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CORSO BASE DI DIRITTO PROCESSUALE CIVILE

PARTE PRIMA: IL DIRITTO PROCESSUALE CIVILE. LA FUNZIONE


GIURISDIZIONALE. I PRINCIPI DEL GIUSTO
PROCESSO

CAP. 1: LE FONTI DEL DIRITTO PROCESSUALE CIVILE

1. Il diritto processuale civile

Se il diritto sostanziale individua e regola i poteri, i doveri e le facoltà ricompresi


nell’ambito delle diverse tipologie di diritti soggettivi e di rapporti giuridici sostanziali
considerati nel loro profilo “statico”, al diritto processuale spetta di prevedere quanto serve
non solo per l’accertamento giudiziario di quei diritti e/o rapporti giuridici sostanziali che si
assumono violati o sottoposti a pericolo di lesione, ma anche per l’attuazione (se del caso
coattiva, cioè contro la volontà del soggetto obbligato) degli stessi, rendendo effettiva la
tutela che il titolare
‘0Y98R761T3ha diritto di ottenere in base alla legge sostanziale. La norma processuale ha
natura pubblicistica, in quanto disciplina l’esercizio di una funzione pubblica essenziale,
quale è la giurisdizione, regolando processi che si svolgono davanti ai giudici dello Stato.
Ma il carattere pubblicistico delle norme processuali non deve far dimenticare che l’oggetto
dell’attività giurisdizionale è rappresentato da diritti soggettivi, interessi privati o altre
situazioni giuridicamente rilevanti, che assumono di norma una dimensione privatistica.

Guardiamo adesso all’assetto normativo della materia, che vede le fonti interne sempre più
affiancate da un sistema parallelo, derivante dall’essere lo Stato italiano parte integrante
dell’ordinamento UE ed internazionale.

2. Le fonti costituzionali
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La Costituzione del 1948 si pone al vertice della gerarchia delle fonti interne e (con
riferimento ad alcuni principi fondamentali, come quello di eguaglianza) prevale anche
sulle fonti di diritto comunitario ed internazionale, che sono recepite nell’ordinamento
nazionale proprio in ragione degli artt. 10 e 11 Cost. Per quanto riguarda il diritto
processuale civile, le disposizioni costituzionali attengono sia ai principi generali, sia alle
linee fondamentali di organizzazione e di esercizio della giurisdizione, in particolare:

 art. 24 stabilisce il diritto di azione e di difesa a tutela dei diritti e interessi legittimi, e
le relative garanzie;
 art. 111 (a seguito della l. cost. 2/1999) contiene i principi del giusto processo,
nonché l’obbligo della motivazione dei provvedimenti del giudice e il diritto di
impugnare per cassazione qualsiasi provvedimento giurisdizionale definitivo
 art. 25 dispone che nessuno può essere distolto dal giudice naturale, precostituito per
legge, cioè dall’ufficio giudiziario individuabile ex ante, prima dell’inizio della
controversia, secondo criteri predeterminati e astratti stabiliti dalla legge
 artt. 101-110 sanciscono l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, dettando
disposizioni di carattere organizzatorio in tal senso, e distinguono tra magistratura
ordinaria e magistrature speciali.

3. Le fonti comunitarie

Le fonti comunitarie appartengono di pieno diritto all’ordinamento italiano in ragione della


limitazione della sovranità cui lo Stato italiano (in virtù degli artt. 10 e 11 Cost.) ha
acconsentito, sottoscrivendo i Trattati di Roma del 1950 istitutivi delle Comunità europee.
Trattati, questi, più volte modificati, da ultimo dal Trattato di Lisbona

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del 2007. Il diritto comunitario prevale sulla legge interna ordinaria con esso contrastante:
ciò impone di collocare le norme comunitarie nella gerarchia delle fonti subito dopo i
principi fondamentali costituzionali.

Con l’accrescimento del peso politico delle Comunità, l’incidenza del diritto comunitario e
le competenze degli organismi da esso istituiti si sono notevolmente ampliate e hanno
investito gli aspetti anche della cooperazione giudiziaria in materia civile tra gli Stati
membri dell’UE. Il Trattato di Maastricht del 1992 aveva per la prima volta previsto una
politica della cooperazione in materia di giustizia e affari interni (c.d. terzo pilastro
dell’UE). Esso prevedeva altresì che in tale settore si dovesse intervenire con gli strumenti
tradizionali della cooperazione tra Stati, e cioè con le convenzioni (sottoposte, come tali,
alla ratifica dei parlamenti nazionali) piuttosto che con gli altri strumenti normativi del
diritto comunitario (regolamenti e direttive). Questa prospettiva fu rovesciata dal Trattato di
Amsterdam del 1997, che provvide a “comunitarizzare” (con importanti conseguenze anche
in termini di strumenti normativi applicabili ai fini del raggiungimento degli obiettivi da
esso previsti) alcuni settori del “terzo pilastro”, tra i quali proprio la cooperazione
giudiziaria in materia civile, fondata sul principio di riconoscimento reciproco delle
decisioni giudiziarie ed extragiudiziali, che può includere l’adozione di misure intese a
ravvicinare le disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri. In sostanza, in
tale materia oggi le istituzioni comunitarie sono legittimate a legiferare anche avvalendosi
di atti normativi immediatamente vincolanti negli ordinamenti degli Stati membri, e cioè i
regolamenti. Se i regolamenti consentono di incidere in maniera diretta negli ordinamenti
nazionali in quanto immediatamente vincolanti, non va comunque sottovalutata la funzione
svolta dalle direttive, che impongono ai singoli Stati di adeguare la propria legislazione a
determinati standard e principi comuni, con ciò perseguendo quell’obiettivo di
“uniformizzazione” delle normative statali.

Va inoltre sottolineato che il Trattato di Amsterdam ha anche previsto il passaggio della


materia in esame sotto la giurisdizione della Corte di giustizia delle Comunità europee,
competente a pronunciarsi in via pregiudiziale sull’interpretazione dei trattati e sulla
validità ed interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni comunitarie (c.d. rinvio
pregiudiziale): quando, nel corso di un processo pendente dinanzi a giudice di uno Stato
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membro, quest’ultimo sia chiamato ad applicare una norma di diritto comunitario intorno
alla quale sussista un dubbio interpretativo o di validità, può investire della questione in via
pregiudiziale la Corte di giustizia, che deciderà con efficacia vincolante per il giudice che
ha sollevato la questione. Per effetto proprio del rinvio pregiudiziale ed anche delle altre
decisioni comunque assunte dalla Corte è diventata molto più incisiva l’osmosi tra i
principi dell’ordinamento interno e quelli dell’ordinamento comunitario.

Ulteriore tappa del percorso di accrescimento dell’importanza delle tematiche processuali


nell’ambito dell’ordinamento comunitario può considerarsi la Carta dei diritti fondamentali
dell’UE: l’art. 47 di tale Carta (ispirandosi all’art. 6 CEDU) sancisce il “diritto ad un
ricorso effettivo e ad un giudice imparziale”, il diritto di ogni soggetto “a che la sua causa
sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice
indipendente e imparziale, precostituito per legge”, nonché la “facoltà di farsi consigliare,
difendere e rappresentare”. La norma sancisce, inoltre, il principio che “a coloro che non
dispongono di mezzi sufficienti è concesso il patrocinio a spese dello Stato qualora ciò sia
necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia”.

4. Le convenzioni internazionali

Sempre sulla base degli artt. 10 e 11 Cost., lo Stato italiano ha assunto anche obblighi a
livello internazionale, sottoscrivendo e ratificando convenzioni bilaterali e multilaterali.
Peraltro l’acquisizione al diritto comunitario del settore della cooperazione giudiziaria in
materia civile ha fatto sì che recentemente sia stato avviato un processo di “trasfusione” del
contenuto di alcune convenzioni in strumenti normativi tipici del diritto comunitario.

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5. Le fonti di legge “ordinaria”. Il codice di procedura civile

La legge ordinaria è lo strumento normale di produzione anche del diritto processuale


civile. Dal punto di vista della gerarchia delle fonti, essa è subordinata alla Costituzione e
(nei rispettivi ambiti di competenza) anche alle fonti comunitarie e convenzionali. La
naturale vocazione della legge ordinaria a dettare le regole del processo è rafforzata dall’art.
111 co. 1° Cost., che dispone che “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo
regolato dalla legge”. La norma sembrerebbe addirittura introdurre una riserva assoluta di
legge statale nella materia processuale, ma in realtà è intesa solo a circoscrivere la
discrezionalità del giudice. Pertanto, può ritenersi che la materia processuale costituisca
oggetto di una riserva relativa di legge, cioè che essa sia normalmente disciplinata
attraverso fonti aventi il rango di leggi ordinarie, ma che tali leggi possano demandare a
fonti secondarie di stabilire la normativa di dettaglio o di attuazione. Alcuni profili della
materia sono, invece, effettivamente assoggettati ad una riserva assoluta di legge: è il caso
dell’art. 25 co. 1° Cost., che fissa il principio del giudice naturale precostituito per legge, o
dell’art. 108 Cost., in virtù del quale le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni
magistratura sono stabilite per legge.

In ragione del complesso contenuto tecnico delle leggi processuali, il decreto legislativo
costituisce lo strumento preferenziale di produzione del diritto processuale. Lo stesso
codice vigente fu adottato nel 1940 con (regio) decreto legislativo, per poi entrare in vigore
nel 1942: quindi anche il codice ha rango di legge ordinaria.

6. Il codice di procedura civile del 1940 e la (contro) riforma del 1950

Il codice si articola in 4 libri, dei quali:

 il primo contiene le disposizioni generali del processo civile


 il secondo quelle sul processo di cognizione, ordinario e speciale
 il terzo quelle sul processo di esecuzione forzata
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 il quarto quelle sulla vasta gamma dei procedimenti speciali.

Il codice di procedura civile del 1940, che porta il nome del Guardasigilli dell’epoca
Grandi, ha rappresentato una radicale trasformazione del modo di intendere il processo
civile contenzioso che aveva ispirato il vecchio codice del 1865. Tale concezione,
strettamente legata all’ideologia liberale del primo ‘800 e alla non del tutto acquisita
autonomia sistematica del processo dal diritto sostanziale, era imperniata sulla rigorosa
estraneità del giudice alla formazione del materiale istruttorio e sulla convinzione che la
funzione del giudice dovesse essere solo quella di rendere la decisione nel momento in cui
le parti la richiedevano, attraverso la risoluzione con sentenza delle singole questioni che di
volta in volta si ponevano nel corso dello svolgimento, rigorosamente scritto, del processo.
Con il superamento già alla fine dell’800 di quelle ideologie e con il contestuale affermarsi,
dapprima in Germania, della concezione pubblicistica del processo, anche in Italia, sotto
impulso di Giuseppe Chiovenda, fondatore della moderna scuola processualcivilistica
italiana, prese inizio la stagione (ancora oggi non conclusa) delle riforme del processo
civile, nel tentativo di disegnare un processo ispirato ai principi di oralità, immediatezza e
concentrazione, nel quale il giudice fosse chiamato a svolgere un ruolo attivo e centrale in
tutte le fasi di svolgimento del procedimento.

Il c.d. codice unitario del 1865, invece, funzionò in maniera tale che il giudice vedeva
ridotti i propri poteri nella fase istruttoria, ma era assai potente nella fase di decisione,
essendo quest’ultima raggiunta e motivata in tempi distanziati e talvolta lontani dalla
chiusura del dibattito processuale tra le parti, da cui risultati il giudice poteva prescindere.
A questa situazione reagirono Chiovenda e i suoi seguaci, secondo gli ideali di oralità e
immediatezza: ideali questi rimasti in gran parte irrealizzati nel codice del 1940, mentre più
vicini ad essi è il rito del lavoro introdotto nel 1973, sia perché accentua il potere di
direzione del giudice in funzione di garantire un

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imprescindibile dibattito tra le parti, sia perché impone la pronuncia della sentenza
immediatamente dopo la chiusura della discussione. Il codice del 1940 dovette operare
scelte compromissorie, in particolare l’introduzione della figura del giudice istruttore (cui il
codice delegò le fasi di preparazione ed istruzione della causa) e l’attribuzione all’organo
collegiale (di cui faceva parte anche l’istruttore) della funzione di decisione della causa.

Il radicale mutamento della struttura del processo civile voluto dal codice del 1940 diede
vita negli anni immediatamente successivi ad una sorta di rigetto nei confronti del nuovo
processo, soprattutto da parte del ceto forense, tanto che in poco tempo si arrivò ad una c.d.
controriforma: la l. 581/1950 incise radicalmente sulle strutture portanti del processo allora
in vigore, tra l’altro abolendo le preclusioni nel giudizio di 1° grado e consentendo al
collegio la possibilità di controllo immediato su alcuni provvedimenti del giudice istruttore.

7. Le riforme del 1990, del 1991 e del 1995

Per fronteggiare la crisi della giustizia civile, il Parlamento approvò prima la l. 353/1990
(che modificò un cospicuo numero di norme sparse in tutto il codice) e poi la l. 374/1991
(con cui veniva introdotta, al posto del giudice conciliatore, una nuova figura di giudice
onorario, e cioè il giudice di pace, con il dichiarato scopo di deflazionare i ruoli dei giudici
togati).

8. La riforma del 1998 e l’introduzione del giudice unico di primo grado

Il d.lgs. 51/1998 ha istituito il giudice unico di primo grado, sopprimendo l’ufficio del
pretore e trasferendo le relative funzioni e competenze al tribunale (e alle sezioni distaccate
del tribunale), trasformato in organo di norma monocratico (fatta salva la riserva di
collegialità per alcune controversie, tipicamente individuate dall’art. 50 bis c.p.c.).

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9. La “breve vita” del processo societario

Il d.lgs. 5/2003 aveva disciplinato un intero settore del contenzioso civile, quello delle
controversie in materia societaria, caratterizzato da forte specialità. Le scelte del legislatore
del processo societario si distaccavano sensibilmente dall’impostazione sistematica del
codice, proponendo nuovi modelli processuali, fondati su una diversa impostazione dei
rapporti tra le parti e tra le parti e il giudice. L’obiettivo di concentrazione del procedimento
e di riduzione dei tempi era perseguito principalmente affidando alle parti il completamento
delle difese, senza alcun controllo del giudice. In pratica, nella fase introduttiva del
processo, erano le parti che, attraverso lo scambio di atti difensivi fuori dell’udienza e senza
alcun controllo del giudice, determinavano la progressiva formazione dell’oggetto della
lite; ed erano sempre le parti (o anche una soltanto di esse) a stabilire, formulando apposita
istanza di fissazione dell’udienza, quando fosse venuto il momento di investire il giudice
del potere di ammettere le prove richieste e successivamente di decidere la causa. L’istanza
di fissazione dell’udienza “bloccava” ogni possibilità di successiva allegazione o difesa,
accentuando la libertà, ma anche la “responsabilità” delle parti in relazione a quanto esse
chiedevano ed eccepivano nella fase dello scambio degli atti difensivi. Comunque questo
modello processuale ha avuto vita breve, in quanto la l. 69/2009 lo ha abrogato in toto (fatta
eccezione per l’arbitrato in materia societaria).

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10. Le riforme del 2005 e del 2006

Il d.l. 35/2005, convertito nella l. 80/2005 (c.d. legge sulla competitività) è intervenuto
nella materia processuale facendo ricorso ad una duplice tecnica legislativa:

 da un lato, il legislatore ha inserito nuovi articoli nel codice o ha modificato articoli


preesistenti (ciò specialmente nel processo di esecuzione forzata)
 dall’altro lato, il legislatore ordinario ha conferito al governo due importanti deleghe
legislative, per la riforma della disciplina del processo di Cassazione e dell’arbitrato
(delega esercitata dal governo col d.lgs. 40/2006).

Va sottolineato l’obiettivo del legislatore della “competitività” di recuperare maggiore


efficienza al processo civile, considerandolo giustamente elemento caratterizzante del
sistema economico del Paese.

11. Le riforme del 2009

L’obiettivo di assicurare al processo maggiore efficienza e celerità ha spinto il legislatore


ad intervenire nuovamente sulla materia con la l. 69/2009, che da un lato ha inserito nuovi
articoli nel codice o ha modificato articoli preesistenti e dall’altro ha introdotto norme
collocate al di fuori del codice di rito, ma che hanno sicure ricadute sul processo civile.
Infine la legge del 2009 recò importanti norme di delega al governo.

12. Le riforme degli anni dal 2011 ad oggi

Anche gli anni più recenti hanno visto numerosi interventi sul codice di procedura civile,
sempre con la finalità di migliorare l’efficienza ed ottimizzare la durata dei processi e al
contempo conseguire risparmi di spesa pubblica: tali finalità appaiono perseguite
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soprattutto attraverso l’aggravamento degli oneri processuali e finanziari a carico delle


parti, anche se con evidente frammentarietà.

13. Il codice civile

Come il codice di procedura civile, anche quello civile assume valore di legge ordinaria.
Numerose ed importanti sono le norme in esso contenute che assumono un immediato
rilievo processuale (basti solo pensare al libro sesto del codice, intitolato “Della tutela dei
diritti”.

14. Le leggi “speciali”

Le leggi speciali non assumono nella gerarchia delle fonti un rango diverso o inferiore
rispetto ai codici, anzi rappresentano proprio lo strumento normativo per modificarli o
novellarli. Il loro attributo di specialità deriva proprio dal fatto che non si tratta di testi
normativi organizzati a sistema e pertanto applicabili ad ogni tipologia di processo, ma di
discipline che prevedono, con riferimento a determinate materie, una regolazione che
assume caratteri di specialità rispetto a quella generale del codice. Al pari di quanto
avvenuto per il diritto sostanziale, anche in materia processuale si è assistito negli ultimi
decenni ad una accentuata opera di c.d. delegificazione, anche se rimane ferma la centralità
del codice di procedura civile, quale strumento di

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regolazione generale del processo: tale circostanza è fonte di complicazione in sede


applicativa ed interpretativa. Per questo motivo il legislatore più recente sembra essere
tornato sui suoi passi ed avviato una sorta di “ricodificazione”, riaffermando il ruolo di
centralità del codice.

15. I regolamenti

La materia processuale è oggetto di normativa primaria. L’uso della normativa secondaria,


in particolare del regolamento (che assume di solito la forma del decreto del Presidente
della Repubblica o del decreto ministeriale) è limitata a settori specifici, come ad es. i
compensi per gli avvocati.

16. La consuetudine e la prassi

Ex art. 8 Preleggi, nelle materie regolate dalle leggi (come è sicuramente la materia
processuale) gli usi hanno efficacia solo in quanto da esse richiamati. Nel settore
processualcivilistico è però assai raro che una norma richiami un uso: si suole citare l’art.
531 co. 1° c.p.c., in base al quale la vendita dei frutti pendenti non può essere disposta se
non per il tempo della loro maturazione, salvo diverse consuetudini locali.

Le prassi giudiziarie sono, per contro, quei modelli comportamentali o indirizzi (talora
anche formalmente sanciti in circolari e in altri atti organizzatori dei capi degli uffici
giudiziari o del ministero della giustizia) ai quali si attengono i magistrati nella conduzione
del processo o di singoli momenti di esso, ovvero i capi degli stessi uffici nell’assegnazione
degli affari ai singoli magistrati:

 si pensi ai c.d. protocolli sullo svolgimento delle udienze che sono stati redati da
gruppi di magistrati e di avvocati e che dovrebbero spingere questi ultimi a tenere
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comportamenti “virtuosi” e uniformi


 si pensi anche alle c.d. prassi virtuose (best practises) invalse in molti uffici
giudiziari al fine di migliorare l’efficienza delle procedure esecutive, molte delle
quali sono state recepite dalle riforme processuali degli anni più recenti.

Le prassi non possono certamente essere considerate fonti del diritto processuale civile in
senso tecnico, né sono vincolanti per magistrati ed operatori. Ciò nonostante, in alcuni casi
(naturalmente a condizione che non si traducano in comportamenti contra legem) esse
possono esprimere e raccogliere criteri-guida di carattere generale utili a favorire la
razionalizzazione e il recupero di efficienza del lavoro degli uffici giudiziari.

17. Il c.d. diritto vivente

Con questa espressione si vuole richiamare il fenomeno che si verifica quando


l’interpretazione ed applicazione giudiziaria della legge si consolida nel tempo attraverso la
formulazione di regole e di principi non scritti, ma largamente condivisi, che, ponendosi
come punto di riferimento per ogni successiva interpretazione ed applicazione della stessa
legge, diventano una vera e propria fonte autonoma, che integra e talvolta si affianca alla
legge scritta. Appare difficile individuare il momento in cui nasce il diritto vivente, cioè il
momento nel quale può ritenersi consolidato un certo principio giurisprudenziale. Per
questo motivo il fenomeno può essere talvolta apprezzato solo ex post, cioè quando si
constata la condivisione diffusa dello stesso principio in un arco temporale significativo da
parte della giurisprudenza, per lo più della Corte di Cassazione, ma anche della Corte
Costituzionale. Lungi dal prescindere dalla legge, il diritto vivente si sviluppa attorno ad
essa, esprimendo regole e principi interpretativi che orientano il giudice nella soluzione del
caso concreto, affinchè essa sia identica in

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fattispecie simili. Del resto il precetto per cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge non
va disgiunto dall’altro principio costituzionale dell’eguaglianza (art. 3 Cost.), che impone al
giudice di decidere fattispecie identiche allo stesso modo. Al diritto vivente vanno
ricondotti, ad es.:

 la categoria della c.d. giuridica inesistenza dell’atto processuale


 il c.d. principio dell’apparenza, in base al quale l’individuazione del mezzo di
impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale va effettuata in
base alla qualificazione giuridica del rapporto controverso adottata dal medesimo
giudice che ha pronunciato il provvedimento, a prescindere dalla sua esattezza
 il c.d. principio di autosufficienza del ricorso per cassazione.

Quando il diritto vivente in materia processuale nella sua fisiologica evoluzione determina
una svolta inopinata e repentina rispetto ad un precedente diritto vivente consolidato (c.d.
overruling), ciò può determinare una compromissione del diritto di azione e di difesa di una
parte. Per questa ragione le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (a partire dalla sentenza
15144/2011) hanno formulato l’importante principio secondo cui, in applicazione dei
principi del giusto processo, deve escludersi l’operatività della preclusione o della
decadenza derivante dall’overruling nei confronti della parte che abbia confidato
incolpevolmente (cioè non oltre il momento di oggettiva conoscibilità dell’arresto
nomofilattico correttivo, da verificarsi in concreto) nella consolidata precedente
interpretazione della regola stessa, la quale aveva comunque creato l’apparenza di una
regola conforme alla legge del tempo.

18. Il principio iura novit curia

Tale principio attiene all’obbligo di applicazione, ma ancor prima di conoscenza delle


norme giuridiche da parte del giudice del processo. Nessun vincolo sussiste per il giudice
nell’individuazione ed interpretazione delle norme giuridiche da applicare ai fini della
decisione della controversia. Proprio questa libertà del giudice implica il suo potere-dovere

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di conoscere e di determinare le norme giuridiche dell’ordinamento da applicare alla


controversia. Inoltre, laddove ai fini della decisione della causa sorga la necessità di fare
applicazione di una norma appartenente ad un ordinamento giuridico straniero, il giudice è
tenuto ex art. 14 l. 218/1995 (legge di riforma del sistema italiano di diritto internazionale
privato) a compiere d’ufficio “l’accertamento della legge straniera”, avvalendosi ove
occorra, oltre che degli strumenti indicati dalle convenzioni internazionali, di informazioni
acquisite per il tramite del Ministero della giustizia e potendo interpellare esperti o
istituzioni specializzate. La stessa norma prevede al co. 2° che, nel caso in cui il giudice
non riesca ad accertare la legge straniera nemmeno “con l’aiuto delle parti”, si applichi o la
legge richiamata mediante altri criteri eventualmente previsti per la medesima ipotesi
normativa o, in mancanza, la legge italiana.

Per giurisprudenza costante, il principio “iura novit curia” non trova applicazione con
riferimento alle norme secondarie del diritto (ad es. i regolamenti), sicchè è onere della
parte del processo allegare e dimostrare dinanzi al giudice il contenuto di tali norme.

19. Il principio tempus regit actum e gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità
della norma processuale

L’efficacia nel tempo delle norme processuali è governata dal principio “tempus regit
actum”: salva diversa disposizione di legge, al singolo atto del processo si applica la norma
processuale vigente nel momento in cui esso viene posto in essere e non la norma
sopravvenuta.

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Il discorso si intreccia con la problematica degli effetti della dichiarazione di


incostituzionalità della norma processuale: infatti, se la caducazione della norma costituisce
effetto direttamente riconducibile alla pubblicazione della sentenza della Corte
costituzionale e comporta il divieto di applicare in futuro la norma dichiarata illegittima, gli
effetti della dichiarazione di incostituzionalità non si limitano ai rapporti futuri, ma
riguardano anche quelli pendenti. Perciò si può escludere che il principio in esame, che
regola la successione nel tempo delle leggi processuali, sia riferibile alla dichiarazione di
illegittimità costituzionale, la quale, essendo non una forma di abrogazione, ma una
conseguenza della sua invalidità originaria, ha efficacia retroattiva e trova il suo limite nella
già intervenuta formazione del giudicato o comunque in fenomeni che si risolvono nel
definitivo consolidamento degli effetti processuali già prodotti dalla norma poi dichiarata
illegittima.

CAP. 2: LA FUNZIONE GIURISDIZIONALE

20. Nozione di giurisdizione

Ogni ordinamento deve prevedere la possibilità per il cittadino, il quale assume che un
proprio diritto o interesse abbia subito (o stia per subire) una lesione dal comportamento o
dall’omissione altrui, di rivolgersi al giudice dello Stato affinchè, a conclusione di un
processo regolato dalla legge, sia accertata la (eventuale) sussistenza della lesione o la
fondatezza della pretesa e si ristabilisca il diritto violato. A questo fine è necessario che
l’ordinamento appresti uomini ed apparati in grado di svolgere quella fondamentale attività
che appartiene ad ogni Stato sovrano che è la funzione giurisdizionale. Fra le molte
definizioni della giurisdizione elaborate dalla dottrina processualcivilistica italiana, vanno
richiamate:

 quella che ne ravvisa l'essenza nell'attuazione del diritto oggettivo (Chiovenda).


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Questa teoria sottintende che, secondo il nostro ordinamento, rimane estranea alle
funzioni giurisdizionali ogni attività statale che sia fonte di diritto oggettivo (ad es.
l’attività legislativa svolta dal parlamento). Tuttavia questa definizione non è
sufficiente ad individuare la vera essenza della giurisdizione: se il diritto oggettivo
serve a regolare in concreto vari aspetti del vivere sociale, nonché a comporre
determinati conflitti di interessi che sorgono tra i soggetti dell’ordinamento, non si
vede perché l’esercizio della pubblica amministrazione e della stessa autonomia
privata non si possano anch’esse qualificare come attuazione del diritto oggettivo.
Insomma l’attuazione del diritto oggettivo non è una funzione che si può attribuire in
via esclusiva alla giurisdizione
 quella che pone l'accento sul carattere imparziale della funzione giurisdizionale
(Segni). Questa teoria pone in rilievo il fatto che l'attività giurisdizionale incide e
produce effetti su rapporti rispetto ai quali l'organo giurisdizionale che la esercita
deve essere in tutto estraneo. Tuttavia anche questa definizione non sembra
sufficiente ad individuare l'essenza della giurisdizione, in quanto non mancano altre
attività che, pur essendo svolte da organi o poteri dello Stato con caratteristiche di
imparzialità o neutralità, non possono per questo qualificarsi come giurisdizionali (ad
es. le autorità indipendenti, che svolgono pur sempre funzioni amministrative).

Piuttosto, per definire esattamente la giurisdizione si deve tener presente che l’effetto
dell’atto giurisdizionale non solo attua il diritto oggettivo e non solo promana da organi
imparziali, ma ha in sé un’altra peculiarità: l’atto giurisdizionale e il suo effetto non sono
mai riferibili ad un soggetto determinato (principio di asoggettività), ma operano sempre
come oggettivo concretarsi dell’ordinamento nella sua universalità. Del resto ciò è
confermato dal fatto che per “rimuovere” l’atto giurisdizionale occorre proporre giudizi di
impugnazione dell’atto finale del processo, nei quali non può mai essere chiamato a
partecipare il giudice o l’ufficio giudiziario che hanno pronunciato l’atto impugnato. In
sostanza l’atto giurisdizionale non è mai riferibile alla persona del giudice che

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lo ha emanato, ma deve essere imputato all’ordinamento giuridico complessivamente


considerato. Quanto detto permette di rifiutare anche quelle dottrine tradizionali che
tendono a riferire la giurisdizione allo “Stato- apparato”, cioè a porre i giudice tra i
“governanti” in contrapposizione ai “governati”. Tutte queste dottrine conducono a negare
ogni differenza tra la giurisdizione e gli altri due poteri dello Stato, in particolare quello
esecutivo. In conclusione, l’atto giurisdizionale (proprio perché proviene da un giudice) non
può essere riferito ad alcun soggetto dell’ordinamento e neppure allo Stato-persona, ma si
identifica con l’ordinamento stesso nel suo oggettivo realizzarsi.

21. Funzioni giurisdizionali necessarie e non necessarie

Per volontà della Costituzione (artt. 24, 25, 27, 113) vi sono funzioni giurisdizionali che
non possono mancare nell'ordinamento e che il legislatore è vincolato ad istituire ed
attribuire ai giudici: trattasi di funzioni giurisdizionali costituzionalmente necessarie che
s'identificano:

 nella tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi


 nell’accertamento e nella repressione dei reati.

Altre funzioni secondo la Costituzione sono non necessariamente giurisdizionali, cioè


possono o non, a discrezione del legislatore, essere affidate ai giudici, in base ad una scelta
di solito (ma non sempre) si esprime tra l'attribuire le funzioni in discorso
all'amministrazione ovvero ai giudici.

In altri casi le funzioni giurisdizionali in discorso sono non necessarie costituzionalmente,


solo nel senso che il legislatore può non istituirle, ma se le istituisce deve, in obbedienza
alla Costituzione, affidarle a giudice e non ad organi dello Stato-apparato o di altri enti
pubblici.

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22. Nozione di giurisdizione civile

A questa definizione si giunge, per il tramite del combinato disposto degli artt. 24, 103 e
113 Cost., negativamente, nel senso che è civile ogni funzione giurisdizionale (anche non
necessaria) che non sia penale o amministrativa. A tal proposito:

 si dice giurisdizione penale quella preordinata all'accertamento ed alla repressione


dei reati, cioè all'applicazione delle pene
 si dice giurisdizione amministrativa quella normalmente (ma non esclusivamente)
preordinata alla tutela degli interessi legittimi nei confronti della PA e che si realizza
con l'invalidazione di atti amministrativi e con decisioni che vincolano la stessa
amministrazione a determinati comportamenti. Per comprendere cosa si intende per
interesse legittimo, si pensi al classico esempio del provvedimento amministrativo di
espropriazione per pubblica utilità: qui il diritto di proprietà del privato (che in sé è
un diritto assoluto tutelabile erga omnes) deve cedere di fronte alla valutazione,
compiuta dall’amministrazione, circa la destinazione del bene alla pubblica utilità, e
diventa per ciò stesso materia di interesse legittimo. In altre parole, il soggetto
privato non potrà far valere dinanzi al giudice civile la compressione del diritto
assoluto di proprietà sul bene oggetto di un provvedimento di espropriazione, ma
dovrà rivolgersi al giudice amministrativo per ottenere la tutela dell’interesse
legittimo a che l’azione del potere pubblico, limitatrice del suo diritto, si svolga
secondo i canoni e i principi legali.

Rileviamo inoltre che, sulla base di quanto dispone l'art. 1 c.p.c.:

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 il codice di procedura civile è la legge generale di ogni giurisdizione civile


 la giurisdizione civile è di regola esercitata da giudici ordinari, ma può anche essere
esercitata da giudici speciali.

23. Le tipologie di tutele giurisdizionali dei diritti e le garanzie del “dovuto processo
legale”

Nell’ambito della giurisdizione civile, il codice di procedura civile e le leggi speciali


conoscono diverse tipologie di tutele giurisdizionali, alle quali corrispondono altrettante
tipologie di processi e di procedimenti. Le tutele giurisdizionali dei diritti si distinguono tra
loro a seconda:

 degli obiettivi che il legislatore assegna a ciascuna di essa


 delle forme e dei mezzi procedimentali volta per volta previsti
 del maggiore o minore approfondimento cognitivo che si richiede al giudice in
relazione alla domanda di tutela proposta
 della maggiore o minore stabilità che assume il provvedimento finale di
ciascuna tutela. Si distinguono così:
 tutele cognitive
 tutele sommarie (e al loro interno le tutele cautelari)
 tutele camerali
 tutele esecutive.

Innanzitutto la tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi va richiesta, quanto alla tutela
cognitiva ed alla tutela esecutiva, con l'iter procedimentale che si svolge secondo le norme
contenute rispettivamente negli artt. 163- 408 c.p.c. e nel libro terzo: questa si può definire
tutela normale generale dei diritti soggettivi, che comprende sia l'attività che nel processo
di cognizione sfocia in sentenze di mero accertamento, di condanna, costitutive-
sanzionatorie e costitutive-determinative (tutte destinate ad acquisire gli effetti del
giudicato formale e sostanziale) sia l’attività che nei processi di esecuzione forzata è diretta

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alla soddisfazione coattiva di quanto descritto nel titolo esecutivo.

Per le richieste di tutela riguardanti determinate categorie di diritti e rapporti giuridici


soggettivi, apposite norme disciplinano modelli procedimentali più o meno differenziati
rispetto a quelli generali, in ragione dell'essenza, della natura o del bisogno di tutela delle
singole categorie di diritti: si parla qui di tutela normale speciale. Il modello processuale
speciale (o differenziato) di maggior importanza è quello regolato dagli artt. 409-447 c.p.c.
(introdotto con la l. 533/1973) per le controversie individuali di lavoro e poi esteso a vari
altri settori del contenzioso. La l. 69/2009 ha poi introdotto nel codice il rito c.d. sommario
(semplificato) di cognizione, che rappresenta il modello di riferimento per i processi in cui
prevalgono i caratteri di semplificazione della trattazione o dell’istruzione della causa. Del
resto la libertà del legislatore di istituire forme di tutela differenziata è pur sempre limitata
dalle regole del “giusto processo”, le quali da un lato vietano la previsione di termini di
irragionevole brevità per l'esercizio delle azioni e delle attività processuali e dall'altro
impongono garanzie di paritaria difesa.

Ancora alle esigenze di tutela differenziata, ma con strumenti diversi, provvedono le tutele
sommarie (non cautelari e cautelari), cioè quelle tutele che per determinate categorie di
diritti o in rapporto a determinate situazioni di pericolo di frustrazione della tutela di merito,
apprestano, accanto alla tutela normale (generale o speciale che sia), strumenti che possono
anticiparla o garantirne i risultati ovvero sostituirla. Si dicono sommarie perché procedono
in vie più brevi e attraverso indagini meno complete di quelle dei processi normali.

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Infine le tutele camerali (all’interno delle quali si possono distinguere le tutele


“autorizzative-omologatorie” al compimento di determinati atti o al promovimento di
giudizi e le tutele “risolutive di conflitti” tra soggetti privati) costituiscono una forma di
tutela giurisdizionale autonoma rispetto a quella normale, che sfuggono ad ogni
classificazione basata su criteri della cognizione piena o sommaria, trattandosi di tutele
cognitive “speciali”, rigidamente tipizzate dalla legge con riguardo all'oggetto ed al
contenuto dei relativi provvedimenti, nelle quali i poteri cognitivi del giudice sono di norma
limitati alla specifica situazione oggetto di tutela e non si estendono al più ampio oggetto
del diritto soggettivo che quella situazione comprende (con conseguente inidoneità alla
formazione del giudicato sostanziale).

24. Giurisdizione interna e giurisdizioni esterne allo stato

La visione tradizionale (quella della tripartizione montesquieiana) secondo cui la


giurisdizione costituisce espressione della sovranità dello Stato oggi deve tener conto del
fatto che, per effetto dell'adesione dello Stato Italiano all'UE e a diverse organizzazioni e
convenzioni internazionali, la sovranità statale in materia di giurisdizione può in certi casi
essere limitata dalla presenza di giurisdizioni esterne. Basti pensare agli organi di giustizia
previsti dai trattati istitutivi all’interno dell’ordinamento comunitario (la Corte di Giustizia
CE e il tribunale comunitario di primo grado), o ancora alla Corte europea dei diritti
dell’uomo, prevista quale organo giurisdizionale sovranazionale dalla CEDU. Ebbene, i
citati organi di giustizia esterni alla giurisdizione italiana emanano atti e provvedimenti che,
nello specifico settore di competenza ad essi assegnato, incidono anche sulle posizioni
giuridiche e sui rapporti tra cittadini soggetti alla sovranità dello Stato italiano.

25. I principi costituzionali relativi all'organizzazione ed alle funzioni della


magistratura: il giudice ordinario e la sua autonomia ed indipendenza

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Nell'ambito dell'ordinamento italiano la funzione giurisdizionale è esercitata da giudici,


cioè da soggetti dotati di particolare qualificazione professionale. In particolare la
Costituzione si preoccupa in primis di porre il concetto di “giudice ordinario”: secondo
l'art. 102 co. 1° Cost. sono ordinari i giudici che compongono l'ordine giudiziario, cioè
quelli cui è dedicato il r.d. 12/1941 (appunto c.d. legge di ordinamento giudiziario). Queste
norme sono dirette a regolare la composizione, la struttura, le attribuzioni, lo status
giuridico, la progressione di carriera e le modalità di funzionamento degli organi
giurisdizionali. Oggi sono giudici ordinari togati:

 il Tribunale, quale giudice unico di primo grado. Si tratta di organo giurisdizionale


avente in origine una composizione soltanto collegiale (3 componenti), ma che dopo
la riforma data dal d.lgs. 51/1998 (istitutiva del c.d. giudice unico di primo grado) ha
di regola la composizione monocratica e che ha sede in ogni capoluogo di provincia,
nonchè negli altri comuni indicati dalla legge, in un ambito territoriale detto
circondario
 la corte d'appello. Si tratta di organo giurisdizionale che giudica sempre in
composizione collegiale (in un numero invariabile di 3 componenti) in un ambito
territoriale detto distretto e di norma competente a conoscere dei giudizi di
impugnazione delle sentenze pronunciate dai tribunali aventi sede nel distretto (ad
eccezione delle controversie che la corte d’appello conosce quale giudice competente
in unico grado)
 la Corte di Cassazione. Ha sede a Roma svolge le funzioni indicate nell'art. 65 ord.
giud., dirette ad assicurare “l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della
legge, nonchè l'unità del diritto obiettivo nazionale (c.d. nomofilachia), il rispetto dei
limiti delle diverse giurisdizioni, il regolamento dei conflitti di competenza e le altre
funzioni ad essa attribuite dalla legge”. Essa è posta al vertice della giurisdizione
ordinaria ed è altresì giudice di legittimità, nel senso che ha il potere di sindacare

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l’applicazione che della legge hanno fatto i giudici di merito.

In secondo luogo, la Costituzione garantisce l'autonomia e l'indipendenza della magistratura


ordinaria sotto diversi profili:

 criteri di selezione. L’art. 106 Cost. stabilisce il principio generale per cui le nomine
dei magistrati hanno luogo per concorso, così da un lato sottraendo il reclutamento
degli stessi a qualunque sindacato di carattere politico e dall’altro selezionando un
corpo di magistrati professionali, inquadrati in un rapporto di pubblico impiego
 indipendenza c.d. esterna. L’art. 104 Cost. istituisce un organo di autogoverno della
magistratura, il Consiglio superiore della magistratura, cui l’art. 105 assegna la
competenza in ordine all'adozione di provvedimenti relativi alle assunzioni, alle
assegnazioni, ai trasferimenti, alle promozioni e ai provvedimenti disciplinari nei
confronti dei magistrati
 indipendenza c.d. interna. L’art. 107 co. 1° prevede che i magistrati “sono
inamovibili” e “non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad
altri sedi o funzioni se non in seguito a decisione del CSM, adottata o per i motivi e
con le garanzie di difesa stabilite dall’ordinamento giudiziario o con il loro
consenso”. Inoltre, secondo il co. 3°, i magistrati si distinguono fra loro “soltanto per
diversità di funzioni”, senza che possano sorgere rapporti di subordinazione
gerarchica fra gli stessi.

26. Le riforme dell'ordinamento giudiziario

Da anni si discute di una possibile riforma dell’ordinamento giudiziario, avanzando proposte


quali:

 la distinzione delle funzioni giudicanti da quelle requirenti, fin dalla fase di accesso
alla magistratura
 la possibilità che i magistrati passino dallo svolgimento di funzioni requirenti allo
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svolgimento di funzioni giudicanti e viceversa solo previo superamento di un


concorso
 l’eliminazione degli automatismi nelle progressioni di carriera e l’introduzione di
apposite verifiche di professionalità.

In particolare, con la l. 150/2005 il Parlamento conferì ampi poteri di delega al governo. In


attuazione di questa delega, il governo ha introdotto tutta una serie di rilevanti principi, tra
cui:

 la titolarità dell'azione penale. Il Procuratore della Repubblica, quale preposto


all’ufficio del PM, è titolare esclusivo dell'azione penale, che esercita personalmente
o mediante assegnazione a uno o più magistrati dell'ufficio. Con l'atto di
assegnazione il procuratore può stabilire i criteri ai quali il magistrato deve attenersi
nell'esercizio della relativa attività, tanto che se non si attiene ad essi il Procuratore
può revocare, con provvedimento motivato, l'assegnazione
 il sistema di valutazione periodica della professionalità dei magistrati. Tutti i
magistrati sono sottoposti a valutazioni periodiche della loro professionalità da parte
del CSM, da cui dipende la progressione di carriera ed economica
 il passaggio di funzioni. I magistrati ordinari sono distinti secondo le funzioni
esercitate (giudicanti o requirenti) e il passaggio da una funzione all’altra non è
consentito nell’ambito dello stesso distretto di corte d’appello e non può essere
chiesto dal magistrato più di 4 volte nel corso dell’intera carriera
 il limite temporale di permanenza negli uffici giudiziari. Al fine di rafforzare la
terzietà ed imparzialità del magistrato, la legge stabilisce il limite massimo di
permanenza dei giudici che esercitano funzioni di 1° e di 2° grado nel loro ufficio da
un minimo di 5 ad un massimo di 10 anni
 la formazione dei magistrati. La formazione iniziale e l'aggiornamento professionale
sono obbligatori per tutti i magistrati, affidati oggi in via esclusiva alla Scuola della
magistratura.

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27. I giudici speciali

L'art. 102 co. 1° Cost. fissa due importanti principi generali dell'ordinamento giudiziario:

 ai magistrati ordinari non spettano altre funzioni che quelle giurisdizionali, per deve
definirsi processo ogni procedimento il cui atto finale provenga da un magistrato
ordinario
 le funzioni giurisdizionali non spettano ad organi diversi dai magistrati ordinari.

A questo principio fanno eccezione i casi in cui le funzioni siano affidate a giudici speciali:
la Costituzione stessa (artt. 102, 103, 108, 125, VI disp. trans.) ne riconosce l'esistenza
accanto alla magistratura ordinaria. Tra i giudici speciali vanno ricordati, oltre a quelli di
giurisdizione amministrativa (Tribunale amministrativo regionale e Consiglio di Stato), la
Corte dei conti, il Tribunale superiore delle acque pubbliche, le commissioni tributarie, i
commissari regionali per la liquidazione degli usi civici, i tribunali militari. Tali organi
concorrono, insieme a quelli della giurisdizione ordinaria, a formare una piramide al cui
vertice si colloca la Corte di Cassazione. A quest’ultima l’art. 111 Cost. affida il giudizio
ultimo su ogni “violazione di legge”, anche nei riguardi dei provvedimenti adottati dai
giudici speciali. Con riferimento, però, ai poteri riconosciuti al Consiglio di Stato e alla
Corte dei conti, la Cassazione è giudice ultimo della delimitazione della sfera di attribuzioni
propria di ogni giurisdizione, potendo essere investita della funzione di decidere su
eventuali contestazioni che investono la spettanza del potere giurisdizionale di risolvere
determinate controversie da parte dei giudici ordinari ovvero dei giudici speciali: è questo il
senso del co. 8° dell’art. 111 Cost., secondo cui contro le decisioni del Consiglio di Stato e
della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso soltanto per motivi inerenti alla
giurisdizione. In definitiva, la giurisdizione italiana è unitaria sotto l’aspetto funzionale, non
sotto l’aspetto organico.

28. Il divieto di istituire nuovi giudici speciali e giudici straordinari

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L'art. 102 Cost. vieta l'istituzione di (nuovi) giudici speciali con l'eccezione di quelli che,
preesistendo alla Costituzione stessa, sono stati mantenuti in vita. Esso vieta altresì di
istituire giudici straordinari, cioè giudici creati ad hoc per una determinata controversia
ovvero per un gruppo determinato di controversie. Quest'ultimo principio si coniuga col più
generale principio dall'art. 25 Cost., secondo il quale per ogni controversia deve esistere un
giudice naturale precostituito per legge, individuabile in base alle norme sulla giurisdizione
e sulla competenza.

29. Le sezioni specializzate

Sempre l'art. 102 Cost. stabilisce che possono istituirsi, presso gli organi giudiziari ordinari,
sezioni specializzate per determinate materie. Le sezioni specializzate, dunque, possono
anche essere istituite ex novo dopo l'entrata in vigore della Costituzione, “anche con la
partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura”. Di solito è proprio
l’inserimento di soggetti estranei alla magistratura a caratterizzare tali organi, in ragione
della specifica competenza degli stessi nelle materie ad essi attribuite. Sono sezioni
specializzate:

 i tribunali e le sezioni di corti d'appello per i minorenni


 le sezioni specializzate agrarie
 le sezioni di corti d'appello costituite in tribunale regionale delle acque pubbliche
 il tribunale delle imprese.

Proprio perché l’art. 102 parla di “istituzione” delle sezioni in discorso, non si può dubitare
della loro autonomia

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o quantomeno sub-autonomia dalle magistrature ordinarie. Ciò non vuol dire che le sezioni
specializzate siano da considerarsi magistrature speciali: anzi, proprio la circostanza
imprescindibile che esse sono costituite “presso gli organi giudiziari ordinari” attesta che le
sezioni specializzate fanno parte della giurisdizione ordinaria.

30. Il tribunale delle imprese

Le sezioni specializzate in materia di impresa (c.d. tribunale delle imprese) sono state
istituite dalla l. 27/2012. Contrariamente alle altre sezioni specializzate, la composizione
del tribunale delle imprese non prevede la presenza di “esperti” estranei alla magistratura
ordinaria, in quanto i giudici che lo compongono sono scelti tra i magistrati “dotati di
specifiche competenze”. Il tribunale delle imprese è competente, oltre che nelle materie già
assegnate alla competenza delle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed
intellettuale, anche per ampi settori del contenzioso intrasocietario.

31. I magistrati onorari

Il co. 3° dell'art. 102 Cost. stabilisce che la legge regola i casi e le forme della
“partecipazione diretta” del popolo all'amministrazione della giustizia. Tra questi casi e
forme può rientrare sicuramente anche l'istituzione di magistrature onorarie, che si realizza
con l'attribuzione di funzioni giurisdizionali a cittadini che, per la loro estrazione (cioè per
l’appartenenza ad una pluralità di settori non necessariamente omogenei della società) e per
le modalità del loro reclutamento (che deve presupporre forme di selezione aperte a tutti)
siano effettivamente espressione di quella partecipazione popolare. L'art. 106 co. 2° Cost.
riserva la qualifica di magistrati onorari solo a giudici non di carriera e pertanto temporanei,
che esercitino funzioni monocratiche, da nominarsi secondo le norme dell'ordinamento
giudiziario. In attuazione della norma costituzionale, l’art. 4 ord. giud. prevede, accanto ai
magistrati togati, un elenco dei magistrati onorari:
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 i giudici di pace
 gli esperti del tribunale e della sezione dei corte d'appello per i minorenni
 gli assessori (oggi giudici popolari) della corte d'assise
 i giudici onorari di tribunale.
 la l. 98/2013, al fine di agevolare la definizione dei procedimenti civili davanti alle
corti d’appello, ha introdotto una nuova categoria di magistrati onorari, costituita dai
giudici ausiliari, da reclutare tra i magistrati ordinari, contabili e amministrativi e gli
avvocati dello Stato, a riposo da non più di 3 anni. La nomina ha la durata di 5 anni,
prorogabili per non più di 5. Il giudice ausiliario deve definire, nel collegio in cui è
relatore, almeno 90 procedimenti per anno.

32. Giurisdizione civile e conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato

Secondo l’art. 134 Cost. i conflitti di attribuzione insorgono “tra i poteri dello Stato”, cioè
tra organi di diversi settori dello Stato-apparato autoritario. I conflitti sono positivi, quando
più organi costituzionali dello Stato si dichiarano tutti competenti a provvedere su una
determinata materia, o negativi, quando tutti si considerino incompetenti. La Corte
Costituzionale è, in base all'art. 104 Cost., giudice di tutti i conflitti di attribuzione tra i
poteri dello Stato. Abbiamo riconosciuto che la giurisdizione è la concreta attuazione
dell’ordinamento, in quanto non imputabile ad uno o più soggetti dello stesso. Ora, anche
se l'estraneità della magistratura ai poteri dello Stato è diffusamente negata in sede teorica,
si è consolidato nella giurisprudenza costituzionale l'opposto

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principio che considera le funzioni giurisdizionali e quelle dei poteri dello Stato-apparato
come reciprocamente contrapponibili in sede di conflitto di attribuzione davanti alla Corte
Costituzionale: si pensi in particolare ai frequenti conflitti di attribuzione tra organi
giudiziari e organi parlamentari (che sono espressione del potere legislativo), per quanto
concerne l’attuazione dell’art. 68 Cost., in tema di immunità in favore di parlamentari.

CAP. 3: I PRINCIPI DEL GIUSTO PROCESSO

33. Procedimento e processo

I termini “procedimento” e “processo” si riferiscono al medesimo fenomeno, esaminato da


due diversi punti di vista: il primo è quello di una progressione analizzata nei nessi tra i suoi
singoli momenti o fasi, il secondo è quello di una compiuta progressione, riguardata
soprattutto nel risultato finale. Quindi la parola “procedimento” indica una serie, mentre la
parola “processo” un insieme di fatti e/o di atti normativamente preordinati e coordinati in
funzione di un determinato effetto o di determinati effetti prodotti da un atto conclusivo del
procedimento, cui tutti i fatti e /o atti precedenti sono strumentali, tanto che l'uno è
giuridicamente causato dall'altro. Il termine “processo” viene usato di solito per definire
ogni procedimento il cui atto finale sia esercizio di funzione giurisdizionale necessaria, cioè
di funzione giurisdizionale che non può mancare nell'ordinamento, essendo il legislatore
vincolato ad istituirla ed affidarla ai giudici dello Stato. Il termine “processo” viene spesso
esteso anche ai procedimenti giudiziari il cui atto finale sia esercizio di funzione
giurisdizionale non necessaria. In questa confusione di linguaggi l’unico dato certo è che il
diritto positivo non usa la parola “processo” per definire procedimenti che non siano
giudiziari, cioè nei quali non operi il giudice e la riserva prevalentemente a quei
procedimenti giudiziari le cui funzioni finali sono di giurisdizione necessaria. I
procedimenti in parola hanno come caratteristica essenziale la partecipazione paritaria alle
attività procedimentali (che concorrono a produrre l’atto finale) dei soggetti che ne sono
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destinatari (cioè le parti) in contraddittorio tra loro.

34. La nozione di giusto processo alla luce dell'esperienza comparatistica e delle


convenzioni internazionali

L’espressione “giusto processo” deriva da quella anglosassone “due process of law”, che
affonda storicamente le proprie radici nella Magna Charta del 1215. Lo stesso principio
trova spazio anche nella Costituzione americana, dove è fissato nel 5° e 14° Emendamento.
La garanzia del processo “giusto” (due) si configura come parte essenziale della
fondamentale regola del primato della legge (rule of law) ovvero, per adoperare una
terminologia propria della civil law, del principio di legalità. La necessità di includere le
garanzie minimali del processo equo e giusto nel catalogo dei diritti inalienabili della
persona umana e di supportare tale previsione con strumenti idonei ad assicurarne la tutela
effettiva appartiene anche all’odierno diritto internazionale convenzionale. Basti ricordare:

 l’art. 10 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo adottata dall’ONU nel
1948, relativo alla “piena eguaglianza delle parti” e al diritto di ciascuno di “essere
ascoltato, in corretto e pubblico giudizio, da un tribunale indipendente e imparziale”
 l’art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, che aggiunge il
riferimento al “giudice competente costituito per legge”
 l’art. 6 della CEDU del 1950, che contiene la gran parte dei principi poi recepiti dalla
l. cost. 2/1999, affidandone il controllo alla Corte europea dei diritti dell’uomo, con
sede a Strasburgo.

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Si potrebbe peraltro ritenere che, in forza del meccanismo di ricezione delle norme di
diritto internazionale generalmente riconosciute di cui all’art. 10 Cost., l’art. 111 Cost. sia
da interpretarsi nel senso di un’implicita apertura verso il recepimento delle convenzioni
internazionali sul giusto processo, nonché della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in
proposito.

35. I principi del giusto processo civile

La legge costituzionale del giusto processo (l. 2/1999) ha introdotto una serie di nuovi
commi all’originario testo dell’art. 111 Cost. In particolare, la norma individua quali
principi del giusto processo applicabili ad ogni tipo di processo (penale, civile,
amministrativo, ecc.) quelli del contraddittorio e della parità delle parti, del giudice terzo ed
imparziale e della ragionevole durata del processo. Non solo, perché anche la garanzia che
il soggetto disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la propria difesa
(che l’art. 111 co. 3° Cost. espressamente riferisce al solo processo penale) deve costituire
per il legislatore ordinario un punto di riferimento nella predisposizione di qualsiasi
normativa processuale. A questa conclusione si può pervenire anche per il tramite di un
duplice dato testuale:

 il principio di cui al co. 3° è pur sempre complementare a quello dettato dall’art. 24


(“la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento)
 lo stesso art. 111 al co. 1°, nel prevedere che la giurisdizione si attua mediante il
giusto processo “regolato dalla legge”, fa riferimento ad una gamma indeterminata di
principi (tra cui certamente quelli che attengono all’effettività del diritto di difesa),
applicabili all’esercizio di qualsiasi forma di processo, anche quello civile.

36. Il principio del contraddittorio

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L'art. 101 c.p.c. contiene la nozione del principio del contraddittorio (oggi richiamato
dall’art. 111 Cost.), statuendo che il giudice non può decidere su alcuna domanda se la
parte contro cui è stata proposta “non è stata regolarmente citata e non è comparsa”, salvo
che la legge disponga altrimenti. In realtà il testo della norma presenta alcune apparenti
inesattezze, non solo perché sembra limitare la portata del principio al processo di ordinaria
cognizione (limitazione inesistente, in quanto la regola del contraddittorio si estende a tutti i
processi di tipo “contenzioso”), ma anche perché esso parrebbe subordinare il potere del
giudice di decidere alla regolare citazione e alla comparizione della parte convenuta,
quando invece la sua contumacia non costituisce affatto ostacolo alla pronuncia della
decisione. Ciò che conta è che la parte convenuta sia stata posta dall'attore in condizione di
contraddire e di esercitare le proprie difese, e non già che lo abbia effettivamente fatto,
costituendosi in giudizio. In virtù della capacità espansiva della norma (riconosciuta ancor
prima della riforma dell’art. 111 Cost.), al principio del contraddittorio deve essere
riconosciuto un ruolo di insopprimibile strumento di garanzia e di attuazione del diritto
costituzionale di difesa, da esplicare non solo in favore delle parti costituite, ma anche (sia
pure entro limiti necessariamente più ristretti) a tutela della parte contumace e del diritto di
quest’ultima di avere conoscenza di determinati atti del processo ai fini del possibile
successivo esercizio del diritto di difesa. Inoltre costituiscono ulteriore garanzia del
contraddittorio sicuramente quelle norme secondo le quali devono essere posti in
condizione di partecipare al giudizio tutti i soggetti (c.d. litisconsorti necessari) titolari delle
situazioni giuridiche di cui si controverete e di conseguenza destinatari degli effetti del
provvedimento finale del processo.

L'inciso “salvo che la legge disponga altrimenti” ovviamente non autorizza il giudice a
statuire senza alcun contraddittorio, ma intende consentire (in casi tassativi) un
contraddittorio non iniziale, ma differito, nel senso

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che il giudice può anche provvedere ed emanare la decisione in assenza del contraddittorio
(“inaudita altera parte”), ma a condizione che si riconosca al soggetto che subisce gli effetti
di quel provvedimento il potere di opporvisi, instaurando un giudizio che si celebra nel
contraddittorio tra le parti, ovvero che si imponga al soggetto che ha ottenuto il
provvedimento “inaudita altera parte” di notificare, unitamente allo stesso, il decreto di
fissazione dell'udienza dinanzi al giudice all'esito della quale, nel contraddittorio delle parti,
quel provvedimento deve essere sostituito con un’ordinanza di conferma, modifica o
revoca.

Infine, il principio in esame va inteso anche nel senso che esso vincola il giudice ad aprire il
dibattito tra le parti su ogni questione che egli stesso sollevi d'ufficio nel corso del processo.
Infatti l’art. 101 co. 2° c.p.c. fa carico al giudice del potere-dovere di indicare alle parti le
questioni “rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione”, con conseguente
divieto, a pena di nullità della sentenza, di fondare la decisione su questioni di fatto o di
diritto rilevate d’ufficio, sulle quali non sia stato previamente provocato il contraddittorio
tra le parti.

37. La ragionevole durata del processo. La legge Pinto

L'art. 111 Cost. prevede tra le garanzie del giusto processo anche il principio della
ragionevole durata dello stesso ed affida alla legge ordinaria il compito di assicurarne
l'effettiva attuazione. Esso assume una duplice valenza: da un lato, esso attiene ai tempi
della procedura in senso stretto, considerando il momento iniziale e finale del
procedimento; dall'altro, esso viene spesso evocato in relazione all'introduzione
nell’ordinamento di rimedi deflattivi del giudizio ordinario e/o di forme di risoluzione delle
controversie alternative alla giurisdizione, tali da liberare energie e tempi in favore dei
giudici.

Anche la CEDU si interessa al tema della ragionevole durata dei processi: l’art. 6 (che
riguarda ogni tipo di processo) stabilisce che ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica
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udienza entro un “termine ragionevole”, davanti ad un tribunale indipendente e imparziale


costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di
carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta. Tale norma
va letta di pari passo con l’art. 24 Cost., enucleando un particolare profilo del diritto alla
difesa. Infatti la norma convenzionale andrebbe interpretata non solo nel senso che non
deve intercorrere un periodo di tempo troppo lungo tra l’inizio del processo e la sua
conclusione, ma anche nel senso che al convenuto deve pur sempre essere concesso un
tempo ragionevole per predisporre le proprie difese. Del resto l’effettività della tutela
giurisdizionale può risultare compromessa tanto dall'eccessiva durata del processo, quanto
dall'eccessiva brevità dei termini entro i quali le attività processuali devono essere compiute
a pena di decadenza (c.d. termini perentori). La Corte europea dei diritti dell'uomo ha
chiarito che il carattere “ragionevole” della durata di un processo deve essere valutato in
rapporto alla complessità del giudizio, tenendo conto delle questioni di fatto e di diritto
discusse, del comportamento delle parti e dell'autorità giudicante, nonché del meccanismo
regolatore della lite. In molte occasioni proprio il nostro Paese è stato condannato per
violazione del precetto contenuto nell’art. 6 CEDU.

Per questi motivi la l. 89/2001 (c.d. legge Pinto) ha riconosciuto il diritto ad una “equa
riparazione” in favore di chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale in
conseguenza del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6. Tale diritto deve
essere azionato dal soggetto interessato instaurando con ricorso dinanzi alla corte d’appello
competente un processo tipicamente contenzioso. La l. 208/2015 ha stabilito che è
inammissibile la domanda di equa riparazione proposta dal soggetto che non ha esperito
uno dei “rimedi preventivi all’irragionevole durata del processo”: questi rimedi, nel
processo civile, sono dati dall’introduzione del giudizio nelle forme del procedimento c.d.
sommario di cognizione nonché dalla richiesta di passaggio dal rito ordinario al rito
sommario. La domanda di riparazione può essere proposta durante la pendenza del
procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata o, a pena di decadenza, entro
6 mesi dal momento in cui la decisione che conclude quel procedimento è divenuta
definitiva. La corte d'appello accerta

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la violazione sulla base della complessità del caso e del comportamento delle parti e del
giudice, nonché di ogni altra autorità chiamata a concorrere al procedimento. Si considera
rispettato il termine ragionevole se il processo non eccede la durata di 3 anni in 1° grado, di
2 anni in 2°, di 1 anno nel giudizio di legittimità (termini che decorrono dal deposito del
ricorso introduttivo del giudizio ovvero dalla notificazione dell’atto di citazione). Il termine
ragionevole si considera rispettato anche se il procedimento di esecuzione forzata si è
concluso in 3 anni e se la procedura concorsuale si è conclusa in 6 anni. Infine detto
termine è comunque rispettato se il giudizio viene definito in modo irrevocabile entro 6
anni. Il giudice liquida a titolo di equa riparazione una somma compresa tra 400 e 800 euro
per ciascun anno (o frazione di anno superiore a 6 mesi) che eccede il termine ragionevole
di durata del processo: l’indennizzo è determinato tenendo conto dell’esito del processo nel
quale si è verificata la violazione, del comportamento del giudice e delle parti, della natura
degli interessi coinvolti, del valore e della rilevanza della causa, valutati anche in relazione
alle condizioni personali della parte. La misura dell’indennizzo non può comunque essere
superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice.
Peraltro la legge prevede dei casi in cui non è riconosciuto alcun indennizzo, tra cui quello
in cui la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio consapevole dell’infondatezza
originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese e in ogni caso di “abuso” dei
poteri processuali che abbia determinato una ingiustificata dilazione dei tempi del
procedimento.

38. La ragionevole durata come criterio di interpretazione e di applicazione delle norme


del processo

Costituisce principio di diritto vivente che “la costituzionalizzazione del principio della
ragionevole durata del processo impone all’interprete un nuovo approccio interpretativo,
per cui ogni soluzione che si adotti nella risoluzione di questioni attinenti a norme sullo
svolgimento del processo deve essere verificata non solo sul piano tradizionale della sua
coerenza logico-concettuale, ma anche e soprattutto per il suo impatto operativo sulla
realizzazione di detto obiettivo costituzionale”. Difatti è al giudice che la legge attribuisce
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l’esercizio di tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento. Del
resto fine primario del principio in esame è “la realizzazione del diritto delle parti ad
ottenere risposta nel merito”. La giurisprudenza della Corte di Cassazione consente di
raggruppare gli arresti che evocano tale principio in due categorie:

 le decisioni nelle quali la ragionevole durata è richiamata alla stregua di un principio


interpretativo di norme processuali in maniera costituzionalmente orientata
 le decisioni nelle quali la ragionevole durata è utilizzata come principio valutativo
della costituzionalità della norma processuale, piuttosto che della sua interpretazione.

39. La garanzia in ordine alla disponibilità dei tempi necessari alla difesa. Congruità
del termine e causa non imputabile

Come già detto, la problematica della ragionevole durata del processo deve essere
affrontata nel contesto di un esame di compatibilità con la disciplina dei termini perentori,
cioè quei termini che il legislatore impone alle parti per il compimento di determinate
attività del processo, sanzionando con la decadenza il mancato compimento di quelle
attività nei termini previsti. Su questa materia si è spesso pronunziata la Corte
Costituzionale evocando il principio di “economia processuale”. La Corte ha chiarito che la
garanzia del diritto di difesa non può implicare che sia illegittimo imporre limitazioni
temporali all'esercizio di facoltà o poteri processuali delle parti, senza le quali i processi
potrebbero trascinarsi indefinitamente, con grave nocumento delle esigenze di giustizia.
Secondo la Corte Costituzionale la previsione di termini perentori risponde, inoltre, ad
esigenze di certezza e di uniformità e tende a garantire un’effettiva parità dei diritti delle
parti, contemperando l’esercizio dei rispettivi diritti di difesa, a condizione che i termini
stessi siano “congrui”, cioè

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tali da non rendere eccessivamente difficile agli interessati la tutela delle proprie ragioni.

A fronte di questo orientamento “restrittivo”, in altre pronunzie la Corte Costituzionale


(rilevata l’esistenza nel nostro sistema di diverse norme che prevedono il caso fortuito o la
forza maggiore come cause di giustificazione per il mancato compimento dell’atto nel
termine perentorio e altresì come condizione per la rimessione in termini della parte
incolpevolmente decaduta) ha censurato di illegittimità alcune norme del c.p.c. che
escludevano la rilevanza del caso fortuito o della forza maggiore quale scriminante ai fini
dell’applicazione della sanzione di volta in volta prevista per il mancato rispetto del termine
perentorio. In queste occasioni la Corte ha avuto anche modo di stigmatizzare l’assenza di
una norma o di un principio che stabilisca la generale rilevanza del caso fortuito o della
forza maggiore. Insomma la valutazione di compatibilità col dettato costituzionale di una
disciplina che preveda termini perentori si risolve nell’accertare la “congruità” del termine
di volta in volta imposto dal legislatore o dal giudice, cioè l’effettiva possibilità che nel
termine fissato la parte onerata ponga in essere l’attività che ad essa viene richiesta
dall’ordinamento processuale per raggiungere un determinato effetto. Oltre alle tradizionali
categorie del caso fortuito, della forza maggiore e della mancata conoscenza di un evento
per errore scusabile (che costituiscono le tipiche componenti del concetto di causa non
imputabile), l'ordinamento sembra, dunque, attribuire rilevanza ad un ulteriore fattore di
scusabilità, rappresentato dalla incongruità del termine.

Nei casi in cui non sussista l'incongruità in sé del termine, ma questa discenda in concreto
dall'impossibilità di compiere l'atto nel termine fissato, il legislatore ricorre all'istituto della
rimessione in termini, che consente ad un soggetto (già decaduto per causa a lui non
imputabile dal termine a lui assegnato per il compimento di un atto del processo) di
compierlo tardivamente.

40. Il diritto di difesa dei non abbienti ed il patrocinio a spese dello stato

L'art. 24 co. 2° Cost. prevede che siano assicurati ai non abbienti i mezzi per agire e
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difendersi davanti ad ogni giudice. Ovviamente si tratta di un corollario del diritto di agire e
difendersi in giudizio sancito dallo stesso art. 24 al co. 1° e che rientra giustamente nei
principi del giusto processo. Le ristrettezze del bilancio pubblico hanno tuttavia resto gli
istituti del patrocinio a spese dello Stato di limitata applicazione nel corso della storia
repubblicana. Attualmente la materia è disciplinata negli artt. 76 ss. del d.P.R. 115/2002
(testo unico in materia di spese di giustizia). Le norme prevedono che possa essere
ammesso al patrocinio a spese dello Stato chi è titolare di un reddito imponibile ai fini
dell'imposta personale sul reddito, risultante dall'ultima dichiarazione, non superiore a €
10766

Chi è ammesso al patrocinio può nominare un difensore tra gli scritti negli elenchi istituiti
presso i consigli dell'ordine degli avvocati, mentre l'onorario e le spese spettanti al
difensore sono liquidati dall'autorità giudiziaria. Infatti il difensore nominato non può
chiedere e percepire dal proprio assistito compensi o rimborsi a qualunque titolo. Ogni
patto contrario è nullo e la violazione del divieto costituisce grave illecito disciplinare.

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PARTE SECONDA: PRESUPPOSTI DEL PROCESSO ED ESERCIZIO DELL’AZIONE

CAP. 4: I LIMITI ALL'ESERCIZIO DELLA GIURISDIZIONE

41. Premessa

Perché il processo sia correttamente e validamente instaurato e possa pervenire alla


funzione ad esso assegnata, è necessario che sussistano alcuni requisiti di accesso e le
condizioni che consentano al giudice di pronunciare nel merito della domanda. Col tempo
si è andata consolidando la c.d. teoria dei presupposti processuali, intesi proprio quali
presupposti del rapporto processuale, distinti dalle condizioni dell’azione: mentre queste
ultime sono state considerate come condizioni per l’emanazione di un provvedimento
favorevole all’attore (da accertarsi al momento della decisione), i primi sono stati
identificati nei requisiti di esistenza del processo stesso. In sostanza i presupposti
processuali erano considerati veri e propri elementi costitutivi del rapporto giuridico
processuale e tali erano ritenuti sia la giurisdizione che la competenza. Con la crisi del
concetto di rapporto processuale (conseguente all’acquisita consapevolezza
dell’impossibilità di applicare al processo lo schema di interdipendenza delle posizioni
attive e passive proprio del rapporto giuridico sostanziale), la teoria dei presupposti
processuali ha perso il suo principale punto di riferimento. Ciò non ha fatto venir meno
l’esigenza che i presupposti del processo (a prescindere dal loro inquadramento teorico)
vadano esaminati in una dimensione di carattere logico, in quanto alcuni di essi sono
prioritari rispetto ad altri, in primis la giurisdizione.

42. La giurisdizione come presupposto per la valida instaurazione del processo

La giurisdizione, intesa come presupposto per l’instaurazione del processo davanti al


giudice, può essere non sussistente in ragione della presenza di altre giurisdizioni speciali
nazionali oppure di giurisdizioni di altri Stati. Innanzitutto, perché il processo venga ad
esistenza, è necessario che la domanda sia proposta (nelle forme e con le modalità richieste
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dalla legge) ad un organo giurisdizionale, cioè ad un soggetto che abbia la qualità di


giudice: anche se privo di giurisdizione, questi ha il potere-dovere di emettere quantomeno
una pronuncia sul solo processo, limitandosi se del caso ad accertare il proprio difetto di
giurisdizione, e cioè la mancanza del suo potere giurisdizionale in relazione alla
controversia instaurata. Tale giudice, quindi, emetterà comunque una sentenza definitiva, in
quanto destinata a chiudere il processo davanti a sé: se non vi è giurisdizione il giudice
adito non potrà pronunciare sul merito della domanda, ma dovrà spogliarsi del processo e
indicare l’eventuale giudice nazionale munito di giurisdizione. In definitiva, il giudice adito
deve avere il potere di esercitare la funzione giurisdizionale che la legge gli affida: non
necessariamente il potere di decidere sul merito di quella specifica causa (riservato al
giudice competente), ma la titolarità della funzione giurisdizionale, cioè del potere di
attuare l'ordinamento nella sua universalità, quale primo presupposto di astratta trattabilità
della causa. Ciò non toglie che ulteriori requisiti di trattabilità o di proseguibilità della causa
fino alla decisione di merito (ad es. la competenza) abbiano la capacità di impedire, ove
mancanti, il concreto esercizio dei poteri decisori.

43. Il momento determinante della giurisdizione: la perpetuatio juridictionis

La giurisdizione (come del resto la competenza) deve sussistere e va accertata con


riferimento al momento della pendenza della lite, cioè della proposizione della domanda
giudiziale. Prima della l. 353/1990, l'art. 5 c.p.c. enunciava il principio secondo il quale la
giurisdizione (e la competenza) si determinano con riguardo allo “stato di fatto” esistente al
momento della proposizione della domanda, senza che avessero rilevanza i successivi
mutamenti dello stato medesimo (c.d. principio della perpetuatio jurisdictionis). La norma
si riferiva a quelle

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circostanze di fatto quali ad es. la residenza, il domicilio o la situazione della cosa oggetto
di pretese reali o successorie. Tuttavia era stato sollevato il problema se l’irrilevanza, ai fini
della determinazione della giurisdizione e della competenza del giudice, dei mutamenti
successivi al momento di proposizione della domanda riguardassero solo lo “stato di fatto”
esistente in quel momento o anche la situazione di diritto, cioè la previsione normativa dei
criteri utili a quella determinazione: ad es. è possibile che le norme di legge in base alle
quali si attribuisce la residenza o si individua il domicilio subiscano mutamenti nel corso
del processo. L’attuale art. 5 ha riconosciuto che la giurisdizione e la competenza si
determinano con riguardo non solo allo stato di fatto, ma anche alla “legge vigente” al
momento della proposizione della domanda, con l'espressa affermazione dell'irrilevanza dei
“successivi mutamenti della legge” oltre che delle modificazioni dello stato di fatto.
Dunque, all'atto della proposizione della domanda e della pendenza della lite viene a
prodursi l'effetto processuale di tenere fermi per tutto il corso del processo (e anche negli
eventuali gradi successivi) i criteri di attribuzione della giurisdizione e della competenza,
pur in presenza di una legge sopravvenuta che comporti modifiche degli stessi. Ovviamente
la descritta irrilevanza non toglie che il legislatore, se vuole rendere immediatamente
applicabile una nuova normativa ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della
stessa, possa farlo prevedendolo espressamente, stabilendo un apposito regime transitorio in
deroga alla regola generale sancita dall’art. 5.

Per ultimo, va osservato che il principio di perpetuatio opera solo quando il sopravvenuto
mutamento dello stato di diritto priva il giudice della giurisdizione che egli aveva quando la
domanda è stata introdotta, non nel caso in cui esso comporta l'attribuzione della
giurisdizione al giudice che ne era inizialmente privo (c.d. giurisdizione sopravvenuta).
Infine, se viene dichiarata dalla Corte Costituzionale l’illegittimità di una norma regolatrice
della giurisdizione (o della competenza), non si ritiene applicabile l’art. 5, in quanto, a
differenza dell’abrogazione della norma che opera ex nunc, essa ha efficacia ex tunc.

44. Le tre tipologie di questioni di giurisdizione

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Il giudice ordinario civile è l'organo al quale l'ordinamento assegna il potere di esercitare la


funzione giurisdizionale in materia civile, ma tale esercizio incontra un triplice ordine di
limiti previsti dalla legge:

 nei confronti del convenuto, in relazione ai rapporti tra giurisdizione italiana e


giurisdizione straniera;
 rispetto alle magistrature speciali, cioè alle materie sottratte alla giurisdizione dei
giudici ordinari e riservate alla competenza giurisdizionale di queste ultime;
 nei confronti della PA convenuta in giudizio e dei pubblici poteri in essa compresi,
allorchè vi sia la c.d. improponibilità assoluta della domanda.

Ciascuna di queste categorie di limiti può dare luogo (se eccepite dalle parti o rilevate
d’ufficio) a “questioni di giurisdizione” sulle quali lo stesso giudice investito della
controversia (oppure la Cassazione, a seguito di proposizione del regolamento di
giurisdizione) è chiamato a pronunciarsi, accertando il difetto o la sussistenza della
giurisdizione rispetto alla controversia medesima. Non si possono qualificare di
giurisdizione questioni diverse da quelle indicate dalla legge, proprio in quanto ciascuna di
esse individua un limite esterno all’esercizio della giurisdizione.

45. La prima tipologia di questioni di giurisdizione: il limite rispetto alla giurisdizione


straniera nei confronti del convenuto

Il primo dei limiti alla giurisdizione riguarda le controversie nella quali sia in gioco il
rapporto tra la giurisdizione

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italiana e giurisdizioni straniere, in relazione alla posizione del solo convenuto (cioè della
parte contro la quale la controversia viene instaurata). Alcun limite alla giurisdizione
italiana può porsi in relazione alla posizione dell'attore, in quanto l’invocazione in Italia
della tutela giurisdizionale da parte di quest'ultimo presuppone di per sé l’accettazione della
giurisdizione italiana. La materia è disciplinata dalla l. 218/1995 di riforma del sistema
italiano di diritto internazionale privato e processuale, che si è ispirata anche a convenzioni
internazionali come quella di Bruxelles del 1968. L’art. 3 della legge citata fissa l'ambito
della giurisdizione italiana, che sussiste:

 quando il convenuto è domiciliato o residente in Italia. Dunque non ha rilevanza la


qualità di straniero, cioè il criterio della cittadinanza, ma solo la circostanza che il
convenuto abbia o meno un collegamento con il territorio dello Stato italiano
 quando il convenuto ha in Italia un rappresentante che sia autorizzato a stare in
giudizio
 negli altri casi in cui la giurisdizione italiana è prevista dalla legge
 quando sussistono, per le controversie che ricadono nell'ambito di applicazione della
Convenzione di Bruxelles (ad es. contratti conclusi da consumatori), alcuni criteri
speciali di collegamento stabiliti dalla Convenzione stessa, anche se il convenuto non
sia domiciliato nel territorio di uno Stato contraente
 quando sussistono, per le controversie che non ricadono nell'ambito di applicazione
della Convenzione, i criteri stabiliti per la competenza per territorio.

In pratica, innovando rispetto alla tradizione codicistica, ai fini del radicarsi della
giurisdizione oggi è sufficiente che sussista uno dei criteri di collegamento tra la
controversia e un determinato luogo, descritti dagli artt. 18- 27 c.p.c. e qualificati come
“criteri di competenza territoriale”. La giurisdizione italiana è, invece, esclusa rispetto alle
“azioni reali aventi ad oggetto beni immobili situati all'estero”, limite questo giustificato dal
legame particolarmente stretto tra le dette azioni e lo Stato nel cui territorio si trova
l'immobile. L'art. 4 prevede che, al di fuori delle predette ipotesi, la giurisdizione italiana
sussiste quando le parti l'abbiano convenzionalmente accettata, per via espressa o tacita:

 in caso di accettazione espressa avvenuta antecedentemente all'instaurazione del


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processo, le parti dichiarano esplicitamente la propria volontà di accettare la


giurisdizione italiana con un atto che ha contenuto tipicamente negoziale e va redatto
per iscritto. In caso di accettazione a processo già pendente, questa volontà sarà
espressa in un atto processuale (ad es. la comparsa di risposta)
 l’accettazione tacita, invece, deriva dal fatto che “il convenuto compaia nel processo
senza eccepire il difetto di giurisdizione nel primo atto difensivo”, cioè che partecipi
al giudizio ponendo in essere una condotta processuale incompatibile con la volontà
di eccepire quel difetto

Resta comunque salvo il potere di rilevazione officiosa del difetto di giurisdizione, che il
giudice può esercitare sempre (in qualunque stato e grado del processo) se il convenuto è
contumace nonché se si tratta di azione reale avente ad oggetto beni immobili situati
all’estero ovvero se la giurisdizione italiana sia esclusa per effetto di una norma
internazionale (art. 11).

Infine, lo stesso art. 4 al co. 2° disciplina la derogabilità convenzionale della giurisdizione


italiana, sostituendo l’art. 2 c.p.c. e consentendo alle parti di escludere la giurisdizione
italiana a favore di un giudice straniero o di un arbitrato estero, sempre che la deroga sia
provata per iscritto e verta su diritti disponibili. Al contrario, prima della legge del 1995 il
divieto di accordi di deroga della giurisdizione italiana era considerato espressione
dell’asserito carattere di sovranità della giurisdizione.

46. Le c.d. immunità giurisdizionali

Una norma consuetudinaria di diritto internazionale generalmente riconosciuta (che si fonda


sul principio “in

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parem non habet iurisdictionem) impone agli Stati l'obbligo di astenersi dall'esercitare il
potere giurisdizionale nei confronti degli Stati stranieri per gli atti da questi ultimi compiuti
“jure imperii”, cioè nell'esercizio della loro sovranità (c.d. immunità statale della
giurisdizione civile straniera). Tuttavia l’evoluzione del diritto vivente ha portato a
considerare, anche nell’ordinamento internazionale, il rispetto dei diritti inviolabili della
persona umana come un principio fondamentale, tale da ridurre la portata di altri principi
cui l’ordinamento si è tradizionalmente ispirato, quale quello del rispetto delle reciproche
sovranità. Ne consegue che la norma consuetudinaria citata non ha più carattere
incondizionato: allo Stato straniero non è accordata un’immunità totale dalla giurisdizione
civile dello Stato territoriale, in presenza di comportamenti di tale gravità da configurarsi
quali crimini contro l’umanità che segnano il punto di rottura dell’esercizio “tollerabile”
della sovranità. Anche la Corte Costituzionale ha ritenuto infondata la questione di
legittimità costituzionale della norma prodotta nel nostro ordinamento mediante il
recepimento ex art. 10 Cost. della norma consuetudinaria di diritto internazionale
sull’immunità statale, salvo il rispetto dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili
dell’uomo, in quanto “elementi identificativi dell’ordinamento costituzionale”.

Dobbiamo considerare anche che con la l. 5/2013 l’Italia ha aderito alla Convenzione ONU
del 2004 sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni. Ricordiamo in particolare
l’art. 3, in base al quale:

 quando la Corte internazionale di giustizia, con sentenza che ha definito un


procedimento di cui è stato parte lo Stato italiano, ha escluso l’assoggettamento di
specifiche condotte di altro Stato alla giurisdizione civile, il giudice davanti al quale
pende controversia relativa alle stesse condotte rileva, d’ufficio e anche quando ha
già emesso sentenza non definitiva passata in giudicato che ha riconosciuto la
sussistenza della giurisdizione, il difetto di giurisdizione in qualunque stato e grado
del processo
 le sentenze passate in giudicato in contrasto con la sentenza della Corte
internazionale di giustizia di cui sopra, anche se successivamente emessa, possono
essere impugnate per revocazione, oltre che nei casi ex art. 395 c.p.c., anche per
difetto di giurisdizione civile (e in tal caso non si applica l’art. 396 c.p.c.).
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47. La seconda tipologia di questioni di giurisdizione: il limite della giurisdizione


ordinaria nei confronti dei giudici speciali

L’appartenenza soggettiva del giudice speciale ad un apparato o potere statale diverso


dall’ordine giudiziario spiega perché il legislatore ha costruito i rapporti tra giudici ordinari
e giudici speciali non come una ripartizione di competenze nell’ambito di un’unica
giurisdizione, ma come contrapposizione di diverse giurisdizioni. Ciò spiega perché la
sottoposizione al giudice civile ordinario di una controversia relativa a materie attribuite
alla cognizione delle magistrature speciali rappresenta un limite all'esercizio della
giurisdizione ordinaria e comporta la necessità che il giudice ordinario pronunci sentenza
definitiva, declinatoria della propria giurisdizione.

In particolare, con riferimento al giudice speciale amministrativo, il limite alla giurisdizione


ordinaria si ha quando una delle parti in causa sia la PA (o un soggetto ad essa equiparato) e
si chieda al giudice civile la tutela di interessi legittimi, cioè di situazioni giuridiche
sostanziali diverse dai diritti soggettivi (la cui tutela spetterebbe di norma alla giurisdizione
ordinaria). Dunque è la qualificazione in termini di diritto soggettivo o di interesse
legittimo della situazione giuridica sostanziale che si fa valere nel processo a costituire
presupposto per la sussistenza o meno della giurisdizione del giudice ordinario. Tuttavia
l’individuazione della linea di confine non sempre risulta agevole: la legislazione degli
ultimi anni ha investito il giudice amministrativo in misura sempre maggiore di
controversie che hanno ad oggetto diritti soggettivi, introducendo nuove ipotesi di
“giurisdizione esclusiva” del giudice amministrativo (nel senso che essa investe la tutela
non solo degli interessi legittimi, ma anche dei diritti soggettivi). Prima il d.lgs. 80/1998 e
poi la legge 205/2000 avevano ampliato il novero di queste ipotesi di giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo (ad es. in materia di pubblici servizi, urbanistica ed

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edilizia. La materia è oggi regolata dal Codice del processo amministrativo (d.lgs. 104/2010)
che, affermando il
c.d. principio di effettività (consistente nel concentrare davanti al giudice amministrativo
ogni forma di tutela degli interessi legittimi e, nelle materie indicate dalla legge, dei diritti
soggettivi), ha stabilito che:

 sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie concernenti


l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo e provvedimenti, atti,
accordi o comportamenti riconducibili all’esercizio di tale potere e posti in essere da
PA
 la giurisdizione amministrativa si articola in
o giurisdizione generale di legittimità. In questa rientrano le controversie relative
ad atti, provvedimenti od omissioni delle PA, comprese quelle relative al
risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti
patrimoniali consequenziali
o esclusiva. In questa rientrano le controversie nelle quali si faccia questione di
diritti soggettivi
o estesa al merito. In questa rientrano le controversie indicate dalla legge e
dall’art. 134 del Codice. Nell’esercizio di tale giurisdizione, il giudice
amministrativo può in sostanza sostituirsi all’amministrazione.

Oltre ai giudici amministrativi, vi sono altri giudici speciali alla cui cognizione sono
attribuite dalla legge controversie aventi ad oggetto diritti soggettivi:

 la Corte dei conti ha giurisdizione esclusiva in materia di pensioni, contabilità


pubblica e responsabilità per danno erariale
 il tribunale delle acque pubbliche e i commissari regionali liquidatori di usi civici
 le commissioni tributarie hanno giurisdizione generale nelle controversie che hanno
ad oggetto tributi.

La presenza nell’ordinamento della giurisdizione civile ordinaria e di diversi giudici


speciali rende concreta l’eventualità che sorgano questioni di giurisdizione quando il

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giudice ordinario e quello speciale, ovvero due giudici speciali, ritengano di avere entrambi
la giurisdizione su una determinata controversia. Quando ciò accade, giudice ultimo dei
conflitti di giurisdizione è, secondo l’art. 362 c.p.c., la Corte di Cassazione. La norma
citata, nel co. 1°, consente l’impugnabilità in Cassazione delle decisioni in grado di appello
o in unico grado di un giudice speciale per motivi attinenti alla giurisdizione del giudice
adito, mentre nel co. 2° prevede che il conflitto tra giudici speciali o tra giudici ordinari e
giudici speciali (che abbiano entrambi affermato o negato la propria giurisdizione) sia
denunciabile senza termine dinanzi alla stessa Cassazione. Il tema dei rapporti tra le diverse
giurisdizioni deve essere letto oggi alla luce dell’art. 59 l. 69/2009, la quale impone al
giudice che dichiara il difetto di giurisdizione di individuare il giudice munito di
giurisdizione, davanti al quale la parte interessata può far “trasmigrare” il processo,
restando fermi gli effetti processuali e sostanziali già prodottisi al momento
dell’instaurazione del “primo” processo davanti al giudice che ha declinato la giurisdizione
(c.d. translatio judicii).

48. La terza tipologia di questioni di giurisdizione: il limite della giurisdizione nei


confronti della pubblica amministrazione e dei suoi poteri

Il limite in questione sta a indicare che né il giudice ordinario né alcun altro giudice dello
Stato (ivi compreso quello speciale amministrativo) è fornito di giurisdizione sulle
controversie promosse dal privato nei confronti dell'amministrazione “attiva” dello Stato,
che abbiano ad oggetto una situazione soggettiva che non può essere qualificata nemmeno
in termini di interesse legittimo (nel qual caso rientrerebbe nella giurisdizione del giudice
amministrativo. Così l’art. 7 del Codice del processo amministrativo prevede espressamente
che non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal governo nell’esercizio del
potere politico: si pensi ai c.d. atti politici, che rientrano nella discrezionalità assoluta
dell’esecutivo e dei quali quest’ultimo risponde con la

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propria responsabilità politica di fronte al Parlamento e all’elettorato. In questi casi si parla


di improponibilità assoluta della domanda (art. 37 c.p.c.), fenomeno che si verifica in tutti i
casi nei quali il privato non è titolare e non può far valere nei confronti della PA alcuna
situazione giuridica sostanziale in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo.

49. Il regime processuale delle questioni di giurisdizione

Ciascuno dei limiti alla giurisdizione sinora analizzati può dare luogo a “questioni di
giurisdizione”: si tratta di questioni pregiudiziali di rito, in quanto hanno ad oggetto
l'accertamento della sussistenza o meno della giurisdizione in relazione ad una determinata
e già instaurata controversia. Questo accertamento, avendo ad oggetto la sussistenza di un
presupposto per la valida instaurazione del processo, deve essere compiuto prima di
qualsiasi altro e può condurre, in caso di difetto di giurisdizione, alla pronuncia di una
sentenza definitiva, cioè che chiude il processo dinanzi al giudice che la pronuncia. La
disciplina contenuta nell’art. 37 c.p.c. concerne le modalità temporali di rilevazione delle
questioni di giurisdizione e l’individuazione dei soggetti (giudice e parti) legittimati
rispettivamente al rilievo o all’eccezione. In tal senso, l'art. 37 sancisce il principio della
rilevabilità, anche d'ufficio in ogni stato e grado da parte del giudice, delle questioni di
giurisdizione nei confronti della PA e dei giudici speciali. Questo principio esprime
evidentemente il massimo interesse del legislatore a consentire, e anzi favorire, il rilievo di
tali questioni. Ma la rilevabilità del difetto di giurisdizione in ogni stato e grado del
processo non va intesa nel senso che ciascun giudice chiamato a conoscere della
controversia (anche in grado di appello o in Cassazione) è autonomamente dotato del potere
di rilevazione di quel difetto, ma nel senso che questo potere può essere esercitato per la
prima volta anche in sede di appello o di giudizio di Cassazione, purchè la questione non
sia stata già oggetto di rilievo e di decisione nel o nei gradi precedenti del processo. Infatti,
se ad es. la sentenza di 1° grado si pronuncia in maniera espressa sulla questione di
giurisdizione e nessuna delle parti propone impugnazione su quello specifico punto o capo,
tale decisione passa in giudicato formale e non potrà più essere messa in discussione né dal
giudice né dalle parti nei successivi stati e gradi di quel processo. Insomma l’operatività del
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principio ex art. 37 è pur sempre soggetta al limite costituito dal giudicato formale che si sia
già prodotto all’interno dello stesso processo (c.d. giudicato interno).

Inoltre il diritto vivente vuole oggi che il principio ex art. 37 tenga conto dei principi di
economia processuale e di ragionevole durata del processo. Sulla base di queste
precisazioni, l’ambito applicativo dell’art. 37 è inteso oggi in senso restrittivo e residuale,
con la conseguenza che:

 il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti fino a quando la causa non
sia stata decisa nel merito in 1° grado
 la sentenza di 1° grado di merito può essere impugnata per difetto di giurisdizione
 le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto se sul
punto non si sia formato il giudicato interno
 il giudice può rilevare anche d'ufficio il difetto di giurisdizione fino a quando sul
punto non si sia formato il giudicato interno.

Peraltro, contrariamente a quanto si riteneva in passato, tale giudicato interno sulla


giurisdizione può essere sia “esplicito” (nel senso che vi è stata un’espressa decisione sulla
giurisdizione non impugnata dalle parti) sia “implicito” (che si forma ogniqualvolta la
causa sia stata decisa nel merito, dovendosi supporre che il giudice, decidendo sulla
domanda della parte, abbia implicitamente ritenuto la sussistenza della propria
giurisdizione). Si sottraggono al giudicato implicito sulla giurisdizione solo quelle decisioni
che non contengono statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione, come
accade quando l’unico tema dibattuto nel processo sia stato quello relativo all’ammissibilità
della domanda o quando dalla motivazione della sentenza risulti che l’evidenza di una certa
soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione (ad es. manifesta infondatezza della
pretesa) e

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abbia quindi indotto il giudice a decidere il merito per saltum, cioè non rispettando la
priorità logica stabilita dal legislatore per la trattazione delle questioni di rito (tra cui quella
di giurisdizione) rispetto a quelle di merito.

50. Le questioni di giurisdizione in presenza di un convenuto non residente o non


domiciliato in Italia

L'art. 11 della l. 218/1995 prevede che il difetto di giurisdizione del giudice italiano possa
essere rilevato, in qualunque stato e grado del processo, “soltanto dal convenuto costituito
che non abbia espressamente o tacitamente accettato la giurisdizione italiana”, mentre è
rilevato dal giudice d'ufficio, sempre in qualunque stato e grado del processo, se:

 il convenuto è contumace
 se trattasi di azioni reali aventi ad oggetto beni immobili situati all'estero
 se la giurisdizione italiana è esclusa per effetto di una norma internazionale.

