reciproca.
Quanto agli aspetti procedurali, il Codice disciplina in via generale i termini per le impugnazioni
prevedendo in particolare che l’impugnazione deve essere notificata alle parti nel termine
perentorio di 60 gg decorrenti dalla notificazione della sentenza ovvero nel cd “termine lungo” di 6
mesi dalla pubblicazione della sentenza.
Non è mai ammessa la difesa personale in giudizio.
Quanto alle misure cautelari, possono essere disposte su istanza di parte dal giudice
dell’impugnazione.
Alle impugnazioni si applicano, in base al cd rinvio interno, le disposizioni relative al processo di
primo grado ove non espressamente derogate.
L’unità oggettiva del processo di impugnazione è garantita in primo luogo dalla regola secondo la
quale tutte le impugnazioni proposte separatemene contro la stessa sentenza devono essere
riunite realizzando così il simultaneus processus. È una riunione che, a differenza di quanto
accade nel giudizio di primo grado, è obbligatoria. Peraltro in caso di mancata riunione, la
decisione intervenuta su una impugnazione non determina l’improcedibilità delle altre.
La riunione delle impugnazioni su iniziativa del giudice dovrebbe essere comunque un’ipotesi
residuale poiché anche nel processo amministrativo si applicano le regole generali sulla
impugnazione incidentale. Va precisato preliminarmente che l’impugnazione incidentale
presuppone una soccombenza parziale reciproca; in caso di accoglimento o rigetto integrale del
ricorso introduttivo del giudizio (soccombenza integrale) invece la parte contro la quale è proposta
l’impugnazione può costituirsi nel giudizio svolgendo le difese volte a confutare le argomentazioni
della controparte e non vi è spazio per impugnazioni di tipo incidentale.
L’art 333 cpc stabilisce che le parti alle quali è notificato un mezzo di impugnazione “debbono
proporre a pena di decadenza le loro impugnazioni in via incidentale nello stesso processo”; l’art
334 cpc prevede l’impugnazione incidentale tardiva, ma in questo caso è condizionata all’esito
dell’impugnazione principale.
Un esempio di impugnazione incidentale può essere il caso di un provvedimento impugnato da
un’associazione della quale l’amministrazione resistente contesta la legittimazione a ricorrere
ritenendola priva dei requisiti di rappresentatività; se la sentenza respinge l’eccezione e nel
contempo respinge il ricorso nel merito, l’associazione può proporre appello principale mentre
l’amministrazione resistente può proporre appello incidentale: l’interesse a proporre appello
incidentale sorge solo in conseguenza della proposizione dell’appello principale perché
l’amministrazione in primo grado è risultata nella sostanza vittoriosa (appello incidentale
“proprio”).
Un altro esempio può essere il caso di un provvedimento sanzionatorio impugnato dal trasgressore
che contesta in via principale la sussistenza dell’illecito e in via subordinata la quantificazione
della sanzione pecuniaria. Si ipotizzi la soccombenza parziale reciproca cioè una sentenza che
respinge la domanda principale e accoglie la domanda subordinata riducendo la sanzione. In questo
caso entrambe le parti hanno interesse a impugnare la sentenza, mapotrebbero anche ritenere
conveniente non impugnare. Peraltro se una parte propone appello, allora l’altra parte potrebbe
rivalutare la situazione e proporre appello incidentale, di fronte al rischio che l’appello principale
venga accolto. Questo tipo di appello incidentale è definito come
“improprio” perché l’interesse a ricorrere nasce direttamente dalla sentenza: è nella sostanza un
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appello autonomo che ha la medesima natura di quello principale e “incidentale” è solo la tecnica
con la quale viene attivata l’impugnazione.
L’impugnazione incidentale si distingue in tempestiva o tardiva a seconda che l’impugnazione
incidentale sia proposta prima o dopo la scadenza del termine ordinario di impugnazione; la
tempestività o tardività rileva in modo diverso a seconda che si tratti di un appello incidentale
proprio o improprio. Nel primo caso l’impugnazione tardiva mira a garantire un termine congruo
alla parte che lo propone ove l’appellante principale notifichi il proprio ricorso a ridosso della
scadenza del termine ordinario di impugnazione. Nel secondo caso l’impugnazione tardiva ha la
funzione specifica di garantire a ciascuna parte che se l’altra impugna la decisione a leifavorevole,
essa può rimettere in discussione la decisione che le è sfavorevole: se non fosse ammessa
l’impugnazione incidentale tardiva le parti si vedrebbero costrette a proporre impugnazione prima
ancora di poter sapere se le altre parti impugneranno o meno.
Se l’appello incidentale improprio è proposto tardivamente esso segue in base all’art 334 cpc,
così come accade per quello proprio, la sorte dell’appello principale e pertanto l’inammissibilità di
quest’ultimo determina l’inammissibilità del primo. Se invece l’appello incidentale improprio è
tempestivo, proprio perché è autonomo, la sua sorte non è legata a quello dell’appello principale:
il carattere tempestivo o tardivo dell’impugnazione ha quindi un rilievo specifico.
Nel diritto amministrativo l’impugnazione incidentale deve essere proposta entro il termine
ordinario di impugnazione, cioè in particolare entro 60 gg dalla notificazione della sentenza; se
peraltro interviene prima la notificazione di un’altra impugnazione, i 60 gg decorrono da
quest’ultima notifica.
Le impugnazioni incidentali possono essere proposte contro lo stesso capo di sentenza oggetto
dell’impugnazione principale ma anche contro altri capi di sentenza.
Sulla nozione di “capo di sentenza” è aperto un dibattito dottrinale tra chi lo interpreta in modo
più o meno esteso, anche se prevale nella giurisprudenza l’orientamento a riferirla a ogni
questione sulla quale vi è una pronuncia espressa.
L’appello
Il giudizio di appello attua il principio del doppio grado di giurisdizione. Esso è stato
compiutamente realizzato con l’istituzione dei Tar nel 1971.
L’appello ha le seguenti specificità: può essere proposto solo dalle parti del giudizio di primo
grado; investe un giudice sovraordinato; è a critica tendenzialmente libera; è strutturato di regola
in una sola fase rinnovatoria finalizzata a un riesame della controversia e all’emanazione di una
nuova sentenza che si sostituisce a quella di primo grado; va proposto entro termini decorrenti
dalla pubblicazione o notificazione della sentenza.
Le parti legittimate a proporre appello sono quelle “fra le quali è stata pronunciata la sentenza di
primo grado”. Il criterio è dunque formale e non sostanziale, nel senso che non include eventuali
parti necessarie pretermesse in primo grado; queste ultime hanno a disposizione come mezzo di
impugnazione l’opposizione di terzo.
Anche l’interventore può proporre appello “se titolare di una posizione giuridica autonoma”. Un
esempio può essere quello di una impugnazione proposta da alcuni residenti in una zona limitrofa
a un’area oggetto di una variante urbanistica che qualifica tale area come edificabile; nel giudizio
di primo grado proposto contro le delibere comunali e regionali intervengono ad opponendum
alcune società proprietarie di terreni divenuti edificabili in quanto rientranti nell’area o ggetto della
variante: se la sentenza accoglie il ricorso, le società intervenute ad opponendum sono legittimate
a proporre appello anche qualora il comune e la regione non la propongano.
L’appello si propone innanzi a un giudice sovraordinato. Infatti l’art 100 precisa che avverso le
sentenze dei Tar è ammesso appello al Consiglio di Stato, con l’eccezione di quelli emessi dal Tar
Sicilia per i quali è competente il Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana.
La parte soccombente è tenuta a proporre l’appello entro i termini ordinari previsti per i mezzi di
impugnazione.
Nel caso di sentenza non definitiva, la parte soccombente può rinviare la proposizione dell’appello
a dopo l’emanazione della sentenza definitiva (che risolve cioè solo alcuni aspetti della
controversia), ma deve notificare entro i termini la cd riserva facoltativa di appello.
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L’appello ha carattere rinnovatorio del giudizio di primo grado e dunque il giudice di appello
risolve la controversia e emana una sentenza che è simile quanto a possibili contenuti rispetto a
quella emanata dal giudice di primo grado. In base al principio devolutivo, l’appello è una
impugnazione sostitutiva che di regola conduce a una sentenza che ridefinisce integralmente la
causa pendente.
Solo in casi tassativi il Consiglio di Stato non si pronuncia sulla controversia ma, rilevato un vizio
della sentenza appellata, annulla la sentenza e rimette la causa al giudice di primo grado. I casi di
rimessione al giudice di primo grado sono: mancanza di contraddittorio; lesione del diritto di
difesa (ad es mancata notifica o integrazione del contraddittorio); nullità della sentenza; riforma
della sentenza o dell’ordinanza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla
competenza; estinzione o perenzione del giudizio.
Secondo la giurisprudenza “le ipotesi di annullamento con rinvio hanno carattere tassativo e natura
eccezionale, perché rappresentano una deroga a principio devolutivo dell’appello”.
Anche al processo amministrativo si applicano i principi relativi ai cdd effetti espansivi della
sentenza di appello che valgono per il processo civile: la riforma parziale della sentenza ha effetto
anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata (effetto espansivo interno) nonché sui
provvedimenti e atti dipendenti della sentenza riformata (effetto espansivo esterno). Si prendaper
esempio il caso di una stazione appaltante che revoca l’aggiudicazione disposta a favore di
un’impresa che ha una posizione contributiva irregolare e procede all’aggiudicazione a favore
della seconda classificata: se la sentenza del Tar respinge il ricorso, ma viene riformata in sede di
appello, la sentenza di appello travolge automaticamente l’aggiudicazione disposta a favore della
seconda classificata e il contratto stipulato.
La revocazione
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A maggior ragione non va confuso con un errore di diritto (ad es aver sovvertito l’ordine di esame
delle questioni posticipando la questione di giurisdizione rispetto a quelle di rito).
L’errore di fatto revocatorio deve poi riguardare un punto non controverso e sul quale il giudice
non abbia espressamente motivato. Deve inoltre essere di immediata rilevabilità sulla base di una
piana e semplice lettura degli atti di causa e della sentenza.
Deve trattarsi infine di un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un
rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa.
In base a questi criteri la lettura e l’interpretazione di documenti di causa appartiene
all’insindacabile valutazione del giudice e non può essere considerata un errore di fatto perché ciò
significherebbe “trasformare lo strumento revocatorio in un inammissibile terzo grado di giudizio”.
Si configura invece come un errore di fatto revocatorio allorché è mancata nella sentenza
revocanda l’esatta percezione dei dati documentali, ossia in caso di falsa percezione. Può
costituire un errore revocatorio, in base a una interpretazione estensiva, anche l’omessa
pronuncia su domande, eccezioni, istanze o motivi anche di appello.
Nei rapporti tra appello e revocazione, vale il principio di prevalenza del primo poiché contro le
sentenze dei Tar è ammessa la revocazione solo se i motivi non possono essere dedotti con
l’appello, poiché quest’ultimo è un rimedio generale a più ampio spettro.
Anche nel processo amministrativo vige la regola secondo la quale contro la sentenza emessa nel
giudizio di revocazione sono ammessi gli stessi mezzi di impugnazione ai quali era soggetta la
sentenza revocata. Inoltre non può più essere impugnata per revocazione, al fine di evitare che le
liti possano prolungarsi potenzialmente all’infinito. In realtà la giurisprudenza ritiene che in un
unico caso eccezionalissimo possa essere proposto un ricorso per revocazione avverso unasentenza
emessa in un precedente giudizio di revocazione: si tratta del caso in cui il giudizio di revocazione
si è concluso con una sentenza di mero rito senza entrare nel merito dell’errore revocatorio
denunciato e la statuizione di inammissibilità si sia basata su un errore di fatto denunciato nel
nuovo giudizio di revocazione.
L’opposizione di terzo
È stata introdotta nel processo amministrativo per effetto di una sentenza della Corte
costituzionale (1995). Oggi trova nel Codice una disciplina che ricalca quella del cpc, prevedendo
sia l’opposizione ordinaria sia quella revocatoria.
In termini generali, trova giustificazione nel fatto che, sebbene la sentenza passata in giudicato
non produce effetti nei confronti di coloro che non sono stati parti del giudizio, si possono
presentare casi nei quali si determina una obiettiva incompatibilità tra la situazione giuridica
definita dalla sentenza e quella di cui sia titolare un soggetto terzo rispetto ai destinatari.
Ha le seguenti particolarità: è proposta da un soggetto che non è stato parte del giudizio; si
esperisce dinanzi allo stesso giudice; è tesa a eliminare la sentenza; non è soggetta a termine
(opposizione ordinaria) o a un termine decorrente dalla scoperta del dolo o della collusione
(opposizione revocatoria).
Soggetto legittimato a proporre questa impugnazione è il terzo nel caso in cui “la sentenza
pronunciata tra altri soggetti, ancorché passata in giudicato, pregiudica i suoi diritti o interessi
legittimi”.
La questione principale è dunque individuare le situazioni alle quali si riferisce la disposizione.
La giurisprudenza anche antecedente al Codice aveva già individuato quelle principali: i
controinteressati pretermessi; i ccdd controinteressati sopravvenuti, che siano stati destinatari di
un atto consequenziale rispetto a quello oggetto dell’impugnazione e poi annullato; i
controinteressati non facilmente identificabili; i terzi titolari di una situazione autonoma e
incompatibile.
Esempio di controinteressato sopravvenuto —> si pensi a un farmacista assegnatario di una sede
farmaceutica all’esito di un concorso straordinario; tale sede viene soppressa per effetto di una
sentenza che accoglie il ricorso proposto (in data antecedente a tale assegnazione) da un altro
farmacista per contestare l’inclusione della stessa sede nell’atto di pianificazione delle sedi.
Esempio di titolare di una situazione giuridica autonoma e incompatibile —> si pensi al caso di un
partecipante a un concorso pubblico risultato idoneo nella graduatoria finale, ma che viene
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L’art 111 ultimo comma Cost prevede che il ricorso in Cassazione contro le sentenze del
Consiglio di Stato “è ammesso per soli motivi inerenti alla giurisdizione”.
Letto in negativo tale articolo esclude che il ricorso innanzi alla Corte di cassazione possa essere
proposto per violazione o falsa applicazione delle norme di diritto. Pertanto la Corte di cassazione
non può sovrapporsi al giudice amministrativo nell’interpretazione delle leggi che quest’ultimo
applica e esercitare una funzione nomofilattica, che invece è svolta dall’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato.
È una disposizione chiave nel sistema della giustizia amministrativa, che consolida il modello del
dualismo non paritario tra le giurisdizioni, visto che è l’organo di vertice della magistratura
ordinaria (le SSUU della Corte di cassazione) a stabilire i confini della giurisdizione del giudice
amministrativo.
In particolare, con riguardo agli interessi legittimi devoluti alla giurisdizione del giudice
amministrativo, la Corte di cassazione da un lato può tracciare il discrimine tra interesse legittimo
e diritto soggettivo; dall’altro può operare la selezione dell’interesse legittimo rispetto all’interesse
di fatto, nei confronti del quale nessun giudice ha giurisdizione.
Con riguardo invece ai diritti soggetti devoluti alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, la Corte di cassazione può stabilire in via interpretativa i limiti di ciascuna materia
devoluta al giudice amministrativo; inoltre ove la Corte ritenga violati i parametri costituzionali così
come interpreti dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (in particolare nella sentenza
204/2004), può sollevare questione di legittimità costituzionale della legge.
A precisare i limiti del sindacato della Corte di cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato è
intervenuta la Corte costituzionale che ha offerto una nozione restrittiva dei motivi inerenti alla
giurisdizione, salvaguardando così un’ampia autonomia dell’organo di vertice della giurisdizione
amministrativa (Consiglio di Stato) nell’interpretazione del diritto applicato (sent 6/2018).
L’autonomia del giudice amministrativo stava infatti subendo un’erosione a causa della tendenza
della Cassazione a ampliare la nozione di motivi inerenti alla giurisdizione facendovi rientrare
anche casi di sentenze “abnormi”, “anomale”. Secondo la Corte costituzionale invece “attribuire
rilevanza al dato qualitativo della gravità del vizio è, sul piano teorica, incompatibile con la
definizione degli ambiti di competenza e, sul piano fattuale, foriero di incertezze, in quanto
affidato a valutazioni contingenti e soggettive”.
L’interpretazione costituzionalmente corretta include tra i motivi inerenti alla giurisdizione
denunciabili in Cassazione solo 3 casi: a) difetto assoluto di giurisdizione, cioè quando il Consiglio
di Stato afferma la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all’amministrazione (cd
invasione o sconfinamento); b) quando il Consiglio di Stato nega la giurisdizione sull’erroneo
presupposto che la materia non può formare oggetto di cognizione giurisdizionale (cd
arretramento); c) quando il giudice amministrativo afferma la propria giurisdizione su materia
attribuita a altra giurisdizione ovvero al contrario la nega sull’erroneo presupposto che appartenga
a altri giudici (difetto relativo di giurisdizione).
Così non costituisce motivo inerente alla giurisdizione, per esempio, il vizio di ultrapetizione.
La Corte di cassazione si è adeguata all’interpretazione restrittiva. Peraltro ha rinviato alla CGUE
la questione interpretativa della ricorribilità in Cassazione delle sentenze del Consiglio di Stato
contrastanti col diritto europeo. Almeno questo tipo di contrasto, secondo la Cassazione, va
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qualificato come difetto assoluto di giurisdizione del giudice amministrativo che applicando in
modo errato il diritto europeo in realtà esercita un potere giurisdizionale di cui è radicalmente
privo poiché pone in essere un’attività di diretta produzione normativa non consentita neppure al
legislatore nazionale.
Il Codice non contiene una disciplina speciale del ricorso in Cassazione, se non per precisare che
la sospensione cautelare va richiesta al Consiglio di Stato. Per tutto il resto si applicano le regole
generali previste per i mezzi di impugnazione e, in base al rinvio esterno, il cpc.
Quanto agli esiti del giudizio, ove la Corte di cassazione ritiene che nessun giudice sia investito
della giurisdizione, cassa senza rinvio la sentenza. Se ritiene invece che la giurisdizione spetti al
giudice ordinario, il giudizio deve essere riassunto innanzi a quest’ultimo entro il termine
perentorio di 6 mesi, in base al principio della translatio judicii.
Per completezza va ricordato che se la Corte di cassazione, all’esito di un giudizio di impugnazione
di una sentenza pronunciata da un giudice diverso dal giudice amministrativo, conclude che
quest’ultimo sia investito della giurisdizione, la causa va riassunta innanzi al giudice
amministrativo, sempre in base al principio della translatio judicii entro 3 mesi.