Peraltro, ex art. 4 della stessa legge, il difetto di giurisdizione deve essere eccepito dal
convenuto che si costituisce nel suo primo atto difensivo: dunque il convenuto che si
costituisce senza eccepire il difetto di giurisdizione non fa altro che accettare tacitamente la
giurisdizione italiana. In definitiva il legislatore ha introdotto tre sole ipotesi eccezionali in
presenza delle quali vige il principio di rilevabilità officiosa in ogni stato e grado del
processo. Le ragioni di questa disciplina differenziata sono da rinvenire nel diverso grado di
“interesse” del legislatore ad esigere il rispetto del limite esterno alla giurisdizione: siffatto
interesse, mentre sussiste per le tre ipotesi sopra citate, viene meno quando il convenuto si
costituisce in giudizio, in quanto la legge intende favorire da parte sua il fenomeno
dell’accettazione espressa o tacita della giurisdizione italiana.

51. Il regolamento di giurisdizione

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L'art. 41 c.p.c. consente che, su richiesta di una delle parti, le questioni di giurisdizione di
cui all’art. 37 possano essere decise dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione in sede di
regolamento di giurisdizione, sempre che la relativa istanza sia proposta “finchè la causa
non sia decisa nel merito in 1° grado”. Finalità dell’istituto è quella di consentire a ciascuna
delle parti (quindi non solo al convenuto, che abbia già eccepito il difetto di giurisdizione,
ma anche all’attore, che a seguito di quella eccezione abbia interesse ad ottenere un
accertamento definitivamente vincolante circa la sussistenza della giurisdizione) di
richiedere alla Corte di Cassazione una pronuncia incontestabile sulla giurisdizione, che
vincoli sia il giudice adito che ogni altro giudice successivamente investito della
controversia. Il legislatore ha inteso realizzare questa finalità:

 da un lato, consentendo la proponibilità dell’istanza di regolamento fino alla


pronuncia della decisione di merito di 1° grado, che rappresenta quindi il limite
preclusivo all’accesso al mezzo
 dall’altro, ritenendo ammissibile la proposizione dell’istanza di regolamento anche in
assenza di qualsivoglia pronuncia sulla giurisdizione da parte del giudice del merito.

Questa ultima caratteristica è espressione della natura “preventiva” del regolamento:


potendo essere richiesto al solo fine di vedere risolta la questione di giurisdizione, il
regolamento non può essere qualificato come un mezzo di impugnazione, ma deve essere
considerato un procedimento incidentale diretto ad ottenere in tempi rapidi dalle Sezioni
Unite un accertamento definitivamente vincolante in ordine alla giurisdizione. Del resto
l’art. 323 c.p.c. conferma questa conclusione quando non include il regolamento di
giurisdizione nel catalogo dei mezzi di impugnazione.

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Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza della Cassazione, è


inammissibile l’istanza di regolamento di giurisdizione proposta dopo una qualsiasi
decisione, compresa quella sulla sola giurisdizione (in senso sia affermativo che negativo),
emanata dal giudice del merito dinanzi al quale il processo è stato radicato. Questo limite
all’esperibilità del regolamento di giurisdizione è stato ulteriormente “arretrato” al
momento in cui la causa è trattenuta in decisione (che nel rito ordinario coincide con
l’udienza in cui le parti precisano le rispettive conclusioni), momento che, segnando il
radicamento dei poteri decisori del giudice, osta al regolamento. Tale principio di diritto
vivente finisce nella sostanza per riscrivere l’art. 41, cancellando ogni riferimento al
contenuto “di merito” della decisione. Perciò, fino a quando la norma continuerà a
contenere l’inciso “finchè la causa non sia decisa nel merito in 1° grado”, con espresso
riferimento alla decisione di merito (e non ad ogni decisione pronunciata nel corso del
processo di merito), bisogna ritenere che l’accesso al regolamento vada negato non dopo
una qualsiasi decisione, ma solo in presenza del concreto esercizio dei poteri decisori da
parte del giudice adito.

L’istanza di regolamento di giurisdizione si propone con ricorso notificato alle altre parti
del processo a norma degli artt. 360 ss. c.p.c., che deve contenere, oltre all’esposizione dei
fatti rilevanti per la decisione della questione di giurisdizione, le ragioni che secondo
l’istante dovrebbero condurre alla negazione della giurisdizione del giudice adito. Inoltre
copia del ricorso deve essere depositata nella cancelleria del giudice dinanzi a cui pende la
causa, così che questi possa provvedere sull’eventuale sospensione del processo ex art.
367. Originariamente la norma prevedeva l’effetto sospensivo automatico del processo a
seguito della mera proposizione del regolamento di giurisdizione: così nella pratica tale
sospensione automatica veniva strumentalmente usata dalle parti a fini dilatori, per ritardare
la pronuncia sul merito. Questi abusi spinsero il legislatore del 1990 ad abolire
l’automaticità dell’effetto sospensivo del processo e ad attribuire al giudice investito della
causa la sola facoltà di disporlo a sua discrezione con apposita ordinanza, previa
valutazione:

 della manifesta inammissibilità dell’istanza di regolamento


 della manifesta infondatezza della contestazione della giurisdizione
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In sostanza egli svolge una sommaria e probabilistica delibazione circa l’esito finale del
procedimento per regolamento di giurisdizione. Il nuovo art. 367 solleva il problema della
sorte dei provvedimenti (in primis le sentenze di merito) che il giudice abbia pronunciato,
in caso di mancata sospensione del processo, in pendenza del procedimento di regolamento
di giurisdizione, qualora poi questo si concluda con l’affermazione da parte della
Cassazione dell’insussistenza della giurisdizione. Quegli atti e quei provvedimenti ne
saranno immediatamente travolti, in quanto pronunciati su un presupposto (manifesta
inammissibilità o infondatezza della questione di giurisdizione, dichiarate con l’ordinanza
che disponeva la prosecuzione del processo) che invece le Sezioni Unite hanno accertato
come insussistente.

Al procedimento di regolamento di giurisdizione si applicano le stesse regole che


governano il giudizio di cassazione. Ex art. 375 c.p.c., le Sezioni Unite decidono
sull’istanza in camera di consiglio con ordinanza, “determinando, quando occorre, il
giudice competente”. Vi è, infine, il problema degli effetti dell’ordinanza di regolamento di
giurisdizione della Cassazione, cioè se essi siano limitati al processo nel corso del quale
l’istanza di regolamento è stata sollevata (con effetti “endoprocessuali”) oppure se, in caso
di sopravvenuta estinzione del processo di merito, essi vincolino anche tutti i futuri giudici
chiamati a pronunciarsi sul medesimo diritto o rapporto giuridico sostanziale già fatto
valere nel processo estinto (con effetti “panprocessuali”). Nonostante il silenzio dell’art.
310 co. 2°, il quale espressamente sottrae agli effetti caducatori dell’estinzione del processo
solo i provvedimenti della Cassazione che “regolano la competenza”, sembra opportuno
riconoscere la stessa efficacia panprocessuale anche alle ordinanze in esame, in quanto
strumento di attuazione di quella funzione di assicurare l’obbedienza dei giudici di merito
alle leggi sostanziali e processuali che l’ordinamento assegna alla Cassazione. Ovviamente
questa efficacia vincolante verrà meno se sopravvengono, tra l’estinzione del processo e la
riproposizione della stessa domanda, fatti nuovi e diversi rilevanti ai fini dell’attribuzione
della giurisdizione.

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52. Il regolamento di giurisdizione su istanza della pubblica amministrazione

Sempre l'art. 41 c.p.c., al co. 2°, attribuisce alla PA che non sia parte in causa il potere di
chiedere, in ogni stato e grado del processo, alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione di
dichiarare il difetto di giurisdizione del giudice ordinario “a causa dei poteri attribuiti dalla
legge” all’amministrazione stessa. Si tratta di un istituto dalle antiche origini (da ricollegare
ai privilegi di cui godeva la PA) e oggi di rarissima applicazione, concesso alla PA solo
quando sia estranea al rapporto in contestazione. Tale facoltà può essere esercitata
dall’amministrazione per tutto il corso del processo, con l'unico limite derivante dalla
presenza di un giudicato formale sulla sentenza (anche non definitiva) dichiarativa della
giurisdizione del giudice ordinario, che abbia espressamente affermato la proponibilità
dell’azione, ovvero dalla presenza di un’ordinanza della Cassazione che abbia già ritenuto
sussistente la giurisdizione. Ex art. 368 la richiesta deve essere avanzata dal prefetto con
decreto motivato, notificato alle parti ed al p.m. Proprio quest’ultimo comunica poi il
decreto prefettizio al capo dell'ufficio giudiziario dinanzi al quale pende la causa, il quale
provvede a sospendere il giudizio con decreto da notificarsi alle parti entro 10 giorni dalla
pronuncia, a pena di decadenza. Successivamente è la parte più diligente che deve investire
la Corte di Cassazione con ricorso che deve essere proposto entro il termine perentorio di
30 giorni dalla notificazione del decreto. Il procedimento per regolamento proseguirà poi
secondo le regole ordinarie. Questo regolamento, dunque, è solo nominalmente ad istanza
della PA, ma in sostanza ad istanza di parte, in quanto l’esercizio del potere da parte della
PA ha più che altro funzioni di stimolo alle parti. Tuttavia tale sistema pare contrastare con
l’attuale art. 367 che, rendendo non automatica la sospensione, intende vietare l’uso del
mezzo in esame a fini dilatori (che qui si realizzerebbero in caso di inerzia delle parti).

CAP. 5: LA COMPETENZA

53. Competenza statica e competenza dinamica


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Secondo la nozione tradizionale, la competenza è l'ampiezza o misura della sfera di potestà


giurisdizionale attribuita ai singoli giudici che fanno parte della giurisdizione ordinaria, per
come essa risulta dalle previsioni normative. Tali norme hanno riguardo al momento che
precede l'instaurazione del processo, cioè quando l'attore (cui spetta di proporre la domanda
dinanzi al “giudice competente” ex art. 99) è chiamato ad individuare tale giudice tra tutti
quelli della Repubblica, facendo applicazione di criteri che si definiscono “statici” in
quanto prescindono, in questo momento, dalla pendenza del processo. Talvolta, però, la
legge prevede che il giudice adito, malgrado sia incompetente secondo i criteri statici di
competenza, “diventi” competente se nel corso del processo si verificano determinate
condizioni da essa descritte. In questi casi è frequente nella dogmatica tradizionale il
richiamo ad una sorta di meccanismo di “sanatoria”, in termini di “legittimazione
successiva” del giudice originariamente incompetente. A ben vedere, l'ordinamento non si
limita a prevedere una serie di criteri statici di competenza, ma prevede delle fattispecie
idonee ad incidere sulla competenza del giudice, attribuendola o negandola secondo regole
che prescindono o possono essere addirittura in contrasto con i criteri statici, e che trovano
la loro ratio in esigenze legate alla “dinamica” del processo, cioè al suo concreto
svolgimento e all’esigenza che esso pervenga al suo risultato finale. Il legislatore prevede,
insomma, delle fattispecie che potremmo definire di competenza “dinamica” (o in senso
dinamico) in presenza delle quali attribuisce al giudice adito, fin dal momento
dell’originaria pendenza del processo, la competenza a trattare la controversia e decidere
nel merito della stessa, a prescindere dai criteri statici. La particolarità è data dal fatto che la
competenza viene attribuita sotto condizione (risolutiva) che le parti non eccepiscano ed il
giudice non rilevi, entro il termine previsto dalla legge, l'incompetenza in relazione ai criteri
statici. I criteri statici e dinamici di competenza sono, dunque, chiamati a svolgere la stessa
funzione, che è quella di pervenire all’individuazione del giudice competente a trattare e
decidere sul merito della domanda proposta. In questo stesso contesto

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vanno apprezzate le modifiche apportate all’art. 38, finalizzate allo scopo di ridurre
drasticamente la portata potenzialmente impediente, a processo pendente, delle questioni di
competenza (non potendo il giudice incompetente far altro che pronunciare sentenza
declinatoria di competenza).

Le fattispecie di competenza dinamica si distinguono in dirette o indirette, a seconda del


loro diverso modo di operare nel processo e di pervenire all’individuazione del giudice
competente:

 le fattispecie dirette producono i loro effetti dal momento dell'iniziale pendenza del
processo, anche se sottoposti alla condizione risolutiva che il difetto di competenza
non sia eccepito dalle parti o rilevato dal giudice con le modalità ed entro i termini
previsti dall’art. 38
 le fattispecie indirette, al contrario, presuppongono il verificarsi nel corso dello
svolgimento del processo già instaurato di determinati comportamenti delle parti o la
pronuncia di provvedimenti del giudice, che consentono di individuare il giudice
competente a conoscere della controversia (ad es. accordo processuale di deroga sulla
competenza territoriale).

Dopo l’entrata in vigore del codice, è stata abbandonata la nozione di competenza quale
presupposto processuale indispensabile per la valida instaurazione del processo e si è
acquisita consapevolezza che la competenza non riguarda più la proposizione della
domanda, bensì lo svolgimento del giudizio per la trattazione della stessa. Quindi la
competenza deve essere considerata non tanto come requisito di validità dei singoli
provvedimenti del giudice, ma come condizione di esercizio del potere-dovere decisorio sul
merito.

54. I criteri di competenza

Quando si discute di giudice competente, si fa riferimento non ad un singolo giudice inteso


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come persona fisica, bensì all’ufficio giudiziario nel suo complesso, all’interno del quale le
controversie vengono assegnate dopo la loro instaurazione ai singoli magistrati secondo
criteri di distribuzione predeterminati (c.d. criteri tabellari). Per individuare tra tutti gli
uffici giudiziari nazionali, il giudice competente a conoscere di una determinata
controversia, dinanzi al quale l'attore deve proporre la domanda, soccorrono diversi criteri
di competenza in senso statico:

 in relazione alla materia, cioè alla natura della controversia o al tipo di diritto in
contestazione
 in relazione al valore, cioè alla valutazione economica dell'oggetto della controversia
 in relazione al territorio, cioè all'ubicazione dell'ufficio giudiziario.
Le prime due categorie operano in senso verticale, cioè hanno riguardo ai diversi tipi
di giudici previsti dal nostro ordinamento (giudici di pace, tribunali, corti d’appello),
mentre la terza in senso orizzontale, cioè fa solo riferimento alla dislocazione sul
territorio dei vari uffici giudiziari dello stesso tipo.

Ovviamente i criteri statici permettono all’attore di individuare il giudice competente a


conoscere della controversia in 1° grado, mentre il giudice competente a conoscere della
stessa controversia in grado di appello va individuato in relazione al giudice che abbia
deciso la causa in 1° grado (anche in base ai criteri dinamici), dovendosi l’appello proporre
dinanzi al giudice immediatamente superiore nella cui circoscrizione ha sede il giudice che
ha pronunciato il provvedimento impugnato.

55. La competenza per materia e valore

I criteri di competenza per materia hanno riguardo alla natura ed alla qualità della
controversia e possono essere

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considerati criteri “forti” (così come quello per territorio inderogabile, nei casi previsti
dall’art. 28) per l'impossibilità che essi possano essere oggetto di deroga (pattizia o
processuale che sia), nonchè per la loro non modificabilità per ragioni di connessione e
infine per la loro estraneità al regime d'incontestabilità che l’art. 44 assegna all’ordinanza
declinatoria di competenza (con conseguente possibilità di proporre il regolamento
d’ufficio da parte del giudice ad quem).

Invece, i criteri di competenza per valore hanno riguardo all'aspetto quantitativo della
causa, cioè alla misura del valore economico del bene o del rapporto dedotto in giudizio.
Per le controversie davanti al giudice di pace relative a beni mobili il limite del valore è
oggi fissato in 5000 euro. Regola generale ex art. 10 è che il valore della causa si determina
dalla domanda, cioè da ciò che l'attore ha chiesto. A tal fine le domande proposte in origine
nello stesso processo contro la stessa persona si sommano tra loro, così come gli interessi
scaduti, le spese e i danni anteriori alla proposizione della domanda si sommano con il
capitale. Gli artt. 11-17 prevedono poi, in relazione a singole tipologie di controversie,
speciali criteri di determinazione del valore della causa.

Chiarito cosa si intenda per materia e valore, vediamo ora come operano questi criteri. La
regola è che, al fine di individuare il giudice competente in senso verticale, il criterio del
valore ha carattere generale e trova applicazione tutte le volte in cui la legge non prevede
un criterio di competenza per materia, che prevale sui criteri per valore: quindi la previsione
di criteri di competenza per materia esclude l’applicazione di criteri di competenza per
valore. Ad es. l’art. 7 prevede che il giudice di pace è “competente qualunque ne sia il
valore”:

 per le cause relative ad apposizione di termini ed osservanza delle distanze stabilite


dalla legge, dai regolamenti o dagli usi riguardo al piantamento degli alberi e delle
siepi
 per le cause relative alla misura ed alle modalità d'uso dei servizi di condominio di
case
 per le cause relative a rapporti tra proprietari o detentori di immobili adibiti a civile
abitazione in materia di immissioni di fumo o di calore, esalazioni, rumori,
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scuotimenti e simili propagazioni che superino la normale tollerabilità


 per le cause relative agli interessi o accessori da ritardato pagamento di prestazioni
previdenziali o assistenziali.

Ancora l’art. 9 prevede che il tribunale è “esclusivamente” competente:

 per le cause in materia di imposte e tasse


 per quelle relative allo stato e alla capacità delle persone e ai diritti onorifici
 per la querela di falso
 per l'esecuzione forzata
 in generale, per ogni causa di valore indeterminabile.

Infine vi sono dei casi (previsti dalle leggi speciali) in cui la competenza per materia è
attribuita in unico grado di merito alla corte d’appello (ad es. per le impugnazioni del lodo
arbitrale). Talvolta i criteri della materia e del valore operano congiuntamente, in modo che
determinate controversie sono assoggettate ad un certo giudice solo se non superano un
prefissato limite di valore. Ad es. ex art. 7 il giudice di pace è competente a conoscere le
cause di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli e di natanti, purchè il
valore della controversia non superi i 20000 euro.

56. La competenza per territorio

Una volta individuato l'ufficio giudiziario competente per materia o valore, è possibile
individuare il giudice territorialmente competente. Il codice di procedura civile stabilisce:

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 fori generali: cui riferirsi quando manchino specifiche, diverse previsioni di legge
 fori facoltativi: che si aggiungono e concorrono con quelli generali, attribuendo la
competenza statica a più uffici giudiziari, tra i quali l’attore può scegliere quello
davanti al quale proporre la domanda
 fori esclusivi: che, se previsti, escludono quelli generali.

Regola generale è che la controversia deve essere instaurata dinanzi al giudice del territorio
di appartenenza del convenuto. A tal fine gli artt. 18 e 19 individuano il “foro generale” del
convenuto, valido, salvo diverse disposizioni, in relazione a tutte le controversie da
proporsi nei suoi confronti:

 per le persone fisiche è competente il giudice del luogo in cui il convenuto ha la


residenza (cioè la dimora abituale) o il domicilio (cioè la sede principale dei suoi
affari ed interessi), e solo in via sussidiaria quello di dimora (cioè il luogo di
permanenza non momentanea del soggetto, diverso dalla residenza)
 per le persone giuridiche è competente quello del luogo dove esse hanno sede oppure
uno stabilimento (sede secondaria). In mancanza di personalità giuridica
(associazioni non riconosciute e comitati) si fa riferimento alla sede dove svolgono
attività continuativa.

Accanto ai due fori generali, l’art. 20 prevede due fori facoltativi per le cause relative a
diritti di obbligazione:

 quello del luogo in cui è sorta l'obbligazione (forum contractus)


 quello del luogo in cui l'obbligazione deve essere eseguita (forum solutionis).

Infine, gli artt. 21-27 individuano i fori esclusivi, cioè quelli che derogano a quelli generali
in relazione a determinate controversie (relative a diritti reali su beni immobili, cause
ereditarie ed esecuzione forzata). Ad es. ex art. 21 per le cause relative a diritti reali su beni
immobili è competente il giudice del luogo dove è posto l'immobile o l’azienda.

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57. Il principio di inderogabilità convenzionale della competenza

L'art. 6 c.p.c. prevede che la competenza non può essere derogata “per accordo delle parti”,
salvo nei casi stabiliti dalla legge. Ragione di tale divieto è l'esigenza di garantire la
precostituzione per legge del giudice naturale (art. 25 Cost.), sottraendo alle (future) parti il
potere di scelta ed individuazione di un giudice diverso da quello risultante
dall’applicazione dei criteri statici attraverso un atto negoziale formato al di fuori del
processo e soprattutto in epoca precedente all’instaurazione dello stesso.

L'art. 28, però, consente la deroga per accordo tra le parti ai criteri di competenza
territoriale (fatti salvi i casi stabiliti dalla legge, indicati dallo stesso art. 28): si pensi alle
cause in cui è necessario l’intervento del p.m. o ai procedimenti cautelari. Al di fuori da tali
casi (detti di competenza per territorio inderogabile o funzionale), le parti possono quindi
pattiziamente derogare alla competenza per territorio, purchè siano osservate le cautele
pretese dall’art. 1341 c.c., che impone ad substantiam che vi sia la specifica approvazione
per iscritto della clausola di deroga (equiparata ad una clausola contrattuale vessatoria) e
che essa si riferisca ad uno o più affari determinati, attribuendo al giudice designato dalle
parti la competenza esclusiva solo quando ciò sia espressamente stabilito nell'accordo
stesso (art. 29).

58. La competenza del tribunale quale giudice unico di primo grado

Il tribunale opera, di norma, in composizione monocratica, nel senso che è lo stesso giudice
designato ad

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esercitare i poteri decisori che, prima della riforma del 1990, erano affidati al collegio
(composto da 3 giudici, uno dei quali era il giudice istruttore), mentre giudica in
composizione collegiale solo per le controversie ex art. 50 bis (ove opera la c.d. riserva di
collegialità). Va ricordato, del resto, che l’art. 9 assegna al tribunale la competenza a
conoscere di “tutte le cause che non sono di competenza di altro giudice” (e cioè corte
d’appello o sezioni specializzate). Il tribunale, inoltre, ha competenza esclusiva per alcune
controversie (ad es. in materia di imposte e tasse, se non attribuite alle commissioni
tributarie, o per la querela di falso) nonchè per ogni causa di valore indeterminabile (perché
l’oggetto della controversia non è suscettibile di valutazione economica).

Con la soppressione degli uffici di pretura, il d.lgs. 51/1998 soppresse altresì le preesistenti
sezioni distaccate di pretura, introducendo (in numero minore rispetto a queste ultime) le
sezioni distaccate del tribunale, che costituiscono articolazioni interne di questo ufficio
giudiziario e, in quanto tali, sono prive di rilevanza esterna. Ulteriori innovazioni sono state
apportate dal d.lgs. 155/2012:

 tutte le sezioni distaccate dei tribunali sono state soppresse


 il numero dei tribunali è stato ridotto, con la soppressione di alcuni
 l’ambito territoriale del circondario di taluni tribunali è stato ridefinito.

59. Il regime dell'incompetenza

L'art. 38 c.p.c. regola modalità e limiti soggettivi e cronologici di esercizio del potere di
eccezione (delle parti) e/o di rilevazione (da parte del giudice) della questione di
competenza dell'organo giurisdizionale dinanzi al quale è stato instaurato il processo. Il co.
1° prevede che l'incompetenza per materia, per valore e per territorio semplice sono
eccepite dalla parte, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta tempestivamente
depositata; inoltre l'eccezione di incompetenza per territorio semplice deve contenere
l'indicazione del giudice che “la parte ritiene competente” (altrimenti si ha “per non
proposta”). Il co. 3° aggiunge che l'incompetenza per materia, per valore e per territorio
inderogabile sono rilevate anche d'ufficio dal giudice, non oltre l'udienza di trattazione. In
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definitiva, è soltanto con riferimento all’eccezione di incompetenza per territorio semplice


(ossia derogabile) che la norma esclude ogni potere del giudice di rilevare d’ufficio la
propria incompetenza, affidando unicamente al convenuto l’iniziativa di eccepire la
violazione dei criteri statici. Tuttavia la mancata od intempestiva proposizione, da parte del
convenuto, dell'eccezione d'incompetenza per territorio semplice (nonché il verificarsi della
decadenza dal potere di proporre l’eccezione per effetto dell’omessa indicazione del giudice
ritenuto competente) sono state qualificate dalla dottrina come fattispecie "sananti", cioè
che determinano l'automatica eliminazione del "vizio" originario di incompetenza e la
contestuale convalidazione di atti processuali compiuti dal giudice incompetente al
momento dell’originaria pendenza del processo. In realtà non si determina alcuna sanatoria,
poiché non vi è alcun vizio da sanare, né si verifica alcun fenomeno di legittimazione
sopravvenuta, in quanto (a prescindere dal rispetto dei criteri statici da parte dell’attore) il
giudice adito è “dinamicamente” e sin dal momento dell'iniziale pendenza del processo
competente (sotto il profilo del territorio semplice) a conoscere e decidere nel merito la
controversia.

Vediamo ora cosa accade con riferimento all’incompetenza per materia, per valore e per
territorio inderogabile: trattasi di ipotesi di incompetenza soggette anche a rilievo officioso
da parte del giudice non oltre il limite temporale dato dalla prima udienza di trattazione.
Anche in questi casi l’ordinamento prevede delle fattispecie di competenza dinamica (e
cioè il mancato tempestivo rilievo dell’incompetenza o la mancata tempestiva formulazione
dell’eccezione) che attribuiscono al giudice adito la competenza per valore, per materia e
per territorio inderogabile, consentendo così al giudice incompetente in base ai criteri statici
di trattare e decidere nel merito la controversia.

Resta da chiedersi che cosa accada quando la parte che non ha eccepito tempestivamente
l’incompetenza per

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materia, per valore e per territorio inderogabile sollevi la questione solo in occasione della
prima udienza di trattazione, sollecitando così il giudice ad esercitare il suo potere di
rilevare d’ufficio la suddetta incompetenza. Stante l’art. 38 co. 3°, il giudice, a prescindere
dalla tempestiva formulazione dell’eccezione di incompetenza ad opera delle parti, deve
ritenersi comunque investito del potere-dovere di dichiararsi incompetente d’ufficio.

60. L'accordo processuale di deroga della competenza. L'ordinanza declinatoria di


competenza

Con riferimento alla sola competenza per territorio derogabile, l'art. 38 co. 2° consente alle
parti del processo di aderire all'indicazione del giudice competente fatta dal convenuto nella
comparsa di risposta, contestualmente alla proposizione dell’eccezione di incompetenza
territoriale semplice, attribuendo a tale accordo l'effetto di “tener ferma” la competenza del
giudice indicato. Quando l’accordo si verifica, il giudice deve cancellare la causa dal ruolo,
per consentire alle parti di riassumerla davanti al diverso giudice che esse hanno
“concordato” e la competenza del giudice indicato rimane ferma se la causa è riassunta
entro 3 mesi dalla cancellazione della stessa dal ruolo. Si tratta di una fattispecie
riconducibile a quelle “indirette” di competenza in senso dinamico, attraverso la quale le
parti (che già avrebbero potuto derogare pattiziamente, prima e fuori del processo, ai criteri
statici di competenza territoriale, al di fuori dei casi ex art. 28) possono risolvere il
contrasto sul foro territoriale attraverso due attività: l'accettazione concorde di tutte le parti
dell'indicazione del giudice ad quem e la riassunzione della causa dinanzi a quest'ultimo
entro il termine perentorio di 3 mesi dalla cancellazione della causa dal ruolo disposta dal
giudice. Dunque il giudice a quo è chiamato a compiere esclusivamente un'attività di
verifica formale delle condizioni di perfezionamento dell'accordo, restando estraneo sia alle
sue modalità di formazione sia al suo contenuto.

Altra fattispecie indiretta di competenza dinamica si verifica quando il giudice adito,


ritenendosi incompetente, pronuncia un provvedimento (oggi un’ordinanza, in passato una
sentenza) declinatorio della propria competenza, designando obbligatoriamente ex art. 44 il
66
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giudice ritenuto competente, anche a prescindere da qualsiasi richiesta di parte. Se la causa


è tempestivamente riassunta dinanzi a quest’ultimo e se l'ordinanza non viene impugnata
con il regolamento di competenza, l’art. 44 vi attribuisce efficacia d'incontestabilità
dell'incompetenza dichiarata e della competenza indicata (salvo si tratti di competenza per
materia o per territorio inderogabile, casi in cui il giudice può sollevare d'ufficio il
regolamento di competenza).

61. L'istruttoria e la decisione sulla competenza

L'ultimo comma dell'art. 38 c.p.c. contiene regole concernenti l’istruttoria e la decisione


sulla competenza, consentendo al giudice adito di decidere sulla relativa questione “ai soli
fini della competenza” e in base a “quello che risulta dagli atti”, previa assunzione di
sommarie informazioni solamente quando sia reso necessario dall’eccezione del convenuto
o dal rilievo del giudice stesso. In sostanza il giudice può decidere subito sulla questione di
competenza (prima e a prescindere dalla decisione sul merito della causa), qualora ne valuti
la concreta “potenzialità impediente”, cioè l'attitudine in astratto a dar luogo ad una
pronuncia di incompetenza, che chiuderà il giudizio dinanzi a sé. Come dicevamo, la
decisione in questione:

 è resa “ai soli fini della competenza”, cioè senza pregiudizio alcuno per il merito
della causa. Questa autonomia implica non soltanto che le valutazioni effettuate dal
giudice in questa sede non possono avere alcun riflesso sulla successiva decisione
della causa nel merito, ma va riferita anche al carattere di unitarietà
dell’accertamento sulla competenza. Nel dichiararsi competente o incompetente, il
giudice deve quindi verificare l’astratta applicazione di tutti i criteri di competenza
 è di norma emanata “in base a quello che risulta dagli atti”, nel senso che il
giudice deve fondare

67
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l'accertamento sulla competenza tenendo conto del materiale fino a quel momento
acquisito agli atti del processo e senza procedere ad apposita istruzione, salvo sia
necessario assumere sommarie informazioni (cioè elementi ulteriori di conoscenza
che appaiano indispensabili al fine di decidere sulla sola competenza).

62. L'efficacia delle decisioni sulla competenza pronunziate dal giudice di merito

L'effetto di incontestabilità che l’art. 44 assegna all'ordinanza declinatoria di competenza è


da ricollegare ai principi di competenza dinamica, per effetto dei quali il giudice legittimato
a decidere la controversia viene ad essere individuato, durante la pendenza della lite, anche
a prescindere o addirittura in contrasto con i criteri statici. Si debbono individuare nella
pronuncia in esame 2 accertamenti:

 il primo consiste nel definitivo riconoscimento, da parte del giudice a quo,


dell’assenza del suo dovere di decidere sul merito, e tale accertamento negativo non
si sottrae ai principi del giudicato formale
 il secondo, costituito dalla designazione del giudice ad quem, fa parte della
fattispecie indiretta di competenza dinamica suddetta.

Gli effetti prodotti non sono, tuttavia, assimilabili a quelli che derivano dalla pronuncia sul
merito, in quanto limitati a dare certezza in ordine all’individuazione del giudice legittimato
a trattare e decidere la causa, senza incidere sui poteri o facoltà delle parti collegati
all’attuazione della tutela richiesta. Per questo la prevalente dottrina afferma la mera
efficacia endoprocessuale (cioè limitata al processo in corso) di tali pronunzie, con la
conseguenza ad es. della loro caducazione a seguito dell'estinzione del processo.

63. Il regolamento di competenza “necessario” e “facoltativo”. Il concorso tra


regolamento di competenza ed altri mezzi di impugnazione
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Gli artt. 42 e ss. c.p.c. contengono la disciplina del regolamento di competenza, che è un
mezzo di impugnazione ordinario attraverso il quale è concesso alle parti di richiedere ed
ottenere dalla Corte di Cassazione un accertamento definitivo e vincolante circa
l'individuazione del giudice competente a conoscere della controversia. A differenza del
regolamento di giurisdizione, il regolamento di competenza presuppone sempre la previa
pronuncia di una decisione (definitiva o meno) sulla competenza: pertanto esso non è mai
preventivo, potendo essere proposto solo in presenza di una decisione. Questa caratteristica
(oltre all’esplicita sua inclusione all’interno del catalogo ex art. 323) conferma che si tratta
di un vero e proprio mezzo di impugnazione, sia pure “speciale” in relazione ad una serie di
regole procedimentali. Dobbiamo precisare che ex art. 46 le pronunce del giudice di pace
non sono impugnabili col regolamento di competenza: in questo caso il mezzo di
impugnazione con cui la parte potrà far valere la questione di competenza è dato
dall’appello.

Occorre, poi, distinguere tra il regolamento di competenza ad istanza di parte e quello


d'ufficio. Il primo può essere necessario (art. 42) o facoltativo (art. 43), a seconda che la
decisione impugnata contenga esclusivamente una pronuncia sulla competenza oppure che
ad essa si accompagni la decisione sul merito della controversia o su una questione
preliminare di merito (ad es. sulla prescrizione del credito fatto valere in giudizio). Il
carattere necessario del regolamento va inteso nel senso che tale mezzo costituisce l'unico
rimedio che la legge pone a disposizione della parte interessata per censurare la decisione
sulla competenza, impedendo che attorno ad essa si formi il giudicato formale. Inoltre il
regolamento necessario di competenza è individuato dall’art. 42 come l’unico mezzo di
impugnazione avverso i provvedimenti che dichiarano la litispendenza e la continenza, che
dispongono la connessione e che dichiarano la sospensione necessaria del processo. La
ragione

69
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per cui il legislatore ha ritenuto in queste ipotesi di impedire l’accesso della parte ad ogni
altra impugnazione (in primis l’appello) deve ricercarsi nella volontà di evitare il protrarsi
dello stato di incertezza sulla questione di competenza, costringendo la parte interessata a
proporre immediatamente istanza di regolamento, onde ottenere subito dalla Cassazione
l’accertamento definitivamente vincolante sulla competenza.

Invece, in presenza di un provvedimento che abbia pronunciato sulla competenza insieme al


merito (o ad una questione preliminare di merito) l’art. 43 prevede la mera possibilità che
esso sia impugnato con il regolamento: da qui il carattere facoltativo. In tal caso, non
essendo la parte privata del potere di proporre appello, è possibile che siano esperiti più
mezzi di impugnazione in caso di pluralità di parti soccombenti e di conseguenza che si
configuri un concorso tra mezzi di impugnazione. In questa eventualità la legge prevede
che:

 se una delle parti soccombenti propone appello prima che le altri parti propongano
qualsiasi impugnazione, queste ultime non perdono la facoltà di proporre istanza di
regolamento di competenza entro i termini di legge
 se l'istanza di regolamento viene proposta prima di altre impugnazioni ordinarie, i
termini per l'appello sono sospesi e riprendono a decorre dalla data di comunicazione
della decisione sul regolamento di competenza pronunciata dalla Cassazione
 se l'istanza di regolamento viene proposta dopo la notificazione dell'atto di appello, il
processo d'appello è sospeso in attesa della decisione della Cassazione sul
regolamento.

64. Il procedimento. L'efficacia delle decisioni della Cassazione sulle questioni di


competenza

Gli artt. 47 e 49 c.p.c. descrivono il procedimento da seguirsi in caso di proposizione del


regolamento di competenza. Esso si propone con ricorso rivolto alla Corte di Cassazione e
notificato alle altre parti entro il termine perentorio di 30 giorni dalla comunicazione
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dell'ordinanza del giudice sulla sola competenza oppure dalla notificazione


dell'impugnazione ordinaria (ad es. l’appello) nel caso di regolamento facoltativo. In
assenza di comunicazione o notificazione, si considera il termine c.d. lungo di 6 mesi dalla
pubblicazione della sentenza. La scelta del legislatore di individuare il dies a quo del
termine di proposizione del regolamento nella data di comunicazione, e non invece (come
per le altre impugnazioni ordinarie) nella data di notificazione della decisione impugnata,
risponde a 2 esigenze:

 in primis quella di sottrarre alla disponibilità della parte la decorrenza del termine per
la proposizione del ricorso
 in secondo luogo, quella di evitare che la parte interessata a proporre istanza di
regolamento di competenza ritardi, con la propria inerzia, la formazione del giudicato
formale sulla competenza.

A seguito della proposizione dell'istanza di regolamento, il processo è sospeso ex lege (art.


48). Durante la sospensione il giudice può autorizzare il compimento di “atti urgenti”, cioè
di attività processuali che non possono essere dilazionate se non con pregiudizio per la
posizione delle parti. Con la pronunzia di regolamento, che assume la forma dell’ordinanza
emessa in camera di consiglio, la Cassazione statuisce definitivamente sulla competenza,
identificando un solo giudice legittimato alla trattazione e alla decisione della controversia
nel merito. L’ordinanza di regolamento emanata dalla Cassazione, a differenza della
decisione sulla competenza emessa dal giudice di merito, ha efficacia panprocessuale ed è
espressamente sottratta agli effetti caducatori dell'estinzione del processo dall’art. 310 co.
2°. Pertanto essa ha effetti vincolanti per tutti i futuri giudici della causa, i quali non
possono declinare la propria competenza.

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65. Il regolamento di competenza d'ufficio

Per comprendere le ragioni della previsione del regolamento di competenza d’ufficio (art.
45), occorre premettere che il codice oggi vigente apportò incisive deroghe al principio,
nato nella tradizione tedesca, secondo il quale ogni giudice è giudice anche della propria
competenza (c.d. Kompetenz-Kompetenz). L'art. 44 prevede che il giudice originariamente
adito, quando si dichiara incompetente, ha il potere-dovere di designare, contestualmente
alla dichiarazione della propria incompetenza, il giudice da lui ritenuto competente a
conoscere della controversia. Questa previsione è in qualche modo compensata dal
successivo art. 45, che riconosce al giudice ad quem (cioè a quello designato dal giudice
dichiaratosi incompetente) il potere-dovere di richiedere d'ufficio il regolamento alla Corte
di Cassazione nel caso in cui si ritenga a sua volta incompetente, ma esclusivamente per
ragioni di materia o di competenza territoriale inderogabile. Il legislatore, quindi, ha voluto
da un lato sottrarre il giudice ad quem all’efficacia di incontestabilità della designazione
operata da un altro giudice di pari grado, ma limitatamente ai criteri della materia e del
territorio inderogabile; dall’altro, ha voluto impedire allo stesso giudice ad quem la
pronuncia di un’ulteriore ordinanza declinatoria della competenza, dopo quella già emessa
dal giudice a quo. In sostanza l’istanza di regolamento d’ufficio presuppone un conflitto
“virtuale” di competenza, poiché, non potendo il giudice ad quem pronunciare la propria
incompetenza, non ha modo di verificarsi un conflitto negativo “reale”.

Per quanto riguarda i termini, nulla ci dice l'art. 45, ma il coordinamento con l'art. 38
impone che anche davanti al giudice ad quem resti fermo il principio del rilievo d'ufficio
dell'incompetenza entro la prima udienza. A differenza di quello ad istanza di parte, il
mezzo in esame, non potendo avere natura impugnatoria in ragione della qualità del
soggetto che lo propone (il giudice), presenta caratteri di evidente specialità, che non
consentono il suo inserimento nelle tipiche categorie sistematiche. Una volta proposto, la
Corte di Cassazione decide, come nel caso di regolamento di competenza ad istanza di
parte, con ordinanza (anche qui dagli effetti panprocessuali) ed a sezione semplice.

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CAP. 6: ESERCIZIO DELL'AZIONE E DOMANDA GIUDIZIALE

66. Diritto di azione e principio della domanda

Alle funzioni di tutela giurisdizionale dei diritti il giudice provvede su domanda di parte,
previo esercizio del diritto di azione. Per definire la nozione di “azione” occorre tener conto
del fatto che varie norme del codice sembrano identificare l’esercizio dell’azione con la
proposizione della domanda giudiziale: ad es. l’art. 310, prevedendo che “l’estinzione del
processo non estingue l’azione”, sta a significare che la domanda su cui non si è deciso in
merito nel processo estinto (cioè accogliendola o respingendola) può essere riproposta in un
nuovo processo. Bisogna, altresì, tener conto dello stato di incertezza in cui vive il diritto o
rapporto giuridico sostanziale dedotto non solo prima del processo, ma anche per tutto il
corso di esso. Il diritto o potere di azione viene oggi definito quale schema riassuntivo di
situazioni soggettive composite, tutte orientate al raggiungimento di un effetto finale (la
decisione di merito sul diritto dedotto), capace di dissolvere quello stato d'incertezza
iniziale e di eliminare (in senso favorevole o non all’attore) l'ipoteticità della situazione
giuridica sostanziale da questi dedotta e prospettata al giudice (teoria dell’azione come
diritto al provvedimento di merito). Dunque possiamo dire che:

 l'azione è in primis il diritto civico di adire gli organi giurisdizionali, che spetta in via
astratta ad ogni soggetto
 l'azione è anche il potere di insistere nella domanda proposta, che nasce dall’atto
introduttivo e si

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consuma solo con la pronuncia di merito


 la nozione di azione descrive una vicenda, quella processuale, che ha inizio con la
proposizione della domanda e presenta un'unità-continuità non solo nel processo, ma
pure nell'esercizio dell'azione come potere di domandare la tutela, finchè questa non
sia concessa o negata, anche in un nuovo processo.

In definitiva, la domanda giudiziale costituisce l'atto di esercizio del potere processuale di


azione, che l'ordinamento riconosce all'attore come potere di impulso per effetto del quale
ha origine il processo. Questo potere è attribuito dall’art. 99 alla libera disponibilità della
parte (“nemo iudex sine actore”) ed è la necessaria espressione del carattere disponibile del
diritto che si fa valere, nonché una garanzia di terzietà del giudice.

67. Le condizioni della tutela diverse dall'esistenza del diritto: la legittimazione ad agire

Dal disposto degli artt. 24 Cost. e 81 c.p.c. è agevole desumere il principio della normale
correlazione tra titolarità del diritto sostanziale dedotto in giudizio e titolarità del diritto di
azione, dato che di norma la domanda è legittimamente proposta dal soggetto che si afferma
titolare del diritto o del rapporto giuridico sostanziale che si fa valere in giudizio. La
legittimazione ad agire è quindi intesa come la coincidenza dell'attore e del convenuto con i
soggetti che sono destinatari degli effetti della tutela invocata, coincidenza che il giudice è
tenuto a verificare anche d’ufficio, preliminarmente all'esame del merito, in ogni stato e
grado del processo. Allo stesso modo è condizione della tutela giurisdizionale che questa
non possa essere concessa se non nei confronti di chi per legge è il destinatario degli effetti
in cui la tutela si concreta (c.d. legittimazione a contraddire).

68. L'interesse ad agire

Ulteriore condizione necessaria dell'azione e della tutela invocata è costituita dall'interesse


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ad agire ex art. 100: al fine di conseguire la tutela, occorre dimostrare che il risultato del
processo perseguito dall’attore è il mezzo necessario per ottenere un bene che sia materia
del diritto soggettivo e che gli strumenti sostanziali non abbiano fornito o mantenuto. Si
può dire, come Chiovenda, che il processo “deve dare, per quanto è possibile, a chi ha un
diritto tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire”. Questo interesse, nel
senso in cui lo intende l'art. 100, deve essere personale, concreto ed attuale e consiste
nell'esigenza di ottenere un risultato utile, giuridicamente apprezzabile e non conseguibile
senza l'intervento del giudice. Ciò perché il processo non può essere utilizzato solo in
previsione di possibili effetti futuri in ipotesi pregiudizievoli per l'attore. In altre parole
l’indagine che il giudice deve compiere circa l’esistenza dell’interesse ad agire è volta ad
accertare se l’attore possa astrattamente ottenere attraverso lo strumento processuale il
risultato ripromessosi, prescindendo da ogni esame del merito della controversia e della
stessa ammissibilità della domanda. Come per la legittimazione ad agire, il difetto di
interesse ad agire è rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del processo.

69. Il contenuto delle pronunzie sulla legittimazione e sull'interesse ad agire

Da quanto detto sinora deriva che, in contrasto con la dottrina maggioritaria, la


legittimazione e l’interesse ad agire sono circa la loro esistenza o meno, al pari del diritto
soggettivo, oggetto di sentenze di merito, cioè di accoglimento o di rigetto della domanda,
mentre per quel che riguarda la loro affermazione sono elementi essenziali degli atti con cui
la domanda si propone o si integra, e quindi oggetto di pronunce su questioni

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processuali (cioè attinenti alla validità di atti del processo). Non è condivisibile l’opinione
secondo cui il contenuto delle sentenze sulla legittimazione e sull’interesse ad agire sia un
tertium genus, rispetto a quelli delle sentenze sul merito e delle sentenze risolutive di
questioni processuali. Del resto le norme sulle sentenze (artt. 278 e 279) dicono
chiaramente che i loro contenuti sono solo questioni o di merito o di procedura.

70. La legittimazione ad agire per la tutela di interessi collettivi e diffusi. L'azione di


classe. Rinvio

Per interessi interessi diffusi intendiamo quegli interessi comuni a più soggetti che fanno
parte di un gruppo indifferenziato di persone (lavoratori, utenti, consumatori, risparmiatori,
ecc.). Ci si è chiesti se si possa agire in giudizio (e chi possa farlo) a tutela di questi
interessi, che appartengono all'intero gruppo, ma non si incarnano in nessun soggetto
determinato. Il fenomeno è ben noto agli ordinamenti di common law, e in effetti proprio
l’esperienza comparatistica ci offre due possibili soluzioni:

 che la legittimazione ad agire sia riconosciuta ad enti o associazioni opportunamente


selezioni e considerati esponenziali degli appartenenti al gruppo
 che la legittimazione ad agire spetti ad ogni soggetto appartenente al gruppo, il quale
agisce a tutela dei propri diritti ma anche dei diritti di tutti gli altri appartenenti al
gruppo.

Così ad es. gli artt. 139 e 140 del d.lgs. 206/2005 (c.d. Codice del consumo) prevedono che
le associazioni dei consumatori e degli utenti inserite nell’elenco ex art. 137 dello stesso
codice sono legittimate ad agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli
utenti, chiedendo al tribunale:

 di inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti
 di adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle
violazioni accertate
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 di ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani, quando la


pubblicità del provvedimento può contribuire a correggere o eliminare gli effetti
delle violazioni accertate.

Ma la continua rilevanza di questo fenomeno ha imposto al legislatore di affrontarlo in


maniera più organica: perciò è stato introdotto l’art. 140 bis del Codice del consumo, che
reca la disciplina dell'azione di classe. La disciplina in esame si applica soltanto alle
categorie degli utenti e dei consumatori cui fa riferimento il codice del consumo. Secondo
la legge, l’azione di classe tutela:

 i diritti contrattuali di una pluralità di consumatori e utenti che versano nei confronti
di una stessa impresa in situazione omogenea, inclusi i diritti relativi a contratti
stipulati con moduli e formulari ai sensi degli artt. 1341 e 1342 c.c.
 i diritti omogenei spettanti ai consumatori finali di un determinato prodotto o servizio
nei confronti del relativo produttore, anche a prescindere da un diretto rapporto
contrattuale
 i diritti omogenei al ristoro del pregiudizio derivante agli stessi consumatori e utenti
da pratiche commerciali scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali.

In pratica “la class action del Codice del consumo postula necessariamente l’esercizio di un
diritto individuale, oggetto di trasposizione in capo a ciascun titolare singolarmente
identificato”. La legittimazione ad agire spetta sia a ciascun consumatore o utente che
compone la classe (in quanto titolare di uno dei diritti tutelabili con l'azione di classe), sia
alle associazioni cui il consumatore o utente può dare mandato, sia ai comitati cui egli
partecipa. La finalità dell'azione di classe è quella di ottenere dal giudice “l'accertamento
della responsabilità e la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni in favore
degli utenti consumatori”.

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71. Gli effetti processuali e sostanziali della domanda

La domanda deve essere considerata, oltre che nel suo aspetto statico di individuazione
dell’oggetto della decisione (thema decidendum), anche nel suo profilo dinamico, che si
ricollega alle vicende genetiche del fenomeno processuale. Dalla notificazione (ovvero, a
seconda dei casi, dal deposito nella cancelleria del giudice) dell'atto contenente la domanda
giudiziale, l'ordinamento fa discendere il primo tra gli effetti processuali, espressamente
sancito dall’art. 39 ultimo co., cioè quello della pendenza della lite (o litispendenza in senso
fisiologico), che determina il momento iniziale del processo. Accanto a questo, vi sono
degli altri effetti processuali che si producono all'atto della proposizione della domanda, ad
es. il momento determinante della giurisdizione e della competenza, che ha riguardo
proprio alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della
domanda.

Oltre agli effetti processuali, la legge contempla alcuni effetti sostanziali, distinguibili in due
categorie:

 effetti che sono previsti dalla legge per dare maggiore efficienza al provvedimento di
merito e alla sua funzione di tutela. Si pensi ad es. all’art. 111, che consente la
permanenza in causa di chi abbia alienato il diritto controverso e l’emanazione della
sentenza con efficacia anche verso chi lo abbia acquistato
 effetti sostanziali che sono previsti in relazione alla volontà dell'attore di far valere il
diritto contro il convenuto, della quale la domanda è sicura manifestazione. Si pensi
alle norme che attribuiscono alla domanda giudiziale l'effetto di interrompere la
prescrizione, di impedire la decadenza, di far decorrere gli interessi, ecc.

72. La domanda giudiziale e il problema della sua “identificazione”. I soggetti

I criteri di identificazione dell’azione sono, anzitutto, criteri di identificazione della


domanda giudiziale: l'oggetto che si deve identificare è la domanda, intesa come mezzo
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attraverso il quale la parte fa valere in giudizio un diritto o rapporto giuridico, invocandone


la tutela giurisdizionale. Tuttavia, va osservato che la domanda giudiziale non può essere
valutata soltanto con riferimento all’atto introduttivo del processo (atto di citazione o
ricorso) e cristallizzata al momento in cui esso ha inizio con quell’atto. Infatti la domanda è
soggetta a fenomeni dinamici che si manifestano nel corso del processo, attraverso
l’esercizio di poteri e/o facoltà delle parti di “precisazione” e di “modificazione”, che
possono incidere sul suo contenuto.

Una consolidata tradizione risalente a Chiovenda identifica gli elementi individuatori della
domanda nei soggetti (le parti), nel petitum e nella causa petendi. Il requisito soggettivo
(personae) s'indentifica tenendo conto del soggetto attivo e di quello passivo, cioè
dell'attore e del convenuto, che vanno individuati con riferimento ai soggetti del rapporto
giuridico sostanziale affermato, che, una volta dedotto in giudizio, fa conseguire ad essi la
qualità di parte. Tale qualità può comunque sorgere anche successivamente, ad es. per
effetto degli interventi in causa o della chiamata in causa di un terzo.

73. Gli elementi oggettivi di identificazione della domanda: petitum e causa petendi.
Emendatio e mutatio libelli

Gli elementi oggettivi di individuazione della domanda sono il petitum e la causa petendi. Il
petitum è l'oggetto della domanda, identifica ciò che si chiede con essa. Si può distinguere
tra:

 petitum immediato, che consiste nel provvedimento che viene richiesto al giudice,
cioè identifica il tipo di tutela giurisdizionale (condanna, mero accertamento, ecc.)

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 petitum mediato, che è invece il bene della vita che il soggetto che propone la
domanda vuole conseguire nei confronti dell'altra parte (somma di denaro,
prestazione, ecc.).

Continuano a sussistere incertezze circa l’altro elemento oggettivo, la causa petendi:


possiamo dire che etimologicamente significa "ragione del domandare", titolo giuridico sul
quale la domanda si fonda, comprendente “i fatti e gli elementi di diritto costituenti le
ragioni della domanda” (art. 163 n. 4 a proposito del contenuto dell’atto di citazione).
L’elaborazione della nozione di causa petendi è stata fortemente influenzata dalla
contrapposizione di due teorie di origine germanica:

 la teoria della sostanziazione (più risalente) richiede che la domanda debba indicare
tutti i fatti rilevanti e identifica la causa petendi nel compendio dei fatti costitutivi
posti a fondamento della domanda stessa
 la teoria dell’individuazione richiede che la domanda specifichi il diritto sostanziale
in base al quale si chiede la tutela ed assegna perciò alla causa petendi la funzione di
individuare soltanto il rapporto giuridico controverso.

La dottrina moderna ha limato gli originari motivi di contrapposizione tra queste teorie,
riconoscendo che esse non sono che “due facce della stessa realtà”: propugnare
l’allegazione dei fatti costitutivi ovvero del rapporto giuridico significa porsi
rispettivamente dal punto di vista della fattispecie sostanziale e da quello degli effetti che
ne promanano, cioè da due angolazioni pienamente compatibili. Per meglio fissare il
significato della causa petendi, dobbiamo guardare agli artt. 24 Cost., 2907 c.c. e 99 c.p.c., i
quali indicano chiaramente che l'oggetto del processo non è costituito mai da fatti o da atti,
ma sempre e solo da diritti, e in particolare dal diritto fatto valere con la domanda, con la
quale l'attore è chiamato ad indicare i fatti costitutivi ed identificativi del diritto affermato.
La dottrina dominante, sulle orme di Chiovenda, distingue i diritti (e relative domande)
autodeterminati dai diritti (e relative domande) eterodeterminati, affermando che per i primi
il mutamento del fatto costitutivo non comporta il mutamento della causa petendi, come
invece per i secondi. La distinzione non è affatto secondaria, perché, essendo la causa
petendi un elemento di identificazione della domanda giudiziale, affermare un suo
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mutamento significa affermare che ci si trova in presenza di una domanda nuova. Così:

 i diritti autodeterminati sono quelli che non possono sussistere simultaneamente, con
lo stesso contenuto, tra gli stessi soggetti: sono, cioè, i diritti che si individuano sulla
base della sola indicazione del loro contenuto, anche indipendentemente dal loro
fatto generatore (si pensi al diritto di proprietà o ai diritti reali di godimento). Se
affermo che Tizio è proprietario di un fondo ho già, con ciò stesso, individuato il
diritto di proprietà di Tizio, nel senso che non occorre per individuare quel diritto
accertare da quali fatti generatori esso nasca, cioè come Tizio ha acquistato la
proprietà di quel fondo. Da ciò deriva che, se si agisce in giudizio rivendicando (ad
es. a titolo di acquisto per compravendita) la proprietà di un fondo e poi in corso di
causa si allega un diverso titolo di acquisto della proprietà (ad es. l’usucapione), vi
sarà una mera modificazione della domanda in corso di causa (c.d. emendatio libelli),
ammessa ex art. 183 co. 6°
 i diritti eterodeterminati sono quelli che possono simultaneamente sussistere, con
identico contenuto, tra gli stessi soggetti, e che si individuano necessariamente a
seguito dell'indicazione del loro fatto generatore, che è sempre diverso per ognuno di
essi (si pensi ai diritti relativi e ai diritti reali di garanzia, cioè pegno e ipoteca). Se
affermo che Tizio ha un debito di 1000 euro nei confronti di Caio, tale asserzione è
assolutamente generica, perché Tizio potrebbe avere le più svariate ragioni debitorie
nei confronti di Caio. Per individuare esattamente il diritto, occorre qui specificare se
la fonte del debito sia un contratto, un risarcimento del danno, ecc. Ne consegue che,
se ad es. si agisce in giudizio chiedendo la condanna del debitore al pagamento di
1000 euro a titolo di esecuzione dell’obbligazione contrattuale e poi in corso di causa
si chiede la condanna al pagamento della stessa somma a titolo di risarcimento del
danno, non si verifica una mera modificazione della domanda giudiziale (come
prima), ma una domanda totalmente nuova.

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Bisogna osservare, però, che la giurisprudenza tende spesso ad attenuare la disparità di


trattamento processuale voluta dalla dottrina tra l’attore che invoca un diritto
autodeterminato e l’attore che invoca un diritto eterodeterminato, affermando che in 1°
grado la domanda autodeterminata non può considerarsi nuova se, perseguendo l’attore lo
stesso bene materiale, si deduce un diverso fatto costitutivo dell’effetto invocando e
considerando, al contrario, nuova la domanda in appello, ove si adduca un diverso fatto
costitutivo non solo del diritto eterodeterminato ma anche di quello autodeterminato
oggetto del 1° grado di giudizio.

Ancora c’è da chiedersi se, nel caso in cui l’attore abbia originariamente chiesto al giudice
di dichiarare l’avvenuto trasferimento del bene in forza di un contratto di compravendita e
poi nel corso nel processo abbia formulato la domanda di esecuzione in forma specifica
dell’obbligo a contrarre ex art. 2932 c.c., siamo di fronte ad una domanda nuova (dato che
le due domande sono diverse tanto per petitum quanto per causa petendi, volgendo la prima
ad una sentenza dichiarativa, fondata su un negozio con efficacia reale, e la seconda ad una
sentenza costitutiva, fondata su un contratto con effetti obbligatori, quale è il preliminare) o
meno, e conseguentemente se è ammissibile in corso di causa la modificazione della
domanda o meno. Le Sezioni Unite della Cassazione nel 2010, superando l’orientamento
maggioritario, hanno risposto affermativamente, statuendo che la modificazione della
domanda (ammessa ex art. 183) può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi
della stessa, sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda
sostanziale dedotta in giudizio.

Infine, vi sono alcune ipotesi in cui è la legge stessa che ammette la variazione della
domanda in corso di causa: ad es. l’art. 1453 co. 2° c.c. consente che la risoluzione del
contratto sia domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere
l’adempimento (mentre non vale il contrario). Comunque bisogna osservare che la
risoluzione successiva del contratto può sì essere chiesta, ma sempre a condizione che non
si alleghino distinti fatti costitutivi (ad es. fatti di inadempimento diversi da quelli posti a
base della pretesa originaria): se così fosse, muterebbe lo stesso contenuto sostanziale della
domanda, che riguarderebbe un diritto diverso da quello originariamente azionato.

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74. Il divieto di “frazionamento” della domanda di somma di denaro dovuta in forza


di unico rapporto obbligatorio

Espressione del diritto vivente è il principio in base al quale non è consentito al creditore di
una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di
frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento (contestuali o
scaglionate nel tempo), in quanto una scissione del contenuto dell’obbligazione aggravativa
della posizione del debitore si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona
fede (che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del
contratto, ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento),
sia con il principio costituzionale del giusto processo (traducendosi il frazionamento della
domanda giudiziale in un abuso degli strumenti processuali offerti dall’ordinamento).

75. L'eccezione di rito e di merito, in senso stretto e in senso lato

Se con la domanda si fanno valere fatti costitutivi di un diritto o di un rapporto giuridico


sostanziale, da cui scaturiscono effetti positivi in capo al soggetto che la fa valere,
attraverso l'eccezione il convenuto (o altra parte del processo) svolge una o più difese
dirette a neutralizzare l'iniziativa dell'attore e a far sì che la domanda di quest'ultimo non
trovi accoglimento per motivi:

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 di rito, cioè attinenti all’inidoneità del processo a concludersi nel suo risultato normale
 di merito, cioè attinenti al contenuto sostanziale del diritto o del rapporto dedotto
dall’attore.

Ciò ci permette di distinguere, a seconda del loro oggetto, tra eccezioni di rito (o
processuali) ed eccezioni di merito. Ad entrambe comunque si applica l'art. 112 c.p.c., che
fa divieto al giudice di “pronunciare d'ufficio su eccezioni che possono essere proposte solo
dalle parti”. A tal proposito occorre distinguere tra:

 eccezioni in senso stretto, che possono essere sollevate solo dalla parte e mai d'ufficio
dal giudice
 eccezioni in senso lato, che possono essere conosciute anche ex officio dal giudice, a
prescindere da una formale attività di parte.

Con l'eccezione di rito si introduce nel dibattimento processuale una questione attinente
l'idoneità o meno del processo a concludersi con la decisione di merito: essa può avere ad
oggetto l'assenza di un presupposto processuale, ma anche ad es. eventuali difetti di
rappresentanza, assistenza o autorizzazione delle parti a stare in giudizio. Le citate
questioni possono avere portata assorbente rispetto all’esito del giudizio (si pensi
all’eccezione di difetto di giurisdizione) ovvero investire singoli atti o attività processuali.
Con l'eccezione di merito la parte svolge difese dirette a paralizzare la domanda o
l'eccezione dell'altra per motivi di merito, cioè che attengono all'accertamento del diritto o
del rapporto giuridico sostanziale dedotti in giudizio. Con l'eccezione di merito in senso
lato si fanno valere fatti che esplicano di per sé efficacia estintiva, impeditiva o
modificativa del diritto invocato (ad es. pagamento dell'obbligazione pecuniaria di cui si è
chiesto l'adempimento); tra le eccezioni di merito in senso stretto, invece, possiamo citare
ad es. le eccezioni di prescrizione, di compensazione, di inadempimento.

Infine, dobbiamo interrogarci sul criterio da seguire per distinguere tra eccezioni in senso
lato ed eccezioni in senso stretto ove manchino esplicite norme in proposito. Sembra che tra
le eccezioni di rito siano da considerarsi in senso lato tutte quelle che riguardano l’esercizio
di poteri processuali del giudice (ad es. inammissibilità della domanda), mentre in senso

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stretto tutte le altre. Ciò si desume dalla regola generale posta, in materia di nullità degli atti
del processo, dall’art. 157, secondo cui non può pronunciarsi la nullità senza istanza di
parte, se la legge non dispone che essa sia pronunciata d’ufficio, e soltanto la parte nel cui
interesse è stabilito un requisito può opporre la nullità dell’atto per assenza dello stesso.
Quanto invece alle eccezioni di merito, in ragione del dovere officioso del giudice di
respingere la domanda che egli ritenga infondata ex art. 112, si desume che esse sono da
considerarsi di regola in senso lato.

76. L’eccezione di nullità del contratto

Ipotesi particolare è data dall’eccezione di nullità del contratto ex art. 1421 c.c.
L’orientamento giurisprudenziale tradizionale riteneva che il potere officioso del giudice
dovrebbe coordinarsi con il principio della domanda (art. 99), con la conseguenza che solo
se sono in contestazione l’applicazione e l’esecuzione di un atto, la cui validità rappresenti
un elemento costitutivo della domanda, il giudice avrebbe il potere-dovere di rilevare
d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio la nullità dell’atto medesimo, mentre tale potere
sarebbe da escludere se la domanda è diretta a far dichiarare l’invalidità o pronunciare la
risoluzione del contratto. In realtà viene qui in rilievo non il predetto potere-dovere del
giudice, ma l’applicazione di una sanzione di ordine pubblico, che consiste nell’obbligo
giudiziario di non dar vita ad alcun effetto che, pur voluto dalle parti in giudizio, contrasti
con le norme inderogabili sulla nullità dei negozi. Perciò l’unico limite che il giudice
effettivamente incontra è che egli non può di propria iniziativa ricercare fatti di nullità
estranei al materiale di causa né può, anche laddove tali fatti emergano in giudizio, negare
in sentenza effetti non richiesti dalle parti: ad es. il giudice non può dichiarare la nullità per
identica illiceità di un negozio collegato a quello dedotto in giudizio, se quel negozio sia
estraneo alla causa petendi. Questo orientamento è stato accolto di recente dalla

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Cassazione, che innanzitutto nel 2012 ha dettato il principio in base al quale il giudice di
merito ha il potere di rilevare dai fatti allegati e provati o emergenti ex actis ogni forma di
nullità non soggetta a regime speciale. Successivamente nel 2014 ha precisato tale principio
statuendo che:

 il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità contrattuale deve
rilevare d’ufficio l’esistenza di una causa di quest’ultima diversa da quella allegata
dall’istante
 il giudice innanzi al quale sia stata proposta una qualsiasi impugnativa negoziale (di
adempimento, risoluzione, annullamento, rescissione) ha l’obbligo di rilevare (e di
indicare alle parti) l’esistenza di una causa di nullità negoziale (anche se di natura
speciale o “di protezione) e conseguentemente ha la facoltà di dichiarare la nullità del
negozio, rigettando la domanda originaria
 nel giudizio di appello e in quello di cassazione il giudice, in caso di mancata
rilevazione officiosa in primo grado di una nullità contrattuale, ha sempre facoltà di
procedere ad un siffatto rilievo
 la domanda di accertamento della nullità di un negozio che sia proposta per la prima
volta in appello è inammissibile ex art. 345 c.p.c.

77. La corrispondenza tra chiesto e pronunciato

L'art. 112 c.p.c. sancisce, da un lato, l'obbligo del giudice di pronunciare su tutta la
domanda e non oltre i limiti di essa e, dall’altro, il divieto per lo stesso di pronunciare
d'ufficio su eccezioni che possono essere proposte solo dalle parti (eccezioni in senso
stretto). Queste due regole possono essere riassunte, come fa la stessa rubrica dell’art., nel
principio della “corrispondenza tra chiesto e pronunciato”, traduzione del brocardo “ne eat
iudex ultra petita partium”. Il principio in discorso è strettamente collegato a quello della
domanda, nel senso che è la domanda di parte (oltre che strumento di attuazione del potere
di dare impulso al processo) a determinare i limiti della pronuncia del giudice, fissando il
thema decidendum. Rispetto a questo non è consentita al giudice né l'omissione di
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pronunzia, né la pronunzia su più di quanto richiesto (ultrapetizione) o su un oggetto


diverso da quello richiesto (extrapetizione).

78. I giudizi di equità normativa e le sentenze di equità su richiesta delle parti

Come si evince dall’art. 113, vi sono dei casi (c.d. giudizi di equità normativa) in cui la
stessa legge comanda al giudice di decidere secondo equità, riconoscendo che o per la
natura dei rapporti sostanziali in contestazione o per ragioni di opportunità inerenti al valore
della controversia non sia possibile o necessario sottoporre la decisione ai precetti del
diritto scritto. Il co. 2° prevede che il giudice di pace decide sempre secondo equità nelle
cause dal valore non eccedente i 1100€. Come stabilito dalla l. 63/2003, fanno eccezione a
questa regola le controversie derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi
mediante moduli e formulari ex art. 1342 c.c.: il legislatore ha ritenuto che le controversie
che sorgono in questi casi, anche se di modico valore, debbano essere sempre decise
secondo diritto. Nei giudizi di equità il giudice comunque applica e non crea la norma,
dovendo ricercare i criteri di giudizio in complessi normativi diversi da quelli
dell'ordinamento statale o comunque nella natura del concreto rapporto misurata con
parametri economici, etici e sociali e non secondo regole meramente soggettive scelte di
volta in volta. Pertanto deve escludersi che l’equità possa considerarsi la “giustizia del caso
singolo”, costituendo piuttosto “integrazione” della norma scritta.

Diverse da queste sono le sentenze di equità su richiesta delle parti, che il giudice sia in 1°
grado che in appello pronuncia ex art. 114 in materia di diritti disponibili delle parti
“quando queste gliene fanno concorde richiesta”. Qui non è la legge che recepisce
complessi normativi diversi da quello dell'ordinamento statale, ma sono le parti che
sollecitano una decisione di equità, in questo caso “sostitutiva”, esercitando poteri di
autonomia privata.

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Comunque anche in questa ipotesi non si ha la “giustizia del caso singolo”, ma il dovere del
giudice di trarre il criterio di giudizio dall’interpretazione della volontà negoziale delle
parti, oltre che dal contesto in cui si sono formati i rapporti dedotti in giudizio.

La disciplina del giudizio di equità è identica a quella del giudizio di diritto, salvo l’obbligo
per le parti di esporre le ragioni addotte a fondamento della domanda di decisione
equitativa e il dovere del giudice di rappresentare alle parti i criteri di equità che egli
intende seguire, nonché di motivare nella sentenza sul punto. Le sentenze di equità sono
impugnabili al pari di tutte le altre sentenze.

CAP. 7: RAPPORTI TRA CAUSE: LITISPENDENZA, CONTINENZA, CONNESSIONE

79. La litispendenza

La litispendenza, nel suo significato etimologico, significa “pendenza della lite”: l’ultimo
co. dell'art. 39 identifica tale momento nella notificazione dell'atto di citazione ovvero nel
deposito del ricorso nella cancelleria del giudice, momento a seguito del quale il processo
risulta pendente e vengono a prodursi gli effetti sostanziali e processuali della domanda.
Nel suo significato “patologico”, invece, la litispendenza indica la contemporanea pendenza
di due o più cause identiche (l'art. 39 parla di “stessa causa”) davanti a diversi uffici
giudiziari. Pertanto la litispendenza si realizza quando vi sia identità, oltre che dei soggetti
coinvolti nella lite, anche del petitum e della causa petendi. Ora, se le due o più cause tra
loro identiche risultano pendenti dinanzi al medesimo ufficio giudiziario (sia dinanzi allo
stesso magistrato, sia dinanzi a magistrati diversi ma appartenenti allo stesso ufficio) trova
applicazione l’art. 273 co. 1° che sancisce l'obbligo di riunione, anche d'ufficio, delle cause.
Se, invece, le due o più cause tra loro identiche pendono davanti ad uffici giudiziari diversi,
si è in presenza del fenomeno della litispendenza disciplinato dall'art. 39 e sorge la
necessità di eliminare il “doppione”, paralizzando l’iter procedimentale di una o più cause e
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consentendo di

80. La litispendenza comunitaria e internazionale

 litispendenza internazionale, l’art. 7 della l. 218/1995 impone al giudice italiano di


fronte al quale sia stata proposta identica causa , di accertare se tale causa possa o
meno proseguire fino alla pronuncia della sentenza sul merito, ovvero se essa debba
essere sospesa in attesa della decisione del giudizio straniero per primo instaurato. Il
giudice italiano, se ritiene che il provvedimento straniero possa produrre effetto per
l’ordinamento italiano, sospende il giudizio pendente davanti a lui. Inoltre, al
contrario della litispendenza interna (che deve essere rilevata dal giudice anche
d’ufficio), la questione attinente alla litispendenza internazionale non può essere
sollevata d'ufficio dal giudice, ma deve essere fatta oggetto di un'espressa eccezione
di parte. Finalità dell’istituto non è dunque quella di sottrarre al giudice
successivamente adito la cognizione sulla causa, bensì di consentire l’eventuale
sospensione del giudizio promosso successivamente in Italia, in attesa dell’esito della
causa proposta per prima davanti al giudice straniero, senza escludere la possibilità di
una futura prosecuzione dello stesso. Secondo la giurisprudenza, infatti, “la
litispendenza internazionale presuppone, oltre all’identità delle parti, l’identità dei
risultati pratici perseguiti dalle domande” e mira ad evitare inutili duplicazioni di
attività giudiziaria e ad eliminare il rischio di conflitto tra giudicati
 litispendenza comunitaria, l'art. 27 del Regolamento CE 44/2001 prevede che,
qualora davanti a giudici di Stati membri differenti e tra le medesime parti siano state
proposte domande aventi il medesimo oggetto ed il medesimo titolo, il giudice
successivamente adito deve sospendere d'ufficio il procedimento pendente dinanzi a
lui, fino a quando sia stata accertata la competenza del giudice adito in precedenza e,
una volta che sia intervenuto tale accertamento, deve dichiarare la propria
incompetenza in favore del primo. Possiamo osservare che nella litispendenza interna
l’accertata previa pendenza della stessa causa davanti ad un diverso ufficio
giudiziario comporta la necessaria eliminazione del doppione, con la pronuncia
dell’ordinanza che dichiara la litispendenza e che dispone la cancellazione della
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causa dal ruolo da parte del giudice successivamente adito, mentre nella
litispendenza comunitaria quello stesso accertamento comporta la sospensione del
processo e solo successivamente la declinatoria di competenza a favore del primo
giudice. Entrambe queste attività costituiscono esercizio di un potere-dovere del
giudice, diversamente dalla litispendenza internazionale, che può essere eccepita solo
dalle parti.
Bisogna osservare che i criteri di individuazione dell’identità tra le cause, con
riguardo alla litispendenza comunitaria (e ancor più con riguardo a quella
internazionale) divergono rispetto a quelli in tema di litispendenza interna. La Corte
di giustizia comunitaria ha elaborato una nozione autonoma e più ampia di identità di
cause rispetto a quella desumibile ex art. 39 c.p.c., essendo stata riconosciuta anche
se le domande relative allo stesso rapporto non siano in relazione di litispendenza,
ma di continenza o di connessione.
81. La continenza

L'art. 39 co. 2° c.p.c. fa riferimento alla diverse ipotesi che le due (o più) cause
contemporaneamente pendenti dinanzi a giudici diversi (sempre nel senso di uffici
giudiziari) non siano in tutto identiche, ma abbiano il petitum più o meno ampio, tale da
ricomprendere o essere ricompreso nel petitum dell'altra, ferma restando l'identità sia dei
soggetti che della causa petendi. In questo caso, non si tratta semplicemente di eliminare il
“doppione”, ma di consentire la trattazione congiunta delle due cause da parte di un unico
giudice che (solo se competente) è quello adito per primo e (nel caso cui non è competente)
è quello adito successivamente. Nel primo caso è il giudice successivamente adito a
pronunciare l'ordinanza di continenza e contestuale rimessione della causa all'altro giudice,
con fissazione del termine perentorio per la riassunzione della causa davanti al giudice
preventivamente adito; nel secondo caso sarà, invece, proprio il primo giudice adito a
pronunciare i suddetti provvedimenti. Anche l'ordinanza di continenza, come quella di
litispendenza, può essere impugnata solo con il regolamento di competenza.

La giurisprudenza ha fortemente dilatato la nozione codicistica di continenza,


ricomprendendovi, oltre alle

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ipotesi dei petita concentrici, anche i casi in cui l’oggetto dei due giudizi sia rappresentato
da petita tra loro opposti (si pensi alle domande di accertamento positivo e negativo dello
stesso diritto o rapporto sostanziale), nonché le ipotesi (che rientrano propriamente nella
nozione di connessione) in cui è solo parziale l’inclusione degli elementi costitutivi della
causa petendi e del petitum di una delle due domande in quelli dell’altra (ad es. è stato
ritenuto continente il giudizio relativo all’esecuzione di un contratto rispetto a quello sulla
validità di una clausola dello stesso contratto).

82. La connessione

In generale, la connessione è una relazione tra due o più cause contemporaneamente


pendenti davanti al medesimo o a diverso giudice, che si caratterizza per il fatto che tali
cause hanno tra loro in comune una o più (ma non tutti gli) elementi di identificazione della
domanda. Tale identità solo parziale (quando è totale dà luogo al diverso fenomeno della
litispendenza) può giustificare, entro limiti temporali precisi e per ragioni di economia
processuale, la trattazione congiunta delle stesse (c.d. simultaneus processus). La
connessione può essere soggettiva o oggettiva, mentre a parte si colloca la connessione c.d.
impropria:

 la connessione soggettiva si determina quando le due o più cause hanno in comune il


solo elemento soggettivo, cioè quando esse hanno ad oggetto rapporti sostanziali che
intercorrono fra i medesimi soggetti. Tale situazione si risolve, se le cause sono
proposte contemporaneamente in un unico processo, nel cumulo (iniziale) oggettivo
descritto dall’art. 104 c.p.c., che consente di proporre contro la stessa parte, nel
medesimo processo, “più domande anche non altrimenti connesse”
 la connessione oggettiva si ha quando le due o più cause hanno in comune almeno
uno degli elementi oggettivi (petitum o causa petendi) e dà luogo, sempre se le cause
sono proposte contemporaneamente in un unico processo, al cumulo (iniziale)
soggettivo, disciplinato dall’art. 103 rubricato “litisconsorzio facoltativo”
 la connessione impropria si ha in caso di rapporto tra due o più cause la cui decisione
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“dipende totalmente o parzialmente dalla soluzione di identiche questioni” (art. 103


co. 2°) e anche in questi casi la legge prevede che le plurime cause vengano cumulate
in un unico processo. Se le cause sono pendenti davanti allo stesso giudice, al pari
della litispendenza, questi può anche d'ufficio disporre la riunione; se pendono
davanti a giudici diversi, l’art. 40 prevede la possibilità che si realizzi un simultaneus
processus, con la pronuncia di un'ordinanza di connessione da parte del giudice
successivamente adito in favore di quello preventivamente adito, dinanzi al quale le
parti devono riassumere la causa nel termine perentorio fissato dal giudice che emana
l’ordinanza. La possibilità del processo simultaneo, però, è subordinata dal co. 2°
dello stesso art. 40 a due condizioni:
o l'eccezione di parte o il rilievo d'ufficio della connessione devono avvenire entro
la prima udienza (e cioè, nel processo di cognizione ordinaria, l’udienza di
trattazione)
o la rimessione al giudice preventivamente adito non può essere ordinata “quando
lo stato della causa principale o preventivamente proposta non consente
l'esauriente trattazione e decisione delle cause connesse”.

In caso di connessione tra cause soggette a riti diversi, l’art. 40 stabilisce la regola secondo
cui il rito di cognizione ordinaria prevale su tutti i riti speciali, fatta eccezione per il rito del
lavoro. La finalità di economia processuale cui sono rivolte le norme sulla connessione ne
spiega anche il carattere intrinsecamente reversibile: il co. 2° degli artt. 103 e 104 prevede
la possibilità che il giudice disponga la separazione delle cause oggettivamente o
soggettivamente connesse, quando la continuazione della loro riunione sia tale da ritardare
o rendere più gravoso il processo, quindi all’esito di una valutazione di mera opportunità
compiuta dal giudice nel corso della fase istruttoria. Al pari che per la litispendenza e la
continenza, anche avverso l’ordinanza di connessione, che ha carattere definitivo in
quanto chiude il processo davanti al giudice che la pronuncia, è

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esperibile unicamente il regolamento di competenza.

Gli artt. 31 ss. c.p.c. contengono la disciplina di alcune specifiche ipotesi di connessione,
con cui il legislatore rende concretamente attuabile il cumulo soggettivo iniziale. Si tratta
dei fenomeni di: accessorietà, garanzia, cumulo soggettivo, pregiudizialità, compensazione
e causa riconvenzionale.

83. L'accessorietà

Il concetto di accessorietà identifica il rapporto di collegamento tra due cause proposte in


cumulo originario che, oltre ad avere i medesimi soggetti (cioè autori e destinatari delle
domande giudiziali), si caratterizzano per il fatto che la decisione della causa accessoria
dipende da quella principale. Regola generale ex art. 31 è che la domanda accessoria può
essere proposta davanti al giudice territorialmente competente per la causa principale,
sempre che questi sia competente per valore ex art. 10 co. 2° (cioè sommando le due
domande).

La connessione per accessorietà va distinta dalla continenza, in quanto il rapporto tra causa
accessoria e causa principale, a differenza di quello tra causa continente e causa contenuta,
presuppone l’accoglimento della prima in caso di accoglimento della seconda; essa va
distinta anche dalla pregiudizialità, in quanto la domanda accessoria si propone o con la
domanda principale o in un momento successivo a questa, nel senso che essa deve sempre
presupporre la pendenza o la previa definizione del giudizio sulla domanda principale.

84. La garanzia

Il fenomeno della garanzia ricorre quando una delle parti della causa principale (garantito)
fa valere in un altro processo nei confronti di un terzo (garante) la pretesa di essere tenuta
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indenne nell'ipotesi in cui dovesse soccombere in quella causa. In questi casi l’opportunità
di trattazione simultanea delle due cause è nell’esclusivo interesse del garantito, il quale, se
convenuto, può altresì esercitare la c.d. chiamata in garanzia. Il legislatore consente la
proposizione della domanda di garanzia dinanzi allo stesso giudice competente per la causa
principale. Ex art. 32, se la domanda di garanzia eccede la competenza per valore del
giudice adito, questi deve rimettere entrambe le cause al giudice superiore, assegnando alle
parti un termine perentorio per la riassunzione. Si distinguono 2 tipi di garanzia:

 propria, che si fonda sullo stesso rapporto giuridico sostanziale già dedotto in
giudizio (ad es. garanzia per evizione)
 impropria, che non si fonda sul medesimo titolo, ma nasce da rapporti collegati solo
in via di fatto, cioè da una concatenazione di pretese che fa sì che la proposizione di
una domanda nei confronti di un soggetto consente a quest'ultimo di avanzare una
pretesa nei confronti di un terzo (pensiamo alle c.d. vendite a catena, allorchè
l’acquirente finale agisce per vizi della cosa nei confronti del dettagliante e
quest’ultimo a sua volta formuli domanda giudiziale nei confronti del grossista).

Secondo la giurisprudenza dominante, le regole sinora esaminate, che comportano la


possibilità di deroga della competenza per territorio e per valore, si applicano solo alla
garanzia propria (data l’identità della causa petendi tra le due cause) e non a quella
impropria, in relazione alla quale è ammesso il cumulo di cause, a condizione che esso non
comporti deroga alle regole di competenza.

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85. Il cumulo soggettivo

L’art. 33 consente che distinte cause contro più persone (che ex artt. 18 e 19 dovrebbero
essere proposte dinanzi a giudici diversi) possano essere proposte, se sono connesse per
l'oggetto o per il titolo, davanti al giudice del luogo di residenza o domicilio di una di esse
“per essere decise nello stesso processo”. In sostanza l’attore può proporre in cumulo
iniziale passivo (cioè contro più soggetti contemporaneamente) più domande
oggettivamente connesse, avendo facoltà di scegliere uno solo tra i fori dei più convenuti,
con esclusivo riferimento ai fori generali delle persone fisiche e giuridiche (e non agli altri
fori facoltativi e pattizi). Inoltre il diritto vivente esclude l’operatività della deroga della
competenza territoriale quando essa sia il frutto della scelta “maliziosa” dell’attore, il quale
chiami in causa un convenuto fittizio (estraneo all’oggetto della controversia) al solo scopo
di invocare la deroga del foro nei confronti degli altri convenuti, sottraendo la controversia
con questi al suo giudice naturale.

86. La pregiudizialità

L'art. 34 c.p.c. si occupa della connessione per pregiudizialità. Per comprendere il


fenomeno, bisogna considerare che nel corso dell’iter che porta alla sentenza di merito
possono sorgere questioni la cui risoluzione precede logicamente la decisione sulla
domanda. Proprio tra queste questioni è innanzitutto necessario operare una distinzione tra

 questioni preliminari di merito, che ineriscono al diritto o rapporto dedotto e non


possono essere oggetto di autonomo e diverso processo tra le stesse parti
 questioni pregiudiziali di merito (cui fa riferimento l’art. 34), che sono estranee al
petitum originario e sono autonomamente deducibili anche in un separato processo.

Si pensi, in un giudizio di alimenti promosso dal figlio nei confronti del padre, alla
questione relativa allo status di paternità, che il padre eccepisce non essere sussistente; o
ancora, in un giudizio diretto al pagamento di una rata scaduta di mutuo, alla questione di
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invalidità del relativo contratto, sollevata dal convenuto nell’ambito delle proprie difese. In
tali casi si suole parlare di pregiudizialità-dipendenza (o pregiudizialità tecnica), nel senso
che la pregiudizialità deriva da un rapporto sostanziale tra le controversie, in virtù del quale
l'esistenza o l'inesistenza di un diritto o di uno stato dipendono dall'esistenza o
dall'inesistenza, tra le medesime parti o tra parti diverse, di un altro rapporto giuridico
sostanziale. Nel codice di procedura civile non si definiscono mai “pregiudiziali”, ma
sempre e solo “preliminari”, le suddette questioni di merito inerenti all'esistenza del diritto
o rapporto dedotto in giudizio, cioè dell’oggetto originario della domanda; invece si
accomunano sotto l'aggettivo “pregiudiziali” tutte le questioni estranee a quell'originario
oggetto. Il fenomeno della connessione per pregiudizialità viene in essere allorchè una
questione pregiudiziale di merito debba essere, per legge o per espressa domanda di parte,
decisa con efficacia di giudicato. Quando ciò accade, si determina una “trasformazione”
della questione pregiudiziale in causa pregiudiziale, cioè in una causa legata a quella
originaria da vincoli di comunanza oggettiva (oltre che soggettiva). In altre parole, la
questione pregiudiziale, pur potendo essere oggetto di autonomo giudizio, si trasforma in
causa e deve essere decisa congiuntamente a quella originariamente proposta. Poiché tale
trasformazione, detta anche “accertamento incidentale”, si realizza solo in presenza di uno
dei due presupposti previsti dall'art. 34 (e cioè, come anticipato, la volontà di legge o
l'espressa domanda di parte), la questione pregiudiziale può ben restare tale e in tal caso
essere risolta dal giudice per l'appunto incidentalmente, ai soli fini della decisione di quella
causa.

Anche la domanda di accertamento incidentale, come ogni domanda giudiziale, deve essere
sorretta da un autonomo interesse ad agire, distinto da quello dedotto nella causa in cui è
sorta la questione pregiudiziale. Infine, lo stesso art. 34 limita l'effetto derogatorio della
competenza al criterio del territorio derogabile: se la

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questione pregiudiziale che si trasforma in causa pregiudiziale appartiene per materia o per
valore alla competenza di giudice superiore, il giudice originariamente adito deve rimettere
tutta la causa a quest’ultimo, assegnando alle parti un termine perentorio per la
riassunzione.

87. L'eccezione di compensazione

L'art. 35 c.p.c. tratta, con criteri analoghi a quelli previsti per la connessione per
pregiudizialità, il fenomeno di connessione che si realizza a seguito della proposizione di
un'eccezione di compensazione. Quest’ultima, pur avendo la forma processuale
dell'eccezione, è per il suo contenuto equivalente ad una domanda di accertamento
incidentale di chi oppone in giudizio il proprio credito (c.d. controcredito) al credito vantato
dall’attore. Evidentemente tale opposizione estende l’oggetto della decisione ad un rapporto
diverso da quello dedotto dall’attore, sollecitando che sia dichiarato estinto non solo il
credito fondante la domanda originaria, ma anche quello “opposto”.

Se il credito opposto in compensazione è contestato ed eccede la competenza per valore del


giudice adito, questi può decidere sulla domanda originaria pronunciando la c.d. condanna
con riserva di eccezioni (e rimettendo le parti davanti al giudice competenze per la
decisione relativa all’eccezione di compensazione) solo se la domanda originaria è fondata
su un titolo non controverso o facilmente accertabile. In assenza di queste condizioni, ex
art. 34 il giudice rimette tutta la causa al giudice superiore per la decisione simultanea sia
della domanda originaria che dell’eccezione di compensazione.

88. La causa riconvenzionale

Il fenomeno si verifica ex art. 36 allorchè il convenuto proponga, nei confronti dell'attore,


domanda riconvenzionale, cioè una domanda che, pur potendo essere proposta in un
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separato ed autonomo processo, viene fatta valere nello stesso giudizio già pendente,
sempre che:

 sia legata a quella originaria da identità di titolo (cioè di causa petendi). Ad es. Tizio,
attore, conviene in giudizio Caio per sentirlo condannare al pagamento del prezzo di
una compravendita; Caio non contesta la validità e l’efficacia del contratto, ma
chiede in via riconvenzionale la condanna di Tizio alla consegna del bene. In tal caso
la domanda riconvenzionale del convenuto si fonda sul medesimo titolo posto
dall’attore a fondamento della domanda principale (il contratto di compravendita
 sia dipendente dal titolo che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione. Ad
es. Tizio, attore, conviene in giudizio Caio per sentirlo condannare al pagamento del
prezzo di una compravendita; Caio eccepisce che il contratto è stato stipulato per
vizio del consenso e chiede in via riconvenzionale che sia pronunziato
l’annullamento del contratto.

Comunque il diritto vivente ha ampliato l’ambito di applicabilità dell’istituto anche oltre i


limiti previsti dall’art. 36, nel senso che, qualora la domanda riconvenzionale non ecceda la
competenza del giudice della causa principale, a fondamento di essa può dedursi anche un
titolo non dipendente da quello fatto valere dall’attore a fondamento della sua domanda,
purché sussista con questo un collegamento oggettivo che consigli al giudice di disporre il
simultaneus processus. Anche nell'ipotesi di domanda riconvenzionale, l'effetto derogatorio
della competenza è limitato al criterio del territorio semplice, nel senso che il simultaneus
processus davanti al giudice originariamente investito della cognizione sulla domanda
principale potrà aversi solo se quest'ultimo sia competente (per materia, valore o territorio
inderogabile) a conoscere della domanda riconvenzionale.

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PARTE TERZA: I SOGGETTI DEL PROCESSO

CAP. 8: IL GIUDICE, IL PUBBLICO MINISTERO. GLI AUSILIARI DEL GIUDICE

89. I principi costituzionali dell'imparzialità e terzietà del giudice. L'astensione


obbligatoria e facoltativa

La l. cost. 2/1999 ha introdotto nell’art. 111 Cost., tra le garanzie del giusto processo, quelle
di:

 imparzialità del giudice, che va intesa come regola di equidistanza dalle parti, che
consente al giudice di trattare e decidere la causa secondo giustizia, senza essere
influenzato dalla presenza di collegamenti esterni al processo con una delle parti
 terzietà del giudice, che va intesa come regola di equidistanza dall'oggetto della
causa, che deve consentire al giudice di rendere la decisione in condizioni tali da
assicurare una posizione di equidistanza rispetto all'esercizio dei suoi poteri decisori.
Si tratta di nozione che è stata elaborata nell’ambito del processo penale e che,
quanto a quella penale, era inglobata in quella di imparzialità, nel senso che doveva
ricavarsi dal riferimento che l’art. 51 n. 4 fa al grado di giudizio (“ha conosciuto
come magistrato in altro grado del processo”).

Dunque il principio di imparzialità e di terzietà rileva sia in relazione ai casi in cui il


magistrato chiamato a pronunziarsi non sia (o non possa considerarsi) in una situazione di
imparzialità rispetto alle parti per motivi esterni al processo, sia in relazione ai casi in cui la
terzietà possa essere pregiudicata dal fatto che il giudice è chiamato a decidere una causa in
relazione alla quale ha già provveduto con un altro precedente provvedimento, cioè possa
essere chiamato a contraddire se stesso (c.d. principio di prevenzione). La garanzia di
imparzialità del giudice civile è assicurata dagli artt. 51 ss. c.p.c., che prevedono iniziative
rimesse o all'impulso dello stesso giudice, attraverso l'astensione obbligatoria e quella
facoltativa, ovvero alle parti, alle quali è attribuita la facoltà di proporre istanza di
ricusazione, ancorchè nei soli casi di astensione obbligatoria. L'art. 51 co.1° indica
l’elencazione (tassativa secondo la dottrina) dei casi di astensione obbligatoria del giudice:
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 interesse nella causa o in altra vertente su identica questione di diritto, tale da porre il
giudice nella vesta di parte del processo e da comportare la violazione del principio
“nemo iudex in causa sua” (n. 1)
 rapporto di parentela, da parte del giudice o del suo coniuge, fino al 4° grado o
rapporti di commensalità abituale o di convivenza con una delle parti o dei difensori
(n. 2)
 grave inimicizia, pendenza di altra causa o rapporti di credito o di debito nei
confronti di una delle parti o dei difensori (n. 3)
 aver dato consiglio o prestato patrocinio o consulenza tecnica o aver deposto come
testimone o aver conosciuto della causa come magistrato in altro grado del processo
o come arbitro (n. 4)
 essere tutore, curatore, procuratore o datore di lavoro di una delle parti o essere
amministratore di un ente, associazione anche non riconosciuta, comitato o società
che ha interesse nella causa (n. 5).

Particolare importanza assume il n. 4 citato: taluni ritengono che al “grado” si debba


sostituire la “fase” e un’indicazione in tal senso sembra provenire anche dalla
giurisprudenza costituzionale, che interpreta il grado non solo nel ristretto significato
dell’ordine degli uffici giudiziari previsto dall’ordinamento giudiziario, ma anche come
“fase” che in un processo civile succede alle precedenti con carattere di autonomia e con
funzioni e struttura impugnatorie, ancorchè davanti allo stesso organo giudiziario. In realtà
non sembra potersi operare un collegamento tra la “fase” e il principio di prevenzione, in
quanto vi sono momenti del processo in cui il giudice emette provvedimenti che in qualche
modo anticipano un convincimento, che può essere già maturato prima della decisione. Si
potrebbe piuttosto ritenere che la garanzia di terzietà sia messa in pericolo non in presenza
della c.d. prevenzione, ma dal previo esercizio di poteri decisori, pur sommari, che si siano
tradotti in provvedimenti idonei a concludere un autonomo giudizio o fase di giudizio
ovvero di poteri cautelari ante causam, che sono resi all’esito di autonomo (seppur
strumentale) giudizio, distinto da quello di merito.

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Accanto ai motivi di astensione obbligatoria, il co. 2° dell'art. 51 indica le “gravi ragioni di


convenienza”, quale motivo di astensione facoltativa, sussistendo le quali il giudice può
fare istanza scritta al capo dell'ufficio chiedendogli l'autorizzazione ad astenersi. Per quanto
attiene alle conseguenze della mancata astensione, va considerata a parte l'ipotesi in cui
sussiste un interesse proprio e diretto del giudice nella causa (cioè il n. 1), che comporta la
nullità della sentenza, anche a prescindere della previa proposizione dell'istanza di
ricusazione. Diversamente, nessuna invalidità del provvedimento del giudice viene fatta
automaticamente discendere nelle altre ipotesi di astensione obbligatoria, incombendo
esclusivamente sulle parti l'onere di chiedere la ricusazione del giudice.

90. La ricusazione

Ai sensi dell'art. 52 c.p.c., quando ricorre un'ipotesi di astensione obbligatoria del giudice,
ciascuna parte può fare istanza di ricusazione, che si propone con ricorso. Questo deve
contenere i motivi specifici ed i mezzi di prova idonei a dimostrare la ricorrenza di una
causa di astensione obbligatoria, deve essere depositato a pena di inammissibilità nella
cancelleria 2 giorni prima dell'udienza, se al ricusante è noto il nome dei giudici che sono
chiamati a trattare o decidere la causa ovvero prima dell'inizio della trattazione o
discussione di questa nel caso contrario. La norma aggiunge che la ricusazione sospende il
processo. Ma, secondo la giurisprudenza, la sola proposizione del ricorso per ricusazione
non determina ipso jure la sospensione e la devoluzione della questione al giudice
competente a decidere della medesima, in quanto spetta pur sempre al giudice ricusato una
sommaria delibazione della sua ammissibilità, all’esito della quale, ove risultino ictu oculi
carenti i requisiti formali di legge per l’ammissibilità dell’istanza, il procedimento può
continuare. Sull'istanza di ricusazione decide con ordinanza non impugnabile il presidente
del tribunale, se è ricusato un giudice del tribunale, oppure il collegio, se è ricusato uno dei
componenti del tribunale o della corte. L’ordinanza, in caso di accoglimento dell'istanza,
deve contenere la designazione del giudice chiamato a sostituire quello ricusato.

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91. La responsabilità civile del giudice

Il giudice (in quanto titolare di un rapporto di pubblico impiego) è soggetto alla generale
previsione dell'art. 28 Cost., che sancisce l'obbligo di funzionari e dipendenti dello Stato di
rispondere direttamente, secondo le leggi penali, civili e amministrative, delle conseguenze
degli atti compiuti in violazione dei diritti. Spetta poi al legislatore dettare un regime di
responsabilità, anche differenziato, che tenga conto delle peculiarità delle varie categorie di
dipendenti pubblici.

La l. 117/1988 (recentemente modificata dalla l. 15/2015) ha riscritto la materia della


responsabilità civile del giudice per danni cagionati nell’esercizio delle funzioni
giurisdizionali, in quanto ha previsto un’azione risarcitoria diretta da parte del cittadino nei
confronti dello Stato e una successiva azione di rivalsa dello Stato nei confronti del giudice.
L'art 2 della legge citata individua il fatto generatore della responsabilità nel
comportamento, nell'atto o nel provvedimento giudiziario posti in essere dal magistrato con
dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero nel diniego di giustizia, che
abbiano prodotto un danno di giustizia. Nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può
sicuramente dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione né quella di valutazione
del fatto e delle prove, ovviamente fatte salve le ipotesi di dolo o colpa grave. La legge del
2015 ha precisato che costituisce colpa grave:

 la violazione manifesta della legge nonché del diritto UE


 il travisamento del fatto o delle prove
 l’affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del
procedimento o la

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negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del


procedimento
 l’emissione di un provvedimento cautelare al di fuori dei casi consentiti dalla legge o
senza motivazione.

Il diniego di giustizia, invece, è individuato dall'art. 3 nel rifiuto, omissione o ritardo del
magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, una volta decorso il termine
previsto dalla legge per il compimento dell’atto, siano altresì decorsi senza giustificato
motivo ulteriori 30 giorni dalla data del deposito in cancelleria dell'istanza della parte
diretta ad ottenere il provvedimento.

Legittimato passivo dell'azione di risarcimento del danno contro lo Stato è il Presidente del
Consiglio, mentre la competenza appartiene al tribunale del luogo ove ha sede la corte
d'appello del distretto più vicino a quello in cui è compreso l'ufficio giudiziario cui
apparteneva il giudice al momento del fatto lesivo (art. 4). La domanda deve essere
proposta, a pena di decadenza, entro 3 anni, che decorrono dal momento in cui l’azione è
esperibile; nei casi di diniego di giustizia, l’azione deve essere promossa entro 3 anni dalla
scadenza del termine entro il quale il magistrato avrebbe dovuto provvedere sull’istanza.
Entro 2 anni dal risarcimento, lo Stato, in persona del Presidente del Consiglio, esercita
l'azione di rivalsa nei confronti del giudice, rivalsa la cui misura non può superare una
somma pari alla metà di un'annualità dello stipendio percepito dal magistrato al tempo in
cui l'azione di risarcimento è stata proposta, anche se dal fatto è derivato danno a più
persone e queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità (tale limite non si applica
al fatto commesso con dolo). Il procuratore generale presso la Corte di Cassazione ha
l'obbligo di esercitare l'azione disciplinare nei confronti del magistrato “per i fatti che
hanno dato causa all'azione di risarcimento”.

92. Il cancelliere e l'ufficiale giudiziario

Il cancelliere è stato definito il “notaio del giudice”, in quanto è a lui demandata dall’art. 57

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c.p.c. la funzione di documentare le attività proprie degli organi giudiziari e delle parti, di
assistere il giudice in tutti gli atti dei quali deve essere formato processo verbale, di
sottoscrivere unitamente al giudice i provvedimenti da quest'ultimo pronunciati e di rendere
pubblica la sentenza, dando atto del deposito in calce alla stessa, mentre dall’art. 58
c.p.c. il compito di provvedere all'iscrizione a ruolo delle cause, al rilascio di copie, alla
formazione del fascicolo d'ufficio, alla conservazione dei fascicoli delle parti e all’invio
delle comunicazioni previste dalla legge.

L'ufficiale giudiziario assiste il giudice in udienza e provvede all'esecuzione dei suoi ordini.
Inoltre egli provvede alla notificazione degli atti giudiziari, anche su richiesta delle parti, ed
è l’organo incaricato di dare esecuzione ai provvedimenti giurisdizionali, in particolare
quelli di esecuzione forzata. Secondo l'art. 60 c.p.c. il cancelliere e l'ufficiale giudiziario
incorrono in responsabilità civile in due ipotesi:

 quando, senza giustificato motivo, ricusano di compiere gli atti che sono loro
legalmente richiesti oppure omettono di compierli nel termine stabilito dal giudice su
istanza di parte
 quando compiono un atto nullo con dolo o colpa grave.

93. Gli ausiliari del giudice

Sono quei soggetti che, sebbene estranei alla struttura organizzativa e amministrativa degli
uffici giudiziari (diversamente da cancelliere e ufficiale giudiziario), cooperano di volta in
volta con il giudice, previa richiesta di quest'ultimo (e talvolta dell’ufficiale giudiziario),
nello svolgimento di specifichi incarichi di giustizia. La disciplina degli ausiliari del
giudice si fonda sulla distinzione tra gli ausiliari c.d. tipici (consulente tecnico e custode) e
“altri ausiliari”, espressione della concezione ristretta della categoria degli ausiliari,
riservando la legge tale quali

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94. Il pubblico ministero

L'art. 69 c.p.c. si limita a sancire il principio in base al quale il p.m. esercita l'azione civile
“nei casi stabiliti dalla legge”. I poteri del p.m. sono gli stessi di quelli che competono ad
ogni parte che promuove l'azione, ma l'impossibilità di compiere atti di disposizione del
diritto (peraltro limite sussistente anche per le parti private ove si tratti di diritti
indisponibili): ad es. il p.m. non può prestare la confessione, stipulare transazioni,
rinunciare all’azione o agli atti del giudizio, accettare la rinuncia agli atti fatta da altra parte
del giudizio. L'art. 70 c.p.c. regola poi l’ipotesi di intervento del p.m. nel corso di un
processo già instaurato dalle parti private, prevedendo 2 diverse tipologie di intervento:

 quanto all’intervento necessario, il p.m. deve intervenire in una serie di ipotesi


tassativamente elencate (ad es., oltre alle controversie che lo stesso p.m. avrebbe
potuto proporre, le cause matrimoniali e riguardanti lo stato e la capacità delle
persone), che costituiscono altrettante ipotesi di litisconsorzio necessario nelle quali,
cioè, la legge impone la partecipazione necessaria al processo di tale organo. Inoltre
egli deve intervenire in ogni causa pendente dinanzi alla Cassazione, a causa dei
compiti di nomofilachia
 quanto all'intervento facoltativo, l’ultimo comma dell’art. 70 attribuisce al p.m. il
potere di intervenire in ogni altra causa in cui ravvisi un pubblico interesse
attuale e concreto. Quindi, mentre nei casi di intervento obbligatorio la valutazione
circa l’esistenza del pubblico interesse è svolta una tantum dal legislatore, nelle
ipotesi di intervento facoltativo la legge assegna allo stesso p.m. il potere
discrezionale di accertare in concreto la sussistenza di quell’interesse.
I poteri processuali del p.m. variano a seconda delle tipologie di intervento: nelle cause che
egli stesso avrebbe potuto proporre, ha gli stessi poteri delle parti (quindi anche di
impugnazione della sentenza); nelle altre ipotesi può “produrre documenti, dedurre prove,
prendere conclusioni nei limiti delle domande proposte dalle parti” ed è vincolato
all'oggetto del giudizio come fissato dalle parti private, potendo in sostanza solo concludere
per l’accoglimento ovvero per il rigetto delle domande proposte dalle parti private, restando
escluso anche che egli possa autonomamente impugnare la sentenza.
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CAP. 9: LE PARTI. LA SUCCESSIONE NEL PROCESSO. I DIFENSORI Nozione di


parte del processo. Il principio costituzionale di parità delle parti

Le parti del processo, sebbene prive di definizione all’interno del codice, sono quei soggetti
(attore, convenuto, interventore volontario o coatto) i quali, a seguito del compimento di
determinati atti processuali, acquistano la qualità di parti di quel processo e la titolarità di
una serie di poteri e facoltà processuali finalizzati a dare impulso e a consentire lo
svolgimento del processo e la produzione di effetti dei quali sono destinatari immediati. In
ogni processo vi debbono essere almeno 2 parti tra loro contrapposte, e cioè l'attore (che
propone la domanda) e il convenuto (nei cui confronti la domanda è proposta). L’ART 111
Cost. (modificato dalla
l. 2/1999) ha costituzionalizzato il principio della parità delle parti del processo, diretta
promanazione del principio di eguaglianza ex art. 3; esso è volto a far sì che la legge
processuale garantisca simmetria di facoltà, poteri ed oneri che fanno capo alle parti del
processo.
95. La capacità di stare in giudizio (capacità processuale)
La nozione di capacità processuale (o di stare in giudizio) è descritta dall'art. 75 co. 1°
c.p.c., che identifica come soggetti capaci di stare in giudizio le “persone che hanno il
libero esercizio dei diritti che vi si fanno valere”: si tratta insomma dei soggetti che sono
capaci di agire in quanto abbiano raggiunto la maggior età e non si trovino in stato di
interdizione o di inabilitazione e che possono esercitare personalmente il loro diritto
facendolo valere nel processo. Per descrivere la capacità di stare in giudizio, in
giurisprudenza si parla spesso anche di legittimazione processuale o ad processum,
(considerata quale presupposto di regolare costituzione del rapporto processuale).
L’accertamento sulla sua sussistenza può essere compiuto dal giudice in ogni stato e grado
del processo (tale nozione va distinta da quella di legittimazione ad agire o ad causam). Ai
sensi dell'art. 75 co. 2°, tra le persone che non possono stare in giudizio “se non
rappresentate, assistite o autorizzate secondo le norme che regolano la loro capacità”
non sono comprese quelle colpite da incapacità naturale, ma solo quelle che siano incapaci
di agire, come i minori o i soggetti interdetti o inabilitati.
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97.Le forme della rappresentanza processuale. Rappresentanza legale, assistenza e


autorizzazione

Quindi, ex art. 75 co. 2°, per l'esercizio dei diritti dei soggetti incapaci soccorrono taluni
strumenti:

a. con la rappresentanza legale, a un determinato soggetto(rappresentante) è


attribuita dalla legge la legittimazione processuale, cioè il potere di stare in
giudizio non in nome proprio, ma in nome dell'incapace (rappresentato), fermo
restando che quest’ultimo resta il destinatario finale degli effetti del processo
(come ad es. i minori di 18 anni)
b. l'assistenza riguarda i soggetti semincapaci (inabilitati e minori emancipati), i
quali sono sottoposti dalla legge, che richiede la partecipazione contemporanea al
giudizio dell'assistente (curatore) e dell'assistito (semincapace) ad un diverso
trattamento processuale.
c. la legge richiede che certi soggetti, per stare in giudizio, abbiano bisogno di
un’autorizzazione da parte di un organo giurisdizionale, diretta al controllo e alla
rimozione del limite all’esercizio del potere di azione o di resistere in giudizio (ad
es. autorizzazioni rilasciate dal giudice tutelare).

98. La rappresentanza delle persone giuridiche e degli enti. Il curatore speciale


L’art. 75 al co. 3° individua le modalità attraverso le quali stanno in giudizio le persone
giuridiche: tale art riconosce la legittimazione processuale a quei soggetti che, secondo la
legge o lo statuto della persona giuridica, hanno il potere di agire in nome della stessa nei
rapporti sostanziali. In realtà il rapporto che lega la società al proprio legale rappresentante
è di natura organica, in quanto l’attività compiuta dal titolare dell’organo è imputabile
direttamente alla persona giuridica nel momento stesso in cui è posta in essere. Le persone
giuridiche private (in primis le società di capitali) stanno in giudizio tramite gli
amministratori che ne hanno la rappresentanza (tramite i liquidatori in caso di
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liquidazione). Per gli enti che non hanno personalità giuridica (associazioni, comitati, enti
non riconosciuti) la legittimazione processuale spetta alle persone indicate dall’art. 36 c.c.
(cioè quelli cui è conferita, secondo accordi degli associati, la presidenza o la direzione).
La legge contempla anche l’ipotesi in cui manchi la persona alla quale spetta la
rappresentanza o l’assistenza. L’art. 78 prevede che, laddove sussistano ragioni d’urgenza,
su istanza del p.m. o di qualsiasi altra parte che vi abbia interesse, possa essere nominato
all’incapace, alla persona giuridica o all’ente non riconosciuto un curatore speciale, che li
rappresenti o assista in attesa che subentri il soggetto cui spetta la rappresentanza o
assistenza. Il co. 2° aggiunge che si procede a tale nomina anche quando vi è conflitto di
interessi tra rappresentante e rappresentato.

99. La rappresentanza volontaria


La legittimazione processuale può essere conferita al rappresentante solo quando sia
stata a lui conferita espressamente per iscritto la rappresentanza sostanziale
corrispondente al diritto di cui si controverte nel processo. Dunque è necessario che il
rappresentante sostanziale riceva dal preponente apposita procura scritta ad agire (o a
resistere) in giudizio, e ciò dimostra che la legge ha inteso conferire carattere di autonomia
alla rappresentanza volontaria nel processo. In caso di violazione di tale regola, il giudice
avrà l’obbligo ex art. 182 di rilevare il difetto di legittimazione processuale del
rappresentante, restando attribuita al suo prudente apprezzamento la possibilità
dell’eventuale sanatoria dello stesso. La regola non si applica comunque per gli atti urgenti e
per le misure cautelari, nel senso che in tali casi si prescinde dal conferimento espresso e per
iscritto del potere rappresentativo processuale, che viene presunto. Analogamente l’art. 77
co. 2° presume conferito il potere rappresentativo processuale al procuratore generale di chi
non ha residenza o domicilio in Italia e all’institore (presunzione comunque solo relativa,
che ammette prova contraria).

100. Il rilievo processuale dei vizi di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione e


la loro sanatoria
Eventuali vizi di rappresentanza processuale, assistenza o autorizzazione sono rilevati
d'ufficio dal giudice, il quale assegna alle parti un termine per la costituzione della persona
alla quale spetta la rappresentanza o l'assistenza, per il rilascio delle necessarie
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autorizzazioni ovvero per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa.
L'osservanza del termine sana i vizi con efficacia ex tunc, fin dalla prima notificazione.
Peraltro la l. 69/2009 ha esteso tale regime di sanatoria anche al vizio che determina la
nullità della procura rilasciata dalla parte al difensore, dovendosi di conseguenza equiparare
la nullità della procura ad litem al difetto di rappresentanza processuale. Se il potere
rappresentativo manca del tutto, la domanda proposta dal falsus procurator non produce
alcun effetto nei confronti del rappresentato, salva la possibilità di sanatoria da parte di
quest’ultimo, il quale, costituendosi in giudizio, deve ratificare tutti gli atti compiuti sino a
quel momento. I provvedimenti diretti alla sanatoria dei vizi in esame debbono essere
pronunciati all'esito delle verifiche preliminari che il giudice istruttore è tenuto a compiere
nella prima udienza, cioè nell'udienza di trattazione.

101. La sostituzione processuale


In base al principio generale di indisponibilità del diritto alla tutela giurisdizionale
sancito dall'art. 81 c.p.c. (“nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto
altrui”), di norma ciascuno fa valere in giudizio in nome proprio un diritto proprio. Ma la
stessa norma ammette deroghe a tale regola in quanto essa prevede ipotesi di sostituzione
processuale, di legittimazione straordinaria ad agire nelle quali l'ordinamento consente
eccezionalmente ad un certo soggetto di far valere in giudizio in nome proprio (e non in
qualità di rappresentante, il quale agisce in nome altrui) un diritto di altri, senza
l'autorizzazione del suo titolare e, se del caso, anche contro la sua volontà. Tutte le ipotesi
legali di sostituzione processuale presuppongono la contemporanea lesione di uno o più
interessi, che sono materia di un rapporto giuridico, per effetto di vicende inerenti ad altro
rapporto che col primo interferisce: si pensi alla responsabilità patrimoniale del debitore
che, in caso di inerzia di questi nel far valere le ragioni creditorie che vanta nei confronti di
terzi, giustifica l'azione surrogatoria da parte del suo creditore. Poiché il sostituto è
legittimato dalla legge a far valere un diritto di cui è titolare altro soggetto, il sostituto
comunque deve essere chiamato a partecipare al giudizio (in ossequio all’art. 24 Cost.),
di cui è litisconsorzio necessario e del quale subisce gli effetti diretti del giudicato.

102. La successione a titolo universale nel processo

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L'art. 110 c.p.c. disciplina l'ipotesi del venir meno di una parte “per morte o per altra
causa” e gli effetti di tale fenomeno sul processo in corso. Così come nei rapporti
sostanziali la successione a titolo universale comporta il subingresso in tutti i diritti o
rapporti di cui era titolare il de cuius, anche nel processo si deve consentire al successore a
titolo universale di subentrare nella posizione processuale del soggetto estinto, acquisendo
gli stessi poteri ed oneri che, al momento del verificarsi della successione, competevano a
quest'ultimo. Se a venir meno è una persona fisica, ad essa subentrano gli eredi; se ad
estinguersi è una persona giuridica (il che accade di regola per fusione o incorporazione),
sarà la nuova società risultante a proseguire i giudizi in corso.

103. La successione a titolo particolare nel diritto controverso


l'art. 111 c.p.c. si occupa della diversa ipotesi di successione a titolo particolare nel diritto
controverso, cioè di trasferimento del solo diritto o rapporto in contestazione (res litigiosa)
o di una ben individuata serie di rapporti comprendenti quello controverso, che può
verificarsi (ovviamente dopo l’instaurazione del processo) sia mortis causa (legato) sia inter
vivos (atto negoziale). Problematico è, a tal proposito, stabilire cosa si debba intendere per
“diritto controverso”: l'opinione più diffusa è che il legislatore voglia far riferimento al
diritto sostanziale dedotto in giudizio. Vediamo, dunque, come il legislatore disciplina il
fenomeno:

 nel caso di trasferimento inter vivos, si garantisce la parte contrapposta all’alienante,


dunque “il processo prosegue tra le parti originarie”
 nel caso di trasferimento mortis causa, proprio per il fatto che la parte è venuta a
mancare, il processo è proseguito dal successore a titolo universale (e non dal
legatario).

Parte della dottrina e della giurisprudenza ritiene di individuare in tale fenomeno


un'ipotesi di sostituzione processuale, a questa ricostruzione ostano 2 rilievi:

 tutte le ipotesi ex art. 81 integrano fattispecie di legittimazione straordinaria ad agire,


cioè ad instaurare al processo, mentre qui si tratta di un’ipotesi di legittimazione
“sopravvenuta” in corso di causa
110
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 tutti i casi di sostituzione processuale comportano sempre la partecipazione al


processo del soggetto sostituito come litisconsorte necessario, mentre qui
l’acquirente è titolare di un semplice potere di intervento volontario.

Nel caso in cui intervenga, il successore a titolo particolare nel diritto controverso ha il
potere di svolgere tutte le attività processuali consentite al suo dante causa. Inoltre l’art. 111
ultimo co., nell’affermare il principio che la sentenza produce sempre i suoi effetti diretti
anche contro il successore a titolo particolare (a prescindere se sia intervenuto o meno nel
processo), accorda a quest’ultimo il potere di autonoma impugnazione della stessa,
introducendo una deroga al principio generale secondo cui la legittimazione ad impugnare
spetta alle parti che hanno partecipato al processo che quella sentenza ha concluso.

104. L'estromissione della parte dal processo


Con il termine “estromissione” si fa riferimento ad una serie di ipotesi (non organicamente
disciplinate dal codice) in cui, al verificarsi di certi presupposti, una parte viene fatta uscire
dal processo. Le ipotesi più significative sono 2:

 l’estromissione del garantito (art. 108) si verifica quando, nel corso di un processo
in cui Tizio ha chiesto la condanna di Caio al pagamento di una somma di denaro in
esecuzione di un contratto (si pensi alla banca che chiede all’affidato la restituzione
della somma a lui data in prestito), compare in giudizio il garante dell'obbligo di Caio
(ad es. il fideiussore) e accetta di assumere la causa in luogo del garantito. In questi
casi la legge prevede che il garantito possa chiedere la propria estromissione dal
processo, che, qualora le altre parti non si oppongano, è disposta dal giudice con
ordinanza. Tuttavia la successiva sentenza di merito pronunciata nel giudizio spiega i
suoi effetti anche contro l'estromesso
 diverso fenomeno è l’estromissione dell'obbligato (art. 109): se nel processo si
contende a quale di più parti spetta una prestazione e l'obbligato si dichiara pronto ad
eseguirla a favore di chi ne ha diritto, il giudice può ordinare il deposito della cosa o
della somma dovuta e, dopo il deposito, può estromettere l'obbligato dal processo.

111
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105. Il difensore. La procura alle liti e la sua “ultrattività”

Nel compimento degli atti del processo le parti di norma non agiscono personalmente ma
con l'assistenza dei difensori (gli avvocati), cioè di soggetti muniti di specifica capacità
tecnica ed iscritti in apposito albo professionale. I difensori possono compiere e ricevere
nell'interesse della parte tutti gli atti del processo (ovviamente ad eccezione di quelli
espressamente riservati alla parte e di quelli che comportano disposizione del diritto
controverso, a meno che [ex art 84] non sia stato espressamente conferito ad essi il potere di
compiere questi ultimi). Nei processi dinanzi al giudice di pace le parti possono stare in
giudizio personalmente per le cause non eccedenti il valore di 1100 euro, altrimenti è di
norma necessaria la presenza del difensore, a meno che il giudice di pace non autorizzi la
parte a stare in giudizio di persona tenendo conto della natura e dell’entità della causa.
Davanti al tribunale e alla corte d'appello le parti devono stare in giudizio necessariamente
col ministero di un avvocato e davanti alla Corte di cassazione col ministero di un avvocato
iscritto all'apposito albo speciale. Nelle controversie assoggettate al rito speciale del lavoro
le parti possono stare in giudizio personalmente quando il valore della causa non superi i
129 euro. L'atto in virtù del quale la parte sta in giudizio con il ministero del difensore
prende il nome di “procura alle liti” (art. 83) e può essere:

 generale, se rilasciata dalla parte per ogni controversia anche futura: in questo caso
deve essere conferita mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata
 speciale, se rilasciata in relazione ad una determinata controversia: in questo caso
deve essere apposta in calce o a margine di uno degli atti processuali indicati dall'art.
83 co. 3°(citazione, ricorso, comparsa di risposta ecc.) e contenere la certificazione da
parte del difensore dell'autografia della sottoscrizione della parte che la conferisce.
La procura speciale si presume conferita solo per un determinato grado del processo,
quando nell’atto non è espressa una volontà diversa.

Il particolare rapporto di fiducia che lega la parte al proprio difensore, da un lato, e la


necessità che la parte non rimanga mai sprovvista nel corso del giudizio dell’assistenza
tecnica di un difensore, dall’altro, giustificano l’art. 85, secondo cui la procura alle liti può
essere in ogni tempo revocata dalla parte ed il difensore può sempre rinunciarvi, ma tanto la
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revoca quanto la rinuncia non hanno effetto nei confronti dell'altra parte fino a quando non
sia avvenuta la sostituzione del difensore.

Si discute ancora oggi circa la c.d. ultrattività della procura. Tale principio trova la
propria giustificazione nell’impossibilità di applicare al processo il principio generale
contenuto nell’art. 1722 n. 4 c.c. sull’automatica estinzione del mandato per morte (o
perdita di capacità) del mandante. Dato che quando questi eventi colpiscono la parte
costituita non comportano l’interruzione immediata del processo, ma devono essere
“dichiarati” dal difensore della parte colpita, in tali casi appare inevitabile l’attribuzione
allo stesso difensore di poteri processuali (a cominciare proprio da quello diretto a rendere
la dichiarazione). Del resto è questa stessa ratio a imporre i limiti di operatività del
principio, che non può estendersi fino al punto di consentire che il processo possa
proseguire anche oltre il tempo necessario per rendere la dichiarazione, contraddicendo le
esigenze di tutela per cui è stato concepito. Perciò deve ritenersi che l’ultrattività della
procura non possa mai estendersi oltre il grado di giudizio nel quale è stata conferita, Dai
poteri di impulso vanno, invece, distinti quelli “passivi” in capo al difensore (cioè quello di
ricevere la notificazione sia della sentenza ai fini della decorrenza del termine breve per
l’impugnazione sia dell’atto di impugnazione proposto dall’altra parte), i quali permangono
in quanto diretti a tutelare il diritto di difesa.

106. Il dovere di lealtà e probità delle parti e dei difensori

L’ art. 88 fa carico alle parti ed ai difensori di ispirare la propria condotta nel processo ai
principi di lealtà e di probità. Tale generica previsione trova poi specifica espressione nel
divieto alle parti di usare negli scritti presentati e nei discorsi pronunciati davanti al giudice
“espressioni sconvenienti od offensive” (art. 89). Anche se l'art. 88 non contiene alcuna
specifica sanzione in caso di violazione dei doveri di lealtà e probità, occorre ricordare che
l’art. 116 consente al giudice di desumere argomenti di prova dal comportamento tenuto
dalle parti nel processo e che l'art. 92 attribuisce al giudice il potere di condannare la parte
(indipendentemente dalla soccombenza) al rimborso delle spese processuali causate all'altra
parte in conseguenza della violazione dei doveri descritti dall’art. 88.

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107. Il divieto di “abuso del processo”

Il divieto di abuso del processo può considerarsi un corollario dei doveri di lealtà e
probità processuali, oltre che della regola generale di correttezza e buona fede e dei canoni
del giusto processo ex art. 111 Cost. Quindi l’art. 88 va letto in maniera costituzionalmente
orientata: il processo non potrebbe essere giusto se fosse l’oggetto di un abuso. Ci si
riferisce a tutti i casi di esercizio dell'azione in forme eccedenti e devianti rispetto alla tutela
dell'interesse sostanziale ad es.:

 le Sezioni Unite hanno statuito che è contrario alla regola generale di correttezza e
buona fede il frazionamento giudiziale di un credito unitario, e ciò sia sotto il profilo
del prolungamento del vincolo coattivo cui il debitore dovrebbe sottostare per
liberarsi dell’obbligazione nella sua interezza, sia sotto il profilo dell’aggravio delle
spese cui il debitore dovrebbe sottostare dato il moltiplicarsi delle iniziative
giudiziarie del creditore
 la Cassazione ha ritenuto integri una condotta abusiva anche l’instaurazione da parte
di più attori, con l’assistenza dello stesso patrocinio legale e in un ristretto arco di
tempo, di una serie di procedimenti con cui vengono avanzate nei confronti di uno
stesso convenuto altrettante domande tra di loro connesse per petitum e causa
petendi.

La violazione di tale divieto può condurre anche a condanna alle spese per responsabilità
aggravata ex art. 96.

108. Le spese del processo e la responsabilità per c.d. “lite temeraria”

Regola generale è che nel corso del processo ciascuna parte provvede ad anticipare le
spese degli atti che compie e di quelli che richiede, salvo l’esonero previsto in favore dei
soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato. Con la sentenza che chiude il processo, il
giudice condanna, anche d'ufficio, la parte soccombente al rimborso delle spese in favore
dell'altra, liquidandone l'ammontare (art. 91). Tale “rimborso” non è dovuto a titolo di
risarcimento danni, ma quale oggettiva conseguenza della soccombenza nel processo, sia
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per ragioni di merito che per ragioni di rito. L’art. 92 co. 1° consente al giudice di escludere
la ripetizione di quelle spese sostenute dalla parte vincitrice, ma da lui ritenute superflue o
eccessive. Inoltre ex art. 92 co. 2° il giudice può compensare, in tutto o in parte, le spese di
lite tra le parti se vi sia stata reciproca soccombenza oppure nel caso di assoluta novità della
questione trattata o di mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti della
controversia (c.d. overruling). Se le parti si sono conciliate in corso di giudizio, le spese si
intendono compensate, salvo che esse abbiano diversamente convenuto nel processo
verbale di conciliazione (co. 3°).

Diversamente, natura espressamente risarcitoria riveste la condanna della parte per


responsabilità c.d. aggravata. Il co. 1° si riferisce all’ipotesi di c.d. lite temeraria (cioè al
caso in cui la parte soccombente abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa
grave), mentre il co. 2° all’ipotesi in cui la parte abbia agito “senza la normale prudenza”
nei casi in cui sia stata accertata l’inesistenza del diritto, nell’esecuzione di un
provvedimento cautelare, nella trascrizione di una domanda giudiziaria o iscrizione di
ipoteca giudiziaria oppure nell’inizio o compimento di un procedimento di esecuzione
forzata. In entrambe le ipotesi la condanna presuppone l'istanza della parte danneggiata,
mentre la liquidazione dei danni può avvenire anche d’ufficio, purché la parte abbia provato
la sussistenza del danno (an debeatur) e la somma dovuta a tale titolo (quantum debeatur)
ovvero dagli atti del processo risultino elementi idonei ad accertarne l’esistenza da parte del
giudice. La l. 69/2009 ha aggiunto all’art. 96 un co. 3°, in base al quale, in tutti i casi in cui
pronuncia sulle spese, il giudice anche d’ufficio può condannare la parte soccombente al
pagamento di una somma equitativamente determinata a favore della controparte , essa
costituisce una vera e propria sanzione pecuniaria.

115
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CAP. 10: I PROCESSI CON PLURALITÀ DI PARTI: LITISCONSORZI ED


INTERVENTI

109. Il litisconsorzio in generale

Per litisconsorzio s'intende la pluralità di parti nel processo, cioè l'esistenza nello stesso
processo di più attori (litisconsorzio attivo) o di più convenuti (litisconsorzio passivo) o
contemporaneamente di più attori e di più convenuti (litisconsorzio misto). Si tratta
evidentemente di una nozione meramente descrittiva che si limita ad indicare l’aspetto
esterno del fenomeno prescindendo dalle ragioni che la determinano. Egualmente
descrittiva è la distinzione tra:

 litisconsorzio originario, in cui le più parti sono presenti (o dovrebbero esserlo) sin
dall'instaurazione del processo
 litisconsorzio successivo, dove la pluralità di parti si realizza nel corso dello
svolgimento della vicenda processuale (cioè a seguito di intervento volontario o
coatto di soggetti diversi dalle parti originarie oppure di riunione di processi).

110. Il litisconsorzio necessario

La definizione è data dall’art. 102, secondo il quale, “se la decisione non può pronunciarsi
che in confronto di più parti”, queste debbono agire o essere convenute nello stesso
processo. La presenza di più attori o di più convenuti o di più attori e convenuti è
necessaria, in questo caso, sin dal momento di instaurazione del processo e dà origine ad un
fenomeno di litisconsorzio obbligatorio originario. Vi sono molteplici ragioni di tale
necessaria presenza:

 in alcune ipotesi è la legge stessa a richiedere la necessaria partecipazione al processo


di più soggetti: ad es. l'art. 784 c.p.c. in tema di divisione ereditaria e di scioglimento
della comunione richiede la partecipazione necessaria al giudizio, oltre che di tutti gli
eredi o condividenti, anche dei creditori “opponenti”
 vi sono, poi, altri casi nei quali il litisconsorzio necessario è solo processuale, cioè
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imposto da ragioni legate allo svolgimento del processo: si pensi ad es. alla
partecipazione necessaria dell’interventore volontario o coatto.

In realtà l’indagine sulle ragioni del litisconsorzio deve estendersi dal campo processuale a
quello sostanziale, nel senso che è necessario che si determinino effetti che, per la struttura
del rapporto sostanziale, possono nascere o modificarsi solo nei confronti di una pluralità di
soggetti: in tali casi la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti è indispensabile, come ad
es. nel giudizio di disconoscimento di paternità, che vede come litisconsorti necessari anche
la madre e il figlio.

111. L’ordine di integrazione del contraddittorio

Nel caso in cui il giudizio non sia stato promosso da tutti o nei confronti di tutti i soggetti
coinvolti nel rapporto giuridico sostanziale in contesa, il giudice deve ordinare d’ufficio in
limine litis l'integrazione del contraddittorio in un termine perentorio da lui stabilito ,
all'esito di una delle verifiche preliminari che il giudice deve compiere nella prima udienza.
Inoltre, secondo la giurisprudenza, nel caso in cui la non integrità del contraddittorio non
possa essere rilevata direttamente dagli atti del processo ed invece venga eccepita da una
delle parti, spetta alla parte che la deduce l’onere non solo di indicare i litisconsorti, ma
anche di provare i presupposti di fatto e di diritto che giustificano l’invocata integrazione.
In caso di mancata (o tardiva) integrazione del contraddittorio il processo si estingue (mors
litis). Il rigore della sanzione prevista è causato dal riconoscimento dell’assoluta
impossibilità della prosecuzione del processo senza la partecipazione di tutte le parti.

Tuttavia è controversa in dottrina e giurisprudenza la questione circa la sorte della decisione


pronunciata a contraddittorio non integro. Sembra preferibile ritenere che essa sarà priva di
ogni effetto nei confronti del litisconsorte pretermesso (si può parlare di sentenza “inutiliter
data”).
112. Il litisconsorzio facoltativo

Art. 103 si ha quando più parti “possono” (e non debbono) agire o essere convenute nello
stesso processo. La legge consente questa possibilità per ragioni di opportunità processuale,
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anzitutto in presenza di un rapporto di connessione tra cause per l'oggetto (petitum) o per il
titolo (causa petendi) dal quale dipendono: connessione dalla quale può derivare il cumulo
soggettivo. Le ipotesi di connessione per l'oggetto (ad es. domande proposte dallo stesso
soggetto nei confronti del debitore principale e del garante) o per il titolo (ad es. domande
di più danneggiati nei confronti dello stesso soggetto autore del fatto lesivo) danno luogo al
litisconsorzio facoltativo c.d. proprio.

In alcuni casi, pur essendosi in presenza di litisconsorzio facoltativo, è la legge stessa a


prescrivere il cumulo soggettivo: l’esempio più noto è dato dal giudizio di impugnativa di
delibera assembleare (art. 2378 c.c.). Tale norma impone che, se un socio impugna la
delibera, al giudizio debbano partecipare tutti gli altri soci (che non sono litisconsorti
necessari, ma solo facoltativi); ciononostante, tutte le impugnazioni aventi ad oggetto la
stessa delibera, anche se separatamente proposte, devono essere decise con unica sentenza
in un unico processo (riunione in cumulo soggettivo).

L'art. 103 c.p.c., consente altresì la proposizione cumulativa e simultanea di più cause,
quando la decisione su entrambe dipende dalla risoluzione di identiche questioni (sia di
fatto che di diritto): si tratta del litisconsorzio facoltativo
c.d. improprio. Comunque l’art. 103 co. 2° consente al giudice di disporre la separazione
delle cause, se vi è istanza di tutte le parti e se la continuazione della loro riunione può
ritardare o rendere più gravoso il processo.

113. L'intervento in generale

Esso può definirsi come l'ingresso di un terzo (cioè di un soggetto diverso dalle parti
originarie) in un processo già pendente. Si tratta pur sempre di una nozione descrittiva, che
prescinde dalle ragioni che determinano tale fenomeno. L'intervento può essere infatti:

 volontario, quando il terzo interviene per sua spontanea ed autonoma


determinazione, ovviamente purché sussistano i presupposti previsti dalla legge
 coatto (o provocato), cioè determinato o dalla chiamata in causa ad opera di una
delle parti originarie o dall'ordine del giudice.
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La ratio che accomuna le varie ipotesi di intervento va individuata nell’interdipendenza


dei rapporti giuridici sostanziali, cioè nei collegamenti che possono sussistere sul piano
sostanziale tra il rapporto che è oggetto del processo e altri rapporti che coinvolgono o
possono coinvolgere soggetti ad esso estranei.

114. L'intervento volontario c.d. principale

Vi sono 3 tipologie di intervento volontario:


 principale
 litisconsortile o adesivo autonomo
 adesivo semplice o dipendente.

L'intervento principale (art. 105 co. 1°) è l'intervento svolto dal terzo nei confronti di tutte
le parti del processo in corso, per far valere un proprio diritto relativo all'oggetto o
dipendente dal titolo già dedotto nel processo. Questo intervento è detto anche “ad
excludendum”, in quanto con esso il terzo propone una vera e propria domanda che poggia
su un diritto del terzo autonomo e incompatibile con quelli già azionati in giudizio dalle
altre parti. Tale intervento comporta quindi un allargamento dell’oggetto del processo sia
sotto il profilo soggettivo (in relazione all’assunzione della qualità di parte in capo
all’interveniente) che oggettivo (in relazione alle domande sulle quali il giudice è chiamato
a provvedere.

Se il terzo non interviene, la decisione resa inter alios non è mai in grado di pregiudicare il
suo diritto, in quanto autonomo. Pertanto resta intatto il potere del terzo di agire
autonomamente in giudizio, anche dopo il formarsi del giudicato tra le altre parti.

115. L'intervento volontario c.d. adesivo autonomo

Lo stesso art. 105 co. 1° prevede che il terzo possa intervenire, per far valere un proprio
diritto connesso per l'oggetto o per il titolo con quello dedotto nel giudizio già pendente, non
nei confronti di tutte le parti originarie, ma solo di alcune di esse. Qui il terzo, dunque,
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propone una domanda nei confronti di una o più parti originarie, che va ad affiancarsi alla
domanda già proposta dall'attore o alla domanda riconvenzionale proposta dal convenuto : si
pensi al socio che con l’intervento proponga impugnazione avverso la stessa deliberazione già
impugnata da altri soci oppure al terzo che interviene per avanzare una pretesa risarcitoria
fondata sul medesimo fatto lesivo. Anche in questi casi il terzo potrebbe agire in via
autonoma, ma la legge processuale gli consente di intervenire nel giudizio già pendente,
consentendo al giudice di decidere in simultaneus processus su tutte le cause connesse.

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116. L'intervento volontario c.d. adesivo dipendente

L'art. 105 co. 2° prevede la generica possibilità per il terzo d'intervenire nel processo già in
corso tra altre parti quando “vi ha un proprio interesse” e “per sostenere le ragioni di
alcune delle parti”. Dalla norma (tutt’altro che chiara) si evince che la situazione
sostanziale che legittima l’intervento è l’interesse (e non il diritto) del terzo e che questi
non propone un'autonoma domanda, ma si limita a chiedere al giudice che sia accolta la
domanda già avanzata da una delle parti originarie. Bisogna però specificare che l’interesse
del terzo alla “vittoria” di una delle parti non è di mero fatto, ma nasce dalla titolarità di un
rapporto giuridico connesso con quello in contestazione o da esso dipendente. Nella legge
sostanziale sono previste numerose ipotesi di estensione dell’efficacia dell’accertamento a
rapporti connessi (soprattutto per rafforzare la tutela della parte vittoriosa: si pensi
all’efficacia riflessa desumibile dalle norme sulla trascrizione delle domande e delle
sentenze). In tutte queste ipotesi l’intervento adesivo costituisce uno strumento preventivo
(precedente al formarsi del giudicato) a disposizione del terzo per evitare di subire gli
effetti del giudicato che si formerà inter alios.

Un orientamento consolidato in giurisprudenza riconosce la legittimazione a svolgere tale


forma di intervento anche agli aventi causa a titolo derivativo-costitutivo da uno dei
soggetti del giudizio in tutti i casi in cui l’oggetto materiale del diritto del terzo rischia di
venir meno in ragione della soccombenza del dante causa. Secondo la giurisprudenza
dominante, i poteri del terzo interventore in via adesiva dipendente sono limitati allo
svolgimento di mere difese nell’ambito delle domande ed eccezioni già svolte dalla parte
coadiuvata e non comprendono né atti di disposizione del diritto, né atti di impulso del
processo diretti a farlo proseguire in caso di rinuncia delle parti principali, né atti diretti
all’impugnazione della sentenza. Tuttavia sembra preferibile, contrariamente a tale
orientamento, non negare il potere di autonoma impugnazione della sentenza in capo a chi
sia intervenuto adesivamente per prevenire gli effetti riflessi a sé sfavorevoli della sentenza
di rigetto della domanda adiuvata attraverso l’intervento, e ciò in ossequio all’art. 24 Cost.

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117. L'intervento ad istanza di parte per “comunanza di causa” o per “garanzia”

L'intervento coatto si distingue a seconda che a provocarlo sia una delle parti o il giudice.
L’art. 106, nel descrivere l'intervento ad istanza di parte, attribuisce a ciascuna parte il
potere di chiamare nel processo già pendente il terzo “al quale ritiene comune la causa o
dal quale pretende di essere garantita”, individuando in tal modo una duplice serie di
ipotesi:

 la prima è individuata dalla legge intorno alla nozione di “comunanza di causa”.


Con essa si fa riferimento ad ipotesi in cui il soggetto, del quale si intende provocare
l'intervento, è indicato come possibile parte della causa già instaurata, in luogo di una
delle parti originarie o accanto ad esse. Cause comuni ad un terzo sono. 1) le cause
connesse oggettivamente (per l’oggetto e per il titolo) con quella originaria, che
coinvolgano la posizione del terzo; 2) cause che si fondano sulla contestazione della
legittimazione attiva e passiva (si pensi al caso in cui l’attore instaura il giudizio di
risarcimento del danno contro il convenuto e quest’ultimo si difende deducendo che
non è lui ad aver arrecato il danno, ma un terzo, che l’attore potrebbe quindi decidere
di chiamare in giudizio). Parte della dottrina ritiene di poter estendere la nozione di
comunanza di causa anche alle ipotesi nelle quali il terzo è titolare di diritti o rapporti
legati da nesso di pregiudizialità- dipendenza con quello oggetto della causa
originaria (e pertanto potrebbe spiegare intervento adesivo dipendente), facendo leva
sull'interesse della parte a consentire la partecipazione del terzo al processo in modo
da evitare ogni potenziale contestazione successiva degli effetti riflessi del giudicato.
 la norma richiama altresì il fenomeno della chiamata in garanzia, che la parte può
avanzare nei confronti del terzo per ottenere nei confronti di questo (garante) una
sentenza che accerti il diritto di essere tenuto indenne dalle conseguenze derivanti
dalla pretesa della controparte:
 la garanzia propria si ha quando la causa principale e quella accessoria hanno lo
stesso titolo (si pensi alla garanzia per evizione) oppure quando ricorre una
connessione oggettiva tra i titoli delle due domande oppure ancora quando il
collegamento tra la posizione sostanziale vantata dalla parte e quella del terzo
122
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chiamato in garanzia sia previsto dalla legge che disciplina il rapporto (si pensi
all’assicuratore della responsabilità civile)
la garanzia impropria si configura quando il convenuto tende a riversare su di un terzo
le conseguenze del proprio inadempimento, in base ad un titolo diverso da quello
dedotto con la domanda principale oppure in base ad un titolo connesso al rapporto
principale solo in via occasionale o di fatto (ad es. si pensi alla chiamata in causa del
costruttore da parte del proprietario dell’immobile convenuto in giudizio dal terzo
danneggiato). In questi casi l’azione principale e quella di garanzia sono fondate su titoli
diversi e le due cause, benchè proposte all’interno dello stesso giudizio, rimangono
distinte e scindibili.

118. L'intervento per ordine del giudice

Ex art. 107 l'intervento per ordine del giudice (c.d. iussu judicis) si verifica quando il
giudice ordina l'intervento in causa di un terzo “al quale la causa è comune”. Quindi il
presupposto della comunanza di causa è presente in entrambe le forme di intervento
coatto, anche se nella seconda l’iniziativa del giudice (cui la legge attribuisce un potere
discrezionale officioso) può essere esercitato senza limiti apparenti, potendo l’ordine essere
emesso “in ogni momento” del giudizio di 1° grado ex art. 270.

Numerosi sono i problemi posti da tale istituto, a cominciare dalla convivenza del potere
discrezionale del giudice con l’art. 2907 c.c., che vuole che la tutela giurisdizionale dei
diritti soggettivi presupponga sempre la domanda di parte o l’istanza del p.m. ovvero una
specifica previsione di legge, mentre non possa essere rimessa all’iniziativa del giudice.
Pertanto è giusto interpretare in senso “riduttivo” la norma in esame, affermando che
consente al giudice di disporre la chiamata del terzo, possibile legittimato, solo quando tale
possibilità risulti dagli atti di causa a seguito dello svolgersi delle contrapposte difese delle
parti e siano inutilmente decorsi i termini per la chiamata ad istanza di parte.

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PARTE QUARTA: GLI ATTI DEL PROCESSO

CAP. 11: ATTI, PROVVEDIMENTI E TERMINI DEL PROCESSO. COMUNICAZIONI


E NOTIFICAZIONI. IL PROCESSO CIVILE TELEMATICO

119. L'atto del processo e la sua strumentalità

Atto processuale è ogni attività compiuta dalla parte che ha un'immediata e diretta
incidenza nell'instaurazione e nello svolgimento del processo fino al suo risultato finale. I
provvedimenti che il giudice adotta a conclusione dell'iter del processo sono sempre
preceduti da altri atti (della parte o del giudice stesso) ad essi strumentali o collegati.

120. La forma degli atti processuali. Il principio di libertà delle forme ed il criterio
dello scopo

La forma dell'atto giuridico presuppone l'individuazione dei mezzi e delle modalità di


esternazione dell'atto nella realtà, che, nel caso dell’atto processuale, è quella del processo,
e si distingue dal suo contenuto, che descrive l'oggetto (il c.d. intrinseco) dell'atto. Il codice
di procedura civile, diversamente da quello civile, non definisce espressamente la forma
come un requisito degli atti processuali: per questi ultimi la contrapposizione tra forma e
contenuto è molto meno netta di quanto non lo sia per gli atti di diritto sostanziale. Si parla
in effetti di “forma-contenuto” proprio per sottolineare che la legge processuale, quando
disciplina un atto del processo, non vuole descrivere solo le sue modalità di compimento e
di esteriorizzazione, ma anche il suo contenuto necessario”.

Il codice del 1940 ha sancito nell'art. 121 c.p.c. il principio della libertà delle forme: la
norma dispone che gli atti del processo, salvo quelli per i quali la legge richiede “forme
determinate”, possono essere compiuti “nelle forme più idonee al raggiungimento del
loro scopo”. Tuttavia sono pochi gli atti per i quali la legge non preveda espressamente
requisiti di forma, sicchè alla disposizione deve riconoscersi carattere residuale, potendosi
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far riferimento ad essa solo in assenza di espressa previsione normativa. La scelta del
legislatore di ancorare la libertà delle forme al raggiungimento dello scopo impone di
soffermarsi sull'esatto significato del criterio dello scopo, espressamente richiamato nell'art.
131 (in tema di forma dei provvedimenti del giudice) e 156 (in tema di nullità degli atti
processuali). A differenza di quanto accade per gli atti di diritto privato, per i quali la legge
si preoccupa di disciplinare, anche in funzione della loro validità, la fase di formazione e di
manifestazione della volontà, negli atti processuali l’elemento volitivo del soggetto di
norma non ha alcuna rilevanza, nel senso che esso non rappresenta un elemento che
determina o concorre a determinare gli effetti dell’atto. Dunque ciò che conta è il
compimento dell'atto, nella forma (forma-contenuto) prevista dalla legge o, in mancanza, in
quella idonea a consentire la realizzazione dello scopo ad esso assegnato dalla legge (l’atto
non deve frustrare lo scopo che la legge persegue).

Il codice nel capo I del titolo VI del libro I (intitolato “Delle forme degli atti e dei
provvedimenti”) contiene alcune regole generali sulla forma degli atti processuali, prima tra
tutte quella che prescrive l’uso della lingua italiana in tutto il corso del processo (art. 122) e
la possibilità di nominare un interprete e un traduttore. Se poi nel procedimento deve essere
sentito un sordo, un muto o un sordomuto, le interrogazioni e le risposte possono essere
fatte per iscritto e quando occorre il giudice nomina un interprete. Fondamentale è la
distinzione tra

126
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forma orale e forma scritta dell’atto processuale: anche degli atti orali la legge richiede la
documentazione scritta, costituita dal c.d. processo verbale, che deve contenere
l’indicazione delle persone intervenute e delle circostanze di luogo e di tempo nelle quali
sono compiuti gli atti che si documentano, nonché la descrizione delle attività svolte e delle
rilevazioni fatte e le dichiarazioni ricevute, con in calce (se si tratta di processo verbale
redatto in udienza) la sottoscrizione del giudice che la presiede e del cancelliere.

121. Gli atti di parte

L'art. 125 c.p.c. detta alcune regole generali sugli atti del processo compiuti dalle parti,
richiamando espressamente una serie di atti (che perciò possono dirsi tipici, ma che non
esauriscono il catalogo degli atti di parte), alcuni dei quali servono per dare inizio al
processo (citazione e ricorso), altri per preannunziarne l’avvio (il precetto per il processo di
esecuzione), altri che si formano quando il processo è già pendente (ad es. comparsa di
risposta). Si tratta di atti che hanno la forma scritta e che devono di norma essere anche
sottoscritti, costituendo la sottoscrizione del difensore elemento necessario per
l'accertamento della provenienza dell'atto e per l'imputazione dei relativi effetti. L’inciso
contenuto nell’art. 125 (“salvo che la legge disponga altrimenti”) va inteso nel senso che la
legge processuale può prevedere ulteriori regole più specifiche sulla forma-contenuto degli
atti di parte, che non si pongono in contrasto con quelle generali, ma si limitano ad
integrarle. Questa clausola consente altresì che alcuni degli atti tipici rivestano la forma
orale piuttosto che quella scritta. Oggi è già in fase di avanzata sperimentazione un sistema
che consentirà che gli atti e provvedimenti del processo possano essere validamente
compiuti come documenti informatici (si parla di processo civile telematico).

122. L'udienza

Le attività processuali che si debbono compiere in forma orale hanno luogo nel corso delle
127
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udienze durante le quali il giudice entra in contatto con le parti ed i loro difensori al fine di
trattare la causa. Di norma le udienze devono svolgersi presso la sede dell’ufficio
giudiziario, secondo apposito calendario redatto dal capo dell’ufficio all’inizio di ogni anno
giudiziario. Le udienze di discussione sono di norma pubbliche a pena di nullità (art. 128),
mentre quelle di trattazione davanti all’istruttore o al giudice monocratico designato (c.d.
udienza istruttoria) non lo sono, al pari di quelle in camera di consiglio. Le attività che si
compiono nel corso delle udienze sono descritte nel processo verbale, che viene redatto dal
cancelliere sotto la direzione del giudice e da entrambi sottoscritto. Di esso non si dà
lettura, salvo espressa istanza di parte. Il verbale fa fede fino a querela di falso, con
riferimento alla descrizione delle attività ivi documentate e delle persone intervenute. La
chiusura del verbale con la sua sottoscrizione segna il momento terminale dell'udienza.

123. I termini per il compimento dell'atto processuale. Nozione di preclusione

I termini processuali sono periodi di tempo stabiliti di regola dalla legge (termini legali),
ma anche dal giudice (termini giudiziari), per il compimento di singoli atti del processo. La
legge (art. 155) stabilisce alcune regole sul computo dei termini processuali, prevedendo
che: nel computo dei termini a giorni ed ore si escludano quelli iniziali; per il computo dei
termini a mesi e anni si osserva il calendario comune tenendo conto che i giorni festivi si
computano nel termine (però, se il giorno di scadenza è festivo, la scadenza è prorogata di
diritto al primo giorno seguente non festivo). La l. 742/1969 ha sancito il principio
generale, valido per la giurisdizione ordinaria e per quella amministrativa, che il corso dei
termini processuali è sospeso di diritto dal 1° al 31 agosto di ogni anno (c.d. periodo
feriale). Tale sospensione non si applica ai procedimenti indicati dall’art. 92 ord. giud.:
cause

128
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relative ad alimenti, procedimenti cautelari, di sfratto e di opposizione all’esecuzione, cause


relative alla dichiarazione e alla revoca dei fallimenti e in genere quelle rispetto alle quali la
ritardata trattazione potrebbe produrre grave pregiudizio alle parti, nonché alle controversie
di lavoro e previdenziali. Si distinguono termini:

 dilatori, che devono trascorrere prima che possa compiere un determinato atto
 acceleratori, termini entro i quali è possibile il
compimento dell'atto. A loro volta, i termini acceleratori si
distinguono in:
 ordinatori, i quali regolano lo svolgimento delle attività processuali senza che la
loro inosservanza non comporta la decadenza dal potere di compiere l'atto ovvero
l'inefficacia dell'atto compiuto dopo la scadenza del termine (sempre che il
compimento dell’atto sia ancora possibile in relazione alla natura e al contenuto
dell’attività da porre in essere). Tali termini possono essere, prima della loro
scadenza, abbreviati o prorogati dal giudice, anche d'ufficio, per una durata non
superiore al termine originario, di norma una sola volta
 perentori sono quei termini la cui decorrenza comporta decadenza dal potere di
compiere l'atto e non possono essere né abbreviati, né prorogati dal giudice,
nemmeno su accordo delle parti (ad es. termini per proporre le impugnazioni).
Ex art. 152 co. 2° i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge
stessa non li dichiari espressamente perentori. Sono altresì ordinatori i termini
stabiliti dal giudice, salvo che la legge gli consenta espressamente di fissare un
termine a pena di decadenza. Il mancato o tardivo compimento dell'atto processuale
entro il termine perentorio fissato dalla legge o dal giudice determina la decadenza
dal potere di compiere successivamente quell'atto: tale fenomeno può essere
inquadrato nell'ambito delle preclusioni, che descrivono quelle situazioni nelle quali,
decorso inutilmente il termine previsto dalla legge, si verifica la definitiva
perdita ,fatta salva la rimessione in termini, della facoltà (o l’estinzione del diritto) di
compiere uno o più atti o attività processuali.
Il modello di preclusioni adottato nel vigente ordinamento per i giudizi di cognizione
ordinaria è di tipo rigido: infatti i modi ed i tempi di formazione della preclusione
sono disposti direttamente dalla legge, senza integrazioni discrezionali da parte del
129
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giudice, al quale è affidato il compito di verificare il puntuale rispetto di detti tempi e


modi, tenendo conto che la relativa normativa è ispirata ad esigenze di “ordine
pubblico processuale” e che perciò essa non è derogabile né su accordo delle parti, né
per volontà dello stesso giudice.

124. La rimessione in termini. Il c.d. overruling

L'istituto della rimessione in termini costituisce l'unico rimedio idoneo a superare la


decadenza processuale nella quale la parte sia incorsa per causa ad essa non imputabile. La
rimessione in termini rappresentava in origine un rimedio eccezionale, previsto dal
legislatore solo in favore di determinati soggetti (ad es. del contumace involontario che si
costituisce tardivamente) ovvero in relazione alle decadenze che si determinano in singole
fasi del processo. Il co. 2° dell'art. 153 c.p.c., introdotto dalla legge 69/2009, prevede che
“la parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile
può chiedere al giudice di essere rimessa in termini”. Il fatto che la disciplina della
rimessione in termini sia stata inserita nel libro I del codice le conferisce oggi il rango di
istituto di carattere generale, applicabile in tutti i casi di decadenza incolpevole.

Potrebbe anche accadere che la parte abbia posto in essere la propria attività processuale
facendo affidamento sull’orientamento consolidato della giurisprudenza della Cassazione
esistente all’epoca del compimento dell’atto, ma che, a causa del successivo mutamento di
tale orientamento (c.d. overruling), si sia determinata una decadenza processuale. A tal
proposito le Sezioni Unite hanno statuito che il mutamento della propria

130
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precedente interpretazione della norma processuale (che porti a ritenere esistente, in danno
di una parte, una decadenza o una preclusione prima escluse) opera come interpretazione
correttiva “ora per allora”, nel senso di rendere irrituale l’atto compiuto o il comportamento
tenuto dalla parte in base all’orientamento precedente. Tuttavia, ove l’overruling si connoti
del carattere dell’imprevedibilità, si giustifica una scissione tra il fatto (il comportamento
della parte) e l’effetto (di preclusione o decadenza) che ne dovrebbe derivare, con la
conseguenza che deve escludersi l’operatività della preclusione o della decadenza derivante
dall’overruling nei confronti della parte che abbia confidato incolpevolmente nella
precedente consolidata interpretazione della stessa norma. Per quanto attiene al
procedimento di rimessione in termini, l’art. 153 co. 2° stabilisce che sull'istanza della parte
il giudice provvede a norma dell'art. 294 co. 2° e 3°, cioè col medesimo procedimento
previsto per la rimessione in termini del contumace.

125. I provvedimenti del giudice

I provvedimenti sono gli atti processuali con i quali il giudice esercita e dà attuazione alla
funzione giurisdizionale. L'art. 131 c.p.c. prevede 3 distinti tipi di provvedimenti,
precisando che è la legge a prescrivere in quali casi il giudice pronuncia ciascuno di essi e
che, in assenza di tale prescrizione, i provvedimenti sono dati in qualsiasi forma idonea al
raggiungimento del loro scopo:

 la sentenza è il tipico provvedimento a contenuto decisorio, normalmente sul merito


(cioè sul diritto o rapporto giuridico sostanziale fatto valere con la domanda), ma
anche sul rito (cioè sull'idoneità del processo a condurre alla decisione di merito)
 l'ordinanza e il decreto sono provvedimenti a contenuto ordinatorio, di norma
finalizzati a consentire la trattazione ed istruzione del processo, da distinguersi tra
loro in quanto il decreto è di norma pronunciato inaudita altera parte, cioè senza la
previa instaurazione del contraddittorio con l'altra parte. Bisogna sottolineare che
sempre più spesso la legge richiama la forma dell’ordinanza, in luogo di quella della
sentenza, per provvedimenti finali a contenuto decisorio (ad es. per le decisioni in
131
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materia di competenza o litispendenza), ritenendo che essa meglio realizzi l’esigenza


di celerità del processo
 infine, vi sono anche atti “innominati” o a forma libera, che il giudice può (e talvolta
deve) compiere in conseguenza o in relazione strumentale con altri provvedimenti.

Occorre analizzare la discussa problematica del rapporto forma-sostanza dei provvedimenti


del giudice, che investe un duplice profilo, in quanto comprende non solo i casi di errore
del giudice che può attribuire ad un provvedimento una forma diversa da quella prescritta
dalla legge, ma anche i casi in cui, fermo restando il rispetto della forma prevista dalla
legge, il contenuto sostanziale che l’atto assume richiederebbe una forma diversa (il caso
tipico è quello dell’ordinanza che ha il contenuto sostanziale della sentenza). Ebbene, si è
soliti guardare proprio al contenuto sostanziale per individuare il mezzo di impugnazione
che la parte può esperire contro di esso.

126. La sentenza

La sentenza costituisce il tipico provvedimento giurisdizionale decisorio con il quale il


giudice pronuncia la decisione sulla controversia ad esso sottoposta, sia nel merito sia
eventualmente soltanto in rito. L'art. 132
c.p.c. elenca i requisiti formali della sentenza, disponendo che essa deve essere pronunciata
in nome del popolo

132
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italiano e deve contenere:

 l'indicazione del giudice che l'ha pronunciata


 l'indicazione delle parti e dei loro difensori
 le conclusioni delle parti e del p.m.
 la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione
 il dispositivo, la data della deliberazione e la sottoscrizione del giudice (quella del
presidente e del giudice estensore se si tratta di sentenza emessa da giudice
collegiale).

Ex art. 133 la sentenza è resa pubblica mediante deposito nella cancelleria del giudice che
l'ha pronunciata. Quanto al contenuto della sentenza, è necessario distinguere tra:

 sentenza di merito. Questa, accogliendo o respingendo la domanda, decide sul


diritto o rapporto giuridico sostanziale fatto valere con la domanda, attribuendo i torti
e le ragioni ovvero concedendo o negando le richieste tutele, che possono essere di
mero accertamento, di condanna o di carattere costitutivo o determinativo. Ancora è
controverso se siano di merito quelle sentenze che, pur non accogliendo o
respingendo in alcun modo le domande, risolvono questioni preliminari di merito,
che hanno ad oggetto uno o più elementi o fatti giuridici costitutivi, modificativi,
estintivi o impeditivi dei rapporti che sono alla base della richiesta tutela:
o la tesi estensiva (prevalente) considera di merito anche queste sentenze citate
(ad es. la sentenza che risolve la questione relativa alla prescrizione del credito
azionato in giudizio)
o la tesi restrittiva identifica le sentenze di merito nelle sole sentenze che
decidono sulla domanda (in conformità al testo dell’art. 277)
 con la sentenza di rito, invece, si decide una o più questioni attinenti all'idoneità o
meno del processo a pervenire alla decisione di merito (ad es. la giurisdizione o la
competenza).

Sia le sentenze di merito che le sentenze di rito possono essere definitive o non definitive, a
seconda che rispettivamente definiscano (cioè concludano) o meno il processo dinanzi al
133
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giudice che le ha pronunciate, con l’esaurimento o meno dei relativi poteri decisori (a
seguito della pronuncia sulla domanda e dell’attribuzione dei torti e delle ragioni) ovvero
con l’impossibilità di esercitarli per l’accertata mancanza di un presupposto processuale (ad
es. il giudice dichiara il difetto di giurisdizione) o per la ritenuta sussistenza di una
questione preliminare o pregiudiziale che impedisce al giudice la decisione sulla domanda e
l’esercizio dei relativi poteri. Quindi la natura definitiva o non della sentenza è legata al
suo stesso contenuto, fermo restando che entrambe le tipologie di sentenza sono
impugnabili.

127. L'ordinanza

L'ordinanza è il provvedimento al quale tradizionalmente la legge processuale attribuiva


funzione non decisoria, ma tipicamente ordinatoria, con il quale si regolava lo svolgimento
dell'iter processuale fino alla pronuncia finale. Dall'art. 134 c.p.c. si ricava solamente che
l'ordinanza deve essere “succintamente motivata”, può essere emessa in udienza o fuori
udienza e deve essere comunicata alle parti a cura del cancelliere. Essa inoltre presuppone
il contraddittorio tra le parti: tale elemento concorre a distinguerla dal decreto. Di norma
essa non pregiudica in alcun caso la decisione della causa ed è sempre modificabile e
revocabile da parte dello stesso giudice che l’ha pronunciata (salvi i casi di ordinanze non
modificabili e non revocabili individuati dall’ art. 177 al co. 3°). Oggi, però, sempre più
spesso la legge richiama la forma dell’ordinanza, in luogo di quella della sentenza, per
provvedimenti finali a contenuto decisorio (si pensi alle decisioni in materia di
competenza, litispendenza e continenza), ritenendo che l’ordinanza meglio realizzi

134
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l’esigenza di celerità del processo. Eterogenee sono le ipotesi in cui l’ordinanza perde il suo
carattere meramente ordinatorio, ad es.:

 l’ordinanza che dichiara l’inammissibilità dell’appello quando l’impugnazione non


ha una ragionevole probabilità di essere accolta
 il provvedimento che definisce in 1° grado il procedimento c.d. sommario di
cognizione.

128. Il decreto

Il decreto, secondo quanto previsto dall'art. 135 c.p.c., viene pronunciato d'ufficio o su
istanza anche verbale della parte, non necessita di motivazione (diversamente
dall’ordinanza, salvo questa sia espressamente richiesta dalla legge) ed è prevista la sua
stesura in calce al ricorso. A differenza dell’ordinanza, viene di norma pronunciato
“inaudita altera parte”, cioè in mancanza del contraddittorio con l'altra parte. Come
anticipato, vi sono importanti ipotesi in cui la legge prevede l'emanazione di decreti
motivati (ad es. il decreto che definisce il procedimento camerale). Infine, in altri casi la
forma del decreto è prevista dalla legge addirittura per l’adozione di provvedimenti
sommari di condanna (ad es. il decreto ingiuntivo).

129. Le comunicazioni

La comunicazione e la notificazione assolvono entrambe alla funzione di far conoscere alle


parti o ai loro difensori il contenuto di atti o di provvedimenti, ma con strumenti tra loro
diversi. Ex art. 136 la comunicazione è un atto proprio del cancelliere per mezzo del
quale questi dà notizia alle parti, al p.m., al consulente, agli altri ausiliari del giudice ed ai
testimoni dei provvedimenti emessi dal giudice. La comunicazione avviene con la consegna
al destinatario (che ne rilascia ricevuta) di un biglietto di cancelleria o la sua trasmissione a
mezzo di posta elettronica certificata. Salvo che la legge disponga diversamente, se non è
135
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possibile procedere secondo tali modalità, il biglietto viene trasmesso a mezzo telefax o è
rimesso all’ufficiale giudiziario per la notifica. Stante il principio generale di
raggiungimento dello scopo degli atti del processo, si ritiene che la comunicazione di un
provvedimento del giudice sia valida anche se eseguita in forme diverse dall’art. 136,
purchè vi sia certezza che il provvedimento sia stato portato a conoscenza delle parti e sia
altresì certa la data di tale conoscenza.

La comunicazione, come risulta dall’art. 136, costituisce una forma “abbreviata” di


esternazione del provvedimento, prescritta dalla legge o dal giudice, con la quale non si
trasmette copia integrale del provvedimento medesimo, ma solo la parte dispositiva senza le
eventuali motivazioni. Essendo un atto costituente dovere d'ufficio, il cancelliere è tenuto
ad assolverla in tempo molto rapidi (ad es., per la sentenza, la comunicazione deve essere
effettuata entro 5 giorni dal deposito della stessa ex art. 133) tanto che il legislatore talvolta
utilizza la data della comunicazione quale dies a quo del termine per il compimento di un
atto o di attività processuale che si vuole siano compiuti entro tempi brevi (ad es. la
comunicazione dell’ordinanza che abbia pronunciato sulla competenza, dalla quale decorre
il termine di 30 giorni per proporre regolamento di competenza). In tali casi, per ragioni di
rispetto del diritto alla difesa, la comunicazione deve comprendere il testo integrale del
provvedimento del giudice.

130. Le notificazioni

La notificazione è un atto dell'ufficiale giudiziario attraverso il quale, su istanza di parte o


su richiesta del p.m. o del giudice, egli provvede a consegnare o a far recapitare al
destinatario copia integrale e conforme all’originale di un atto scritto, di norma ma non
necessariamente (si pensi alla notifica della sentenza) formato dallo stesso soggetto che
chiede la notificazione. Scopo della notificazione è quello di far conseguire la certezza
legale della conoscenza dell'atto in capo al destinatario, in presenza della quale si
producono gli effetti propri dell’atto stesso. In calce all'originale ed alla copia, l'ufficiale
giudiziario attesta, con apposita relazione di notificazione, l'eseguita notificazione e in
136
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particolare indica la persona alla quale è stata consegnata la copia e le sue qualità, il luogo
della consegna ed i motivi della eventuale mancata consegna e le notizie raccolte sulla
reperibilità del destinatario. La relazione (o relata) di notificazione fa prova fino a querela
di falso delle dichiarazioni in essa contenute. La notificazione costituisce, inoltre, un atto
autonomo rispetto all’atto che viene notificato: pertanto i vizi che possono investire la
notificazione sono distinti da quelli dell’atto notificato e non si trasmettono ad esso.
Il codice prevede diverse tipologie di notificazione: le forme di notificazione a mezzo di
ufficiale giudiziario sono descritte negli artt. 138 ss. c.p.c., a cominciare dalla notificazione
in mani proprie. Caratteristica di questa forma di notificazione è che essa viene eseguita
mediante consegna della copia nelle mani proprie del destinatario in qualunque luogo esso
sia reperito.
Se la notificazione non avviene in mani proprie del destinatario, essa deve essere fatta nella
residenza, nella dimora o nel domicilio (art. 139 c.p.c.). Se il destinatario non viene trovato
in uno di questi luoghi, l'ufficiale giudiziario consegna copia dell'atto ad una persona di
famiglia o addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda, purchè non minore di 14 anni e non
palesemente incapace. In mancanza delle suddette persone, la copia è consegnata al portiere
dello stabile dove è l'abitazione, l’ufficio o l’azienda e, quando manchi anche il portiere, ad
un vicino di casa che accetti di riceverla. Il portiere o il vicino deve sottoscrivere una
ricevuta e l'ufficiale giudiziario dà notizia al destinatario dell'avvenuta notificazione
dell'atto a mezzo di lettera raccomandata. Infine, se non è possibile eseguire la consegna in
questi modi, l’ufficiale giudiziario deposita la copia dell’atto presso la casa comunale del
luogo dove la notificazione deve essere eseguita, affiggendo avviso del deposito in busta
sigillata alla porta dell'abitazione, dell’ufficio o dell’azienda del destinatario e dandogliene
notizia a mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno (art. 140). Altre disposizioni
regolano la notifica:
 presso il domiciliatario. Se il destinatario della notificazione ha eletto domicilio
presso una persona o un ufficio, la notificazione può essere eseguita mediante
consegna di copia alla persona o al capo dell’ufficio in qualità di domiciliatario nel
luogo indicato nell’elezione di domicilio
 a persona non residente né dimorante né domiciliata nella Repubblica. Se il
destinatario è residente all’estero, l’atto è notificato mediante affissione di copia
nell’albo dell’ufficio giudiziario davanti al quale si procede e mediante spedizione di

137
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altra copia al destinatario per mezzo della posta in piego raccomandato, mentre una
terza copia è consegnata al p.m., che ne cura la trasmissione al Ministro degli affari
esteri per la consegna alla persona cui è diretta. Si effettua questa forma di
notificazione ovviamente a meno che non sia diversamente stabilito da convenzioni
internazionali
 a persona di residenza, dimora e domicilio sconosciuti . La notificazione è eseguita
mediante deposito, a cura dell’ufficiale giudiziario, di copia dell’atto nella casa
comunale dell’ultima residenza o, se questa è ignota, in quella del luogo di nascita
del destinatario e mediante affissione di altra copia nell’albo dell’ufficio giudiziario
davanti al quale si procede. La notificazione si ha per eseguita 20 giorni dopo il
compimento delle formalità suddette
 alle amministrazioni dello stato. Determinati atti vanno notificati presso l’ufficio
dell’avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede l’autorità giudiziaria adita
 alle persone giuridiche. La notificazione si esegue di norma nella sede della persona
giuridica, mediante consegna di copia dell’atto al rappresentante o alla persona
incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla
sede stessa. La notificazione può anche essere eseguita alla persona fisica che
rappresenta l’ente, qualora nell’atto da notificare ne sia indicata la qualità e risultino
specificati residenza, domicilio e dimora abituale
 ai militari in attività di servizio . Se la notificazione non viene eseguita a mani
proprie del destinatario, occorre l’ulteriore adempimento della consegna di una copia
al p.m., affinchè ne curi l’invio al comandante del corpo al quale il militare
appartiene.
 a mezzo del servizio postale, se non espressamente vietata dalla legge. In questo
caso l’ufficiale giudiziario redige la relazione di notifica menzionando l’ufficio
postale per mezzo del quale spedisce la copia al destinatario in piego raccomandato
con avviso di ricevimento. Tale forma di notificazione è addirittura obbligatoria
quando ha ad oggetto atti da notificare fuori del comune in cui ha sede il proprio
ufficio, mentre è solo facoltativa negli altri casi, sempre che non sia la parte a
chiedere espressamente che la notifica sia eseguita di persona
 a mezzo di posta elettronica certificata, se non espressamente vietata dalla legge
(art. 149 bis, introdotto dalla l. 24/2010). La notifica si intende perfezionata nel

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momento in cui il gestore rende disponibile il documento informatico nella casella di


posta elettronica certificata del destinatario. L’ufficiale giudiziario redige, inoltre, la
relazione su un documento informatico separato, sottoscritto con firma digitale e
congiunto all’atto cui si riferisce mediante strumenti informatici.

Un discorso a parte va fatto per le notificazioni richieste dal cancelliere. Nei procedimenti
civili le comunicazioni e le notificazioni a cura della cancelleria sono effettuate
esclusivamente per via telematica, all’indirizzo di posta elettronica certificata. Le
comunicazioni e le notificazioni ai soggetti per i quali la legge prevede l’obbligo di munirsi
di un tale indirizzo, che non vi abbiano provveduto, sono eseguite esclusivamente mediante
deposito in cancelleria. Le stesse modalità si adottano nel caso di mancata consegna del
messaggio di posta elettronica certificata per cause imputabili al destinatario. Soltanto
quando non è possibile procedere con le modalità sopra descritte per causa non imputabile
al destinatario si applicano le regole tradizionali del codice.
Ovviamente la materia in esame costituisce oggetto anche di normativa internazionale e
comunitaria: in particolare vanno citati la Convenzione adottata a L’Aja e il Regolamento
del Consiglio UE del 2000. Il sistema fa perno sulle autorità individuate all’interno di
ciascuno Stato membro quali “organi mittenti” ed “organi riceventi”. L’organo ricevente
procede alla notificazione o alla comunicazione dell’atto secondo la legislazione dello Stato
membro cui appartiene oppure nella forma richiesta dall’organo mittente.
131. La facoltà di notificazione per gli avvocati
La legge 53/1994 per i soli atti del processo civile e di quello amministrativo e per gli atti
stragiudiziali, ha previsto che la notifica può essere fatta dall’avvocato che sia munito della
procura ad litem e che abbia ottenuto preventiva autorizzazione da parte del consiglio
dell'ordine. Parliamo delle notificazioni:
 a mezzo del servizio postale. Qui l'avvocato si avvale del servizio postale,
presentando all’ufficio postale l'originale e la copia dell'atto da notificare, con in calce
la relazione di notifica stesa dallo stesso professionista
 a mezzo della posta elettronica certificata. La notifica è effettuata a mezzo di posta
elettronica certificata solo se l’indirizzo del destinatario risulta da pubblici elenchi.
Tuttavia l’avvocato può eseguire la notificazione direttamente a mezzo posta
elettronica certificata nel caso in cui il destinatario sia altro avvocato, che abbia la
139
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qualità di domiciliatario di una parte


 mediante consegna diretta della copia dell'atto al destinatario . Il destinatario
della stessa può essere esclusivamente l'avvocato, iscritto nello stesso albo del
notificante, che sia domiciliatario della parte rappresentata. La consegna della copia
deve essere fatta o nelle mani proprie del difensore in qualunque luogo egli sia
reperito oppure nel domicilio risultante al consiglio dell’ordine in cui il destinatario
sia iscritto, a persona addetta allo studio.
132. Il momento perfezionativo della notificazione. Il principio di scissione degli effetti
della notificazione
E’ particolarmente importante individuare il momento perfezionativo della notificazione.
Sul punto è intervenuta la Corte Costituzionale (sentenza 477/2002).
Per quanto riguarda il notificante, la Corte considera che gli effetti della notificazione a
mezzo posta vadano ricollegati alla consegna dell'atto da notificare all'ufficiale giudiziario,
essendo la successiva attività di quest’ultimo e dei suoi ausiliari (come appunto l’agente
postale) sottratta al controllo e alla disponibilità del notificante stesso. Diversamente, per
quanto riguarda il destinatario, la notificazione si perfeziona solo alla data di ricezione
dell'atto, attestata dall'avviso di ricevimento, con la conseguente decorrenza da quella stessa
data di qualsiasi termine processuale imposto al destinatario medesimo. In sostanza la Corte
Costituzionale ha introdotto nell’ordinamento il principio della scissione degli effetti della
notificazione, con l’evidente ratio di evitare che, nelle ipotesi in cui la notificazione debba
avvenire entro un termine perentorio, il notificante possa subire le conseguenze di ritardi a
lui non imputabili. Va comunque precisato che, al momento della consegna del plico
all’ufficiale giudiziario, si produce solo un effetto anticipato e provvisorio a vantaggio del
notificante, che si consolida solo in caso di esito positivo del procedimento notificatorio.
Questo principio è stato recepito anche dal legislatore, in quanto l’art. 149 prevede, in tema
di notifica a mezzo posta, che essa si perfeziona per il notificante al momento della
consegna del plico all’ufficiale giudiziario e per il destinatario dal momento in cui lo stesso
ha la legale conoscenza dell’atto.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel 2015 hanno formulato il principio secondo
cui la differente decorrenza degli effetti della notificazione nelle sfere giuridiche del
notificante e del destinatario deve essere esteso, in forza del parametro costituzionale della
ragionevolezza, anche agli effetti sostanziali degli atti processuali nei casi in cui il diritto
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non possa farsi valere se non con un atto processuale: ad es. la consegna all’ufficiale
giudiziario richiesto della notifica dell’atto di citazione introduttivo del giudizio per
revocatoria quando ancora non è decorso il termine di prescrizione di 5 anni è idonea ad
interrompere il decorso di tale termine, ancorchè l’atto processuale sia ricevuto dopo la sua
scadenza.
133. La trasmissione a distanza degli atti del processo da avvocato ad avvocato

La legge 183/1993 consente che gli atti e i provvedimenti del processo possano essere
trasmessi mediante fotoriproduzione a distanza da un avvocato ad altro avvocato. La copia
fotoriprodotta si considera conforme all’atto trasmesso se:
 ai due difensori sia stata conferita procura alle liti
 l'atto trasmesso rechi l'indicazione e la sottoscrizione dell'avvocato o procuratore
estensore
 la copia fotoriprodotta, dichiarata conforme all'atto trasmesso da parte dell’avvocato
trasmittente, sia sottoscritta dall'avvocato o procuratore ricevente.

134. Il processo civile telematico. Fonti ed ambito di applicazione
Ormai è in stato di avanzata sperimentazione il c.d. PCT (processo civile telematico), il
quale consente che gli atti di parte e i provvedimenti del giudice possano essere
validamente compiuti nella forma di documenti informatici, sottoscritti con forma digitale e
trasmessi alla cancelleria con modalità telematiche, al fine della formazione di un fascicolo
informatico del processo.
Le regole dettate in tema di PCT non rivestono ancora carattere obbligatorio nei confronti
di tutti i protagonisti del processo e in relazione a tutti gli atti e i procedimenti civili. Ex art.
16 bis d.l. 179/2012 l’obbligo di deposito degli atti processuali con modalità telematiche è
imposto per gli atti e i documenti ad opera dei difensori , dei consulenti o professionisti
delegati nei procedimenti civili contenziosi o di volontaria giurisdizione dinanzi al tribunale
e alla corte d’appello (con esclusione dei processi dinanzi al giudice di pace e alla Corte di
Cassazione).

135. Le caratteristiche e le modalità di funzionamento del processo civile telematico


I protagonisti del PCT vengono qualificati dal d.m. 44/2011 come “soggetti abilitati” e sono
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distinti, a seconda dell’appartenenza o meno all’apparato giurisdizionale, in “soggetti


abilitati interni” (o “utenti interni”, cioè magistrati e dipendenti degli uffici giudiziari) e
“soggetti abilitati esterni” (o “utenti esterni”, cioè ad es. avvocati e ausiliari del giudice). La
fruizione dei servizi telematici presuppone il possesso di un indirizzo di posta elettronica
certificata, tanto che il d.m. citato ha istituito un Registro Generale degli Indirizzi Elettronici
(REGINDE), gestito dal Ministero della giustizia, che contiene i dati identificativi e
l’indirizzo di posta elettronica certificata dei soggetti abilitati.

Partiamo dal difensore: questi è tenuto a predisporre con modalità telematiche gli atti
giudiziari e a provvedere allo stesso modo al loro deposito. Per poter dare avvio al deposito
telematico, il difensore deve provvedere alla creazione di un file (c.d. busta) recante tutti i
dati relativi all’instaurando processo. Sui documenti informatici va apposta la firma
digitale del difensore. Il file viene quindi trasmesso all’indirizzo di posta elettronica
certificata dell’ufficio giudiziario destinatario. Il deposito con modalità telematiche si ha
per avvenuto al momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte
del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della giustizia. Il controllo sulle
predette operazioni è effettuato dal personale di cancelleria: il cancelliere, accettato il file,
procede alla creazione del fascicolo informatico (ovvero all’inserimento dell’atto trasmesso
per via telematica nel fascicolo informatico già esistente). Tale fascicolo equivale in tutto e
per tutto al fascicolo d’ufficio in formato cartaceo e comprende gli atti, i documenti, gli
allegati, le ricevute di posta elettronica certificata e i dati del procedimento (quindi atti
formati da utenti sia esterni che interni). Quanto alle attività del giudice nell’ambito del
PCT, la normativa prevede che, qualora i provvedimenti del giudice siano redatti in formato
elettronico e sottoscritti con firma digitale, essi vengono direttamente depositati nel
fascicolo informatico, previa attestazione del deposito da parte della cancelleria o della
segreteria dell’ufficio giudiziario mediante apposizione della data e della propria firma
digitale. Diversamente, se i provvedimenti sono redatti in formato cartaceo, il cancelliere o
il segretario dell’ufficio giudiziario ne estrae copia informatica e la deposita nel fascicolo
informatico. Ovviamente l’informatizzazione del processo civile coinvolge anche le attività
di comunicazione e notificazione.

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CAP. 12: L’INVALIDITÀ DELL’ATTO PROCESSUALE

136. Vizi formali e vizi extraformali

Gli artt. 156-162 contengono la disciplina della nullità degli atti processuali, disciplina
autonoma rispetto al regime di invalidità sostanziale. Il 1° e il 2° co. dell’art. 156, nel
richiamare la “inosservanza di forme” e la mancanza di “requisiti formali”, si riferiscono a
fattispecie invalidanti che presuppongono appunto la carenza di requisiti di forma (da
intendersi come forma-contenuto), e dunque la difformità dell’atto dallo schema legale. Ciò
deve indurre a chiederci se il legislatore abbia voluto sottoporre a regimi diversi i vizi
formali e quelli extraformali, cioè quei vizi che non si risolvono in difetti di forma-
contenuto, ma che derivano da violazioni delle norme sui presupposti del processo (ad es.
giurisdizione o competenza) ovvero da violazioni delle norme sul processo (errores in
procedendo). In realtà non sembra possibile risolvere il problema applicando un criterio
generalizzato, in quanto occorre tener conto caso per caso della singola fattispecie di vizio
extraformale e del suo regime normativo e verificarne la compatibilità col criterio del
raggiungimento dello scopo (e la conseguente possibile sanatoria del vizio).

137. Le regole sulla nullità. Il criterio del raggiungimento dello scopo

I principi generali che regolano la nullità degli atti processuali sono rinvenibili nei 3 commi
di cui si compone l'art. 156 c.p.c., il quale si sviluppa secondo un andamento
“sinusoidale”: dopo la previsione di un principio generale (co. 1°), la norma contiene un
allargamento dello stesso (co. 2°) e poi un restringimento drastico (co.3°) dell’ambito di
operatività della nullità nel processo. Più precisamente, intorno al principio generale di
tassatività, ruotano due principi diversi che fanno riferimento entrambi al criterio dello
scopo, il primo per estendere il potere di pronunciare la nullità ed il secondo per limitarlo:

 il co. 1°, sancendo che non può essere pronunciata la nullità di alcun atto del
processo se essa non è comminata dalla legge, stabilisce il principio di tassatività
delle nullità, per cui è la legge a predeterminare in via generale ed astratta i casi di
nullità
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 il co. 2° contiene una deroga (in senso estensivo) del principio generale di tassatività,
in quanto consente, anche al di fuori di un'espressa comminatoria di legge, la
pronuncia della nullità quando l'atto manchi dei requisiti formali indispensabili per il
raggiungimento dello scopo. Dunque qui è il giudice liberamente a pronunciare la
nullità, se ravvisa con valutazione ex ante l'inidoneità dell'atto a realizzare lo scopo
ad esso assegnato dall'ordinamento
 il co. 3° sancisce la regola che impedisce al giudice la pronuncia della nullità quando
l'atto abbia raggiunto “lo scopo a cui è destinato”: raggiungimento dello scopo che va
valutato ex post.

L’apparente contraddizione si spiega proprio tenendo conto del diverso momento in cui il
giudice compie la valutazione (ex ante nel primo caso, ex post nel secondo).

138. Nullità relative e nullità assolute

L'art. 157 co. 1° c.p.c. prevede che la nullità non può essere pronunciata senza istanza di
parte, salvo i casi in cui la legge disponga che sia pronunciata d'ufficio. Le ragioni di questi
ulteriori limiti vanno individuate, da un lato, nella volontà di limitare i poteri officiosi del
giudice in tutte quelle ipotesi in cui la difformità dell’atto dello schema legale non sia tale
da giustificare un suo intervento d’ufficio, e, dall’altro, nell’esigenza di provocare la
“reazione” della parte interessata a far valere la nullità entro limiti temporali prestabiliti: se
la parte rimane inerte, la legge desume da tale inerzia un disinteresse a quella pronuncia che
consente la conservazione dell’atto seppur viziato.

Ciò detto, è agevole distinguere:

 nullità relative, che, in quanto possono essere pronunciate solo su istanza di parte
sono considerate sanabili a seguito dell'inattività della stessa parte
 nullità assolute, che, essendo svincolate dall'iniziativa di parte, possono essere
rilevate dal giudice nel corso del procedimento.

Il co. 2° dell'art. 157 afferma che solo la “parte nel cui interesse è stabilito un requisito”
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dell'atto è legittimata ad avanzare l'istanza per la pronuncia della nullità per mancanza di
quel requisito. Questa iniziativa, che consiste nella formulazione di un’eccezione, può
essere promossa “nella prima istanza o difesa successiva all'atto o alla notizia di esso”,
cioè entro un termine assai breve che si giustifica con l’esigenza di conoscere subito la sorte
dell’atto. Bisogna sottolineare che questa regola costituisce un principio generale,
applicabile a tutti i processi di cognizione. Se l’eccezione di nullità viene respinta, la parte
interessata ha l’onere di riproporla in sede di precisazione delle conclusioni e nei successivi
atti di impugnazione. In difetto, si determina la sanatoria della nullità per acquiescenza,
rilevabile anche d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo: ad es. la nullità
della testimonianza resa da persona incapace deve essere eccepita subito dopo
l’espletamento della prova, per cui, in mancanza di tempestiva eccezione, il vizio deve
intendersi sanato.
La nullità non può essere opposta né dalla parte che vi ha dato causa, né da quella che vi ha
rinunciato anche tacitamente: non dalla prima in quanto, se la nullità è imputabile ad una
parte, la stessa non può chiedere che la nullità sia pronunciata dal giudice, in base al
principio di autoresponsabilità; non dalla seconda in quanto la rinuncia a far valere la nullità
è considerata non revocabile e quindi estingue il potere di iniziativa della parte. Per quanto
attiene alle nullità assolute, cioè rilevabili anche d'ufficio dal giudice, l’art. 158 dedica
particolare attenzione a quelle derivanti da vizi relativi alla costituzione del giudice e
all'intervento del p.m. (si pensi ai casi di irregolare composizione dell'organo giudicante o di
mancata partecipazione del p.m. ai giudizi nei quali il suo intervento sia necessario). In
quanto insanabili, se non rilevate, tali nullità si convertono in vizi della sentenza, e
rimangono di fatto sanate solo se la sentenza non è impugnata e passa in giudicato.

139. Estensione della nullità. La nullità parziale. La conversione dell'atto nullo

Ovviamente l’atto processuale non è isolato, ma si inserisce nella serie di atti del
procedimento: perciò bisogna individuare quali siano i limiti di estensione della nullità.
L'art. 159 c.p.c. sancisce la regola che la nullità non travolge mai gli atti precedenti, ma
solo quelli successivi dipendenti da quello nullo (c.d. nullità derivata): insomma si
richiede che l’atto nullo sia il necessario presupposto di quelli successivi. Parimenti il co. 2°
stabilisce che la nullità di una parte dell'atto non colpisce le altre parti che ne sono
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indipendenti (c.d. nullità parziale). L'ultimo co. contempla il fenomeno della c.d.
conversione dell'atto nullo, per il quale, se il vizio di nullità impedisce un determinato
effetto, l'atto può tuttavia produrre gli “altri effetti ai quali è idoneo”. Tale fenomeno rientra
in quello della nullità parziale: il legislatore ha qui ipotizzato il verificarsi di altri effetti,
che magari originariamente l'atto non era destinato a produrre, ma che, a seguito della
pronuncia della nullità, sono in grado di prodursi egualmente (pensiamo al ricorso ordinario
per cassazione che può convertirsi in istanza di regolamento di competenza quando ne abbia
i requisiti formali e sostanziali).

140. Il principio di assorbimento delle nullità nei motivi di gravame

Il co. 1° dell'art. 161 c.p.c. sancisce il principio che la nullità delle sentenze soggette ad
appello o a ricorso per cassazione può essere fatta valere soltanto “nei limiti e con le regole
proprie” di questi mezzi di impugnazione (c.d. principio di assorbimento delle nullità nei
motivi di gravame). Per aversi nullità della sentenza occorre che non si sia verificata la
sanatoria della nullità relativa di un atto della serie procedimentale che è culminata nella
sentenza stessa oppure che la nullità sia assoluta e tale da investire tutti gli atti successivi
fino alla sentenza oppure ancora che il vizio investa direttamente la sentenza. Ma è altresì
necessario che il giudice, in sede di pronuncia della sentenza, non si avveda del vizio ed
eserciti i poteri decisori, emettendo sentenza affetta da nullità.
Se la parte vuol far valere la nullità della sentenza, deve impugnarla con appello o ricorso
per cassazione. Se non lo fa, la nullità resta sanata per effetto del giudicato interno
conseguente alla mancata impugnazione. Controverso è l’ambito di operatività della regola
dell’assorbimento, cioè se essa si applichi, oltre che alle nullità relative, anche a quelle
assolute (insanabili e rilevabili d’ufficio). La giurisprudenza sembra orientata ad escludere
il potere del giudice di appello di rilevazione officiosa della nullità e a riconoscere che i vizi
in esame si convertano tout court in motivi di gravame e debbano essere fatti valere nei
limiti e con le forme proprie dei mezzi di impugnazione. Se essi non vengono fatti valere in
questo modo, il giudice dell’impugnazione non può quindi rilevarli d’ufficio.

141. Sentenza non sottoscritta dal giudice

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Il principio di assorbimento non trova applicazione quando la sentenza manchi della


sottoscrizione del giudice (art. 161 co. 2°). Tale vizio è ritenuto dalla legge talmente grave
che esso dispiega i suoi effetti anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, ed è
autonomamente deducibile, senza limiti temporali, con apposita actio nullitatis. Al riguardo
si parla anche di “nullità-inesistenza” o più semplicemente di “inesistenza”, per
sottolineare l’impossibilità di sottoporre questo vizio a qualsiasi tipo di sanatoria.