IL GIUDICATO E L’OTTEMPERANZA
L’effettività della tutela giurisdizionale è pienamente garantita solo se il ricorrente che ha ottenuto
una sentenza favorevole riesce a conseguire tutte le utilità che gli spettano anche nel caso in cui
la pa soccombente non ponga in essere spontaneamente le attività esecutive necessarie. Occorre
dunque analizzare i temi del giudicato amministrativo e del giudizio di esecuzione.
Il giudicato amministrativo, come nel processo civile, va inteso in due accezioni: giudicato in senso
formale e in senso sostanziale.
Quanto al giudicato in senso formale la sentenza del giudice amministrativo passa in giudicato
quando contro di essa non sono esperibili i mezzi di impugnazione ordinaria.
Il giudicato in senso formale costituiva in passato un presupposto indispensabile per proporre il
giudizio di ottemperanza. Il giudizio di esecuzione pertanto non era esperibile né nei confronti
delle sentenze di primo grado (che la l istitutiva dei Tar qualificava come esecutive), né nei
confronti di quelle emanate in sede di appello, anch’esse immediatamente esecutive e ciò in
quanto in entrambi i casi si riteneva mancante il massimo grado di certezza assicurato dal giudicato
formale. Questa interpretazione restrittiva aveva dato adito a critiche poiché contrastante con
l’effettività della tutela giurisdizionale: l’esecutività delle sentenze non passate in giudicato prevista
per legge restava sprovvista di strumenti di garanzia nei confronti delle amministrazioni rimaste
inadempienti.
Già prima del Codice la legge 205/2000 ampliò la tutela esecutiva con una disposizione secondo la
quale “per l’esecuzione delle sentenze non sospese dal Consiglio di Stato, il Tar esercita i poteri
inerenti al giudizio di ottemperanza al giudicato”.
Questa impostazione trova conferma nel Codice del processo amministrativo che annovera tra i
provvedimenti giurisdizionali suscettibili di essere oggetto del giudizio di ottemperanza le
sentenze esecutive e gli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo. La nozione di
giudicato formale perde così rilevanza pratica ai fini dell’ammissibilità del giudizio di ottemperanza
Il giudicato sostanziale consiste nell’indiscutibilità della esistenza della volontà concreta della
legge affermata nella sentenza e nella immutabilità della sentenza. Destinato a fare stato a ogni
effetto è l’accertamento contenuto nella sentenza, che diventa obbligatorio per il giudice in
qualsiasi futuro giudizio. La cosa giudicata esplica i suoi effetti essenzialmente al di fuori del
processo e contiene la preclusione a rimettere in discussione la questione oggetto della sentenza
formalmente passata in giudicato.
Nei casi in cui quest’ultima abbia la consistenza di un diritto soggettivo che il giudice
amministrativo può conoscere nell’ambito della giurisdizione esclusiva, il giudicato in senso
sostanziale è retto essenzialmente dai principi civilistici in tema di limiti oggettivi, soggettivi e
cronologici (principio sancito dall’art 2909 cc, la regola per cui il giudicato copre il dedotto e il
deducibile…)
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Come già visto, la sentenza di accoglimento del giudice amministrativo determina non soltanto un
effetto di annullamento, ma anche l’effetto ripristinatorio e quello conformativo: essi concorrono a
definire i limiti oggettivi del giudicato e vanno considerati, prima ancora che come effetti della
sentenza, come elementi del contenuto di accertamento della sentenza idoneo “a fare stato” a
ogni effetto tra le parti ex art 2909 cc.
In origine la dottrina tendeva addirittura a escludere che il giudicato amministrativo precludesse
all’amministrazione il potere di reiterare l’atto annullato ancorché affetto dagli stessi vizi poiché
non si può ammettere “che un potere sovrano quale è quello spettante alla pubblica
amministrazione, sottostia a un limite dell’azione futura”.
In epoca successiva la dottrina aveva enunciato la tesi secondo la quale la sentenza del giudice
amministrativo ha un valore solo indiretto nei confronti dell’amministrazione che esercita il proprio
potere in seguito all’annullamento giudiziale, vale cioè come “fatto” integrando soltanto una
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circostanza che l’amministrazione non può ignorare in sede di riesercizio del potere, pertanto ove
l’amministrazione non ottemperi al giudicato il nuovo provvedimento è viziato da eccesso di
potere.
Al di là di ogni altra considerazione teorica, l’art 21 septies legge 241/1990 recependo gli
orientamenti della giurisprudenza amministrativa più recente, qualifica come nullo il
provvedimento amministrativo adottato in violazione o elusione del giudicato, con ciò stesso
riconoscendo l’esistenza di un vincolo giuridico diretto sorgente dalla sentenza passata ingiudicato
nei confronti del potere dell’amministrazione.
Secondo un’altra ricostruzione (Mario Nigro) recepita via via dalla giurisprudenza il giudicato
amministrativo produce un effetto nei confronti dell’amministrazione che può essere quanto a
portata oggettiva a seconda dei casi, un effetto vincolante pieno, semipieno o secondario.
L’effetto vincolante è pieno allorché in particolare l’atto viene annullato perché mancavano i
presupposti soggettivi o oggettivi previsti dalla norma di conferimento del potere oppure perché
all’emanazione di un nuovo provvedimento è comunque decorso il termine perentorio entro il
quale il potere doveva essere esercitato: in questi casi l’amministrazione non può emanare un
nuovo provvedimento sostitutivo di quello annullato.
L’effetto vincolante è semipieno allorché il vizio accertato riguarda uno solo degli elementi
discrezionali dell’atto di modo che in sede di riesercizio del potere l’amministrazione vede limitata
ma non esclusa del tutto la propria discrezionalità.
L’effetto vincolante è secondario allorché l’annullamento dipenda dall’accertamento di un vizio di
incompetenza o di un vizio formale o procedurale così che l’amministrazione in sede di riesercizio
del potere è tenuta solo a eliminare il vizio e non è vincolata quanto al contenuto del nuovo
provvedimento che può essere anche identico a quello del provvedimento annullato.
Se si escludono i casi di effetto vincolante pieno il giudicato amministrativo lascia dunque in capo
all’amministrazione “spazi liberi” talvolta assai estesi. La regola circa la futura azione
amministrativa desumibile dagli effetti ripristinatorio e conformativo è spesso implicita, elastica,
condizionata e incompleta: implicita in quanto si desume a contrario dal vizio o dai vizi accertati
dalla sentenza; elastica almeno in parte perché l’attività di ripristinazione che comporta
l’eliminazione degli stati di fatto e di diritto determinatisi in seguito all’emanazione del
provvedimento annullato richiede all’amministrazione valutazioni talora complesse e in alcuni casi
la ripristinazione può risultare in concreto impossibile; condizionata all’inesistenza di
sopravvenienze di fatto e di diritto delle quali l’amministrazione è tenuta a tener conto; incompleta
perché era riguarda esclusivamente i tratti di azione amministrativa sottoposti all’esame del
giudice i quali spesso non esauriscono l’intera vicenda.
Quanto alla ampiezza dell’accertamento, il contenuto di accertamento della sentenza può essere
più o meno ampio a seconda delle scelte delle parti e del giudice.
In primo luogo il possibile contenuto di accertamento della sentenza è condizionato già
dall’andamento del procedimento e dal contenuto del provvedimento impugnato: se questo è stato
assunto all’esito di un’istruttoria completa con la partecipazione attiva dei soggettiinteressati e
dà conto in modo esaustivo dei fondamenti del potere esercitato e delle risultanze dell’istruttoria,
il ricorrente è in grado di formulare una gamma più completa di motivi in modo tale da sottoporre al
giudice un più ampio materiale di cognizione.
In secondo luogo l’individuazione dei motivi enucleati dal ricorrente nell’atto introduttivo
condiziona l’ampiezza dell’oggetto del giudizio.
In terzo luogo il giudice amministrativo è tenuto, in linea di principio, a esaminare tutti i motivi di
ricorso, senza operare il cd assorbimento dei motivi che riduce il contenuto di accertamento.
Su questo aspetto va considerata una modifica recente all’art 10 bis della l 241/1990 (cd preavviso
di diniego) in base al quale l’amministrazione prima dell’emanazione di un provvedimento di
rigetto è tenuta a comunicare all’interessato i motivi ostativi; il dl 76/2020 ha integrato l’art 10
bis inducendo l’amministrazione a esplicitare nel provvedimento tutti i motivi ostativi, infatti
“nell’esercitare nuovamente il suo potere, l’amministrazione non può addurre per la prima volta motivi
ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato”.
Resta da vedere peraltro se l’amministrazione resta comunque titolare del potere di autotutela e
può dunque annullare d’ufficio il provvedimento favorevole sulla base dell’illegittimità correlata ai
motivi di diniego oggetto della preclusione. Prima dell’introduzione della disposizione la
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diritto a qualsiasi modifica, cosi precludendo la possibilità di modifiche normative. In realtà, nel
caso di situazioni giuridiche durevoli la rilevanza delle sopravvenienze è giustificata per il fatto che
esse determinano non un conflitto ma una successione cronologica d regole che disciplinano la
situazione giuridica medesima, nel senso che la regola posta dalla sentenza passata in giudicato
è superata dalla regola posta da una nuova disposizione normativa.
In termini generali, la tutela giurisdizionale esecutiva può essere prevista in forme indirette,
consistenti in misure coercitive, ovvero dirette, consistenti nella sostituzione dell’inattività
dell’obbligato con l’attività dell’ufficio esecutivo.