142. La rinnovazione dell'atto nullo

Il giudice, allorchè pronuncia la nullità, deve disporre, “quando sia possibile”, la


rinnovazione degli atti ai quali la nullità si estende (art. 162). Si tratta di una norma di
chiusura del sistema, che costituisce un’ulteriore applicazione del principio secondo il
quale il processo deve concludersi, per quanto possibile, con la decisione sul merito. La
rinnovazione costituisce oggetto di un ordine del giudice, che questi emana in esecuzione di
un suo potere-dovere, ma non esclude (ove si tratti di atti di parte) la rinnovazione
spontanea, che può essere compiuta dalla parte direttamente. I limiti alla rinnovazione sono
introdotti dall'art. 162 c.p.c. con l’inciso “quando sia possibile” e sono di 2 tipi:

 l'atto nullo deve essere rinnovabile sia per sua natura intrinseca (ad es. non è
rinnovabile la testimonianza resa da un soggetto incapace a testimoniare), sia per
mancanza di impedimenti materiali (ad es. quando il testimone è nel frattempo
deceduto)
 la rinnovazione non può essere disposta se, al momento della pronuncia della nullità,
sia scaduto il termine perentorio per il compimento dell'atto. Salvo la legge disponga
diversamente, gli effetti dell’atto rinnovato si producono ex nunc.

143. La nullità della notificazione

L'art. 160 c.p.c. si occupa del regime di nullità della notificazione, individuando le
fattispecie invalidanti:

 mancata osservanza delle disposizioni circa la persona alla quale deve essere
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consegnata la copia dell'atto (consegna a minore di 14 anni o palesemente incapace)


 incertezza assoluta sulla persona a cui è fatta la notificazione
 incertezza sulla data

L’espresso richiamo all’art. 156 sta a significare che il criterio del raggiungimento dello
scopo si applica anche alla nullità della notificazione. Va precisato che lo scopo dell’atto-
notificazione non è la generica o sommaria conoscenza di esso da parte del destinatario
(che questi potrebbe acquisire nelle forme più svariate), ma la conoscenza quale risultato
del rispetto delle forme tipicamente predisposte dalla legge (c.d. conoscenza legale).

144. La c.d. giuridica inesistenza dell'atto

Il diritto vivente ha individuato vizi più gravi delle nullità, tali da dar luogo alla c.d.
giuridica inesistenza. Si tratta di vizi che, per la loro gravità, non sono suscettibili di
alcuna sanatoria, compresa quella per raggiungimento dello scopo. Oggi sembra
definitivamente consolidato l’orientamento che limita fortemente le ipotesi di giuridica
inesistenza della notificazione, la quale ricorre solo quando essa sia stata effettuata in modo
assolutamente non previsto dalla normativa e sia pertanto inidonea a realizzare lo schema
tipico dell’istituto (altrimenti si avrebbe nullità), ad es. come accade quando la consegna
dell’atto avvenga a persona e in luogo assolutamente non riferibili ai destinatari. In generale
sembra che di giuridica inesistenza si possa parlare solo quando l’autore dell’atto
processuale difetta in maniera assoluta del potere che egli vorrebbe esercitare con l’atto
medesimo.

148
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PARTE QUINTA: LE PROVE

CAP. 13: LA PROVA

145. Nozione di prova

La prova può definirsi come uno strumento di rappresentazione ed accertamento di


determinati fatti che si assumono dalle parti come storicamente accaduti, in grado di
influire sul convincimento del giudice. Del resto è ovvio che obiettivo del processo civile
sia quello di avvicinarsi il più possibile alla verità oggettiva, facendo coincidere la verità
processuale con quella reale. La codificazione vigente riproduce, sul modello francese, la
bipartizione della disciplina delle prove tra codice civile e codice di procedura civile:
mentre il codice di procedura civile regola l'assunzione nel processo dei mezzi di prova, il
codice civile ne configura i tipi normativi e detta le regole della ripartizione dell'onere della
prova tra i soggetti del processo. Bisogna aggiungere che talvolta la disciplina dei mezzi di
prova (sia sotto il profilo sostanziale che processuale) è contenuta in leggi speciali (si pensi
al documento informatico).

146. Il principio di disponibilità della prova. I mezzi di prova “d'ufficio”

L'art. 115 c.p.c. fissa il principio secondo il quale il giudice, salvi i casi previsti dalla legge,
deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal p.m. (c.d.
principio di disponibilità della prova). [vecchio fondamento = proiezione in campo
processuale dell’autonomia privata, stante la necessità di garantire anche nel processo civile
il potere riconosciuto ai privati di disporre liberamente della propria sfera giuridica ; nuovo
fondamento: rifiuto nel codice del giudice civile inquisitore in funzione della garanzia
dell’imparzialità “psicologica” dell’organo giudicante, che sarebbe stata compromessa se
quest’ultimo fosse stato chiamato a giudicare su di una prova da lui stesso scelta e acquisita
al processo. Si deve distinguere tra:

 la fonte materiale di prova, cioè il fatto storico che, cercato e trovato fuori del
processo, viene allegato dalla parte
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 il mezzo istruttorio (o mezzo formale di prova), cioè il procedimento tipizzato dalla


legge che, su impulso dello stesso soggetto che ha acquisito quella fonte o di altri,
viene svolto per provare quel fatto e conseguentemente consentire al giudice di
valutarne l’utilità o meno ai fini della decisione.
Le precedenti considerazioni trovano conferma sia nella regola ex art. 2697, che
addossa alle parti l’onere di provare i fatti che costituiscono il fondamento di
domande ed eccezioni, sia in altre norme del c.p.c. (ad es. 112 e 163), che vietano al
giudice di decidere al di fuori delle ragioni di fatto enunciate dalle parti. Inoltre, al
fine di prevenire ogni “inquisitorietà” nell’attività istruttoria disposta dal giudice, la
legge conferisce carattere tassativo ai poteri di iniziativa probatoria officiosa del
giudice (ad es. il potere di ordinare l’ispezione di persone e di cose ex art. 118).

147. La ripartizione degli oneri probatori tra le parti. Il principio c.d. di acquisizione
della prova

L'art. 2697 c.c. distribuisce tra le parti gli oneri di provare i fatti da ciascuna allegati,
assegnando all'attore l'onere di provare i fatti costitutivi dei diritti che l'attore stesso fa
valere in giudizio e al convenuto l'onere di provare i fatti estintivi, impeditivi o modificativi
di questi diritti (onere della prova in senso soggettivo). I fatti di cui parla la norma sono
quelli "principali", cioè quelli direttamente richiamati dalla fattispecie normativa astratta
della quale si chiede al giudice l'attuazione, in grado di produrre effetti costitutivi,
impeditivi, modificativi ed estintivi del diritto fatto valere in giudizio:

 costitutivi: fatti che la legge considera rilevanti ai fini della produzione degli effetti
giuridici sostanziali che l'attore invoca
 impeditivi: fatti che incidono sulla mancanza dei presupposti del fatto costitutivo,
impedendo alla fattispecie costitutiva di produrre i propri effetti (ad es. la
prescrizione)
 estintivi o modificativi: fatti che sono idonei ad estinguere o modificare il diritto
fatto valere dall'attore e perciò sono oggetto di eccezioni del convenuto, che, se
fondate, sono in grado di far dichiarare infondata la domanda (ad es. l’eccezione di
pagamento integrale del debito).
150
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Dunque, in sostanza, grava sulla parte che ha formulato la domanda o l'eccezione l'onere di
provare i fatti che ne stanno alla base: “actore non probante reus absolvitur”. Infine l’art.
2698 riconosce alle parti la possibilità di modifica o di inversione pattizia delle regole di
ripartizione dell’onere della prova, salvo che tali patti si riferiscano a diritti indisponibili
ovvero abbiano per effetto di rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto ad una
delle parti.

148. I fatti notori


I fatti notori sono una delle deroghe previste dalla legge alla regola di ripartizione dell’onere
della prova. Secondo l'art. 115 co. 2° il giudice può porre a fondamento della decisione quelle
nozioni di fatto che rientrano nella “comune esperienza”, senza che esse debbano essere
provate (c.d. fatti notori): la regola si riassume nel brocardo “notoria non egent probatione”.
Notorio può essere anche il fatto generalmente conosciuto in una determinata zona (c.d.
notorietà locale) o in un particolare settore di attività o di affari.
Ratio= la notorietà esclude il sospetto di parzialità del giudice insito nell’uso di fonti di
prova da lui stesso ricercate. D’altro canto, il ricorso al fatto notorio, comportando una
deroga al principio dispositivo e al contraddittorio, va inteso in senso rigoroso, e cioè come
fatto acquisito alle conoscenze della collettività (incontestabile): di conseguenza restano
estranei a tale nozione le acquisizioni specifiche di natura tecnica, gli elementi valutativi
che richiedono il preventivo accertamento di particolari dati o quelle nozioni che rientrano
nella scienza privata del giudice (questa, in quanto non universale, non rientra nella
categoria del notorio). Spetta, dunque, al giudice decidere sulla rilevanza dei fatti notori ai
fini della decisione della causa.
Dal fatto notorio va tenuto distinto il c.d. notorio giudiziale, complesso di fatti che il
giudice conosce o può conoscere in ragione del proprio ufficio, utilizzabile solo quando la
legge espressamente lo prevede: si pensi alla conoscenza della pendenza davanti allo stesso
ufficio giudiziario di più cause identiche o tra loro connesse, che consente la pronuncia dei
provvedimenti di riunione (artt. 273 e 274).

149. I fatti pacifici ed il principio di non contestazione

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Altra deroga alle regole legali di ripartizione dell'onere probatorio riguarda i fatti pacifici.
Infatti non vi è necessità di fornire la prova anche dei fatti affermati da una parte e posti a
fondamento o della domanda o dell'eccezione, la cui esistenza sia stata ammessa
esplicitamente dall'altra parte o comunque sia presupposto necessario della sua
impostazione difensiva. Evidentemente la problematica dei fatti pacifici si intreccia con
quella della non contestazione: la giurisprudenza aveva ritenuto che l’onere di specifica
contestazione previsto dall’art. 167 (imponendo al convenuto di prendere posizione sui fatti
posti dall’attore a fondamento della domanda) comporta che i fatti, qualora non siano
contestati dal convenuto, debbano essere considerati incontroversi e non richiedenti una
specifica dimostrazione. Recependo le indicazioni del diritto vivente, l'art. 115
(modificato dalla l. 69/2009) afferma che il giudice deve porre a fondamento della
decisione, oltre alle prove proposte dalle parti o dal p.m., anche “i fatti non
specificatamente contestati dalla parte costituita”. Dunque tale principio può operare solo
nell’ipotesi della parte costituita, escludendo che alla contumacia possa attribuirsi il valore
di una generale non contestazione. Deve ritenersi, inoltre, che l’assenza di contestazione di
fatti allegati a fondamento della domanda o dell’eccezione implica l’ammissione di quei
fatti solo qualora si tratti di fatti c.d. principali (ossia costitutivi del diritto azionato), mentre
per i fatti c.d. secondari (ossia dedotti in esclusiva funzione probatoria) la non contestazione
può costituire soltanto argomento di prova ex art. 116.

150. Tipicità dei mezzi di prova

I mezzi di prova costituiscono un catalogo chiuso, nel senso che essi sono quelli
tipicamente previsti dalla legge. Sul principio di tipicità dei mezzi di prova non vi è accordo
nella dottrina, al cui interno si dibatte circa le c.d. prove atipiche: ad es. la testimonianza
raccolta attraverso forme diverse da quelle tipicamente previste dalla legge (si pensi a
dichiarazioni rese dal terzo davanti a notaio o altro pubblico ufficiale, piuttosto che dinanzi
al giudice nel corso del processo) non può avere la stessa efficacia della prova testimoniale
ai fini della formazione del convincimento del giudice.
Tipicità dei mezzi di prova significa che il giudice non ha alcun potere discrezionale
nell'usare mezzi diversi da quelli tipicamente predisposti dalla legge per fondare il suo
convincimento. Infatti l’uso processuale di mezzi di prova atipica viola sia il divieto
152
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imposto al giudice di far ricorso alla propria scienza privata sia perché lede i principi
costituzionali della paritaria difesa e del contraddittorio tra le parti (artt. 24 e 111 Cost.). Le
parti, infatti, hanno il diritto di conoscere attraverso quali strumenti, tra quelli precostituiti
per legge, possano essere usati dal giudice ai fini della decisione. Le prove atipiche non
possono perciò essere equiparate, quanto alla loro efficacia, a quelle tipiche, anche per
ragioni che si ricavano dal diritto positivo:

 l’art. 116 co. 2°, consente al giudice di desumere argomenti di prova dalle risposte al
libero interrogatorio e dal comportamento processuale delle parti, ha escluso che tali
fonti possano divenire componenti esclusive della valutazione giudiziale ai fini della
decisione. Infatti gli argomenti di prova non sono vere e proprie prove, ma strumenti
logico-critici per valutare le prove tipiche. Essi possono solo corroborare il
convincimento del giudice, mai fondarlo
 l’art. 310 co. 3°, che degrada ad argomenti di prova le prove tipiche raccolte in altro
processo estinto, dimostra che non possono fondare di per sé il convincimento del
giudice fatti la cui cognizione sia stata comunque acquisita fuori del processo.

Nella prassi si tende ad ammettere con una certa larghezza determinate prove atipiche, sul
presupposto che il giudice possa porre a fondamento della decisione anche prove atipiche,
(ad es. si ritiene che, in forza del principio di unità della giurisdizione, il giudice civile
possa utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio
penale).
Il giudice deve fornire adeguata motivazione se vuole utilizzare una prova atipica ed essa
deve essere idonea ad offrire elementi di giudizio sufficienti e sia in accordo con le altre
risultanze del processo.

151. Classificazione delle prove

Diverse sono le possibili classificazioni dei mezzi di prova:

 prova diretta e prova indiretta. Nella sua formulazione originaria (dovuta a


Carnelutti) tale distinzione è data dal diverso tipo di percezione del giudice, se
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direttamente legata al fatto ovvero mediata da un altro fatto che consenta di risalire al
primo (in questo senso l’unica prova diretta sarebbe l’ispezione di una persona o di
una cosa). Più di recente, si definisce diretta la prova che verte sul fatto principale ed
indiretta quella che ha ad oggetto un fatto secondario, da cui possono ricavarsi
elementi utili a dimostrare il fatto principale
 prova critica e prova storica. Tale distinzione può intendersi o nel senso che la
prova storica implica un'attività percettiva da parte del giudice, mentre quella critica
presuppone un'attività deduttiva, o relativamente al tipo di rappresentazione, quale
capacità di fornire “l'idea corrispondente al fatto” (utilizzando le parole di
Carnelutti): tale capacità caratterizzerebbe le prove storiche (ad es. documenti e
testimonianza) e mancherebbe in quelle critiche (ad es. presunzioni), che non
fornirebbero alcuna rappresentazione del fatto in sé
 prove precostituite e costituende. Si dicono precostituite le prove che si formano al
di fuori del processo, a prescindere dal tempo e dalle modalità della loro formazione,
che di norma precede l'instaurazione del processo, ma che può anche essere
concomitante allo svolgimento dello stesso (come nel caso dei documenti). Sono
costituende le prove che si formano nel corso del processo davanti al e con il
concorso del giudice (ad es. testimonianza o confessione). Diverse sono, di
conseguenza, le forme di ingresso nel processo dei due tipi di prova: mentre le prove
precostituite, in quanto già esistenti, sono acquisite o attraverso la spontanea
produzione in giudizio ad opera della parte o attraverso l’ordine di esibizione (nei
confronti di una parte o di un terzo) che il giudice può pronunciare su istanza di
parte, le prove costituende devono essere oggetto di un provvedimento giudiziale di
ammissione, che ne verifichi l’ammissibilità e la rilevanza
 prova diretta e prova contraria. La prova diretta (in tale accezione) mira a
dimostrare l'esistenza del fatto da provare e perciò può anche definirsi come prova
positiva o affermativa, mentre la prova contraria ha per scopo il dimostrare che quello
stesso fatto oggetto di prova diretta non esiste o non si è verificato e perciò può essere
definita anche come prova negativa.

152. L'“ingresso” della prova nel processo. Il giudizio di ammissibilità e di rilevanza


delle prove costituende

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Le prove precostituite hanno ingresso nel processo attraverso la produzione, cioè l'attività
della parte, la quale provvede ad inserire nel proprio fascicolo processuale il documento o
altra cosa utile alla prova, indicandone gli estremi o direttamente nell'atto introduttivo (se la
produzione avviene contestualmente alla costituzione in giudizio) o negli atti successivi,
ovvero nel verbale dell’udienza in cui avviene la produzione. Una volta che il documento è
stato prodotto in giudizio, esso entra a far parte del materiale istruttorio a disposizione del
giudice ai fini della decisione.
Le modalità di ingresso nel processo delle prove costituende sono più complesse, in quanto
non è sufficiente la richiesta della sola parte, ma occorre che il giudice con ordinanza
ammetta la prova richiesta e provveda successivamente ad assumerla, cioè ad acquisirla nel
processo. L'art. 183 co. 7° c.p.c., nel disporre che il giudice ammette i mezzi di prova
proposti “se ritiene che siano ammissibili e rilevanti”, attribuisce al giudice un duplice
potere-dovere di esercitare il controllo sull'ammissibilità e sulla rilevanza delle prove. Una
volta ammessa, la prova deve essere successivamente assunta dal giudice secondo regole
ben precise.

153. L’assunzione dei mezzi di prova

Gli artt. 202 ss. fissano alcune regole di carattere generale sull’assunzione delle prove
costituende: è il giudice che fissa il tempo, il luogo ed il modo dell'assunzione, che, di
norma, deve avvenire dinanzi a lui nell'udienza appositamente fissata, salvo che il mezzo di
prova debba assumersi fuori della circoscrizione del tribunale: in quest’ultimo caso può
essere delegato all’assunzione il giudice del luogo, salvo che le parti chiedano
concordemente che vi si trasferisca il giudice stesso e il presidente del tribunale vi consenta.
Le parti possono personalmente assistere all'assunzione, di cui viene redatto processo
verbale sotto la direzione del giudice. L'art. 208 c.p.c. prevede che il giudice, se all'udienza
fissata per l'assunzione della prova non si presenta la parte (e per essa il suo difensore) su
istanza della quale la prova deve iniziarsi o proseguirsi, deve anche d'ufficio dichiarare con
ordinanza la decadenza della stessa parte dal diritto di far assumere la prova, salvo che
l’altra parte abbia interesse all’assunzione e ne faccia apposita richiesta. Tale ordinanza può
essere revocata nella successiva udienza se il giudice riconosce che la mancata
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comparizione è stata determinata da causa non imputabile alla stessa parte. Infine,
l'assunzione dei mezzi di prova è dichiarata chiusa dal giudice:

 quando è stata completata l'assunzione dei mezzi ammessi


 quando è stata dichiarata la decadenza suddetta e non vi sono altri mezzi di prova da
assumere
 quando, per i risultati già raggiunti (art. 209), il giudice ritiene superflua l'ulteriore
assunzione delle prove ammesse.
154. Le regole di valutazione della prova. Prova liberamente apprezzabile e prova
legale

L'art. 116 co. 1° c.p.c. dispone che il giudice deve valutare la prova “secondo il suo
prudente apprezzamento”, salvo che la legge disponga altrimenti, sancendo così la
fondamentale distinzione tra prova libera o liberamente apprezzabile dal giudice (che
costituisce la regola) e prova legale (che costituisce l’eccezione). Bisogna ricordare che,
fino alla seconda metà del ‘700, l’unico regime di efficacia delle prove era quello legale, al
fine di limitare l’arbitrio del giudice. Il nostro ordinamento ha mantenuto diverse ipotesi di
prova legale, che riguardano l’efficacia probatoria dell’atto pubblico, della scrittura privata
riconosciuta, verificata o autenticata, delle scritture contabili, delle riproduzioni
meccaniche, del documento informatico sottoscritto con firma digitale autenticata o
riconosciuta, della confessione o del giuramento. La prova libera è quella liberamente
valutabile dal giudice, il quale non è sottoposto dalla legge ad alcun vincolo o criterio
predeterminato, ma stabilisce caso per caso l'efficacia di ogni prova ai fini della formazione
del proprio convincimento: ad es. il giudice non è vincolato dalle dichiarazioni rese dal
testimone.

155. La prova per presunzioni

Le presunzioni rappresentano il risultato di un procedimento logico al quale la legge


riconosce, a certe condizioni, l'idoneità a raggiungere la prova di un fatto ignoto. Ex art.
2727 c.c. le presunzioni consistono nelle conseguenze che la legge o il giudice trae da un
fatto noto per risalire ad un fatto ignoto. La norma prende in considerazione:
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 le presunzioni legali, che traggono la loro fonte da singole disposizioni di legge,


dispensano dalla prova coloro a favore dei quali esse sono stabilite
 le presunzioni assolute (stabilite da norme di carattere eccezionale e perciò
insuscettibili di estensione analogica) sono quelle che escludono la prova contraria
 le presunzioni relative si risolvono in un'inversione dell'onere della prova,
imponendo all'altra parte la prova contraria
 le presunzioni semplici (cioè quelle non stabilite dalla legge) sono ragionamenti
logici che, partendo da un fatto noto, attraverso la valutazione di “ciò che
comunemente accade in casi simili” (id quod plerumque accidit), consentono di
pervenire all'esistenza di un fatto ignoto da provare (factum probandum). Le
condizioni che la legge però pretende per accedere alla presunzione semplice sono:
1) gravità e precisione, nel senso che il fatto ignoto deve essere, sulla base
di un adeguato grado di probabilità, conseguenza non equivoca del fatto
noto, in base ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti
2) concordanza, nel senso che si ha prova del fatto solo se vi sono più
presunzioni convergenti nel senso di dimostrarne l'esistenza.

Il giudice può risalire dal fatto noto ad un fatto ignorato, ma non da questo ad altro fatto
ignorato (non si può “presumere dal presunto), ciò indica che l’esistenza di un fatto non
risultante dal mezzo tipico può essere argomentata dal giudice solo sulla base delle
argomentazioni svolte attraverso l’istruttoria e la trattazione della causa. Al di là di questo
limite, le presunzioni ben possono fondare da sole il convincimento del giudice: anzi, parte
della giurisprudenza ritiene che gli elementi assunti a fonte di prova non debbono essere
necessariamente più di uno, potendo il convincimento del giudice fondarsi anche su di un
solo elemento purchè grave e preciso, dovendo il requisito della concordanza ritenersi
menzionato dalla legge solo in previsione di un eventuale (ma non necessario) concorso di
più elementi presuntivi.

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CAP. 14: I MEZZI DI PROVA

156. Le prove precostituite: l'atto pubblico

Le prove precostituite sono i documenti, i quali, in relazione alla loro struttura ed al loro
autore, si distinguono in documento scritto (pubblico e privato) e documento informatico. Il
documento scritto comprende:

d. l'atto pubblico, che è il documento redatto, con le formalità richieste dalla legge,
da notaio o altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli fede e debitamente
sottoscritto da tutte le parti. L'atto pubblico fa piena prova (legale), fino a
querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha
formato e delle dichiarazioni delle parti e dei fatti che il pubblico ufficiale attesta
essere avvenuti in sua presenza o da lui compiuti. Dunque la “pubblica fede” (che
trae la propria giustificazione dall’affidamento che la legge ripone nel soggetto
che forma l’atto pubblico) assiste gli elementi “estrinseci” dell’atto pubblico (cioè
quanto documentato in esso), ma non la veridicità del contenuto delle loro
dichiarazioni, e tanto meno attesta la rispondenza di queste ultime all’effettivo (e
non manifestato) intento che ha mosso le parti a rendere le dichiarazioni o a
compiere quelle attività (c.d. intrinseco dell’atto). Infine va precisato che,
nonostante diffuse opinioni contrarie, fa fede fino a querela del falso non ogni atto
di pubblico ufficiale, ma solo quello redatto da pubblico ufficiale autorizzato da
apposita norma ad esercitare la funzione di formare la prova documentale in
esame
e. la scrittura privata.

157. La scrittura privata

La scrittura privata è quel documento non proveniente da pubblico ufficiale, che viene
confezionato senza prescrizione di forme, capace di conservare la rappresentazione di un
accadimento o la dichiarazione di uno o più soggetti, i quali vi appongono in calce la
sottoscrizione. Uno dei requisiti della scrittura privata è perciò la sottoscrizione, con cui
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l'autore del documento assume la paternità delle dichiarazioni in esso contenute (funzione
dichiarativa): per questo motivo essa deve essere autografa, cioè apposta di proprio pugno
dalla persona da cui provengono le dichiarazioni contenute nella scrittura. L'efficacia della
scrittura ex art. 2702 c.c. consiste nella piena prova, fino a querela di falso, della
provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta. Tuttavia tale efficacia è subordinata
al riconoscimento legale o giudiziale della sottoscrizione:

 il riconoscimento legale richiede che la sottoscrizione sia autenticata da notaio od


altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato
 il riconoscimento giudiziale è fenomeno più complesso in quanto vi sono più
ipotesi:
o la parte costituita in giudizio, nei cui confronti la scrittura privata è prodotta,
dichiara espressamente di riconoscere la propria sottoscrizione
(riconoscimento espresso)
o la parte costituita non disconosca la sottoscrizione o dichiari di non conoscerla
nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione: essendo
suo onere darne il tempestivo disconoscimento, in caso contrario la
conseguenza sarà il riconoscimento della sottoscrizione (riconoscimento
tacito)
o la parte nei cui confronti la scrittura sia stata prodotta sia rimasta contumace, cioè non
costituita nel processo. Anche in tal caso la conseguenza è il riconoscimento tacito, a
condizione che la scrittura sia stata espressamente indicata nell'atto di citazione (se a
produrla è l’attore) o nella comparsa di risposta che sia stata notificata all'attore contumace
(se a produrla è il convenuto) ovvero che sia stato notificato alla parte contumace il verbale
d’udienza attestante la produzione della scrittura. In sostanza anche la parte contumace
deve essere messa in grado di conoscere che l’altra parte intende utilizzare nel processo una
scrittura che reca la sua sottoscrizione, così da potersi costituire per effettuare il
disconoscimento.Per quanto riguarda la data della scrittura, la relativa dichiarazione fa
prova tra le parti (e non nei confronti dei terzi) negli stessi limiti in cui fanno prova le altre
dichiarazioni contenute nel documento, con la conseguenza che la prova della data può
essere offerta con qualsiasi mezzo. L’art. 2704 c.c. prevede una serie di ipotesi non
tassative in presenza delle quali la data si considera certa, anche nei confronti dei terzi, e
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cioè:

 registrazione della scrittura


 morte del sottoscrittore
 sopravvenuta impossibilità fisica di sottoscrivere da parte di quest’ultimo
 riproduzione del contenuto della scrittura in atti pubblici
 ogni altro fatto che stabilisca in modo egualmente certo l’anteriorità della formazione
del documento.

Infine, va precisato che la scrittura privata fin qui esaminata è quella formata dalle parti del
processo e non da terzi: le scritture private provenienti da terzi estranei al giudizio non
hanno valore di piena prova, ma vanno considerate mere prove atipiche.

158. Il telegramma, le riproduzioni meccaniche, le scritture contabili dell'impresa


e gli altri documenti previsti dal codice civile

a. telegramma: ha la stessa efficacia probatoria della scrittura privata, se


l'originale consegnato all'ufficio di partenza è sottoscritto dal mittente oppure
se è stato consegnato o fatto consegnare dal mittente medesimo anche senza
sottoscriverlo. In altre parole, la legge considera sufficiente, per la legale
paternità del documento, che l’autore abbia dato impulso alla sua formazione
e non che l’abbia fatto proprio dopo aver avuto la possibilità di rivalutarne il
contenuto
b. scritture contabili d'impresa: questi documenti (anch’essi privi di
sottoscrizione) hanno efficacia probatoria sia contro l'imprenditore al quale
sono riferibili sia a suo vantaggio, ma solo nei confronti di altri imprenditori,
purchè le scritture in esame siano regolarmente tenute. È ammessa la prova
contraria
c. riproduzioni meccaniche (fotografiche, cinematografiche, fonografiche) di
fatti e cose: svolgono efficacia di piena prova dei fatti e delle cose
rappresentati, se colui contro il quale sono prodotte in giudizio non ne
disconosce la conformità ai fatti ed alle cose medesimi

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d. copie fotografiche e fotostatiche di scritture: hanno la stessa efficacia delle


autentiche, se la loro conformità con l'originale è attestata da pubblico
ufficiale competente ovvero non è espressamente disconosciuta (è incluso
anche il telefax).

159. Il documento informatico


Il documento informatico è la rappresentazione digitale di atti, fatti o dati giuridicamente
rilevanti. La materia è regolata dal d.lgs. 82/2005 (c.d. Codice dell'amministrazione
digitale) e successive modifiche. Sotto il profilo processuale, l’efficacia del documento
informatico è subordinata l’individuazione di un criterio certo di imputazione del
documento al suo autore: La legge ha, quindi, fatto ricorso al sistema della firma elettronica
e digitale. L'art. 1 del codice distingue 4 figure di firma apposta con mezzi informatici:

 firma elettronica "semplice": è l'insieme dei dati in forma elettronica, allegati o


connessi tramite associazione logica ad altri dati elettronici
 firma elettronica avanzata: è un insieme di dati in forma elettronica allegati o
connessi ad un documento informatico, che garantiscono la connessione univoca al
firmatario, creati con mezzi sui quali il firmatario conserva un controllo esclusivo
 firma elettronica qualificata: è un particolare tipo di firma elettronica avanzata
basata su un certificato qualificato e realizzata mediante un dispositivo sicuro per la
creazione della firma
 firma digitale: è un particolare tipo di firma elettronica avanzata basata su un
sistema di chiavi crittografate (una pubblica e una privata, correlate tra loro), che
consente al titolare tramite la chiave privata e al destinatario tramite la chiave
pubblica, rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e
l'integrità di un documento informatico.

Sotto il profilo processuale, l'art. 21 del codice dispone che il documento informatico cui è
apposta una firma elettronica sul piano probatorio è liberamente valutabile in giudizio. Il
documento informatico, sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale ha
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la stessa efficacia della scrittura privata.

160.La verificazione della scrittura privata e la querela di falso civile

Essi costituiscono strumenti di creazione processuale o di eliminazione in via giudiziaria


dell'efficacia di prova legale che la legge attribuisce alla scrittura privata, all’atto pubblico e
ad altri documenti. Del resto, dobbiamo considerare che i documenti muniti di efficacia di
prova legale non hanno funzioni meramente processuali, cioè non servono solo ai fini della
formazione del convincimento del giudice, ma anche a funzioni sostanziali di
rafforzamento della certezza nello svolgimento dei rapporti giuridici sostanziali e di
creazione dei presupposti di vicende sostanziali: ad es. l’atto pubblico e la scrittura privata
autenticata rappresentano titoli per ottenere la trascrizione, iscrizione e annotazione nei
pubblici registri dell’atto dispositivo che essi incorporano (ad es. la compravendita).

Per quanto attiene alla verificazione di scrittura privata (artt. 216 ss. c.p.c.), è bene
rammentare che la scrittura privata acquisisce l'efficacia privilegiata descritta nell'art. 2702
c.c. se la sottoscrizione è autenticata o riconosciuta espressamente o tacitamente ovvero se è
oggetto di verificazione. Il procedimento di verificazione ha ad oggetto l'autenticità della
sottoscrizione e può essere incidentale (se la verificazione è proposta nel corso del processo
in cui la scrittura è stata prodotta) o principale (se è proposta in via autonoma). La
verificazione incidentale presuppone che la parte produca in giudizio la scrittura privata e
che l'altra parte disconosca, cioè neghi formalmente, la propria sottoscrizione nella prima
udienza o nella prima difesa successiva alla produzione. A questo punto, la parte che
intende avvalersi della scrittura disconosciuta, per far conseguire a quest'ultima l'efficacia
di prova legale di cui all’art. 2702 c.c., deve chiederne la verificazione. Su tale istanza si
pronuncia con sentenza, a seguito degli opportuni accertamenti, il medesimo giudice
investito anche del merito della controversia. La scrittura privata verificata avrà la stessa
efficacia probatoria di quella riconosciuta o autenticata: all’esito del procedimento di
verificazione non si forma un giudicato sull’autenticità o meno della scrittura, in quanto il
giudice qui svolge nient’altro che un’attività funzionalmente identica a quella di un
pubblico ufficiale. Da ciò deriva che pure la scrittura verificata può essere oggetto di
querela di falso.
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Con il procedimento di querela del falso civile si può far accertare sia la falsità materiale
(per contraffazione, se il documento non è stato redatto dal pubblico ufficiale, o per
successiva alterazione, se sono state fatte indebitamente aggiunte o modifiche al testo
redatto dal pubblico ufficiale) sia ideologica (ad es. quando il pubblico ufficiale ha
dichiarato fatti non veri o ai quali non ha assistito di persona) dell'atto pubblico. Con
riferimento alla scrittura privata, la querela di falso serve per fare accertare che la
dichiarazione contenuta al suo interno non proviene dal soggetto che l’ha sottoscritta. La
querela di falso (che rientra ex art. 9 nella competenza per materia del tribunale) può
proporsi sia in via principale che incidentale (cioè in corso di causa), e in quest'ultima
ipotesi senza precisi limiti temporali, finché la querela non sia stata respinta con sentenza
passata in giudicato. Quando la querela di falso è proposta in via incidentale, il giudice,
dopo averne verificato l'ammissibilità, deve effettuare il c.d. interpello, cioè chiedere
formalmente alla parte che ha prodotto il documento se intende avvalersene in giudizio. La
parte potrà rispondere negativamente (in tal caso il documento non è utilizzabile in causa) o
positivamente (in tal caso il giudice, sempre che ritenga rilevante il documento e
ammissibile la querela, ne autorizza la presentazione). Ai fini di tale valutazione, il giudice
deve esaminare se i mezzi di prova offerti sono idonei a privare di efficacia probatoria il
documento impugnato, e tale valutazione è ammissibile solo laddove la parte che intenda
impugnare il documento ne indichi, con univocità e tempestività, gli elementi di
irregolarità. Nel procedimento per querela di falso è obbligatorio l'intervento del p.m., in
ragione dell’interesse superindividuale alla tutela della pubblica fede. La decisione sulla
querela, proprio per la presenza necessaria del p.m., è sempre riservata all'organo collegiale,
che potrà rigettare la querela di falso, così sancendo la “verità” del documento impugnato,
ovvero accogliere la querela e pronunciare accertamento sulla falsità del documento
impugnato. La giurisprudenza ritiene che la sentenza così emessa, avendo il fine di privare
un atto pubblico o una scrittura privata autenticata, riconosciuta o verificata della sua
intrinseca idoneità a far fede, riveste efficacia erga omnes, e non solo nei riguardi della
controparte presente in giudizio.

161.Le prove costituende: la confessione e l’interrogatorio formale

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La confessione è, secondo l’art. 2730 c.c., la dichiarazione che una parte fa della verità di
fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all'altra parte, dichiarazione di contenuto meramente
enunciativo o rappresentativo (di scienza e di verità) e non dispositivo o negoziale. Per fatto
“sfavorevole” al dichiarante deve intendersi quello che sia idoneo a produrre conseguenze
giuridiche svantaggiose per lo stesso dichiarante. La confessione deve provenire dalla parte
capace di disporre del diritto a cui i fatti confessati si riferiscono o dal suo rappresentante,
entro i limiti e nei modi in cui questi vincola il rappresentato. Essa può essere resa:

a. stragiudizialmente (cioè al di fuori del processo). La dichiarazione


stragiudiziale può essere resa per iscritto (si pensi alla quietanza di
pagamento) e in tal caso la prova della stessa è documentale; invece, se è resa
verbalmente al di fuori del processo, essa può essere provata anche per
testimoni
b. giudizialmente (cioè di fronte al giudice nel corso del processo). Secondo
l'art. 228 c.p.c., la confessione giudiziale può essere spontanea (contenuta in
un qualsiasi atto processuale sottoscritto dalla parte) o provocata mediante
interrogatorio formale. L'interrogatorio formale è deferito da una parte
all'altra nel corso del processo, attraverso apposita istanza contenente la
deduzione di articoli specifici, al preciso scopo di provocarne la confessione.
Poiché l’art. 231 c.p.c. prescrive che la parte interrogata debba rispondere
“personalmente”, è da escludersi che l’interrogatorio possa essere reso dal
difensore. Inoltre, in caso di mancata presentazione della parte o di
ingiustificato rifiuto a prestare l'interrogatorio, ex art. 232 l'organo decidente,
valutato ogni altro elemento di prova, può ritenere come ammessi i fatti
dedotti nell'interrogatorio: quindi non si verifica automaticamente l’effetto
della “ficta confessio”, ma il giudice ha il potere di valutazione discrezionale
di questo comportamento nel più ampio quadro degli altri elementi probatori
acquisiti nel corso del processo. Bisogna condividere l’orientamento della
giurisprudenza secondo il quale, al fine di impedire l’esercizio arbitrario del
potere discrezionale suddetto, il giudice di merito è gravato dell’obbligo di
motivare adeguatamente anche nell’ipotesi di valutazione negativa della
mancata risposta della parte all’interrogatorio formale.

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L'efficacia della confessione è quella tipica della prova legale, formando essa piena prova
contro la parte che l'ha resa, sempre che non verta su fatti relativi a diritti non disponibili: In
tali casi la confessione rappresenta nient’altro che una prova liberamente valutabile dal
giudice
162.Il giuramento
Anche il giuramento è una dichiarazione che la parte rende, con l'osservanza di precise
formalità, solo di fronte al giudice sulla verità di fatti che sono oggetto di causa e che,
contrariamente alla dichiarazione confessoria, può anche giovare alla parte che la rende.
Esistono 2 tipologie:
a. giuramento decisorio. Si tratta del giuramento che una parte deferisce
all'altra per farne dipendere la decisione totale o parziale della causa (art.
2736 c.c.). Si tratta di mezzo di prova che, per la sua specifica funzione,
rientra nell’esclusiva disponibilità delle parti e non può mai essere disposto
d’ufficio dal giudice. Esso deve avere per oggetto fatti specifici (mai giudizi
o apprezzamenti tecnici o anche giuridici) non solo rilevanti, ma decisivi ai
fini della decisione di uno o più capi della domanda, ossia circostanze tali che
al giudice (previo accertamento dell’an iuratum sit) non resta altro che
accogliere o rigettare la domanda ovvero singoli capi di essa. I fatti devono
inoltre riferirsi a diritti disponibili, non essere illeciti, non riguardare un
contratto per la validità del quale sia richiesta la forma scritta ad substantiam,
non essere diretti a negare un fatto che da un atto pubblico risulti avvenuto
alla presenza del pubblico ufficiale che lo ha formato (al fine di impedire ogni
possibile contrasto tra due prove legali). In tutti i casi la valutazione della
decisorietà della formula del giuramento è rimessa all’apprezzamento del
giudice del merito. L’art. 2739 c.c. pone la distinzione tra:
i. giuramento de veritate = si riferisce ad un fatto proprio, cioè
compiuto o caduto sotto i sensi di colui al quale il giuramento viene
deferito
ii. giuramento de scientia (o de notitia) = si riferisce alla conoscenza che
la parte chiamata a prestare giuramento può avere acquisito del fatto.
Il giuramento è prestato dalla parte personalmente (quindi non è delegabile ad un
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terzo) ed è ricevuto dal giudice, il quale, dopo averla ammonita sull'importanza


dell'atto e sulle conseguenze penali delle dichiarazioni false, la invita a giurare,
pronunciando le parole indicate nell'art. 238 c.p.c. Se la parte non compare senza
giustificato motivo o comparendo si rifiuta di prestare il giuramento, essa soccombe
rispetto alla domanda o al punto di fatto relativamente al quale il giuramento è
stato ammesso. Per quanto concerne l’efficacia probatoria del giuramento, l’art.
2738 c.c. non ammette l’altra parte a provare il contrario di quanto giurato e non le
consente neanche di chiedere la revocazione della sentenza, qualora il giuramento
sia stato dichiarato falso, ma solo di domandare il risarcimento dei danni in caso di
condanna penale per falso giuramento.
giuramento suppletorio. Si tratta del giuramento deferito d'ufficio dal giudice ad
una delle parti quando la domanda o le eccezioni , pur non essendo del tutto sfornite
di prova, non sono pienamente provate. Parliamo di un mezzo di prova integrativo,
al quale il giudice può ricorrere in presenza della c.d. semiplena probatio, cioè di
risultanze di altri mezzi di prova che siano contraddittorie o comunque non
sufficienti a condurre alla decisione. L'esempio più comune di giuramento è quello
sul valore della cosa domandata (c.d. giuramento estimatorio ex art. 260 c.p.c.), che
può essere deferito dal giudice ad una delle parti soltanto se non è possibile accertare
altrimenti il valore della cosa stessa (ad es. attraverso una consulenza tecnica
d’ufficio). L’efficacia del giuramento estimatorio è quella tipica della prova legale, in
quanto vincola il giudice a dichiarare vittoriosa la parte che ha giurato e soccombente
l'altra, senza che quest’ultima sia ammessa a provare la falsità delle dichiarazioni
oggetto del giuramento.
163.La prova testimoniale

La prova testimoniale, che costituisce la più importante prova costituenda, consiste nelle
dichiarazioni (narrazioni) che soggetti necessariamente diversi dalle parti in causa rendono
alla presenza del giudice, attraverso forme e modalità predeterminate dalla legge. Il
testimone è chiamato a rappresentare al giudice uno o più fatti da lui storicamente verificati,
a prescindere da ogni valutazione o apprezzamento personale. Il codice civile fissa negli
artt. 2721 ss. una serie di limiti di ammissibilità della prova testimoniale. In particolare:

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a. si esclude la prova testimoniale dei contratti quando il valore dell'oggetto


eccede 2,58 euro, anche se il giudice può consentire la prova oltre tale limite,
in considerazione della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni
altra circostanza. Ratio = le obbligazioni di una certa rilevanza economica
sono assunte dalle parti per iscritto, anche se il limite di valore indicato dalla
norma è ormai insignificante e costantemente superato dalla giurisprudenza
b. non è ammessa la prova di patti aggiunti o contrari al contenuto di un
documento, per i quali si alleghi che la stipulazione sia stata anteriore o
contemporanea. Ratio = è inverosimile che le parti, in epoca precedente o
contemporanea alla formazione del documento prodotto in giudizio, possano
aver stipulato verbalmente pattuizioni che estendano l’oggetto dello stesso o
siano addirittura incompatibili con esso
c. se il patto aggiunto o contrario, secondo la prospettazione di parte, è stato
oralmente raggiunto in epoca posteriore alla formazione del documento, il
giudice può consentire la prova solo se, in considerazione della qualità delle
parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza, appaia verosimile
che quei patti siano stati raggiunti
d. si esclude la prova quando, per legge o per volontà delle parti, un contratto
deve essere provato per iscritto. Si tratta dei casi in cui la legge pretende la
forma scritta ad substantiam o ad probationem.

La prova testimoniale è ammessa ogniqualvolta si verifichino le ipotesi descritte nell'art.


2724 c.c., cioè:

e. quando vi sia un principio di prova scritta, che è costituito da qualsiasi scritto


proveniente dalla persona contro la quale è diretta la domanda o dal suo
rappresentante (e non da un terzo), che faccia apparire verosimile il fatto
allegato
f. quando il contraente è stato nell'impossibilità morale (ad es. per motivi di
parentela) o materiale (ad es. per stato di bisogno conosciuto dall’altra parte)
di procurarsi una prova scritta
g. quando il contraente ha senza sua colpa perduto, per smarrimento o
167
lOMoARcPSD|1004107

distruzione, il documento che gli forniva la prova.

Oltre tali limiti sussiste un limite soggettivo fissato dal codice di rito, il quale esclude dalla
prova testimoniale i soggetti che hanno nella causa un “interesse che potrebbe legittimare
la loro partecipazione al giudizio” (art. 246 c.p.c.). L’incapacità a testimoniare di cui si
parla è correlabile soltanto ad un diretto coinvolgimento della persona chiamata a deporre
nel rapporto controverso e tale da legittimare una sua assunzione della qualità di parte nel
giudizio, e non già alla sussistenza di un qualche interesse di detta persona in relazione a
situazioni e a rapporti diversi da quello oggetto della vertenza, anche se in qualche modo
connessi (ad es. il dipendente dell’imprenditore non è, per ciò stesso, incapace a
testimoniare nel processo in cui è stata chiesta la condanna dell’imprenditore al pagamento
di un debito dell’impresa). Altri limiti, sanciti dagli artt. 247 e 248 c.p.c., relativi al divieto
di testimoniare del coniuge, dei parenti e degli affini e all’audizione dei minori di 14 anni,
sono stati cancellati rispettivamente dalle sentenze della Corte Costituzionale 248/1974 e
139/1975, in quanto fondati su un giudizio preventivo operato dal legislatore di
inattendibilità delle dichiarazioni di tali soggetti, che è stato ritenuto in contrasto col
principio del libero convincimento del giudice.
La prova per testimoni deve essere formulata con l'indicazione specifica e separata dei
capitoli contenenti le circostanze da provare, nonchè con l'indicazione dei testimoni. I
testimoni sono interrogati dal giudice separatamente previo impegno di “dire la verità”,
dopo essere stati identificati: a tal proposito, oltre alle proprie generalità, il testimone è
invitato a dichiarare se ha rapporti di parentela, affinità, affiliazione o dipendenza con
alcuna delle parti oppure interesse nella causa). L'interrogatorio del testimone deve vertere
sui fatti attorno ai quali il teste è chiamato a deporre, ma il giudice può (d’ufficio o su
istanza di parte) rivolgere al teste tutte le domande ritenute utili a chiarire i fatti medesimi.
Se vi sono divergenze tra le deposizioni di due o più testimoni, il giudice (d’ufficio o su
istanza di parte) può disporre che essi siano messi a confronto e, se alcuno dei testimoni si
riferisce ad altre persone per la conoscenza dei fatti, può disporre d’ufficio che esse (c.d.
testi di riferimento) siano chiamate a deporre. Se il testimone, presentandosi, rifiuta di
giurare o di deporre senza giustificato motivo oppure vi è fondato motivo di ritenere che
egli non abbia detto la verità o sia stato reticente, il giudice lo denuncia al p.m., cui
trasmette copia del processo verbale. La legge non detta alcuna indicazione sull'efficacia

168
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probatoria della testimonianza, rimettendo al libero apprezzamento del giudice il giudizio


sull'attendibilità del testimone. Secondo il diritto vivente, il giudice è tenuto a negare valore
probatorio decisivo solo alla deposizione testimoniale che si traduca in un’interpretazione
del tutto soggettiva o in mero apprezzamento tecnico del fatto da parte del teste, senza
indicare dati obiettivi e modalità specifiche di quanto accaduto.

164.La testimonianza scritta

La l. 69/2009 ha introdotto nel c.p.c. la testimonianza scritta (art. 257 bis), che consiste
nella possibilità, in presenza dell’accordo tra le parti, di assumere la deposizione del
testimone per iscritto al di fuori dell'udienza (anziché mediante l’interrogatorio dinanzi al
giudice e nel contraddittorio tra le parti) mediante la compilazione di apposito modello,
approvato dal Ministro della giustizia. Infatti l’art. 257 bis prevede che il giudice, su
accordo delle parti, tenuto conto della natura della causa e di ogni altra circostanza, può
disporre di assumere la disposizione chiedendo al testimone di fornire per iscritto le risposte
ai quesiti sui quali deve essere interrogato. Il testimone quindi rende la deposizione
compilando il modello in ogni sua parte e precisa quali sono i quesiti cui non è in grado di
rispondere, indicandone la ragione. Poi sottoscrive la deposizione apponendo la propria
firma autenticata da un segretario comunale o dal cancelliere di un qualsiasi ufficio
giudiziario su ciascuna delle facciate del foglio di testimonianza, che spedisce in busta
chiusa con plico raccomandato o consegna alla cancelleria del giudice. Il giudice, esaminate
le risposte o le dichiarazioni, può sempre disporre che il testimone sia chiamato a deporre.
Comunque va detto che il fatto che l’ammissione della testimonianza scritta dipenda dal
consenso di tutte le parti ha finora rappresentato un fattore fortemente limitativo della
diffusione dell’istituto (la cui finalità è quella di eliminare una o più udienze di norma
necessarie all’assunzione dei testi), atteso che difficilmente le parti sono portate a “fidarsi”
delle risposte scritte del testimone indicato dall’avversario, rinunciando all’esame dello
stesso in udienza.

165.L'ispezione, l'esibizione, la richiesta di informazioni alla pubblica


amministrazione

169
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L'ispezione è il mezzo di prova attraverso il quale il giudice acquisisce la percezione diretta


di cose o di aspetti e situazioni inerenti a persone e da essa ricava elementi liberamente
valutabili ai fini della decisione. Ex art. 118 c.p.c. il giudice può ordinare, anche d’ufficio,
alle parti e ai terzi di consentire sulla loro persona o su cose in loro possesso le ispezioni
ritenute indispensabili per conoscere i fatti di causa. L'esecuzione dell'ispezione non deve
comportare grave danno per la parte o il terzo e non deve costringere la parte o il terzo a
violare uno dei segreti d'ufficio e professionali. Se la parte rifiuta di eseguire l’ordine di
ispezione senza che sussistano i giustificati motivi suddetti, il giudice può desumere da tale
rifiuto argomenti di prova ex art. 116 co. 2°; se il rifiuto proviene da un terzo, il giudice lo
condanna a una pena pecuniaria da euro 250 a 1500.
Per quanto riguarda l'esibizione, i documenti o altre cose mobili utili alla prova, che siano
nella disponibilità della parte che intende avvalersene già prima del processo, possono da
questa essere direttamente prodotti in giudizio ed allegati al proprio fascicolo. Se, invece,
sono nella disponibilità dell'altra parte o di un terzo, l'acquisizione al processo è possibile
attraverso l'ordine di esibizione che il giudice ex art. 210 può pronunciare, su istanza di
parte, dettando i provvedimenti opportuni circa tempo, luogo e modalità di esibizione.
L'ordine deve presupporre che i documenti o le altre cose da esibirsi contengano la prova su
fatti rilevanti della causa e non può essere emesso con finalità esplorative, cioè al solo
scopo di indagare se la prova possa essere rinvenuta tra i documenti di cui la controparte o
il terzo ha la disponibilità. La parte che non esegue l'ordine di esibizione esercita una
legittima facoltà di difesa, comportamento questo che può fornire al giudice argomenti di
prova; quando, invece, l'esibizione è ordinata ad un terzo, il giudice, prima di ordinare
l’esibizione, può disporre che il terzo sia citato in giudizio, assegnando alla parte istante un
termine per provvedervi. Il terzo può sempre fare opposizione contro l'ordinanza di
esibizione, intervenendo nel giudizio prima della scadenza del termine assegnatogli.
Nell’ambito dell’esibizione va inquadrato anche il potere del giudice di richiedere anche
d’ufficio alla PA “informazioni scritte relative ad atti e documenti”, di pertinenza e nel
possesso dell’amministrazione, che è necessario acquisire al processo (art. 213).
166.La consulenza tecnica. Il consulente “deducente” e il consulente “percipiente”
La consulenza tecnica, per sua natura e funzione, non può essere considerata un mezzo di
prova, anche se la giurisprudenza ritiene che essa possa svolgere anche una funzione di
accertamento e di ricostruzione dei fatti storici prospettati dalle parti. Se, da un canto, la

170
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consulenza tecnica ha di regola la funzione di fornire al giudice la valutazione dei fatti già
probatoriamente acquisiti al processo, essa, sempre secondo la giurisprudenza, può
costituire fonte oggettiva di prova quando si risolve in uno strumento di accertamento di
situazioni rilevabili sono con il concorso di cognizioni tecniche. Sebbene la consulenza
tecnica non possa avere funzione sostitutiva dell’onere probatorio delle parti (le quali hanno
sempre l’onere di dedurre il fatto che pongono a fondamento del diritto fatto valere in
giudizio), il diritto vivente distingue:
a. consulente percipiente, chiamato ad accertare fatti che richiedono particolari
cognizioni tecniche. A tali accertamenti di fatto (ad es. descrizioni di luoghi o
misurazioni) possono riconoscersi efficacia e valore di prove ispettive, che
possono essere contrastate da altri mezzi di prova
b. consulente deducente, chiamato ad offrire elementi di valutazione tecnica del
fatto che possono coadiuvare il giudice, ma senza alcun vincolo per lo stesso,
che può anche disattenderle motivatamente. In effetti nel nostro ordinamento
vige il principio “iudex peritus peritorum”, in virtù del quale è consentito al
giudice di merito disattendere le argomentazioni tecniche svolte nella propria
relazione dal consulente tecnico d’ufficio, e ciò sia quando le motivazioni
stesse siano intimamente contraddittorie, sia quando il giudice sostituisca ad
esse altre argomentazioni tratte da proprie personali cognizioni tecniche: in
entrambi i casi l’unico onere in capo al giudice è quello di un’adeguata
motivazione.
Il giudice, anche d'ufficio, può disporre di avvalersi dell'opera del consulente tecnico (che è
suo ausiliare) al fine di acquisire quelle cognizioni tecniche che egli reputa necessarie o
solo opportune ai fini della decisione, per far svolgere indagini e infine, previa apposita
autorizzazione, per domandare “chiarimenti alle parti”, assumere “informazioni da terzi” ed
eseguire “piante, calchi e rilievi”: trattasi di attività eterogenee, accomunate dal carattere
strumentale della preparazione tecnica del consulente. Nel corso del loro svolgimento deve
essere garantito il rispetto del principio del contraddittorio tra le parti e a tal fine queste
ultime possono nominare un proprio consulente tecnico di parte, il quale ha diritto di
partecipare ai singoli atti e può presentare osservazioni ed istanze. La mancata
comunicazione alle parti (e ai rispettivi consulenti) di giorno, ora e luogo di inizio delle
operazioni peritali dà luogo alla nullità della consulenza d'ufficio. Il consulente tecnico

171
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rassegna al giudice una relazione scritta delle indagini compiute, nella quale inserisce anche
le osservazioni e le istanze delle parti. L’art. 198 c.p.c. prevede, inoltre, una particolare
forma di consulenza: l’esame contabile. Quando è necessario esaminare documenti
contabili e registri, il giudice può darne incarico al consulente tecnico, affidandogli altresì il
compito di tentare la conciliazione delle parti. Può accadere che le parti si concilino nel
corso delle operazioni peritali, dinanzi al consulente: in tal caso si redige processo verbale
della conciliazione, che è sottoscritto dalle parti e dal consulente tecnico e inserito nel
fascicolo d’ufficio, al quale il giudice attribuisce con decreto efficacia di titolo esecutivo.
Se la conciliazione non riesce, il consulente espone i risultati delle indagini compiute e il
suo parere in una relazione, che deposita in cancelleria nel termine fissato dal giudice. Le
dichiarazioni delle parti riportate dal consulente nella relazione potranno essere valutate dal
giudice come argomento di prova.
167.Il rendimento dei conti
Il procedimento di rendimento dei conti può non essere solo un mezzo di prova, in quanto
può anche essere oggetto di autonomo giudizio. Presupposto del procedimento è l'obbligo
che una parte ha nei confronti di un'altra di fornire il conto, cioè di documentare e
giustificare una determinata attività nei suoi aspetti essenzialmente contabili. Ex art. 263, a
seguito dell'ordinanza con la quale il giudice dispone la presentazione del conto, questo
deve essere depositato in cancelleria con i relativi documenti giustificativi almeno 5 giorni
prima dell'udienza fissata per la discussione dello stesso. Se il conto viene accettato, il
giudice pronuncia ordinanza non impugnabile (cui è attribuita qualità di titolo esecutivo) di
condanna al pagamento delle somme che risultano dovute.

172
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PARTE SESTA: LA TUTELA COGNITIVA ORDINARIA FINALIZZATA AL


GIUDICATO

SEZIONE PRIMA: IL PROCESSO DAVANTI AL TRIBUNALE

CAP. 15: LE TUTELE COGNITIVE

168.Tutela normale (generale o speciale) e sommaria. Le garanzie del “dovuto


processo legale”

L'iter procedimentale previsto per la tutela cognitiva si svolge secondo gli artt. 163-408
c.p.c.: questa si può definire tutela normale “generale” dei diritti soggettivi, che comprende
sia l'attività che nel processo di cognizione sfocia nelle diverse tipologie di decisioni
(sentenze di mero accertamento, di condanna, costitutive- sanzionatorie e costitutive-
determinative, tutte destinate ad acquisire gli effetti del giudicato formale e sostanziale), sia
l'attività che nei processi di esecuzione forzata è diretta alla soddisfazione coattiva di
quanto descritto nel titolo esecutivo. Per le richieste di tutela riguardanti determinate
categorie di diritti soggettivi, apposite norme disciplinano modelli procedimentali più o
meno differenziati rispetto a quello generale, in ragione della natura o del bisogno di tutela
di quei diritti: si può parlare qui di tutela normale speciale. La libertà del legislatore di
istituire le citate forme di tutela differenziata, al fine di attuare concretamente il principio di
eguaglianza ex art. 3 Cost., incontra comunque limiti insuperabili nelle regole del “giusto
processo regolato dalla legge” e del “dovuto processo legale” di cui agli artt. 24 e 111 Cost.
Oggi i procedimenti civili di natura contenziosa regolati dalla legislazione speciale sono
sottoposti dal d.lgs. 150/2011 ad uno di 3 modelli processuali previsti dal c.p.c.:

a. rito del lavoro


b. rito sommario di cognizione
c. rito ordinario di cognizione.

173
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169.Strumenti pubblicistici e risultati privatistici della tutela giurisdizionale dei


diritti

Il processo civile assume carattere strumentale, nel senso che è finalizzato alla tutela dei
diritti. Ne deriva che i doveri o soggezioni della parte risultata soccombente a seguito del
processo hanno come soggetto attivo non l’autorità giurisdizionale che ha reso la sentenza,
ma la parte risultata vittoriosa: perciò anche i doveri della parte soccombente sono da
considerarsi di diritto privato. Piuttosto i pubblici poteri intervengono solo quando il
soccombente non adempie agli obblighi e ai doveri che derivano a suo carico dalle sentenze
o dai provvedimenti di un giudice.

170.La tutela di mero accertamento. Il c.d. mero accertamento negativo

Gli artt. 2907 c.c. e 99 c.p.c., facendo riferimento rispettivamente alla tutela giurisdizionale
dei “diritti” e al “diritto” che si fa valere in giudizio, escludono in via generale la
proponibilità di azioni che non presuppongono un diritto soggettivo, di cui nel processo si
chiede tutela o attuazione. Pertanto non sono consentite azioni puramente dichiarative,
avulse da un diritto soggettivo e aventi funzione meramente preventiva. La decisione di
mero accertamento opera dando certezza a rapporti giuridici, in modo da rendere
giuridicamente irrilevante ogni affermazione o pretesa e illegittimo ogni comportamento
che contrastino col giudizio medesimo. L'accertamento può essere sia positivo che
negativo. Le decisioni di mero accertamento tutelano anzitutto i diritti assoluti, che possono
essere messi in discussione da altrui vanti: tali decisioni rappresentano quindi il mezzo per
neutralizzare i predetti fatti lesivi.
Il principio generale dell'interesse ad agire (art. 100 c.p.c.) conduce altresì ad ammettere
l'azione di mero accertamento in tutti i casi in cui sussistano vanti, contestazioni o
comportamenti tali da compromettere la certezza, nelle relazioni giuridico-sociali, di
situazioni soggettive analoghe ai diritti assoluti (ad es. l'onore, il decoro, la riservatezza).
Ma il principio dell'interesse ad agire rende possibile anche il mero accertamento di diritti
relativi, in particolare dei crediti.
Discorso diverso deve essere fatto per il c.d. mero accertamento negativo, inteso come la
174
lOMoARcPSD|1004107

tutela diretta ad accertare che non esista un altrui diritto. Esso è sicuramente possibile
quando l'affermazione dell'esistenza dell'altrui diritto renda incerto il diritto di colui che
agisce: ad es. chi usurpa il nome altrui legittima l'usurpato ad agire in giudizio al fine di
ottenere una pronunzia del giudice, la quale accerti l'inesistenza del diritto all'uso del nome
altrui da parte dell'usurpatore. Parte della dottrina e della giurisprudenza arriva ad ammettere
azioni dirette esclusivamente a dimostrare l’infondatezza di un vanto altrui, senza che si
specifichi in giudizio (come invece impone l’art. 99 c.p.c.) se e quale diritto sia reso incerto
dal vanto medesimo.
Occorre domandarsi anche se l’ordinamento positivo consenta che il danno che ne deriva
venga non solo risarcito pecuniariamente, ma anche riparato o rimosso con strumenti
giurisdizionali idonei a creare certezza giuridica intorno all’esistenza (o inesistenza) di
quelle pretese. In realtà non si rinvengono norme di carattere generale in tal senso, ma una
risposta positiva sembra data da argomenti sistematici: ad es. l’art. 1199 c.c., imponendo al
creditore l’obbligo di rilasciare la quietanza o di restituire il titolo del credito al debitore che
ha pagato, può essere considerato espressione di un principio generale, per il quale ogni
soggetto ha diritto di ottenere dal controinteressato strumenti di certezza giuridica adatti a
neutralizzare futuri ingiusti vanti, quando questi possano ledere la sua sfera patrimoniale. In
definitiva, nel nostro sistema sono ammissibili azioni di mero accertamento negativo purchè
queste siano coordinate non ad una generica prevenzione di danni o all'eliminazione di
pericoli, ma solo all'anticipata e preventiva rimozione dei danni di cui sopra, che devono
essere puntualmente descritti ed allegati da chi agisce in giudizio per ottenere un mero
accertamento negativo.

171.La tutela di condanna

L'art. 2818 c.c. definisce la sentenza di condanna, prevedendo che “ogni sentenza che porta
condanna al pagamento di una somma o all'adempimento di altra obbligazione ovvero al
risarcimento dei danni da liquidarsi successivamente è titolo per iscrivere ipoteca sui beni
del debitore”. La decisione di condanna si riferisce, dunque, all'adempimento di
un'obbligazione civile ed infligge una “sanzione” preordinata al raggiungimento, da parte di
colui che chiede ed ottiene dal giudice la condanna, del risultato che la norma sostanziale
gli garantisce, prevedendo che il debitore debba effettuare una prestazione (che deve
175
lOMoARcPSD|1004107

corrispondere ad un interesse anche non patrimoniale suscettibile di valutazione


economica) in suo favore. Di tale risultato il debitore risponde “con tutti i suoi beni presenti
e futuri” (art. 2740 c.c.). Perciò l’art. 2910 dispone che “il creditore, per conseguire quanto
gli è dovuto, può far espropriare i beni del debitore secondo le regole stabilite dal c.p.c.”.
Tuttavia bisogna precisare che nel processo di cognizione (nel quale si agisce al fine di
ottenere una decisione di condanna) non si ottiene che il debitore venga immediatamente
espropriato dei suoi beni, ma si consegue solamente un titolo esecutivo, in base al quale si
otterrà nel successivo processo di esecuzione la suddetta espropriazione (se ed in quanto vi
siano beni del debitore ad essa assoggettabili).
L’espressione contenuta nell’art. 2818 c.c. (“condanna all’adempimento”) significa allora
che la tutela in esame è finalizzata a far ottenere al creditore per via giudiziaria (cioè per
mezzo dell’esecuzione forzata) nulla di più e nulla di meno di quello che sostanzialmente gli
sarebbe spettato se fosse stata adempiuta la prestazione: una volta ottenuta la condanna,
l'adempimento è attuabile a prescindere dal concorso della volontà del debitore, ricorrendo
al processo di esecuzione e pertanto all'espropriazione forzata del patrimonio del debitore
inadempiente. Del resto, che la condanna sia preordinata alla forzata soddisfazione per via
giudiziaria del creditore è confermato sempre dall’art. 2818, giacchè suo tipico effetto è il
potere conferito al creditore che l’abbia ottenuta di “iscrivere ipoteca sui beni del debitore”,
cioè una garanzia reale che gli procura un titolo preferenziale rispetto agli altri creditori (c.d.
ipoteca giudiziale.

Inoltre dall'art. 2818 c.c. risulta che si può avere condanna non solo al “pagamento di una
somma”, ma anche “all'adempimento di altra obbligazione”. Il tema in esame è quello delle
esecuzioni forzate c.d. specifiche delle obbligazioni civili, cioè ad esecuzioni che mirano al
conseguimento coattivo esattamente della prestazione oggetto dell'obbligazione
inadempiuta. Nonostante diffuse opinioni contrarie, sembra che le esecuzioni forzate
specifiche di obbligazioni civili siano escluse già dalle norme che, ponendo a sanzione di
tutte le obbligazioni civili la “responsabilità del patrimonio del debitore” (art. 2740),
statuiscono che “i creditori hanno eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore,
salvo le cause legittime di prelazione”, e cioè privilegi, pegno e ipoteche (art. 2741). Infatti,
se un creditore non munito di privilegio, pegno o ipoteca potesse coattivamente sottrarre al
patrimonio del debitore il bene che è oggetto della prestazione dovuta al creditore, lo
176
lOMoARcPSD|1004107

sottrarrebbe pure alla predetta paritaria soddisfazione di tutti i creditori muniti di titolo
esecutivo o privilegiati. In definitiva, si può riassumere che, mentre la condanna al
pagamento di somme assoggetta il debitore all’azione del creditore diretta al coattivo
adempimento, conseguibile attraverso la distribuzione del ricavato della vendita forzata, la
condanna all’adempimento di altra obbligazione civile, pur non attuando in maniera diretta
quell’assoggettamento (in quanto non consente al creditore di ottenere l’esatta prestazione
che era oggetto dell’obbligazione), tuttavia lo prepara, accertando l’inadempimento del
debitore e facendo nascere il conseguente diritto del creditore al risarcimento del danno.
Perciò l’azione satisfattiva nascerà dalla condanna al risarcimento (necessariamente
pecuniario) del danno causato dall’inadempimento.

172.La c.d. condanna in futuro

Colui che si ritiene creditore di un soggetto non può di norma ricorrere immediatamente, se
il debitore si rende inadempiente, agli strumenti processuali dell’esecuzione forzata per
ottenere l’adempimento in via coattiva del suo credito: egli deve prima agire in sede di
cognizione ordinaria per ottenere un provvedimento di condanna e solo successivamente, se
il debitore continua a non adempiere, può rivolgersi al giudice dell’esecuzione facendo
valere il suo titolo esecutivo (rappresentato proprio dal provvedimento di condanna).
Eppure l’art. 2910 c.c. sembra presupporre che il creditore possa agire anche senza
l’inadempimento e anche prima che il credito sia esigibile (cioè che scada il termine per
adempiere stabilito a favore del debitore).

L'esempio più noto di condanna in futuro è rappresentato dalla fattispecie ex art. 657 c.p.c.,
che consente al locatore di promuovere l'azione di rilascio dell'immobile locato (facendo
ricorso al procedimento per convalida di licenza o di sfratto) anche prima che il contratto
di locazione sia scaduto. Ciò gli consentirà di ottenere un titolo esecutivo per il rilascio,
che potrà utilizzare se, alla scadenza della locazione, il conduttore non liberasse
spontaneamente l'immobile. Tuttavia l’art. 2910 non può certamente derogare al principio
secondo cui ogni domanda deve essere basata su di un diritto soggettivo leso o minacciato
177
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(artt. 99 e 100 c.p.c.): in effetti, prima ancora del diritto alla prestazione, il principio della
responsabilità patrimoniale impone al debitore di comportarsi in modo da non diminuire le
probabilità di soddisfazione del creditore, garantite proprio dal suo patrimonio. L’esistenza
di tale dovere (e quindi del corrispondente diritto soggettivo del creditore, distinto da quello
alla prestazione sebbene necessariamente correlato alla sua futura nascita) è comprovata
dalla

178
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previsione di varie tutele “tipiche” concesse dall’ordinamento (ad es. le azioni surrogatoria
e revocatoria). Insomma, anche in mancanza di disposizioni espresse è possibile ammettere,
in armonia con il principio generale dell'interesse ad agire, una condanna all'adempimento
futuro ogniqualvolta l’attore-creditore dimostri che siano messe in discussione la
probabilità e l'aspettativa di soddisfazione del suo diritto.

173.La condanna generica e la sua funzione di tutela anticipata del credito

L'art. 278 c.p.c. consente al giudice, quando sia accertata la sussistenza di un diritto, ma sia
ancora controversa la quantità della prestazione dovuta, di “limitarsi a pronunciare con
sentenza la condanna generica alla prestazione”, disponendo la prosecuzione del giudizio
per la liquidazione. La sentenza (pur non costituendo titolo esecutivo, in quanto manca
l’individuazione del quantum e la condanna al relativo pagamento) costituisce però titolo
idoneo ad iscrivere ipoteca giudiziale. Tale fenomeno si inserisce nella tendenza normativa
a munire il credito di una tutela “anticipata” rispetto alla condanna finale di rinviare la
cognizione sull’esistenza e sull’entità del danno (che è spesso molto complessa) senza
lasciare il creditore privo di ogni tutela. La condanna generica accerta in primis
l’inadempimento di un’obbligazione civile contrattuale. Tuttavia, già sotto la vigenza del
codice civile del 1865, la giurisprudenza aveva esteso l’uso di tale strumento ad un’altra
specie di casi, ad es. consentendo la scissione in due giudizi della controversia instaurata
dal soggetto passivo di un illecito contrattuale: si ammetteva che in un primo giudizio si
accertassero, con condanna generica del responsabile del fatto lesivo, gli elementi
dell’illecito diversi dal danno, e che in un successivo giudizio si conoscesse dell’esistenza o
meno del danno e si provvedesse, se del caso, alla sua liquidazione. Questa soluzione
giurisprudenziale è stata accolta nella legge vigente, che include tra le condanne generiche
che giustificano l’iscrizione di ipoteca giudiziale anche quella che incide sul “risarcimento
dei danni da liquidarsi successivamente” (art. 2818 c.c.). Ovviamente l’efficacia della
condanna generica è sempre condizionata all’esito della successiva fase del giudizio: anche
se è stata iscritta ipoteca giudiziale sulla base di una sentenza di condanna generica, se poi
non vi è condanna al pagamento di un danno esattamente determinato nel suo ammontare
179
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(ad es. perché il fatto illecito non abbia prodotto in concreto alcun danno), non sarà
possibile per il creditore iniziare il processo di esecuzione forzata.
174.La “reintegrazione specifica” ex art. 2058 c.c.
A norma dell'art. 2058 c.c., il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma
specifica, qualora essa sia in tutto o in parte possibile (co. 1°). Tuttavia il giudice può
disporre che il risarcimento del danno avvenga solo per equivalente, qualora la
reintegrazione in forma specifica risulti eccessivamente onerosa per il debitore (co. 2°).
Quindi, secondo la norma citata, dall’illecito nascono due diritti per il danneggiato:

a. l'uno è il credito incondizionato al risarcimento per equivalente


b. l'altro è l'azione per ottenere il costo delle attività necessarie per la
reintegrazione specifica o il recupero dell'utilità diminuita o soppressa
dall'illecito.

Il giudizio, dunque, consta di due fasi distinte: la prima si chiude con una decisione che
determina le attività necessarie alla reintegrazione; la seconda, che comprende il controllo
giudiziario di tali attività, si chiude con la condanna al risarcimento in denaro, commisurato
al costo della reintegrazione. Ciò dimostra l’estraneità di tale tipologia di tutela a quella
esecutiva e la sua inquadrabilità nell’ambito della tutela cognitiva ordinaria: attraverso la
reintegrazione specifica, il danneggiato non ottiene la prestazione per equivalente ovvero la
somma di denaro necessaria ad ottenerla, bensì un titolo che gli consente di rivolgersi al
giudice dell’esecuzione per ottenere la soddisfazione coattiva del suo diritto.

180
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Il modello di cui all’art. 2058 può essere utilizzato anche per dare più soddisfacente
soluzione al problema della tutela dei diritti non patrimoniali, la maggior parte dei quali è
emersa negli ultimi decenni: ad es. diritto alla salute, all’ambiente o all’identità sessuale.
Un contributo all’inquadramento del fenomeno può essere dato se ci si discosta dai principi
della responsabilità aquiliana (nati ed elaborati con prevalente riguardo a danni che
incidono su beni patrimoniali) e si usa l’analogia con la normativa sulla tutela della
proprietà: in questo caso il titolare del diritto può pretendere dall’autore della lesione una
somma che corrisponda al costo delle attività di recupero delle utilità che gli sono state
sottratte.

175.Le clausole penali e le misure coercitive per l'attuazione degli obblighi di fare
infungibile e di non fare

Occorre domandarsi se, come vuole la dottrina tradizionale, possa essere considerata di
condanna non solo la decisione che abbia come scopo concreto l’adempimento (cioè che
rende possibile al creditore ottenere il risultato della prestazione inadempiuta per via di
esecuzione forzata), ma pure la decisione che sia diretta ad ottenere l’esatto adempimento
da parte del debitore di quella obbligazione, non limitandosi ad accertare l’esistenza
dell’obbligazione. Il problema sorge con riferimento alle obbligazioni c.d. infungibili e di
non fare: si pensi al classico del noto pittore, il quale si sia impegnato contrattualmente ad
eseguire un ritratto. Non è chiaramente possibile ottenere in via giudiziale la condanna del
pittore ad eseguire quel ritratto, per cui ci si chiede se il giudice possa piuttosto infliggergli
una diversa sanzione “civile” a carattere preventivo al fine di “spronarlo” all’adempimento.
A tal proposito il codice civile ammette che le parti possano prevedere contrattualmente una
sanzione pecuniaria (c.d. clausola penale), conseguente all'adempimento mancato o non
esatto o non tempestivo, sanzione in tutto o in parte sostitutiva del risarcimento del danno.
In mancanza di una previsione contrattuale, il giudice può infliggere sanzioni della stessa
specie di quelle perseguite dalla clausola penale soltanto se consentite da apposite
disposizione di legge. La legge 69/2009 ha introdotto l'art 614 bis c.p.c. (rubricato
“Misure di coercizione indiretta), il quale prevede che, con il provvedimento di condanna
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all’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro, il giudice fissa, su


richiesta di parte, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, la somma di denaro dovuta
dall'obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo
nell'esecuzione del provvedimento. Il provvedimento di condanna costituisce titolo
esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza. Si tratta
di una misura coercitiva a carattere generale, esclusa solo dalla sua eventuale manifesta
iniquità (ad es. quando il creditore ha un interesse alla prestazione di natura
prevalentemente patrimoniale, che potrebbe trovare soddisfazione anche attraverso il
risarcimento per equivalente). Oltre a tale misura, l'ordinamento aggiunge ipotesi di misure
coercitive settoriali, ad es.:

 la clausola penale a favore di un terzo prevista dall’art. 18 Statuto dei lavoratori (l.
300/1970): il datore di lavoro che non ottempera all'obbligo di reintegrare il
lavoratore illegittimamente licenziato “è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al
pagamento in favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all'importo
della retribuzione dovuta al lavoratore”
 l’art. 124 d.lgs. 30/2005 (c.d. Codice della proprietà industriale) prevede che, con la
sentenza che accerta la violazione di un diritto di proprietà industriale, possono
essere disposti l'inibitoria della fabbricazione, del commercio e dell'uso delle cose
costituenti violazione del diritto e l'ordine di ritiro definitivo dal commercio delle
stesse nei confronti di chi ne sia proprietario o ne abbia comunque la disponibilità.
La norma aggiunge che, “pronunciando l’inibitoria, il giudice può fissare una somma
dovuta per ogni violazione o inosservanza successivamente contestata e per ogni
ritardo nell'esecuzione del provvedimento”
 l’art. 140 d.lgs. 206/2005 (c.d. Codice del consumo) stabilisce che le associazioni dei
consumatori siano legittimate ad agire a tutela degli interessi collettivi dei
consumatori e degli utenti richiedendo al tribunale di inibire gli atti ed i
comportamenti lesivi; di adottare le misure idonee a correggere o limitare gli effetti
dannosi delle violazioni accertate; di ordinare la pubblicazione del provvedimento
su uno più quotidiani. Il tribunale fissa un termine per l'adempimento degli obblighi
stabiliti e dispone, in caso di inadempimento, il pagamento di una somma di denaro
compresa tra 516 e 1032 euro per ogni inadempimento ovvero giorno di ritardo,
182
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rapportata alla gravità del fatto.

176.La tutela costitutiva (di modificazione giuridica sostanziale)

Essa trova fondamento normativo nell'art. 2908 c.c., che stabilisce che, nei soli casi previsti
dalla legge, il giudice possa costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici con effetto
tra le parti, i loro eredi o aventi causa. Perciò le tutele costitutive sono definite tutele
tipiche: è evidente che il legislatore considera la tutela costitutiva una deroga alla normale
funzione di accertamento o di condanna svolta dal giudice, atteso che, nell’ambito dei
rapporti tra privati, l’ingerenza della giurisdizione deve essere limitata ad ipotesi
eccezionali. Quindi, diversamente dalla tutela di mero accertamento (che tende alla
dichiarazione dell’esistenza o meno di un diritto o di un rapporto giuridico) e dalla tutela di
condanna (che mira all’adempimento coattivo del debitore), le tutele costitutive
raggiungono il risultato di creare, modificare o estinguere rapporti giuridici sostanziali. La
tesi tradizionale distingue tra:

a. tutele costitutive necessarie, che hanno per oggetto i diritti sostanziali delle
parti alle modificazioni giuridiche non realizzabili se non attraverso l'opera
del giudice
b. tutele costitutive non necessarie, nel senso che gli effetti attraverso di esse
conseguibili potrebbero essere raggiunti anche fuori dal processo,
indipendentemente dall'opera del giudice, con la conseguenza che il
provvedimento giudiziale soccorre solo quando è mancata l’attuazione
spontanea o vi è stata la violazione di un preesistente diritto alla
modificazione sostanziale ad opera delle parti.

177.Le sentenze costitutive-sanzionatorie

Con le sentenze costitutive-sanzionatorie si esercitano alcuni di quei poteri giurisdizionali


di “costituire, modificare o estinguere” rapporti sostanziali concessi dall’art. 2908 nei soli
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casi previsti dalla legge. Diffuse opinioni attribuiscono ai provvedimenti in esame la


funzione di concorrere a produrre l’effetto dei diritti potestativi, cioè quelle situazioni
giuridiche sostanziali di vantaggio, che consistono nel fatto che dalla manifestazione di
volontà del soggetto che ne è titolare discende automaticamente la produzione di effetti
nella sfera giuridica di un altro soggetto, senza che sia richiesta alcuna “collaborazione” da
parte di quest’ultimo. Poiché per la realizzazione di un diritto potestativo può essere
necessario l’intervento del giudice, quando esso viene fatto valere in giudizio (ad es.
proponendo domanda di annullamento del contratto), secondo tale diffuso orientamento si
avrebbe una decisione costitutiva, in grado di incidere direttamente nella sfera giuridica di
un altro soggetto. Questa tesi dà adito a dubbi: in primo luogo il giudice si limita solamente
alla verifica della situazione antigiuridica, che la parte chiede al giudice di “sanzionare”:
nell’esempio fatto il giudice si limita ad annullare il contratto, ma non stabilisce un diverso
assetto dei rapporti tra le parti che, da quel momento in poi, regolerà la situazione
sostanziale su cui la sentenza ha inciso. Ciò dimostra che gli effetti costitutivi della
decisione giudiziale non derivano dalla realizzazione di un diritto potestativo del soggetto
che ha adito in giudizio. Diversamente opinando, il diritto potestativo sarebbe un inutile
doppione dell’azione spettante al soggetto, che chiede al giudice di sanzionare la violazione
di una situazione non conforme a diritto.
Dunque, alla base delle domande di tutela costitutiva-sanzionatoria vi sono i diritti
sostanziali: non diritti potestativi, ma diritti che nascono dalla violazione di doveri o
obblighi, il cui mancato rispetto è tutelabile in sede giurisdizionale. La tutela in
questione può essere definita come costitutiva-sanzionatoria proprio per questo, perché il
provvedimento del giudice è idoneo a modificare la realtà giuridica preesistente, e siffatta
modificazione interviene con funzione sanzionatoria in quanto una delle parti del rapporto
giuridico che si fa valere in giudizio non ha adempiuto ai doveri od obblighi che da esso
discendevano a suo carico.
Le sentenze costitutive-determinative

Di tali tutele si può parlare quando la modificazione della realtà giuridica sostanziale
disposta dal giudice attraverso la sentenza rappresenta l'alternativa ad un assetto
stragiudiziale rimesso anche alla cooperazione dell'altra parte, che non ha natura di dovere
giuridico. In questi casi la parte che non concorda o le parti che non raggiungono l'accordo
184
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esercitano l'autonomia privata (in particolare quella di non accordarsi). Ma ad una o ad


entrambe le parti (a seconda della struttura e delle funzioni dei rapporti giuridici che
vengono in considerazione) l'ordinamento riconosce un interesse che rimane in questo
modo illegittimamente insoddisfatto, finchè l'assetto oggettivo del nuovo rapporto non sia
compiutamente determinato proprio ricorrendo alla pronunzia costitutiva del giudice: si
pensi alle numerose ipotesi normative in cui i rapporti nascenti da contratti o da atti
unilaterali hanno oggetti che non sono determinati, ma vanno successivamente determinati.
In tali casi la mancata determinazione dell’oggetto ad opera delle parti dà luogo ad
un’incertezza oggettiva sui diritti già validamente costituiti, incertezza che non può essere
rimossa se non affidando al giudice la determinazione dell’oggetto negoziale, non compiuta
dai privati. Gli effetti in esame, comportando modificazioni sostanziali, vanno compresi fra
quelli di cui tratta l’art. 2908 c.c., ma allo stesso tempo tenuti distinti da quelli
integralmente costitutivi, in quanto il rapporto giuridico è già nato tra le parti e non è
prodotto ex novo dal provvedimento del giudice, ma riceve in via giurisdizionale
solamente la determinazione del suo assetto oggettivo.

Dalla norma civilistica che impone di eseguire il contratto secondo buona fede (art. 1375)
discende che le parti hanno l’obbligo non di contrarre, ma di contrattare, cioè di cooperare
in buona fede affinchè si raggiunga una convergenza sostanziale nell’integrazione oggettiva
dell’accordo che esse hanno già concluso. Quando tale cooperazione viene a mancare, la
pronuncia del giudice avrà funzione non solo integrativa del rapporto in questione, ma
anche sanzionatoria dell’obbligo di contrattare che una delle parti ha violato. Per le ragioni
suddette, nella categoria delle tutele costitutive-determinative deve essere inquadrata anche
la pronuncia ex art. 2932 c.c. Tale norma dispone che “se colui che è obbligato a
concludere un contratto non adempie l'obbligazione, l'altra parte, qualora sia possibile e
non sia escluso dal titolo, può ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto
non concluso” (c.d. esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto). Essa
presuppone che tali effetti siano stati individuati e predisposti da un contratto preliminare,
già perfezionato tra le parti, in quanto la pronuncia del giudice non può creare ex novo il
contratto.

CAP. 16: LA FASE INTRODUTTIVA


185
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178.Il processo di cognizione ordinaria quale tutela “normale”

Il processo di ordinaria cognizione (artt. 163 ss.) costituisce il modello generale di tutela
normale del nostro sistema di giustizia civile, cioè quella forma di tutela che, essendo resa
dal giudice nella pienezza di esercizio dei

186
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suoi poteri cognitivi, è destinata a concludersi di norma con una sentenza. In essa è
contenuto l'accertamento pieno ed esauriente sul diritto o rapporto giuridico in
contestazione come dedotto in giudizio di cui parla l’art. 2909 c.c. Perciò si tratta di una
pronuncia attorno alla quale, una volta divenuta incontrovertibile, si forma il
c.d. giudicato sostanziale.

179.Premesse sulla fase introduttiva del giudizio di primo grado

La fase introduttiva del giudizio di 1° grado si articola nella notificazione dell'atto di


citazione e nella costituzione in giudizio delle parti, che avviene attraverso il deposito nella
cancelleria del giudice adito degli atti difensivi iniziali della parte che promuove il
giudizio (attore), della parte che resiste (convenuto) e di eventuali terzi chiamati da attore e
convenuto. A tale fase resta assente il giudice, che entra in scena solo dopo che il
contraddittorio si è instaurato, nella fase della trattazione che ha inizio con l’udienza ex art.
183.

180.L'atto di citazione e il suo contenuto

L'atto di citazione costituisce l'atto d'instaurazione del processo di ordinaria cognizione,


con il quale l'attore formula la domanda giudiziale, chiedendo la tutela giurisdizionale del
diritto o rapporto giuridico sostanziale da lui posto a fondamento della domanda medesima.
La citazione ha due destinatari: il giudice individuato dall’attore come competente secondo
i criteri statici, e la parte convenuta. Per questa ragione la citazione deve contenere, oltre
alla vocatio in ius (cioè la citazione del convenuto a comparire in giudizio dinanzi al
giudice ad un’udienza che lo stesso attore determina), l'editio actionis, cioè gli elementi
oggettivi di individuazione della domanda giudiziale (petitum e causa petendi). Secondo
l'art. 163 i requisiti dell'atto di citazione (cioè i suoi contenuti necessari) sono:

187
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a. l'indicazione del Tribunale davanti al quale la domanda è proposta


b. le generalità dell'attore e del convenuto, nonché delle persone che li
rappresentano o assistono
c. la determinazione della “cosa oggetto della domanda” (petitum) e
l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto che costituiscono le ragioni
della domanda (causa petendi)
d. l'indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali l'attore intende valersi e
dei documenti che offre in comunicazione
e. le generalità del procuratore e l'indicazione della procura
f. l'indicazione del giorno dell'udienza di comparizione, con conseguente invito
al convenuto a costituirsi nel termine di 20 giorni prima dell'udienza indicata
nell'atto.

Nel fissare la data dell'udienza, l'attore deve rispettare il c.d. termine a comparire di cui
all’art. 163 bis, che è lo spazio di tempo minimo stabilito dalla legge che deve intercorrere
dal giorno in cui il convenuto riceve l'atto di citazione al giorno dell'udienza fissata
dall'attore: infatti devono intercorrere termini liberi non minori di 90 giorni, se il luogo
della notificazione si trova in Italia, e di 150, se si trova all’estero. L’importanza dell’atto di
citazione si coglie soprattutto in funzione della completezza delle difese dell’attore, il quale
ha (oltre che il dovere) l’interesse a dedurre compiutamente fin dall’atto di citazione tutti le
ragioni di fatto e di diritto poste a fondamento della domanda, anche per “costringere” il
convenuto a prendere posizione su di esse con analoga completezza sin dal momento della
comparsa di risposta.

188
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181.La notificazione dell'atto di citazione ed i suoi effetti

L'atto di citazione, una volta sottoscritto dal difensore, deve essere, su istanza dell'attore o
del difensore stesso, notificato al convenuto a cura dell'ufficiale giudiziario. Proprio dalla
data di notificazione della citazione decorrono gli effetti sostanziali e processuali della
domanda. Come già anticipato, gli effetti sostanziali della domanda vanno distinti in 2
tipologie:

a. da un lato, vi sono effetti disposti dalla legge per dare maggiore efficienza al
provvedimento di merito e alla sua forza di tutela
b. dall’altro, vi sono effetti disposti in ragione della volontà dell’attore di far
valere il diritto contro il convenuto. In particolare la domanda giudiziale ha
l’effetto di:
i. interrompere la prescrizione
ii. far decorrere gli interessi
iii. rendere gli interessi a loro volta produttivi di interessi (c.d.
anatocismo)
iv. obbligare alla restituzione dei frutti il possessore di buona fede.

Quanto, invece, agli effetti processuali della domanda, dalla data di notificazione della
citazione si determina la litispendenza in senso etimologico e la giurisdizione e della
competenza, che ha riguardo proprio alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al
momento della proposizione della domanda (art. 5).

182.Le nullità e la sanatoria dell'atto di citazione

La mancata, incompleta o erronea formulazione del contenuto dell'atto di citazione può dar
luogo a varie specie di nullità. La disciplina della nullità ed il regime di sanatoria dell'atto
di citazione (art. 164) è ispirata al principio che, dovendo il processo, per quanto possibile,
concludersi sempre con una decisione sul merito, ogni vizio è di norma suscettibile di
189
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essere sanato, sia pure con forme e modalità diverse, così da consentire al processo di
assolvere alla finalità di rendere giustizia sulle richieste di tutela formulate dalle parti.
L'art. 164
c.p.c. opera una distinzione tra vizi processuali e vizi sostanziali della citazione,
prevedendo per ciascuna categoria di vizi un diverso regime di sanatoria.

183.I vizi processuali dell'atto di citazione

Sono processuali i vizi consistenti:

a. nell'omissione o nell'assoluta incertezza dell'individuazione del tribunale adito


e del soggetto convenuto
b. nel mancato rispetto del termine a comparire
c. nell'omissione della data dell'udienza di comparizione o dell'avvertimento
delle decadenze conseguenti alla mancata o tardiva costituzione del
convenuto.

In caso di costituzione del convenuto, i vizi in esame sono sanati e gli effetti processuali e
sostanziali della domanda decorrono fin dalla sua prima notificazione: quindi il processo
può proseguire per la decisione di merito. Tuttavia il convenuto ha sempre la facoltà,
proponendo apposita eccezione al momento della sua costituzione in giudizio, di far valere
l'inosservanza dei termini a comparire o la mancanza dell'avvertimento delle conseguenze
derivanti dalla mancata costituzione, con conseguente necessità di fissare una nuova
udienza nel rispetto del termine a comparire. Se invece il convenuto non si costituisce nei
termini a lui assegnati, il

190
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giudice dispone la rinnovazione della citazione, che deve essere effettuata dall'attore nel
termine perentorio fissato dallo stesso giudice. Se l'attore non provvede alla rinnovazione
entro tale termine, il giudice ordina la cancellazione della causa dal ruolo e il processo si
estingue. In definitiva, potremmo dire che la natura della nullità per vizi processuali varia
da assoluta a relativa a seconda che il convenuto non si costituisca o si costituisca in
giudizio.

184.I vizi sostanziali dell'atto di citazione

L'art. 164 c.p.c. tiene conto del fatto che la citazione è anche destinata a manifestare al
convenuto la volontà di far valere il diritto dedotto in giudizio. Si parla di vizio sostanziale
quando il vizio non solo colpisce la domanda come atto processuale, ma la rende anche
inidonea a manifestare la suddetta volontà, in questo caso gli effetti sostanziali decorrano
solo se e dal momento in cui vi sia stata sanatoria di tale inidoneità. Il co. 4° dell'art. 164
c.p.c. stabilisce che la citazione è nulla non solo se è omessa o risulta assolutamente incerta
l'indicazione della “cosa oggetto della domanda” (cioè il petitum), ma anche se manca
l'esposizione dei fatti che costituiscono le ragioni della domanda (cioè la causa petendi). I
vizi ora descritti sono sostanziali, in quanto rendono l’atto non solo processualmente
invalido, ma anche inidoneo ad individuare il diritto che si vuol far valere in giudizio.
Comunque, ai fini della nullità, è necessario che il petitum sia del tutto omesso o risulti
assolutamente incerto, anche attraverso un esame complessivo dell’atto. Anzi, le Sezioni
Unite hanno precisato che tale nullità può essere dichiarata solo quando l’incertezza
investa l’intero contenuto dell’atto, mentre, allorchè sia possibile individuare una o più
domande sufficientemente identificate nei loro elementi essenziali, l’eventuale difetto di
determinazione di altre domande, comporta l’improponibilità solo di quelle (non la nullità
dell’intera citazione). Se il convenuto non si costituisce, anche tali vizi sono sanabili
attraverso la rinnovazione della citazione, da effettuarsi entro il termine perentorio ordinato
dal giudice. Se il convenuto si costituisce, il giudice, anche d’ufficio, deve fissare all’attore
un termine perentorio per integrare la domanda (a tal uopo è fissata una nuova udienza di
trattazione): a differenza di quanto avviene per i vizi processuali, al giudice va riconosciuto
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un vero e proprio potere-dovere di controllo (anche a prescindere dall’eccezione del


convenuto) circa l’esistenza dei vizi sostanziali, che vanno eliminati proprio in quanto non
consentono neanche al giudice di provvedere sulla richiesta di tutela. Quindi, in caso di
omissione o intempestività della rinnovazione ovvero di mancata integrazione della
citazione, si verificherà l’estinzione del processo. Diversamente, in caso di sanatoria, le
legge prevede che “restano ferme le decadenze maturate e salvi i diritti quesiti
anteriormente alla rinnovazione o alla integrazione”: facciamo riferimento solo agli effetti
sostanziali, mentre gli effetti processuali della domanda si produrranno sin dalla prima
notificazione della citazione nulla, in quanto la sanatoria garantisce l’idoneità dell’atto alle
sue funzioni processuali di vocatio.