La tutela esecutiva nei confronti della pa solleva un problema specifico. Infatti nelle controversie
tra soggetti privati il giudice, espressione di uno dei poteri dello Stato, attribuisce il torto e la
ragione a due soggetti privati. Le controversie nelle quali una parte è la pa, invece, involgono pur
sempre due poteri dello Stato, quello giudiziario e quello esecutivo, che in base al principio della
separazione de poteri, godono di ambiti e prerogative proprie.
Si spiega cosi da un lato perché nel nostro ordinamento la tutela giurisdizionale esecutiva nei
confronti della pa si è affermata lentamente e con numerose incertezze; dall’altro lato perché
alcuni ordinamenti privilegiano rimedi di tipo indiretto meno invasivi delle prerogative proprie del
potere esecutivo anche se potenzialmente meno efficaci.
Il nostro ordinamento si è mosso sin dall’inizio lungo la direttrice di privilegiare il cd giudizio di
ottemperanza che garantisce un livello elevato di effettività consentendo al giudice di adottare
anche misure di tipo sostitutivo anche laddove residuino in capo all’amministrazione spazi di
discrezionalità.
Quanto alle origini della tutela esecutiva, la legge abolitrice del contenzioso amministrativo
vietava al giudice ordinario di annullare o modificare l’atto amministrativo lesivo di un diritto civile
o politico; il comma 2 stabiliva peraltro che le amministrazioni “si conformeranno al giudicato dei
tribunali in quanto riguarda il caso deciso” ponendo in capo ad esse un obbligo giuridico di
ottemperare al giudicato. Un siffatto obbligo comportava la rimozione del provvedimento che il
giudice aveva qualificato come illegittimo, ma si trattava però di un obbligo incoercibile perché
non era accompagnato da nessuno strumento atto a garantirne l’effettiva osservanza.
Nel 1889 la legge pose rimedio a questa lacuna, includendo tra i casi di giurisdizione estesa al
merito “i ricorsi diretti a ottenere l’adempimento dell’obbligo dell’autorità amministrativa di
conformarsi, in quanto riguarda il caso deciso, al giudicato dei Tribunali che abbia riconosciuto la
lesione di un diritto civile o politico”. Nell’ambito del cd giudizio di ottemperanza, il giudice
amministrativo veniva investito di una giurisdizione di merito così da consentire interventi di tipo
sostitutivo nei confronti dell’amministrazione rimasta inerte pur essendo soccombente in un
giudizio civile
La legge del 1889 non introdusse alcuna forma di tutela giurisdizionale esecutiva riferita alla
neoistituita giurisdizione amministrativa. Infatti poiché quest’ultima venne costruita come una
giurisdizione di mero annullamento di atti amministrativi illegittimi non sembrava esservi uno
spazio per un giudizio di tipo esecutivo: la retroattività dell’annullamento comportava di per se la
rimozione ab origine dell’illegittimità accertata con ciò ripristinando integralmente, almeno da un
punto di vista squisitamente formale, la situazione quo ante. A conferma di ciò il regolamento di
procedura stabiliva che la sentenza dovesse contenere come elemento formale anziché la formula
esecutiva tipica delle sentenze del giudice civile, l’adone che essa “sia eseguita dall’autorità
amministrativa”; precisava inoltre che “l’esecuzione delle decisioni si fa in via amministrativa
eccetto che per la parte relativa alle spese”.
La possibilità di esperire il giudizio di ottemperanza come rimedio esecutivo nei confronti delle
sentenze del giudice amministrativo fu il frutto di una svolta giurisprudenziale che risale agli anni
’20 del secolo scorso.
Inizialmente il Consiglio di Stato limitò una siffatta estensione del giudizio di ottemperanza alla
tutela dei diritti soggettivi sottoposti alla sua cognizione nell’ambito della giurisdizione esclusiva.
Di li a poco il Consiglio di Stato consentì l’esperimento del rimedio anche con riguardo agli interessi
legittimi. L’elaborazione giurisprudenziale proseguì anche attraverso la creazione del
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commissario ad acta delegato dal giudice amministrativo a porre in essere le operazioni e gli atti
in luogo dell’amministrazione inottemperante.
L’evoluzione giurisprudenziale fu confermata dal legislatore che introdusse alcune regole oggi
riprese anche dal Codice volte a stabilire se i ricorsi diretti a ottenere l’adempimento dell’obbligo
dell’autorità amministrativa di conformarsi al giudicato degli organi di giustizia amministrativa
rientrino nella competenza del Consiglio di Stato o del Tar.
La disciplina del procedimento e dei poteri del giudice dell’ottemperanza continuava a essere
disciplinata dalle scarne disposizioni del Regolamento di procedura dinanzi al Consiglio di Stato
Il Codice dedica al giudizio di ottemperanza il Titolo I del Libro quarto (artt 112 ss) che disciplina
anche i riti speciali. Rispetto al quadro normativo previgente il Codice valorizza il giudizio di
ottemperanza in particolare ampliando i casi nei quali il ricorso può essere proposto, prevedendo
che in esso possono essere proposte anche alcune azioni di condanna, ampliando la tipologia delle
misure che il giudice può disporre.
Il Codice instaura anche un nesso più stretto tra giudizio di cognizione e giudizio di esecuzione
perché in caso di accoglimento del ricorso il giudice può disporre subito anche le misure idonee
ad assicurare l’attuazione del giudicato imponendo dunque all’amministrazione modalità più
precise su come eseguire la sentenza.
Il giudizio di ottemperanza si atteggia in modo diverso a seconda che si tratti di sentenze emesse
dal giudice ordinario o dal giudice amministrativo.
Nel caso delle sentenze del giudice ordinario, il giudizio di ottemperanza costituisce il rimedio
specifico per rendere effettivo l’obbligo di conformarsi al giudicato posto dall’art 4 l 2248/1865 all
E e cioè di rimuovere l’atto amministrativo illegittimo.
Il giudizio di ottemperanza previsto da questa disposizione costituisce un rimedio che si aggiunge
e integra gli ordinari strumenti esecutivi previsti nel Libro III del cpc.
In linea di principio infatti per l’esecuzione delle sentenze civili di condanna aventi ad oggetto il
pagamento di somme di denaro o di altre prestazioni specifiche nei limiti più ristretti entro cui esse
sono ammesse nei confronti della pa sono azionabili i rimedi esecutivi ordinari. Peraltro
l’ordinamento prevede a favore della pa norme speciali e deroghe al diritto comune (ad es divieti
di pignoramento di somme aventi destinazioni particolari) e comunque in molti casi l’esecuzione
della sentenza del giudice ordinario richiede da parte dell’amministrazione l’adozione di
provvedimenti amministrativi: in questi casi gli strumenti dell’esecuzione civile si rivelano inidonei
a garantire l’attuazione del giudicato.
Sorge pertanto la necessità di ammettere in via concomitante o alternativa il giudizio di
ottemperanza che consente al giudice amministrativo direttamente o tramite un commissario ad
acta di porre in essere in luogo dell’amministrazione tutti gli adempimenti e gli atti necessari per
soddisfare le pretese della parte privata.
Presupposto indispensabile per poter instaurare il giudizio di ottemperanza è che la sentenza del
giudice ordinario sia passata in giudicato.
Il giudizio di ottemperanza è esperibile anche con riferimento al decreto ingiuntivo esecutivo. Le
Va precisato innanzitutto che deve trattarsi di sentenze di accoglimento che possono essere a
seconda che si ricada nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità o nell’ambito della
giurisdizione esclusiva.
Peraltro non necessitano di un giudizio di ottemperanza le sentenze di annullamento
autoapplicative, cioè immediatamente satisfattive della pretesa del ricorrente che non richiedono
alcuna attività esecutiva da parte dell’amministrazione soccombente (ad es annullamento della
dichiarazione di pubblica utilità di un’opera).
È da escludere che il giudizio di ottemperanza possa essere proposto nei confronti di sentenze di
rigetto che dichiarano infondato il ricorso per l’annullamento di un provvedimento amministrativo
perché esse lasciano immodificata la situazione di fatto e di diritto venutasi a creare in seguito
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all’emanazione di quest’ultimo. L’infondatezza delle censure dedotte dal ricorrente accertata dalla
sentenza fa sorgere in capo all’amministrazione tutt’al più un divieto di procedere all’annullamento
d’ufficio in base ai vizi di legittimità che il giudice ha ritenuto non sussistenti.
Va parimenti escluso il giudizio di ottemperanza con riguardo ad altre sentenze di rigetto aventi
carattere esclusivamente processuale che non sono suscettibili di determinare un giudicato
esterno. Minori certezze sussistono con riferimento ad altri tipi di sentenze di rigetto che abbiano
una qualche valenza sostanziale (ad es quelle che si fondano su una certa interpretazione del
provvedimento).
Il giudizio di ottemperanza può essere proposto in una serie di casi tassativamente indicati dal
Codice che si aggiungono a quello più rilevante e cioè l’azione di ottemperanza proposta per
conseguire l’attuazione delle sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato.
Il giudizio di ottemperanza può essere esperito anche nei confronti di sentenze non passate
formalmente in giudicato e dunque anche nei confronti “delle sentenze esecutive e degli altri
provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo” (art 112.2 lett b). Il Codice precisa però che in
caso di accoglimento del ricorso il giudice determina le misure esecutive “tenendo conto degli
effetti che ne derivano”—> tali misure non devono produrre effetti tali da pregiudicare l’eventuale
esito diverso del giudizio di appello determinando situazioni di fatto irreversibili.
Il giudizio di ottemperanza può essere proposto anche con riferimento alla mancata esecuzione
delle sentenze dei giudici amministrativi speciali. Secondo l’art 112.2 lett d del Codice infatti il
giudizio di ottemperanza può essere esperito anche nei confronti delle sentenze “per le quali non
sia previsto il rimedio dell’ottemperanza al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo di
conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato”. La formulazione non è
immediatamente perspicua e può essere interpretata anche sulla scorta delle indicazioni
contenute nella relazione del Senato e nella relazione finale al testo normativo nel senso che essa
si riferisca sia alle pronunce dei giudici amministrativi speciali sia alle pronunce sul ricorso
straordinario al Presidente della Repubblica, un rimedio equiparato quasi del tutto al ricorso
giurisdizionale ordinario. E in effetti può essere ormai esperito, secondo la giurisprudenza, anche
con riferimento al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
Nell’ambito del giudizio di ottemperanza può essere anche proposta l’azione di condanna al
pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato
della sentenza e anche l’azione di risarcimento dei danni derivanti dalla mancata esecuzione,
violazione o elusione del giudicato (art 112.3). Si tratta di due azioni di cognizione sia pur ancillari
a un giudizio di esecuzione.
La versione originaria del Codice conteneva anche una disposizione che consentiva la proposizione
della domanda risarcitoria relativa ai danni prodotti dal provvedimento originario (art 112.4) ma
essa è stata soppressa, per l’esigenza di garantire sempre il doppio grado di giudizio inrelazione a
questo tipo di azione risarcitoria, garanzia che verrebbe meno nei casi in cui il giudizio di
ottemperanza si svolgesse innanzi al Consiglio di Stato.
Infine il ricorso per ottemperanza può essere proposto dalle parti del giudizio anche al fine di
ottenere chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza (art 112.5)
Il ricorso in questione non introduce un’azione di cognizione in senso proprio o di esecuzione ma
più semplicemente è uno strumento per chiarire la portata della sentenza da eseguire che può
essere utile per l’amministrazione e per le altre parti nel caso insorgano dubbi in sede di
esecuzione. Il giudice dell’ottemperanza può fornire chiarimenti anche al commissario ad acta
eventualmente nominato.
I quesiti oggetto della richiesta di chiarimenti devono avere i requisiti della concretezza e della
rilevanza, non potendosi sottoporre al giudice questioni astratte di interpretazione del giudicato,
ma solo questioni specifiche che siano effettivamente insorte durante la fase di esecuzione dello
stesso. La richiesta di chiarimenti configura un potere di interpretazione autentica del giudicato in
capo al giudice amministrativo ma non un potere di consulenza nei confronti delle parti pubbliche.
È sorta infine in giurisprudenza la questione se il giudizio di ottemperanza possa essere proposto
nel caso in cui la parte soccombente nel giudizio di cognizione e rimasta inerte sia costituita non
già da una pa di tipo tradizionale ma da un gestore privato di pubblici servizi o un soggetto privato
tenuto al rispetto del Codice dei contratti pubblici con riferimento alle controversie in
98
relazioni alle quali sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo. L’Adunanza Plenaria nel
2005 ha risolto in senso positivo la questione.
In ogni caso l’art 112.1 del Codice precisa che i provvedimenti del giudice devono essere eseguiti
oltre che dalla pa anche “dalle altre parti” ipotizzando dunque che soccombente possa essere
anche un soggetto privato.
esso conseguente o collegato. Non possono essere proposte domande che non siano contenute
nel decisum della sentenza da eseguire.
In ogni caso in sede di giudizio di esecuzione, non si può porre rimedio a negligenze e deficienze
difensive commesse nel corso del giudizio di cognizione e ciò perché altrimenti verrebbe
compromessa la certezza delle statuizioni giuridiche alla quale è preordinato il giudicato.
Il giudice dell’ottemperanza non può esimersi dal considerare le sopravvenienze di fatto e di
diritto successive alla pronuncia della quale viene chiesta l’ottemperanza e a tal riguardo si parla
di inottemperanza giustificata.
La natura del giudizio di ottemperanza risente delle incertezze che tuttora circondano il tema del
giudicato amministrativo.
Infatti vi è chi ha ricostruito il giudizio di ottemperanza come un giudizio “misto di cognizione e di
esecuzione” o meglio “un giudizio necessariamente di esecuzione ed eventualmente di
cognizione”; il momento della cognizione emerge soprattutto nei casi frequenti in cui la regola
posta dalla sentenza amministrativa è una regola implicita, elastica, incompleta. Spetta dunque al
giudice dell’ottemperanza interpretarla e integrarla, valutando anche la rilevanza delle
sopravvenienze, e concorrendo a identificare la volontà della legge. Il giudice dell’ottemperanza è
chiamato non soltanto a precisare il contenuto degli obblighi nascenti dalla sentenza passata in
giudicato, ma anche, quando sorgono problemi interpretativi, ad adottare una statuizione analoga
a quella che potrebbe emettere in un nuovo giudizio di cognizione.
Il giudizio di ottemperanza è stato ance definito come una sorta di “prosecuzione del giudizio
amministrativo” nel senso che soltanto in esso si perviene a un assetto definitivo degli interessi
nel rapporto tra cittadino e amministrazione.
Altre ricostruzioni, da ritenere ormai prevalenti, tendono invece a sottolineare soprattutto il
carattere esecutivo del giudizio di ottemperanza pur riconoscendo che in esso, come nel processo
civile, possano essere individuati anche momenti di cognizione.
In realtà il giudizio di ottemperanza in base all’art 112 del Codice può essere esperito anche in
relazione a azioni tipicamente di cognizione in senso proprio ancorché ancillari al giudicato e cioè
alla condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il
giudicato o alla condanna al risarcimento dei danni collegati alla mancata esecuzione della
sentenza. Lo stesso ricorso proposto al fine di ottenere chiarimenti è funzionale a chiarire la
portata percettiva della sentenza passata in giudicato, ma non costituisce un rimedio esecutivo.
In definitiva nell’impostazione del Codice il giudizio di ottemperanza va considerato come una
sorta di veicolo che raccoglie azioni diverse talune meramente esecutive, altre di natura cognitoria
e il giudice dell’ottemperanza va visto come il giudice della naturale conformazione dell’attività
amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discendono o che
in esso trovano il presupposto.
Il procedimento
La legittimazione attiva spetta innanzitutto alla parte del giudizio di merito risultata vincitrice; è
stata riconosciuta anche ai soggetti estranei al giudizio di merito nei cui confronti la sentenza
abbia prodotto effetti favorevoli.
La legittimazione passiva spetta invece all’amministrazione soccombente tenuta a porre in essere
gli adempimenti necessari per ottemperare al giudicato.
Il ricorso deve essere proposto nel termine decennale di prescrizione.
Il ricorso si propone con domanda diretta al presidente, a seconda dei casi e in base alle regole
sulla competenza poste dall’art 113. Il principio è che lo stesso organo che ha emanato la sentenza
in sede di cognizione è competente a pronunciarsi sui ricorsi proposti avverso l’inottemperanza,
poiché si presume che il giudice della cognizione sia in grado di interpretare meglio i vincoli
nascenti dalla decisione. Peraltro se la sentenza del Consiglio di Stato pronunciataall’esito del
giudizio di appello conferma la decisione di primo grado, il ricorso va proposto innanzi a
quest’ultimo.
Il ricorso deve essere notificato alla pa e a tutte le parti del giudizio definito dalla sentenza. Deve
essere inoltre depositato presso la segreteria del giudice competente.
100
Il giudizio di ottemperanza si svolge in camera di consiglio, dunque solo alla presenza dei difensori
e assoggettato a un regime di termini dimezzati.
Le pronunce del giudice amministrativo che costituiscono titolo esecutivo sono spedite surichiesta
di parte in forma esecutiva e quelle che dispongono il pagamento di somme di denaro costituiscono
titolo anche per l’esecuzione nelle forme stabilite dal cpc e per l’iscrizionedell’ipoteca.
Contro le pronunce emanate dal giudice dell’ottemperanza sono esperibili i normali mezzi di
impugnazione nei termini per essi previsti.
Le sentenze del Consiglio di Stato emanate in sede di giudizio di ottemperanza al pari di quelle
emanate in sede di processo di cognizione ordinario, possono essere oggetto di ricorso incassazione
per motivi di giurisdizione.
Il giudizio di ottemperanza rientra tra le ipotesi di giurisdizione estesa al merito. Il giudice dunque
può esercitare poteri sostitutivi nei confronti dell’amministrazione finalizzati alla integrale
esecuzione del giudicato, e ciò anche quando residua in capo all’amministrazione l’esercizio di
poteri propriamente discrezionale. L’attività del giudice è pienamente fungibile con quella
dell’amministrazione. Il Codice prevede infatti che il giudice, in caso di accoglimento del ricorso,
ordina l’ottemperanza prescrivendo le relative modalità “anche mediante la determinazione del
contenuto del provvedimento amministrativo o l’emanazione dello stesso in luogo
dell’amministrazione”.
Talvolta peraltro all’esito del giudizio il giudice dell’ottemperanza emana una sentenza che si limita
a reiterare l’ordine all’amministrazione, fissando un termine per provvedere.
Altre volte il giudice fissa anche una nuova udienza, al fine di valutare il comportamento
dell’amministrazione e, nel caso in cui questa non abbia ottemperato in modo compiuto, assume i
provvedimenti sostitutivi necessari.