185.La costituzione dell'attore

Successivamente alla notificazione dell'atto di citazione, è necessario porre in essere una


seria di attività che, dando ulteriore impulso al processo, da una parte sono dirette a
sottoporre al giudice la controversia e a far compiere all'ufficio di cancelleria gli atti di
preparazione che debbono precedere lo svolgimento della prima udienza e dall’altra a
consentire a ciascuna delle parti di provvedere alla propria costituzione in giudizio. Entro il
termine di 10 giorni dalla notificazione dell'atto di citazione, l'attore ha l'onere di costituirsi
in giudizio (art. 165): la costituzione consiste nel materiale deposito nella cancelleria del
giudice adito della nota d'iscrizione a ruolo e del fascicolo dell'attore, contenente l'originale
dell'atto di citazione notificato, la procura e i documenti offerti in comunicazione.

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186.La costituzione del convenuto, la comparsa di risposta e le preclusioni a carico


del convenuto

Ex art. 166, il convenuto, ricevuta la notificazione della citazione, ha l'onere di costituirsi


almeno 20 giorni prima dell'udienza di comparizione fissata nell'atto di citazione,
depositando in cancelleria la comparsa di risposta, nella quale deve proporre tutte le proprie
difese, prendendo posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda,
indicando i mezzi di prova di cui intende valersi e formulando le conclusioni . Insieme alla
comparsa di risposta, il convenuto deve depositare in cancelleria anche il fascicolo
contenente gli eventuali documenti che offre in comunicazione. Ex art. 167 il termine per la
costituzione del convenuto rappresenta anche il momento in cui maturano a suo carico
importanti preclusioni relative:

a. alla proposizione di domande riconvenzionali


b. alla formulazione di eccezioni in senso stretto
c. alla formulazione dell'istanza di chiamata in causa di terzi
d. alla formulazione dell'eccezione di incompetenza per tutti i criteri
e. alla formulazione dell'eccezione di difetto di giurisdizione nei confronti del
convenuto straniero
f. al disconoscimento delle scritture private menzionate nell'atto e depositate
dall'attore in sede di costituzione.

Decorso il termine di 20 giorni dall'udienza, il convenuto decade dal potere di svolgere


queste attività difensive nell'ulteriore corso del processo.

187.Effetti della costituzione in giudizio

L'art. 170 c.p.c. fa derivare dalla costituzione in giudizio della parte alcuni importanti effetti:

a. tutte le notificazioni e le comunicazioni del processo si fanno al procuratore


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costituito dalla parte, salvo la legge disponga altrimenti


b. le comparse e le memorie consentite dal giudice nel corso del processo si
comunicano mediante deposito in cancelleria oppure mediante notificazione o
mediante scambio documentato con l'apposizione sull'originale del visto della
parte o del procuratore.

188.Tardiva od omessa costituzione delle parti: la contumacia

Può accadere che l’attore o il convenuto (o entrambi) si costituiscano tardivamente o non si


costituiscano affatto. La tardiva od omessa costituzione delle parti è disciplinata dall'art. 171
c.p.c., il quale prevede che:

a. se l'attore si costituisce tempestivamente, il convenuto si può costituire


successivamente fino all'udienza di comparizione, ma in tal caso subisce le
decadenze di cui all’art. 167. Dunque egli potrà solo difendersi contestando le
ragioni dell'attore (c.d. mere difese)
b. se il convenuto si costituisce tempestivamente, l'attore si può costituire anche
successivamente, fino all'udienza, senza che per lui scattino sanzioni
processuali
c. in caso di ritardata costituzione sia dell'attore che del convenuto, il giudice
deve disporre la cancellazione della causa dal ruolo e la parte interessata è
tenuta a riassumere il processo davanti allo stesso giudice nel termine
perentorio di 3 mesi, che decorre dalla scadenza del termine per la
costituzione del convenuto o dalla data del provvedimento di cancellazione.
In caso di mancata riassunzione, il processo si estingue

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d. se la parte (attore o convenuto) non si costituisce fino alla prima udienza, il


giudice, verificata la validità della notificazione dell'atto di citazione, ne
dichiara con ordinanza la contumacia.

189.Iscrizione a ruolo della causa e formazione del fascicolo d’ufficio

All'atto della costituzione dell'attore o, se questi non si è costituito, della costituzione del
convenuto, contestualmente alla consegna della nota d'iscrizione a ruolo al cancelliere,
questi iscrive la causa nel ruolo generale (art. 168). Egli compie così un atto amministrativo
interno che consiste nell'annotazione, sul registro del ruolo generale degli affari contenziosi
civili, degli estremi della causa e, sulla rubrica alfabetica generale, delle generalità delle
parti. Nello stesso tempo il cancelliere forma il fascicolo d'ufficio, nel quale inserisce la
nota di iscrizione a ruolo, copia dell'atto di citazione, delle comparse e delle memorie e,
successivamente, i processi verbali d'udienza e ogni provvedimento del giudice ed infine i
fascicoli di ciascuna parte. Oggi è onere del cancelliere costituire anche il fascicolo
informatico del processo.

CAP. 17: LA FASE DELLA TRATTAZIONE

190.La fase di trattazione, il giudice designato e la direzione del procedimento

Dopo la fase introduttiva del giudizio si apre la fase di trattazione che inizia con l’udienza
di trattazione ex art. 183 e termina con l’udienza di precisazione delle conclusioni, che
traghetta la causa nella successiva fase della decisione. Nel mezzo le parti possono svolgere
attività sia di carattere assertivo (cioè finalizzate alla modificazione o precisazione di
domande, eccezioni e conclusioni) sia di carattere istruttorio (o probatorio in senso
195
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stretto, finalizzate all’ammissione e alla raccolta delle prove costituende). L'organo davanti
al quale si svolge la trattazione è il giudice (giudice istruttore, nei processi che sono decisi
dal tribunale in composizione collegiale; giudice designato nei processi nei quali il
tribunale decide in composizione monocratica). Il codice di procedura civile del 1940
adottò una soluzione compromissoria, assegnando al giudice istruttore la funzione di
istruire e preparare la causa per la decisione e all’organo collegiale (di cui l’istruttore è
componente, quale giudice relatore) quella di decidere la causa ad esso rimessa
dall’istruttore. Da un lato, non si volle rinunciare alla garanzia della collegialità della
decisione, sul presupposto che la sentenza deliberata da 3 giudici assicurasse maggiore
ponderatezza e imparzialità; dall’altro, non potendosi estendere tale garanzia anche alla fase
preparatoria e istruttoria, in ragione degli oggettivi inconvenienti che derivano dalla
raccolta delle prove da parte di un organo collegiale, parve naturale distinguere le fasi
dell’istruzione e della decisione (e gli organi giudiziari dinanzi ai quali ciascuna dovesse
svolgersi). In realtà tale distinzione è incompatibile coi principi chiovendiani di oralità,
immediatezza e concentrazione del processo, dal momento che il contatto tra giudice e parti
deve essere assicurato in funzione della decisione della causa e non della sola preparazione
della stessa. Così tali scelte furono oggetto di forte innovazione da parte del legislatore del
1990 e della riforma attuata col d.lgs. 51/1998: pur senza arrivare alla completa abolizione
dell’organo collegiale, la riforma ha infranto il monopolio di tale organo nella fase di
decisione della causa, introducendo la figura del tribunale in composizione monocratica,
costituita dal giudice in funzione di giudice unico di 1° grado, cui è stata riservata la
decisione di tutte le controversie, salvo quelle espressamente riservate dalla legge al
collegio. Tutto ciò ha accentuato la centralità del giudice. Non a caso l’art. 175 c.p.c.
(rubricato “Direzione del procedimento) assegna al giudice istruttore “tutti i poteri intesi al
più sollecito e leale svolgimento del procedimento”); il co. 2° contempla il potere-dovere
del giudice istruttore di fissare, oltre che le udienze successive, “i termini entro i quali le
parti debbono compiere gli atti processuali”.

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191.Il potere di ordinanza del giudice

Il provvedimento che il giudice è chiamato a pronunciare ai fini dell'esercizio dei suoi


poteri di direzione è rappresentato dall'ordinanza. L'art.177 c.p.c. fissa delle regole
fondamentali che governano il potere di ordinanza del giudice:

a. le ordinanze pronunciate dal giudice designato (o istruttore) non possono mai


pregiudicare la decisione della causa. Infatti l'organo decidente (sia esso lo
stesso giudice designato che l’ha emessa, sia esso il collegio) non è mai
vincolato dal contenuto dell'ordinanza
b. le ordinanze possono sempre essere sempre modificate o revocate dallo stesso
giudice che le ha pronunciate. Tuttavia la normale revocabilità e
modificabilità delle ordinanze trova il proprio limite nel divieto di riaprire
termini già spirati, nonché di vanificare preclusioni già verificatesi a carico di
una o di entrambe le parti
c. non sono modificabili, né revocabili dallo stesso giudice che le ha pronunciate:
i. le ordinanze pronunciate su accordo (preventivo) delle parti su materie
rientranti nella disponibilità delle stesse, salvo vi sia l’accordo di tutte
le parti per la modifica o la revoca
ii. le ordinanze dichiarate espressamente non impugnabili dalla legge (ad
es. l’ordinanza di cancellazione della causa dal ruolo)
iii. le ordinanze per le quali la legge preveda uno speciale mezzo di
reclamo.

L'ordinanza può essere pronunciata in udienza e, ed in questo caso, si ritiene conosciuta


dalle parti presenti e da quelle che dovevano comparirvi (art. 176 co. 2°); ma può anche
essere pronunciata fuori udienza e, in questo caso, deve essere comunicata alle parti a cura
del cancelliere.

192.Designazione del giudice e possibile differimento dell'udienza di trattazione

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Ai sensi dell'art. 168 bis c.p.c., una volta formato il fascicolo d'ufficio, esso è presentato dal
cancelliere al presidente del tribunale, il quale, con decreto scritto in calce alla nota
d'iscrizione a ruolo, da pronunciarsi non oltre il secondo giorno successivo alla costituzione
della parte più diligente, designa il giudice (che è giudice istruttore nelle controversie
sottoposte a riserva di collegialità) ovvero, se il tribunale è diviso in più sezioni, assegna la
causa ad una di esse, onde consentire al suo presidente la designazione del giudice. Il
giudice è investito di tutta l'istruzione della causa e della relazione al collegio. L’art. 174 ne
sancisce l’immutabilità per tutto il corso del grado di giudizio, nel senso che egli può essere
sostituito con decreto del presidente soltanto in caso di assoluto impedimento o di gravi
esigenze di servizio ovvero quando la sostituzione è indispensabile, anche per il
compimento di singoli atti. Subito dopo la designazione del giudice, il cancelliere iscrive la
causa nel ruolo della sezione e su quello del giudice designato, al quale trasmette il
fascicolo.

Lo stesso art. 168 bis al co. 5° attribuisce al giudice istruttore o designato il potere di
differire, con apposito decreto da emettere entro 5 giorni dalla presentazione del fascicolo
d'ufficio, la data della prima udienza indicata dall’attore nella citazione fino ad un massimo
di 45 giorni. Questo potere trae la sua giustificazione dalla necessità che il giudice arrivi
all'udienza di trattazione già informato quantomeno dei termini essenziali della
controversia. In caso di differimento, il convenuto potrà costituirsi tempestivamente anche
nel termine di almeno 20 giorni prima dell’udienza, come differita dal giudice, e svolgere
entro questo nuovo termine le attività prescritte a pena di preclusione. Da non confondersi
col differimento è il semplice spostamento dell’udienza che il cancelliere dispone d’ufficio
ex art. 168 bis co. 4° allorchè la data della vocatio in jus fissata dall’attore non coincide col
giorno di udienza del giudice: questo, infatti, non comporta alcuno spostamento della data
di tempestiva costituzione del convenuto.

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193.L'udienza di trattazione. La comparizione delle parti

L'udienza di trattazione della causa è la prima udienza in senso cronologico del processo di
ordinaria cognizione. Il complesso delle attività da svolgersi nell'udienza di trattazione è
disciplinato dall'art. 183 c.p.c., significativamente modificato dalle riforme processuali del
2005. Prima di tali riforme, la fase introduttiva del giudizio si articolava intorno a 2
successive, ma distinte udienze:

a. l’udienza di prima comparizione, detta anche udienza preliminare, perché


destinata alle c.d. verifiche preliminari
b. l’udienza di trattazione, destinata alle successive attività di carattere assertivo.

L’udienza preliminare, però, non aveva dato i risultati sperati dal legislatore (cioè di
sgombrare prima possibile il campo da questioni di carattere preliminare che potessero
impedire il proseguimento del processo), data la diffusa tendenza della prassi a rimandare a
fasi successive del processo di 1° grado lo svolgimento delle verifiche preliminari. A
seguito della riforma del 2005 le verifiche preliminari devono essere compiute all’inizio
dell’udienza di trattazione, prima di procedere alla fase della trattazione vera e propria.

Il legislatore attribuisce particolare importanza alla comparizione delle parti (qui da riferirsi
ai difensori) all’udienza di trattazione: l’art. 181 prevede che se nessuna delle parti compare
alla prima udienza il giudice fissa un’udienza successiva, di cui il cancelliere dà
comunicazione alle parti costituite. Se nessuna delle parti compare anche alla nuova
udienza, il giudice ordina che la causa sia cancellata dal ruolo e dichiara l’estinzione del
processo.

194.Le verifiche preliminari

All'inizio dell'udienza di trattazione, il giudice designato (o istruttore) è tenuto a svolgere


una serie di verifiche preliminari:

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a. la verifica della regolarità del contraddittorio, che può sfociare


nell’emanazione dell’ordine di integrazione del contraddittorio nel caso in vi
siano litisconsorti necessari pretermessi
b. la verifica della validità della citazione e della comparsa di risposta del
convenuto contenente domanda riconvenzionale del convenuto, che può
sfociare nell'ordine di rinnovazione o di integrazione della citazione o della
domanda riconvenzionale
c. la verifica della regolarità della costituzione delle parti, della
rappresentanza, assistenza o autorizzazione, che può sfociare nella
pronuncia dei provvedimenti ex art. 182
d. la verifica della costituzione delle parti, che può sfociare nella pronuncia della
contumacia
e. la verifica dell'inosservanza delle disposizioni relative alla ripartizione tra
sede principale e sezione distaccata del tribunale o tra sezioni distaccate. Tale
disposizione, seppur ancora presente nel codice, è stata in sostanza superata a
seguito del d.lgs. 155/2012, che ha disposto la soppressione delle sezioni
distaccate di tribunale.

Svolte le verifiche preliminari, se occorre adottare uno dei provvedimenti suddetti, il


giudice dovrà fissare una nuova udienza di trattazione, nella quale verificare l’effettivo
compimento della attività disposte all’esito delle verifiche preliminari.

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195.L'interrogatorio libero delle parti ed il tentativo di conciliazione giudiziale

Successivamente alle verifiche preliminari può svolgersi l’interrogatorio libero delle parti,
che è comunque attività solo eventuale. Nel testo dell'art. 183 c.p.c. precedente le riforme
del 2005 l'interrogatorio libero delle parti poteva considerarsi come un passaggio obbligato
della trattazione della causa, in quanto finalizzato sia all'acquisizione di “argomenti di
prova” sia all'eventuale conciliazione delle parti ad opera del giudice. Nella pratica
l’interrogatorio libero ha avuto però scarsa fortuna, vuoi per la ritrosia delle parti (e dei loro
difensori) a rendere liberamente dichiarazioni dinanzi al giudice al di fuori di un filtro
“tecnico”, vuoi perché questo strumento presuppone da parte del giudice una conoscenza
dei termini almeno essenziali della lite, conoscenza che non tutti i giudici acquisiscono
prima dell’udienza.

Per queste ragioni nel nuovo testo il legislatore del 2005 ha stabilito che, nel corso della
fase di trattazione, all'interrogatorio libero si deve ricorrere soltanto in caso di richiesta
congiunta delle parti, salvo che il giudice non decida di disporlo in virtù del potere generale
a lui riconosciuto in tal senso dall'art. 117 c.p.c. In tutti i casi in cui dispone l'interrogatorio
libero, il giudice deve fissare una apposita udienza di trattazione, al fine di consentire la
comparizione personale delle parti per renderlo. In sede di interrogatorio libero il giudice
potrà tentare di conciliare le parti: se ciò accade, si forma processo verbale della
convenzione conclusa tra le parti, che costituisce titolo esecutivo (si avrà così una
conciliazione giudiziale). Inoltre il giudice, alla prima udienza, ove possibile formula alle
parti, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all’esistenza di
questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa. Ex
art. 185, quando è disposta la comparizione personale delle parti al fine di rendere
l’interrogatorio libero, esse hanno facoltà di farsi rappresentare da un procuratore generale
o speciale, il quale deve essere a conoscenza dei fatti della causa. La procura deve essere
conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata e deve attribuire al procuratore il
potere di conciliare o transigere la controversia.

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196.La richiesta di chiarimenti alle parti e l'obbligatoria indicazione delle questioni


rilevabili d'ufficio

A prescindere dal fatto che si svolga o meno l’interrogatorio libero, l'art. 183 co. 4°
attribuisce al giudice (istruttore o designato) il potere di chiedere alle parti i chiarimenti
necessari “sulla base dei fatti allegati”, nonché di indicare loro le questioni rilevabili
d'ufficio sulle quali ritiene opportuna la trattazione. Ad es. sono rilevabili d'ufficio le
questioni inerenti:

a. il difetto di giurisdizione e di competenza per materia, per valore o per


territorio inderogabile
b. il possibile difetto di una delle condizioni dell’azione (interesse ad agire,
capacità di agire, legittimazione ad agire)
c. la possibile nullità degli atti introduttivi.

Si tratta di poteri che il giudice esercita non tanto perché titolare del più generale potere di
direzione del dibattimento, quanto perché chiamato (col solo, ma imprescindibile divieto di
farsi “inquisitore”) a procurarsi gli strumenti per il pieno esercizio del potere officioso di
decidere sul fondamento delle domande proposte. Non può considerarsi estraneo a questa
scelta di garanzia operata dal legislatore l’orientamento della Cassazione che sanziona con
la nullità la decisione che si fonda su una questione rilevata d’ufficio e non sottoposta dal
giudice al preventivo contraddittorio tra le parti. Tale orientamento è alla base della scelta
di introdurre il co. 2° dell’art. 101, in base al quale, se ritiene di porre a fondamento della
decisione una questione rilevata d’ufficio, sulla quale non si sia precedentemente svolto il
contraddittorio tra le parti, prima di decidere il giudice deve assegnare alle parti, a pena di
nullità della sentenza, un termine compreso tra 20 e 40 giorni dalla comunicazione per il
deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione.

202
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197.La definitiva formazione del thema decidendum e del thema probandum

Si apre a questo punto la fase dell'udienza di trattazione dedicata alla definitiva formazione
del thema decidendum e del thema probandum, cioè delle domande, eccezioni e
conclusioni, nonché delle richieste istruttorie delle parti (art. 183 co. 5°-8°). Ovviamente,
per esigenze logiche ancor prima che processuali, la definitiva fissazione del thema
decidendum (cioè dell’oggetto sostanziale del processo) deve precedere la definitiva
fissazione del thema probandum (cioè dei mezzi di prova di cui ciascuna parte intende
avvalersi). Evidentemente tale momento rappresenta il cuore dell'udienza di trattazione e
reca un definito programma di “preclusioni”, voluto dal legislatore degli anni ’90.

Ai sensi del co. 5° dell'art. 183 c.p.c., nel corso dell’udienza di trattazione l'attore può
proporre nuove domande ed eccezioni che siano conseguenza delle difese svolte dal
convenuto nella comparsa di risposta (attività difensive c.d. consequenziali). Tra queste
domande vanno ricomprese sicuramente la c.d. reconventio reconventionis (cioè la
domanda riconvenzionale che trae titolo dalla riconvenzionale ovvero dall'eccezione del
convenuto), ma anche la domanda di accertamento incidentale ex art. 34 c.p.c. Poiché il
successivo co. 6° non menziona tra le attività difensive che possono essere svolte nelle 3
memorie autorizzate dal giudice appunto quelle c.d. consequenziali alle difese del
convenuto, si ritiene che queste ultime debbano essere svolte dall’attore direttamente nel
corso dell’udienza (e non anche con le suddette memorie). Al contrario, le attività di
precisazione e di modificazione delle domande, eccezioni e conclusioni possono essere
svolte sia nel corso dell’udienza che nelle successive 3 memorie difensive. Infatti, a
conclusione dell'udienza di trattazione, il giudice, se richiesto anche da una sola delle parti,
fissa 3 termini perentori per il deposito in cancelleria di altrettante memorie:

a. un termine di 30 giorni per il deposito di memorie limitate alle sole


precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle
conclusioni già in precedenza proposte
b. un termine di ulteriori 30 giorni per replicare alle domande ed eccezioni
nuove o modificate dall'altra parte, per proporre le eccezioni che sono
conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime e per l'indicazione
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dei mezzi di prova diretta costituendi e produzioni documentali


c. un termine di ulteriori 20 giorni per le sole indicazioni di prova contraria.

Alla scadenza di quest'ultimo termine sia il thema decidendum che il thema probandum
saranno definitivamente fissati e (salva l’eventuale concessione da parte del giudice della
rimessione in termini per causa non imputabile) non potranno più essere oggetto di
ampliamento. Analizziamo più precisamente le difese che le parti possono formulare nelle
suddette memorie:

d. attraverso la precisazione, le parti si limitano a rendere più puntuali le difese


già svolte, anche con l'indicazione di nuovi fatti secondari, ma senza che ciò
possa comportare mutamento degli elementi oggettivi d'individuazione della
domanda
e. la modificazione va riferita a mutamenti di elementi di identificazione della
domanda originaria (cioè della causa petendi e del petitum immediato) che
non comportino mutamento del petitum mediato (cioè una diversa “cosa
oggetto della domanda”)
f. per quanto attiene ai nuovi mezzi di prova, nell'udienza di trattazione e nelle
successive memorie le parti, oltre a ribadire le richieste già formulate nei
rispettivi atti introduttivi, possono depositare nuovi documenti ed articolare
nuovi mezzi di prova, tenendo conto dei risultati dell’eventuale dibattito
orale.

198.Il passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione. Rinvio

Il d.l. 132/2014 (conv. in l. 162/2014) ha inserito nel codice l’art. 183 bis, il quale dispone
che “nelle cause in cui

204
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il tribunale giudica in composizione monocratica, il giudice, nell'udienza di trattazione,


valutata la complessità della lite e dell'istruzione probatoria, può disporre con ordinanza
non impugnabile, previo contraddittorio anche mediante trattazione scritta, che si proceda a
norma dell'art. 702 ter e invita le parti ad indicare, a pena di decadenza, nella stessa
udienza i mezzi di prova, ivi compresi i documenti, di cui intendono avvalersi e la relativa
prova contraria. Se richiesto, il giudice può fissare una nuova udienza e un termine
perentorio non superiore a 15 giorni per l'indicazione dei mezzi di prova e produzioni
documentali e un termine perentorio di ulteriori 10 giorni per le sole indicazioni di prova
contraria”. Il procedimento richiamato (quello disciplinato dagli artt. 702 bis ss.) è un
processo “semplificato” di cognizione speciale, alternativo al processo a cognizione piena e
idoneo ad impartire identica tutela. In sostanza il legislatore del 2014, con la norma citata,
ha reso bilaterale la possibilità del mutamento del rito ad opera del giudice, ammettendo
che quest’ultimo possa disporre il passaggio al rito sommario, se ritiene che la causa non
sia particolarmente complessa. Tuttavia non sembra potersi condividere la previsione che
consente al giudice di invitare la parti ad indicare (peraltro a pena di decadenza) i mezzi di
prova, ivi compresi i documenti, di cui intendono avvalersi e la relativa prova contraria,
nella stessa udienza di trattazione. Difatti, nel corso dell’udienza di trattazione, i difensori
potrebbero non avere ancora stabilito quali documenti sia opportuno depositare e quali
prove sia necessario richiedere (atteso che a tali attività è di regola destinata la seconda
memoria ex art. 183 co. 6°). Pertanto un’applicazione rigorosa della norma all’esame
potrebbe tradursi in una lesione del diritto di difesa: perciò il verbo “può” usato dalla norma
va piuttosto interpretato nel senso di “deve”.

199.L'ordinanza di ammissione delle prove costituende. Il calendario del processo

Se nessuna delle parti chiede la fissazione dei termini ex art. 183 e sempre che non venga
disposto il mutamento di rito ex art. 183 bis, al giudice non resta che fissare l'udienza per la
precisazione delle conclusioni. Al contrario, una volta decorsi i termini fissati su richiesta
di parte per il deposito delle tre memorie, il giudice deve emanare un'ordinanza fuori
udienza con la quale:
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a. ammette tutti o alcuni mezzi di prova costituendi richiesti dalle parti (sempre
che li ritenga ammissibili e rilevanti) e fissa al contempo l’udienza per
l’assunzione degli stessi
b. rigetta tutte le richieste istruttorie formulate dalle parti (perché inammissibili
o non rilevanti) e fissa l’udienza di precisazione della conclusioni
c. fissa l'udienza di precisazione delle conclusioni in assenza di richieste
istruttorie delle parti o quando ritiene che la causa sia già matura per la
decisione
d. fissa l'udienza di precisazione delle conclusioni, allorchè ritiene di rimettere
la causa in decisione per la soluzione di una questione (di rito o di merito)
avente carattere assorbente, cioè tale da definire il giudizio
e. dispone mezzi di prova d'uffici, ad es. l’ispezione di persone e cose o l’ordine
di esibizione, nelle controversie dinanzi al tribunale in composizione
monocratica. In tal caso il giudice, ai sensi dell’art. 183 co. 8°, non fissa
subito l’udienza per l’assunzione dei mezzi di prova ammessi, in quanto deve
preventivamente assegnare un termine perentorio entro il quale ciascuna parte
può dedurre i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione ai mezzi di
prova disposti d’ufficio, nonché un successivo termine perentorio per la
replica. Solo quando sia decorso anche questo doppio termine, il giudice potrà
provvedere, con ordinanza formulata fuori udienza, sia sulle originarie
richieste istruttorie delle parti, sia su quelle formulate in conseguenza
dell’ammissione dei mezzi di prova disposti d’ufficio.

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200.Le modalità ed i termini dell'intervento in causa di terzi. I poteri processuali


del terzo interventore

Esaminiamo adesso le modalità e i termini dei diversi tipi di intervento, nonché i poteri
processuali che la legge riconosce all’interventore:

a. Per quanto riguarda l'intervento volontario ex art. 105 c.p.c., l’art. 268 co. 1°
dispone che l'intervento del terzo possa aver luogo “sino a che non vengano
precisate le conclusioni”, cioè fino all'udienza di precisazione delle
conclusioni. Per intervenire, il terzo deve costituirsi in giudizio, presentando
in udienza ovvero depositando in cancelleria (o costituendosi
telematicamente) una comparsa formata a norma dell’art. 167 con le copie per
le altri parti, i documenti e la procura. Quanto agli atti che il terzo
interventore può compiere, l'art. 268 co. 2° prescrive che esso non possa
compiere “atti che al momento dell'intervento non sono più consentiti ad
alcuna altra parte”, fatta eccezione per l'ipotesi in cui il terzo compaia
volontariamente per l'integrazione necessaria del contraddittorio. In sostanza,
per il terzo che interviene ai sensi dell’art. 105 la norma prevede preclusioni
identiche a quelle già maturate a carico delle parti: perciò, per il terzo, la
decisione di intervenire dovrà comportare la previa valutazione dello stato
della causa, e in particolare della compatibilità delle preclusioni già maturate
con la posizione che egli intende assumere in causa. La giurisprudenza ha
precisato che la preclusione sancita dall’art. 268, pur non estendendosi
all’attività assertiva dell’interventore volontario (nei cui confronti, quindi,
non opera il divieto di proporre domande nuove e autonome in sede al
procedimento fino all’udienza di precisazione delle conclusioni), tuttavia fa
sorgere l’obbligo per l’interventore di accettare le preclusioni istruttorie già
verificatesi per le parti originaria: in pratica l’interventore può formulare
domande, ma potrebbe trovarsi nell’impossibilità di provarle.
b. Per quanto riguarda l'intervento coatto (su istanza di parte o per ordine del
giudice) ex artt. 106 e 107, va detto che l’ipotesi di gran lunga più frequente è
quella in cui la chiamata venga fatta dal convenuto all’atto della tempestiva
207
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costituzione in giudizio. Così l’art. 269 c.p.c. prevede che il convenuto che
intenda chiamare un terzo in causa deve, a pena di decadenza, farne
dichiarazione nella comparsa di risposta e contestualmente chiedere al giudice
istruttore lo spostamento della prima udienza, allo scopo di consentire la
citazione del terzo. Diversamente, se a seguito delle difese svolte dal
convenuto nella comparsa di risposta sia sorto l'interesse dell'attore a
chiamare in causa un terzo, è l'attore che ha l’onere, a pena di decadenza, di
chiedere l'autorizzazione al giudice istruttore nella prima udienza (si tratta di
una tipica attività difensiva consequenziale). Se l’autorizzazione viene
concessa dal giudice, egli fissa una nuova udienza allo scopo di consentire la
citazione del terzo. Infine, ai sensi dell'art. 270, l'intervento del terzo per
ordine del giudice può essere da quest'ultimo ordinata in ogni momento per
un'udienza che all'uopo egli fissa. Se nessuna delle parti provvede alla
citazione del terzo, il giudice dispone con ordinanza non impugnabile la
cancellazione della causa dal ruolo, con la conseguenza che, se nessuna delle
parti la riassume entro 3 mesi, il processo si estingue. La parte che chiama in
causa il terzo deve redigere un vero e proprio atto di citazione per chiamata
del terzo contenente tutti i requisiti ex art. 163 e depositare la citazione entro
il termine di 10 giorni dalla notificazione, mentre il terzo deve costituirsi
entro lo stesso termine che l’art. 166 fissa a carico del convenuto (cioè
almeno 20 giorni prima di tale udienza).

201.L’espletamento delle prove ammesse. Rinvio

I mezzi di prova ammessi dal giudice con l’ordinanza di cui all’art. 183 co. 7° sono assunti
all’udienza fissata nella stessa ordinanza.

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202.I provvedimenti di riunione di cause ex artt. 273 e 274 c.p.c.

Nel corso della fase di trattazione il giudice pronuncia i provvedimenti di riunione di cause
ex artt. 273 e 274 c.p.c.:

a. nell’ipotesi di contemporanea pendenza dinanzi allo stesso giudice (da


intendersi come stesso ufficio giudiziario) di “più procedimenti relativi alla
stessa causa”, l’art. 273 dispone che essi, anche d’ufficio, vengano riuniti . Si
tratta di ipotesi di riunione obbligatoria e perciò la legge attribuisce al giudice
o al presidente della sezione (nel caso in cui l’ufficio sia strutturato in più
sezioni) un vero e proprio potere- dovere, da esercitare anche in via officiosa
sulla base della sola “notizia” della pendenza di altro procedimento relativo
alla stessa causa. Questa va riferita al presidente del tribunale (o della
sezione), il quale, sentite le parti, ordina con decreto la riunione, individuando
la sezione o designando il giudice istruttore davanti al quale il procedimento
deve proseguire
b. nella diversa ipotesi di contemporanea pendenza davanti allo stesso giudice di
cause tra loro legate da rapporto di connessione, l’art. 274 attribuisce al
giudice un mero potere discrezionale di disporre la riunione, pur se
esercitabile anche d’ufficio.

La riunione delle cause non incide sull’autonomia sostanziale delle singole cause riunite,
anche se determina la loro prosecuzione nello stesso processo (simultaneus processus). I
provvedimenti che decidono sulla riunione delle cause sono atti processuali di carattere
meramente preparatorio e insindacabili in sede di gravame.

CAP. 18: LA FASE DELLA DECISIONE

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203.Le tre ipotesi di rimessione della causa in decisione. L'udienza di precisazione


delle conclusioni

Esaurita la trattazione della causa ed assunte le prove eventualmente ammesse dal giudice,
si passa alla fase della decisione. Gli artt. 187 ss. c.p.c. contengono la disciplina della
rimessione della causa dal giudice designato (o istruttore) all'organo decidente, cioè del
passaggio della causa dalla fase di trattazione a quella di decisione (oggi di norma riservata
al tribunale in composizione monocratica). Tale disciplina era stata in origine concepita in
funzione della necessaria diversità (seppur parziale) dell’organo che decideva rispetto a
quello che istruiva la causa, e in particolare della possibilità di consentire la c.d.
ambulatorietà della causa dal giudice istruttore al collegio e viceversa, in conseguenza della
(possibile) diversa valutazione dei due organi circa la pronuncia di provvedimenti ostativi
all’ulteriore svolgimento del processo. Oggi, a seguito dell’introduzione del tribunale in
composizione monocratica, salvi i casi di controversie riservate alla decisione del tribunale
in composizione collegiale, il giudice designato si limita semplicemente a rimettere la causa
in decisione davanti a se stesso. Ciò avviene in 3 casi:

a. rimessione immediata in decisione della causa ritenuta matura per la


decisione, senza bisogno di assunzione di mezzi di prova (art. 187 co. 1°).
Tale ipotesi si realizza quando il giudice ritiene che la causa possa subito
essere decisa, o sulla base delle sole prove documentali depositate dalle parti
ed acquisite al processo o perché i fatti non sono contestati tra le parti e non vi
è necessità di ammettere alcun mezzo di prova. Questa rimessione può essere
disposta solo dopo che siano già maturate le preclusioni ex art. 183, e quindi
siano stati definitivamente fissati il thema decidendum ed il thema probandum
b. rimessione della causa in decisione per la presenza di una questione di rito o di
merito avente carattere

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assorbente (art. 187 co. 2° e 3°). Se il giudice designato (o istruttore) ritiene che una
questione preliminare o pregiudiziale, riguardante l'idoneità del processo a pervenire
alla decisione di merito ovvero concernente il merito, sia idonea a condurre alla
definizione del processo, egli rimette la causa in decisione. Se al contrario la portata
assorbente della questione è stata esclusa, il giudice non provvede all'immediata
rimessione in decisione e dispone che la questione sia decisa “unitamente al merito”,
con la conseguenza che il processo proseguirà nel suo normale iter
c. rimessione della causa in decisione dopo l'esaurimento della fase istruttoria
(art. 188). Si tratta dell’ipotesi "normale" di rimessione in decisione, cioè
quella che segue l'assunzione dei mezzi di prova richiesti dalle parti o
ammessi d'ufficio.

In tutte le ipotesi di rimessione della causa in decisione, il giudice deve fissare apposita
udienza, invitando le parti a precisare le conclusioni da sottoporre all'organo decidente,
ovviamente ex art. 189 “nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o a norma
dell'art. 183”. Infatti il regime di preclusioni ex art. 183, imponendo alle parti di fissare
definitivamente all’udienza relativa (o nelle memorie scritte che ne rappresentano una sorta
di appendice) il contenuto delle domande ed eccezioni, rende non più modificabili dopo
quell’udienza le conclusioni che le parti hanno formulato. Se all'udienza fissata per la
precisazione delle conclusioni, le parti non provvedono a tale incombente, s'intendono
richiamate le conclusioni contenute nei precedenti scritti difensivi, tenendo conto che la
mancata riproposizione in tale sede di domande o eccezioni in precedenza formulate può
implicare una presunzione di abbandono o di rinuncia alle stesse. Inoltre, la parte che si sia
vista rigettare dal giudice di 1° grado le proprie richieste istruttorie ha l’onere di reiterarle al
momento della precisazione delle conclusioni, poiché in caso contrario le stesse dovranno
ritenersi abbandonante e non potranno essere riproposte in appello. Al termine dell'udienza
di precisazione delle conclusioni, il giudice fissa il termine perentorio di 60 giorni (o un
termine più breve, comunque non inferiore a 20 giorni) per il deposito delle comparse
conclusionali e di ulteriori 20 giorni per il deposito delle memorie di replica. Si tratta di atti
scritti conclusivi con i quali le parti semplicemente riepilogano e discutono le questioni di
fatto e di diritto concernenti la controversia, senza alcuna possibilità di allargare il thema
decidendum e il thema probandum
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204.La riserva di collegialità

A seguito dell’introduzione del tribunale monocratico, al giudice singolo che ha diretto la


fase di trattazione della causa sono attribuiti di norma i poteri di decisione della stessa. Solo
talune tipologie di controversie (previste dall’art. 50 bis) opera la c.d. riserva di
collegialità, nel senso che i poteri di decisioni sono attribuiti ancora al tribunale in
composizione collegiale. Esse sono:

a. le cause nelle quali è obbligatorio l'intervento del p.m., salvo che sia altrimenti
disposto
b. alcune cause in materia fallimentare
c. le cause devolute alle sezioni specializzate
d. le cause di impugnazione delle deliberazioni dell'assemblea e del consiglio di
amministrazione, nonché le cause di responsabilità da chiunque promosse
contro gli organi amministrativi e di controllo, i direttori generali, i dirigenti
preposti alla redazione di documenti contabili societari e i liquidatori delle
società, delle mutue assicuratrici e società cooperative, delle associazioni in
partecipazione e dei consorzi
e. le cause di impugnazione dei testamenti e di riduzione per lesione di legittima
f. le cause per responsabilità civile dei magistrati
g. i procedimenti in camera di consiglio, salvo che sia altrimenti disposto
h. le cause di “classe”.

Tale elencazione ha carattere tassativo, come si desume dal successivo art. 50 ter,
secondo il quale, fuori dei casi previsti dall’art. precedente, “il tribunale giudica in
composizione monocratica”. Dal canto suo, l’art. 50

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quater chiarisce che le disposizioni relative alla composizione collegiale o monocratica del
tribunale “non si considerano attinenti alla costituzione del giudice”. Perciò la loro
violazione non dà luogo ad una nullità assoluta, ma solo relativa: non a caso la stessa norma
aggiunge che alla nullità derivante dall’inosservanza delle dette disposizioni “si applica
l'art. 161”, cioè il principio di assorbimento delle nullità nei motivi di impugnazione.

205.Rapporti tra collegio e giudice monocratico

Il capo III-ter del libro secondo del codice di procedura civile, introdotto dal d.lgs. 51/1998,
regola l'ipotesi in cui una causa che deve essere decisa dal tribunale in composizione
monocratica, sia invece rimessa per la decisione al collegio, nonché il caso inverso. Gli artt.
281 septies e 281 octies prevedono la possibilità che ciascuno dei due organi rimetta con
ordinanza all'altro la decisione della causa ad esso riservata: tale ordinanza è espressamente
definita “non impugnabile” solo se pronunciata dal collegio. Nell'ipotesi inversa, invece,
nessun effetto vincolante è prodotto dall'ordinanza di rimessione pronunciata dal giudice
istruttore, con la conseguenza che la causa (su richiesta di parte o anche d’ufficio) può, in
caso di dissenso, essere nuovamente (e definitivamente) rimessa dal collegio al giudice
monocratico per la decisione.

L’art. 281 octies prevede che, in caso di rimessione della causa al collegio da parte del
giudice monocratico, quest’ultimo “provvede a norma degli artt. 187, 188 e 189”. Occorre
in proposito chiarire quali attività devono ulteriormente compiersi dinanzi al collegio e se
quelle che le parti hanno già posto in essere prima della rimessione in decisione
(precisazione delle conclusioni e scambio delle comparse conclusionali e di replica)
debbano essere reiterate ovvero se il collegio possa direttamente provvedere alla decisione.
Poiché in tale ipotesi le parti hanno precisato le conclusioni “che intendono sottoporre al
collegio” (art. 189), sul presupposto che la causa sarebbe stata ad esso destinata, si deve
ritenere che il giudice monocratico debba invitare le parti a precisare davanti a lui le
conclusioni da sottoporre all’organo collegiale.

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Infine l’art. 281 nonies disciplina l’ipotesi di connessione tra cause riservate alla decisione
del tribunale in composizione collegiale e cause che debbono essere decise dal tribunale in
composizione monocratica. In tal caso il giudice istruttore “ne ordina la riunione” e all’esito
dell’istruttoria le rimette al collegio, il quale pronuncia la decisione su tutte le domande.
Resta fermo il potere del collegio di separare, in sede di decisione, le cause connesse,
decidendo quelle riservate alla decisione del tribunale in composizione collegiale e
rimettendo le altre alla decisione del tribunale in composizione monocratica.

206.La fase di decisione della causa davanti al tribunale in composizione collegiale

Una volta che la causa sia rimessa in decisione davanti al collegio, la sentenza è depositata
in cancelleria nel termine (che la giurisprudenza considera ordinatorio) di 60 giorni. Le
parti di norma non devono comparire dinanzi all'organo decidente, salvo che una di esse
non ritenga, sulla base delle proprie valutazioni e convenienze, di esercitare il potere di
chiedere che la causa sia discussa oralmente davanti a detto organo: in quest'ultimo caso,
nel corso dell'udienza collegiale, il giudice istruttore fa la relazione orale della causa,
esaurita la quale il presidente ammette le parti alla discussione orale; la sentenza viene
depositata nei 60 giorni successivi all' udienza in questione. I giudici che deliberano la
sentenza devono essere gli stessi dinanzi ai quali sono state precisate le conclusioni, sotto
pena di nullità della sentenza. La decisione viene deliberata “in segreto nella camera di
consiglio” (art. 276), seguendo un ordine logico di decisione delle questioni che dà priorità
alle questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d'ufficio rispetto al merito della
causa. La legge non prevede, invece, un ordine di decisione nell’ambito delle stesse
questioni pregiudiziali: è però evidente, dal punto di vista logico, che debbano essere decise
innanzitutto le questioni preliminari attinenti all’idoneità del

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processo a condurre alla decisione di merito. Peraltro si sta affermando il principio di diritto
vivente della “ragione più liquida”, che la giurisprudenza desume dagli artt. 24 e 111 Cost.,
in base al quale viene consentito al giudice di esaminare un motivo di merito, suscettibile di
assicurare la definizione del giudizio, anche in presenza di una questione pregiudiziale
(dunque a prescindere dall’ordine logico delle questioni), sulla base di un criterio
“economico” di risparmio di energie processuali.

207.La fase di decisione della causa davanti al tribunale in composizione


monocratica

In ragione del rinvio contenuto nell’art. 281 bis, le norme che regolano il procedimento
davanti al tribunale monocratico sono, in quanto applicabili, le medesime “disposizioni dei
capi precedenti”, cioè quelle che disciplinano il procedimento davanti al tribunale in
composizione collegiale. Può ricorrere una triplice modalità decisoria dinanzi all'organo
monocratico:1

a. Trattazione scritta => l’art. 281 quinquies prevede che il giudice, dopo aver
fatto precisare le conclusioni a norma dell’art. 189, dispone lo scambio delle
comparse conclusionali e delle memorie di replica a norma dell’art. 190, con
le stesse modalità previste per la decisione del tribunale in composizione
collegiale. Tuttavia il termine per il deposito della sentenza è di 30 (e non
60) giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica
b. Trattazione mista => si verifica quando una delle parti faccia richiesta di
discussione orale della causa. In tal caso il giudice, disposto lo scambio delle
sole comparse conclusionali, fissa l'udienza di discussione orale non oltre 30
giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle comparse medesime. La
sentenza è depositata entro i 30 giorni successivi all'udienza di discussione
c. Trattazione orale => (art. 281 sexies), la relativa scelta è operata dal giudice
dopo che le parti hanno precisato le rispettive conclusioni ex art. 189. La
discussione orale può aver luogo nella stessa udienza nella quale le parti
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hanno precisato le conclusioni ovvero, su istanza di parte, in un'udienza


successiva. Al termine della discussione, il giudice dà lettura del dispositivo e
della “concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”.
Quest’ultima modalità di decisione costituisce tipica espressione
dell’esigenza di accelerazione che governa il modello semplificato di
decisione della causa, in quanto, senza frazionare l’atto finale, nella stessa
udienza il giudice dà contestuale lettura sia del dispositivo che della
motivazione e la sentenza si ha per pubblicata con la sottoscrizione del
verbale, depositato in cancelleria lo stesso giorno. La sentenza con
motivazione contestuale non è nulla se il giudice non provvede alla lettura del
dispositivo in udienza, quando sia comunque avvenuto il deposito immediato
ed integrale del dispositivo e della motivazione: unica conseguenza della
predetta omissione è la dilazione del termine per l’impugnazione sino al
momento della successiva comunicazione alle parti del deposito in
cancelleria.

Risponde ai medesimi criteri di semplificazione e accelerazione del rito dinanzi all’organo


monocratico un’ulteriore disposizione “speciale”, contenuta nell’art. 281 ter, secondo il
quale il giudice può disporre d’ufficio la prova testimoniale “quando le parti nella
esposizione dei fatti si sono riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la
verità”.

208.I provvedimenti dell'organo decidente

All'esito della fase di decisione, il collegio o il giudice monocratico possono pronunciare


diverse tipologie di provvedimenti:

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a. ordinanza istruttoria della causa oppure sulla competenza


b. sentenza non definitiva e contestuale ordinanza di prosecuzione della
causa
c. sentenza definitiva.

Nel caso a. il giudice ha ritenuto mancanti i presupposti per l'emissione di qualsiasi


provvedimento decisorio (ad es. ordinanza giustificata dalla necessità di acquisire tutti o
alcuni dei mezzi di prova che non siano stati ammessi dal giudice istruttore). In questa fase
il giudice può altresì pronunciare ordinanza con la quale decide soltanto questioni di
competenza, cioè dichiarandosi incompetente o competente.

Se non è pronunziata ordinanza, viene emanata una sentenza. Gli artt. 277-279 c.p.c.
indicano i casi nei quali l'organo decidente pronuncia sentenza definitiva o non definitiva,
in particolare:

d. se l'organo decidente risolve questioni di giurisdizione, la sentenza è


definitiva quando essa chiude il processo di fronte al giudice che la
pronuncia, cioè quando venga accertata l'inesistenza della contestata
giurisdizione del giudice adito. La sentenza è al contrario non definitiva
quando contiene il positivo accertamento della giurisdizione e pertanto
consente la prosecuzione del processo dinanzi al giudice che l'ha resa
e. parimenti, quando l'organo decidente si pronuncia sulle questioni
preliminari di rito e sulle questioni preliminari di merito, la sentenza può
essere definitiva o non definitiva in relazione al contenuto della decisione e
alla conseguente possibilità che il processo possa proseguire o meno dinanzi
al giudice che la pronuncia. Ad es. la sentenza con cui il giudice accerta
l’intervenuta prescrizione del credito richiesto in giudizio dall’attore è
definitiva, in quanto chiude il processo dinanzi a quel giudice; al contrario, la
sentenza che accerta la non avvenuta prescrizione è non definitiva
f. la sentenza è definitiva quando decide totalmente il merito accogliendo o
respingendo le domande proposte dalle parti
g. l’art. 278 consente all'organo decidente, quando ritenga già accertata la

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sussistenza di un diritto ma ancora controversa la quantità della prestazione


dovuta, su istanza di parte, di pronunciare con sentenza (non definitiva) la
condanna generica alla prestazione e di disporre con ordinanza la
prosecuzione del processo per la liquidazione
h. è possibile che siano decise solo alcune delle cause fino a quel momento
riunite e le altre siano, previo separato provvedimento di separazione, rimesse
per l’ulteriore istruzione al giudice istruttore ovvero rimesse al giudice
inferiore, se competente. In questi casi la sentenza (da taluno detta
“parziale) è da considerarsi definitiva, in quanto le cause separate e non
decise continueranno in autonomi processi
i. infine, l'organo decidente ex art. 277 co. 3° può limitare la decisione ad
alcune domande, ove riconosca la necessità, per le altre, di ulteriore
istruzione, qualora la sollecita definizione delle prime sia di “interesse
apprezzabile per la parte che ne ha fatto istanza”. In tali casi la sentenza
deve essere considerata non definitiva, nella misura in cui non attribuisca o
neghi (ripetendo le parole di Chiovenda) il bene della vita preteso dall’attore.

209.La provvisoria esecutività ex lege della sentenza di primo grado

L'art. 282 c.p.c. sancisce il principio generale della provvisoria esecutività (o esecutorietà)
della sentenza di 1° grado, che, fin dal momento della sua pubblicazione (cioè del deposito
in cancelleria) è in grado di produrre effetti esecutivi, cioè di consentire l’instaurazione di
un procedimento esecutivo per la coattiva realizzazione dell’accertamento contenuto nella
sentenza, anche contro la volontà del soggetto obbligato. Mentre l'efficacia di provvisoria
esecutività deve certamente riconoscersi alle sentenze di condanna, essa non riguarda le

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sentenze di mero accertamento, giacchè l'ordinamento vigente collega l'efficacia


dell'accertamento giurisdizionale solo alle sentenze passate in giudicato. La previsione della
provvisoria esecutorietà ex lege della sentenza di 1° grado è stata “bilanciata” dal
legislatore, ex art. 283 c.p.c. il giudice d'appello, su istanza di parte (da formularsi
consensualmente all’atto di impugnazione), possa sospendere in tutto o in parte l'efficacia
esecutiva o l'esecuzione della sentenza impugnata, quando sussistono gravi e fondati
motivi, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti (c.d. inibitoria).

210.La sentenza di cessazione della materia del contendere

Istituto di prevalente creazione giurisdizionale, finalizzato alla dichiarazione con sentenza


di eventi di natura processuale o sostanziale (ad es. la morte di uno dei coniugi nel processo
di divorzio) tali da far venire meno la necessità della decisione nel merito della domanda,
determinando la chiusura del processo. In sostanza essa va pronunciata, anche d’ufficio,
quando cessa ogni contrasto tra le parti. La giurisprudenza ritiene che la pronuncia di
cessazione della materia del contendere costituisce una fattispecie di estinzione del
processo, creata dalla prassi giurisprudenziale e contenuta in una sentenza dichiarativa
dell’impossibilità di procedere alla definizione del giudizio per il venir meno dell’interesse
delle parti alla naturale conclusione del giudizio stesso, ogniqualvolta non risulti possibile
una declaratoria di rinuncia agli atti o alla pretesa sostanziale. Dunque essa è inidonea ad
acquistare l’efficacia di giudicato sostanziale sulla pretesa fatta valere, potendo la sentenza
acquisire efficacia di giudicato sul solo aspetto del venir meno dell’interesse alla
prosecuzione del processo. Quanto alle spese del processo, si fa di solito riferimento al
criterio della soccombenza virtuale, che richiede al giudice di delibare il possibile esito del
giudizio che vi sarebbe stato se non fosse intervenuto l’evento che ha dato luogo alla
cessazione della materia del contendere.

211.La correzione delle sentenze e delle ordinanze


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L'art. 287 c.p.c. consente la possibilità di “correggere”, su istanza di parte, le sentenze


nonché le ordinanze non revocabili, ad opera dello stesso giudice che le ha pronunciate ,
quando le stesse presentino:

a. omissioni
b. errori materiali: difetto di corrispondenza tra l’ideazione e la sua materiale
rappresentazione grafica
c. errori di calcolo:
i. erronea utilizzazione di regole matematiche sulla base di presupposti
numerici esattamente determinati
ii. errore di calcolo aritmetico, determinato da erronea applicazione delle
regole matematiche ma sulla base di presupposti numerici esatti
iii. errori di conteggio

Infatti tali provvedimenti potrebbero presentare vizi che non investono l’attività di giudizio,
cioè quella di formazione del convincimento del giudice e di applicazione della regula juris,
ma solo la corrispondenza tra quanto deciso e quanto risulta dal provvedimento . Dunque
tale istituto pone rimedio a vizi meramente formali, con esclusione di tutto ciò che attiene
al processo formativo della volontà. Secondo la giurisprudenza, tale procedimento e il
provvedimento conseguente hanno natura amministrativa, per cui non opera il principio di
immutabilità del giudice ex art. 276, dovendosi quindi intendere l’inciso “stesso giudice”
ex art. 287 nel senso di “stesso ufficio

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giudiziario”. Se tutte le parti concordano nella richiesta di correzione, il giudice provvede


con decreto; se la richiesta proviene da una sola delle parti, il giudice fissa un'udienza di
comparizione dinanzi a sé e decide con ordinanza, da annotarsi sull'originale del
provvedimento. L'ordinanza di correzione non è autonomamente impugnabile secondo
quanto si desume dall’art. 288, secondo il quale le sentenze possono essere impugnate
relativamente alle parti corrette nel termine ordinario decorrente dal giorno in cui è stata
notificata l'ordinanza di correzione.

CAP. 19: LE VICENDE “ANOMALE” DEL PROCESSO: INTERRUZIONE,


SOSPENSIONE, ESTINZIONE

212.Nozione

Le vicende anomale comportano l’impossibilità (talvolta definitiva) che il processo


pervenga alla pronuncia della decisione di merito. Si tratta di fenomeni tutti disciplinati nel
capo VII del libro secondo, ma assai diversi tra loro.

213.La sospensione propria e impropria

La sospensione consiste in un arresto provvisorio dell'iter del processo, che può


determinarsi per varie cause. Alcune di queste impediscono l'ulteriore svolgimento del
processo perché è necessario attendere la risoluzione, da parte di un giudice diverso da
quello investito della decisione della causa, di una questione che può in vario modo
condizionarla. Ciò avviene quando si deve attendere la decisione ad es.:

a. di una questione di giurisdizione che la parte, attraverso il regolamento di


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giurisdizione, ha devoluto alla Corte di Cassazione, sempre che il giudice


disponga la sospensione
b. del regolamento di competenza da parte della Corte di Cassazione
c. di una questione di legittimità costituzionale da parte della Corte
Costituzionale
d. di una questione riguardante la validità o l’interpretazione di una norma
comunitaria, la cui decisione è devoluta alla Corte di giustizia UE.

In queste ipotesi la sospensione si definisce “impropria”, in quanto l'iter della causa, pur
se sospeso davanti al giudice investito della decisione di merito, prosegue in realtà
davanti ad altro giudice, chiamato a decidere su questioni la cui risoluzione ha effetti
diretti sulla decisione della causa principale. Vi sono, invece, altre ipotesi che si risolvono
nel temporaneo ma totale arresto dell'iter del processo, dando luogo alla sospensione
“propria”, e cioè:

e. in ogni caso in cui il giudice investito della decisione del merito o altro
giudice deve risolvere tra le medesime parti una controversia (civile, penale o
amministrativa) dalla cui definizione dipende la decisione della causa, si ha la
sospensione c.d. necessaria o per pregiudizialità-dipendenza, che costituisce
l’ipotesi più importante di sospensione
f. su concorde istanza di tutte le parti, ove sussistano giustificati motivi, il
giudice designato (o istruttore) può disporre per una sola volta la sospensione
c.d. volontaria o concordata del processo per un periodo non superiore a 3
mesi, fissando l'udienza per la prosecuzione del processo (art. 296).

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214.La sospensione necessaria

Se si considera che l’art. 297 indica “il passaggio in giudicato della sentenza che definisce
la controversia civile o amministrativa di cui all’art. 295” quale causa di cessazione della
causa di sospensione (dalla quale decorre il termine per richiedere la fissazione dell’udienza
di prosecuzione), si può capire che lo stato di arresto della causa “pregiudicata” può durare
per lungo tempo, andando a ledere il principio di ragionevole durata del processo. Per tale
ragione, oltre all’introduzione del controllo sul corretto esercizio dei poteri di sospensione
spettante alla Corte di Cassazione, le Sezioni Unite stesse sono intervenute formulando un
innovativo principio.

a. Quanto alla sospensione per pregiudizialità civile, pensiamo ad es. alla


controversia sull’esistenza del debito alimentare che dipenda dalla soluzione
della controversia sulla sussistenza dello stato di paternità o maternità. L'art.
295 c.p.c. impone che la controversia pregiudicata deve essere sospesa
quando la definizione della controversia pregiudiziale costituisce
l’indispensabile antecedente logico- giuridico dell’altra, il cui accertamento
deve avvenire con efficacia di giudicato, purchè entrambi i processi pendano
tra le medesime parti. Tale pregiudizialità-dipendenza che dà luogo alla
sospensione necessaria solo quando le due cause non possano essere decise
unitariamente perché pendenti (anche dinanzi allo stesso ufficio giudiziario)
in gradi diversi o perché la loro riunione per connessione è impedita dalla
scadenza del termine per la formulazione dell'eccezione di connessione
ovvero da norme di giurisdizione o di competenza inderogabile, cioè quando
non è possibile pervenire al simultaneus processus. Ma, come anticipato, le
Sezioni Unite hanno formulato un innovativo principio in base al quale, salvi
i casi in cui la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta
da una disposizione specifica, quando fra due giudizi esista rapporto di
pregiudizialità e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza anche
non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato
non più ai sensi dell’art. 295, ma dell’art. 337 (il quale attribuisce al giudice il
potere, questa volta discrezionale, di sospensione “quando l’autorità di una
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sentenza è invocata in un diverso processo”). Muovendo dal disfavore nei


confronti del fenomeno della sospensione, le Sezioni Unite hanno assegnato
un ruolo decisivo all’art. 282: se alla sentenza di 1° grado va riconosciuta
provvisoria esecutività tra le parti, anche la già disposta sospensione della
causa pregiudicata potrebbe cessare non più con il passaggio in giudicato
della sentenza resa nella causa pregiudiziale, ma a seguito della pronuncia
della sentenza di 1° grado (provvisoriamente esecutiva ex lege), la cui
“autorità” sarebbe valutata ai fini dell’eventuale sospensione discrezionale
(non più necessaria) ex art. 337
b. quanto alla sospensione per pregiudizialità amministrativa si discute se possa
applicarsi la stessa disciplina prevista per la pregiudizialità civile. SI quando
tali giudizi vertano sui diritti soggettivi (c.d. giurisdizione esclusiva), sicchè i
giudicati che li concludono possano (allo stesso modo delle cognizioni civili)
fare stato su effetti che condizionino necessariamente l'esistenza o il
contenuto di diritti dedotti in altri giudizi. NO quando il giudice
amministrativo decide su interessi legittimi, cioè su situazioni soggettive dalle
quali, prima della loro tutela giurisdizionale, non possono derivare effetti
costitutivi di diritti soggettivi
c. quanto alla pregiudizialità penale, va detto che, abrogato l’art. 3 c.p.p. del
1930 (che imponeva la sospensione del processo civile tutte le volte in cui la
cognizione del reato potesse influire sulla decisione della causa),
nell’ordinamento attuale manca una norma ad hoc. Tuttavia l'art. 295 c.p.c.
comporta che i giudizi penali non sono mai giuridicamente pregiudiziali
rispetto a quelli civili: gli effetti penali, dunque, non sono mai condizione
necessaria di quelli civili (che ad es. si possono produrre anche a reato estinto
e come tale non più conoscibile dal giudice penale). Pertanto la sospensione
di un processo civile in ragione della pendenza di un processo penale può
avere luogo solo quando disposizioni di legge la prevedono espressamente: si
pensi ad es. all’art. 75 co. 3° c.p.p., quando l’azione civile è “proposta in sede
civile nei confronti dell’imputato dopo la costituzione di parte civile nel
processo penale o dopo la

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sentenza di 1° grado”. Quindi possiamo dire che il rapporto tra processo civile e processo
penale si configura in termini di pressochè completa autonomia e separazione, ad eccezione
di alcune ipotesi di sospensione del giudizio.

215.Forma, impugnazione ed effetti del provvedimento sulla sospensione

La giurisprudenza ritiene che il provvedimento di sospensione del processo, non avendo


carattere decisorio, debba assumere la forma dell'ordinanza e che questa non sia
revocabile dal giudice. L’esigenza di sottoporre a controllo immediato l’esercizio del potere
di sospensione ha spinto il legislatore a modificare l’art. 42, prevedendo che i soli
provvedimenti che dispongono la sospensione ai sensi dell'art. 295 (non anche quelli che la
negano) siano impugnabili in Cassazione col regolamento necessario di competenza,
consentendo quindi alla Corte di annullare eventualmente quei provvedimenti. Se con il
provvedimento sulla sospensione non è stata fissata l'udienza di prosecuzione del processo,
le parti debbono chiederne la fissazione entro il termine perentorio di 3 mesi dalla
cessazione della causa di sospensione o dal passaggio in giudicato della sentenza che
definisce la controversia pregiudiziale. La richiesta, che deve essere proposta 10 giorni
prima della scadenza del termine di sospensione, va formulata con ricorso al giudice
designato (o istruttore) o, in mancanza, al presidente del tribunale, il quale provvede con
decreto di fissazione dell'udienza, da notificarsi alle altre parti. Ex art. 298, la sospensione,
quando disposta, impedisce il compimento di atti del procedimento e interrompe i termini in
corso, che ricominciano a decorrere dal giorno della nuova udienza.

216.L'interruzione del processo

L'interruzione del processo (artt. 299 ss. c.p.c.) viene a determinarsi in presenza di una serie
di eventi che colpiscono una parte o il difensore, ritenuti dalla legge, per la loro gravità, in
grado di incidere sull'effettività del contraddittorio e di pregiudicare il diritto di difesa delle
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parti. Gli eventi che colpiscono la parte sono:

a. morte della persona fisica o estinzione della persona giuridica


b. perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti o del suo legale
rappresentante
c. Cessazione di tale rappresentanza
d. fallimento dell'imprenditore.

La legge introduce un'importante distinzione a seconda del momento in cui questi eventi si
verifichino:

e. se si verificano prima della costituzione della parte , l'effetto interruttivo è


automatico, cioè il processo è interrotto ex lege dalla data dell'evento, salvo
che coloro ai quali spetta di proseguirlo (e che vi abbiano interesse) si
costituiscano volontariamente ovvero l’altra parte provveda a citarli in
riassunzione
f. se si verifica dopo la costituzione della parte, la legge richiede che sia il
difensore costituito a doverne fare apposita dichiarazione da inserire nel
verbale di udienza o a notificarlo alle altre parti, e solo dalla data della
dichiarazione o notificazione si ha l'effetto interruttivo. Il difensore può anche
non rendere la dichiarazione (assumendosene la responsabilità nei confronti
dei successori della parte) ed evitare in tal modo l’interruzione, che non può
essere disposta né in presenza di dichiarazione dell’altra parte, né se l’evento
risulti comunque dagli atti di causa.

Un’ipotesi particolare e controversa ricorre quando nel corso del giudizio intervenga
l’estinzione della società

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parte del giudizio medesimo causata dalla cancellazione dal registro delle imprese. Secondo
il diritto vivente, in tal caso si determina un evento interruttivo del processo, con possibile
successiva eventuale prosecuzione o riassunzione del giudizio da parte o nei confronti dei
soci; invece, se l’evento estintivo non è fatto constare nei modi suddetti, l’impugnazione
della sentenza pronunciata nei riguardi della società a pena di inammissibilità deve
provenire o essere indirizzata dai soci o nei confronti dei soci succeduti alla società estinta.

Gli eventi interruttivi che colpiscono il difensore sono la morte, la radiazione, la


cancellazione o la sospensione dall'albo professionale. In questi casi l'effetto interruttivo
si verifica sempre dal giorno dell'evento, in quanto il soggetto colpito è proprio quello che
dovrebbe rendere la dichiarazione. La forma del provvedimento che dichiara l'interruzione
del processo è quella dell'ordinanza, la quale ha natura meramente ricognitiva (o
dichiarativa), nel senso che è l'evento interruttivo a determinare ex se l'interruzione,
indipendentemente dalla pronuncia del giudice. Si potrebbe configurare anche una
interruzione “parziale” del processo: nel caso di trattazione unitaria o di riunione di più
procedimenti relativi a cause connesse e scindibili, qualora si verifichi un evento
interruttivo che riguardi una delle parti di una o più delle cause connesse, l'interruzione
opera solo in riferimento al procedimento di cui è parte il soggetto colpito dall'evento. A
seguito dell’interruzione, il processo (pur continuando a pendere) entra in una situazione di
quiescenza, che impedisce il compimento di atti del procedimento (qualora posti in essere
saranno nulli). La cessazione dell'effetto interruttivo può avvenire o a seguito della
prosecuzione del giudizio, cioè con la spontanea costituzione di coloro che hanno diritto
alla prosecuzione (ad es. degli eredi della parte) o per effetto di riassunzione ad opera della
parte che vi abbia interesse. Tuttavia, ai sensi dell’art. 305, se la prosecuzione o la
riassunzione non si verificano entro il termine perentorio di 3 mesi dalla data in cui le parti
hanno avuto conoscenza dell'interruzione, il processo si estingue.

217.L'estinzione del processo

L'estinzione determina la fine anticipata del processo (mors litis), impendendo che questo
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termini nel suo modo “normale”, cioè con la pronuncia della decisione di merito sulla
domanda, ponendosi evidentemente come la più grave tra le vicende anomale. Le cause che
la determinano sono di 2 tipi:

a. innanzitutto l’estinzione discende dalla formale manifestazione di volontà


delle parti, diretta espressamente ad impedire che il processo pervenga alla
sua naturale conclusione: si parla qui di rinuncia agli atti del processo (art.
306). Qualora la rinuncia provenga da una sola parte, essa deve essere
accettata da tutte le parti che possono avere interesse alla prosecuzione: le
dichiarazioni di rinuncia e di accettazione, quindi, devono essere fatte da
ciascuna parte (o da procuratori speciali all’uopo designati) oralmente
all'udienza oppure con atti sottoscritti e notificati alle altre parti.
L’accettazione non è necessaria da parte del contumace, il quale, rimanendo
estraneo al processo, ha già implicitamente fatto intendere di non avervi
interesse. Solo dopo la verifica della regolarità delle dichiarazioni suddette, il
giudice dichiara l'estinzione del processo e, salvo diverso accordo intervenuto
tra le parti, liquida le spese a carico del rinunciante con ordinanza non
impugnabile
b. l'estinzione può altresì conseguire all’inattività delle parti, che consiste nel
mancato compimento di una serie di atti processuali, in assenza dei quali
l'ordinamento stesso non consente che il processo arrivi alla sua fisiologica
definizione (art. 307). Ciò accade:
i. se, dopo la notificazione dell'atto di citazione, nessuna delle parti si sia
costituita nel termine a ciascuna di esse assegnato
ii. se, dopo la costituzione, il giudice abbia ordinato la cancellazione della
causa dal ruolo e nessuna delle parti abbia assunto il processo davanti
allo stesso giudice nel termine perentorio di 3 mesi
iii. in caso di mancata integrazione del contraddittorio in presenza di
litisconsorzio necessario
o in caso di mancata rinnovazione dell'atto di citazione nullo entro il termine
perentorio fissato

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lOMoARcPSD|1004107

dal giudice
iv. un’ultima ipotesi è aggiunta dall’art. 181, e ciò quella in cui nessuna
delle parti compare alla nuova udienza fissata dal giudice, dopo che è
andata deserta la prima udienza.

L'estinzione opera di diritto ed è dichiarata, anche d'ufficio, con ordinanza del giudice
monocratico ovvero con sentenza del collegio. Il provvedimento dichiarativo
dell'estinzione è assoggettato a diverso regime d'impugnazione a seconda che abbia la
forma dell'ordinanza o della sentenza e, nel primo caso, a seconda che sia pronunciata o
meno dal giudice istruttore che non operi in funzione di giudice unico. Nelle controversie
riservate al tribunale collegiale, l’ordinanza emessa dal giudice istruttore dichiarativa
dell’estinzione è impugnabile dalle parti con reclamo immediato al collegio, da proporsi nel
termine perentorio di 10 giorni, decorrente dalla pronuncia dell’ordinanza (se avvenuta in
udienza) ovvero dalla sua comunicazione. L’ordinanza collegiale che accoglie il reclamo
revoca la dichiarazione di estinzione e rimette le parti dinanzi al giudice istruttore, inoltre
non è impugnabile; invece, in caso di rigetto del reclamo, il collegio provvede con sentenza
appellabile.

218.Effetti dell'estinzione

Gli effetti dell'estinzione sono descritti dall'art. 310. Innanzitutto l'estinzione del processo
non estingue l'azione (non preclude la riproposizione della domanda con medesimi
petitum e causa petendi). Del resto tale principio è implicito nella nozione di azione, da
intendersi come diritto di ottenere la pronuncia di merito sul diritto o rapporto giuridico
sostanziale fatto valere in giudizio. In secondo luogo, l’estinzione del processo rende
inefficaci tutti gli atti processuali sino a quel momento compiuti. A questa regola l’art. 310
pone una duplice eccezione:

a. la prima riguarda le prove raccolte nel processo estinto (solo le prove


costituende: infatti per le prove documentali il problema non si pone, poiché
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lOMoARcPSD|1004107

con il deposito nel nuovo processo dello stesso documento esso manterrà la
stessa forza probatoria). Il co. 3° aggiunge che le prove costituende assunte
nel processo successivamente estinto siano valutate (dal giudice in futuro
investito della medesima controversia) come argomenti di prova ex art. 116
co. 2°. Esse quindi non possono mai fondare da sole il convincimento del
giudice
b. la seconda riguarda le sentenze di merito pronunciate nel corso del processo e
le pronunce che regolano la competenza (cioè tutte le ordinanze con efficacia
“panprocessuale”, ivi compresi i provvedimenti in tema di giurisdizione).

L’estinzione del processo elimina l’effetto permanente dell’interruzione della prescrizione


prodotto dalla domanda giudiziale (art. 2945 co. 2° c.c.), ma non incide sull’effetto
interruttivo istantaneo della stessa, con la conseguenza che la prescrizione ricomincia a
decorrere dalla data della domanda.

CAP. 20: IL PROCESSO CONTUMACIALE

219.Nozione di contumacia

La contumacia consiste nella mancata costituzione in giudizio o dell'attore o del convenuto,


entro il termine a

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ciascuno di essi assegnato dalla legge. In sostanza, si tratta del fenomeno di volontaria
diserzione del processo di una delle parti, la quale, pur essendo a conoscenza del giudizio
da essa stessa instaurato (attore) o essendo stata risultata citata (convenuto), decide di non
partecipare allo svolgimento del processo. La legge prescinde dalle ragioni che sono alla
base della scelta della parte, ma richiede che questa sia frutto di una scelta consapevole, che
presupponga la legale conoscenza del processo e l'assenza di eventi o fatti incolpevoli che
abbiano impedito la costituzione. Secondo la giurisprudenza, anche l’invalida costituzione
della parte in giudizio (ad es. a mezzo di difensore privo di ius postulandi) comporta la sua
contumacia.

La contumacia di per sé non consente al giudice di trarre elementi di valutazione ai fini del
giudizio sulla fondatezza della domanda: il contumace non può essere dichiarato
soccombente per il solo fatto di essere rimasto contumace. Tuttavia la contumacia può
concorrere a formare il convincimento del giudice in sede di valutazione della condotta
delle parti (art. 116). Infine, in caso di mancata risposta all’interrogatorio formale deferito
alla parte contumace, resta fermo il potere del giudice di ritenere per ammessi i fatti dedotti
nell’interrogatorio (art. 232).

220.La contumacia dell'attore o del convenuto

In caso di contumacia dell'attore (che si verifica quando, dopo aver richiesto e fatto
eseguire la notificazione della citazione, l’attore non si costituisce né nel termine ex art. 165
né alla prima udienza di trattazione davanti all’istruttore), la prosecuzione del giudizio è
subordinata alla richiesta in tal senso del convenuto, il quale può o astenersene (non avendo
interesse ad ottenere la decisione di merito) o manifestare interesse alla prosecuzione (ad
es. perché ha proposto domanda riconvenzionale). In caso di mancata costituzione del
convenuto, il giudice designato (o istruttore) è tenuto, prima di dichiararne la contumacia, a
verificare se sussista un vizio che comporti la nullità della notificazione della citazione e
che potrebbe aver determinato la mancata costituzione in giudizio. Ove un tale vizio sia
effettivamente rilevato, il giudice ha l'obbligo di fissare all’attore un termine perentorio per
233
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provvedere alla rinnovazione della notificazione: solo se il convenuto non si costituisce


neppure alla nuova udienza, pronuncerà con ordinanza la sua contumacia. Invece, in caso di
inottemperanza all’ordine di rinnovazione, il giudice dispone la cancellazione della causa
dal ruolo e il processo si estingue.

221.La dichiarazione di contumacia

La dichiarazione di contumacia deve essere pronunciata all'esito delle verifiche preliminari,


che il giudice deve compiere nella prima udienza, ed è di norma pronunciata con ordinanza.
Tale provvedimento riveste carattere e funzione meramente dichiarativi, ricognitivi di una
condizione processuale già verificatasi, e non attribuisce di per sé lo status di contumace,
che si determina per il solo fatto della mancata costituzione in giudizio (per questo si parla
anche di “contumacia di fatto”). L'ordinanza che dichiara la contumacia è revocabile in
ogni momento del giudizio (anche col provvedimento che definisce il giudizio).

222.Gli atti da notificare al contumace

La necessità di tutelare il diritto di difesa della parte contumace comporta l’obbligo di


portare a conoscenza effettiva di quest’ultima iniziative processuali dell’altra parte che
siano in grado di produrre conseguenze particolarmente pregiudizievoli nei suoi confronti.
Per questo motivo l'art. 292 c.p.c. impone alla parte costituita di notificare personalmente al
contumace nel suo domicilio l'ordinanza che ammette l'interrogatorio

234
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formale o il giuramento decisorio, le comparse contenenti domande nuove o


riconvenzionali e ulteriori atti idonei a determinare effetti sulla posizione della parte
contumace. A seguito delle sentenze della Corte Costituzionale 250/1986 e 317/1989, che
hanno dichiarato la parziale illegittimità costituzionale della norma citata, la parte costituita
deve notificare al contumace anche il verbale col quale si dà atto della produzione in
giudizio di scritture private che non siano state indicate in atti precedentemente notificati al
contumace: ciò al fine di portare a conoscenza di quest’ultimo tali scritture prima che si
produca l’effetto di riconoscimento tacito ex art. 215. L'inosservanza dell'obbligo di
notificazione sancito dall’art. 292 determina una nullità relativa, che può essere eccepita
solo dalla parte contumace che si costituisce tardivamente. Tutti gli altri atti si considerano
comunicati al contumace semplicemente col deposito in cancelleria. Le sentenze vanno
notificate personalmente al contumace, non avendo egli fatto alcuna elezione di domicilio.

223.La costituzione in giudizio della parte contumace. La rimessione in termini

La parte contumace può costituirsi in ogni momento del procedimento fino all'udienza di
precisazione delle conclusioni, ma subisce gli effetti delle preclusioni già maturate. Essa ha
l'onere di disconoscere, nella prima udienza o nel termine assegnatoli dal giudice, le
scritture private contro di lui prodotte, in modo da caducare gli effetti di riconoscimento
tacito già prodottisi e dare ingresso all’(eventuale) procedimento di verificazione. Il
contumace che si costituisce può chiedere al giudice di essere ammesso a compiere attività
che gli sarebbero precluse (art. 294). Egli, quindi, può ottenere la rimessione in termini,
ponendo nel nulla le decadenze già maturate a suo carico, se dimostra che la nullità della
citazione o della sua notificazione gli ha impedito di avere conoscenza del processo o che la
costituzione è stata impedita da causa a lui non imputabile. Il procedimento di rimessione in
termini del contumace costituisce un vero e proprio sub-procedimento, che si inserisce
incidentalmente nel corso della trattazione della causa principale e si svolge in 3 fasi:

a. in primo luogo il giudice è chiamato ad effettuare una valutazione di semplice


verosimiglianza dei fatti allegati e posti a fondamento dell'istanza di
235
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rimessione, basata su un’attività cognitiva necessariamente sommaria e


probabilistica
b. solo se quei fatti sono ritenuti verosimili, il giudice ammetta la prova
dell'impedimento
c. all'esito di tale prova, il giudice provvede con ordinanza sulla richiesta di
rimessione, accogliendola o respingendola.

224.La contumacia “involontaria”

La contumacia involontaria è il fenomeno che si verifica quando la decisione di disertare il


processo dipende non dalla scelta consapevole della parte, ma da un vizio di conoscenza del
processo che le ha impedito di compiere la scelta di costituirsi o meno nel processo. Il co.
2° dell’art. 327 sancisce l’inapplicabilità del co. 1° (relativo alla previsione del termine
lungo di impugnazione) quando la parte contumace (da intendere qui come parte non
costituita nel giudizio di 1° grado) dimostra di non aver avuto conoscenza del processo per
nullità della citazione o della notificazione di essa e per nullità della notificazione degli atti
di cui all’art. 292. La norma, dunque, consente alla parte di proporre impugnazione anche
quando la sentenza sia passata in giudicato, purchè dimostri, a pena di inammissibilità
dell’impugnazione, la sussistenza di una delle nullità suddette.

236
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SEZIONE SECONDA: LE IMPUGNAZIONI

CAP. 21: I PRINCIPI GENERALI SULLE IMPUGNAZIONI

225.Nozione di mezzo d'impugnazione. Classificazione dei mezzi di impugnazione

Il termine “impugnazione” identifica sia l'atto processuale di parte, introduttivo di un


giudizio di impugnazione, sia l'intera fase del procedimento che si svolge davanti al
giudice, diretto a concludersi con un'altra pronuncia, i cui effetti incidono in via diretta e
immediata su quelli della decisione oggetto d'impugnazione, sovrapponendosi ad essi. Alla
base della nozione di impugnazione vi è l’esigenza di consentire il riesame della decisione,
mettendo a disposizione delle parti che vi abbiano interesse la possibilità di censurarla e di
ottenere un nuovo accertamento sullo stesso diritto o rapporto giuridico sostanziale fatto
valere davanti al giudice di 1° grado ovvero un controllo sui vizi (di giudizio o di
procedura) che possono inficiare quell’accertamento. Il nostro ordinamento prevede un 2°
grado di giudizio sul merito (appello) ed un successivo grado di giudizio limitato al solo
controllo della corretta applicazione della legge (cassazione) e presuppone che almeno una
delle parti eserciti il potere di impugnazione entro limiti temporali predeterminati: in tal
senso può parlarsi di “necessarietà” dell’impugnazione, la cui mancata (e tempestiva)
instaurazione determina il prodursi del giudicato. D’altra parte, la garanzia del doppio grado
di giurisdizione non trova espresso riconoscimento nella Costituzione, né esprime un
divieto al legislatore ordinario di prevedere, in taluni casi, un unico grado di merito. Resta
ferma la previsione dell’art. 111 Cost., che prevede la ricorribilità per cassazione avverso
qualsiasi sentenza (o anche decisione assunta in altra forma) idonea a produrre il giudicato
sostanziale, cioè di incidere sui diritti delle parti. Dall'art. 324 c.p.c. si ricava che i mezzi di
impugnazione ordinari (cioè quelli che, ove proposti, escludono il passaggio in giudicato
della decisione impugnata) sono:

a. il regolamento di competenza
b. l'appello
c. il ricorso per cassazione
d. la revocazione per i motivi di cui ai num. 4 e 5 dell’art. 395.
237
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I mezzi di impugnazione straordinari (possono essere proposti anche contro decisioni già
passate in giudicato) sono invece:

 la revocazione delle sentenze di merito per i motivi di cui ai num. 1, 2, 3 e 6


dell’art. 395
 la revocazione delle sentenze della Corte di Cassazione
 l'opposizione di terzo.

I mezzi di impugnazione si distinguono altresì in mezzi a critica libera (appello) e mezzi a


critica vincolata (regolamento di competenza, ricorso per cassazione, revocazione e
opposizione di terzo), a seconda che la legge predetermini gli errori e i vizi denunciabili
con l'impugnazione o consenta di far valere la semplice ingiustizia della decisione.

Le impugnazioni si classificano inoltre come sostitutive (o a fase unica), quando


comportano una nuova decisione della causa che è destinata a sostituirsi a quella impugnata
e a sovrapporsi all'efficacia di quest'ultima. In tale categoria si pone l’appello, la cui
funzione è proprio quella di provocare, nei limiti dei motivi di impugnazione, una nuova
decisione (revisio prioris instantiae). Le impugnazioni sono, invece, rescindenti (o a
duplice fase) quando provocano un giudizio sulla decisione impugnata, attraverso il quale
viene disposto o negato l'annullamento della stessa (judicium rescindens) ed al quale deve
di regola seguire la pronuncia di una nuova decisione che risolva la controversia (judicium
rescissorium). A tale categoria appartengono ricorso per cassazione, revocazione e
opposizione di terzo (in questi ultimi due le due fasi, seppur distinte, si svolgono dinanzi
allo stesso giudice).

238
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Ulteriore distinzione si fonda sulla struttura devolutiva o meno dell’impugnazione, laddove


l’effetto devolutivo consiste nella capacità del mezzo di impugnazione di devolvere alla
cognizione del giudice dell’impugnazione l’intero oggetto del giudizio svoltosi nel grado
precedente.

226.La legittimazione e l'interesse ad impugnare. La soccombenza

Condizioni dell'impugnazione sono la legittimazione e l'interesse ad impugnare:


l'assenza di una di esse rende inammissibile l'impugnazione.

a. La legittimazione ad impugnare spetta di norma alle parti che hanno


partecipato al precedente grado (o ai precedenti gradi) del giudizio, cioè a
coloro che hanno acquisito la qualità di parte del giudizio. Essa prescinde
dall’avvenuta costituzione della parte nel corso del giudizio di 1° grado,
pertanto va riconosciuta anche al soggetto rimasto contumace. Oltre all’attore
e al convenuto, tale legittimazione va riconosciuta anche agli interventori ex
art. 105 co. 1°, ai terzi chiamati in causa su istanza di parte o per ordine del
giudice, agli eventuali successori universali o a titolo particolare mortis causa,
all’acquirente a titolo particolare della res litigiosa, al p.m. (nelle cause che ha
o avrebbe potuto proporre e nelle cause matrimoniali, fatta eccezione per
quelle di separazione personale dei coniugi) e al terzo che potrebbe subire un
pregiudizio a seguito della sentenza resa inter alios (il quale potrà proporre
l’opposizione di terzo). Invece, controversa è la legittimazione ad impugnare
dell’interventore adesivo dipendente ex art. 105 co. 2°. La giurisprudenza
(contrastata da parte della dottrina) tende a negare tale legittimazione, sul
presupposto che l’intervento adesivo dipendente dà luogo ad un giudizio
unico con pluralità di parti, nel quale i poteri dell’intervenuto sono limitati
all’espletamento di un’attività accessoria e subordinata a quella svolta dalla
parte coadiuvata, con la conseguenza che, in caso di acquiescenza alla
sentenza della parte adiuvata, egli non può proporre alcuna autonoma
239
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impugnazione.
b. Oltre alla legittimazione, per proporre impugnazione la parte deve avere
interesse ad impugnare. Siffatto interesse nasce direttamente dalla decisione
impugnabile e si correla al contenuto della stessa, cioè alla soccombenza di
una o più parti. La nozione di soccombenza presuppone l’esatta
individuazione del pregiudizio che può derivare ad una o ad entrambe le parti
in conseguenza dell’accertamento contenuto nella decisione da impugnare. La
soccombenza in senso stretto si ha in ogni caso di difformità tra le conclusioni
di una parte e la pronuncia del giudice riguardo a questioni processuali o di
merito, mentre in senso lato si ha soccombenza in tutti i casi in cui si lamenta
un pregiudizio comunque derivante dalla pronuncia. Si distingue, inoltre, la
soccombenza pratica da quella teorica:
i. la prima risulta dal raffronto delle conclusioni delle parti e il
dispositivo della decisione, con riferimento esclusivo alle richieste di
accoglimento o di rigetto delle domande da ciascuna di esse svolte e
sulle quali il giudice abbia espressamente pronunciato. Perciò si può
essere soccombenti totali o parziali, a seconda che siano state respinte
tutte le domande e le conclusioni o solo alcune di esse
ii. invece la soccombenza teorica non concerne domande, ma solo
questioni preliminari sia di rito che di merito, che la parte poi risultata
vittoriosa nel merito abbia sollevato in via di eccezione nel corso del
processo e che il giudice abbia rigettato.

227.I termini per proporre le impugnazioni

Le impugnazioni devono essere proposte entro termini perentori stabiliti dalla legge (art.
326), decorsi i quali si determina la decadenza delle parti dal potere di impugnare e
l'impugnazione comunque proposta viene

240
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dichiarata dal giudice, anche d’ufficio, inammissibile. Con riferimento ai mezzi di


impugnazione ordinaria, l'ordinamento ha previsto due termini per impugnare:

a. il termine lungo è quello di 6 mesi e decorre dalla data di pubblicazione (cioè


del deposito in cancelleria) della sentenza. Esso opera per tutti i mezzi di
impugnazione ordinaria ad eccezione del regolamento di competenza (per il
quale è previsto solo un termine di 30 giorni, decorrente dalla data di
comunicazione dell’ordinanza sulla sola competenza in relazione al
regolamento necessario o dalla notificazione dell’impugnazione ordinaria se
antecedente)
b. il termine breve, che non può mai impedire o sospendere il decorso del
termine lungo, decorre dalla data di notificazione della sentenza nel domicilio
eletto dalla parte. Esso presuppone, a differenza del termine lungo,
l'iniziativa della parte (normalmente quella vittoriosa), che, senza attendere
la scadenza del termine dei 6 mesi, ha o può avere interesse a impugnare in
termini più ristretti. Il termine breve è infatti di 30 giorni per l'appello e la
revocazione ordinaria e di 60 per il ricorso in cassazione.

Per la parte contumace il termine di proposizione, secondo la giurisprudenza, decorre dalla


notificazione (eventuale) della sentenza o, in mancanza, è quello lungo di 6 mesi.
Quest’ultimo termine non opera per il c.d. contumace involontario che “dimostra di non
aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione di essa e
per nullità della notificazione degli atti di cui all’art. 292” (art. 327 co. 2°): è opinione
dominante in dottrina e in giurisprudenza che in tal caso i termini decorrano dal momento
in cui il contumace involontario ha avuto notizia della sentenza. Inoltre, secondo
consolidato principio di diritto vivente, la notificazione della sentenza ha efficacia
bilaterale, nel senso che fa decorrere i termini per l’impugnazione sia per il soggetto
destinatario della notificazione sia per la parte che l’ha richiesta.

Quanto ai mezzi di impugnazione straordinari, la disciplina è diversa, in quanto il termine


di 30 giorni per la proposizione della revocazione straordinaria, della revocazione da parte
del p.m. e dell’opposizione di terzo revocatoria decorre dagli eventi che danno
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rispettivamente accesso a detti mezzi. Per la proposizione dell'opposizione di terzo


ordinaria non è previsto alcun termine, per cui il termine da considerare è quello di
prescrizione del diritto (quindi mancherà del tutto se si tratta di diritto imprescrittibile).

228.L'acquiescenza

L'acquiescenza può essere definita come una forma di estinzione del potere di
impugnazione, determinata da una serie di comportamenti della parte che ha la
legittimazione ad impugnare. Va chiarito che a venire meno è solo il potere di proporre
l’impugnazione principale, in quanto l’art. 334 espressamente attribuisce anche alle parti
che hanno fatto acquiescenza alla sentenza il potere di impugnare in via incidentale tardiva.
Il rischio del possibile accoglimento dell’impugnazione proposta dall’altra parte fa
“risorgere”, infatti, l’interesse ad impugnare in via incidentale. L'art. 329 c.p.c. disciplina 3
distinte forme di acquiescenza, di cui le prime 2 sono dette “proprie” e la terza “impropria”:

a. acquiescenza espressa: si tratta di un vero e proprio atto giuridico che


contenente l’espressa volontà della parte di non impugnare la sentenza o di
accettarne il contenuto
b. acquiescenza tacita: si ricollega ad “atti incompatibili”, posti in essere dopo
la pronuncia della sentenza, dai quali possa ricavarsi la volontà di non
proporre l'impugnazione (comportamento concludente). La spontanea
esecuzione della pronuncia di 1° grado non determina acquiescenza,
trattandosi di un comportamento che può derivare anche dalla volontà di
evitare l’esecuzione forzata
c. acquiescenza presunta: concerne i capi delle sentenze non impugnati, quindi
presuppone che la parte

242
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soccombente, avendo proposto impugnazione parziale, abbia implicitamente


manifestato acquiescenza nei confronti dei capi non oggetto d'impugnazione. Sulle
parti della decisione non impugnate viene a formarsi il giudicato. Se vi sono più capi
della sentenza tra loro inscindibilmente legati, l’impugnazione anche di un solo capo
è di per sé sufficiente ad escludere l’acquiescenza sugli altri.

Spesso la sentenza è sorretta da una pluralità di ragioni, ciascuna idonea di per sé a fondare
la decisione. In tal caso l’impugnazione deve investire, con motivi specifici, ciascuna di
esse e, se non accade, il giudicato sul capo non impugnato può determinare
l’inammissibilità dell’impugnazione per carenza di interesse ad impugnare.

229.Il luogo di notificazione dell'atto di impugnazione

Al pari del giudizio di 1° grado, il giudizio di impugnazione ha inizio con la notifica


dell'atto di impugnazione principale. L'art. 330 c.p.c. dispone in quale luogo l'impugnante
deve notificare l'atto di impugnazione: se nell'atto di notificazione della sentenza la parte ha
dichiarato la sua residenza o eletto domicilio nella circoscrizione del giudice che l'ha
pronunciata, l'impugnazione va notificata nel luogo indicato; altrimenti si notifica presso il
procuratore costituito nel giudizio oppure nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto
per il giudizio medesimo. A tal proposito, l’elezione di domicilio effettuata dalla parte nel
giudizio di 1° grado, ove non revocata, mantiene la sua efficacia anche per il grado
successivo. Ma oggi occorre tener conto del principio secondo il quale la regola che dalla
mancata osservanza dell’onere di elezione di domicilio consegue la domiciliazione ex lege
presso la cancelleria dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale è in corso il giudizio trova
applicazione solo se il difensore, non adempiendo all’obbligo prescritto dall’art. 125, non
abbia indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine.
Quando manca la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio, e in ogni caso dopo
un anno dalla pubblicazione della sentenza, l’impugnazione (se è ancora ammessa dalla
legge) si notifica personalmente alla parte.

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230.L'impugnazione principale e l'impugnazione incidentale. Il principio di


unitarietà del procedimento d'impugnazione. La “sanzione” in caso di
integrale rigetto o di dichiarazione di inammissibilità o di improcedibilità
dell’impugnazione

Contro una stessa sentenza è possibile che più parti siano interessate a proporre
impugnazione, potendo ciò accadere sia quando le parti sono due e siano risultate entrambe
parzialmente soccombenti, sia quando vi è una pluralità di parti. Può accadere che le
plurime impugnazioni siano proposte separatamente, in quanto le parti esercitino
autonomamente il potere di impugnare. In tal caso l’art. 335 sancisce il principio
dell’obbligatoria riunione, anche d’ufficio, in un solo processo di tutte le impugnazioni
proposte contro la medesima sentenza. Ove ciò non accada, la legge si preoccupa di
affermare il principio dell’unitarietà del giudizio di impugnazione, disciplinando le c.d.
impugnazioni incidentali (artt. 333 e 334):

a. l'impugnazione principale è l'impugnazione proposta per prima, secondo un


criterio cronologico e a prescindere da ogni elemento soggettivo od oggettivo
b. l'impugnazione incidentale è quella proposta nello stesso processo dopo
l'impugnazione principale, con un atto “interno” al processo di impugnazione
già in corso, presentato dalla parte che si è vista notificare l'impugnazione
principale. L'impugnazione incidentale può essere tempestiva o tardiva, a
seconda che venga proposta prima e comunque entro la scadenza del termine
per impugnare oppure dopo che tale termine sia scaduto. Ratio impugnazione
incidentale tardiva=>quando vi sono più parti legittimate ad impugnare, esse
potrebbero essere disposte ad accettare il contenuto della decisione così
come pronunciata (o

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addirittura a prestarvi acquiescenza) sul presupposto che essa passi in giudicato


anche per tutte le altre parti. Concedendo l’impugnazione incidentale tardiva,
insomma, l’ordinamento offre a ciascuna parte la facoltà di attendere che sia l’altra
parte ad impugnare per prima e, per garantire tale facoltà, deve necessariamente
considerare ammissibile anche l’impugnazione proposta oltre il termine, in quanto la
parte che ha atteso deve essere messa in grado di reagire. Si comprende, dunque,
perché l'art. 334 co. al co. 1° stabilisce che l'impugnazione incidentale tardiva è
proponibile solo dalle parti contro le quali è stata proposta un'impugnazione
tempestiva e perché il co. 2° aggiunge il principio della c.d. dipendenza
dell'impugnazione incidentale tardiva da quella principale: infatti, ove venga
dichiarata l'inammissibilità dell'impugnazione principale, analoga sorte non può che
estendersi anche a quella incidentale tardiva. In definitiva, mentre l’impugnazione
incidentale tempestiva conserva la propria autonomia a prescindere dalle vicende
dell’impugnazione principale (in quanto espressione di un potere che la parte
parzialmente soccombente avrebbe in ogni caso esercitato), quella tardiva è legata
all’impugnazione principale in quanto proposta dalla parte che non avrebbe esercitato
autonomamente il potere di impugnare.