Il giudice dell’ottemperanza ha anche il potere di dichiarare nulli gli eventuali atti assunti in
violazione o elusione del giudicato o di dichiararli inefficaci nel caso in cui il giudizio abbia per
oggetto una sentenza non passata in giudicato.
Il Codice attribuisce al giudice un nuovo potere e cioè quello di condannare la parte inadempiente
al pagamento di una somma di danaro per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione: si tratta di una
misura di esecuzione indiretta (che deriva dall’esperienza francese delle astreintes) che può
rivelarsi efficace, anche perché la somma eventualmente pagata dall’amministrazione potrebbe
costituire danno erariale posto a carico del funzionario inadempiente. Questa pronuncia viene
emanata solo su richiesta di parte e nei casi in cui non sia manifestamente iniqua (nel caso
dell’ottemperanza avente a oggetto il mancato pagamento di somme di danaro, la penalità non è
iniqua “quando è stabilita in misura pari agli interessi legali”).
Quanto alle modalità di esercizi del potere sostitutivo, il giudice dell’ottemperanza può emanare
direttamente gli atti necessari per eseguire il giudicato, ovvero, nominare un commissario ad
acta. Questa opzione è preferibile quando gli adempimenti risultano complessi o involgono
valutazioni propriamente discrezionali.
La nomina può avvenire già con la sentenza che definisce il giudizio di cognizione.
La facoltà di nominare un commissario ad acta, di solito scelto tra i funzionari di
un’amministrazione, era invalsa da tempo nella prassi, pur nel silenzio della legge.
Sulla figura si è sviluppato in passato un dibattito poiché la sua attività costituisce un punto di
saldatura tra attività giurisdizionale e attività amministrativa: per un verso infatti è un delegato
(ausiliario) del giudice e opera dunque come alter ego di quest’ultimo; per altro verso, ove ci si
ponga dal punto di vista dell’attività posta in essere in sostituzione dell’amministrazione
inadempiente, svolge una funzione sostanzialmente amministrativa.
In passato pertanto la giurisprudenza tendeva a qualificarlo come organo straordinario di
amministrazione attiva e ne conseguiva che i provvedimenti emanati dal commissario erano
qualificati come atti amministrativi e come tali suscettibili di impugnazione. Una siffatta
ricostruzione era stata oggetto di critiche perché finiva per moltiplicare le sedi del contenzioso.
101
Il dibattito può considerarsi oggi chiuso poiché l’art 21 del Codice definisce il commissario come
un ausiliario del giudice al quale si applicano anche le regole sulla ricusazione.
In quanto delegato del giudice, deve attenersi alle indicazioni contenute nella sentenza. Può
chiedere al giudice chiarimenti. La sua nomina può essere sempre revocata.
Il Codice contiene una disciplina sulla impugnazione degli atti del commissario ad acta
distinguendo tra le contestazioni solevate dalle parti e dai soggetti estranei al giudicato: le prime
possono proporre un reclamo esclusivamente al giudice dell’ottemperanza; i secondi possono
proporre impugnazione innanzi al giudice amministrativo nell’ambito di un giudizio di cognizione
ordinario.
La nomina del commissario ad acta non priva l’amministrazione inottemperante del potere di dare
esecuzione al giudicato. Essa invece non può annullare d’ufficio in sede di autotutela gli atti
emanati dal commissario ma può promuovere una verifica da parte del giudice dell’ottemperanza.
In primo luogo, con riguardo alle controversie relative al silenzio della pa il giudice in casi di
accoglimento può ordinare all’amministrazione di provvedere entro un termine non superiore di
norma a 30 gg e nominare ove occorra un commissario ad acta.
In secondo luogo con riguardo alla tutela cautelare, il Codice contiene una disposizione
sull’esecuzione delle ordinanze che attribuisce al giudice che ha emesso il provvedimento
cautelare “i poteri inerenti al giudizio di ottemperanza”.
In terzo luogo con riguardo alla domanda di risarcimento del danno il Codice consente al giudice
amministrativo di limitarsi ad accertare positivamente l’an debeatur definendo solo i criteri per la
quantificazione del danno da parte dell’amministrazione. Stabilisce inoltre che in caso di mancato
accordo con l’interessato sia esperibile un ricorso al giudice dell’ottemperanza che provvede a
liquidare il danno in sostituzione dell’amministrazione. Sotto il profilo processuale si èdubitato in
dottrina se una siffatta disposizione sia pienamente compatibile con il principio della domanda il
quale presuppone che il giudice si pronunci su tutta la domanda, inclusa anche la quantificazione
del danno. Il Codice prevede peraltro che il potere di emanare la sentenza che enuncia solo i
criteri di quantificazione può essere esercitato in mancanza di un’opposizione espressa delle parti
e dunque in qualche modo si ricollega a una volontà quantomeno tacita delleparti.
Infine con riguardo alla speciale azione per l’efficienza delle amministrazioni che è volta a
obbligare le amministrazioni a conformarsi agli standard qualitativi e economici stabiliti dalle
norme vigenti, si rinvia alle norme generali sul giudizio di ottemperanza
Il processo innanzi al giudice ordinario è ancor oggi disciplinato nelle sue caratteristiche
fondamentali dalla l 2248/1865 All E. In particolare traccia i limiti esterni della giurisdizione del
giudice ordinario (incentrata sulla tutela dei diritti soggettivi) e gli artt 4 e 5 i limiti interni (in
particolare il divieto di annullamento degli atti amministrativi).
La l 2248 è il frutto di un bilanciamento tra l’esigenza di garantire una tutela piena e effettiva dei
diritti soggettivi anche nei confronti della pa e la necessità di tutelare le prerogative di
quest’ultima, cioè del potere esecutivo, anche di fronte al potere giudiziario.
I limiti interni posti ai poteri del giudice ordinario valgono esclusivamente con riferimento alle
funzioni e ai poteri attribuiti dalla legge alla pa per la cura di interessi pubblici. Non valgono di
regola per l’attività della pa di tipo meramente materiale, cioè i comportamenti non riconducibili
neppure mediatamente all’esercizio di un potere, da qualificare in termini di illiceità o liceità; non
valgono neppure per un’attività posta in essere nell’esercizio della capacità negoziale di diritto
privato o che si esprime in atti che non sono espressione diretta di un pubblico potere (i ccdd atti
paritetici).
102
In definitiva il principio della separazione dei poteri che sta alla base dei limiti interni alla
giurisdizione del giudice ordinario, scherma per cosi dire il potere amministrativo di fronte a
possibili interferenze esterne, incluse quelle del giudice ordinario. Il principio di legalità del quale è
garante anche il giudice ordinario previene sconfinamenti del potere amministrativo nella sfera dei
diritti soggettivi dei privati.
La l 2248 venne subito interpretata in modo restrittivo dalla giurisprudenza. Quanto ai limiti esterni
alla giurisdizione la cd teoria della degradazione dei diritti soggettivi riduceva in modo drastico il
perimetro della giurisdizione del giudice ordinario a favore di quella del giudice amministrativo;
quanto ai limiti interni, la nozione di potestà o potere dell’amministrazione intangibile da parte del
giudice ordinario venne interpretata in origine in modo ampio fino a escludere ogni ingerenza
diretta o indiretta del giudice nell’attività amministrativa.
Inizialmente vennero ritenuto pertanto ammissibili soltanto due tipi di sentenze: di mero
accertamento del diritto soggettivo, che per definizione non possono avere incidenza sul potere;
di condanna al pagamento di somme di danaro (ad es in relaziona all’inadempimento di obblighi
contrattuali o al risarcimento di un danno).
Dopo l’avvento della Costituzione il quadro mutò progressivamente perché essa non solo pone in
primo piano il principio della effettività della tutela giurisdizionale (art 24 Cost), ma anche non
costituzionalizza il divieto di annullamento degli atti amministrativi da parte del giudice ordinario
rimettendo al legislatore ordinario la scelta del giudice dotato di questo potere (art 113.3 Cost).
103
Il criterio consente infine di individuare in via derogatoria limiti al potere del giudice anche con
riferimento al processo di esecuzione. Così in particolare non possono essere oggetto di
esecuzione forzata i beni demaniali, quelli del patrimonio indisponibile, i crediti di diritto pubblico.
Dopo che si è affermata in giurisprudenza la tesi che le procedure di pagamento hanno un rilievo
meramente interno all’amministrazione, è ammesso in linea di principio il pignoramento del
danaro giacente presso il tesoriere, danaro che ha natura di bene patrimoniale disponibile.
In alternativa ai procedimenti esecutivi ordinari previsti dal cpc è comunque ammesso il ricorso
innanzi al giudice amministrativo per l’ottemperanza al giudicato del giudice ordinario. Questo
rimedio ha comunque un ambito di applicazione più ampio essendo riferibile a tutti i casi in cui
dalla sentenza del giudice ordinario derivi in capo all’amministrazione un obbligo di
conformazione; poiché il giudice dell’ottemperanza è investito di una competenza estesa al
merito, non sussistono limitazioni particolari quanto alle misure che il giudice può disporre
direttamente o indirettamente (tramite commissario ad acta) nei confronti dell’amministrazione.
La disapplicazione
104
Una fattispecie di disapplicazione incidentale è prevista per legge nelle controversie relative al
pubblico impiego privatizzato devolute alla giurisdizione del giudice ordinario. Il d lgs 165/2001
stabilisce che quando gli atti amministrativi presupposti “siano rilevanti ai fini della decisione, il
giudice li disapplica, se illegittimi”.