231.Il litisconsorzio nelle fasi di gravame

Se al grado inferiore del giudizio hanno partecipato più soggetti, sorge la necessità di
garantire il rispetto del contraddittorio anche in sede di impugnazione. Il codice non
riproduce qui le nozioni e le terminologie adoperate per descrivere le tipologie dei processi
litisconsortili di 1° grado, ma distingue tra cause “inscindibili” o tra loro “dipendenti” (art.
331) e cause “scindibili” (art. 332), lasciando all’interprete il compito di individuare il
significato da attribuire alle nozioni:

a. l'art. 331 c.p.c. fissa il principio della necessità che l'impugnazione in cause
inscindibili sia proposta nei confronti di tutte le parti che abbiano
partecipato al relativo giudizio nelle fasi precedenti. Il riferimento
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all’unicità della causa e alla pluralità di parti richiama sicuramente il


fenomeno del litisconsorzio necessario ex art. 102, ma non esaurisce in esso
l’area dell’inscindibilità, che si estende anche ad altre ipotesi dalle quali
consegue l’assunzione della qualità di parte in capo a soggetti (terzi rispetto
alle parti originarie) titolari di situazioni giuridiche sostanziali dipendenti, o
comunque legate da rapporti di comunanza di cause (si pensi alla pluralità di
eredi che succeda alla parte defunta). Le cause tra loro dipendenti sono da
identificare in quelle cause che siano legate da vincoli di pregiudizialità o di
garanzia, tali che l'esito dell'impugnazione attorno al rapporto principale sia
in grado di condizionare la decisione attorno al rapporto dipendente. Se il
giudice dell'impugnazione rileva, anche d’ufficio, la mancata partecipazione
di una parte ritenuta necessaria, in quanto parte di cause inscindibili o tra loro
dipendenti, è tenuto ad ordinare alle parti costituite l'integrazione del
contraddittorio nei confronti della parte pretermessa, fissando un termine
perentorio entro il quale deve essere a questa notificato l’atto di
impugnazione. Nel caso di mancata ottemperanza all'ordine del giudice,
l'impugnazione è dichiarata inammissibile e passa in giudicato la sentenza
impugnata
b. la nozione di causa scindibile ha carattere residuale, nel senso che le cause
con pluralità di parti che non siano ritenute inscindibili o tra loro dipendenti
sono assoggettate al regime di scindibilità ex art. 332 c.p.c.: dunque cause
scindibili sono per lo più quelle in relazione alle quali vi sia stato, nel corso
del giudizio di 1° grado, un litisconsorzio facoltativo. Il giudice
dell’impugnazione, quando rileva che l'impugnazione in cause scindibili è
stata proposta soltanto da alcuna delle parti o nei confronti di alcune di esse,
ordina alle parti costituite la notificazione alle altre parti, fissando il relativo
termine. In caso di mancata ottemperanza, si avrà la sospensione del
processo, che il giudice deve disporre in attesa che decorrano i termini per il
passaggio in giudicato della sentenza nei confronti delle parti escluse
dall'impugnazione.

246
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232.Effetti “espansivi” interni ed esterni

La pronuncia resa in sede di impugnazione, di riforma o di cassazione della sentenza


impugnata produce degli effetti ulteriori rispetto a quelli che si ricollegano al suo
contenuto, che la dottrina definisce effetti espansivi interni ed esterni:

a. Interni => l’art. 336 co. 1° stabilisce che la riforma o la cassazione parziale
(cioè che incide solo su alcune parti o capi della sentenza impugnata) ha
effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o
cassata. L’effetto espansivo interno deve, dunque, riguardare capi della
sentenza che non siano stati oggetto di specifica impugnazione, ma che
risultino collegati ad altro capo impugnato
b. Esterni=> (così definiti perché si producono al di fuori della pronuncia
impugnata), ex art. 336 co. 2° essi riguardano gli atti ed i provvedimenti
dipendenti, posti in essere sul presupposto della sentenza riformata o cassata,
anch'essi travolti dalla riforma o dalla cassazione: si pensi alla sentenza
definitiva sul quantum che sia stata preceduta da sentenza non definitiva di
condanna generica sull’an.

233.L'effetto non sospensivo dell'impugnazione e i casi di sospensione


dell'esecuzione della sentenza impugnata (c.d. inibitoria)

L'art. 337 c.p.c. sancisce il principio che l'impugnazione non sospende l'esecuzione della
sentenza, cioè non incide sul potere del soggetto vittorioso di instaurare i procedimenti
esecutivi per la coattiva realizzazione di quanto in essa disposto. Tuttavia il giudice
dell’impugnazione (ed eccezionalmente, in caso di ricorso per cassazione, lo stesso giudice
che ha pronunciato la sentenza impugnata) può sospendere, su istanza di parte, gli effetti
esecutivi della sentenza impugnata (c.d. inibitoria). Più precisamente:

a. Sentenza 1°grado => l'inibitoria può essere concessa dal giudice dell’appello
247
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se ricorrono “gravi e fondati motivi, anche in relazione alla possibilità di


insolvenza di una delle parti” (art. 283): dunque il giudice è chiamato a
compiere una delibazione sommaria della fondatezza dell'impugnazione (c.d.
fumus boni juris) e del pericolo del danno (c.d. periculum in mora) che
potrebbe derivare a ciascuna delle parti dall’esecuzione (o dalla mancata
esecuzione) della pronuncia appellata (ad es. perché le condizioni economiche
dell’appellato sono tali da far fondatamente temere che, col trascorrere del
tempo, egli possa trovarsi nell’impossibilità di soddisfare le ragioni del
creditore). L'istanza di inibitoria va proposta dall'appellante, a pena di
inammissibilità, contestualmente all'atto di appello
b. Sentenza impugnata in cassazione => il giudice che l'ha pronunciata può
sospenderne l'esecuzione in presenza del più rigoroso requisito del pericolo di
“grave ed irreparabile danno” (art. 373), che esclude ogni valutazione sul
fumus di fondatezza dell'impugnazione.

234.Impugnazione della sentenza ed “autorità” della stessa nei giudizi su cause


connesse

Il co. 2° dell’art. 337 prevede, nell’ipotesi in cui l’autorità di una sentenza sia invocata “in
un diverso processo”, che questo possa essere sospeso, se contro tale sentenza sia proposta
impugnazione. In tutte le ipotesi in cui il simultaneus processus non si sia realizzato (o le
cause siano state separate), la sentenza non è affatto vincolante per la decisione su rapporti
connessi con quello da essa deciso, ma può, a discrezione del giudice, servire come base
per la risoluzione di questioni: è questa l’autorità della sentenza di cui parla la norma
citata. Dunque non è necessario, per decidere la causa connessa, attendere che la sentenza
invocata passi in giudicato. Il giudice della causa connessa avrà facoltà di scelta, potendo
sia non tener conto affatto della sentenza, sia

248
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valutarne il contenuto al fine di risolvere questioni utili alla decisione, sia sospendere il
processo in prudente attesa dell’esito dell’impugnazione contro quella sentenza.
L’ordinanza con cui viene disposta la sospensione discrezionale del processo deve indicare
le ragioni per le quali il giudice non intenda riconoscere l’autorità della prima sentenza,
chiarendo perché non è da lui condivisa. Essa è impugnabile col regolamento di
competenza e il sindacato esercitabile al riguardo dalla Corte di Cassazione è limitato alla
verifica dell’esistenza dei presupposti giuridici in base ai quali il giudice di merito si è
avvalso del potere discrezionale di sospensione, nonché della presenza di una motivazione
non meramente apparente in ordine al suo esercizio.

235.Effetti dell'estinzione del processo di impugnazione

Il processo di impugnazione, al pari di quello di 1° grado, può estinguersi per rinunzia


agli atti e per inattività delle parti. Diversi sono, però, gli effetti nei due casi. L’art. 338
stabilisce che l'estinzione del procedimento di appello o di revocazione ordinaria fa
passare in giudicato la sentenza impugnata, salvo che ne siano stati modificati gli effetti
con provvedimenti pronunciati nel procedimento estinto: tali possono essere ad es. le
sentenze non definitive pronunciate in appello, che abbiano inciso sulle statuizioni della
sentenza di 1° grado.

CAP. 22: L’APPELLO

236.Struttura e funzione

L’appello è un mezzo di impugnazione ordinario previsto dall’ordinamento per far valere


vizi sia di procedura che di merito della decisione di 1° grado non predeterminati dalla
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lOMoARcPSD|1004107

legge, così provocando un giudizio di 2° grado, all’esito del quale il giudice superiore
pronuncerà una nuova decisione che si sostituisce a quella impugnata. In forza di ciò
l’appello assume natura di vero e proprio mezzo di gravame pieno a critica libera.

Sistema previgente => Appello visto come nuovo e diverso giudizio sulla causa o su parti
di essa soggetta ad impugnazione.
Sistema attuale => l.353/90 ha modificato la struttura e funzione dell’appello rendendolo
un riesame critico della sentenza gravata.
Perciò rilievo centrale assumono i motivi di appello che ciascuna parte soccombente ha
l’onere di formulare, a pena di inammissibilità. Tali motivi delimitano l’area del riesame
unitamente alle questioni che la parte soccombente ha l’onere di riproporre ai sensi dell’art.
346. Proprio all’esito della formulazione dei motivi di appello e della riproposizione di
eccezioni, è possibile individuare l’oggetto del giudizio di appello come devoluto dalle
parti, mentre tutto quanto non devoluto è oggetto del fenomeno del c.d. giudicato interno,
che impedisce ogni successivo riesame da parte di qualsiasi giudice.

237.Le sentenze appellabili. Il giudice competente

Possono essere impugnate con appello le sentenze, definitive e non definitive, pronunciate
in 1° grado, tranne:

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a. delle sentenze di cui all'art. 440 c.p.c. (che decidono una controversia di
lavoro di valore non superiore alle vecchie lire 50000) e delle sentenze che
pronunciano sull'opposizione agli atti esecutivi
b. della sentenza in relazione alla quale le parti sono d'accordo per omettere
l'appello e sottoporre la stessa direttamente al controllo della Corte di
cassazione (c.d. revisio per saltum)
c. delle sentenze pronunciate dalla corte d'appello in un unico grado.

Ex art. 339 ultimo co. le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità, nelle
cause il cui valore non eccede 1100 euro, sono appellabili esclusivamente per violazione
delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero
dei principi regolatori della materia. Sono altresì appellabili le ordinanze pronunciate
all’esito del giudizio c.d. sommario-semplificato di cognizione, anche se in tal caso
l’appello assume caratteristiche peculiari. L'appello va proposto davanti al giudice di grado
immediatamente superiore a quello che ha pronunciato la sentenza impugnata, per cui:

d. l’appello contro le sentenze del giudice di pace si propone al tribunale nella


cui circoscrizione ha sede il giudice che ha pronunciato la sentenza, che
decide in composizione monocratica
e. l’appello contro le sentenze del tribunale (in composizione sia monocratica
sia collegiale) si propone dinanzi alla corte d’appello nel cui distretto è
ricompreso il tribunale che l’ha pronunciata.

238.L'appello contro le sentenze non definitive. La riserva d'appello

Le sentenze non definitive, che siano anche appellabili, possono essere impugnate con
l'appello immediatamente oppure fatte oggetto di riserva di appello. Infatti la parte
soccombente può anche differire la proposizione di detta impugnazione, riservandosi di
proporla insieme all'eventuale appello avverso la sentenza definitiva (o altra sentenza non
definitiva) che la veda soccombente. La riserva di impugnazione va formulata, a pena di

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decadenza, entro il termine per appellare e in ogni caso non oltre la prima udienza
successiva alla comunicazione della sentenza, rispettivamente con atto notificato ai
procuratori delle altre parti (o alla parte personalmente se non sia costituita) ovvero con
dichiarazione da inserirsi nel processo verbale della detta udienza. Una volta proposta
riserva, non è più possibile alla stessa parte proporre appello immediato (ove proposto, è
inammissibile), nel senso che la scelta a favore dell’appello differito è irreversibile.

Qualora la sentenza non definitiva sia stata immediatamente impugnata da altra parte, la
riserva non è più ammissibile e, se già proposta, rimane priva di effetto. La riserva
d’appello formulata da una parte, in caso di soccombenza parziale di più parti, non giova
anche alle altre nel caso in cui queste ultime a loro volta non abbiano formulato riserva, in
quanto la legge rimette ad ogni singola parte un autonomo potere di scelta fra riserva di
impugnazione e impugnazione immediata.

239.L'effetto devolutivo e l'oggetto del giudizio d'appello. L'onere di


riproposizione delle domande e delle eccezioni non accolte

L'appello, una volta proposto, produce l'effetto devolutivo, cioè il passaggio dell'oggetto e
del materiale di causa già esaminati dal giudice di 1° grado al giudice d'appello. L’effetto
non è automatico, ma dipende dal contenuto dell’atto di appello (principale e
incidentale), nel quale l’appellante ha l’onere di articolare specifiche censure avverso la
sentenza impugnata: la specificità va intesa nel senso che dall’atto di appello deve risultare
chiaro del rigetto di quali domande l’appellante chiede la riforma. Il mancato adempimento
di tale onere determina l’inammissibilità (se del caso anche parziale) dell’appello e il
conseguente passaggio in giudicato della sentenza di 1° grado. Parimenti inammissibile è
l’appello con cui l’appellante si limiti a dedurre soltanto vizi di rito avverso

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una pronuncia che abbia deciso anche nel merito in senso a lui sfavorevole, salvo che i vizi
denunciati comportino, se fondati, la rimessione al primo giudice ai sensi degli artt. 353 e
354.

L’art. 342 dispone che l’appello “deve essere motivato”. La motivazione dell’appello deve
contenere, a pena di inammissibilità:

a. l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle


modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal
giudice di 1° grado
b. l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della
loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.

L'oggetto del giudizio d'appello non è, dunque, necessariamente lo stesso di quello del
giudizio di 1° grado, ma va individuato di volta in volta in relazione ai motivi
dell'impugnazione. Sempre al fine di individuare l’oggetto del giudizio, va considerato
anche l'art. 346 c.p.c., secondo il quale “le domande e le eccezioni non accolte nella
sentenza di 1° grado, che non sono espressamente riproposte in appello, si intendono
rinunciate”:

c. nel caso di domande respinte, la riproposizione in discorso si manifesta con


la formulazione di specifici motivi di appello
d. nel caso di domande (subordinate o alternative) assorbite per accoglimento
di altra domanda (sulle quali il giudice di 1° grado non ha pronunciato, in
quanto l’accoglimento di quest’ultima ha reso superfluo la decisione sulle
prime) ovvero di mere eccezioni di rito o di merito non accolte, formulate
dalla parte che è risultata totalmente vittoriosa, la riproposizione può
manifestarsi non con la formulazione di censure, ma con l’inequivoca
manifestazione di volontà di sottoporre le domande assorbite alla cognizione
e decisione da parte del giudice d’appello.

Questo onere di riproposizione non sussiste (contrariamente a quanto affermato


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diffusamente in dottrina e giurisprudenza) per le eccezioni di merito rilevabili d’ufficio,


giacchè tali eccezioni non sono rinunciabili, in quanto si concretano nella mera
sollecitazione all’esercizio da parte del giudice del potere di rigettare la domanda infondata
e non possono essere comprese nella disposizione dell’art. 346, che prevede una rinuncia
implicita. Parimenti l’onere di riproposizione non sussiste con riferimento alle questioni e
alle eccezioni di mero diritto (devono riguardare capi della sentenza fatti oggetto di
impugnazione). Quanto alle modalità e ai limiti temporali dell’onere di riproposizione, il
richiamo contenuto nell’art. 347 alle forme e ai termini della costituzione nel giudizio di 1°
grado e la struttura stessa del giudizio di appello impongono che essa deve avvenire
contestualmente al deposito della comparsa di costituzione o comunque non oltre la prima
udienza di trattazione. [Esiste un divieto di reformatio in peius per il giudice d’appello?] cioè
non può riformare la sentenza in danno dell’appellante, sempre che l’appellato non abbia
proposto a sua volta impugnazione incidentale: riteniamo che, in mancanza di appello
incidentale, non sia possibile riformare la sentenza a favore dell’appellato.

240.Il divieto di domande, eccezioni e prove nuove in appello

L'art. 345 c.p.c. nei primi 2 commi pone un preciso divieto di proposizione di nuove
domande e di nuove eccezioni non rilevabili d'ufficio, che perciò, qualora proposte,
dovranno essere dichiarate inammissibili, anche d'ufficio. Possono soltanto domandarsi gli
interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il
risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa. Dal canto suo, il co. 3° comma
dell'art. 345, così come modificato dalla l. 69/2009 sanciva l'inammissibilità in appello di
nuovi mezzi di prova e l'impossibilità di produrre nuovi documenti salvo che il collegio non
li ritenesse indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte
dimostrasse di non aver potuto produrli nel giudizio di 1° grado per causa ad essa non

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imputabile (trattandosi, in questo caso, di una forma di rimessione in termini), ferma


l’ammissibilità del giuramento decisorio. La nozione di indispensabilità era da intendere
non come semplice idoneità a provare i fatti di causa, ma implicava l'impossibilità per la
parte su cui gravava l'onere probatorio di fornire la prova con altri mezzi. Inoltre il giudice
d'appello che ammetteva una prova o un documento nuovi ritenendoli indispensabili era
chiamato a dare specifica motivazione sul fatto che essi apparissero con forte probabilità
idonei a sorreggere una decisione opposta a quella di 1° grado. In ogni caso il presupposto
dell'indispensabilità:

a. non poteva servire ad ammettere prove in ordine alle quali la parte fosse già
incorsa in decadenza nel giudizio di 1° grado
b. non poteva comportare violazione della “parità delle armi” tra le parti, per cui
ad es. il collegio non poteva ammettere la prova richiesta da una parte senza
ammettere la controprova che l’altra parte avesse richiesto sugli stessi fatti
oggetto della prima.

L’attuale co. 3°, così come modificato dall’art. 54 d.l. 83/2012 (conv. in l. 134/2012), ha
soppresso il riferimento ai mezzi di prova indispensabili e dunque le parti possono
produrre nuovi documenti solo se dimostrano di non aver potuto proporli nel giudizio di 1°
grado per causa non imputabile. Tuttavia il divieto di proporre nuove prove, indispensabili
o meno, non impedisce ancora oggi al giudice di appello di disporre la rinnovazione (totale
o parziale) dell’assunzione di mezzi istruttori già assunti in 1° grado. Per l’esercizio di
questo potere la legge non fissa alcun limite particolare: la rinnovazione può essere disposta
ogniqualvolta il giudice la ritenga opportuna per superare un dubbio sulla sufficienza, ai
fini di una giusta decisione, della valutazione del primo giudice in ordine alla prova di cui si
tratta.

241.L’intervento di terzi

L'intervento in appello è fortemente limitato dalla legge, in quanto si vuol evitare che la
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domanda proposta dall'interventore volontario o contro l'interventore coatto sia conosciuta


dal giudice d'appello in unico grado di merito. Perciò l'art. 344 c.p.c. prevede che nel
giudizio d’appello è ammesso soltanto l'intervento dei terzi che potrebbero proporre
opposizione a norma dell'art. 404 c.p.c. Inoltre la giurisprudenza specifica che
l’intervento in appello è ammissibile soltanto quando l’interventore rivendichi nei confronti
di entrambe le parti la titolarità di un diritto autonomo, la cui tutela sia compatibile con la
situazione accertata o costituita dalla sentenza di 1° grado, e non anche quando si tratti di
intervento adesivo, perché volto a sostenere l’impugnazione di una delle parti per porsi al
riparo da un pregiudizio mediato. Accanto a tale intervento deve ammettersi anche
l’intervento del successore a titolo particolare nel diritto controverso ex art. 111, nonché
l’intervento del litisconsorte pretermesso, che può essere diretto anche solo ad ottenere la
rimessione della causa al 1° giudice (rimessione non va pronunciata quando il litisconsorte
interviene accettando la causa allo stato in cui si trova).

242.Il procedimento

Nel procedimento di appello si applicano, in quanto compatibili, le stesse norme dettate per
il procedimento di 1° grado davanti al tribunale. L'atto di appello si propone con citazione
che deve contenere la sommaria esposizione dei fatti (art. 342), cioè una sintesi degli atti
di parte e dell'attività processuale svolta in 1° grado, i motivi specifici dell'impugnazione
e le indicazioni prescritte nell'art. 163 per l'atto di citazione. La costituzione delle parti deve
avvenire secondo le forme ed i termini previsti per il procedimento davanti al tribunale:
l'appellante deve costituirsi entro 10 giorni dalla notificazione dell'atto di appello, mentre
l'appellato almeno 20 giorni prima della data dell'udienza indicata nella citazione o dalla
data dell’udienza che sia stata differita, depositando in cancelleria la comparsa di risposta
contenente (a pena di decadenza) l'eventuale appello incidentale. Le formalità per la
costituzione sono identiche a quelle del giudizio di 1° grado, alle quali si aggiunge per
l'appellante solo l'obbligo di inserire nel proprio fascicolo copia della sentenza impugnata.
Nella prima

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udienza di trattazione il giudice è chiamato a compiere alcune verifiche preliminari e ad


emanare alcuni provvedimenti ordinatori, infatti egli:

a. verifica la regolare costituzione del giudizio


b. dispone la rinnovazione della notificazione dell'atto di appello, in caso di
riscontrato vizio di quell'atto o di mancata costituzione dell’appellato
c. ordina, quando occorre, l'integrazione del contraddittorio a norma dell’art. 331
d. ordina, quando occorre, la notificazione prevista dall'art. 332 previa
valutazione del carattere scindibile della causa
e. dichiara l’eventuale contumacia dell'appellato
f. procede al tentativo di conciliazione, ordinando quando occorre la
comparizione personale delle parti
g. provvede alla riunione degli appelli eventualmente proposti contro la stessa
sentenza
h. dispone la notifica alla parte contumace (diversa dall’appellante) della
comparsa contenente appello incidentale
i. provvede sull'istanza di inibitoria
j. con ordinanza può disporre l'assunzione di una prova o la rinnovazione (totale
o parziale) dell'assunzione già espletata nel giudizio di 1° grado.

L’art. 350 dispone che, dinanzi alla corte d’appello, la trattazione della causa è collegiale,
ma il presidente del collegio può delegare uno dei componenti del collegio per l’assunzione
dei mezzi istruttori.

243.La sospensione degli effetti provvisoriamente esecutivi della sentenza


impugnata (c.d. inibitoria)

La proposizione dell’appello non determina l’effetto sospensivo dell’efficacia della


sentenza di 1° grado (cui l’art. 282 attribuisce effetti di provvisoria esecutività), ma il
giudice d’appello può ex art. 283 disporre la sospensione (in tutto o in parte) degli effetti
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esecutivi della sentenza appellata quando sussistono “gravi e fondati motivi, anche in
relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti”. Il legislatore non pone limiti ai
poteri cognitivi del giudice d’appello. L’istanza di sospensione dell’esecuzione provvisoria
della sentenza di 1° grado dà luogo ad un procedimento sommario incidentale che si
conclude con un provv. di natura non cautelare (non soggetto a reclamo). La l. 183/2011 ha
aggiunto un comma all’art. 283, il quale dispone che se l’istanza di inibitoria viene
dichiarata inammissibile o manifestamente infondata, il giudice, con ordinanza non
impugnabile, può condannare la parte che l’ha proposta ad una pena pecuniaria non
inferiore a 250 euro e non superiore a 10000: tale ordinanza è revocabile con la sentenza
che definisce il giudizio.

244.Inammissibilità e improcedibilità dell'appello. Il c.d. filtro in appello

Inammissibilità e improcedibilità costituiscono vere e proprie sanzioni processuali che la


legge pone a carico dell'appellante in caso di mancata osservanza delle norme in tema di
presupposti dell'impugnazione, sanzioni che impediscono il raggiungimento della finalità
tipica del mezzo, cioè la pronuncia di altra sentenza di merito da parte del giudice di 2°
grado. La mancanza di presupposti dell’appello dà luogo, se è anteriore o contestuale alla
proposizione dell’impugnazione, all’inammissibilità, mentre se successiva
all’improcedibilità dell’appello. Casi di inammissibilità dell'appello:

a. quando l'appello sia proposto contro provvedimento inappellabile


b. quando l'appello sia proposto fuori termine
c. quando l'appello principale sia stato proposto da soggetto che aveva fatto
acquiescenza della sentenza
d. in caso di appello differito avverso sentenza non definitiva nei cui confronti
non sia stata formulata tempestiva riserva d'impugnazione
e. a seguito dell’inottemperanza all’ordine di integrazione del contraddittorio in
cause inscindibili o tra

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loro dipendenti
f. un’ulteriore ipotesi è prevista dall’art. 348 bis, il quale dispone che, fuori dei
casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o
l’improcedibilità dell’appello, l’impugnazione è dichiarata inammissibile dal
giudice competente quando “non ha una ragionevole probabilità di essere
accolta”. In questo caso l’inammissibilità può essere pronunciata all’esito di
un “filtro”, al fine di consentire l’immediata “eliminazione” di quei processi
che non abbiano ragionevoli probabilità di accoglimento. Eppure la mancata
indicazione normativa di un qualsiasi criterio da utilizzare ai fini di tale
valutazione prognostica comporta il rischio che essa sia eccessivamente
affidata alla discrezionalità del giudice. Perciò il filtro dovrebbe limitarsi a
bloccare quelle impugnazioni proposte in violazione del principio di
specificità dei motivi di appello ovvero formulate sulla base di motivi dalla
cui semplice lettura discende l’infondatezza degli stessi (ad es. perché in
contrasto con consolidati principi di diritto vivente).

La dichiarazione di inammissibilità è pronunciata all’udienza di cui all’art. 350, prima di


procedere alla trattazione, sentite le parti, con ordinanza succintamente motivata. Ex art.
348 ter, quando è pronunciata l’inammissibilità, contro il provvedimento di 1° grado può
essere proposto ricorso per cassazione nei limiti dei motivi esposti con l’atto di appello: in
tal caso il termine per il ricorso per cassazione avverso il provvedimento di 1° grado
decorre dalla comunicazione o notificazione dell’ordinanza che dichiara l’inammissibilità
(se essa non è stata comunicata o notificata, si applica il termine di decadenza ex art 327
c.p.c.).

L'improcedibilità dell'appello si ha ex art. 348:

g. in caso di mancata costituzione (tempestiva) dell'appellante, sia principale che


incidentale (costituzione tardiva dell’appellante determina l’improcedibilità
dell’appello). L’art. 347.2 fa obbligo all’appellante di depositare nel proprio
fascicolo copia della sentenza impugnata; ratio=garantire la possibilità di suo
esame da parte del giudice di appello: tuttavia la legge, in caso di omissione,
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non commina la sanzione dell’improcedibilità


h. in caso di mancata comparizione dell'appellante alla prima udienza e anche a
quella successiva fissata dal collegio con ordinanza impugnabile.

Le dichiarazioni di inammissibilità e di improcedibilità dell’appello possono essere


pronunciate dal collegio anche d’ufficio. L'appello dichiarato inammissibile o
improcedibile non può essere riproposto.

245.La decisione

Nella prima udienza (sempre che non disponga l’assunzione dei mezzi di prova), il giudice
invita le parti a precisare le conclusioni e dispone lo scambio delle comparse conclusionali
e delle memorie di replica ai sensi dell’art. 190, con le stesse modalità e tempi del giudizio
di 1° grado. La sentenza è depositata in cancelleria entro 60 giorni dalla scadenza del
termine per il deposito delle memorie di replica.

a. Se l'appello è proposto alla corte di appello, ciascuna delle parti , nel precisare
le conclusioni, può chiedere che la causa sia discussa oralmente dinanzi al
collegio. Il presidente della corte provvede sulla richiesta fissando con decreto
la data dell'udienza di discussione da tenersi entro 60 giorni e con lo stesso
decreto designa il relatore. Infatti la discussione è preceduta dalla relazione
della causa, e la sentenza è depositata in cancelleria entro i 60 giorni
successivi. Al di fuori dell’ipotesi ora presa in considerazione non è
incompatibile con il principio di collegialità (anzi è necessaria) la nomina del
consigliere estensore, chiamato a raccogliere e formalizzare la volontà
decisoria del collegio e a stendere la motivazione della sentenza
b. se l'appello è proposto al tribunale, il giudice, quando una delle parti lo
richiede, dispone lo scambio delle sole comparse conclusionali e fissa
l'udienza di discussione non oltre 60 giorni dalla scadenza del termine per il
deposito delle comparse medesime. La sentenza è depositata in cancelleria
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entro i 60

261
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giorni successivi.

La decisione ovviamente può riformare totalmente la sentenza di 1° grado, può farlo solo in
parte (riforma parziale), può rigettare l’appello confermando la sentenza di 1° grado. In
caso di accoglimento dell’appello e di conseguente riforma della sentenza di 1° grado,
vengono meno immediatamente sia l’efficacia esecutiva della sentenza di 1° grado, sia
l’efficacia degli atti o dei provvedimenti di esecuzione spontanea o coattiva della stessa,
con conseguente obbligo di restituzione delle somme pagate e di ripristino della situazione
precedente.

246.La rimessione della causa al primo giudice

Gli artt. 353 e 354 c.p.c. prevedono le ipotesi nelle quali il giudice d'appello è obbligato a
rimettere la causa al giudice di 1° grado in conseguenza della riforma della sentenza
impugnata. Si tratta di ipotesi ritenute tassative dalla giurisprudenza, e cioè:

a. l'accertamento della sussistenza della giurisdizione negata dal primo giudice


b. la dichiarazione di nullità della notificazione dell'atto di citazione introduttivo
del giudizio di 1° grado. La dichiarazione in questione deve essere stata
invocata dalla parte già dichiarata contumace in 1° grado, che ha censurato
attraverso l’appello l’errore del primo giudice consistente nel non aver
riscontrato la nullità (e disposto la rinnovazione della notificazione) e
nell’aver illegittimamente dichiarato la contumacia della stessa
c. l'accertamento della mancata integrazione del contraddittorio da parte del
primo giudice. Comunque se il litisconsorte necessario, che non abbia
partecipato al giudizio di 1° grado, interviene in appello senza eccepire il
vizio e anzi accettando (anche implicitamente) la sentenza di 1° grado, la
giurisprudenza esclude che il giudice di appello debba disporre la rimessione
al primo giudice
d. l'accertamento dell'errata estromissione di una parte ad opera del primo giudice
262
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e. la dichiarazione di nullità della sentenza di 1° grado per difetto di


sottoscrizione del giudice. In tal caso il primo giudice, a seguito della
rimessione, dovrà rinnovare solo la fase della decisione
f. la riforma della sentenza che ha pronunciato sull'estinzione del processo a
norma dell'art. 308.

In tutte queste ipotesi il giudice d'appello si limita semplicemente ad accertare la


sussistenza dei presupposti per la rimessione e a pronunciare la relativa declaratoria. Le
parti poi dovranno riassumere la causa davanti al primo giudice entro 3 mesi dalla
notificazione della sentenza d'appello o, in mancanza di notificazione, dalla pubblicazione
della sentenza entro il termine di 6 mesi. Il termine è interrotto dalla (eventuale)
proposizione del ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello: in questo caso la
riassunzione deve avvenire entro 3 mesi dalla pubblicazione della sentenza di cassazione.

CAP. 23: IL GIUDIZIO DI CASSAZIONE. IL GIUDIZIO DI RINVIO

247.Il controllo di legittimità esercitato dalla Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione è l’organo supremo posto dall’ordinamento al vertice della piramide


formata funzionalmente dagli organi di giurisdizione ordinaria e speciale. L’art. 65 ord.
giud. assegna a tale corte il compito di garantire "l'esatta osservanza e l'uniforme
interpretazione della legge,

263
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l'unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni",
oltre che di regolare i conflitti di competenza e di attribuzione e di adempiere agli altri
compiti ad essa conferiti dalla legge.

La Corte di Cassazione non è un giudice di 3° grado poiché essa non entra nel merito
della controversia. La Cassazione, infatti, non può sindacare direttamente la fase di
ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di merito, ma deve limitarsi a verificare la
corretta applicazione della legge. Il percorso logico del giudizio di legittimità compiuto
dalla Corte di Cassazione, dunque, è il seguente: a quella fattispecie concreta doveva essere
applicata quella norma; dall’applicazione di quella norma dovevano derivare quelle
conseguenze e non altre. Inoltre la Cassazione controlla che il giudice del merito non abbia
omesso nella motivazione di valutare un fatto decisivo che avrebbe potuto condurre ad una
diversa decisione e anche che il procedimento di merito e la sentenza impugnata non siano
viziati da nullità.

Nel caso in cui il giudice di merito non abbia fatto corretta applicazione della legge, la
Corte cassa la sentenza impugnata, enunciando il c.d. principio di diritto, cioè affermando
in che modo deve essere regolata quella fattispecie concreta. Tuttavia non si deve ritenere
che la Corte di Cassazione compia automaticamente tutte le attività suddette per il solo fatto
che la sentenza sia impugnata dinanzi ad essa: infatti il sindacato della corte si esercita nei
limiti dei motivi di censura articolati dal ricorrente.

248.Le funzioni della Corte di Cassazione. In particolare: la “nomofilachia”. Il


principio di diritto nell'interesse della legge

La preminenza che la legge assegna alla Cassazione sugli altri giudici ordinari e speciali
non è di tipo gerarchico, ma funzionale, dato che la Costituzione sancisce l’indipendenza
dei giudici. Tale preminenza riguarda due poteri che l’ordinamento riconosce alla Corte:

a. Delimitare la sfera delle giurisdizioni => ex art 362 c.p.c. possono essere
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impugnate con ricorso per cassazione le decisioni in grado d'appello o in un


unico grado di un giudice ordinario ma anche di un giudice speciale, per
motivi attinenti alla giurisdizione del giudice stesso. L’art. 111 co. 8° Cost.
definisce ammissibile altresì il ricorso per cassazione avverso le decisioni del
Consiglio di Stato e della Corte dei conti “per i soli motivi inerenti alla
giurisdizione”, In sostanza la Cassazione è organo supremo regolatore della
giurisdizione e dei conflitti di giurisdizione
b. giudicare su ogni violazione di legge compiuta da giudici del merito,
svolgendo una funzione di
c.d. nomofilachia, che l’art. 65 ord. giud. descrive come quella di assicurare “l'esatta
e l'uniforme interpretazione della legge e l'unità del diritto oggettivo nazionale”. Alla
luce di ciò il giudice di merito ha il dovere di conoscere e di applicare i principi
formulati dalla Corte e, quando pronuncia in modo difforme dalla giurisprudenza
della Cassazione, di enunciare accuratamente quelle che sono le ragioni del suo
dissenso, che dovrebbero condurre la stessa Corte a mutare il proprio orientamento.

Principio di diritto nell’interesse della legge => Istituto che consente alla Cassazione di
enunciare un principio di diritto d’ufficio. La pronuncia può essere sollecitata dal procuratore
generale presso la Corte Cass che attiva le funzioni della corte non a beneficio delle singole
parti del processo ma dell’ordinamento nel suo complesso. Tale pronuncia non produrrà
effetti sul provvedimento del giudice di merito.

249.Il ricorso straordinario in Cassazione ex art. 111 Cost.

Ai sensi dell’art. 111 co. 7° sono sempre impugnabili in Cassazione per violazione di
legge i provvedimenti dei giudici ordinari e speciali, sempre che non siano altrimenti
impugnabili. Tale mezzo di impugnazione è definito straordinario poiché si pone al fuori
dell’ordine dei mezzi di impugnazione previsti dal codice. Secondo la giurisprudenza si
ritengono idonee ad essere impugnate con tale mezzo le sentenze dichiarate per legge non
impugnabili, nonché ogni altro provvedimento avente natura sostanziale di sentenza (anche
se pronunciato nelle forme dell’ordinanza o del decreto) che abbia 2 caratteristiche:

265
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a. decisorietà, intesa come idoneità a produrre con efficacia di giudicato effetti


di diritto sostanziale
b. definitività, ovvero quando non è revocabile o modificabile o che non si
possano esperire altri rimedi giurisdizionali.

I motivi che possono essere fatti valere con il ricorso straordinario in Cassazione, per lungo
tempo limitati dalla giurisprudenza della stessa Corte alla violazione di legge, sono oggi gli
stessi del ricorso ordinario ex art. 360.

250.Il ricorso ordinario in Cassazione

Il ricorso ordinario in Cassazione è un mezzo di impugnazione ordinario da proporsi entro


60 giorni dalla notificazione della sentenza impugnata o, in assenza di notificazione, di 6
mesi dal deposito della stessa (art. 325 co. 2°), con i quali possono essere impugnate:

a. le sentenze definitive, anche parziali, pronunziate in grado di appello. Il


ricorso per cassazione avverso queste sentenze può essere proposto solo se
viene impugnata una sentenza che definisce, anche parzialmente, il merito.
b. le sentenze pronunziate in un unico grado (ad es. la sentenza che la corte
d'appello pronuncia sull'azione di nullità del lodo arbitrale)
c. la sentenza pronunciata dal tribunale in 1° grado, se le parti sono
d’accordo per omettere l’appello (revisio per saltum), anche se in tal caso
l’impugnazione può essere proposta solo ex art. 360 n. 3 (violazione e/o falsa
applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi di lavoro).

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251.I motivi di ricorso

I motivi del ricorso per Cassazione sono tassativi (a critica vincolata). Essi devono
investire, a pena di inammissibilità, questioni che abbiano formato oggetto del giudizio di
merito, senza che sia possibile introdurre questioni nuove. Sono indicati all’art 360 c.p.c.

a. motivi attinenti alla giurisdizione (n. 1), e cioè i rapporti tra giudice
ordinario e giudici speciali, tra giudice ordinario e PA e tra giurisdizione
italiana e giurisdizioni straniere. Essi possono essere formulati se la Corte non
ha già stabilito sulla giurisdizione in sede di regolamento di giurisdizione e
che, nel corso del processo, non si sia formato il giudicato attorno ad una
pronuncia sulla giurisdizione
b. violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il
regolamento di competenza (n. 2). Tale limitazione restringe fortemente
l’ambito di applicazione del ricorso, dal quale vanno esclusi tutti i casi in cui
l’unico mezzo di impugnazione esperibile sia il regolamento di cui all’art. 42
c. violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e
accordi collettivi nazionali del lavoro (n. 3). Con tale motivo si sottopone
all’esame della Corte l’error in judicando che il ricorrente assume essere stato
commesso dal giudice di merito. In particolare:
i. nella violazione di legge rientra la negazione o il fraintendimento di
norma esistente o l’affermazione di norma inesistente
ii. la falsa applicazione si ha quando una norma intesa in maniera corretta
si applica ad una fattispecie non corrispondente a quella astratta dalla
norma stessa contemplata o da questa non regolata
d. nullità della sentenza o del procedimento (n. 4). Con tale motivo sono
sottoposti all’esame della Cassazione i vizi di nullità (assoluta o relativa)
della sentenza o del procedimento per errores in procedendo, che consistono
nella violazione di norme sulla formazione del giudicato, ivi comprese quelle
in tema di rilevazione del giudicato interno, di omissione di pronuncia, di
extrapetizione (che si ha quando il giudice pone a fondamento della decisione
un fatto non allegato dalla parte) e di ultrapetizione (che si ha quando il
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giudice statuisce oltre i limiti delle domande svolte dalle parti). Quando
esercita questo tipo di controllo la Corte è anche giudice di merito, cioè ha il
potere di conoscere e controllare le circostanze di fatto poste a base della
decisione impugnata, nonché quello di riesaminare direttamente gli atti del
processo, interpretando e valutando le relative risultanze
e. omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di
discussione tra le parti (n. 5). Il vizio della motivazione deve riguardare un
“fatto controverso e decisivo per il giudizio”, cioè avente ad oggetto
elementi o questioni in grado di incidere sul contenuto della decisione
impugnata in virtù di un rapporto di causalità. Oggi il vizio di motivazione
può concernere esclusivamente l’omesso esame di un fatto decisivo per il
giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Il ricorrente deve
individuare il fatto controverso tra le parti in relazione al quale la motivazione
è ritenuta omessa e deve spiegare perché ritiene questa omissione “decisiva”.
Secondo le Sezioni Unite, le modifiche apportate dal legislatore nel 2012
all’art. 360 devono essere in ogni caso interpretate come riduzione del
sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui il vizio
di motivazione denunciabile davanti alla Corte di Cassazione è solo quello
che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante. Infine, la
censura dell’esame non può essere proposta avverso la sentenza di appello
che ribadisca le ragioni relative a questioni di fatto contenute nella decisione
di 1° grado, confermando quest’ultima (c.d. doppia conforme).

252.La riserva di ricorso contro le sentenze non definitive. L’impugnabilità delle


sentenze che decidono questioni senza definire, nemmeno parzialmente, il
giudizio

L'art. 361 c.p.c. consente che, contro le sentenze di condanna generica o ad una
provvisionale e contro quelle che decidono una o alcune delle domande senza definire
l'intero giudizio, il ricorso per cassazione possa essere differito ove la parte soccombente ne
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faccia riserva, a pena di decadenza, entro il termine per la proposizione del ricorso, e in
ogni caso non oltre la prima udienza successiva alla comunicazione della sentenza. Qualora
sia stata fatta la riserva, il ricorso deve essere proposto unitamente a quello contro la
sentenza che definisce il giudizio. Le sentenze che si limitano a decidere questioni insorte
senza definire (neanche parzialmente) il giudizio non sono immediatamente impugnabili
per Cassazione, ma possono essere impugnate quando è impugnata la sentenza che
definisce (anche parzialmente) il giudizio.

253.Il contenuto del ricorso. Il principio di autosufficienza e di sinteticità

Il ricorso per cassazione (che, dopo la notificazione, deve essere depositato nella cancelleria
della Corte, a pena d'improcedibilità, nel termine di 20 giorni dall'ultima notificazione alle
parti contro le quali è proposto) deve contenere:

a. l'indicazione delle parti


b. l'indicazione della sentenza o decisione impugnata
c. l'esposizione sommaria dei fatti della causa
d. i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l'indicazione delle norme di
diritto su cui si fondano
e. l'indicazione della procura alle liti, se conferita con atto separato
f. l'elezione del domicilio in Roma, in mancanza della quale le notificazioni
sono fatte al ricorrente presso la cancelleria della Cassazione
g. la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o
accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda.

Tali requisiti sono previsti a pena di inammissibilità del ricorso. L’art. 372 esclude la
possibilità di depositare atti e documenti non prodotti nei precedenti gradi del processo, con
l’eccezione dei documenti che riguardano la nullità della sentenza impugnata e
l’ammissibilità del ricorso Inoltre il ricorso, sempre a pena di inammissibilità, deve essere
sottoscritto da avvocato iscritto nell'apposito albo, munito di procura speciale da apporsi sul
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ricorso o risultante da atto notarile; ogni procura rilasciata per i precedenti gradi di giudizio
o quella di tenore generale è inutilizzabile in Cassazione. Nella giurisprudenza recente della
Cassazione si è fatto sempre più spazio un principio particolarmente rigoroso di valutazione
del contenuto del ricorso (da più parti criticato in dottrina): si tratta del principio c.d.
dell'autosufficienza, che sta ad indicare l'idoneità del motivo di ricorso (di per se
considerato) a consentire alla Corte il controllo di legittimità del provvedimento impugnato
sulla base delle sole deduzioni contenute nell'atto, alle cui lacune non è possibile sopperire
con ricerche o indagini integrative. In sostanza, è il ricorrente che deve indicare
specificamente i fatti e le circostanze che vuole sottoporre all’attenzione della Corte,
senza poter fare affidamento sul fatto che quest’ultima vada alla ricerca degli stessi negli
atti delle pregresse fasi processuali, ai quali il ricorrente abbia fatto un semplice rinvio.
Tuttavia un’applicazione indiscriminata del principio di autosufficienza può comportare la
redazione di ricorsi sovrabbondanti che ledono il principio di sinteticità degli atti
processuali.

254.Il ricorso incidentale ed incidentale condizionato

La parte nei cui confronti è proposto il ricorso, se intende contraddirlo limitandosi a


chiederne il rigetto, deve far notificare (entro 40 giorni dalla data della notificazione del
ricorso) un controricorso al ricorrente nel domicilio da quest’eletto nel ricorso principale.
Questo deve poi essere depositato nella cancelleria della Corte entro 20 giorni dalla
notificazione, con modalità e termini analoghi a quelli del deposito del ricorso e con la
medesima sanzione dell'improcedibilità (anche se non espressamente prevista dalla legge).
Se il controricorrente intende, a sua volta, impugnare la sentenza (essendo anch’egli
parzialmente soccombente), deve farlo proponendo ricorso incidentale: il ricorrente potrà,
a sua volta, notificare un controricorso per resistere al ricorso incidentale.

La giurisprudenza ha da tempo creato una particolare figura di ricorso incidentale, detta


ricorso incidentale condizionato, con il quale la parte subordina l'esame del proprio
ricorso incidentale all'accoglimento del ricorso principale. Tale figura si differenzia dal
ricorso incidentale propriamente detto (che può essere proposto solo dalla parte
soccombente) poiché esso è proponibile dalla parte vittoriosa nel merito che abbia interesse
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a sottoporre all'esame della Corte questioni preliminari o pregiudiziali che siano state
sfavorevolmente risolte nelle fasi del merito. Proprio in quanto non vi è soccombenza
“pratica” su domande o capi di domanda, l’esame di questo ricorso è condizionato
all’accoglimento di quello principale: ad es. si pensi al convenuto integralmente vittorioso
nel merito, ma soccombente sulla questione di prescrizione, il quale voglia far riesaminare
la questione alla Cassazione; l’eventuale accoglimento del ricorso incidentale condizionato
e il conseguente accertamento che la prescrizione è maturata comporterà l’assorbimento dei
motivi del ricorso principale.

255.Pronuncia a Sezioni Unite ed a sezione semplice. La rimessione alle Sezioni


Unite da parte della sezione semplice

Ai sensi dell'art. 374 c.p.c., sul ricorso la Corte di Cassazione pronuncia:

a. a Sezioni Unite, nei casi in cui debba decidere una questione ovvero un
conflitto di giurisdizione. Tuttavia, tranne che nei casi di impugnazione delle
decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, il ricorso può essere
assegnato alle sezioni semplici se sulla questione di giurisdizione si sono già
pronunciate le Sezioni Unite
b. a Sezioni Unite, sui ricorsi che, a giudizio del primo presidente, presentano
una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni semplici e
su quelli che sollevano questioni di particolare importanza
c. a sezione semplice in tutti gli altri casi.

La sezione semplice è tenuta ad applicare i principi di diritto formulati dalle Sezioni Unite.
Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle
Sezioni Unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso: tale
previsione intende evitare la formazione di contrasti interni alla Corte (così rafforzando la
sua funzione nomofilattica), anche se non è accompagnata da alcuna sanzione.

271
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256.Il c. d. filtro di ammissibilità al ricorso

Al fine di rafforzare la funzione nomofilattica della Cassazione e allo stesso tempo


accelerare la decisione dei ricorsi di più agevole soluzione, la l. 69/2009 ha introdotto l'art.
360 bis c.p.c., che prevede 2 cause di inammissibilità del ricorso, oltre a quelle già
analizzate:

a. quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo


conforme alla giurisprudenza della Corte e l'esame dei motivi non offre
elementi per confermare o mutare l'orientamento della stessa. Così si pone un
duplice precetto:
i. se la sentenza impugnata per cassazione si è pronunciata risolvendo
questioni diritto in modo difforme dalla giurisprudenza della Corte, il
motivo di ricorso è ammissibile se il ricorrente indichi nel ricorso i
principi formulati dalla Corte dai quali il giudice di merito si è
discostato
ii. diversamente, se la sentenza impugnata per cassazione si è pronunciata
risolvendo questioni diritto in modo conforme alla giurisprudenza
della Corte, l’inammissibilità è evitata mediante l’allegazione da parte
del ricorrente di elementi che, per la loro novità (ad es. jus
superveniens o evoluzioni dottrinali) e per l’evidenza della loro
prospettazione, convincano la Corte della necessità (o anche solo della
possibilità) di mutare il suo orientamento
b. quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei
principi regolatori del giusto processo, nel senso che, tra le innumerevoli
possibili censure fondate sulla violazione di norme processuali, sono
considerate ammissibili soltanto quelle che denuncino la violazione di
principi regolatori del giusto processo (ad es. principio del contraddittorio) e
che appaiano ictu oculi non manifestamente infondate.

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257.Il rito camerale e le sue varianti

Al fine di verificare preliminarmente l'ammissibilità del ricorso, la l. 69/2009 ha istituito


un'apposita sezione della Corte (la c.d. sezione filtro, oggi sesta sezione), a cui il primo
presidente sottopone l’esame di tutti i ricorsi presentati, salvo che non siano rimessi alle
Sezioni Unite. La sezione verifica se sussistono i presupposti per la pronuncia in camera di
consiglio ai sensi dell'art. 375 co. 1° n. 1 e 5, cioè per dichiarare l'inammissibilità del
ricorso ovvero per accogliere o rigettare il ricorso per manifesta fondatezza o infondatezza.
Il relatore della sezione, se appare possibile definire il giudizio per le ragioni suddette,
deposita in cancelleria una relazione con la concisa esposizione delle ragioni. In questo
caso il presidente della sezione fissa con decreto l'adunanza della Corte in camera di
consiglio. Almeno 20 giorni prima della data stabilità per l'adunanza, il decreto e la
relazione sono notificati ai difensori delle parti, i quali hanno facoltà di presentare
rispettivamente conclusioni scritte e memorie (non oltre 5 giorni prima) e di chiedere di
essere sentiti se compaiono. Se la sezione filtro non definisce il giudizio dichiarando il
ricorso inammissibile (oppure manifestamente infondato o fondato), esso viene assegnato
alla sezione semplice. La sezione semplice potrebbe, a sua volta, stabilire che si proceda in
camera di consiglio in tutti i casi previsti dall'art. 375 c.p.c., quindi non solo nei casi n. 1 e
5, ma anche quando essa riconoscere di dover:

a. ordinare l'integrazione del contraddittorio o disporre che sia eseguita la


notificazione dell'impugnazione ovvero che essa sia rinnovata
b. provvedere in ordine all'estinzione del processo in ogni caso diverso dalla
pronuncia
c. pronunciare sulle istanze di regolamento di competenza e di giurisdizione.

Se ritiene che non ricorrano le ipotesi previste dall'art. 375, la causa è rimessa alla pubblica
udienza.

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258.La decisione in pubblica udienza

Nei casi in cui si procede secondo tale rito, ai sensi dell’artt. 377, il primo presidente
(sezioni unite) o il presidente della sezione (sezione semplice) fissa la data dell’udienza e
nomina il consigliere relatore. Le parti possono presentare le loro memorie in cancelleria
non oltre 5gg prima dell’udienza. All'udienza il relatore riferisce i fatti rilevanti per la
decisione del ricorso, il contenuto della sentenza impugnata e i motivi del ricorso e del
controricorso. Dopo la riforma del 2016 i difensori parlano dopo aver ascoltato il p.m. Non
sono ammesse repliche, ma le parti possono presentare brevi osservazioni scritte sulle
conclusioni del p.m. Dopo la discussione, la Corte delibera la sentenza in camera di
consiglio.

259.Contenuto ed effetti delle pronunce della Cassazione. La dichiarazione di


inammissibilità ed improcedibilità del ricorso e le decisioni sulla giurisdizione
e sulla competenza

Esaminiamo adesso i possibili esiti della decisione della Cassazione. La Cassazione può in
primis dichiarare inammissibile il ricorso per:
1) assenza dei motivi di cui all'art. 360
2) ragioni di cui all'art. 360 bis
3) per mancato rispetto del principio di autosufficienza
4) perché il ricorso è stato proposto fuori termine.
Può altresì dichiararlo improcedibile:
1) nei casi previsti dall'art. 369
2) perché il ricorrente si è costituito tardivamente o violando le prescrizioni
previste dalla stessa norma.
L'art. 387 prevede che il ricorso dichiarato inammissibile o improcedibile
non può essere riproposto, anche se non è scaduto il termine fissato
dalla legge. Inoltre la Cassazione può essere chiamata a decidere sulla
giurisdizione e sulla competenza: in tali casi, quando occorre, viene
274
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indicato il giudice munito della giurisdizione o della competenza.

260.Decisione sulla giurisdizione e translatio judicii

La decisione sulla giurisdizione può essere sottoposta in vari modi alla Cassazione, alla
quale la legge attribuisce la funzione di giudice supremo regolatore della giurisdizione e dei
relativi conflitti. In questi casi la Cassazione decide sempre a Sezioni Unite:

a. innanzitutto l'art. 41 prevede il regolamento preventivo di giurisdizione, sul


quale la Corte decide in camera di consiglio e con ordinanza
b. altro percorso è quello del ricorso ordinario in Cassazione ai sensi dell'art.
360. Se il giudice di merito abbia statuito (anche implicitamente) sulla
giurisdizione, il riesame della questione da parte della Cassazione postula che
essa sia stata riproposta con il mezzo di impugnazione (altrimenti ostandovi la
formazione del giudicato interno). In queste ipotesi la Corte decide con
sentenza, a seguito di pubblica udienza
c. l'art. 362.1 prevede che possano essere impugnate con ricorso per cassazione
le decisioni in grado di appello o in un unico grado di un giudice speciale per
motivi attinenti alla giurisdizione del giudice stesso
d. l'art. 362.2 consente poi di denunciare in ogni tempo con ricorso per
cassazione i conflitti positivi o negativi di giurisdizione tra giudici speciali o
tra questi e i giudici ordinari, nonché i conflitti negativi di attribuzione tra la
PA e il giudice ordinario.

Per lungo tempo la giurisprudenza ha ritenuto che la c.d. translatio judicii dal giudice
ordinario al giudice speciale e viceversa presuppone l'unicità della giurisdizione, con la
conseguenza che, in caso di riassunzione della causa davanti al giudice competente,
risultano salvi tutti gli atti in precedenza proposti e gli effetti (sostanziali e processuali)
della domanda. Nel caso, invece, di domanda proposta innanzi ad un giudice privo di

275
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giurisdizione, non si riteneva possibile la riassunzione dinanzi al giudice (amministrativo o


speciale) munito di giurisdizione. Il tema è stato argomento di intenso dibattito in dottrina;
dal canto suo, la Cassazione aveva stabilito che sia nel caso di ricorso ordinario, sia nel
caso di regolamento preventivo di giurisdizione (che può essere sollevato nel corso del
giudizio dinanzi al giudice ordinario, ma anche dinanzi al giudice amministrativo, contabile
o tributario) operasse la translatio judicii, così consentendosi al processo, iniziato
erroneamente dinanzi ad un giudice privo di giurisdizione, di continuare dinanzi al giudice
dotato di giurisdizione, realizzando in modo più sollecito il “servizio giustizia”. In tal senso
si era pronunciata anche la Corte Costituzionale, che aveva dichiarato incostituzionale l’art.
30 l. 1034/1971 (istitutiva dei tribunali amministrativi regionali) nella parte in cui non
prevede che gli effetti della domanda proposta a giudice privo di giurisdizione si
conservino, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito dinanzi al
giudice munito di giurisdizione.

La l. 69/2009 ha dettato le regole procedimentali che governano la translatio judicii. In


particolare, l’art. 59 stabilisce che il giudice che, in materia civile, amministrativa,
contabile, tributaria o di giudici speciali, dichiara il proprio difetto di giurisdizione è tenuto
ad indicare, se esistente, il giudice nazionale che ritiene munito di giurisdizione.
L’indicazione non vincola comunque il giudice indicato, dato che soltanto la pronuncia
sulla giurisdizione resa dalle Sezioni Unite è vincolante per ogni giudice e per le parti
anche in altro processo. Se, entro il termine perentorio di 3 mesi dal passaggio in giudicato
della pronuncia declinatoria di giurisdizione, la domanda è riproposta al giudice ivi
indicato, sono fatti salvi gli effetti che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è
stata dichiarata la giurisdizione fin dall’instaurazione del primo giudizio (ferme restando le
preclusioni e le decadenze intervenute). In sostanza, la translatio judicii fa sì che il
medesimo processo continui dinanzi al giudice investito della giurisdizione, dinanzi al
quale le parti hanno l'onere di riassumerlo. Infatti, in assenza di riassunzione, l'intero
processo si estingue e vengono meno gli effetti della domanda. Il giudice davanti al quale la
causa è riassunta può sollevare d’ufficio con ordinanza tale questione davanti alle sezioni
unite fino alla prima udienza fissata per la trattazione nel merito (ciò non vale quando su
tale questione si siano pronunciate le sezioni unite)

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261.La decisione di accoglimento. Il principio di diritto

Quando la Corte accoglie il ricorso per motivi diversi a quelli attinenti alla giurisdizione o
alla competenza, essa deve:

a. rinviare la causa ad altro giudice di grado pari a quello che ha pronunciato la


sentenza cassata
b. in caso di accoglimento del ricorso per violazione o falsa applicazione di
norme di diritto ovvero dei contratti o accordi collettivi di lavoro (n. 3), deve
enunciare il principio di diritto al quale il giudice di rinvio deve uniformarsi,
(deve indicare quella che è a suo avviso l'esatta interpretazione delle norme da
applicare) e, in caso di falsa applicazione, deve indicare altresì da quali
premesse il giudice di rinvio debba muovere per una corretta configurazione
giuridica della fattispecie, con conseguente vincolo nei confronti di tale
giudice. La Corte enuncia inoltre il principio di diritto in ogni caso in cui,
decidendo anche su motivi diversi da quello ex n. 3, risolve una questione di
diritto di particolare importanza
c. nel caso di revisio per saltum, può rinviare al giudice che avrebbe dovuto
pronunciare sull'appello cui le parti hanno rinunciato
d. se riscontra una nullità del giudizio di 1° grado, per la quale il giudice
d'appello avrebbe dovuto rimettere le parti al primo giudice, deve rinviare la
causa a quest'ultimo: si tratta del c.d. rinvio improprio.

È possibile che l’accoglimento di uno o più motivi di ricorso comporti l’assorbimento di


altri, (così la Corte di Cassazione può evitare di prendere in esame e pronunciare su una
questione che, per effetto dell’accoglimento, diviene non più rilevante ai fini della
decisione). La non rilevanza deve essere valutata non soltanto ai fini della decisione del
ricorso per cassazione, ma anche tenendo conto del successivo giudizio di rinvio.

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262.La cassazione senza rinvio. La cassazione “sostitutiva”

In alcune ipotesi la Corte accoglie il ricorso, ma cassa la decisione impugnata senza


disporre il rinvio ad altro giudice:

a. la prima ipotesi di cassazione senza rinvio è disciplinata dal co. 3° dell'art.


382 c.p.c., in base al quale la Corte, se riconosce che il giudice del quale
s'impugna il provvedimento e “ogni altro giudice” difettano di giurisdizione,
cassa senza rinvio. In tal caso la cassazione senza rinvio è imposta dalla
carenza assoluta di giurisdizione in capo a qualsiasi giudice : si pensi ad
una sentenza pronunciata dal giudice ordinario che ritenga esistente un diritto
in materie riservate all’esclusiva potestà del Parlamento (ad es. in materia di
parità di trattamento tra forze politiche ai fini dell’accesso agli strumenti
pubblici di comunicazione)
b. la Corte cassa senza rinvio anche nei casi in cui la causa non poteva essere
iniziata o il processo proseguito. Quindi tale ipotesi consegue alla accertata
mancanza di un presupposto di proponibilità della domanda o di procedibilità
del processo (si pensi all’inammissibilità dell’appello, ad es. perché proposto
oltre il termine di impugnazione, che non sia stata erroneamente pronunciata
dal giudice di 2° grado) che avrebbe dovuto far concludere in rito il processo
già nei gradi precedenti
c. diversa ipotesi di cassazione senza rinvio è data dalla cassazione c.d.
sostitutiva: l'art. 384 co. 2° dispone che la Corte di Cassazione, quando
accoglie il ricorso, decide la causa nel merito, applicando essa stessa il
principio di diritto contestualmente formulato, qualora non siano necessari
ulteriori accertamenti di fatto. La sentenza investita da ricorso rimane in vita
ad ogni effetto in tutte le parti non sostituite dalla Corte. Ratio = evitare
l’inutile allungamento dei tempi per la decisione finale, che si verificava nei
casi (non rari) in cui il giudice di rinvio constatava che il vincolo al rispetto
del principio di diritto ed il carattere chiuso dello stesso giudizio di rinvio
limitavano il suo compito ad applicare quel principio ad un fatto di causa già
fissato. Nella formulazione previgente dell’art. 384, la cassazione sostitutiva
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era limitata ai casi di accoglimento del ricorso per violazione o falsa


applicazione di norme di diritto. Il d.lgs. 40/2006 ha subordinato questa
ipotesi di cassazione senza rinvio a tutti i casi in cui la Corte accoglie il
ricorso, senza ulteriori specificazioni. Riteniamo comunque che, nonostante la
modifica, la cassazione sostitutiva continui ad essere possibile nei soli casi
di violazione o falsa applicazione di norme di diritto ed opiniamo che la
nuova formulazione normativa sia soltanto finalizzata a rivelare l'intentio
legislatoris di estendere la possibilità della cassazione sostitutiva all’accertata
violazione di norme processuali e non soltanto sostanziali: se così non fosse,
si determinerebbe un’abnorme estensione dei poteri della Cassazione al
giudizio di fatto.

263.Il potere di correzione della motivazione della sentenza impugnata

La Corte, nel rigettare il ricorso, può esercitare anche d'ufficio il potere di correzione della
motivazione ad essa attribuito dall'art. 384 co. 4° c.p.c., cioè di modificare o integrare
argomentazioni giuridicamente erronee che non incidano sulla conformità al diritto della
decisione impugnata (anche in relazione ad un error in procedendo).

264.Le questioni rilevate d'ufficio dalla Corte di cassazione

Può accadere che la Cassazione rilevi d'ufficio una questione che ritiene di porre a
fondamento della sua decisione. In tal caso l'art. 384 co. 3° c.p.c. impone alla Corte, a
garanzia del contraddittorio, di riservare la decisione, assegnando con ordinanza al p.m. e
alle parti un termine tra i 20 e i 60 giorni dalla comunicazione per il deposito in cancelleria
di osservazioni sulla medesima questione. L’eventuale

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omissione (che, se si verificasse davanti al giudice del merito, determinerebbe la nullità


della decisione) è, però, sprovvista di apposita sanzione processuale, non essendo previsto
alcun mezzo di gravame che consenta di far valere la nullità delle decisioni della
Cassazione.

265.Le spese del giudizio

Ai sensi dell'art. 385 c.p.c., la Corte, se rigetta il ricorso, condanna il ricorrente alle spese.
Se vi è cassazione senza rinvio della sentenza impugnata ovvero per violazione delle norme
sulla competenza, la Corte provvede sulle spese di tutti i precedenti giudizi, liquidandole
essa stessa o rimettendone la liquidazione al giudice che ha pronunciato la sentenza cassata
(co. 2°). Se rinvia la causa ad altro giudice, la Corte può provvedere sulle spese del giudizio
di cassazione o rimettere la pronuncia al giudice di rinvio.

266.La rinuncia al ricorso

Ai sensi dell'art. 390 c.p.c., la parte può rinunciare al ricorso principale o incidentale finchè
non sia cominciata la relazione all'udienza o sia notificata la richiesta di decisione in
camera di consiglio. Ciò vuol dire che, una volta decorsi tali termini, la Cassazione deve
comunque pronunciarsi sul ricorso proposto, anche se nessuna delle parti si presenta
all'udienza. Sulla rinuncia la Corte provvede con sentenza quando deve decidere altri ricorsi
contro lo stesso provvedimento, altrimenti provvede il presidente con decreto, dichiarando
l'estinzione del giudizio di cassazione.

267.La correzione degli errori materiali e di calcolo contenuti nella sentenza della
Cassazione
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L'art. 391-bis recepisce il principio, già enunciato nella giurisprudenza, che delle sentenze
(e delle ordinanze) della Corte di Cassazione, al pari di quelle dei giudici di merito, possono
essere corretti gli errori materiali e di calcolo. A differenza di quanto disposto per le
sentenze dei giudici di merito, però, non si prevedono qui rimedi integrativi di omissioni,
ma la lacuna sembra colmabile con un’interpretazione estensiva, atteso l’esplicito richiamo
dell’art. 287. La procedura è la medesima del ricorso ordinario per cassazione, ma l'istanza
di correzione (proprio come quella relativa alle sentenze dei giudici di merito) non è
sottoposta ad alcun termine.

268.Il giudizio di rinvio

A seguito della cassazione con rinvio, la Corte di Cassazione indica il giudice del rinvio,
dinanzi al quale può svolgersi un'ulteriore fase del processo di merito (avente funzione
rescissoria), disciplinata dagli artt. 392-394 e destinata a concludersi con una nuova
sentenza di merito, che andrà a sostituirsi a quella cassata. Va precisato che il giudizio di
rinvio muove su impulso di parte: l'atto di riassunzione davanti al giudice designato dalla
Cassazione deve essere notificato o depositato, a pena di estinzione, non oltre 3 mesi dalla
pubblicazione della sentenza agli stessi soggetti che furono parti nel processo in cassazione
e che sono litisconsorti necessari del giudizio di rinvio. Al fine di circoscrivere il significato
della disposizione che vincola il giudice di rinvio ad osservare le norme stabilite per il
procedimento concluso con la sentenza cassata (art. 394), è necessario tenere presente che
nel giudizio di rinvio le parti, da un lato, non possono prendere conclusioni diverse da
quelle prese nel giudizio in cui fu pronunciata la sentenza cassata (salvo che la necessità
delle nuove conclusioni sorga dalla sentenza di cassazione) e che, dall’altro lato, esse
conservano la stessa posizione processuale che avevano nel

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procedimento in cui fu pronunciata la detta sentenza. Perciò è ricorrente in giurisprudenza


l'affermazione che la riassunzione della causa dinanzi al giudice di rinvio instaura un
processo “chiuso”, nel quale è preclusa alle parti ogni possibilità di proporre nuove
domande, eccezioni, nonché conclusioni diverse da quelle già in precedenza prese, salvo
che queste ultime siano rese necessarie da statuizioni della sentenza della Cassazione.
Inoltre nel giudizio di rinvio non possono essere considerati motivi di impugnazione diversi
da quelli formulati nel giudizio d’appello. Al riguardo bisogna distinguere a seconda che la
sentenza di cassazione abbia accolto il ricorso per motivi che incidano o meno
sull'accertamento dei fatti così come contenuto nella sentenza cassata:

a. a seguito di cassazione per vizi che non incidono sull'accertamento dei


presupposti di fatto (ad es. per violazione o falsa applicazione di norme di
diritto), l'ambito del giudizio di rinvio è limitato dalla normativa secondo la
quale il giudice di rinvio non può porre in discussione i fatti già accertati nel
precedente giudizio di merito
b. invece, se la sentenza è stata annullata in accoglimento di altri motivi di
cassazione, il giudice di rinvio potrà procedere ad un nuovo esame dei fatti e,
se del caso, tener conto dei nuovi fatti allegati dalle parti e ammettere nuove
prove.

Inoltre, in caso di jus superveniens o di sopravvenuta declaratoria d'incostituzionalità della


norma su cui la Corte ha fondato il principio di diritto, il giudice di rinvio è tenuto ad
applicare la nuova norma e a tener conto di quella declaratoria , essendo venuta meno
l'efficacia vincolante del principio di diritto.

Davanti al giudice di rinvio si applicano le norme proprie del procedimento davanti a tale
giudice e deve essere in ogni caso prodotta copia autentica della sentenza di cassazione. Se
il giudizio di rinvio si estingue o se la riassunzione della causa dinanzi al giudice di rinvio
non avviene (o non avviene tempestivamente), ex art. 393 “l’intero processo si estingue”,
ma la sentenza della Corte di Cassazione conserva il suo effetto vincolante anche nel nuovo
processo che fosse eventualmente instaurato a seguito della riproposizione della domanda, a
condizione che esso riguardi le medesime parti e il medesimo oggetto.
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Dal rinvio proprio, fin qui descritto, occorre distinguere il rinvio c.d. improprio, che è
quello cui fa riferimento l'ultimo comma dell'art. 383 c.p.c. e che la Cassazione dispone
quando riscontra una nullità del giudizio di 1° grado per la quale il giudice d'appello
avrebbe dovuto rimettere le parti al primo giudice: è il caso del litisconsorte pretermesso
nel giudizio di 1° grado e di 2° grado, che determina la necessità, a seguito
dell'annullamento della sentenza impugnata, che il processo sia rimesso davanti al giudice
di 1° grado, davanti al quale dovrà essere preliminarmente integrato il contraddittorio.

CAP. 24: LA REVOCAZIONE E L'OPPOSIZIONE DI TERZO

269.Premessa

Oltre l'appello ed al ricorso per cassazione, il codice di procedura civile prevede altri due
mezzi di impugnazione, la revocazione e l'opposizione di terzo (proponibili anche contro le
sentenze della Cassazione).

270.La revocazione

La revocazione è un mezzo d'impugnazione a critica vincolata attraverso il quale


l'ordinamento, in presenza di particolari motivi di censura, consente di riproporre il
medesimo oggetto del giudizio davanti allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza
impugnata, cui sono devolute sia la fase rescindente (di annullamento della

283
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decisione impugnata) che quella rescissoria (di emanazione di una nuova decisione).
L'impugnazione per revocazione può essere proposta contro le sentenze pronunciate in
grado d'appello (quelle di 1° grado non sono oggetto di revocazione in quanto impugnabili
con l’appello), contro le sentenze pronunciate in un unico grado e contro le sentenze già
passate in giudicato, contro il decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo e il lodo arbitrale (ma
solo limitatamente ai casi di revocazione straordinaria). Nell'ambito dei motivi di
revocazione previsti dalla legge si distinguono:

a. i c.d. motivi palesi, che danno adito alla revocazione ordinaria. Questi,
essendo conoscibili già al momento della pubblicazione della decisione,
debbono essere fatti valere negli stessi termini delle impugnazioni ordinarie
b. tutti gli altri motivi, c.d. occulti, che danno accesso alla revocazione
straordinaria. Questi, in quanto conoscibili anche in epoca successiva al
passaggio in giudicato della sentenza, possono essere fatti valere anche
successivamente al passaggio in giudicato.

Secondo l'art. 398 c.p.c., la proposizione della revocazione non sospende il termine per
proporre il ricorso per cassazione o il procedimento relativo. Tuttavia il giudice davanti al
quale è proposta la revocazione, su istanza di parte, può sospendere l'uno o l'altro
procedimento fino alla comunicazione della sentenza che abbia pronunciato sulla
revocazione, qualora ritenga non manifestamente infondata la revocazione proposta.

La revocazione ordinaria (n. 4 e n. 5 dell’art. 395) è proponibile:

4. per errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Tale errore di
fatto ricorre quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui
verità è incontrastabilmente esclusa oppure sulla supposizione dell'inesistenza di
un fatto la cui verità è positivamente stabilita e, in entrambi i casi, quando il fatto
non abbia costituito “punto controverso sul quale la sentenza ebbe a
pronunciarsi”. Secondo il diritto vivente, l'errore di fatto si configura come una
falsa percezione della realtà, una svista obiettivamente e immediatamente
rilevabile, e pertanto consiste in un errore meramente percettivo che in nessun
284
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modo coinvolga l’attività valutativa del giudice. Inoltre l’errore di fatto


revocatorio deve essere determinante ai fini della decisione, ossia legato da un
nesso di causalità necessaria di carattere logico-giuridico con la pronuncia che si
assume inficiata da tale vizio, nel senso che, eliminato quest’ultimo, venga a
cedere il presupposto su cui si fonda la decisione (requisito della c.d.
essenzialità o decisività dell’errore di fatto revocatorio)
5. per contrarietà della sentenza con altra precedente avente tra le parti
autorità di giudicato, purchè non abbia pronunciato sulla relativa eccezione
(contrasto di giudicati).

I motivi di revocazione straordinaria (nn. 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395) sono:

 il dolo di una delle parti in danno dell'altra, cioè il raggiro o artificio, posto in essere
da una sola delle parti, finalizzato a paralizzare la difesa della controparte e ad
impedire al giudice l'accertamento della verità
 la falsità delle prove (nel senso che la sentenza è stata resa in base a prove
riconosciute o dichiarate false dopo la sentenza oppure che la parte soccombente
ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della sentenza)
 il reperimento, dopo la sentenza, di documenti decisivi non prodotti in giudizio
per causa di forza maggiore o per fatto dell'avversario
 il dolo del giudice.

Ulteriori 2 casi di revocazione sono previsti dall'art. 397 c.p.c. solo a favore del p.m. e
limitatamente alle cause in cui il suo intervento è obbligatorio, cioè

 quando la sentenza è stata pronunciata senza che il p.m. sia stato sentito

285
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 quando la sentenza è l'effetto della collusione posta in essere dalle parti per frodare la
legge.

Ex art. 398 la revocazione si propone dinanzi al medesimo giudice (inteso come ufficio
giudiziario) che ha pronunciato la sentenza impugnata e si osservano le stesse norme
stabilite per il procedimento dinanzi a lui. L'atto introduttivo del giudizio deve indicare, a
pena di inammissibilità, il motivo della revocazione e le prove relative alla dimostrazione
dei fatti che danno adito alla revocazione straordinaria. Il giudice della revocazione può
pronunciare, su istanza di parte inserita nell’atto introduttivo, l’ordinanza di inibitoria ex
art. 373. Con la sentenza che pronuncia la revocazione, il giudice decide anche il merito
della causa e dispone l'eventuale restituzione di ciò che è stato conseguito con la sentenza
revocata. Se per la decisione del merito della causa ritiene di dover disporre di nuovi mezzi
istruttori, egli pronuncia con sentenza la revocazione della sentenza impugnata e rimette
con ordinanza le parti davanti all'istruttore. La sentenza pronunciata nel giudizio di
revocazione non può essere impugnata per revocazione, ma contro di essa sono ammessi i
mezzi di impugnazione ai quali era originariamente soggetta la sentenza impugnata per
revocazione.

271.L'opposizione di terzo

Si tratta di un mezzo d'impugnazione proponibile anche contro la sentenza passata in


giudicato, che l'ordinamento mette a disposizione soltanto di taluni soggetti i quali, non
avendo partecipato al giudizio all'esito del quale quella sentenza è stata pronunciata,
subiscono comunque dalla sentenza resa inter alios un pregiudizio ad un proprio diritto. Va
precisato che deve trattarsi di soggetti che non hanno mai acquistato la qualità di parte nel
processo all’esito del quale è stata emanata la decisione impugnata. L'art. 404 c.p.c.
disciplina 2 diversi tipi di opposizione di terzo, rispettivamente “ordinaria” e
“revocatoria”:

a. il co. 1° si limita ad indicare, ai fini della legittimazione all'opposizione di

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terzo ordinaria, i terzi che sono stati pregiudicati nei loro diritti da una
sentenza inter alios, che può essere da essi opposta in ogni tempo. Tale
pregiudizio va riferito innanzitutto a quello derivante dall'esecuzione della
sentenza ai danni dei terzi titolari di un diritto autonomo e incompatibile
con quello oggetto della sentenza medesima: si pensi ad es. a chi si vanti
proprietario del bene oggetto di rivendica inter alios. Secondo diffuse
opinioni, la legittimazione a proporre l’opposizione di terzo ordinaria
spetterebbe anche al falsamente rappresentato e al litisconsorte pretermesso.
Infine si ritiene che la legittimazione in esame vada riconosciuta anche a
coloro che sono soggetti all’efficacia riflessa della cosa giudicata
b. il co. 2° consente di proporre opposizione c.d. revocatoria agli aventi causa e
ai creditori di una delle parti, quando la sentenza pronunciata inter alios “è
effetto di dolo o collusione a loro danno”. Per tale opposizione il termine è
di 30 giorni, decorrente dal giorno in cui è stato scoperto il dolo o la
collusione. Collusione = condotta processuale, necessariamente concordata
tra le parti, finalizzata a far emettere una sentenza che accerti un diritto o un
rapporto giuridico sostanziale che le stesse ritengono inesistente.
L'impugnazione per dolo (che può essere anche unilaterale e consistere in
mere omissioni) mira a far accertare l'alterazione fraudolenta della realtà
sostanziale.

Il procedimento di opposizione di terzo (sia ordinaria che revocatoria) è disciplinato dagli


artt. 405-408 c.p.c.: essa si propone davanti allo stesso giudice (da intendersi come ufficio
giudiziario) che ha pronunciato la sentenza impugnata. L'atto introduttivo deve contenere,
oltre agli elementi di cui all'art. 163 c.p.c., anche l'indicazione della sentenza impugnata e,
nel caso dell'opposizione revocatoria, l'indicazione del giorno in cui il terzo è venuto a
conoscenza del dolo o della collusione e della relativa prova. Davanti al giudice adito (il
quale può anche pronunciare, su istanza di parte inserita nell’atto introduttivo, l’ordinanza
di inibitoria ex art. 373) si osservano le norme stabilite per il procedimento davanti a lui. La
sentenza che decide sull'opposizione pronuncia sempre sul rescindente e, in caso di
accoglimento dell'opposizione conseguente all'annullamento della sentenza impugnata,
anche sul rescissorio, contenendo la pronuncia sostitutiva.
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272.Le impugnazioni delle decisioni della Corte di Cassazione

Principio consolidato nel sistema delle impugnazioni civili è quello secondo il quale la
decisione della Cassazione, una volta depositata in cancelleria, passa in giudicato al
momento della sua nascita. Ciò risponde non soltanto alla previsione dell’art. 111 Cost.,
che impone la necessità di garantire il solo ricorso per Cassazione per violazione di legge,
ma anche ad un’esigenza di chiusura del sistema dei rimedi, che, se fossero indefinitamente
esperibili, non consentirebbero mai la formazione del giudicato. Eppure la legge prevede
alcune particolarissime ipotesi in cui anche la decisione della Cassazione è impugnabile.
Ciò può avvenire:

a. con revocazione per errore di fatto ai sensi dell’art. 395 n. 4, in tutti i casi
in cui la Cassazione pronuncia sentenza ovvero quando pronuncia ordinanza
ai sensi dell’art. 375 n. 4 e n. 5. L’errore di fatto deve riguardare gli atti
interni al giudizio di legittimità (erronea percezione dei fatti in causa). Ad
es. è affetta da errore di fatto revocatorio la decisione della Cassazione che si
fondi sull’asserita mancanza della notifica del ricorso per cassazione, ove
questa invece risulti dagli atti. L’errore di fatto non è configurabile in caso
riguardi norme giuridiche (errore di diritto). La revocazione si propone con
ricorso per cassazione da notificare entro il termine perentorio di 60 giorni
dalla notificazione ovvero di un anno dalla pubblicazione della sentenza.
Esso deve essere sottoscritto da un difensore munito di procura speciale (con
conseguente inutilizzabilità di quella rilasciata per il precedente ricorso per
cassazione) e deve esporre, a pena di inammissibilità, i fatti rilevanti per la
decisione revocatoria, non essendo invece necessaria l’esposizione dei fatti di
cui all’originario ricorso per cassazione. La Corte decide sul ricorso in camera
di consiglio
b. con revocazione in tutte le altre ipotesi ex art. 395 c.p.c., ma soltanto quando
la Cassazione abbia deciso la causa nel merito
c. con opposizione di terzo, soltanto quando la Cassazione abbia deciso la causa
nel merito.

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SEZIONE TERZA: I PROCESSI DAVANTI AL GIUDICE DI PACE

CAP. 25: I PROCESSI DAVANTI AL GIUDICE DI PACE

273.Le regole del procedimento ordinario

Il procedimento davanti al giudice di pace trova collocazione tra i riti speciali di


cognizione ordinaria, finalizzato a conseguire l’accertamento pieno con efficacia di
giudicato sostanziale all’esito di un procedimento che, per caratteristiche soggettive (del
giudice di pace) e oggettive (il contenuto meno complesso ed economicamente più modesto
delle controversie), è più semplice rispetto al modello generale costituito dal processo
dinanzi al tribunale. Gli artt. 311 ss. c.p.c. disegnano perciò un procedimento autonomo,
mentre ha carattere meramente residuale il rinvio ex art. 311 alle norme relative al
procedimento davanti al tribunale monocratico, in quanto applicabili. L’assenza di rigide
preclusioni negli atti introduttivi e la maggiore elasticità e semplicità delle forme
procedurali concorrono a creare un procedimento ad hoc, cioè capace di adeguarsi di volta
in volta al grado di maggiore o minore complessità della causa, nonché di favorire la
funzione conciliativa che la legge assegna al giudice di pace. Maggiore semplicità imposta
anche dall’art. 82, che dispone che nei giudizi il cui valore non eccede 1100 euro le parti
possono stare in giudizio personalmente, cioè senza l’obbligo del patrocinio legale.
Peraltro il giudice di pace, al di là del limite di 1100 euro, può, in considerazione della
“natura ed entità della causa”, autorizzare con decreto quest’ultima a stare in giudizio di
persona.

La domanda si propone mediante citazione a comparire ad udienza fissa, ma può essere


proposta anche in forma orale, attraverso la redazione di processo verbale che l’attore ha
cura di far notificare al convenuto (art.

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316). Tra il giorno della notificazione e quello della comparizione del convenuto deve
intercorrere un termine non inferiore a 45 giorni. L'art. 318 c.p.c. indica requisiti minimali
di contenuto, che consistono nell'indicazione del giudice e delle parti, nell’esposizione dei
fatti e nell' indicazione dell'oggetto della domanda. Le parti possono costituirsi anche
direttamente alla prima udienza, depositando la citazione o il processo verbale suddetti e,
quando occorre, la procura, eleggendo domicilio nel comune in cui ha sede l'ufficio del
giudice di pace.

Nonostante ex art 320 c.p.c. la fase di trattazione possa sembrare priva di preclusioni e
decadenze secondo orientamento prevalente della giurisprudenza non è così. Nella prima
udienza ciascuna delle parti ha l’obbligo di comparire di persona per essere liberamente
interrogata dal giudice di pace il quale tenta la conciliazione. Il convenuto può proporre
domande riconvenzionali e istanza di chiamata di terzi e, più in generale, difese rispetto alle
quali l’attore ha diritto di controreplicare attraverso un’attività di precisazione e
modificazione della propria domanda. Al giudice fanno capo, oltre al suddetto obbligo di
espletamento dell’interrogatorio (e di tentativo di conciliazione), anche le obbligatorie
verifiche preliminari. Il giudice di pace, se non la conciliazione non ha esito positivo, invita
le parti a precisare definitivamente i fatti che ciascuna intende porre a fondamento delle
domande, difese ed eccezioni, a produrre documenti e a richiedere i mezzi di prova. Inoltre,
qualora ciò sia reso necessario dalle attività svolte dalle parti nella prima udienza, fissa per
una sola volta una nuova udienza per ulteriori produzioni e richieste di prova.

Ai sensi dell’art. 321 il giudice di pace, nel momento in cui ritiene la causa matura per la
decisione, invita le parti a precisare le conclusioni e a discutere oralmente la causa. La
sentenza è depositata in cancelleria entro il termine di 15 giorni dalla discussione, ed è di
norma appellabile dinanzi al tribunale. Ai sensi dell'art. 113 c.p.c., per le cause il cui valore
non ecceda 1100 euro, la decisione è pronunciata dal giudice di pace secondo equità , tuttavia
la Corte Costituzionale nel 2004 ha dichiarato l’illegittimità di tale norma nella parte in cui
non prevede che il giudice di pace debba osservare i principi informatori della materia.
Dunque il giudizio equitativo non può prescindere dai principi regolatori della materia.

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274.Il regime di impugnabilità

Le sentenze pronunziate secondo equità dal giudice di pace sono appellabili dinanzi al
tribunale esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di
norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia (art. 339 co.
3°), altrimenti esse sono inappellabili, ma ricorribili per cassazione. L’appello avverso le
sentenze del giudice di pace è soggetto integralmente alle regole ordinarie. Infine, va detto
che l'art. 46 c.p.c. non consente l'esperibilità avverso le sentenze del giudice di pace del
regolamento di competenza ad istanza di parte, ragion per cui le statuizioni del giudice di
pace che riguardano la competenza vanno impugnate col ricorso ordinario per cassazione o
con l'appello, a seconda che siano state pronunciate secondo equità o meno. Peraltro il
regolamento di competenza si riteneva inammissibile anche se proposto avverso il
provvedimento con cui il giudice di pace dispone la sospensione del processo. Ma il diritto
vivente ha invertito tale orientamento facendo leva sulla “progressiva valorizzazione” della
garanzia costituzionale della ragionevole durata del processo.

275.Altre tipologie di processi

Oltre al procedimento ordinario sin qui descritto, si svolgono dinanzi al giudice di pace
altre tipologie di processi relativi a controversie disciplinate da leggi speciali: ci riferiamo
in particolare ai giudizi di opposizione ai verbali di accertamento di violazioni del codice
della strada, all’opposizione a sanzioni amministrative in materia di stupefacenti e ai
procedimenti in materia di espulsione dei cittadini di Stati non membri UE.

276.La funzione di conciliazione in sede non contenziosa del giudice di pace

La legge attribuisce al giudice di pace una funzione di conciliazione che può essere

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esercitata in sede non contenziosa, cioè al di fuori delle funzioni connesse alla decisione sul
merito delle controversie rientranti nella sfera di propria competenza (art. 322). L’istanza
per la conciliazione è proposta, anche verbalmente, al giudice di pace competente per
territorio, ma il processo verbale dell’avvenuta conciliazione costituisce titolo esecutivo
solo se la controversia rientra nella competenza del giudice di pace: negli altri casi essa ha
solo valore di scrittura privata riconosciuta in giudizio. In tal modo la legge intende
favorire, al di fuori del giudizio, la possibilità per le parti di addivenire alla conciliazione.
Nella prassi, però, tale strumento si rileva inadeguato: il fatto che il processo verbale di
conciliazione acquisti efficacia esecutiva soltanto se la controversia rientra nella
competenza del giudice di pace costituisce indubbiamente una limitazione della forza
conciliativa attribuita al giudice.

SEZIONE QUARTA: I PROCESSI A COGNIZIONE PIENA SOTTOPOSTI A RITI


SPECIALI

CAP. 26: I PRINCIPI DI SEMPLIFICAZIONE DEI RITI SPECIALI “EXTRACODICE”.


IL D.LGS. 150 DEL 2011

277.I riti “differenziati” a cognizione piena

Si tratta di forme di tutela giurisdizionale “normale”, destinate anch’esse a formare un


giudicato sostanziale (accertamento pieno nel merito), che però sono sottoposte dal
legislatore a regole procedimentali particolari (in tutto o in parte) diverse da quelle
generali, in ragione della peculiarità dei diritti e rapporti giuridici sostanziali che ne
costituiscono l’oggetto. La specialità, pertanto, va intesa come differenziazione del rito
rispetto a quello ordinario e non come appartenenza alla categoria dei procedimenti definiti
“speciali” del libro IV del c.p.c., i quali si svolgono sulla base di una cognizione sommaria
e non sono destinati alla formazione del giudicato sostanziale. Negli ultimi decenni il
292
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legislatore ha moltiplicato l’introduzione di riti speciali attraverso numerose leggi speciali.

278.La delega per la riduzione e semplificazione dei procedimenti civili e i suoi


limiti

La l. 69/2009, nel tentativo di porre un argine al proliferare dei riti speciali, ha attribuito la
delega al governo ad emanare uno o più decreti legislativi volti a ricondurre i procedimenti
civili di natura contenziosa “autonomamente regolati dalla legislazione speciale” ad uno dei
3 modelli processuali previsti dal c.p.c.:

a. i procedimenti in cui sono prevalenti caratteri di concentrazione


processuale, ovvero di officiosità dell'istruzione, sono ricondotti al rito del
lavoro
b. i procedimenti, anche se in camera di consiglio, in cui sono prevalenti i
caratteri di semplificazione della trattazione o dell'istruzione della causa,
sono ricondotti al procedimento c.d. sommario di cognizione
c. tutti gli altri procedimenti sono ricondotti al modello generale del processo di
cognizione ordinaria. Questo intervento di riduzione e semplificazione presentava 2
limiti fondamentali:
d. la delega si riferisce ai procedimenti di natura contenziosa “autonomamente
regolati dalla legislazione speciale”, così escludendo tutti i procedimenti
regolati dallo stesso c.p.c. che presentano elementi di specialità (ad es. il
procedimento di opposizione al decreto ingiuntivo)
e. la delega esclude da ogni intervento le disposizioni processuali in materia di
procedure concorsuali, di famiglia e minori, nonché quelle contenute nel
codice della proprietà industriale e nel codice del consumo.

L’individuazione dei 3 modelli processuali suddetti aveva lo scopo, oltre che di ridurre il
numero dei riti speciali, anche di impedire al legislatore di crearne di nuovi oltre quelli. Ciò
per due ragioni: la prima era quella di evitare una nuova proliferazione di riti speciali al
293
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di fuori del c.p.c., che avrebbe vanificato l’intervento del 2011; la seconda era quella di
valorizzare le scelte del legislatore del 2011 anche a livello sistematico, consolidando il
principio che obbliga il legislatore a individuare, già in sede di introduzione di un nuovo
rito speciale, il modello di riferimento prescelto.

279.Il d.lgs. 150 del 2011

In attuazione della delega, il d.lgs. 150/2011 ha individuato le singole tipologie di


controversie da sottoporre a ciascuno dei 3 modelli processuali di riferimento, dettando
regole specifiche per ciascuna di esse. La conseguenza è che, nonostante la riconduzione ai
3 modelli processuali, sono stati introdotti innumerevoli “sottoriti” sia del rito del lavoro sia
del rito semplificato. Quanto alla scelta delle singole tipologie di controversie, il legislatore
delegato ha individuato quelle controversie che, presentando prevalenti caratteri di
semplificazione sia di oggetto sia di istruzione, erano maggiormente compatibili col rito
semplificato, mentre le controversie sottoposte al rito ordinario sono state scelte sulla base
di un criterio residuale.

280.Le controversie assoggettate al rito del lavoro

Gli artt. 6 ss. d.lgs. 150/2011 hanno ricondotto al rito del lavoro:

a. le opposizioni ad ordinanza di ingiunzione


b. le opposizioni ai verbali di accertamento di violazioni del codice della strada
c. le opposizioni a sanzioni amministrative in materia di stupefacenti
d. le opposizioni ai provvedimenti di recupero degli aiuti di Stato
e. i procedimenti previsti dall’art. 152 del Codice in materia di protezione dei dati
personali
f. le controversie in materia di contratti agrari
g. i procedimenti di impugnazione dei provvedimenti in materia di registro dei
protesti
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h. le opposizioni ai provvedimenti in materia di riabilitazione del debitore


protestato.

Per tali controversie il d.lgs. detta poi alcune regole generali di coordinamento, escludendo
l’applicazione di alcune norme tipiche delle controversie di lavoro.