Dal punto di vista degli aspetti procedurali, il giudizio innanzi al giudice ordinario è sottoposto a
regole particolari nel caso in cui parte in causa sia una pa. Così per esempio le regole generali
previste dal cpc sulla competenza territoriale sono derogate dal cd foro erariale; la notifica deve
avvenire presso l’avvocatura dello Stato; la pa pur non essendo parte in causa può chiedere in ogni
stato e grado che la Cassazione dichiari il difetto di giurisdizione (potere di fatto inutilizzato).
I GIUDICI SPECIALI
L’art 100.2 Cost include la Cdc tra gli organi ausiliari dello Stato e le attribuisce le funzioni di
controllo preventivo di legittimità sugli atti del governo, di controllo successivo sulla gestione del
bilancio dello Stato e di controllo sulla gestione finanziaria degli enti ai quali lo Stato contribuisce
in via ordinaria. È garantita l’indipendenza di fronte al governo, che è assicurata da un Consiglio di
presidenza con funzioni di organo di autogoverno.
Accanto alle funzioni di controllo, la Corte dei conti esercita funzioni propriamente giurisdizionali
“nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge” (art 103 Cost). Il
processo innanzi alla Cdc è disciplinato dal Codice della giustizia contabile (d lgs 174/2016).
La giurisdizione della Corte dei conti riguarda i settori: a) la responsabilità amministrativa e
contabile dei pubblici funzionari, che rappresenta la funzione giurisdizionale più rilevante sul piano
politico istituzionale; b) la responsabilità sanzionatoria collegata alle ipotesi nelle quali la legge
attribuisce alla Corte dei conti il potere di irrogare sanzioni pecuniarie; c) i giudizi di conto; d) il
contenzioso in materia pensionistica; e) i giudizi a istanza di parte in materia contabile; f) i piani di
riequilibrio degli enti territoriali e i provvedimenti dell’ISTAT di ricognizione delle pubbliche
amministrazioni ai fini dell’applicazione delle norme in tema di finanza pubblica.
105
Nel caso di sentenza di condanna il giudice può esercitare il cd potere riduttivo che consiste nel
porre a carico del dipendente condannato solo una parte della somma corrispondente al danno
accertato tenuto conto delle circostanze.
Contro le decisioni delle sezioni regionali è ammesso l’appello alle sezioni giurisdizionali centrali;
la proposizione dell’appello sospende l’esecuzione della sentenza impugnata.
I mezzi di impugnazione contro le sentenze sono, oltre all’appello, l’opposizione di terzo, la
revocazione e il ricorso per cassazione per i soli motivi inerenti alla giurisdizione
Alla riscossione dei crediti relative alle somme liquidate a carico dei responsabili per danno
erariale con la sentenza definitiva provvede, sotto la vigilanza del pm, la stessa amministrazione
che ha l’obbligo di avviare immediatamente l’azione di recupero del credito.
Il giudizio di responsabilità davanti alla Corte dei conti costituisce una specificità del nostro
ordinamento: infatti in altri ordinamenti sono di regola le stesse pa danneggiate che si attivano per
la rifusione del danno subito da parte dei propri dipendenti.
In ogni caso alle pa non è preclusa la possibilità di avviare un giudizio civile per ottenere il
risarcimento.
Le commissioni tributarie
Sono giudici amministrativi speciali le commissioni tributarie provinciali e regionali disciplinate dal
d lgs 546/1992; le commissioni in questione sono composte da magistrati e da altre figure
professionali iscritti in appositi elenchi.
Le controversie devolute alla cognizione delle commissioni tributarie sono individuate in modo
tassativo dall’art 2 (imposta sui redditi, imposta sul valore aggiunto, imposta comunale
sull’incremento di valore degli immobili, imposta di registro). Le controversie non incluse
nell’elenco rientrano in base ai criteri generali nell’ambito della competenza del giudice
amministrativo o ordinario.
Il d lgs 546/1992 contiene una disciplina organica del processo tributario che è strutturato come
processo da ricorso contro un atto dell’amministrazione da proporre mediante notifica entro un
termine di 60 gg sulla falsariga del processo amministrativo. Alcuni istituti come il giudizio
cautelare, il giudizio di ottemperanza sono regolati in modo più articolato e puntuale rispetto agli
omologhi istituti regolati dalla normativa sul processo amministrativo.
L’art 1 co 2 opera un rinvio al c.p.c per quanto non espressamente disciplinato e nei limiti della
compatibilità con le disposizioni del decreto
Il processo tributario si caratterizza per il fatto di avere ad oggetto controversie che involgono
poteri dell’amministrazione di natura essenzialmente vincolata, visto che l’an e il quantum dei
tributi è determinato direttamente dalla legge —> da ciò derivano incertezze in ordine alla
qualificazione del processo tributario che, pur ricalcando la struttura di un processo di
annullamento di atti illegittimi, verte in realtà sull’accertamento del rapporto obbligatorio
intercorrente tra amministrazione finanziaria e contribuente.
Va qualificato come giudice amministrativo speciale il Tribunale superiore delle acque pubbliche
composto da magistrati amministrativi e ordinari e da tecnici.
Questo giudice è titolare di una competenza generale sui ricorsi giurisdizionali contro i
provvedimenti amministrativi in materia di acque pubbliche e di una competenza speciale di
merito in materia di contravvenzioni e di altri provvedimenti di polizia demaniale.
Il Testo unico del 1933 contiene un elenco delle controversie devolute in primo grado ai Tribunali
regionali: demanialità delle acque, limiti dei corsi d’acqua e bacini, diritti relativi alle derivazioni e
utilizzazioni delle acque pubbliche, indennità e risarcimenti per occupazioni e espropriazioni di
fondi per la esecuzione e manutenzione di opere idrauliche, risarcimento dei danni derivanti da
opere idrauliche eseguite dalla pubblica amministrazione
I giudizi innanzi al Tribunale superiore e ai Tribunali regionali seguono come modello
rispettivamente il giudizio innanzi al Consiglio di Stato e il processo civile di cognizione.
106
I RIMEDI AMMINISTRATIVI
Cenni introduttivi
I rimedi amministrativi sono tradizionalmente una delle componenti del sistema della giustizia
amministrativa.
Lo stesso ricorso alla IV Sezione del Consiglio di Stato fu concepito in origine come rimedio di
giustizia interna all’amministrazione. Entro breve tempo peraltro alla IV Sezione fu riconosciuta
natura giurisdizionale in senso proprio anche se rispetto al giudice ordinario, il Consiglio di Stato
fu considerato in qualche modo un giudice vicino all’amministrazione.
Anzi proprio per questo fu dotato di poteri decisionali più incisivi che furono visti come meno
problematici in relazione al principio della separazione dei poteri; del resto ancor oggi la
Costituzione definisce il Consiglio di Stato come organo di tutela della giustizia
“nell’amministrazione” anziché “dell’amministrazione” quasi a sottolineare il carattere in qualche
modo interno al sistema amministrativo.
I tre ricorsi amministrativi tradizionali ossia il ricorso gerarchico, il ricorso in opposizione e il
ricorso straordinario al Presidente della Repubblica hanno subito una evoluzione in due direzioni
opposte.
Da un lato il ricorso gerarchico è uno strumento caduto quasi in disuso soprattutto da quando
con l’istituzione dei Tar è stato superato il principio secondo il quale il ricorso in sede
giurisdizionale può essere proposto solo nei confronti degli atti definitivi, divenuti cioè tali in
seguito alla proposizione del ricorso gerarchico. L’esperienza pratica aveva dimostrato che il
ricorso gerarchico di rado portava l’amministrazione a rivedere il proprio operato e dunque il
ricorso gerarchico era considerato soltanto come un appesantimento procedurale una volta sancito
il carattere facoltativo del ricorso gerarchico esso è ormai caduto in desuetudine.
Dall’altro il ricorso straordinario al presidente della Repubblica si è dimostrato più vitale e ha
acquisito tratti sempre più simili a quello di un ricorso propriamente giurisdizionale e ciò sia in via
interpretativa si aia conseguenza delle modifiche operate dalla legge 69/2009. La Corte
costituzionale lo ha qualificato come “rimedio giustiziale amministrativo con caratteristiche
strutturali e funzionali in parte assimilabili a quelle tipiche del processo amministrativo”.
Peraltro in altri ordinamenti i rimedi giustiziali godono ancor oggi di molto credito e costituiscono
uno strumento utile per evitare il sovraccarico di contenzioso dinanzi ai giudici.
Nel sistema inglese il ricorso in sede giurisdizionale è considerato come la sede alla quale ci si può
rivolgere solo quando i rimedi non giurisdizionali non risultano inefficaci. Nell’ordinamento tedesco
il ricorso in sede giurisdizionale può essere proposto se prima è stata presentata una opposizione
alla stessa amministrazione.
Nell’ordinamento italiano i rimedi di tipo non giurisdizionale fanno fatica ad attecchire. Ciò
dipende in parte da un’opinione diffusa secondo la quale la vera giustizia è solo quella emanata
da un giudice non senso proprio; in parte nelle controversie con le pa dalla scarsa disponibilità di
queste ultime a autocorreggere i propri errori.
Anche a livello europeo vi è una tendenza a promuovere rimedi giustiziali in numerose materie
nelle quali sono istituite agenzie europee. Lo stesso art 263 TFUE che disciplina i ricorsi alla Corte
di giustizia contiene un riferimento ai ricorsi amministrativi previsti in atti che istituiscono organi e
organismi dell’Unione europea e ciò in linea con il principio di “un’amministrazione europea
aperta, efficace e indipendente, disponibile a rivedere le proprie decisioni”.
Molti regolamenti o diretti richiedono agli stati membri di apprestare strumenti di tutela efficaci,
lasciandoli liberi di prevedere forme di tutela giurisdizionale o rimedi amministrativi che assicurino
garanzie di indipendenza e poteri adeguati.
I ricorsi amministrativi sono disciplinati dal dpr 1199/1971 e possono essere annoverati tra i ccdd
procedimenti di secondo grado, cioè che hanno a oggetto altri procedimenti; più specificamente
essi hanno natura di procedimenti di riesame a iniziativa di parte (contrapposti a quelli di ufficio).
107
È l’unico rimedio amministrativo menzionato dal Cpa attesa la stretta connessione col processo
amministrativo.
Il ricorso in questione può essere esperito unicamente per le controversie devolute alla
giurisdizione amministrativa.
Va presentato entro 120 gg dalla data della notificazione o comunicazione dell’atto ed è costruito
come un rimedio generale, parallelo e alternativo al ricorso giurisdizionale.
È generale perché può essere proposto nei confronti di tutti gli atti amministrativi definitivi (esclusi
i provvedimenti in materia di procedure per l’assegnazione dei contratti pubblici e di operazioni
elettorali); parallelo perché offre una tutela molto simile a quella giurisdizionale; alternativo perché
al ricorrente, una volta proposto ricorso straordinario, non è ammesso il ricorso giurisdizionale e
viceversa. Il principio di alternatività comporta altresì che ove sia proposto un ricorso straordinario
contro un atto presupposto esso deve essere proposto anche nei confronti dell’atto emanato
successivamente, al fine di evitare il frazionamento della tutela.
Il ricorso straordinario può essere esperito esclusivamente per motivi di legittimità.
Deve essere notificato a almeno un controinteressato e presentato con la prova dell’eseguita
notificazione all’organo che ha emanato l’atto o al ministero competente.
In esso può essere formulata una domanda di sospensione cautelare e sono previste adeguate
garanzie del contraddittorio, sia pure soltanto in forma scritta.
Il ministero competente cura l’istruttoria e trasmette tutti gli atti al Consiglio di Stato che esprime il
suo parere. Non è prevista un’udienza di discussione.
In seguito alla l 69/2009 il parere del Consiglio di Stato è vincolante e non può più essere superato
con una delibera del Consiglio dei ministri.
La decisione finale è adottata con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del ministro
competente.
Il decreto presidenziale che recepisce il parere, pur non essendo un atto formalmente e
soggettivamente giurisdizionale "è estrinsecazione sostanziale di funzione giurisdizionale che
culmina in una decisione caratterizzata dal crisma dell’intangibilità propria del giudicato”.
Quanto alla tipologia di decisioni, accanto all’annullamento del provvedimento impugnato, può
essere disposta, ove sussistano i presupposti richiesti per l’azione di adempimento, la condanna
al rilascio del provvedimento richiesto. Non possono essere emanate pronunce dichiarative di
pretese patrimoniale e di condanna al risarcimento del danno che presupporrebbero
un’assimilazione ancora più piena del ricorso straordinario a un rimedio giurisdizionale.
Sempre in base alla l 69/2009 il Consiglio di Stato in sede di esame del ricorso straordinario può
sospendere l’emanazione del parere e rimettere alla Corte costituzionale una questione di
costituzionalità ritenuta rilevante e non manifestamente infondata. Si tratta di un ulteriore indice
normativo dell’assimilazione del ricorso straordinario a un rimedio propriamente giurisdizionale.
108
Sulla base di questa assimilazione la giurisprudenza ha ritenuto poi che per l’esecuzione del
decreto presidenziale di accoglimento del ricorso può essere proposto giudizio di ottemperanza e
che contro la decisione possa essere esperito il ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione.
La parte contro la quale è rivolto il ricorso straordinario (amministrazione resistente o
controinteressato) può proporre opposizione entro 60 gg chiedendo che il ricorso sia trasposto
nella sede giurisdizionale innanzi al Tar competente —> in questo modo si recupera anche il
doppio grado di giurisdizione.
Il ricorrente entro 60 gg dal ricevimento dell’atto di opposizione può depositare l’atto di
costituzione innanzi al Tar dandone avviso mediante notificazione alle altre parti. Se il Tar ritiene
inammissibile l’opposizione dispone la restituzione del fascicolo per la prosecuzione del giudizio
in sede straordinaria.
I decreti che decidono i ricorsi straordinari possono essere oggetto oltre che di ricorso per
cassazione anche per revocazione.
Il ricorso straordinario è stato valorizzato dal legislatore e dalla giurisprudenza —> i suoi pregi
consistono nel fatto di poter essere presentato entro un termine più lungo di quello del ricorso
giurisdizionale; è inoltre meno costoso non essendo richiesta la difesa tecnica di un avvocato e
investe direttamente il Consiglio di Stato senza che sia necessario sottoporre la controversia a un
giudice di primo grado.
Più in generale le vicende del ricorso straordinario dimostrano una caratteristica di molte
istituzioni e cioè la persistenza e la loro capacità di adattarsi nel tempo al mutare del contesto.
Il legislatore ha introdotto alcuni rimedi di tipo non giurisdizionale che si attivano innanzi alle pa e
in particolare alle autorità amministrative indipendenti. Essi tendono a deflazionare il contenzioso.
In materia di diritto di accesso ai documenti amministrativi la l 241/1990 prevede, come
alternativa al ricorso giurisdizionale innanzi al giudice amministrativo contro il diniego di accesso,
la possibilità di un ricorso al difensore civico o, per le amministrazioni statali, alla commissione per
l’accesso ai documenti amministrativi.
Il ricorso va proposto nel termine di 30 gg e deve essere deciso entro ulteriori 30 gg, decorsi i quali
si intende respinto. Ove il diniego di accesso sia ritenuto illegittimo, si informa il richiedente e viene
comunicato all’autorità alla quale è stata presentata in origine l’istanza di accesso. L’autorità può
confermare il diniego entro 30 gg motivando, ma se non si pronuncia entro il termine “l’accesso è
consentito”. Contro la decisione assunta in relazione al ricorso è ammesso ricorso giurisdizionale.
Rimedi alternativi sono inoltre previsti dal Codice dei contratti.
Un primo rimedio è costituito dal parere di precontenzioso dell’ANAC su iniziativa della stazione
appaltante o di una delle parti in relazione a questioni insorte durante lo svolgimento della
procedura di gara. L’istanza è inammissibile se già pende un ricorso giurisdizionale e diventa
improcedibile se questo viene proposto successivamente.
Ove le parti siano obbligate ad attenersi al parere, assunto entro 30 gg all’esito di un
contraddittorio, il parere acquista carattere vincolante, ma può essere impugnato innanzi al
giudice amministrativo.
Un altro rimedio è l’accordo bonario che può essere promosso per risolvere controversie che
sorgono tra l’impresa e la stazione appaltante nella fase di esecuzione del contratto. Le
contestazioni dell’impresa formalizzate per iscritto sono comunicate dal direttore dei lavori al
responsabile unico del procedimento che valuta l’ammissibilità e la non manifesta infondatezza
della pretesa e svolge un’istruttoria.
Se la proposta viene accettata viene redatto un verbale che ha natura di transazione; altrimenti
può essere instaurato un contenzioso innanzi al giudice ordinario o avviato un arbitrato.
Un terzo rimedio è l’arbitrato previsto per le controversie relative ai diritti soggettivi derivanti
dall’esecuzione dei contratti. La clausola compromissoria può essere inserita nel contratto e deve
essere menzionata nel bando o nell’avviso di gara. Il lodo arbitrale può essere impugnato innanzi
al giudice ordinario nel termine di 90 gg per motivi di nullità e per violazione delle regole di diritto.
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Rimedi non giurisdizionali sono attivabili presso le autorità indipendenti preposte a settori regolati
e a servizi pubblici. Esse annoverano tra i propri compiti l’esame di reclami e ricorsi proposti da
utenti o clienti nei confronti delle imprese che erogano i servizi.
Questi rimedi mirano a prevenire contenziosi da instaurare innanzi al giudice ordinario e in genere
sono preceduti da reclami da proporre direttamente alle imprese.
Le funzioni di risoluzione in via stragiudiziale di controversie attribuite alle autorità indipendenti,
che integrano quelle normative e amministrative, si giustificano in considerazione della specificità
di questo tipo di apparati: essi godono di garanzie di indipendenza e esercitano i loro poteri in
forme paragiurisdizionali, cioè con garanzie rafforzate di contraddittorio e anche separando sul
piano organizzativo le funzioni istruttorie degli uffici dai poteri decisionali.
A titolo esemplificativo si possono menzionare le funzioni giustiziali dell’AGCOM per le
controversie sia tra utenti e operatori, sia tra operatori.
Inoltre il regolamento UE del 2016 in materia di protezione dei dati personali richiede agli Stati
membri di garantire a ogni persona fisica o giuridica il diritto di proporre un reclamo innanzi
all’autorità nazionale preposta al controllo dell’applicazione della disciplina (Garante per la
protezione dei dati personali) in alternativa a ogni altro ricorso giurisdizionale o non
giurisdizionale.
Infine in materia bancaria è previsto un sistema di risoluzione delle controversie tra clienti e istituti
di credito allo scopo di prevenire l’instaurazione di controversie innanzi al giudice ordinario; il
sistema fa capo all’Arbitro bancario finanziario.
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