281.Le controversie assoggettate al rito semplificato di cognizione

Va premesso che, nonostante l’aggettivo “sommario” contenuto nella rubrica dell’art. 702
bis (che potrebbe far pensare alla sommarietà della cognizione tipica dei procedimenti
cautelari e non cautelari), il rito in questione costituisce un modello semplificato di
procedimento, da utilizzare in alternativa al rito ordinario. Gli artt. 14 ss. d.lgs. 150/2011
hanno ricondotto a tale rito:

a. i procedimenti in materia di liquidazione dei compensi dovuti all’avvocato dal


proprio cliente
b. le opposizioni ai decreti di pagamento delle spese di giustizia
c. le controversie in materia di mancato riconoscimento del diritto di soggiorno
sul territorio nazionale in favore dei cittadini UE
d. le controversie in materia di allontanamento dei cittadini degli altri Stati
membri UE o dei loro familiari
e. le controversie in materia di espulsione dei cittadini di Stati non membri UE
f. le controversie in materia di riconoscimento della protezione internazionale
g. le opposizioni alla convalida del trattamento sanitario obbligatorio
h. le azioni popolari e le controversie in materia di eleggibilità, decadenza e
incompatibilità nelle elezioni comunali, provinciali, regionali e per il
Parlamento europeo
i. i procedimenti in materia di riparazione a seguito di illecita diffusione del
contenuto di intercettazioni
l. le impugnazioni dei provvedimenti disciplinari a carico di notai
m. le impugnazioni delle deliberazioni del Consiglio nazionale dell’Ordine dei
295
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giornalisti
n. procedimenti in materia di discriminazione
o. le controversie in materia di opposizione alla stima nelle espropriazioni per
pubblica utilità
p. le controversie in materia di attuazione di sentenze e provvedimenti stranieri
di giurisdizione volontaria e contestazione del riconoscimento
q. le opposizioni al diniego del nulla osta al ricongiungimento familiare e del
permesso di soggiorno per motivi familiari.

Il d.lgs. detta poi alcune regole generali di coordinamento, prevedendo che non si applicano
i co. 2° e 3° dell’art. 702 ter, per cui viene meno la possibilità (che costituisce caratteristica
tipica del rito semplificato che l’attore può scegliere di introdurre, in alternativa al rito
ordinario, nelle controversie di competenza del tribunale monocratico) di disporre, all’esito
della valutazione di non compatibilità del rito anche alla luce delle difese svolte dal
convenuto, la prosecuzione del giudizio nelle forme del rito ordinario. Ciò significa che,
accanto al rito semplificato “facoltativo”, il d.lgs. 150/2011 ha introdotto un rito
semplificato “obbligatorio”, nel quale non è possibile la “trasformazione” del rito in
ordinario.

282.Le controversie assoggettate al rito ordinario

I procedimenti in cui non è stato rinvenuto alcuno dei caratteri sopra richiamati per gli altri
due modelli processuali di riferimento, sono stati ricondotti, secondo un criterio residuale,
al rito ordinario di cognizione. Perciò ad esso gli artt. 31 ss. d.lgs. 150/2011 hanno
ricondotto:

 le controversie in materia di rettificazione di attribuzione di sesso


 i procedimenti in materia di opposizione a procedura coattiva per la riscossione delle
entrate patrimoniali dello Stato e degli altri enti pubblici
 le controversie in materia di liquidazione degli usi civici.
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283.Il mutamento del rito

L’art. 4 d.lgs. 150/2011 disciplina il mutamento del rito nell’ipotesi in cui la controversia
venga introdotta in forma diverse da quelle previste dallo stesso d.lgs. In realtà una
disciplina in proposito era già contenuta, per il rito del lavoro, negli artt. 426, 427 e 428
c.p.c., attorno ai quali si sono consolidati alcuni principi che il legislatore del 2011 ha poi
applicato. Innanzitutto va ricordato il principio secondo il quale la questione di rito non
incide sulla validità della domanda giudiziale, nel senso che introdurre un processo con
forme diverse da quelle sue proprie non comporta di per sé la conclusione del processo né il
rigetto della domanda per motivi di mera procedura, ma solo la possibilità che (a seguito di
eccezione di parte o anche di rilievo officioso) lo stesso processo prosegua, previo
mutamento di rito, secondo diverse regole processuali. In sostanza, l’errore sul rito non è di
per sé causa di invalidità della domanda. Per tale ragione gli atti processuali compiuti
prima del mutamento conservano la loro validità.

Ciò premesso, quando una controversia viene promossa in forme diverse da quelle previste
dal decreto in esame, il giudice dispone il mutamento del rito con ordinanza non revocabile:
questa è pronunciata dal giudice, anche d’ufficio, non oltre la prima udienza di
comparizione delle parti. In realtà il legislatore del 2011, pur concedendo la rilevabilità
officiosa, ha introdotto una forte limitazione temporale all’esercizio dei poteri officiosi,
così consentendo che il processo introdotto con un rito errato, in mancanza di rilievo
officioso (oltre che di eccezione di parte), possa proseguire con quello stesso rito. Quando
la controversia rientra tra quelle per le quali il d.lgs. prevede l’applicazione del rito del
lavoro, il giudice fissa l’udienza di cui all’art. 420 e il termine perentorio entro il quale le
parti devono provvedere all’eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante deposito
di memorie e documenti in cancelleria. L’art. 4 co. 5° ribadisce il principio che gli effetti
sostanziali e processuali della domanda si producono secondo le norme del rito seguito
prima del mutamento. D’altro canto restano anche ferme le decadenze e le preclusioni
maturate secondo le norme del rito seguito prima del mutamento, proprio in quanto non
viene “azzerata” ogni attività processuali svolta sino a quel momento.
297
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284.La sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato

L’art. 5 contiene le regole generali da osservarsi in tutti i casi in cui il d.lgs. 150/2011
prevede la sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato (ad es. nei
casi di opposizione ai verbali di accertamento

298
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di violazioni del codice della strada). In tali ipotesi il giudice dichiara la sospensione con
ordinanza non impugnabile, previa richiesta della parte opponente e di norma dopo aver
sentito le parti, quando ricorrono “gravi e circostanziate ragioni esplicitamente indicate
nella motivazione”. Solo in caso di “pericolo imminente di un danno grave e irreparabile”
la sospensione può essere disposta con decreto pronunciato fuori udienza, cioè “inaudita
altera parte”: tuttavia tale sospensione diviene inefficace se non confermata entro la prima
udienza successiva, con l’ordinanza emessa nel contraddittorio tra le parti. Tale norma
ribadisce opportunamente il principio generale imposto dall’art. 111, a garanzia del
contraddittorio: il provvedimento di sospensione emesso senza contraddittorio deve
essere oggetto di conferma quando il contraddittorio sia costituito.

CAP. 27: IL MODELLO PROCESSUALE DEL RITO DEL LAVORO

285.Il rito del lavoro e la sua “capacità espansiva”

Il rito speciale a cognizione piena di maggior diffusione è quello disciplinato negli artt.
409-447 c.p.c., introdotto dalla l. 533/1973 per le controversie individuali di lavoro e
successivamente esteso a varie altre materie. In effetti la legge citata ha introdotto tale rito
sulla base di scelte fortemente innovatrici, che hanno ampiamente anticipato le riforme
processuali degli anni ’90: da un lato, la legge 533 ha concentrato in un organo monocratico
(prima il pretore, oggi il giudice monocratico di tribunale) la competenza a conoscere in 1°
grado di tutte le controversie di lavoro, qualunque ne sia il valore e l'oggetto, in tal modo
favorendo anche la specializzazione dei giudici addetti alla trattazione di quelle cause;
dall'altro lato, ha introdotto regole procedimentali ispirate ai principi di oralità,
immediatezza e concentrazione che, insieme ad un sistema rigido di preclusioni,
consentono al giudice di emanare la decisione subito dopo il contatto diretto e immediato
con le parti e l'acquisizione dei mezzi di prova. Trattandosi di tutela normale “speciale”, il
processo del lavoro, per tutto quanto non espressamente disciplinato dalle citate norme, è
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sottoposto come ogni processo civile alle disposizioni generali contenute nel libro I del
codice e a quelle del processo ordinario di cognizione. Inoltre va sottolineato che non
sempre tale rito è espressione di maggiore semplicità delle questioni da decidere: anzi le
controversie di lavoro spesso richiedono elevati livelli di professionalità e specializzazione.

Come anticipato, il legislatore ha esteso il campo di applicazione del rito del lavoro ad una
vasta serie di controversie, dimostrando una forte flessibilità e capacità espansiva sin dalla
sua introduzione nel c.p.c., ad es.:

a. le controversie previdenziali
b. le controversie di opposizione all'esecuzione e agli atti esecutivi nelle materie
rientranti tra le cause di lavoro e previdenziali
c. le controversie in materia di locazione di immobili urbani, comodato e affitto
di azienda
d. le controversie relative ai contratti agrari
e. le controversie in materia di opposizione avverso l'ordinanza di affrancazione
di fondo enfiteutico
f. le controversie in materia di impugnazioni dello stato passivo del fallimento
aventi ad oggetto crediti del lavoro
g. le controversie per opposizione avverso il decreto ex art. 28 dello Statuto dei
lavoratori
h. le controversie di opposizione a decreto ingiuntivo recanti la condanna al
pagamento di crediti di lavoro
i. le controversie in materia di pubblico impiego (a seguito della c.d.
privatizzazione del pubblico impiego)
j. le controversie in sede di giudizio di rinvio ex art. 384.

300
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286.L'ambito oggettivo di applicazione del rito del lavoro e la competenza del


tribunale

L'ambito oggettivo di applicazione del rito del lavoro è segnato, per quanto riguarda il
lavoro privato, dall'art. 409 c.p.c e, per quanto riguarda il lavoro pubblico, dalle norme
contenute oggi nel d.lgs. 165/2001. Con riferimento al lavoro privato, occorre precisare che
la nozione di controversia di lavoro comprende sia il rapporto di lavoro subordinato, sia
alcune tipologie di lavoro autonomo per le quali si parla di “parasubordinazione”. Ai sensi
dell'art. 409 c.p.c. sono assoggettate al rito del lavoro le controversie relative a:

a. rapporti di lavoro subordinato privato


b. rapporti di lavoro agricolo
c. rapporti di collaborazione continuativa, coordinata e prevalentemente
personale
d. rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici economici
e. in forza del d.lgs. 165/2011, tutti i rapporti di lavoro alle dipendenze di PA.

Fatta eccezione per le controversie relative a rapporti di lavoro agricolo, tutte le altre
controversie richiamate rientrano nella competenza per materia del tribunale quale giudice
del lavoro, indipendentemente dal loro valore. In considerazione del carattere
“specialistico” della materia del lavoro, esse sono trattate esclusivamente presso la sede
principale del tribunale (e non dinanzi alle sezioni distaccate) e, ove questo sia diviso in più
sezioni civili, presso apposita sezione lavoro. Al riguardo occorre evidenziare alcune
particolarità con riferimento ai criteri (statici e dinamici) di competenza territoriale nel
processo del lavoro. L'art. 413 c.p.c. individua, da un punto di vista statico, tre criteri
concorrenti e alternativi (cioè a scelta della parte che agisce in giudizio) di competenza
territoriale del tribunale del lavoro:

f. il forum contractus, cioè il tribunale del luogo nella cui circoscrizione è sorto
il rapporto
g. il foro dell'azienda, cioè il tribunale del luogo in cui si trova l'azienda
h. il foro del luogo dove si trova la “dipendenza” dell'azienda presso la quale il

301
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lavoratore è addetto.

Dal punto di vista dinamico, l'art. 428 c.p.c. dispone che, quando una causa relativa ai
rapporti di cui all’art. 409 sia stata proposta ad un giudice territorialmente incompetente,
l'incompetenza può essere eccepita dal convenuto soltanto nella memoria difensiva ex art.
416 ovvero rilevata d'ufficio dal giudice non oltre l'udienza di discussione ex art. 420.
Insomma, anche tale norma, come anche l’art. 38, consente che la causa sia validamente
radicata e trattata presso un ufficio giudiziario diverso da quello in origine individuato dal
codice come competente, nel caso in cui l’incompetenza non sia eccepita o rilevata nei
termini indicati dalla legge.

287.La fase introduttiva

L’applicazione dei principi di oralità, immediatezza e concentrazione si traduce, da un


lato, nel rafforzamento delle preclusioni relative al contenuto degli atti introduttivi e,
dall’altro, nella tendenziale concentrazione della trattazione e decisione in un’unica
udienza. Inoltre, alcune innovative disposizioni del processo del lavoro sono
dichiaratamente ispirate al favor per il lavoratore subordinato, in quanto parte più debole
del rapporto di lavoro (lettura in udienza e immediata esecutività del dispositivo). Va
premesso che ex art. 410 chi intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti
di cui all’art. 409 e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai
contratti e accordi collettivi può promuovere, anche tramite l’associazione sindacale cui
aderisce o conferisca mandato, un tentativo di conciliazione presso la commissione
provinciale di conciliazione. La comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo
di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di
conciliazione e per i 20 giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di
decadenza. Tale fase precontenziosa è oggi non più obbligatoria, ma solo facoltativa.

302
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Ai sensi dell'art. 414 c.p.c. la forma dell'atto introduttivo del giudizio è il ricorso, che
risponde all'esigenza di consentire al giudice adito (e non all’attore) la fissazione
dell'udienza di discussione. Il ricorso deve contenere: l'indicazione del giudice, le generalità
delle parti, la determinazione dell'oggetto della domanda, l'esposizione dei fatti e degli
elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con le relative conclusioni e l'indicazione
specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi, in particolare dei
documenti che si offrono in comunicazione. Esso deve essere depositato nella cancelleria
del tribunale del lavoro adito e, all'atto del deposito, l'attore si costituisce in giudizio (ciò
spiega perché nel processo del lavoro non può mai esservi contumacia dell’attore). A
seguito del deposito del ricorso, il tribunale fissa con decreto l'udienza di discussione e il
termine entro il quale il ricorrente deve notificare il ricorso e il decreto al convenuto. Questi
è chiamato a costituirsi almeno 10 giorni prima dell'udienza, depositando in cancelleria una
memoria difensiva che deve contenere, a pena di decadenza, le eventuali domande
riconvenzionali e le eccezioni in senso stretto. Nella stessa memoria il convenuto deve
prendere posizione in maniera specifica circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della
domanda, proporre tutte le sue difese in fatto e in diritto e indicare specificatamente, a pena
di decadenza, i mezzi di prova di cui intende avvalersi, in particolare i documenti, che deve
depositare.

Ex art. 418, se il convenuto formula domande riconvenzionali, deve richiedere al giudice, a


pena di decadenza dalla domanda riconvenzionale, di pronunciare un nuovo decreto di
fissazione di altra udienza, al fine di consentire all'attore di svolgere proprie difese in
relazione alla domanda riconvenzionale proposta. In tal caso il decreto che fissa l’udienza
deve essere notificato all’attore, insieme alla memoria difensiva, entro 10 giorni dalla data
in cui è stato pronunciato.

288.La fase di trattazione ed istruttoria

Nel processo del lavoro, come nel processo di ordinaria cognizione, non vi è udienza
preliminare ad hoc nella quale il giudice compie le verifiche preliminari, giacchè l'art. 420
303
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c.p.c. disciplina un'unitaria udienza di discussione che, stante il principio di concentrazione


che ispira tale processo e il connesso divieto di disporre udienze di mero rinvio, potrebbe
portare alla trattazione e decisione della causa in una o poche e ravvicinate udienze.
All'udienza di discussione, dopo lo svolgimento dell'interrogatorio libero e dell'eventuale
tentativo di conciliazione, entrambe le parti possono modificare le domande, eccezioni e
conclusioni già formulate, purchè ricorrano congiuntamente 2 condizioni:

a. la sussistenza di gravi motivi


b. la previa autorizzazione del giudice, il quale è chiamato a valutare, con ampi
margini di discrezionalità e sulla base delle risultanze di causa fino ad allora
acquisite, l'opportunità di un ampliamento del thema decidendum.

Anche la formazione del thema probandum appare ispirata dal principio di bilanciamento
tra le esigenze della concentrazione del rito e la necessità di un’istruttoria il più possibile
completa. Nel corso dell’udienza di trattazione il giudice ammette i mezzi di prova già
proposti dalle parti negli atti introduttivi e quelli che le stesse siano state nell’impossibilità
di proporre prima. La novità più significativa in tema di prove è data dall'art. 421.2 c.p.c.,
che attribuisce al giudice del lavoro il potere di disporre d'ufficio, in qualsiasi momento,
l'ammissione di ogni mezzo di prova, anche al di fuori dei limiti stabiliti dal codice civile,
ad eccezione del giuramento decisorio, nonché la richiesta di informazioni e osservazioni
alle associazioni sindacali indicate dalle parti. Ciò non significa attribuire al giudice il
potere di autonoma ricerca dei fatti da provare, giacché anche nel processo del lavoro
(come in ogni processo civile su impulso di parte) vige il principio dell’onere di
allegazione, inteso come potere di far valere in giudizio i fatti posti a fondamento della
domanda rimesso all’esclusiva disponibilità della parte. Piuttosto la disposizione pare
finalizzata a dare ingresso nel processo del lavoro a mezzi diretti a provare fatti già allegati
dalle parti. In sintesi, il giudice del lavoro ha la disponibilità officiosa del mezzo
(formale) di prova (ad es. può ammettere una testimonianza anche al di là del limite di
valore fissati dal c.c.), ma non può mai avere la disponibilità della fonte (materiale) di
prova, cioè non può mai ricercare di propria iniziativa contenuti probatori nuovi e diversi
rispetto a quelli allegati dalle parti nei rispettivi atti difensivi.

304
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289.Il principio di unitarietà della decisione e la lettura del dispositivo in udienza

Ex art. 420 co. 4°, alla decisione della causa il giudice del lavoro deve pervenire
innanzitutto quando sorgono “questioni attinenti alla giurisdizione o alla competenza o ad
altre pregiudiziali la cui decisione può definire il giudizio”(interpretazione letterale intesa a
ricomprendere le sole questioni pregiudiziali di rito) ovvero quando ritiene la causa matura
per la decisione, o perché non è necessaria alcuna attività istruttoria o perché sono stati
espletati i mezzi di prova ammessi, con conseguente esaurimento dell’istruttoria. La ratio di
tale norma è da rinvenire nel principio di unitaria decisione del merito (elemento
caratterizzante del processo del lavoro rispetto a quello ordinario) che impedisce al giudice
del lavoro di pronunciare sentenza, se non quando la causa sia matura per l'integrale
decisione sul merito (occorre limitare l’emanazione di sentenze non definitive).

Il d.lgs. 40/2006 ha introdotto l’art. 420 bis, secondo il quale, “quando per la definizione di
una controversia di lavoro è necessario risolvere in via pregiudiziale una questione
concernente l'efficacia, la validità o l'interpretazione delle clausole di un contratto o accordo
collettivo nazionale, il giudice decide con sentenza tale questione, impartendo distinti
provvedimenti per l'ulteriore istruzione o comunque per la prosecuzione della causa,
fissando una successiva udienza in data non anteriore a 90 giorni”. La soluzione immediata
di tale questione interpretativa è stata voluta dal legislatore per consentire un altrettanto
immediato controllo nomofilattico sulla pronuncia. Non a caso la sentenza emanata ex art.
420 bis è impugnabile soltanto con ricorso per cassazione, da proporsi entro 60 giorni dalla
comunicazione dell’avviso di deposito della sentenza.

Esaurita la discussione orale e udite le conclusioni delle parti, il giudice del lavoro
pronuncia sentenza con cui definisce il giudizio, dando lettura del dispositivo in udienza
ed esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione (art. 429), mentre la
motivazione della sentenza deve essere depositata in cancelleria entro 15 giorni dalla
pronuncia (art. 430). Soltanto in caso di particolare complessità della controversia, il
giudice fissa nel dispositivo un termine non superiore a 60 giorni per il deposito della
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motivazione. La lettura del dispositivo è una delle caratteristiche di maggior rilievo del
processo del lavoro, che si atteggia come una conseguenza dei principi di oralità,
concentrazione ed immediatezza, che impongono al giudice di pronunciare la decisione
subito dopo la discussione orale. Non è un caso che la mancata lettura in udienza del
dispositivo determina, secondo la prevalente giurisprudenza, la nullità insanabile della
sentenza, dovendo considerarsi la lettura quale forma non surrogabile di decisione nel
processo del lavoro. Lo stesso principio sta oggi anche alla base della forma di decisione
che, nelle controversie decise dal tribunale in composizione monocratica, il giudice del
processo ordinario può scegliere di adottare pronunciando sentenza “incorporata nel verbale
di udienza” (art. 281 sexies). Mentre, però, nel rito del lavoro il deposito della motivazione
avviene successivamente alla lettura, la decisione ex art. 281 sexies non comporta alcuna
distinzione temporale tra lettura del dispositivo e deposito della motivazione. Quanto detto
sinora comporta, da un lato, che nel processo del lavoro, poiché è il dispositivo che
contiene la decisione, è ad esso che deve farsi riferimento ai fini dell’individuazione della
soccombenza e del conseguente interesse ad impugnare e, dall’altro, che, in caso di
divergenza tra dispositivo e motivazione, a prevalere non può che essere il primo , dato il
carattere “complementare” della seconda. Il dispositivo in quanto avente carattere decisorio
è a fondamento dell’esecuzione forzata.

Prima della l. 353/1990, l’art. 431 attribuiva immediata efficacia esecutiva alle sole
sentenze di condanna pronunciate a favore del lavoratore, per crediti derivanti dai rapporti
di cui all’art. 409, consentendo la possibilità di procedere ad esecuzione forzata “con la sola
copia del dispositivo in pendenza del termine per il deposito della sentenza”: evidente era il
favor nei confronti del lavoratore. Con la novellazione dell’art. 282 e la previsione, nel
processo ordinario, della provvisoria esecutorietà ex lege della sentenza di 1° grado, il
legislatore del 1990 ha esteso la previsione di immediata esecutorietà a tutte le sentenze di
1° grado pronunciate nel rito del lavoro (comprese quelle a favore del datore di lavoro), pur
continuando a prevedere la possibilità di dare inizio dell'esecuzione forzata sulla base del
solo dispositivo letto in udienza solo in caso di pronuncia di condanna a favore del
lavoratore. In quest'ultimo caso, il datore di lavoro non ha altro mezzo per contrastare
l'inizio dell'esecuzione che proporre uno speciale rimedio rappresentato dall'appello con
riserva dei motivi (art. 433 co. 2°), con il quale egli impugna il solo dispositivo,

306
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riservandosi di esplicitare i motivi di impugnazione quando sarà depositata la motivazione


della sentenza. L'appello con riserva dei motivi ha il solo scopo di consentire all'appellante
di investire il giudice del gravame della decisione sull'istanza di sospensione
dell'esecutorietà della condanna di 1° grado. La sospensione può essere concessa quando
dall'esecuzione possa derivare al datore di lavoro un “gravissimo danno”.

290.L'appello

All'appello nel processo del lavoro si applica la disciplina generale sulle impugnazioni, in
quanto non espressamente derogata. L'art. 433 c.p.c. dispone che l'appello contro le
sentenze pronunciate nei processi relativi alle controversie di lavoro deve essere proposto
con ricorso davanti alla corte di appello territorialmente competente in funzione di giudice
del lavoro. Tuttavia sono inappellabili le sentenze che hanno deciso una controversia di
valore non superiore a 50000 lire. Il ricorso deve contenere l'esposizione sommaria dei
fatti e i motivi specifici dell'impugnazione, nonché le indicazioni prescritte per il ricorso in
1° grado. Esso deve essere depositato nella cancelleria della corte di appello entro 30 giorni
dalla notificazione della sentenza. Il presidente della corte di appello entro 5 giorni dalla
data di deposito del ricorso nomina il giudice relatore e fissa l'udienza di discussione
dinnanzi al collegio, non oltre 60 giorni dalla stessa data. L'appellante, nei 10 giorni
successivi al deposito del decreto, provvede alla notifica del ricorso e del decreto
all'appellato, curando che tra la data di notificazione all’appellato e quella dell’udienza di
discussione intercorra un termine non inferiore a 25 giorni. Specularmente al 1° grado,
l'appellato deve costituirsi almeno 10 giorni prima dell'udienza, mediante deposito in
cancelleria del fascicolo e di una memoria difensiva, nella quale deve essere contenuta una
dettagliata esposizione di tutte le sue difese.

Nell'udienza di discussione, il giudice incaricato fa la relazione orale della causa. Il


collegio, sentiti i difensori delle parti, pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo nella
stessa udienza. In appello non sono ammesse nuove domande ed eccezioni e non sono
ammessi nuovi mezzi di prova, tranne il giuramento estimatorio, salvo che il collegio
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lOMoARcPSD|1004107

(anche d’ufficio) li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa. Qualora
ammetta le nuove prove, il collegio fissa entro 20 giorni l'udienza nella quale esse debbono
essere assunte e deve essere pronunciata la sentenza. La fase della decisione,
dell’emanazione della sentenza e dei suoi effetti è disciplinata con un semplice richiamo a
quella del giudizio di 1° grado.

291.Il processo previdenziale

L'art. 442 c.p.c. estende l'applicazione del rito del lavoro alle controversie previdenziali,
che la norma raggruppa in 2 categorie:

a. i procedimenti relativi a controversie derivanti dall'applicazione delle norme


riguardanti le assicurazioni sociali, gli infortuni sul lavoro, le malattie
professionali, gli assegni familiari, nonché ogni altra forma di previdenza e
assistenza obbligatorie
b. le controversie relative all'inosservanza degli obblighi di assistenza e di
previdenza derivanti da contratti e accordi collettivi.

Giudice competente è il tribunale, in funzione di giudice del lavoro, nella cui circoscrizione
ha la residenza l'attore (in tali processi è fondamentale la figura del consulente). Gli istituti
di patronato e di assistenza sociale legalmente riconosciuti possono, su istanza
dell’assistito, rendere informazioni e osservazioni in ogni grado del giudizio. La sentenza di
1° grado è provvisoriamente esecutiva di diritto.

292.L’accertamento tecnico preventivo obbligatorio ex art. 445-bis c.p.c.

Per le controversie in materia di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e
disabilità, nonché di pensione di inabilità e di assegno di invalidità, l’art. 445 bis prevede
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che la parte che intende proporre in giudizio domanda per il riconoscimento dei propri
diritti presenta con ricorso al giudice competente ex art. 442, presso il tribunale nel cui
circondario risiede l’attore, istanza di accertamento tecnico per la verifica preventiva delle
condizioni sanitarie. L’espletamento di tale accertamento costituisce condizione di
procedibilità della stessa domanda: l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a
pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice non oltre la prima udienza. Il giudice,
ove rilevi che l’accertamento tecnico preventivo non è stato espletato o che è iniziato ma
non si è concluso, assegna alle parti il termine di 15 giorni per la presentazione dell’istanza
di accertamento tecnico ovvero di completamento dello stesso. A seguito dell’espletamento
dell’accertamento, in caso di mancata contestazione delle conclusioni del consulente
tecnico dell’ufficio (entro il termine perentorio non superiore a 30 giorni fissato con
apposito decreto), il giudice lo omologa con decreto non impugnabile né modificabile.
Diversamente, la parte che abbia dichiarato di contestare le conclusioni del consulente
tecnico dell’ufficio deve depositare, entro il termine perentorio di 30 giorni dalla
dichiarazione di dissenso, il ricorso introduttivo del giudizio, specificando i motivi della
contestazione a pena di inammissibilità e formulando apposita dichiarazione del valore
della prestazione dedotta in giudizio. Si è qui in presenza di una nuova forma di
“giurisdizione condizionata”, espressione che descrive le ipotesi in cui l’accesso alla tutela
giurisdizionale viene dalla legge subordinato al previo adempimento di oneri procedurali a
carico delle parti.

293.Il processo locatizio

L'art. 447 bis c.p.c. ha introdotto un ulteriore rito speciale a cognizione piena (il c.d. rito
locatizio), sottoponendo alla maggior parte delle disposizioni che regolano il rito del lavoro
le controversie in materia di locazione e di comodato di immobili urbani e quelle di affitto
di aziende, affidandole alla competenza per materia del tribunale del luogo dove si trova il
bene locato. Le differenze più significative rispetto al rito del lavoro riguardano i poteri
istruttori che il tribunale può esercitare ex officio. Infatti l'art. 447 bis al co. 3° stabilisce
che può essere disposta in qualsiasi momento l'ispezione della cosa (a differenza del rito
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del lavoro, ove è necessaria l’istanza di parte), che possono essere ammessi tutti i mezzi di
prova (ad eccezione del giuramento decisorio) e che può essere disposta, anche d'ufficio, la
richiesta di informazioni alle associazioni di categoria indicate dalle parti. Anche nel
processo in esame la sentenza è pronunciata con lettura del dispositivo nell'udienza di
discussione orale della causa, e all'esecuzione si può procedere con la sola copia del
dispositivo in pendenza del termine per il deposito della sentenza. Inoltre è possibile
proporre appello con riserva dei motivi avverso il solo dispositivo, insieme all’istanza di
sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza o dell’esecuzione già iniziata, quando
dalle stesse possa derivare all'istante gravissimo danno.

310
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CAP. 28: IL MODELLO PROCESSUALE DEL RITO SEMPLIFICATO DI COGNIZIONE

294.Il rito semplificato (“sommario”) di cognizione

Il codice del 1940 aveva ancorato il processo di cognizione ordinaria ad un modello unico,
insensibile al livello di complessità della causa. Oggi il nuovo rito “sommario”, disciplinato
negli artt. 702 bis ss. c.p.c., consente al giudice (e ancor prima alla parte che agisce in
giudizio) di selezionare il contenzioso e di scegliere diverse regole del procedimento in
relazione alla maggiore o minore complessità della controversia. Questione fondamentale è
quella circa la natura e la collocazione sistematica di tale rito, in relazione alla quale
occorre chiedersi quale sia il significato dell’aggettivo “sommario”, e cioè se tale forma di
tutela rientra nell’ambito delle tutele sommarie (non cautelari). A tale inquadramento
ostano plurime ragioni:

a. innanzitutto il nuovo procedimento va considerato alla luce del più generale


disegno che ha ispirato il legislatore del 2009, trattandosi di uno dei 3 modelli
processuali cui il legislatore delegato ha ricondotto quei “procedimenti, anche
in camera di consiglio, in cui sono prevalenti caratteri di semplificazione della
trattazione o dell’istruzione della causa”: tali non sono i procedimenti
sommari (non cautelari). Inoltre per tale procedimento è stata espressamente
esclusa “la possibilità di conversione del rito ordinario”, il che impedisce di
accomunare questo rito ai procedimenti di tutela sommaria. In sostanza
volontà del legislatore era quella di introdurre un nuovo modello semplificato
di procedimento, da utilizzare in alternativa al rito ordinario, per la trattazione
di controversie su diritti soggettivi che presentino caratteristiche oggettive
compatibili con un rito, appunto semplificato, da decidersi con
provvedimento idoneo al giudicato sostanziale
b. va poi osservato che, ai sensi dell’art. 702 quater, il provvedimento decisorio,
reso nella forma di ordinanza, produce gli effetti di cui all’art. 2909 c.c. (in
mancanza di impugnazione con l’appello): il legislatore ha così voluto
equiparare in tutto e per tutto l’accertamento contenuto nell’ordinanza resa
all’esito del procedimento “semplificato” all’accertamento contenuto in una
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sentenza. Si potrebbe obiettare che anche il decreto ingiuntivo non opposto (al
pari degli altri provvedimenti sommari non cautelari) è in grado di produrre
effetti di definitività che la giurisprudenza (con eccessiva superficialità)
assimila al giudicato sostanziale, ma, come riconosciuto dalla stessa
giurisprudenza, il regime di “giudicato” del decreto ingiuntivo non opposto è
comunque ben diverso dal giudicato di cui all’art. 2909
c. ancora, bisogna considerare che la fase introduttiva del nuovo procedimento è
sottoposta a regole analoghe a quelle del rito a cognizione piena, nel senso
che le parti sono chiamate a formulare le proprie domande con modalità e
contenuti identici a quelli di ogni domanda giudiziale. Non a caso le domande
introdotte col rito “sommario” sono idonee a consentire al giudice la possibile
prosecuzione nelle forme del rito ordinario, con la fissazione dell’udienza ex
art. 183.

In conclusione, il procedimento sommario-semplificato è un processo di cognizione


speciale, alternativo al processo a cognizione piena e idoneo ad impartire identica tutela
rispetto a quest'ultimo, laddove il carattere semplificato del procedimento corrisponde al
carattere semplificato della controversia che ne è oggetto.

295.L'ambito di applicazione

L’art. 702 bis individua nelle controversie riservate alla decisione del tribunale in
composizione monocratica l’ambito oggettivo di applicazione del rito semplificato, mentre
l’art. 702 ter co. 2° sanzione con l’inammissibilità la domanda che sia estranea a tale
ambito. Dall'area di ammissibilità del procedimento semplificato, dunque, restano
sicuramente escluse le eccezionali ipotesi nelle quali il tribunale giudica in composizione
collegiale, elencate dall'art. 50 bis, ma sembra possibile escludere anche quelle controversie
che sono sottoposte ad un rito diverso da quello ordinario. Infatti la non compatibilità del
rito semplificato rispetto ai riti speciali si ricava,

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da un lato, dai rilievi già svolti sulla sua natura e collocazione sistematica e, dall’altro,
dall’espresso richiamo all’art. 183, e quindi al solo processo ordinario. Tra le controversie
escluse rientrano quelle dinanzi al giudice di pace. Come anticipato, la violazione dell’art.
702 bis comporta l’obbligo del giudice monocratico, alla prima udienza, di dichiarare
l’inammissibilità del ricorso con ordinanza non impugnabile, con conseguente possibilità di
riproposizione della domanda nelle forme del rito ordinario.

296.La fase introduttiva

L'art. 702 bis individua nel ricorso la forma dell'atto introduttivo che ha contenuto identico
a quello dell'atto di citazione ex art. 163, fatta eccezione per la vocatio in ius. Il giudice
designato fissa con decreto l'udienza di comparizione delle parti, assegnando il termine per
la costituzione del convenuto. Dunque il decreto ha un duplice contenuto, anche se la stessa
norma prevede che la costituzione debba avvenire non oltre 10 giorni prima dell’udienza,
mentre il ricorso, insieme al decreto di fissazione dell’udienza, deve essere notificato al
convenuto “almeno 30 giorni prima della data fissata per la sua costituzione”. In caso di
notificazione che non sia rispettosa di questo termine, il giudice dovrà disporre la
rinnovazione, nel caso in cui il convenuto non si sia costituito oppure abbia eccepito il vizio
nella comparsa di costituzione. Nel termine assegnato dal giudice nel decreto di fissazione
dell'udienza (o, in mancanza, 10 giorni prima dell’udienza), il convenuto deve costituirsi
mediante deposito in cancelleria della comparsa di risposta nella quale deve proporre le sue
difese, prendendo posizione sui fatti posti dal ricorrente a fondamento della domanda, e
indicare i mezzi di prova di cui intende avvalersi e i documenti che intende offrire in
comunicazione, nonché formulare le proprie conclusioni. Va ricordato che il nuovo art. 115
ha recepito e generalizzato il principio, da ritenersi applicabile anche al rito semplificato,
che la mancata specifica contestazione dei fatti rende gli stessi “pacifici” e utilizzabili ai
fini della decisione. A pena di decadenza, il convenuto deve proporre eventuali domande
riconvenzionali e le eccezioni non rilevabili d'ufficio, oltre che chiamare in causa un terzo
in garanzia attraverso dichiarazione nella comparsa di costituzione.

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297.La prima udienza

In termini generali le attività da compiersi nella prima udienza, a parte le verifiche


preliminari, sono quelle in primo luogo dirette a stabilire se sussistono le condizioni per
l'accesso e la trattazione del procedimento nelle forme del rito semplificato. Solo in caso di
esito positivo della verifica, ha inizio la trattazione nelle forme semplificate. Anche se la
norma nulla dispone, come anticipato, il giudice designato è tenuto a compiere anche nel
procedimento in esame le verifiche preliminari (ad es. relative alla regolarità della
notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza). Se il giudice ritiene di
non essere competente, deve pronunciare con ordinanza la relativa declinatoria: ratio della
norma è quella di imporre al giudice l’immediato controllo sulla competenza e, in caso di
ritenuta incompetenza, di pronunciare in limine la relativa declaratoria, fermo restando che
gli esiti della verifica sulla competenza sono destinati a vincolare il successivo svolgimento
del processo, anche qualora questo prosegua nelle forme del rito ordinario. Avverso
l’ordinanza di incompetenza (che deve contenere anche la pronuncia sulle spese) è
esperibile il regolamento di competenza necessario.

Come già detto, la violazione dell’art. 702 bis comporta l’obbligo del giudice monocratico,
alla prima udienza, di dichiarare l’inammissibilità del ricorso con ordinanza non
impugnabile, con conseguente possibilità di riproposizione della domanda nelle forme del
rito ordinario. Sembra che tale dichiarazione di inammissibilità non sia altro che un rifiuto
di accesso al rito semplificato per mancanza del relativo presupposto, e che sia sottratta a
qualsiasi rimedio impugnatorio, che darebbe luogo ad una fase processuale che avrebbe ad
oggetto solo una questione di rito. L’ordinanza non sembra impugnabile neanche con
ricorso straordinario ex art. 111

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Cost. per mancanza del requisito di decisorietà. Potrebbe anche accadere che il tribunale
non si avveda che la controversia introdotta col rito semplificato rientra nella riserva di
collegialità ed ometta di dichiarare l’inammissibilità del ricorso, pronunciando sul merito
della domanda. Si ritiene che in tal caso il giudice d’appello debba annullare il
provvedimento e decidere sul merito, previa rinnovazione non solo della fase decisoria, ma
anche degli eventuali atti di istruzione compiuti dal primo giudice.

298.La valutazione di compatibilità con l'istruzione semplificata e l'eventuale


fissazione dell'udienza ex art. 183 c.p.c.

Se ritiene che le difese svolte dalle parti richiedono un’istruzione non semplificata, il
giudice, sempre con ordinanza non impugnabile, fissa l’udienza ex art. 183 e in tal caso
trovano applicazione le norme relative. Il giudice è quindi chiamato a svolgere una
valutazione di compatibilità delle difese delle parti col rito semplificato. Si tratta di
individuare il percorso cognitivo che l'art. 702 ter impone al giudice del rito semplificato, il
quale è chiamato a valutare

a. l'oggetto originario del processo e i fatti costitutivi della domanda (anche in


relazione al valore della causa)
b. le eventuali domande riconvenzionali e quelle nei confronti di terzi
c. l'impostazione complessiva del sistema difensivo del convenuto (e dei terzi),
da cui desumere le questioni di fatto e di diritto controverse tra le parti.

All'esito di queste verifiche il giudice è chiamato ad effettuare una valutazione complessiva


e di sintesi, prefigurando il percorso che si rende necessario per la decisione e la sua
compatibilità con le forme semplificate. Va ricordato comunque che il potere di
“trasformazione” in esame è escluso per i procedimenti che il d.lgs. 150/2011 ha sottoposto
al modello processuale del rito semplificato di cognizione, che quindi in questi casi è
addirittura obbligatorio.

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299.Gli atti di istruzione

Il co. 5° dell'art. 702 ter attribuisce al giudice il potere-dovere, sentite le parti e omessa ogni
formalità non essenziale al contraddittorio, di procedere “nel modo che ritiene più
opportuno” agli atti di istruzione “rilevanti in relazione all'oggetto del provvedimento
richiesto”. Fermo il limite del rispetto del principio del contraddittorio, è consentita
l'acquisizione di prove senza il rispetto delle regole di assunzione contenute nel libro II del
codice. In tal senso, alla formula “atti di istruzione” va attribuito un significato diverso da
quello della pur identica espressione contenuta nell'art. 669 sexies: non si tratta di disporre
un'istruttoria limitata alle finalità del procedimento, ma di raccogliere quelle prove pur
sempre necessarie a decidere su domande ritenute compatibili con la decisione semplificata.

300.La decisione con ordinanza idonea al giudicato

Il provvedimento di accoglimento o di rigetto della domanda ha la forma dell'ordinanza,


espressamente dichiarata provvisoriamente esecutiva, nonché titolo per l'iscrizione di
ipoteca giudiziale e per la trascrizione. L’ordinanza deve contenere la pronuncia sulle spese
di lite.

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301.L'appello

Ex art. 702 quater, l'appello può essere proposto entro 30 giorni dalla comunicazione o
notificazione dell’ordinanza. L’effetto acceleratorio è qui particolarmente evidente dato che
la norma richiama solo il termine breve, mentre il termine lungo può trovare applicazione
solo in difetto sia della comunicazione sia della notificazione. Si tratta di un appello
“aperto” ai nova in materia di prove, potendo le parti formulare nuovi mezzi di prova e
depositare nuovi documenti, che il collegio potrà ammettere se indispensabili ai fini della
decisione ovvero se la parte dimostra di non aver potuto proporli nel corso del
procedimento sommario per causa ad essa non imputabile.

CAP. 29: ALTRI PROCESSI SOTTOPOSTI A REGOLE SPECIALI

302.Il processo di opposizione a decreto ingiuntivo. Rinvio

Il procedimento di ingiunzione (art. 633 ss.) rappresenta una forma di tutela sommaria (non
necessaria, in quanto concorre con l’ordinaria tutela di cognizione normale), che consente a
chi assume di essere titolare del diritto al pagamento di crediti di somme di denaro o di
quantità determinate di cose fungibili ovvero alla consegna di cose mobili determinate, di
richiedere al giudice competente (il giudice di pace o il tribunale) l'emanazione, senza
contraddittorio con il debitore (“inaudita altera parte”) di un'ingiunzione di pagamento o di
consegna, preordinata all'esecuzione forzata. Il decreto ingiuntivo costituisce un titolo
esecutivo di formazione giudiziale, che dà la possibilità al creditore che lo ha ottenuto di
iniziare l'esecuzione forzata. Nel procedimento che conduce alla sua emanazione il
contraddittorio non è eliminato del tutto, ma solo differito ed eventuale, in quanto rimesso
all’iniziativa del debitore. Questi, infatti, ha l'onere di proporre opposizione, cioè di
istaurare un giudizio di ordinaria cognizione davanti allo stesso giudice che ha pronunciato
l'ingiunzione, nel corso del quale si dovrà accertare o negare il diritto fatto valere nella sede
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sommaria. L’opposizione a decreto ingiuntivo, perciò rappresenta un vero e proprio rito


speciale di cognizione ordinaria, al quale non può essere attribuita natura semplicemente
impugnatoria del provvedimento sommario.

303.I processi di separazione tra coniugi e di divorzio

Anche i procedimenti di separazione personale tra coniugi e di divorzio si possono


annoverare nell’ambito dei processi speciali di cognizione ordinaria. Il processo di
separazione personale tra coniugi è disciplinato dagli art. 706 ss. c.p.c., mentre il processo
divorzile trova disciplina nella l. 898/1970. La separazione tra coniugi può essere
consensuale e giudiziale:

a. la separazione consensuale, proprio perché si basa sull’accordo tra i coniugi


intorno alle condizioni della separazione, non dà vita ad un giudizio di tipo
contenzioso. Essa è disciplinata dall'art. 711 c.p.c. ed è introdotta con ricorso
presentato al tribunale congiuntamente dai coniugi (o anche da uno solo di
essi). Il presidente del tribunale deve sentire entrambi i coniugi nel giorno da
lui stabilito e tentare la conciliazione: se essa non riesce, si dà atto nel
processo verbale del consenso dei coniugi alla separazione e delle condizioni
riguardanti i coniugi stessi e la prole. La separazione consensuale acquista
efficacia con un provvedimento di omologazione del tribunale. Le condizioni
della separazione consensuale sono modificabili allo stesso modo in cui lo
sono quelle della separazione giudiziale.
b. alla separazione giudiziale, invece, si perviene allorchè i coniugi sono in
disaccordo sulle condizioni della

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separazione. Inoltre, ove richiesto da almeno uno dei coniugi, alla pronuncia della
separazione può accompagnarsi un ulteriore accertamento con riguardo a quale dei
coniugi sia da addebitare la separazione, in relazione ad eventuali comportamenti
contrari ai doveri che derivano dal matrimonio. Il giudice competente è il tribunale
del luogo dell'ultima residenza comune dei coniugi o, in mancanza, del luogo in cui il
coniuge convenuto ha residenza o domicilio. La domanda di separazione si propone
con ricorso, che deve contenere l'esposizione dei fatti sui quali la domanda è fondata
(causa petendi) e indicare l'esistenza di figli legittimi, legittimati o adottati da
entrambi i coniugi durante il matrimonio. Il presidente, nei 5 giorni successivi al
deposito in cancelleria del ricorso, fissa con decreto la data dell'udienza di
comparizione dei coniugi davanti a sé (da tenersi entro 90 giorni), il termine per la
notificazione del ricorso e del decreto e il termine entro cui il coniuge convenuto può
depositare memoria difensiva e documenti. I coniugi devono comparire
personalmente davanti al presidente con l'assistenza del difensore: se il ricorrente non
si presenta o rinuncia, la domanda non ha effetto, mentre se non si presenta il
convenuto il presidente può (non deve) fissare un nuovo giorno per la comparizione,
ordinando che la notificazione del ricorso e del decreto gli sia rinnovata.
Nel corso dell’udienza il presidente deve sentire i coniugi prima separatamente e poi
congiuntamente, tentandone la conciliazione: se questa viene raggiunta, il presidente
fa redigere il processo verbale della conciliazione; se non riesce, il presidente, sentiti
i coniugi e i difensori, dà con ordinanza i provvedimenti temporanei ed urgenti che
reputa opportuni nell'interesse della prole e dei coniugi, nomina il giudice istruttore e
fissa l'udienza di comparizione e trattazione davanti a lui. Tale ordinanza è
reclamabile entro il termine perentorio di 10 giorni dalla sua notificazione, con
ricorso alla corte d'appello, che si pronuncia in camera di consiglio. Essa ha inoltre
carattere provvisorio, nel senso che è destinata ad operare fino a quando la sentenza
che pronuncia la separazione non sostituirà al regime provvisorio un regime
definitivo. Tale ordinanza dà ingresso ad un giudizio di cognizione ordinaria e va
notificata a cura del ricorrente-attore al convenuto, che non sia comparso davanti al
presidente del tribunale, nel termine perentorio stabilito nell'ordinanza stessa, e
comunicata al p.m. Tra la data entro cui l’ordinanza deve essere notificata al
convenuto non comparso e quella dell’udienza di comparizione e trattazione devono
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intercorrere i termini a comparire di cui all’art. 163 bis ridotti a metà. Con la stessa
ordinanza il presidente assegna altresì al ricorrente il termine per il deposito in
cancelleria di una memoria integrativa, che deve avere lo stesso contenuto di un atto
di citazione ex art. 163. Quanto al coniuge convenuto, il presidente gli assegna un
termine per la costituzione in giudizio nonché per la proposizione delle eccezioni che
non siano rilevabili d'ufficio. In sostanza vi è un’equiparazione degli atti introduttivi
all’atto di citazione e alla comparsa di risposta, e della prima udienza dinanzi
all’istruttore alla prima udienza di trattazione del procedimento ordinario ex art. 183.
Il giudice istruttore può revocare o modificare i provvedimenti temporanei e urgenti
assunti dal presidente e può anche disporre l’audizione del figlio che abbia compiuto
12 anni e anche di età inferiore ove capace di discernimento. Terminata la fase
istruttoria, il giudice istruttore rimette la causa alla decisione del collegio. La
separazione è pronunciata con sentenza appellabile. Quando il processo deve
continuare per la decisione sulla domanda di addebito, per l'affidamento dei figli o
per le questioni economiche, il giudice istruttore può rimettere la causa al collegio,
affinchè sia emessa sentenza non definitiva relativa alla sola pronuncia di
separazione. Avverso questa sentenza è ammesso soltanto appello immediato, che è
deciso in camera di consiglio. Pronunziata la separazione, le parti possono sempre
chiedere, con le forme del procedimento in camera di consiglio, la modificazione dei
provvedimenti riguardanti i coniugi e la prole conseguenti alla separazione (ad es.
perché sono mutate le condizioni economiche di uno dei coniugi): il tribunale si
pronuncia con decreto.

Il processo di divorzio è disciplinato dalla legge 898/1970 in maniera quasi analoga al


processo di separazione. Il divorzio può essere chiesto, oltre che nei casi previsti dall'art. 3
della legge citata, anche quando è stata pronunciata con sentenza passata in giudicato la
separazione giudiziale fra i coniugi e la separazione si è protratta ininterrottamente da
almeno 3 o 6 mesi, a far tempo dall’avvenuta comparizione dei coniugi dinanzi

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al presidente del tribunale. La domanda per ottenere lo scioglimento o la cessazione degli


effetti civili del matrimonio si propone al tribunale del luogo in cui il coniuge convenuto ha
residenza o domicilio.

304.Il processo per la dichiarazione di fallimento

Il giudizio di 1° grado che conduce alla dichiarazione di fallimento dell'imprenditore che si


trova in stato di insolvenza è disciplinato dall'art. 15 della legge fallimentare (r.d. 267/1942)
e ad esso la legge assegna il nome di “istruttoria prefallimentare”. Le riforme del 2006-
2007 hanno impresso al tale istruttoria le caratteristiche di un processo speciale di
cognizione ordinaria. Così come disposto dall’art. 15, il procedimento per la dichiarazione
di fallimento (che è introdotto con ricorso alla cui presentazione sono legittimati i creditori
dell’impresa insolvente, il p.m. e lo stesso imprenditore) si svolge dinanzi al tribunale del
luogo dove il debitore ha la sede principale dell'impresa, che decide in composizione
collegiale con le modalità dei procedimenti in camera di consiglio. Il tribunale, con decreto
apposto in calce al ricorso, convoca il debitore e i creditori istanti per il fallimento, avendo
cura di consentire che nel procedimento intervenga il p.m. che ha assunto l’iniziativa. Tra la
data della notificazione, a cura di parte, del decreto di convocazione e del ricorso e quella
dell’udienza deve intercorrere un termine non inferiore a 15 giorni. Il decreto contiene
l'indicazione che il procedimento è volto all'accertamento dei presupposti per la
dichiarazione di fallimento e fissa un termine non inferiore a 7 giorni prima dell'udienza per
la presentazione di memorie e il deposito di documenti e relazioni tecniche (tali termini
possono essere abbreviati dal presidente con decreto motivato, se ricorrono particolari
ragioni d'urgenza). In ogni caso il tribunale dispone che l’imprenditore depositi i bilanci
relativi agli ultimi 3 esercizi, nonché una situazione patrimoniale, economica e finanziaria
aggiornata, mentre può richiedere eventuali informazioni urgenti. Il tribunale può delegare
al giudice relatore l'audizione delle parti, l'ammissione e l'espletamento dei mezzi istruttori
richiesti dalle parti o disposti d'ufficio; le parti possono nominare consulenti tecnici. Il
tribunale, ad istanza di parte, può emettere provvedimenti cautelari o conservativi a tutela
del patrimonio o dell'impresa oggetto del provvedimento, che hanno efficacia limitata alla
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durata del procedimento e vengono confermati o revocati dalla sentenza che dichiara il
fallimento ovvero revocati col decreto che rigetta l’istanza. La sentenza che dichiara il
fallimento è impugnabile con reclamo dinanzi alla corte d'appello, che provvede con
sentenza ricorribile per cassazione nel termine di 30 (e non, come di norma accade, 60)
giorni dalla notificazione. In definitiva, possiamo dire che l’art. 15 l. fall., a dispetto del
richiamo testuale alle modalità dei procedimenti in camera di consiglio, prevede un vero e
proprio processo contenzioso di 1° grado a cognizione piena, in quanto caratterizzato dalla
tendenziale predeterminazione legale delle forme e dei termini, nonché da una simmetrica
corrispondenza dei poteri-doveri e delle facoltà processuali delle parti e del giudice.

305.Il processo “di classe”

L'art. 140 bis del codice del consumo reca la disciplina dell'azione di classe, cioè uno
strumento generale di tutela dei diritti dei consumatori e degli utenti che siano titolari di
diritto di identico contenuto. L'esercizio dell'azione di classe introduce un processo con
caratteristiche di specialità, che possiamo annoverare nell’ambito dei processi speciali di
ordinaria cognizione, in quanto finalizzato a conseguire tutele di merito idonee al giudicato,
sia pure con particolarità. Tale processo, essendo regolato dal codice del consumo, si è
sottratto all'operazione di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili operata col
d.lgs. 150/2011. L'oggetto del processo di classe è “l'accertamento della responsabilità
dell'impresa e la condanna al risarcimento del danno ed alle restituzioni in favore degli
utenti consumatori”. La competenza spetta al tribunale avente sede nel capoluogo della
regione del luogo in cui ha sede l'impresa, che decide sempre in composizione collegiale.
La domanda si propone con atto di citazione notificato anche all'ufficio del p.m. presso il
tribunale adito, il quale può intervenire. La legittimazione ad agire spetta invece sia a
ciascun consumatore o

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utente che compone la classe, sia alle associazioni cui il consumatore o utente può dare
mandato, sia ai comitati cui egli partecipa; la legittimazione passiva è dell'impresa, contro
la quale la classe rivolge la sua pretesa. L’adesione a tale processo comporta rinuncia ad
ogni azione restitutoria o risarcitoria individuale fondata sul medesimo titolo. Il processo di
classe si articola in 3 fasi, di cui la prima è necessaria, le altre soltanto eventuali:

a. la prima fase è quella della verifica dell'ammissibilità dell'azione: infatti


all'esito della prima udienza il tribunale decide con ordinanza
sull'ammissibilità della domanda, che è dichiarata inammissibile quando è
manifestamente infondata, quando sussiste un conflitto di interesse ovvero
quando il giudice non ravvisa l'omogeneità dei diritti individuali tutelabili,
nonché quando chi ha proposto l'azione non appare in grado di curare
adeguatamente l'interesse della classe. Dunque la prima udienza non deve
essere considerata alla stregua dell’udienza ex art. 183, dato che essa non è
destinata alla trattazione della causa, bensì alla verifica dell’ammissibilità
dell’azione di classe. Quando l'azione è dichiarata ammissibile, il tribunale
definisce i caratteri dei diritti individuali oggetto del giudizio di classe,
specificando i criteri in base ai quali i soggetti che chiedono di aderire sono
inclusi nella classe o devono ritenersi esclusi dall'azione. L'ordinanza di
ammissione, perciò, è il fulcro del processo di classe: con essa il tribunale
stabilisce altresì le modalità affinchè sia data all'azione la più opportuna
pubblicità, al fine di consentire la tempestiva adesione all'azione da parte
degli appartenenti alla classe, e fissa un termine perentorio, non superiore a
120 giorni dalla scadenza di quello per l'esecuzione della pubblicità, entro il
quale gli atti di adesione sono depositati in cancelleria. Dopo la scadenza di
tale termine, non sono proponibili ulteriori azioni di classe per i medesimi
fatti e nei confronti della stessa impresa. La pubblicità è dunque un
adempimento essenziale alla realizzazione degli obbiettivi del processo di
classe, sicchè l'esecuzione della medesima, ad opera delle parti, è condizione
di procedibilità della domanda di classe. L'ordinanza che decide
sull'ammissibilità è reclamabile davanti alla corte d'appello nel termine
perentorio di 30 giorni dalla sua comunicazione o notificazione, se anteriore.
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Sul reclamo la corte d'appello decide con ordinanza in camera di consiglio


non oltre 40 giorni dal deposito del ricorso, ma comunque esso non sospende
il procedimento davanti al tribunale
b. in caso di ammissione dell'azione di classe, si passa alla seconda fase, quella
della trattazione e dell'istruttoria: essa è governata da quanto disposto con
l'ordinanza ammissiva dell'azione, nella quale il tribunale determina il corso
della procedura
c. esaurita la fase istruttoria, si passa alla fase della decisione. Se accoglie la
domanda, il tribunale pronuncia sentenza di condanna con cui liquida
direttamente le somme definitive dovute a coloro che hanno aderito all'azione
ovvero stabilisce il criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione in
successivi separati processi. In quest’ultimo caso il giudice assegna alle parti
un termine non superiore a 90 giorni per addivenire ad un accorso sulla
liquidazione del danno: il processo verbale dell’accordo, sottoscritto dalle
parti e dal giudice, costituisce titolo esecutivo. Scaduto il termine senza che
l’accordo sia stato raggiunto, il giudice, su istanza di parte, liquida le somme
dovute ai singoli aderenti. La sentenza diviene esecutiva decorsi 180 giorni
dalla pubblicazione ed è appellabile dinanzi alla corte d'appello: il relativo
giudizio è regolato dalle norme del codice di procedura civile, salvo che con
riferimento alla fase dell'inibitoria della sentenza, eventualmente richiesta
dall'impresa soccombente. Infatti, nel delibare l’istanza di inibitoria, la corte
d’appello tiene conto, oltre che dei presupposti ex art. 283, dell’entità
complessiva della somma gravante sul debitore, del numero dei creditori,
nonché della difficoltà di ripetizione in caso di accoglimento del gravame. La
corte può comunque disporre che, fino al passaggio in giudicato della
sentenza, la somma complessivamente dovuta dal debitore sia depositata e
resti vincolata nelle forme ritenute più opportune. La sentenza che definisce il
giudizio di classe, se passa in giudicato, fa stato nei confronti dell'impresa, dei
consumatori ed utenti che l'hanno promossa e di quelli che vi hanno aderito.
Viene fatta salva la sola azione individuale dei soggetti che non aderiscono
all'azione collettiva.

324
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PARTE SETTIMA: IL GIUDICATO

CAP. 30: IL GIUDICATO

306.L'efficacia della sentenza e il giudicato formale

L’efficacia di stabile accertamento che caratterizza la sentenza si produce quando essa


passa in c.d. giudicato formale, cioè quando “la sentenza non è più soggetta né a
regolamento di competenza, né ad appello, né a ricorso per cassazione, né a revocazione per
i motivi di cui ai n. 4 e 5 dell'art. 395” (art. 324). Prima del passaggio in giudicato formale
(quindi nella pendenza del termine per impugnare), la sentenza (anche quella di 1° grado)
produce effetti provvisoriamente vincolanti (che la legge definisce “provvisoriamente
esecutivi” per la sentenza di 1° grado ed “esecutivi” per quella di appello, in quanto titolo
esecutivo, seppur provvisorio, idoneo a consentire l’accesso ai processi di esecuzione
forzata), ma non quelli sostanziali e di tutela dedotti in domanda e descritti dall'art. 2909
c.c. Si discute se l’efficacia che la legge attribuisce a sentenze non passate in giudicato si
estenda anche agli effetti costitutivi e a quelli di accertamento. Le interpretazioni in senso
estensivo possono trovare sostegno, quanto ai capi condannatori (non corrispettivi) delle
sentenze costitutive, nel fatto che anche la “sanzione” esecutiva comporta, al pari delle
sentenze costitutive, modifiche sostanziali (uso del patrimonio del debitore per soddisfare i
creditori e modifica di situazioni possessorie), mentre, quanto alle sentenze di mero
accertamento, è di ostacolo la radicale differenza tra questa efficacia e la modificazione
sostanziale descritta nell’art. 2908 c.c. Quest’ultima norma fa riferimento solo al potere del
giudice di “costituire, modificare o estinguere” rapporti giuridici, non di asseverarli per via
di mero accertamento, cioè con un’efficacia che la legge (art. 2909) attribuisce solo alle
sentenze passate in giudicato formale. Ad acquisire la normale efficacia di cui all'art. 2909
c.c., cioè quella di “giudicato sostanziale”, sono le sentenze di merito, cioè le sentenze che
decidono sulla domanda, e precisamente:

a. le sentenze che accolgono o respingono l'unica domanda, o una o più o tutte


le domande proposte, cioè che danno o negano le tutele richieste in giudizio
b. le sentenze che decidono eccezioni in senso stretto, anche se processualmente
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non definitive, in quanto pronunciano interamente su di una richiesta di tutela


distinta dalle altre avanzate in giudizio.

Controverso è se, oltre a quelle appena indicate, siano parzialmente decisive di domande in
merito anche le sentenze che, pur non accogliendo o respingendo in alcun modo le
domande o le eccezioni in senso stretto, risolvono questioni preliminari di merito che hanno
ad oggetto elementi o fatti giuridici costitutivi, modificativi, estintivi o impeditivi dei
rapporti che sono alla base della tutela richiesta (ad es. quella sul significato o sul vigore di
una norma giuridica ritenuta essenziale alla pronuncia sul merito). Queste sentenze hanno
indubbiamente efficacia irretrattabile interna al processo nel quale sono pronunciate
(efficacia c.d. endoprocessuale), che, secondo parte della dottrina, non sopravvive
all’estinzione del processo. Ma poiché, secondo la giurisprudenza e altra parte della
dottrina, le sentenze in esame hanno efficacia anche a processo estinto, occorre chiedersi se
tale efficacia abbia o meno la stessa natura sostanziale di quella delle sentenze che
accolgono o respingono la domanda e che sono in quanto tali idonee al passaggio in
giudicato. Sembra chiaro che tale efficacia (soltanto eventuale), se sopravvive al processo
estinto, può vincolare solo il giudice del nuovo processo, instaurato attraverso la
riproposizione della medesima domanda, in ordine alla decisione della medesima questione
preliminare: pertanto essa non ha nulla in comune con l’efficacia delle sentenze decisive di
domande in merito, che vincolano anche le parti sulla sostanza dei diritti in contesa.

307.L'efficacia di accertamento del giudicato sostanziale ex art. 2909 c.c. Il


giudicato interno ed esterno

L'efficacia di accertamento è quella che opera dando certezza a rapporti giuridici, con
l'enunciare sulla loro

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essenza un giudizio stabilmente vincolante, che si impone ai soggetti in modo da rendere


giuridicamente irrilevante ogni affermazione o pretesa e illegittimo ogni comportamento
che contrastino col giudizio medesimo. Eppure questi rilievo non sono sufficienti a definire
l’efficacia di accertamento della sentenza. Vi sono provvedimenti giurisdizionali che si
limitano a regolare in maniera diretta i rapporti su cui incidono, senza mai privare di ogni
rilevanza le loro originarie fonti sostanziali. Ben diversi da questi ultimi sono gli effetti
dell'accertamento contenuto nella sentenza passata in c.d. cosa giudicata sostanziale (artt.
2909 c.c. e 324 c.p.c.), che si sostituiscono in tutto e per tutto, rendendole irrilevanti, alle
fonti normative del rapporto, diventando la legge del caso concreto, tanto da dar luogo
anche al giudicato implicito e agli effetti riflessi (tra le stesse parti e nei confronti dei terzi).
Qui, in sostanza, la legge comanda nel caso concreto esattamente come il giudice ha
giudicato e ritenuto che essa debba comandare. Occorre distinguere tra:

a. giudicato esterno: è quello che si forma, tra le stesse parti, all'esito di processo
diverso da quello in cui viene eccepito o rilevato
b. giudicato interno: è quello che si è prodotto nello stesso processo, in
conseguenza sia di impugnazione parziale di una sentenza, sia di mancata o
conclusa impugnazione di una sentenza non definitiva pronunciata nel corso
del medesimo processo. Il giudicato interno si forma anche sulla pronuncia
che ha esplicitamente risolto questioni pregiudiziali o preliminari o che, nel
provvedere su alcuni capi della domanda, ha necessariamente statuito per
implicito sulle medesime questioni. Esso determina la preclusione del relativo
esame in sede di impugnazione

Se si formano due o più giudicati sostanziali, tali che sia materialmente impossibile
obbedire ad entrambi (c.d. giudicati contrastanti), dottrina e giurisprudenza dominanti
danno prevalenza al giudicato cronologicamente formatosi per ultimo.

308.Limiti soggettivi del giudicato: a) gli effetti riflessi nei confronti delle parti

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L'accertamento derivante dal giudicato sostanziale opera tra le parti “ad ogni effetto” (art.
2909 c.c.). Ciò significa che, anche rispetto a relazioni giuridiche diverse dal rapporto su
cui ha deciso il provvedimento passato in giudicato e anche in giudizi su rapporti diversi, le
parti non possono contestare l'accertamento e debbono servirsene o subirlo così come esso
è. Quest’ampia efficacia che il giudicato esercita tra le parti trova il suo fondamento
nell'essenza pubblicistica e sovrana della funzione giurisdizionale.

309.b) Gli effetti riflessi nei confronti dei terzi

Se la cosa giudicata è, nei limiti del suo oggetto, la legge del caso concreto, sembra
innegabile che gli effetti accertati siano incontestabili non solo per i soggetti tra i quali
opera il giudicato formale, ma per ogni altro soggetto destinatario degli effetti medesimi.
La circostanza che un terzo si giovi del giudicato reso tra altri soggetti (c.d. giudicato inter
alios) non comprime le garanzie di azione e di difesa ex art. 24 Cost., riconosciute alle parti
del processo concluso con il provvedimento passato in giudicato. Tale principio cede di
fronte alle garanzie richiamate, in quanto queste impongono che un soggetto non può
subire, da un giudicato conclusivo di un processo a cui non abbia partecipato, la negazione
di un diritto o l'imposizione di un obbligo o di una soggezione. In questo senso si può dire,
con Chiovenda, che la cosa giudicata nei limiti del suo oggetto vale per tutti, ma i terzi non
possono esserne pregiudicati in diritto. Perciò devono essere assicurate ai terzi azioni e
difese adeguate, in ossequio all’art. 24 Cost. Anche in giurisprudenza è ricorrente il
principio secondo il quale il giudicato può spiegare efficacia riflessa nei confronti di
soggetti estranei al rapporto processuale, quando contenga un’affermazione obiettiva di
verità che non ammette la possibilità di un diverso accertamento;

329
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tuttavia, questi effetti riflessi sono impediti tutte le volte in cui il terzo vanti un proprio
diritto autonomo rispetto al rapporto in ordine al quale il giudice interviene. L'efficacia
riflessa del giudicato anche nei confronti dei terzi è comunque la regola quando la sentenza
applica norme di ordine pubblico, cioè in tutti i casi in cui è litisconsorte necessario il p.m.

Peraltro in numerose ipotesi descritte da norme sostanziali sono previste varie estensioni
dell’efficacia di accertamento derivante dal giudicato a soggetti di rapporti connessi a quelli
sui quali hanno deciso i provvedimenti passati in giudicato, soprattutto per rafforzare la
tutela della parte vittoria (ad es. l’efficacia riflessa desumibile dalle norme sulla trascrizione
delle domande e delle sentenze). I terzi destinatari dell’efficacia riflessa del giudicato
possono, in via “preventiva”, intervenire nel processo “adesivamente” ex art. 105 co. 2°.
Questi terzi hanno altresì accesso al rimedio dell’opposizione di terzo ordinaria ex art. 404
co. 1°.

310.c) I terzi danneggiati in fatto dalla sentenza inter alios

Vi sono casi in cui non l'accertamento contenuto nella sentenza, ma la sua attuazione tra i
soggetti che esso investe direttamente, lede diritti di terzi, sottraendo loro l'oggetto di tali
diritti. Si tratta dei terzi titolari di diritti autonomi ed incompatibili con quelli delle parti
della sentenza passata in giudicato, cioè di diritti le cui condizioni di esistenza non sono
investite (né direttamente né indirettamente) dalla sentenza inter alios e che sono
incompatibili con quelli da quest’ultima tutelati: si pensi al classico esempio di chi si vanti
proprietario del bene oggetto, inter alios, di azione di rivendica definita con sentenza
passata in giudicato. Questi terzi, i quali possono autonomamente agire in via di
accertamento o di rivendica e proporre intervento principale nel processo inter alios, non
subiscono per effetto del giudicato formatosi tra altri soggetti pregiudizio ai propri diritti
analizzato nel precedente paragrafo, ma hanno egualmente il rimedio dell'opposizione di
terzo ordinaria.

Vi sono, inoltre, terzi che possono essere lesi per il fatto che l'esecuzione della sentenza
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resa inter alios sottrae loro prestazioni a cui hanno diritto: essi sono gli aventi causa a titolo
derivativo-costitutivo dal soccombente nel giudizio svoltosi tra altre parti (si pensi al
subconduttore di fronte alla sentenza che costringe il sublocatore a restituire la cosa al
locatore principale). Sebbene il rapporto derivato non sia qui inciso in maniera diretta dalla
sentenza, tali terzi, oltre a poter agire per via di responsabilità contrattuale contro i loro
danti causa, potranno esperire il rimedio dell'opposizione revocatoria descritto dall'art. 404
co. 2°, che riconosce agli aventi causa e ai creditori di una delle parti il diritto di fare
opposizione alla sentenza quando questa sia effetto di dolo o collusione a loro danno (la
sentenza inter alios potrebbe sottrarre dal patrimonio del debitore un bene che è posto a
garanzia dell’adempimento dei propri crediti ex art. 2740 c.c.).

311.Limiti oggettivi del giudicato. Il c.d. giudicato implicito

L'estensione dell'accertamento ex art. 2909 c.c. è individuata oggettivamente dalla


domanda. L’ambito oggettivo della domanda e dell’azione va, a sua volta, individuato non
solo in relazione al contenuto degli atti introduttivi del processo, ma altresì degli atti
difensivi successivi nei quali l'azione ritualmente si integra e si specifica, fino alla
formulazione delle conclusioni. Il giudicato può essere anche parziale, laddove venga
proposta impugnazione soltanto in relazione ad alcuni, ma non a tutti i capi autonomi della
sentenza. Secondo la giurisprudenza, il giudicato sostanziale sarebbe anche “implicito”, nel
senso che coprirebbe “il dedotto e il deducibile”, cioè quanto le parti hanno espressamente
richiesto, dedotto ed eccepito in giudizio, ma anche quanto avrebbero potuto richiedere,
dedurre ed eccepire in relazione alla materia del contendere. Eppure tali affermazioni non
possono giustificare l’estensione dell’efficacia di accertamento nei confronti di premesse di
diritto e di fatto che siano estranee ai rapporti decisi, ancorchè “logicamente necessarie”
alla decisione: ciò

331
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comporterebbe la violazione del diritto di difesa e di azione ex art. 24 Cost. Perciò


l'efficacia di giudicato non si estende a tutte le questioni pregiudiziali che il giudice abbia
dovuto risolvere (implicitamente o esplicitamente) per potere decidere sulla domanda
proposta dalla parte, ma soltanto a quelle che, per legge o per esplicita richiesta di parte,
debbano essere decise con efficacia di giudicato ai sensi dell'art 34 c.p.c. Il giudicato
implicito, proprio in quanto inerisce a quella disponibilità dell’agire e del resistere in
giudizio collegata alla disponibilità dei diritti che vi si fanno valere, non può ritenersi
operante in materia di diritti indisponibili o di ordine pubblico e di azioni proponibili dal
p.m.

Controversi sono i criteri per la determinazione dei limiti oggettivi della cosa giudicata con
riguardo all'individuazione del diritto dedotto. La problematica va affrontata evocando la
distinzione tra:

a. pregiudizialità tecnica. Il concetto di pregiudizialità in senso tecnico ricorre


allorchè vi sia un rapporto sostanziale tra il rapporto pregiudicante e il
rapporto pregiudicato, in virtù del quale l'esistenza o l'inesistenza di un diritto
o di uno stato dipendono dall'esistenza o dall'inesistenza di un altro rapporto
giuridico sostanziale: ad es. la controversia sulla sussistenza del debito
alimentare dipende dalla soluzione della controversia sulla sussistenza dello
stato di paternità o maternità
b. pregiudizialità logica. La pregiudizialità in senso logico si determina quando
non si tratta di rapporti diversi, ma di relazioni tra un singolo diritto ed il
rapporto giuridico complessivo da cui esso trae origine: ad es. il diritto del
venditore al pagamento del prezzo o del compratore alla consegna della cosa
presuppongono logicamente l’esistenza e la validità del contratto di
compravendita.

Ora, mentre in caso di pregiudizialità tecnica il giudicato sul rapporto pregiudicato si


estende al rapporto pregiudiziale soltanto alle condizioni dettate dall'art. 34 c.p.c., e cioè per
volontà di legge o su esplicita richiesta di parte, più discussa è l'estensione del giudicato al
rapporto pregiudiziale in caso di pregiudizialità logica, e cioè se pretenda anch’essa le
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condizioni suddette o meno. La giurisprudenza è orientata a riconoscere la ricorrenza del


giudicato implicito tutte le volte in cui, tra la questione decisa e quella che si assume
tacitamente risolta, esista un rapporto di indissolubile dipendenza, nel senso che
l'accertamento contenuto nella motivazione della sentenza cade su questioni che si
presentino come presupposto logico-giuridico della decisione.

Inoltre, la giurisprudenza suole ritenere che il giudicato sul diritto autodeterminato precluda
le deduzioni, in successivi processi, di diversi fatti costitutivi del diritto stesso, non dedotti
nel primo giudizio. Invece, per quanto riguarda il giudicato sul diritto eterodeterminato,
sarà possibile dedurre in successivi processi tra le medesime parti fatti costitutivi di diversi
diritti di credito, atteso che le domande giudiziali aventi ad oggetto questi ultimi si
individuano sia in base al petitum che alla causa petendi.

312.Rilevabilità officiosa della cosa giudicata

La possibilità di far valere il giudicato c.d. esterno, formatosi all'esito di diverso processo, è
stata per lungo tempo limitata dalla giurisprudenza alla proposizione di un'apposita
eccezione in senso stretto (cioè deducibile soltanto dalla parte interessata). Oggi, invece, la
giurisprudenza ritiene che il giudicato esterno sia rilevabile anche d'ufficio (come si era già
sostenuto in dottrina), essendo la cosa giudicata la norma del caso concreto, che il giudice,
in quanto soggetto alla legge, è tenuto ad applicare. La qualificazione dell'eccezione di
giudicato come eccezione in senso lato (cioè rilevabile d'ufficio) comporta la sottrazione
della stessa al regime di formazione delle preclusioni di cui all’art. 167 co. 3° e la
conseguente possibilità che la relativa questione possa trovare ingresso non solo lungo tutto
il corso del processo di 1° grado, ma anche in fase di impugnazione.

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313.Differenze tra l'efficacia delle sentenze che non decidono domande in merito e
la cosa giudicata

Le sentenze che non decidono domande in merito non accertano i diritti dedotti in giudizio
e la tutela che se ne è richiesta, e perciò, quando sono passate in giudicato formale, possono
vincolare solo il giudice chiamato a decidere sulla domanda, limitatamente allo stesso
processo in cui sono pronunciate o anche in ogni altro processo avente ad oggetto la
medesima domanda proposta dinanzi al medesimo giudice. Profonda è la differenza tra
l’efficacia in esame e la cosa giudicata descritta dall’art. 2909 c.c.: qui il vincolo consiste
solo nello scioglimento di questioni (di merito o di rito) che vengano riproposte nel
cammino verso la decisione della domanda o all’interno di tale decisione, così che questi
c.d. giudicati non resistono al mutamento delle norme che incidano sulle premesse
giuridiche delle dette questioni (jus superveniens), né producono quell’efficacia riflessa per
le parti e per i terzi.

314.L'efficacia “panprocessuale” delle decisioni della Corte di Cassazione

L'efficacia panprocessuale delle sentenze (così chiamata in quanto vincolante per tutti i
futuri giudici della medesima domanda, introduttiva del processo non definito in merito) è
innegabile per le decisioni pronunciate dalla Corte di Cassazione su regolamento di
competenza. Evidenti ragioni sistematiche hanno indotto dottrina e giurisprudenza ad
estenderla ad ogni pronuncia della Corte di Cassazione che risolva questioni di competenza
(in esito di ricorso ordinario per cassazione). L’art. 393 dice chiaramente che tutte le
sentenze di Cassazione conservano, in ogni nuovo processo instaurato con la riproposizione
della medesima domanda, la medesima efficacia vincolante che avevano nel processo
estinto: la lettera della norma sembra non consentire la limitazione (dominante in dottrina e
giurisprudenza) dell’efficacia panprocessuale in esame al solo principio di diritto affermato
dalla Corte. Anche l’art. 382 co. 1°, secondo cui la Corte, nel decidere questioni di
giurisdizione, “statuisce” su queste determinando, quando occorre, il giudice competente,
sembra ben compatibile con l’efficacia panprocessuale delle dette decisioni, tanto più se si
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considera che il co. 2° disciplina in maniera analoga il caso in cui la Cassazione statuisca su
questioni di competenza. Insomma le norme citate vanno interpretate nel senso della
panprocessualità di ogni decisione della Cassazione su questioni sia di giurisdizione che di
competenza. Essa trova giustificazione nella volontà dell'ordinamento di conservare gli
effetti dell'accertamento che la Corte di Cassazione è chiamata a pronunciare in tema di
competenza e di giurisdizione, sia in sede di regolamento sia in sede di ricorso ordinario.

315.L'efficacia delle decisioni in rito dei giudici di merito

L'art. 310 c.p.c. stabilisce che l'estinzione del processo rende inefficaci le sentenze non
definitive passate in giudicato formale che non decidono domande in merito (co. 2°), fermo
restando che l'estinzione del giudizio non estingue l'azione e consente pertanto la
riproposizione della medesima domanda (co. 1°). Nonostante l’opinione contraria di una
parte della dottrina, sembra sistematicamente necessario applicare questa disposizione
anche alle decisioni che definiscono il processo senza decidere domande in merito, perché
le une e le altre sentenze risolvono questioni di eguale natura. Si può dunque enunciare la
regola che le decisioni in discorso non sono vincolanti nel nuovo processo, che sia
instaurato con la mera riproposizione della medesima domanda in precedenza non decisa.

Alle decisioni sin qui richiamate vanno equiparate quelle, sempre pronunciate dai giudici di
merito, in tema di competenza e di giurisdizione, anch’esse travolte (a differenza di quelle
della Cassazione) dall'estinzione del processo nel corso del quale sono pronunciate.

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PARTE OTTAVA: LE TUTELE SOMMARIE

CAP. 31: I PRINCIPI SULLE TUTELE SOMMARIE

316.La cognizione sommaria

Accanto alla tutela normale generale dei diritti soggettivi l'ordinamento appresta, per
determinate categorie di diritti o in presenza di determinate situazioni di pericolo di
frustrazione o di impossibilità di garantire la tutela definitiva, ulteriori forme di tutela,
diverse da quella normale in quanto dirette ad anticipare gli effetti di quest'ultima o a
garantirne i risultati, o addirittura a sostituirla, ove gli interessati non la invochino.
Carattere comune a tutte le tutele sommarie è la finalità di rendere al massimo effettiva la
tutela giurisprudenziale dei diritti, dovendo il processo (ripetendo le parole di Chiovenda)
“dare per quanto possibile praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello che
egli ha diritto di conseguire”. Questa finalità rappresenta una direttiva vincolante per il
legislatore ordinario ex artt. 24 e 111 Cost., al quale è imposto di prevedere strumenti di
tutela processuale idonei ad evitare che i tempi di durata dei giudizi di ordinaria cognizione
frustrino la ragione che sarà riconosciuta con la decisione di merito:

a. da un lato, gli strumenti di tutela più rapidi possono essere chiamati a


realizzare la funzione di anticipazione satisfattiva della pretesa del soggetto
istante attraverso l’anticipata formazione di titoli esecutivi anche provvisori,
che consentono di accedere immediatamente ai processi di esecuzione forzata
b. dall’altro lato, tali strumenti possono essere chiamati ad evitare che il risultato
della tutela finale di merito possa essere vanificato in conseguenza di pericula
che solo l’intervento del giudice della cautela può neutralizzare, attraverso
provvedimenti di cautela idonei a salvaguardare quel certo diritto leso o
esposto a pericolo di lesione.

Attorno a questi due diversi modi di attuare il principio costituzionale di effettività della
tutela giurisdizionale, si sviluppa la distinzione tra tutele sommarie non cautelari e tutele
sommarie cautelari. Le tutele in esame di definiscono “sommarie” perché procedono per vie
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più brevi, attraverso indagini più superficiali: la sommarietà di siffatte forme di tutela è,
dunque, innanzitutto sommarietà di cognizione, cioè dell'attività logico-giuridica che il
giudice è chiamato a compiere ai fini della pronuncia del provvedimento. La cognizione
sommaria può essere perciò:

c. incompleta, quando la pronuncia si fonda su quanto risulta agli atti del


processo in corso, al momento in cui viene svolta
d. superficiale, quando la pronuncia è basata su una valutazione meramente
probabilistica circa l'esistenza del diritto oggetto di tutela.

Non esiste un modello unico di sommarietà, in quanto l’incompletezza e la superficialità


non hanno un’intensità costante, ma variabile:

e. il modello di “maggiore sommarietà” consente al giudice di pronunciare


provvedimenti inaudita altera parte, emessi sulla base della sola
prospettazione del ricorrente e dei documenti dallo stesso allegati (si pensi al
decreto ingiuntivo o al decreto cautelare)
f. il modello di “normale sommarietà” consente al giudice di pronunciare non
solo nel contraddittorio delle parte, ma anche a seguito dell'acquisizione di
elementi e riscontri istruttori (si pensi alla normale cognizione cautelare)
g. il modello di “ridotta sommarietà” consente al giudice di pronunciare il
provvedimento sommario potendo utilizzare gran parte o addirittura tutto il
materiale istruttorio acquisito secondo le regole ordinarie (si pensi
all’ordinanza ex art. 186 quater).

337
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Come anticipato, nell'ambito del più ampio genus delle tutele sommarie si debbono
distinguere:

h. provvedimenti (e relativi procedimenti) non cautelari, i quali realizzano


finalità di anticipazione satisfattiva della pretesa, cioè servono esclusivamente
ad anticipare cronologicamente la soddisfazione del diritto fatto valere in
giudizio
i. provvedimenti (e relativi procedimenti) cautelari, i quali (pur potendo avere
contenuto anticipatorio degli effetti della successiva decisione di merito)
perseguono la diversa finalità di salvaguardare urgentemente il diritto dedotto
in giudizio, in funzione dell'effettività della successiva tutela di merito.

317.Le tutele sommarie non cautelari

Funzione di ogni tutela sommaria non cautelare è quella di consentire, nel tempo più breve
possibile, la formazione di un titolo esecutivo anche provvisorio, che consenta di accedere
senza indugio ai processi di esecuzione forzata e di realizzare l’anticipazione satisfattiva
della pretesa anche contro la volontà del soggetto passivo. Per tale ragione nelle norme che
disciplinano i singoli procedimenti (diversamente da quelle che disciplinano le tutele
cautelari) è sempre contenuta l’espressa attribuzione della qualità di titolo esecutivo
giudiziale (art. 479 c.p.c.). Le tutele sommarie non cautelari danno luogo a 2 tipologie di
provvedimenti:

a. provvedimenti sommari autonomi: si tratta di provvedimenti che concludono


un autonomo procedimento (o subprocedimento) cui non deve, ma può
conseguire la cognizione ordinaria (di norma su opposizione, cioè su
iniziativa del soggetto destinatario del provvedimento). I provvedimenti
sommari autonomi si distinguono a loro volta in:
i. provvedimenti autonomi necessari: questi provvedimenti sono
finalizzati a tutele che hanno il più delle volte ad oggetto rapporti o
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insiemi di rapporti giuridici sostanziali, sui quali incidono norme di


ordine pubblico e debbono per legge essere attuate attraverso la previa
instaurazione di un procedimento speciale, che si conclude con il
provvedimento di cognizione sommaria (si pensi al procedimento che
si conclude concedendo o negando la repressione dell’attività
sindacale). La necessarietà va, dunque, ricollegata all'obbligo legale per
il soggetto che invoca la tutela giurisdizionale di determinati diritti o
rapporti, di accedere ad un procedimento a cognizione sommaria
o provvedimenti autonomi non necessari: quando invece il soggetto interessato ha
la scelta tra l'azione ordinaria (che dà accesso al processo di cognizione
ordinaria) e il procedimento o il sub- procedimento che si chiude con il
provvedimento sommario autonomo, questo ha carattere non necessario (si
pensi al locatore che può , ma non deve, ricorrere al procedimento speciale per
convalida di sfratto, invece che all’ordinaria azione per il rilascio nei confronti
del conduttore.
Avverso questi provvedimenti (siano o non siano necessari) è sempre possibile
proporre, da parte del soggetto passivo, entro termini brevi che ricorrono dalla loro
conoscenza legale, opposizioni attraverso le quali s'instaurano processi cognitivi di
tutela normale, che servono a rafforzare la stabilità degli effetti prodotti in via
sommaria. La tecnica di “innesto” della tutela di merito può essere di 2 tipi:
o il primo è quello della possibile opposizione avverso il provvedimento
sommario, da proporsi entro un termine perentorio. In tal caso, proposta
l’opposizione, il giudizio di merito si svolge secondo le regole ordinarie e si
conclude con la sentenza, che di norma assorbe il provvedimento sommario,
salvo il caso del decreto ingiuntivo, che continua a produrre i suoi effetti in
caso di rigetto integrale dell’opposizione. Evidentemente tale modello
sanziona l’inerzia della parte con la previsione di definitività del
provvedimento sommario
o il secondo modello prevede la prosecuzione automatica del procedimento
sommario, che, previa ordinanza di mutamento di rito, si trasforma in giudizio
a cognizione piena (si pensi al procedimento per convalida, a seguito
dell’opposizione dell’intimato). La prosecuzione può

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anche non essere automatica e presupporre un’espressa istanza della parte


interessata (si pensi ai provvedimenti possessori)
b. provvedimenti provvisori di merito: si tratta di provvedimenti che si
inseriscono nel corso di processo di cognizione già pendente e sono
pronunciati, di norma su istanza di parte, quando il giudice istruttore sia
convinto che le risultanze di causa acquisite fino al momento della pronuncia
(“allo stato degli atti”) sarebbero di per sé sufficienti ad accogliere in tutto o
in parte la domanda, se non contrastate da altre, che non sono ancora emerse o
non sono pienamente conosciute, ma che lo possono essere in momenti
successivi, dando luogo alla possibile revoca della tutela provvisoria
eventualmente concessa (si pensi all’ordinanza per il pagamento di somme
non contestate, che determina l’anticipazione dei futuri effetti esecutivi della
sentenza di condanna al pagamento di quelle somme che non sono oggetto di
contestazione). Qui l’anticipazione riguarda gli effetti della tutela già richiesta
nelle forme ordinarie, che, in presenza di determinati presupposti, la legge
consente all’istante di conseguire prima della futura decisione di merito.

Infine, va affrontato il tema dei controlli: operando senza le ordinarie garanzie di difesa e di
approfondita cognizione, le tutele sommarie dovrebbero essere sottoposte a successivi
controlli processuali. Ma l’introduzione di un sistema completo di controlli sull’esercizio
dei poteri cautelari non è stata accompagnata da normative analoghe per i provvedimenti
sommari non cautelari, e ciò pone il problema del rispetto delle garanzie difensive dei
soggetti incisi, ai quali non resta altro che attendere, per un tempo spesso non ragionevole,
l’esito della tutela di merito. Tale mancanza di controlli appare ancor più grave se si
considera che i provvedimenti sommari non cautelari sono di norma emessi con ordinanza
espressamente definita non impugnabile.

318.Le tutele sommarie cautelari

La tutela cautelare costituisce strumento indispensabile per la salvaguardia di diritti


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soggettivi non ancora accertati, ma la cui esistenza è ritenuta probabile dal giudice della
cautela, per consentire che la tutela in via ordinaria non sia (in tutto o in parte) vanificata,
anche praticamente, da lesioni o pericoli di lesione (tipicamente individuati dal legislatore
ovvero atipici che diano luogo al “pregiudizio imminente ed irreparabile” ex art. 700) in
grado di arrecare danno al diritto soggettivo che l'istante sottopone a cautela. Il potere di
invocare provvedimenti cautelari costituisce sicura espressione del principio per cui la
durata del processo non deve andare a danno dell'attore che ha ragione. Ciò che rileva,
anche a livello costituzionale, è il riconoscimento della possibile (e oggi assai frequente
data la non ragionevole durata dei processi) insufficienza delle “normali” garanzie che
assistono il diritto di agire in via ordinaria, nonché la conseguente necessità di apprestare
ulteriori forme di tutela, capaci non già di far conseguire all’attore “che ha ragione” (e che
agisce in via cautelare) tutto quanto egli ha diritto di ottenere (l’attribuzione definitiva dei
torti e delle ragioni è estranea alle finalità della tutela cautelare), bensì di consentire che la
tutela giurisdizionale ordinaria, una volta attuata, non si riveli inutile per la parte che abbia
visto accolta la propria domanda di merito. Proprio in quanto la tutela cautelare è parte
essenziale della garanzia della tutela giurisdizionale ex art. 24 Cost., nessun diritto
soggettivo leso o sottoposto a pericolo di lesione può essere ad essa sottratto (c.d. principio
di integrale copertura della tutela cautelare). Spetta al giudice della cautela di accertare,
anche officiosamente (anche se nei limiti dei fatti allegati dalle parti), i 2 presupposti
indispensabili per l'accoglimento di qualsiasi misura cautelare:

a. il fumus boni juris, cioè l'accertamento meramente probabilistico e di


verosimiglianza che il giudice compie circa la sussistenza del diritto
cautelando
b. il periculum in mora, cioè il pericolo di lesione che, durante il tempo
occorrente per far valere il diritto in via ordinaria, questo possa essere in tutto
o in parte pregiudicato.

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Comunque le caratteristiche delle tutele cautelari trovano un limite invalicabile nel rigoroso
rispetto da parte del legislatore dei requisiti minimi che discendono dalle garanzie ex artt. 3
e 24 Cost., quali principi fondamentali di ogni processo. La tutela cautelare è, allo stesso
tempo autonoma e strumentale:

c. l'autonomia concerne in primis la funzione, che non è quella né di


accertamento, né di soddisfazione anticipata a favore di una parte, ma di
garanzia dell'effettività della tutela giurisdizionale. Essa investe anche la
struttura del procedimento e del provvedimento, in quanto la cautela, proprio
per la sua funzione, incide immediatamente sui rapporti giuridici sostanziali
in contestazione. Ciò non toglie che la misura cautelare possa avere un
contenuto parzialmente (e talvolta anche totalmente) anticipatorio di quello
del provvedimento di tutela normale. Ma comunque, anche in tal caso, il
provvedimento cautelare è atto “precario e rivedibile”, che non pregiudica il
diritto delle parti di ottenere la definizione della controversia nelle forme
ordinarie
d. la tutela cautela è anche strumentale, in quanto preordinata all'assicurazione
degli effetti della successiva tutela di merito.

La distinzione tra tutele sommarie non cautelari e cautelari, pur risultando evidente sotto il
profilo funzionale, spesso lascia margini di dubbio in presenza di provvedimenti
inquadrabili con difficoltà nell’una o nell’altra categoria. Il criterio cui oggi viene
riconosciuto rilievo centrale poggia sull’espressa attribuzione della qualità di titolo
esecutivo ai provvedimenti sommari anticipatori (non cautelari) da parte delle singole
norme che li disciplinano: tale possibilità è esclusa per ogni cautela, anche ultrattiva. Non
hanno, inoltre, natura cautelare i provvedimenti di inibitoria: tali provvedimenti, che in
quanto tali possono essere emessi solo dopo la pronuncia della sentenza di merito (di 1° o
di 2° grado), sono espressione non già di poteri cautelari in senso stretto, ma di prerogative
strumentali al pieno ed effettivo esercizio dei poteri del giudice dell’impugnazione o
comunque all’esito del giudizio di impugnazione, tant’è vero che il provvedimento di
inibitoria non ha per scopo quello di salvaguardare il diritto che è stato già oggetto della
decisione di merito.
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319.I rapporti tra tutela cautelare e tutela di merito

Il sistema cautelare è stato costruito sul rapporto di necessarietà della tutela di merito
successiva all'accoglimento della domanda cautelare, nel quale si risolve la strumentalità
della cautela. A differenza dei provvedimenti sommari non cautelari, la cautela non è
destinata a produrre effetti stabili, ma ad assicurare l’effettività della tutela di merito, la
quale, all’esito del relativo giudizio, assorbirà (già con la sentenza di 1° grado), la misura
cautelare (in caso di ritenuta sussistenza del diritto sottoposto a tutela) ovvero provocherà
l’inefficacia ex lege della cautela (in caso di ritenuta insussistenza del diritto sottoposto a
tutela): tali due possibili esiti esaltano gli effetti di provvisorietà del provvedimento
cautelare. La l. 80/2005 ha introdotto la regola della c.d. facoltatività del giudizio di merito,
prevedendo che le disposizioni contenute nell’art. 669 octies e nell’art. 669 nonies co. 1°
non si applicano “ai provvedimenti di urgenza emessi ai sensi dell’art. 700 e agli altri
provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito”, restando
fermo il potere di ciascuna parte di iniziare in ogni momento il giudizio di merito. Tale
scelta di eliminare l’obbligo da parte del giudice della cautela ante causam di fissare il
termine perentorio per l’inizio del giudizio di merito, e conseguentemente di evitare la
caducazione della misura cautelare, è stata ispirata da ragioni di economia processuale.
L’idoneità all’anticipazione degli effetti della decisione di merito cui fa riferimento la
norma va intesa in senso rigoroso: ad es. potrebbe dirsi che anche i provvedimenti di
sequestro anticipano gli effetti conseguenti al vittorioso esperimento della tutela di merito.
Ma, a ben vedere, questi effetti sono da ricondurre alla generica finalità di ogni cautela, che
è quella di conservare i beni in funzione dell’utile esperimento della futura esecuzione
forzata. Piuttosto quell’anticipazione di cui all’art. 669 octies si riferisce alla produzione in
via anticipata di uno o più degli effetti della decisione di merito e perciò deve risolversi, a
differenze delle altre cautele, nell’introduzione in via cautelare di una regolamentazione
provvisoria (anche parziale) del rapporto

343
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litigioso, cioè di un nuovo assetto di interessi comunque ottenibile all’esito della tutela di
merito. Nel disporre che i provvedimenti non perdono la loro efficacia se la causa di merito
non viene iniziata, l’art. 669 octies individua la conseguenza dell’introduzione del principio
di facoltatività, e cioè l’ultrattività degli effetti della cautela. Ultrattività degli effetti
significa che la misura cautelare non è sottoposta ad un fenomeno di stabilizzazione della
sua efficacia, cioè non acquista, in conseguenza del mancato inizio del giudizio di merito,
effetti diversi e più stabili rispetto a quelli prodotti al momento della sua emissione, ma
continua a produrre i medesimi suoi effetti provvisori e cautelari, fino a quando una della
parti non riterrà o di instaurare il giudizio di merito (in caso di cautela ante causam) ovvero
quando sarà disposta, su istanza della parte interessata, la modifica o la revoca della misura
cautelare. Pertanto si tratta di un'ultrattività che viene rimessa alla libera determinazione
delle parti: ratio del sistema è proprio quella di “responsabilizzarle”, chiamandole a valutare
l'idoneità del regolamento provvisorio della lite a soddisfare i propri interessi e la
convenienza a considerarlo in vigore senza instaurare il giudizio di merito. Dunque la tutela
di merito non è eliminata, ma solo differita per un tempo non predeterminato dalla legge.

L’introduzione del principio di ultrattività per talune misure cautelari potrebbe far ritenere
non più attuale la distinzione tra tutele sommarie cautelari e non cautelari. Tuttavia, oltre al
rilievo che il fenomeno dell’ultrattività non riguarda quelle cautele che non anticipano gli
effetti della decisione di merito (ad es. i sequestri), occorre tener conto del fatto che:

a. i provvedimenti sommari non cautelari traggono la “fonte” di stabilità dei loro


effetti esecutivi dalla funzione di anticipata soddisfazione della pretesa di
merito, dando vita alla formazione di titoli esecutivi provvisori, che
conservano ex lege l’efficacia sino al momento dell’(eventuale) caducazione
ad opera della sentenza resa all’esito del giudizio di merito, che la parte
interessata può instaurare
b. le cautele ultrattive, invece, traggono il loro fondamento nel “consenso” delle
parti, le quali si astengono dall’iniziare il giudizio di merito, se ritengono che
la regolamentazione provvisoria del rapporto litigioso introdotto dalla misura
cautelare possa soddisfare i rispettivi interessi.

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320.Distinzione tra la cognizione cautelare in corso di causa e la cognizione


preordinata ai provvedimenti provvisori di merito

La cognizione cautelare, anche quando ha luogo durante il processo di cognizione


ordinaria, si distingue da quella preordinata ai provvedimenti provvisori di merito per il
fatto che il giudice della cognizione ordinaria può rimuovere i risultati della prima anche
rivalutando criticamente gli stessi materiali cognitivi posti a base della misura cautelare
(pertanto acquisiti allo stato degli atti), mentre la rimozione dei risultati della seconda (dato
il carattere pieno e normale della cognizione) è possibile solo in base all'acquisizione di
materiali cognitivi nuovi rispetto a quelli che hanno giustificato la tutela provvisoria. Ciò
consente la coesistenza nello stesso processo di entrambe le tutele in discorso, pur se si
concretino in risultati identici a favore di chi le ottiene.

CAP. 32: LE TUTELE SOMMARIE NON CAUTELARI

321.Premesse

Le tutele sommarie non cautelari hanno la funzione di anticipare, in tutto o in parte, la


soddisfazione dell'asserito titolare del diritto con la formazione, in tempi più ristretti di quelli
necessari per ottenere la

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sentenza (all’esito del processo a cognizione piena) di un titolo esecutivo anche


provvisorio, comunque idoneo a consentire al (probabile) creditore di accedere ai processi
di esecuzione forzata. Le modalità ed i tempi di formazione del titolo esecutivo sono diversi
a seconda delle varie tipologie di procedimenti e, in particolare, dell'immediata ovvero
differita costituzione del contraddittorio con il soggetto passivo. Così, mentre il decreto
ingiuntivo non ha, di norma, immediatamente effetti provvisoriamente esecutivi, ma può
acquisire la qualità di titolo esecutivo in caso di mancata opposizione da parte dell'ingiunto
ovvero nel corso dell'opposizione da questi proposta, per l’ordinanza di convalida di sfratto
per morosità gli effetti esecutivi si producono immediatamente. Tra i provvedimenti
sommari autonomi non cautelari si segnalano il decreto ingiuntivo, l'ordinanza per
convalida di sfratto e i provvedimenti possessori.

322.Il decreto ingiuntivo

Il procedimento di ingiunzione (artt. 633 ss.) rappresenta una forma di tutela sommaria (non
necessaria, in quanto concorre con l’ordinaria tutela di cognizione normale) che consente a
chi assume di essere titolare di determinati diritti soggettivi di richiedere (proponendo
domanda di ingiunzione) al giudice competente “ingiunzione di pagamento o di consegna”,
preordinata all'esecuzione forzata. Giudice competente è il giudice di pace o il tribunale che
sarebbe competente per materia, valore e territorio se la domanda fosse proposta in via di
ordinaria cognizione. Oggetto della domanda di ingiunzione, che si propone con ricorso,
possono essere il pagamento di crediti di somme di denaro o di quantità è determinate di
cose fungibili ovvero la consegna di cose mobili determinate. Il provvedimento finale del
procedimento in esame, proprio perché emesso “inaudita altera parte”, assume sempre la
forma del decreto motivato di accoglimento o di rigetto: perciò si parla di decreto
ingiuntivo. La motivazione è volta a consentire il controllo nell’eventuale successiva fase di
opposizione.

La condizione richiesta dal codice per l'accesso alla tutela monitoria è che il credito per il
quale si chiede l'ingiunzione sia liquido ed esigibile e sia supportato da una prova scritta,
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cioè da una prova documentale ai sensi degli artt. 2699 ss. c.c. L’art. 634 precisa che “prove
scritte idonee a norma del n. 1 dell’art. precedente” sono anche le polizze e promesse
unilaterali per scrittura privata e i telegrammi, nonché, per i crediti relativi a
somministrazioni di merci e di danaro fatte da imprenditori che esercitano un’attività
commerciale, gli estratti autentici delle scritture contabili e quelle prescritte dalle leggi
tributarie. La norma introduce un’evidente dilatazione della normale efficacia probatoria
che il codice civile riconosce a tali documenti, giustificata dall’opportunità di estendere
l’accesso alla tutela monitoria anche in assenza dell’efficacia di prova legale. Se il diritto
dipende da una controprestazione o da una condizione, per ottenere l’ingiunzione il
ricorrente deve offrire “elementi atti a far presumere l'adempimento della controprestazione
o l'avveramento della condizione”, cioè è tenuto ad allegare elementi (anche indiziari) che
debbono risultare esclusivamente da atti scritti, in grado di dimostrare che lo stesso
ricorrente abbia adempiuto la propria obbligazione ovvero che la condizione si sia avverata.

Il contraddittorio è qui solo differito, anche se eventuale, in quanto rimesso all'iniziativa del
soggetto passivo: questi, nel termine di 40 giorni dal momento in cui gli viene notificato dal
creditore il decreto ingiuntivo, ha l'onere di proporre opposizione, cioè di instaurare con
atto di citazione un giudizio di ordinaria cognizione dinanzi allo stesso ufficio giudiziario
che ha pronunciato l’ingiunzione, nel corso del quale si dovrà accertare o negare, sulla base
di cognizione piena, il diritto fatto valere nella sede sommaria monitoria. Il procedimento
monitorio si articola perciò di 2 fasi distinte:

a. la prima, a cognizione sommaria, ha inizio con il deposito del ricorso


contenente la domanda monitoria e si conclude con la pronuncia del decreto
b. la seconda, a cognizione piena, si conclude con sentenza.

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Può anche accadere che il giudice, se ritiene insufficientemente giustificata la domanda


monitoria, dispone che il cancelliere ne dia notizia al ricorrente, invitandolo a provvedere
alla prova. Se il ricorrente non risponde all'invito o non ritira il ricorso oppure se la
domanda non è accoglibile, il giudice la rigetta con decreto motivato, che però non
pregiudica la riproposizione della domanda anche per via ordinaria. Al contrario, se
ricorrono i presupposti di prova sopra descritti, il giudice concede il provvedimento
monitorio con decreto motivato, ingiungendo al debitore di pagare la somma o di
consegnare la cosa o la quantità di cose richieste entro 40 giorni, con l'espresso
avvertimento che nello stesso termine può essere fatta opposizione e che, in mancanza, si
procederà ad esecuzione forzata in quanto il decreto acquista esecutorietà. A pena di
inefficacia il decreto ingiuntivo deve essere notificato all’ingiunto entro 60 giorni dalla
pronuncia. Il decreto ingiuntivo divenuto esecutivo può essere impugnato soltanto con
revocazione straordinaria o con opposizione di terzo ordinaria.

In determinate ipotesi previste dall’art. 642 co. 1° e 2°, quando l'istanza monitoria è
supportata da documenti particolarmente probanti, il decreto ingiuntivo deve, su istanza del
ricorrente, essere dichiarato, sin dal momento della sua pronuncia, provvisoriamente
esecutivo. Tali ipotesi (ne è discussa la tassatività) riguardano crediti fondati su cambiale,
assegno bancario, assegno circolare. Al di fuori dei casi di obbligatoria concessione, la
provvisoria esecutorietà può essere concessa se vi è “pericolo di grave pregiudizio nel
ritardo ovvero se il ricorrente produce documentazione sottoscritta dal debitore,
comprovante il diritto fatto valere”, cioè quando il giudice, a prescindere dalla valutazione
circa l’efficacia probatoria della documentazione posta a fondamento della domanda,
riscontra la sussistenza di concrete circostanze, che denotano una grave situazione di
dissesto o di insolvenza del debitore o di un pericolo di deterioramento delle cose di cui si
chiede la restituzione. La provvisoria esecutività può essere concessa altresì quando
vengano presentati al giudice documenti di provenienza del debitore che attestino
l’esistenza del credito. Il decreto ingiuntivo dichiarato provvisoriamente esecutivo
costituisce anche titolo per l'iscrizione di ipoteca giudiziale sugli immobili dell'ingiunto.

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323.L'opposizione a decreto ingiuntivo

Nel procedimento che conduce all’emanazione del decreto ingiuntivo, il contraddittorio è


soltanto differito ed eventuale, in quanto rimesso all’iniziativa del soggetto destinatario
dell'ingiunzione, il quale ha l'onere di proporre opposizione, cioè di instaurare con atto di
citazione un giudizio di ordinaria cognizione davanti allo stesso giudice (inteso come
ufficio giudiziario) che ha pronunciato l'ingiunzione, nel corso del quale si dovrà accertare
o negare, sulla base di cognizione piena, il diritto fatto valere nella sede sommaria
monitoria. L'opposizione a decreto ingiuntivo non ha natura impugnatoria del
provvedimento sommario, pur se, in caso di accoglimento anche solo parziale, il decreto
ingiuntivo deve essere sempre revocato. Essa dà luogo ad un ordinario giudizio di
cognizione di 1° grado, il cui oggetto non è affatto limitato alla verifica delle condizioni di
ammissibilità del decreto ingiuntivo, ma si estende all'accertamento della fondatezza o
infondatezza della pretesa fatta valere con la domanda monitoria (nonché delle eventuali
domande riconvenzionali proposte dalla parte opponente). Ne consegue che, qualora il
giudice revochi il decreto opposto, egli può pronunciare sul merito della domanda, venendo
la sentenza di condanna a sostituirsi all’originario decreto ingiuntivo. L'opposizione deve
essere proposta, nel termine di 40 giorni dalla notificazione del decreto, davanti all'ufficiale
giudiziario cui appartiene il giudice che ha emesso l'ingiunzione, con atto di citazione da
notificarsi al creditore nel domicilio da lui eletto nel ricorso per ingiunzione. Il giudizio di
opposizione si svolge secondo le norme del procedimento ordinario davanti al giudice
adito. In tale processo le posizioni delle parti risultano in qualche modo invertite, giacchè,
rispetto alla domanda fatta valere dal creditore in sede monitoria, il debitore opponente può
essere considerato come convenuto in senso sostanziale, laddove il creditore opposto (che è
convenuto in senso formale del giudizio di opposizione) in realtà riveste la posizione di
attore in senso sostanziale. Sembra, perciò, che nel giudizio in esame spettino all’opponente
tutti i poteri che il codice riconosce al convenuto, compreso quello di proporre domanda
riconvenzionale.

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Nel corso della prima udienza (che è quella di trattazione ex art. 183), il giudice è chiamato
ad emanare i provvedimenti relativi alla provvisoria esecutività del decreto opposto. Ove
non sia già stata concessa dal giudice che ha emanato il decreto ingiuntivo, l'esecuzione
provvisoria del decreto può essere disposta con ordinanza non impugnabile dal giudice
dell'opposizione a decreto ingiuntivo, se l'opposizione non è fondata su prova scritta ovvero
di pronta soluzione (cioè se l’opposizione è tale da non richiedere un’istruzione probatoria
in senso stretto, ad es. perché i fatti non sono contestati). Può essere disposta anche
l'esecuzione provvisoria “parziale”, cioè limitatamente alle somme non contestate. Per
contro, nel caso in cui la provvisoria esecutorietà del decreto ingiuntivo sia stata concessa,
il giudice, su istanza dell'opponente, può disporre con ordinanza non impugnabile la
sospensione (e non la revoca) della stessa, con efficacia ex nunc, “quando ricorrono gravi
motivi”, cioè sia in caso di ricorrenza del fumus di fondatezza dei motivi posti a fondatezza
dei motivi posti a fondamento dell'opposizione, sia laddove il giudice istruttore ravvisi il
pericolo di grave danno che potrebbe derivare all'opponente dall'esecuzione promossa in
base al decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo.

Vediamo ora i possibili esiti del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo:

a. innanzitutto l'art. 653 prevede che la dichiarazione di estinzione del processo


di opposizione comporta che il decreto acquista (ove non l’abbia già)
efficacia esecutiva
b. nel caso in cui il giudizio di opposizione si conclude con sentenza di rigetto, il
decreto acquista (ove non l’abbia già) efficacia esecutiva. Il titolo esecutivo
sarà qui rappresentato dal decreto ingiuntivo originariamente emanato e non
dalla sentenza di rigetto dell'opposizione
c. in caso di integrale accoglimento dell'opposizione, il decreto ingiuntivo è
revocato dalla relativa sentenza e gli atti esecutivi eventualmente compiuti
sono caducati immediatamente, a prescindere dal passaggio in giudicato della
sentenza.

Infine, va analizzata anche l’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo. Dispone l'art. 650
che se l'intimato prova di non aver avuto tempestiva conoscenza del decreto per irregolarità
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della notificazione o per caso fortuito o forza maggiore ovvero dimostra di non aver potuto
fare opposizione nel termine fissato nel decreto per caso fortuito o forza maggiore,
l'opposizione può essere proposta anche in epoca successiva alla scadenza del termine di 40
giorni, ma non dopo che siano trascorsi 10 giorni dal primo atto di esecuzione. Ratio di tale
inciso finale è quello di porre un limite temporale massimo alla proposizione
dell’opposizione tardiva, limite che è individuato appunto nel primo atto di esecuzione in
quanto esso è di norma percepito e conosciuto dal debitore, mettendolo in condizione di
valersi di questo rimedio.

324.Il decreto ingiuntivo europeo

Il regolamento CE 1896/2006 ha istituito un “Procedimento europeo di ingiunzione di


pagamento”. La finalità del regolamento è quella di semplificare, accelerare e ridurre i costi
dei procedimenti per le controversie transfrontaliere in materia di crediti pecuniari non
contestati, istituendo un procedimento europeo di ingiunzione di pagamento, e assicurare la
libera circolazione in tutti gli Stati membri dell’ingiunzione di pagamento europea. Il
procedimento di ingiunzione previsto dal regolamento costituisce per l'intimante un mezzo
supplementare e facoltativo di recupero del suo credito pecuniario non contestato,
rimanendo egli libero di avvalersi delle procedure previste dal diritto nazionale: si tratta
perciò di un procedimento alternativo a quello ex artt. 633 ss. L'intimato può presentare
opposizione all'ingiunzione di pagamento europea dinanzi al giudice che ha emesso
l'ingiunzione nel termine di 30 giorni dalla notifica. Quando sono decorsi i termini per
l'opposizione, egli può presentare al medesimo giudice una richiesta di riesame, se la
notifica dell'ingiunzione non è stata effettuata in tempo utile a consentirgli di presentare le
difese per ragioni a lui non imputabili ovvero se non ha avuto la possibilità di contestare il
credito per forza maggiore o circostanze eccezionali determinate da ragioni parimenti a lui
non imputabili; è previsto il riesame anche per errore manifesto del provvedimento

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monitorio. L'art. 18 del regolamento prevede che, se non è stata presentata opposizione, il
giudice d'origine dichiara senza ritardo esecutiva l'ingiunzione di pagamento europea e la
trasmette al ricorrente. L'ingiunzione di pagamento europea divenuta esecutiva nello Stato
membro d'origine è riconosciuta ed eseguita negli altri Stati membri senza che sia
necessaria una dichiarazione di esecutività e senza che sia possibile opporsi al
riconoscimento. Il regolamento prevede altresì un meccanismo piuttosto articolato di rifiuto
e di limitazione/sospensione dell'esecuzione. Su istanza dell'intimato, il giudice competente
dello Stato di esecuzione può rifiutare l'esecuzione stessa, oltre che in caso di avvenuto
pagamento, anche nell’ipotesi in cui l’ingiunzione è incompatibile con una decisione e
ingiunzione emessa anteriormente in altro Stato, che riguardino una causa avente lo stesso
oggetto e le stesse parti e soddisfino le condizioni necessarie per il riconoscimento nello
Stato membro di esecuzione. La condizione del rifiuto dell'esecuzione è che l'intimato non
abbia avuto la possibilità di far valere l'incompatibilità nel procedimento monitorio dinanzi
al giudice che ha emanato l'ingiunzione.

325.L'ordinanza di licenza o di convalida di sfratto

Il procedimento per convalida di sfratto (artt. 657-669) rientra (come quello per
ingiunzione) nella categoria delle tutele sommarie autonome non necessarie. La sommarietà
e l’autonomia delle tutela che si attua con il procedimento per convalida hanno
caratteristiche peculiari, che si collegano alla struttura del procedimento, che assicura ab
initio la garanzia del contraddittorio, data la necessaria notificazione all’intimato del primo
atto di impulso del procedimento e la conseguente possibilità per lo stesso intimato di
svolgere le difese nel corso dell’udienza dinanzi al giudice della convalida. Con il
procedimento per la convalida di sfratto possono essere fatti valere i diritti richiamati dagli
artt. 657, 658 e 659 c.p.c., che quindi descrivono in maniera tassativa i contenuti delle
domande e dei correlativi provvedimenti che possono essere pronunciati dal giudice della
convalida, e cioè:

a. il diritto del locatore di ottenere la licenza o lo sfratto per finita locazione


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(rispettivamente prima o dopo la scadenza del rapporto locatizio)


b. il diritto del locatore di ottenere lo sfratto per morosità in caso di mancato
pagamento del canone
c. il diritto del concedente di ottenere nei confronti dell’affittuario coltivatore
diretto, del mezzadro e del colono licenza o sfratto per cessazione del
rapporto
d. il diritto di chi ha concesso in godimento un immobile dietro corrispettivo,
anche parziale, di una prestazione d’opera di ottenere licenza o sfratto per
cessazione del contratto per qualsiasi causa.

Il titolare dei rapporti per i quali è consentito l'accesso a questo tipo di tutela sommaria può
anche scegliere di non percorrere la via della tutela sommaria oppure di instaurare ab initio
il giudizio a cognizione piena, nelle forme del rito speciale locatizio. Se sceglie la via della
tutela sommaria, il legislatore ha previsto un procedimento ad esiti multipli: l'intimante
notifica all'intimato un atto contenente la licenza o lo sfratto per morosità, lo sfratto per
morosità ovvero la licenza o lo sfratto per rapporto di locazione di opera, con contestuale
citazione all’udienza per il giudizio di convalida. Se la parte intimante (cioè il locatore) non
compare all'udienza, l'art. 662 c.p.c. fa discendere da ciò la cessazione degli effetti
dell'intimazione; se è l'intimato a non comparire o a non opporsi, il giudice (specificamente
il tribunale del luogo dove si trova la cosa locata) pronuncia ordinanza di convalida, che è
un provvedimento sommario immediatamente esecutivo: il creditore potrà iniziare subito
l’esecuzione forzata per consegna o rilascio.

Diversamente, se l'intimato, comparendo, si oppone, si apre un procedimento ordinario a


cognizione piena, regolato dalle norme del rito locatizio. In tal caso, su istanza del locatore,
il giudice, ove l’intimato abbia proposto eccezioni non fondate su prova scritta e sempre
che non sussistano “gravi motivi in contrario”, può pronunciare ex art. 665 ordinanza non
impugnabile di rilascio con riserva delle eccezioni del convenuto. Si tratta

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di un’ulteriore tutela sommaria non cautelare, incidentale perché introdotta all’interno del
procedimento per convalida. Il giudice della convalida deve quindi “chiudere” la fase a
cognizione sommaria e disporre la prosecuzione del giudizio appunto nelle forme del rito
speciale, previa ordinanza di mutamento di rito ex art. 426, con cui è assegnato alle parti un
termine perentorio per il deposito di memorie integrative contenenti la definitiva
formulazione di domande, eccezioni e conclusioni e dei mezzi di prova di cui intendono
avvalersi.

Sia la sommarietà che l’autonomia, dunque, hanno caratteristiche diverse rispetto al


procedimento per ingiunzione, che discendono dal fatto che la garanzia del contraddittorio
è qui assicurata sin dall’inizio, mentre nel procedimento per ingiunzione è la notificazione
del decreto a determinare la pendenza della lite e a far decorrere il termine per
l’opposizione da parte dell’ingiunto.

326.I procedimenti possessori

I procedimenti possessori vanno collocati nel novero dei procedimenti sommari autonomi
(necessari), in quanto strumenti di tutela giudiziaria del possesso diretti a ristabilire in tempi
rapidi la situazione di fatto preesistente allo spoglio o alla molestia, sulla base di una
valutazione sommaria che prescinde da qualsiasi periculum in mora. Le azioni a tutela del
possesso sono previste dal codice civile negli artt. 1168 e 1169, in tema di azione di
reintegrazione, e nell'art. 1170, in tema di azione di manutenzione:

 l'azione di reintegrazione è concessa dall'art. 1168 c.c. a chi sia stato “violentemente
od occultamente spogliato del possesso”, nonchè a chi ha la detenzione della cosa,
tranne che per ragioni di servizio o di ospitalità. L’animus spoliandi consiste
nell’intenzione di attentare alla posizione possessoria altrui, cioè richiede la
consapevolezza di sovvertire una situazione possessoria contro la volontà del
possessore: esso non può dirsi escluso né dal convincimento dello spolians di
esercitare un proprio diritto, né dall’essere l’autore dello spoglio assistito da un titolo
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negoziale. Legittimati attivamente sono quindi il possessore di cose e diritti su cose e


il detentore qualificato, cioè colui che esercita un potere di fatto in nome del
possessore, ma nel proprio interesse (ad es. il conduttore), sempre che la detenzione
non sia sorta per ragioni di servizio o di ospitalità. Legittimato passivamente è
l'autore dello spoglio, sia materiale (cioè colui che posto in essere lo spossessamento)
sia morale (cioè il mandante o colui che comunque tratto profitto dallo spoglio)
 l'art. 1170 c.c. concede a chi sia stato “molestato” nel possesso di un immobile, di un
diritto reale sopra un immobile o di un'universalità di mobili, ove il possesso duri da
oltre un anno e non sia stato acquistato violentemente e clandestinamente, di chiedere
entro un anno dalla turbativa la manutenzione del possesso medesimo, esercitando
un'azione che ha carattere non meramente conservativo, ma restitutorio, e che tende
alla cessazione della molestia, in modo da mantenere nel possesso colui che, prima
della turbativa, si trovava in tale situazione. A differenza dello spoglio, che incide
direttamente sulla cosa che ne costituisce oggetto, la quale viene sottratta (in tutto o
in parte) alla disponibilità del possessore, la molestia o turbativa è un'attività
volontariamente (si parla di animus turbandi) diretta contro il godimento del
possessore, cioè contro il pacifico esercizio del potere di fatto sulla cosa stessa.

Entrambe le azioni sono poste dall’ordinamento a tutela di una situazione di fatto (il
possesso) cui l’art. 1140
c.c. nega la qualifica di diritto reale, così che il bene meritevole di tutela secondo
l’ordinamento non è il godimento della cosa che di fatto ha il possessore, ma quella che
tradizionalmente è detta “pace tra i consociati”. La natura cautelare, invece, va esclusa per
2 ragioni:

 in primo luogo, ai fini della pronuncia dei provvedimenti sommari possessori (a


differenza di ogni altra misura cautelare) non è richiesto l’accertamento di alcun
periculum in mora, ma solo della (probabile) lesione del possesso, in presenza della
quale il giudice ha il potere di assicurare il ripristino immediato

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della situazione preesistente, senza attendere l’esito della tutela di merito. Ciò che si
persegue è la rapida formazione di un provvedimento in grado di essere attuato
coattivamente, anche contro la volontà dell’obbligato, piuttosto che la salvaguardia in
via cautelare della situazione possessoria lesa
 in secondo luogo, le tutele possessorie sono strutturate nel senso che, ad una previa e
necessaria fase sommaria, che si conclude con la possibile adozione di misure di
tutela urgente, debba (ma oggi può) seguire la cognizione ordinaria sul possesso e la
conseguente pronuncia di sentenza contenente l’accertamento ex art. 2909 c.c.
L’idoneità al giudicato della sentenza sul c.d. merito possessorio, cioè sulla stessa
situazione giuridica oggetto del provvedimento sommario, è ulteriore ragione che
porta ad escludere la natura cautelare.

Pertanto i procedimenti possessori appartengono al genus delle tutele sommarie non


cautelari, più precisamente quelle autonome necessarie, che si caratterizzano per il fatto che
l’ordinamento non lascia spazio alla scelta tra la via ordinaria e quella sommaria, ma
impone il previo svolgimento di una fase sommaria. Le domande di reintegrazione e di
manutenzione nel possesso si propongono con ricorso, che dà accesso alla fase sommaria,
governata dalle norme sul rito cautelare uniforme, in quanto compatibili, che si conclude
con un provvedimento soggetto a reclamo ex art. 669 terdecies. Solo se richiesto da una
delle parti entro il termine perentorio di 60 giorni, il giudizio prosegue nelle forme della
cognizione ordinaria per il merito possessorio. Tale richiesta di prosecuzione non è altro
che un'istanza che la parte interessata rivolge allo stesso giudice che ha pronunciato il
provvedimento sommario, diretta ad ottenere un decreto di fissazione dell'udienza per la
prosecuzione del giudizio possessorio. Anche la parte vittoriosa in sede sommaria può
avanzare l'istanza, e ciò perché potrebbe avere interesse ad ottenere sia accertamento idoneo
al giudicato sulla domanda, sia la condanna al risarcimento del danno derivante dalla
lesione possessoria, sia la liquidazione delle spese della fase sommaria cui il giudice non
abbia eventualmente provveduto. Se il giudizio di merito possessorio, pur tempestivamente
proseguito, si estingue, la sopravvenuta estinzione non comporta la caducazione del
provvedimento sommario, che continua a produrre i suoi effetti esecutivi come ogni altra
misura sommaria non cautelare. Quando la sentenza resa all'esito del giudizio di merito
possessorio passa in giudicato, viene a formarsi la stabilità di cui all'art. 2909 c.c. in ordine
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alla situazione possessoria. La sentenza emessa nel giudizio possessorio non può, però,
avere autorità di giudicato in un successivo giudizio petitorio (cioè avente ad oggetto la
proprietà del bene), per la diversità del diritto che esso accerta. Infine, gli artt. 704 e 705
c.p.c. disciplinano i rapporti tra giudizio possessorio e giudizio petitorio, prevedendo 2
regole principali:

 ogni domanda relativa al possesso, per fatti che avvengono durante la pendenza del
giudizio petitorio, deve essere proposta davanti al giudice di quest'ultimo
 il convenuto nel giudizio possessorio non può proporre giudizio petitorio, finchè il
primo giudizio non sia definito e la decisione non sia stata eseguita, a meno che non
dimostri che l'esecuzione del provvedimento possessorio non può compiersi per fatto
dell'attore. La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di
questa norma nella parte in cui subordina la proposizione del giudizio petitorio alla
definizione della controversia possessoria o all’esecuzione della decisione, nel caso
in cui ne derivi o possa derivarne un pregiudizio irreparabile al diritto di proprietà
della parte.

327.Le tutele sommarie anticipatorie in corso di causa

Gli artt. 186 bis, 186 ter e 186 quater prevedono provvedimenti di tutela sommaria in corso
di causa, che ciascuna delle parti può richiedere al giudice nella pendenza del processo di
ordinaria cognizione. Pur essendo assai diversi tra loro in quanto ai presupposti, tali
provvedimenti sono contraddistinti dalla comune finalità di far conseguire alla parte effetti
di strutturale anticipazione (totale o parziale) a scopo satisfattivo della futura decisione di
merito, cioè di soddisfazione anticipata della pretesa fatta valere in giudizio. A tutti e tre i
provvedimenti è conferita la qualità di titolo esecutivo giudiziale, e ciò consente
l’immediata instaurazione dei

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processi di esecuzione forzata da parte del creditore. In realtà il nostro ordinamento conosce
altre forme specifiche di tutela interinale, ma quelle in esame sono le uniche che hanno
carattere di applicazione generale.

328.L'ordinanza di condanna al pagamento di somme non contestate

L'art. 186 bis c.p.c. consente al giudice, su istanza di una delle parti e fino al momento della
precisazione delle conclusioni, di disporre con ordinanza (cui si attribuisce la qualità di
titolo esecutivo) il pagamento delle somme non contestate dalle parti costituite. L'istanza
può essere proposta dalla parte anche fuori dall'udienza: in questo caso il giudice dispone la
comparizione delle parti per un'udienza ad hoc e assegna al richiedente il termine per la
notificazione dell'istanza e del provvedimento di fissazione dell'udienza. Il presupposto per
l'emanazione del provvedimento sommario è rappresentato dal requisito della “non
contestazione”, che consiste in un comportamento processuale dato dall'incompatibilità
degli argomenti difensivi della parte col disconoscimento dei fatti allegati dall'altra ovvero
dall'impostazione del sistema difensivo su elementi diversi da quel disconoscimento.
Proprio perché la non contestazione deve emergere dalla difesa attiva delle parti, essa
presuppone l’avvenuta costituzione in giudizio della parte, con la conseguente
inammissibilità del provvedimento nei confronti del contumace. L'ordinanza in esame può
essere modificata o anche revocata o con altra ordinanza (sempre su istanza di parte)
ovvero, anche d'ufficio, con la sentenza di merito che definisce il giudizio di cognizione nel
corso del quale l'ordinanza è stata emanata: ex art. 186 bis tale ordinanza conserva la
propria efficacia in caso di estinzione del processo, in deroga al principio generale posto
dall’art. 310. Ma l'efficacia cui si fa riferimento è solo quella esecutiva, mentre il
provvedimento in questione non è idoneo ad acquisire autorità di giudicato.

329.L'ordinanza c.d. ingiuntiva

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Ex art. 186 ter, in ogni stato del processo, fino al momento della precisazione delle
conclusioni, la parte può chiedere al giudice, in presenza dei medesimi presupposti pretesi
per l'emanazione del decreto ingiuntivo, di pronunciare ordinanza ingiuntiva di pagamento
di somme di denaro liquide ed esigibili o di una determinata quantità di cose fungibili
ovvero di consegna di una cosa mobile determinata. Così come l’ordinanza ex art. 186 bis,
l'istanza per ottenere l'emanazione dell'ordinanza ingiuntiva può essere proposta dalla parte
anche fuori dall'udienza: in questo caso il giudice dispone la comparizione delle parti per
un'udienza ad hoc e assegna al richiedente il termine per la notificazione dell'istanza e del
provvedimento di fissazione dell'udienza. Il legislatore ha voluto trapiantare nell’ambito del
processo instaurato nelle forme della cognizione piena, pur con modifiche, la disciplina del
procedimento speciale per ingiunzione. Infatti l'ordinanza ha il medesimo contenuto del
decreto ingiuntivo ed è dichiarata provvisoriamente esecutiva ove ricorrano i presupposti ex
artt. 642 e 648. La fase cognitiva ordinaria successiva alla pronuncia del provvedimento
ingiuntivo ha funzione analoga a quella dell’opposizione a decreto ingiuntivo, ma con
l’importante differenza delle revocabilità e modificabilità di tale provvedimento da parte
del giudice in ogni momento del giudizio, ove esse appaiano giustificate dalle nuove
risultanze di causa. L'ordinanza non è impugnabile, in quanto destinata ad essere assorbita
dalla sentenza.

330.L'ordinanza c.d. post-istruttoria

L'art. 186 quarter prevede l'“ordinanza successiva alla chiusura dell'istruzione”, che
consente al giudice istruttore, esaurita l'istruzione, su istanza della parte che ha proposto
domanda di condanna al “pagamento di somme ovvero alla consegna o al rilascio di beni”,
di disporre “con ordinanza il pagamento ovvero la consegna

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o il rilascio nei limiti per cui ritiene già raggiunta la prova”. Scopo della norma è di
consentire all'attore (ma anche al convenuto che abbia proposto domanda riconvenzionale
di condanna al pagamento di somme ovvero alla consegna o al rilascio di beni) di ottenere,
in un preciso momento del processo che va dalla chiusura della fase istruttoria alla
rimessione della causa in decisione, un provvedimento immediatamente esecutivo idoneo a
definire il giudizio, la cui natura è controversa. Pur essendo pronunciato sulla base dello
stesso materiale istruttorio sul quale sarà emessa l’eventuale sentenza (quindi all’esito di
una cognizione potenzialmente piena), questo provvedimento ha natura sommaria, anche se
al carattere di strutturale anticipazione degli effetti dell’eventuale futura sentenza (che è
caratterizzante le tutele sommarie non cautelari) si accompagnano ulteriori caratteristiche.
Occorre considerare che il materiale istruttorio potrebbe essere ulteriormente ampliato e
arricchito, in quanto è possibile che, in sede di decisione, la causa sia rimessa in istruttoria
dall’organo decidente per l’assunzione di ulteriori mezzi di prova. Non a caso l’art. 186
quater al co. 2° prevede espressamente la possibilità di revoca dell’ordinanza con la
successiva sentenza.

I co. 3° e 4° prevedono, invece, 2 ipotesi di trasformazione dell'ordinanza in un


provvedimento conclusivo del giudizio, cui viene attribuita l'“efficacia della sentenza
impugnabile sull'oggetto dell'istanza”:

 la prima si verifica in caso di estinzione del processo, in epoca successiva alla


pronuncia dell'ordinanza
 la seconda quando la parte intimata “non manifesta entro 30 giorni dalla pronuncia in
udienza o dalla comunicazione, con ricorso notificato all'altra parte e depositato in
cancelleria, la volontà che sia pronunciata la sentenza”.

CAP. 33: LE TUTELE SOMMARIE CAUTELARI

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331.Il sistema di tutela cautelare

A differenza di altri ordinamenti che attribuiscono al giudice civile un potere generale di


cautela costruito sull’imperium iudicis, il nostro sistema di tutela cautelare è strutturato su:

a. misure tipiche previste dal c.p.c. (sequestri, misure nunciatorie, istruzione


preventiva)
b. misure tipiche previste dal c.c. o da leggi speciali (c.d. extravaganti)
c. misura di cautela atipica prevista dall’art. 700 c.p.c.

La scelta a favore della tipicità appare ispirata non tanto dall’esigenza di limitare la
discrezionalità del giudice, quanto dall’opportunità di creare spazi già predeterminati di
tutela cautelare, all’intero dei quali il giudice è chiamato a verificare il fumus e il periculum
in mora tipizzato dalla legge, pronunciando in caso positivo il provvedimento cautelare, il
cui contenuto è di norma già predeterminato dalla legge. Del resto l’insufficienza di un
sistema cautelare costruito solo su misure tipiche fu avvertita già dal legislatore del 1940, il
quale ha introdotto la cautela atipica proprio per consentire al giudice di emettere
provvedimenti caso per caso più idonei ad assicurare gli effetti della decisione di merito. Si
è dunque in presenza di un sistema cautelare misto.

332.I sequestri

Tra le misure cautelari tipiche i sequestri (artt. 670 ss.) si caratterizzano per la comune
finalità di conservazione del diritto oggetto del futuro o già pendente processo di merito,
per tutto il tempo di durata di quest'ultimo,

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così da assicurare il concreto risultato della tutela di merito. Il sequestro può essere:

a. giudiziario
b. conservativo
c. liberatorio.

Altre forme di sequestro, previste dal c.c. o da leggi speciali, rientrano nelle misure cautelari
c.d. extravaganti.

333.Il sequestro giudiziario

Il sequestro giudiziario riguarda “beni mobili o immobili, aziende o altre universalità di


beni”, ove ne sia controversa la proprietà o il possesso e sia opportuna la loro custodia o
gestione temporanea, cioè ove vi sia un pericolo di alterazione, sottrazione o
deterioramento e comunque di pregiudizio, che costituisce il periculum in mora tipico.
Questa misura cautelare serve ad agevolare la fruttuosità pratica della successiva tutela di
merito e presuppone che vi sia diretta correlazione tra l'oggetto del sequestro e l'oggetto
della pretesa fatta valere nel giudizio ordinario: in pratica il sequestro giudiziario anticipa il
risultato dell'esecuzione forzata per consegna o rilascio. Analizziamo ora i presupposti di
accesso al sequestro giudiziario di beni:

a. il primo presupposto è costituito dall'esistenza di una controversia sulla


proprietà o sul possesso. La controversia sulla proprietà può avere per oggetto
sia diritti reali sia jura ad rem, nei quali la proprietà viene in considerazione
quale effetto della decisione su un rapporto obbligatorio. La controversia sul
possesso può essere una lite possessoria in senso stretto (ad es. tra più
possessori di un bene in comproprietà, ma anche tra un possessore e un
detentore qualificato)
b. l'ulteriore presupposto dell'opportunità della custodia esige l'esistenza di un
pericolo di alterazione, sottrazione, deterioramento o perimento e comunque

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di pregiudizio del bene che è nella disponibilità della controparte o di un


terzo, tale da rendere opportuno l'affidamento in custodia del bene stesso ad
una delle parti o ad un terzo: questa situazione pregiudizievole costituisce il
periculum in mora tipico, di cui il giudice è chiamato a valutare la
sussistenza. Per procedere a tale valutazione non è sufficiente richiamare la
circostanza che la titolarità esclusiva del bene in capo ad un soggetto
metterebbe costui nella condizione (oltre che di poter godere) anche di
disporre in assoluta libertà del bene: infatti tale circostanza integra non il
concreto, ma solo l’astratto pericolo di sottrazione del bene. Va detto che al
custode dei beni sottoposti a sequestro giudiziario, in quanto amministratore
di un patrimonio separato, centro di imputazione di rapporti giuridici, spetta
la legittimazione ad processum, cioè il potere di stare in giudizio in
rappresentanza del patrimonio stesso, e la legittimazione ad causam per le
controversie relative ai detti rapporti.

Quanto all'oggetto del sequestro giudiziario, l'art. 670 richiama testualmente i beni mobili o
immobili, aziende o altre universalità di beni: si tratta in effetti di una formula assai
generica, capace di ricomprendere tendenzialmente qualsiasi bene suscettibile di essere
oggetto di una controversia sulla proprietà o sul possesso, e di conseguente custodia. Il
sequestro giudiziario non può avere ad oggetto crediti su somme di denaro, non essendo
configurabile rispetto ai diritti di credito una controversia sulla proprietà o sul possesso. Il
sequestro giudiziario può avere, invece, ad oggetto prove, cioè libri, registri, documenti,
modelli, campioni o qualsiasi altra cosa da cui la parte istante intende trarre elementi di
prova a proprio favore, che si trovino nella materiale disponibilità dell’altra parte o di un
terzo: si parla in questi casi di sequestro probatorio. Quest’ultima misura cautelare, a
differenza del sequestro giudiziario, non è strumentalmente coordinata ad una futura
esecuzione per consegna o rilascio, ma ad un successivo giudizio di ordinaria cognizione,
nel corso del quale si preveda di avvalersi dei predetti mezzi di prova.

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Il provvedimento che autorizza il sequestro giudiziario (o probatorio) perde efficacia se non


è eseguito nel termine di 30 giorni dalla pronuncia: ratio della norma è quella di imporre, da
un lato, al sequestrante tempi rapidi per la sua esecuzione e, dall’altro, di impedire che il
sequestrato rimanga esposto alla misura per un periodo indefinito. Con lo stesso
provvedimento il giudice della cautela nomina un custode e stabilisce i criteri e i limiti
dell'amministrazione delle cose sequestrate e le particolari cautele idonee a rendere più
sicura la custodia e ad impedire la divulgazione dei segreti. Il custode va qualificato come
ausiliario del giudice, sotto la cui direzione e controllo opera e può compiere tutti gli atti di
ordinaria amministrazione (quelli di straordinaria amministrazione solo previa
autorizzazione del giudice). Nel termine di 30 giorni dalla pronuncia del provvedimento, a
pena di inefficacia, il sequestro giudiziario deve ricevere attuazione con le modalità
descritte nell'art. 677, il quale fa rinvio alle norme sull’esecuzione forzata in forma
specifica per consegna o rilascio.

334.Il sequestro conservativo

Il sequestro conservativo è una misura cautelare tipica, prevista dal codice civile (artt.
2905-2906) tra i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale a favore del creditore
(insieme alle azioni surrogatoria e revocatoria), cioè tra gli strumenti diretti a preservare la
responsabilità patrimoniale di cui all'art. 2740 c.c., cioè la garanzia generica e non già uno o
più beni specifici del patrimonio del presunto debitore. A differenza del sequestro
giudiziario, che deve avere ad oggetto uno o più beni espressamente identificati nel
provvedimento autorizzativo, il sequestro conservativo autorizza il presunto creditore ad
eseguire la misura, fino alla concorrenza di una certa somma, su beni del patrimonio del
presunto debitore (mobili, immobili o crediti) che lo stesso creditore è tenuto a ricercare e
individuare. In tal senso può dirsi che il sequestro conservativo anticipa gli effetti del
pignoramento, in quanto ha ad oggetto beni mobili o immobili del debitore o somme o cose
a lui dovute, nei limiti in cui la legge ne permette il pignoramento, e costituisce su di essi
un vincolo che, a seguito della pronuncia di condanna, si convertirà in pignoramento. Il
giudice dispone il sequestro conservativo allorchè il creditore abbia “fondato timore” di
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perdere le garanzie del proprio credito (art. 671 c.p.c.), cioè ricorra un’oggettiva situazione
di pericolo (è questo il periculum in mora tipico) che, per il tempo occorrente per la
pronuncia di una sentenza di condanna, sia in grado di vanificare la garanzia patrimoniale
ex art. 2740 c.c. Tale situazione di pericolo deve avere il carattere dell’attualità e può
derivare sia dalla consistenza del patrimonio del debitore (requisito c.d. oggettivo) sia da
atti o condotte di quest’ultimo sintomatici della volontà di sottrarre i propri beni alla
garanzia patrimoniale (requisito c.d. soggettivo). Da quanto detto sinora, si evince che il
rapporto di strumentalità tra il sequestro conservativo e la causa di merito avente ad oggetto
l'accertamento del diritto di credito sottoposto a cautela ha qui carattere necessario.

La legittimazione a chiedere il sequestro conservativo spetta solo a chi sia o assuma di


essere titolare di un credito pecuniario attuale, anche se non liquido (cioè non determinato
nel suo ammontare) né esigibile (cioè sottoposto a termine o a condizione). Verificata la
sussistenza dei presupposti, il giudice della cautela autorizza il sequestro conservativo di
beni mobili o immobili del debitore o delle somme e cose a lui dovute, indicando il limite
dell’ammontare del credito per il quale la misura cautelare viene autorizzata. Il sequestro
conservativo (a differenza di quello giudiziario) non ha ad oggetto beni determinati, nel
senso che non è il giudice ad individuare i beni sui quali la misura dovrà essere attuata, ma
è la parte che, tenendo conto del limite massimo giudiziariamente fissato, ricerca e sceglie i
beni da sequestrare. Gli artt. 678 e 679 c.p.c. stabiliscono il regime di attuazione del
sequestro conservativo: precisamente il sequestro conservativo sui mobili e sui crediti si
esegue secondo le norme stabilite per il pignoramento presso il debitore o presso i terzi; il
sequestro conservativo sugli immobili, invece, si esegue con la trascrizione del
provvedimento presso l'ufficio del conservatore dei registri immobiliari del luogo in cui i
beni sono situati.

Per quanto concerne il fenomeno della conversione del sequestro conservativo in


pignoramento, l'art. 686 c.p.c. stabilisce che, accolta in tutto o in parte la domanda di
merito proposta dal sequestrante e pronunciata

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sentenza di condanna a conclusione del giudizio di 1° grado, il sequestro conservativo si


converte in pignoramento. Il sequestrante che ha ottenuto la sentenza di condanna esecutiva
deve depositarne copia nella cancelleria del giudice competente per l’esecuzione nel
termine perentorio di 60 giorni dalla comunicazione. Si discute circa il momento in cui si
attua la conversione del sequestro, cioè se essa si verifichi automaticamente ex lege all’atto
della pronuncia della sentenza ovvero solo col compimento dell’attività di deposito. Sembra
preferibile la prima tesi, sostenuta anche dalla giurisprudenza, dal momento che il deposito
della sentenza è considerato dalla legge un atto necessario: insomma la conversione, lungi
dal porsi come una facoltà che il sequestrante può o meno esercitare, costituisce l’effetto
anticipatorio che caratterizza la misura cautelare, determinando l’immediata pendenza del
processo esecutivo e la trasformazione del vincolo da cautelare in esecutivo. Di
conseguenza, se con la sola pronuncia della sentenza si verifica l’effetto automatico della
conversione, il mancato o tardivo deposito della copia autentica della sentenza nella
cancelleria del giudice dell’esecuzione costituisce fatto estintivo del processo esecutivo.

335.Il sequestro c.d. liberatorio

L'art. 687 c.p.c., sotto la rubrica “Casi speciali di sequestro”, prevede la possibilità che il
giudice ordini il sequestro delle somme o delle cose che il debitore ha offerto o comunque
messo a disposizione del creditore per la sua liberazione, allorchè sia controverso l'obbligo
o il modo del pagamento o della consegna o l'idoneità della cosa offerta. Si tratta di una
misura cautelare tipica, qualificata da dottrina e giurisprudenza in termini di sequestro c.d.
liberatorio, alla quale si può accedere quando il debitore (o comunque il soggetto che ha la
materiale disponibilità del bene sul quale è richiesto il sequestro) chieda al giudice di
sottoporre a vincolo le somme o le cose che, nonostante l'offerta o la messa a disposizione,
siano state rifiutate dal creditore. La giurisprudenza e parte della dottrina consentono la
possibilità di accedere a questa misura non solo quando il debitore voglia perseguire finalità
liberatorie, costituendo in mora il creditore che contesti o rifiuti ingiustamente la
prestazione, ma anche quando il debitore contesti la pretesa creditoria e non voglia
adempiere la propria obbligazione, intendendo solo cautelarsi dal rischio di un'infruttuosa
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ripetizione nel caso di successivo accertamento negativo di quella pretesa.

336.Le azioni nunciatorie (denuncia di nuova opera e di danno temuto)

Le azioni c.d. nunciatorie costituiscono forme tipiche di tutela cautelare che l'ordinamento
mette a disposizione del proprietario e/o del possessore ove questi abbiano ragione di
temere un danno, anche in itinere, alla cosa oggetto del diritto o del possesso, consentendo
al giudice di attuare una tutela preventiva, diretta ad evitare o quantomeno limitare le
conseguenze pregiudizievoli che potrebbero derivare da un'attività contra jus. La disciplina
sostanziale di tali azioni (e cioè l'individuazione dei diritti tutelabili e il contenuto dei
provvedimenti di nunciazione) è data dagli artt. 1171 (denuncia di nuova opera) e 1172 c.c.
(denuncia di danno temuto), mentre quella processuale dagli artt. 688 e 691 c.p.c. In realtà
quest’ultima è assai scarna, in quanto ai procedimenti in esame è integralmente applicabile
la normativa sul procedimento cautelare uniforme. Sulla natura cautelare di queste azioni
non vi sono dubbi, in quanto presuppongono una situazione di pericolo che, se accertata,
impone al giudice della cautela di adottare provvedimenti di carattere conservativo o
innovativo, idonei a consentire la salvaguardia del diritto cautelando fino alla pronuncia
della sentenza di merito. Più precisamente:

a. la denunzia di nuova opera è esperibile quando il proprietario, il titolare di


altro diritto di godimento o il possessore hanno ragione di temere che da una
nuova opera, da altri intrapresa sul proprio o sull’altrui fondo, stia per
derivare un danno alla cosa che forma oggetto del suo diritto o del suo
possesso
b. la denunzia di danno temuto è esperibile dai medesimi soggetti, i quali abbiano
ragione di temere che

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da qualsiasi edificio, albero o altra cosa possa derivare pericolo di un danno grave e
prossimo alla cosa che forma oggetto del loro diritto o possesso.

Il criterio che consente di distinguere la denuncia di una opera dalla denuncia di danno
temuto risiede nel diverso modo in cui l'attività umana ha determinato l'insorgere del
pericolo e nella conseguente diversità del rimedio da adottare:

c. la prima postula un facere, cioè un inizio di attività idonea ad arrecare


pregiudizio o pericolo di lesione al bene oggetto della proprietà o del possesso
del denunciante, e prevede come rimedio l'inibizione di tale attività o la
subordinazione della sua prosecuzione all'adozione di determinate cautele
d. la seconda postula, invece, un non facere, ossia l'inosservanza dell'obbligo di
rimuovere una situazione di fatto idonea a determinare il pericolo di un danno
grave e prossimo per il bene in proprietà o in possesso del denunciante, e
prevede come rimedio l'ordine nei confronti di chi ha la disponibilità della
cosa che costituisce pericolo di eseguire quanto necessario per la rimozione
della causa di quest'ultimo.

Entrambi i provvedimenti hanno natura ultrattiva, con la conseguenza che l’instaurazione


del successivo giudizio di merito è solo facoltativa.

337.I procedimenti di istruzione preventiva

I procedimenti di istruzione preventiva (art. 692 ss.) si differenziano dalle altre misure
cautelari per il diverso oggetto della cautela e per il rapporto con la tutela di merito. Questi
procedimenti non tendono direttamente alla salvaguardia in via preventiva di un diritto
soggettivo leso o sottoposto a pericolo di lesione, bensì all'assunzione di una prova che, in
presenza di predeterminati presupposti, l'ordinamento consente di assumere prima
dell’instaurazione dell'ordinario processo di cognizione. Questa caratteristica si riflette sul
rapporto di strumentalità con la tutela di merito, dal momento che qui la legge non prevede
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l’obbligo in capo al soggetto istante, una volta assunta la prova, di iniziare il giudizio di
merito entro un termine perentorio, a pena di inefficacia della misura cautelare.

L'art. 692 c.p.c. consente innanzitutto l'assunzione di testimonianze a futura memoria: deve
trattarsi di testimoni per i quali vi sia fondato pericolo di impossibilità di una successiva
testimonianza. L'art. 696 c.p.c. ammette che si proceda in casi di “urgenza” mediante
accertamento tecnico o ispezione giudiziale, a prescindere dall’instaurazione di un processo
di ordinaria cognizione, alla verifica dello stato di luoghi (che si teme saranno di lì a poco
trasformati) ovvero della qualità o condizione di cose (qualora rischino di deteriorarsi o di
venir meno). L'istanza si propone con ricorso al giudice che sarebbe competente per la
causa di merito. In caso di eccezionale urgenza, essa può anche proporsi al tribunale del
luogo in cui la prova deve essere assunta. L'istanza può anche essere proposta in corso di
causa e durante l'interruzione o la sospensione del giudizio al giudice della causa stessa. La
notificazione del ricorso produce, per il soggetto nei cui confronti è richiesto, l’effetto
interruttivo della prescrizione per tutta la durata del procedimento. L'accertamento tecnico e
l'ispezione giudiziale, se ne ricorre l'urgenza, possono essere disposti anche sulla persona
dell'istante e, se questa vi consente, sulla persona nei cui confronti l'istanza è proposta,
quando sia necessario verificarne lo stato psico-fisico.

L’art. 669 quaterdecies ha sottratto i procedimenti in esame alla normativa generale del
procedimento cautelare uniforme, fatta eccezione per l’art. 669 septies: ciò significa che il
provvedimento di rigetto non preclude la riproposizione dell'istanza di istruzione preventiva
se si verificano mutamenti delle circostanze o vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di
diritto. Contro il rifiuto di istruzione preventiva è altresì esperibile il reclamo cautelare ex
art. 669 terdecies. Al contrario resta non reclamabile il provvedimento di accoglimento

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delle istanze di istruzione preventiva, dato che, come ha riconosciuto la Corte


Costituzionale con la sentenza 144/2008, non può invocarsi in questo caso il principio di
parità di tutela tra le parti: infatti, mentre il pregiudizio che può subire il resistente per
effetto della concessione ed esecuzione di un provvedimento di istruzione preventiva non è
definitivo (in quanto ogni questione relativa all’ammissibilità e rilevanza è rinviata al
merito), il danno che potrebbe derivare al ricorrente dal provvedimento di rigetto può essere
irreparabile.

338.La consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite

Un particolare strumento che può condurre alla conciliazione in sede giudiziale è


rappresentato dalla consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite (art.
696 bis), istituto previsto nell’ambito dei procedimenti di istruzione preventiva. Infatti,
l’espletamento di una consulenza tecnica in via preventiva può essere richiesto, anche al di
fuori delle condizioni dettate dall’art. 696 (cioè anche senza dedurre la sussistenza
dell’“urgenza”), ai fini dell’accertamento e della determinazione dei crediti derivanti dalla
mancata o inesatta esecuzione di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito. Ma
l’eliminazione del presupposto dell’urgenza non significa che non sia comunque sussistente
il profilo funzionale comune ad ogni procedimento di istruzione preventiva, che è quello di
consentire al giudice del merito non solo di utilizzare i risultati della consulenza preventiva,
ma anche di valutare l’esito negativo del tentativo obbligatorio di conciliazione da parte del
consulente. Il giudice competente (che è lo stesso che sarebbe competente per la causa di
merito) nomina il consulente, il quale, prima di provvedere al deposito della relazione, tenta
ove possibile la conciliazione delle parti. Se essa viene raggiunta, si forma processo verbale
della conciliazione e il giudice con decreto attribuisce ad esso efficacia di titolo esecutivo;
se essa non viene raggiunta, ciascuna parte può chiedere che la relazione depositata dal
consulente sia acquisita agli atti del successivo giudizio di merito.

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339.I provvedimenti d'urgenza ex art. 700 c.p.c.

I provvedimenti d'urgenza atipici di cui all'art. 700 c.p.c. sono stati introdotti nel c.p.c. con
l'intento di completare il sistema di tutela cautelare e di riconoscere al giudice il potere di
prendere provvedimenti dal contenuto non predeterminato in tutti i casi nei quali non sia
possibile accedere alle altre misure cautelari tipiche (c.d. principio di residualità o
sussidiarietà). Questo intento si è tradotto nella previsione di una norma di chiusura, che ha
affiancato alle preesistenti una nuova forma di tutela cautelare, diretta alla provvisoria
assicurazione degli effetti della futura decisione di merito, che comunque, pur lasciando al
giudice ampio potere discrezionale nella scelta dei provvedimenti “più idonei”, resta
subordinata alla sussistenza di precisi presupposti. E così l'art. 700 c.p.c. indica al giudice il
criterio fondamentale al quale deve ispirarsi nella scelta del provvedimento da emettere,
cioè l'idoneità, tenendo conto della situazione in atto (“secondo le circostanze”),
all'assicurazione provvisoria degli effetti della tutela di merito. Per questo non possiamo
parlare di un illimitato potere cautelare in capo al giudice. Dalla lettera dell'art. 700 si
evince che sono suscettibili di essere fatti valere in via di cautela atipica solo quelle
situazioni giuridiche sostanziali:

 che possiedono le caratteristiche del diritto soggettivo


 che, per tale loro natura, possono ricevere tutela ordinaria da parte del giudice civile
 che non siano minacciati da lesioni, alla cui prevenzione si può provvedere
ricorrendo alle norme sulle misure cautelari tipiche.

Si tratta del già citato principio di residualità (o sussidiarietà) della tutela cautelare atipica,
che si ricava dall'inciso di apertura dell'art. 700: “fuori dei casi regolati nelle precedenti
sezioni di questo capo”. Tale principio comporta che la tutela atipica non può operare
quando la situazione di pericolo dedotta dall’istante integri o

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comunque sia ricompresa in uno dei pericula tipicamente fissati dalla legge e sia pertanto
neutralizzabile con una misura di cautela tipica. Anche ai fini della pronuncia dei
provvedimenti di urgenza è necessario l’accertamento del fumus boni juris e del periculum
in mora, per cui il giudice della cautela è preliminarmente chiamato a svolgere un giudizio
di probabilità e di verosimiglianza circa il futuro accertamento sull’esistenza del diritto,
quale sarà compiuto all’esito del giudizio di merito con gli strumenti dell’ordinaria
cognizione. Il diritto che s'intende sottoporre a cautela atipica deve essere minacciato da un
pregiudizio imminente ed irreparabile durante il tempo occorrente per essere azionato “in
via ordinaria”:

 il requisito dell’imminenza incide in modo determinante sull’individuazione del


momento di intervento del giudice della cautela, che può essere antecedente,
contestuale o successivo al verificarsi dell’evento dannoso. L’imminenza esalta la
funzione preventiva, e non soltanto repressiva, che la tutela cautelare atipica è in
grado di svolgere, impedendo che la violazione anche solo minacciata si realizzi
effettivamente ovvero che la continuazione del fatto lesivo produca o continui a
produrre danni irreparabili
 la nozione di irreparabilità del pregiudizio segna i limiti di operatività della tutela
d’urgenza. Il legislatore qui, a differenza delle misure tipiche, non ha voluto tipizzare
il periculum, ma ha preteso che esso sia idoneo a minacciare o ledere il diritto con
carattere di irreparabilità. Ciò porta ad escludere l’esistenza di una nozione unica di
irreparabilità, dovendosi ricercare significati diversi a seconda della diversa tipologia
dei diritti lesi o sottoposti a pericolo di lesione: ad es. anche il danno economico può
essere irreparabile quando è di portata tale da comportare, in via immediata e diretta,
effetti lesivi alla solidità dell’impresa.

In definitiva, il giudice della cautela atipica ha il potere di pronunciare “secondo le


circostanze” i provvedimenti più idonei a realizzare la già descritta funzione di
assicurazione degli effetti, fermo restando che al giudice non è consentito creare nuovi
strumenti di tutela giudiziaria dei diritti che prescindano dal diritto positivo. In
considerazione del loro carattere anticipatorio, i provvedimenti d’urgenza hanno efficacia
ultrattiva e pertanto l’inizio del giudizio di merito è facoltativo e rimesso alla scelta di una
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delle parti. Anche il procedimento ex art. 700 è interamente governato dalla norme del rito
cautelare uniforme.

340.Le misure cautelari c.d. extravaganti

Nell'ambito delle misure cautelari tipiche si definiscono “extravaganti” quelle misure che
trovano la loro disciplina normativa non nel codice di procedura civile, ma nel codice civile
e in leggi speciali, sottoposte dall’art. 669 quaterdecies (che parla di “altri provvedimenti
cautelari”) alle norme sul procedimento cautelare uniforme, in quanto compatibili. Tali
misure, che si caratterizzano per l’eterogeneità del loro contenuto, si possono classificare in
3 distinte categorie, a seconda del loro rapporto con la tutela di merito:

a. una prima categoria di misure si caratterizza per la loro necessaria ed


esclusiva configurazione ante causam, cioè per l’essere invocabili
necessariamente prima dell'inizio della tutela di merito
b. vi sono poi altre misure cautelari extravaganti che possono essere invocate e
concesse sia ante causam sia in corso di causa, laddove sia già stato dedotto in
giudizio il relativo rapporto e il periculum in mora insorga nella pendenza
dello stesso
c. infine alcune misure extravaganti sono configurate dalla legge come
necessariamente incidentali alla tutela di merito, nel senso che presuppongono
sempre la previa pendenza del giudizio di ordinaria cognizione, del quale
sono chiamate ad assicurare l'effettività.

373
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CAP. 34: IL PROCESSO CAUTELARE UNIFORME

341.L’ambito di applicazione

Il c.d. rito cautelare uniforme comprende le regole procedimentali (artt. 669 bis-
quaterdecies) che governano lo svolgimento di ogni processo cautelare. Ovviamente la
previsione delle norme cautelari uniformi, pur operando su di un piano meramente
procedimentale, ha comportato rilevanti conseguenze sull’intero sistema cautelare, in
quanto ciascuna misura è oggi pronunciata all’esito di giudizio che si svolge secondo
principi uniformi. Tale scelta di prevedere un modello uniforme di processo cautelare esalta
il carattere di autonomia del sistema di tutela cautelare. L'art. 669 quaterdecies delimita
l'ambito di applicazione del rito cautelare uniforme sulla base di un triplice principio:

a. assoggettando “direttamente” all'intera disciplina i provvedimenti di


sequestro, nunciatori e d'urgenza ex art. 700. Quindi in tali casi non è
consentito all’interprete selezione le norme da applicare
b. limitando l'applicazione del solo art. 669 septies, in tema di stabilità del
provvedimento di rigetto, ai provvedimenti di istruzione preventiva. Tali
provvedimenti sono stati espressamente sottratti all'applicazione del
procedimento cautelare uniforme in considerazione delle loro caratteristiche e
finalità: da un lato, essi non sono diretti a salvaguardare specifici diritti
soggettivi, bensì a neutralizzare tipici pericula in mora; dall’altro, non sono
legati alla tutela normale da un rapporto di strumentalità necessaria analogo a
quello delle altre misure cautelari, in quanto la finalità conservativa si realizza
in funzione di un futuro giudizio di merito solo eventuale (per il cui inizio non
è previsto alcun termine). A seguito di due interventi della Corte
Costituzionale, a tali procedimenti sono applicabili anche gli artt. 669
quinquies e terdecies
c. estendendo le norme del rito uniforme, ma solo “in quanto applicabili”, ai
provvedimenti cautelari disciplinati nel codice civile e in leggi speciali (c.d.
extravaganti).

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Le tutele escluse dall'applicabilità del rito cautelare uniforme sono quelle alle quali non può
essere riconosciuta natura cautelare, ma solo sommaria (non cautelare).

342.La facoltatività del giudizio di merito ed il principio di ultrattività della cautela

Le regole del procedimento cautelare uniforme sono state significativamente incise dalla l.
80/2005, che ha sancito la regola di c.d. facoltatività del giudizio di merito, prevedendo che
le regole contenute negli artt. 669 octies e nonies non si applicano “ai provvedimenti di
urgenza ex art. 700 e agli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della
sentenza di merito, previsti dal codice civile o da leggi speciali, nonché ai provvedimenti
emessi a seguito di denuncia di nuova opera o di danno temuto”, restando fermo il potere di
ciascuna parte di iniziare il giudizio di merito. Va detto che il nostro sistema cautelare è
stato tradizionalmente costruito sul rapporto di necessarietà della tutela di merito successiva
all’accoglimento (anche solo in parte) della domanda cautelare ante causam, nel quale si
risolve la strumentalità della cautela. Il naturale assorbimento della cautela nella decisione
di merito (ovvero la sopravvenuta inefficacia della cautela) esaltano gli effetti di
provvisorietà del provvedimento cautelare, che vengono comunque a cessare al momento
della decisione di merito. Alla luce di tali caratteristiche connaturate alla tutela cautelare, il
legislatore del 1990 aveva previsto all’art. 669 octies che la parte la quale si era vista
accogliere una qualsiasi domanda cautelare ante causam era onerata, nel termine perentorio
fissato dalla legge o dal giudice che aveva emanato la misura, di iniziare il giudizio di
merito cui la cautela era strumentale, a pena di perdita di efficacia del provvedimento
cautelare. La scelta del legislatore del 2005 di eliminare (solo per determinate misure
cautelari) l'obbligo in capo al giudice della cautela ante causam di fissare il termine
perentorio per l'inizio del giudizio di merito sembra ispirata a ragioni di economia
processuale, ritenendosi che la parte vittoriosa in cautela possa non avere

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interesse ad ottenere una decisione di merito, accontentandosi degli effetti del


provvedimento cautelare.

Occorre adesso chiedersi quale sia la ratio della selezione operata dal legislatore.
L’espresso richiamo ai provvedimenti d’urgenza ex art. 700 e agli altri provvedimenti
cautelari idonei ad anticipare gli effetti della decisione di merito) lascia intendere che è
questo specifico contenuto di anticipazione degli effetti della cautela a giustificare
l’allentamento del rapporto di strumentalità. Eppure è indubbio che tutte le misure cautelari
sono in grado di produrre effetti in senso lato anticipatori. Per tale ragione l’idoneità
all’anticipazione degli effetti della decisione di merito va intesa in senso rigoroso,
riferendosi specificamente alla produzione in via anticipata di uno o più o tutti gli effetti
direttamente disposti dalla sentenza di merito e dovendosi perciò risolvere nell’introduzione
in via cautelare di una regolamentazione provvisoria (anche parziale) del rapporto litigioso,
cioè di un nuovo assetto di interessi che corrisponda ad uno dei possibili esiti della tutela di
merito.

343.La giurisdizione cautelare

La disciplina del procedimento cautelare uniforme non contiene alcun riferimento diretto
alla materia della giurisdizione cautelare, fatto salvo l'art. 669 ter co. 3°, secondo il quale,
se il giudice italiano non è giurisdizionalmente competente a conoscere della causa di
merito (perché essa rientra nella giurisdizione di autorità giudiziaria straniera o è a questa
devoluta in via di deroga pattizia), la domanda cautelare si propone al tribunale del luogo in
cui deve essere eseguito il provvedimento cautelare. Dunque il sistema reca implicito il
principio per il quale la giurisdizione in materia cautelare appartiene al giudice
giurisdizionalmente competente a conoscere della causa di merito. Quanto al limite alla
giurisdizione ordinaria dato dalle magistrature speciali, esso trova piena applicazione anche
in materia cautelare, proprio in virtù di tale principio: ciò significa che ogni magistratura
speciale esercita la giurisdizione cautelare nelle materia a ciascuna assegnate. Secondo la
giurisprudenza, il regolamento preventivo di giurisdizione non è ammissibile in riferimento
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ai procedimenti cautelari, non essendo consentito neanche ex art. 111 Cost. il ricorso per
cassazione contro i provvedimenti conclusivi dei relativi procedimenti, essendo pur sempre
possibile il riesame della questione di giurisdizione davanti al giudice del reclamo.

344.La competenza cautelare ante causam e in corso di causa

Quando non vi è causa di merito già pendente, l'individuazione del giudice competente
avviene sulla base del principio di normale corrispondenza tra competenza cautelare ante
causam e competenza ai fini del giudizio di merito e la domanda va proposta “al giudice
competente a conoscere del merito” (art. 669 ter), fatte salve le eccezioni previste dalla
stessa norma:

a. se competente per la causa di merito è il giudice di pace, la domanda


cautelare, sia in corso di causa che ante causam, si propone al tribunale. La
norma sancisce l’esclusione di ogni potere cautelare in capo al giudice di
pace, scelta che è conseguenza di un giudizio del legislatore secondo il quale
tale organo non offre quelle garanzie di professionalità ritenute indispensabili
per la pronuncia di provvedimenti destinati ad incidere immediatamente
(seppur in via provvisoria) sulla realtà sostanziale
b. se la controversia è oggetto di clausola compromissoria o di compromesso per
arbitrato rituale e non rituale, la domanda, anche se il giudizio arbitrale sia già
pendente, si propone al tribunale che sarebbe stato competente a conoscere
della causa di merito
c. in caso di esercizio o trasferimento dell’azione civile nel processo penale, il
giudice civile, pur non essendo competente a conoscere del merito, è
competente ai fini della pronuncia delle misure cautelari.

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La competenza a conoscere della domanda cautelare proposta in corso di causa è attribuita


al “giudice della stessa” (giudice designato o istruttore se la causa pende dinanzi al
tribunale ovvero, se il giudice non è stato ancora designato o se il giudizio è stato sospeso o
interrotto, al presidente). Il confine tra cautela ante causam e in corso di causa è ovviamente
da individuare nella “pendenza della causa di merito”. Se apposite norme disciplinano la
litispendenza (in senso etimologico), l’individuazione della “causa di merito” può
richiedere indagini più complesse, sotto un duplice profilo:

d. in relazione all’individuazione dell’oggetto sostanziale del giudizio di merito,


cioè al contenuto delle domande già formulate dalle parti. Per quanto riguarda
tale aspetto, la domanda cautelare si deve ritenere “ricompresa” nella
domanda di merito quando la cautela richiesta possa strumentalmente
ricollegarsi almeno ad uno dei possibili effetti invocati in sede di merito nei
confronti delle stesse parti che partecipano al relativo giudizio, così che
l’eventuale sentenza di accoglimento sia in grado di determinare
l’assorbimento della cautela nella decisione di merito
e. con riferimento al rispetto dei requisiti di ammissibilità in senso lato delle
domande, in relazione al momento della loro formulazione e alla competenza
a conoscerle. Per quanto riguarda tale aspetto, è necessario per ritenere
ammissibile la cautela in corso di causa anche che la correlata domanda possa
sfociare in una corrispondente decisione di merito, per essere stata introdotta
nel rispetto dei requisiti di ammissibilità e di decidibilità che governano il
giudizio di merito.

Con riferimento alla possibilità di proporre domande cautelari successivamente alla


pronuncia della sentenza di 1° grado, la legge prevede come unica ipotesi quella della
domanda proposta in pendenza dei termini per impugnare, che l'art. 669 quater co. 4°
attribuisce alla competenza del “giudice che ha pronunciato la sentenza”: la scelta non è di
poco rilievo, in quanto la legge ha qui voluto espressamente impedire che sia investito “in
anticipo” il giudice che sarà, a seguito della proposizione dell’impugnazione, titolare dei
poteri decisori sul merito. Invece, una volta pendente il giudizio di appello, la competenza è
sicuramente attratta a favore del giudice di questo, in quanto investito dei relativi poteri
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decisori sul merito. Dopo la sentenza di appello, il giudice di questo conosce, per le stesse
ragioni suddette, le richieste di cautela proposte in pendenza del termine per proporre il
ricorso per Cassazione. In realtà il giudice d’appello conosce delle richieste di cautela
anche quando risulti già pendente il giudizio di cassazione, escludendosi qualsivoglia potere
cautelare in capo alla Corte di Cassazione. Rimane da individuare il giudice competente a
seguito della cassazione della sentenza e in pendenza del termine per riassumere la causa
davanti al giudice di rinvio designato dalla Corte: in mancanza di previsione normativa, la
scelta è tra il giudice di rinvio (non ancora adito) e il giudice che ha emesso la sentenza
cassata. Applicandosi analogicamente l’art. 669 co. 4° sembra preferibile la seconda
soluzione, dato che il giudice che ha emesso la sentenza cassata è pur sempre l’ultimo
giudice di merito che ha esercitato i relativi poteri.

345.La composizione del giudice della cautela

Il principio di normale monocraticità del giudice della cautela costituisce ulteriore


espressione dell’autonomia della tutela cautelare e comporta la dissociazione tra poteri
cautelari e poteri decisori sul merito. Proprio in ragione dell'autonomia della tutela
cautelare, non si ritiene necessario che i relativi poteri, per essere esercitati, presuppongano
la titolarità in capo allo stesso organo di quelli per la decisione di merito, ma si reputa
opportuno che gli stessi siano attribuiti al giudice singolo, allo scopo di garantire maggiore
funzionalità e celerità nella definizione del processo cautelare. Per la cautela ante causam il
sistema non ammette eccezioni. Il solo fatto che la causa di merito non risulti pendente è di
per sé sufficiente ad escludere ogni dubbio sulla monocraticità del giudice della cautela,
non prevedendo l’art. 669 ter co. 4° altra possibilità per il presidente del tribunale che
quella di designare “il magistrato” cui è affidata la trattazione del procedimento (questo
anche quando la successiva causa di merito dovrà essere decisa da un organo collegiale).

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346.La domanda cautelare

Per accedere al processo cautelare è necessaria la proposizione di una domanda nella forma
del ricorso, il quale consente alla parte che invoca la tutela di entrare immediatamente a
contatto col giudice e di esporre le ragioni e il grado dell’urgenza di provvedere. L’esigenza
di porre veri e propri criteri di identificazione della domanda cautelare, in passato poco
avvertita, appare oggi ineludibile: in primo luogo, l’autonomia della tutela cautelare impone
che l’atto di accesso sia governato da appositi criteri e regole, diverse da quelle ordinarie;
allo stesso tempo, la strumentalità della tutela cautelare rende necessaria l’individuazione
della domanda cautelare al fine di verificare presupposti e limiti dell’intervento cautelare in
relazione al successivo giudizio di merito. Nel delinearne il contenuto, si impone comunque
all’interprete il minor formalismo possibile, anche per evitare che eventuali questioni sui
requisiti dell’atto introduttivo frustrino le esigenze di celerità connaturate alla funzione
cautelare. Sembrano perciò sufficienti come requisiti essenziali alla validità del ricorso
cautelare:

a. l'individuazione del diritto che la parte istante intende sottoporre a cautela e


l’indicazione del fumus boni juiris, cioè delle ragioni in base alle quali il
giudice della cautela dovrebbe ritenere sussistente il diritto medesimo
b. l'indicazione del bene su cui incide il pericolo lamentato e degli eventi
(passati, presenti, temuti) che danno luogo al periculum in mora: questo non
può mai considerarsi in re ipsa, ma deve essere specificamente e
concretamente dedotto
c. il provvedimento cautelare richiesto
d. la prospettazione della causa di merito, cioè l 'indicazione di quale azione, e
corrispondente tutela, la parte istante invocherà in sede di merito, a seguito
della concessione del provvedimento cautelare. Questa indicazione è
necessaria in realtà per plurime ragioni: innanzitutto essa serve per consentire
al giudice della cautela di esercitare il controllo sulla propria competenza, la
quale deve coincidere con la competenza ai fini del merito. Ma la
prospettazione della futura causa di merito serve anche a consentire di
identificare il nesso di strumentalità tra la tutela cautelare che viene invocata e
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la successiva tutela di merito. Dal momento che il regime di facoltatività del


giudizio di merito comporta la sola attenuazione (e non l’eliminazione) del
rapporto di strumentalità, riteniamo che anche nel caso di ultrattività della
cautela il ricorso cautelare debba contenere la prospettazione della causa di
merito (la quale è semplicemente è non più obbligatoria, ma facoltativa).

347.La pronuncia con decreto inaudita altera parte

In coerenza con l’affermazione del principio del contraddittorio quale regola cardine del
processo cautelare, il legislatore ha limitato fortemente il potere discrezionale del giudice
della cautela di pronunciare provvedimenti immediati con decreto “inaudita altera parte”.
L'unica ipotesi oggi possibile, previa assunzione ove occorra di “sommarie informazioni”, è
prevista dall’art. 669 sexies co. 2°, allorchè la convocazione della controparte sia in grado
di pregiudicare l'attuazione del provvedimento. Il decreto deve sempre contenere la
fissazione dell'udienza di comparizione delle parti, essendo obbligo del giudice, una volta
costituito il contraddittorio, di sostituire lo stesso con un'ordinanza di conferma, modifica o
revoca. L’eccezionale compressione delle garanzie difensive trova giustificazione solo nella
breve durata degli effetti del decreto, che è tale solo se viene contestualmente fissato sia il
termine perentorio per la notificazione (del ricorso e del decreto) entro 8 giorni, sia
l'udienza per la comparizione delle parti nel termine (ritenuto non perentorio) di 15 giorni
dalla pronuncia del decreto. Insomma al giudice si richiede di esercitare nuovamente, alla
luce delle difese svolte dalle parti, i poteri cautelari.

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348.Le regole di svolgimento del procedimento

Il ricorso contenente la domanda cautelare deve essere depositato, unitamente al fascicolo


di parte, nella cancelleria del giudice individuato competente. Il deposito del ricorso
determina, secondo le regole generali, l’effetto delle pendenza del giudizio cautelare e gli
altri effetti processuali di ogni domanda giudiziale. Il giudice designato alla trattazione del
procedimento cautelare, se non ritiene di pronunciare decreto inaudita altera parte, emette il
decreto di fissazione dell'udienza. L'art. 669 sexies fissa le regole che il giudice della
cautela è tenuto ad osservare nello svolgimento del procedimento cautelare, prima fra tutti
quella dell'applicazione del principio del contraddittorio nelle sue “formalità essenziali”,
che non possono mai essere omesse. Ratio della norma è quella di consentire una
semplificazione del procedimento, che il giudice può disporre in relazione alle circostanze e
a concrete ragioni di urgenza, ad es. autorizzando il ricorrente ad utilizzare forme
alternative alla tradizionale notificazione del ricorso e del decreto a mezzo di ufficiale
giudiziario, quali il telegramma o il telefax.

Anche il successivo svolgimento del processo cautelare è caratterizzato dalla mancanza di


predeterminazione legale delle regole circa il modus procedendi, le quali sono rimesse alla
discrezionalità del giudice della cautela, soprattutto in relazione alle specifiche esigenze
cautelari del caso concreto: tale potere discrezionale così ampio si giustifica (e in ciò trova
anche il suo limite) in quanto strumentale alla realizzazione della finalità cautelare, nel
senso che ogni scelta del giudice della cautela sui tempi e modi di svolgimento del
procedimento deve essere adottata per consentire la più efficiente e rapida decisione sulla
domanda cautelare.

349.L'istruttoria cautelare

Nel rispetto delle “formalità essenziali” imposte dal contraddittorio, il giudice della cautela
procede nel modo ritenuto “più opportuno” agli atti di istruzione indispensabili in relazione
a quelli che l’art. 669 sexies definisce “presupposti” e “fini del provvedimento richiesto”.
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Nel sancire il principio di atipicità dell’istruzione sommaria, la norma chiarisce i limiti


della cognizione cautelare e dei relativi poteri del giudice, nel senso che quest’ultimo deve
indirizzare l'acquisizione di elementi istruttori ai soli fini legati all'emissione del
provvedimento cautelare, cioè all'accertamento dei presupposti tipici della misura invocata
quali sono fissati dalla legge, senza estenderla a temi d'indagine che, pur rilevanti ai fini
della decisione sul merito o comunque sollecitati dalle parti, non lo sono per la pronuncia
del provvedimento cautelare. Dunque, il giudice della cautela deve limitarsi ad acquisire
elementi in grado di formare il proprio convincimento sul fumus boni juris e sul periculum
in mora di volta in volta richiesto dalla legge, traendoli innanzitutto dalle difese svolte dalle
parti e, ove necessario, disponendo quei soli atti di istruzione necessari per provvedere sulla
domanda cautelare.

D’altra parte, l’espressione “atti di istruzione” va coordinata con il carattere di


indispensabilità in relazione agli scopi della cautela invocata, nel senso che gli “atti di
istruzione”, essendo funzionalmente diretti a fornire al giudice della cautela gli elementi
necessari per provvedere sulla domanda cautelare, devono essere strumenti deformalizzati
di acquisizione probatoria, da utilizzare a prescindere dal rispetto delle forme e dei limiti
tipicamente disciplinati nel c.p.c. e nel c.c. Dunque l’istruttoria si può svolgere sia
attraverso l’espletamento dei mezzi di prova “tipici”, senza però il rispetto delle regole di
assunzione poste dal c.c., sia con mezzi “atipici”: l’unico limite è costituito dal rispetto del
principio del contraddittorio. Così il giudice può stabilire, oltre che l’audizione delle parti
di persona, di raccogliere dichiarazioni da parte di persone informate sui fatti, fissando
apposita udienza ove necessario; infine, egli può affidare accertamenti tecnici a esperti o
ausiliari dotati di specifica preparazione.

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350.La decisione sulla domanda cautelare: l'ordinanza di rigetto

Il giudice della cautela, dopo aver proceduto all’istruttoria cautelare, provvede con
ordinanza all'accoglimento o al rigetto della domanda cautelare (artt. 669 septies e octies).
L'ordinanza di rigetto può derivare da una dichiarazione di incompetenza cautelare del
giudice oppure dalla circostanza che egli ha ritenuto non sussistenti i presupposti della
domanda cautelare. Quest’ultima ipotesi non preclude comunque la riproposizione della
domanda cautelare quando si verifichino:

a. mutamenti delle circostanze. Si tratta di tutte quelle nuove circostanze di


fatto, necessariamente esterne al procedimento già conclusosi, che possono
verificarsi in epoca successiva alla pronuncia del provvedimento di rigetto
b. vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto. Esse devono essere tali
non soltanto rispetto alla prospettazione contenuta nella prima domanda
cautelare (rigettata), ma anche con riferimento a quelle ragioni di fatto e di
diritto comunque emerse nel corso del procedimento cautelare e della quali il
giudice ha tenuto (o avrebbe potuto tenere) conto ai fini della pronuncia del
provvedimento di rigetto.

351.L'ordinanza di accoglimento. La perdita di efficacia della misura cautelare. Il


procedimento ripristinatorio

Con il provvedimento di accoglimento della domanda cautelare (ma anche di conferma del
decreto inaudita altera parte ovvero di modifica della cautela) il giudice può imporre alla
parte istante una cauzione per l'eventuale risarcimento dei danni (art. 669 undecies).
L’ordinanza di accoglimento, ove la domanda sia stata proposta prima dell'inizio della
causa di merito e si tratti di cautela non ultrattiva, deve fissare un termine perentorio non
superiore a 60 giorni per l'inizio del giudizio di merito. In caso di mancata fissazione da
parte del giudice, il termine è fissato dalla legge in 60 giorni e decorre dalla pronuncia
dell'ordinanza se avvenuta in udienza, o dalla sua comunicazione alle parti. La fissazione
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del termine per l'inizio del giudizio di merito riflette il carattere strumentale del
provvedimento cautelare. Siffatto carattere di strumentalità trova conferma nell’art. 669
nonies co. 1°, che sancisce la perdita di efficacia del provvedimento cautelare non ultrattivo
se il giudizio di merito non è iniziato nel predetto termine perentorio ovvero se,
successivamente al suo inizio, esso si estingue. Va detto però che oggi, a seguito della
riforma del 2005, oggi dall’onere di iniziare il giudizio di merito è esonerata la parte che ha
ottenuto un provvedimento atipico d’urgenza ex art. 700 ovvero ogni altro provvedimento
cautelare idoneo ad anticipare gli effetti della sentenza di merito previsto dal c.c. o da leggi
speciali, nonché i provvedimenti emessi a seguito di denuncia di nuova opera o di danno
temuto: in tali casi ciascuna parte (cioè anche quella destinataria passiva della cautela) può
iniziare in ogni tempo il giudizio di merito. Di conseguenza, soltanto la parte che ha
ottenuto un provvedimento cautelare a carattere non ultrattivo (ad es. un sequestro) ad
essere ancora oggi onerata di iniziare il processo di merito, se non vuole che il
provvedimento perda efficacia.

Oltre all’ipotesi del mancato avvio del giudizio di merito a seguito di provvedimento non
ultrattivo, l'art. 669 novies prevede anche altre ipotesi di perdita di efficacia del
provvedimento cautelare:

a. se non è stata versata la cauzione


b. se con sentenza (anche non passata in giudicato) è dichiarato inesistente il
diritto a tutela del quale esso era stato concesso. Infatti il rigetto della
domanda di merito (anche all’esito del giudizio di 1° grado) comporta il venir
meno delle ragioni giustificatrici della tutela. Quindi, in caso di accoglimento
(totale o parziale) della domanda di merito, gli effetti della misura cautelare
rimangono “assorbiti” dalla relativa decisione, che si pone come unica fonte
di regolamentazione del rapporto dedotto; in caso di rigetto, invece, il
provvedimento cautelare diventa ex lege inefficace
c. in pendenza di causa di merito devoluta a giurisdizione straniera o ad
arbitrato, se la parte che aveva

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richiesto il provvedimento non presenta domanda di esecutorietà in Italia della


sentenza straniera o del lodo arbitrale entro i termini eventualmente previsti a pena di
decadenza dalla legge o dalle convenzioni internazionali ovvero la sentenza straniera
o il lodo arbitrale dichiarano inesistente il diritto per il quale il provvedimento era
stato concesso.

L’art. 669 novies co. 2° contiene la disciplina di apposito procedimento (c.d. ripristinatorio)
che la parte interessata può instaurare davanti al giudice che ha emesso il provvedimento al
fine di ottenere la declaratoria di inefficacia e, contestualmente ad essa, l’emissione di
quelle misure ripristinatorie della situazione precedente. Il procedimento può svolgersi e
concludersi in 2 modi:

d. se non vi è contestazione da parte del soggetto chiamato a partecipare al


procedimento, questo si svolge davanti allo stesso giudice che ha emesso il
provvedimento e si conclude con ordinanza
e. in presenza di contestazione, è l’ufficio giudiziario al quale appartiene il
giudice che ha emesso il provvedimento a decidere (non più con ordinanza,
ma) con sentenza “provvisoriamente esecutiva”, salva la possibilità di
emanare in corso di causa i provvedimenti di revoca o modifica della misura.

352.Le spese

In caso di rigetto della domanda cautelare ante causam, il giudice deve provvedere
“definitivamente” sulle spese del procedimento cautelare solo se la relativa ordinanza è
pronunciata “prima dell’inizio della causa di merito”, mentre solo con la l. 69/2009 è stato
introdotto l’obbligo del giudice della cautela di provvedere sulle spese in caso di
accoglimento della domanda di cautela ultrattiva. Non vi è obbligo di pronunciare sulle
spese del processo cautelare (e si rinvia la liquidazione unitamente alle spese del giudizio di
merito):

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a. se l’ordinanza di rigetto è pronunciata dopo l’inizio della causa di merito


b. quando l’ordinanza di accoglimento riguarda una cautela non ultrattiva
c. in ogni caso di rigetto e di accoglimento di domanda cautelare in corso di
causa.

L’ultimo co. dell’art. 669 septies prevede l’immediata esecutività del capo dell’ordinanza
contenente la condanna alle spese. Avverso questo capo è proponibile unicamente il
reclamo cautelare.

353.La cauzione

La cauzione costituisce una species del genus delle cauzioni c.d. giudiziali, cioè da quelle
misure con le quali, nei casi previsti dalla legge, il giudice impone alla parte a favore della
quale viene emesso un provvedimento giurisdizionale il versamento di una somma a titolo
di garanzia. L'art. 669 undecies riconosce oggi il carattere di generale applicazione di tale
istituto in materia cautelare, quale tipico strumento non solo di contemperamento di opposti
interessi, ma di vera e propria “controcautela” che il giudice, anche d'ufficio, può ritenere
opportuno disporre per tutelare le possibili ragioni risarcitorie del soggetto passivo. Il
risarcimento dei danni può riguardare entrambe le fattispecie descritte nell’art. 96, nel senso
che la cauzione può essere disposta sia per i danni da lite temeraria (co. 1°), sia per i danni
derivanti dall’esecuzione di una misura cautelare a seguito dell’accertamento di inesistenza
del diritto cautelato (co. 2°). La valutazione da parte del giudice della cautela di “ogni
circostanza” serve a favorire l’indagine comparativa sulle posizioni delle parti, proprio al
fine di effettuare il suddetto contemperamento. A tale strumento il giudice della cautela può
ricorrere sia in sede di emissione del provvedimento di accoglimento (o di conferma, se
pronunciato con decreto) sia in sede di eventuale modifica dello stesso.

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354.I poteri di “gestione” del provvedimento cautelare

Il rito cautelare uniforme contiene norme talvolta contraddittorie sulla titolarità dei poteri
del giudice di “intervento” sulla misura cautelare pronunciata all’esito del procedimento
ante causam:

a. per la dichiarazione di inefficacia, l'art. 669 novies assegna al “giudice che ha


emesso il provvedimento” il potere di dichiarare l'inefficacia nelle 2 ipotesi di
mancato inizio del giudizio di merito e sopravvenuta estinzione dello stesso;
per le altre ipotesi di inefficacia, il relativo potere spetta al giudice della causa
di merito in sede di pronuncia della sentenza o, in mancanza, al giudice che
ha emesso il provvedimento
b. per la modifica e la revoca, il potere è assegnato al giudice istruttore della
causa di merito
c. per la modifica e la revoca di cautela ultrattiva, in caso di mancato inizio del
giudizio di merito, il potere è assegnato al giudice che ha provveduto
sull'istanza cautelare
d. per la modifica o la revoca di cautela ultrattiva, ma in caso di avvenuto inizio
del giudizio di merito, il potere spetta al giudice istruttore della causa di
merito
e. per l’attuazione di provvedimenti cautelari aventi ad oggetto obblighi di
consegna, rilascio, fare o non fare, il potere è assegnato al giudice che ha
emanato il provvedimento cautelare.

Da tali norme si può ricavare il principio che il giudice che ha emanato il provvedimento
cautelare, mentre non ha di norma il potere di revoca e di modifica (che presuppone per il
suo esercizio l’insorgere di “sopravvenienze”, cioè di circostanze diverse da quelle esistenti
al momento della pronuncia), resta investito degli altri poteri di gestione dello stesso. Il
problema è se questi poteri perdurano dopo l’inizio della causa di merito ovvero vengano a
cessare per essere trasferiti al giudice di quest’ultima. Deve ritenersi che:

f. fino alla pendenza del giudizio di merito, tutte le istanze dirette ad intervenire
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sulla misura cautelare sono conosciute dal giudice che l’ha emanata, anche se
ha esaurito i poteri connessi alla decisione sulla domanda cautelare. Con
l’introduzione del principio di ultrattività di alcune cautele, il fenomeno di
prorogatio dei poteri del giudice della cautela ante causam è stato valorizzato,
con l’attribuzione anche dei poteri di modifica e di revoca che, prima della
riforma, erano di spettanza esclusiva del giudice della causa di merito
g. una volta introdotta la causa di merito, la presenza del giudice designato per
la trattazione e decisione di quest'ultima determina l'assorbimento a suo
favore di tutti i poteri di gestione della misura cautelare. Questa attrazione è
imposta dal sistema: l’unitarietà del provvedimento cautelare non consente di
distinguere gli aspetti cognitivi da quelli esecutivi ed impedisce il
frazionamento di poteri che sono tutti, almeno potenzialmente, in grado di
incidere e modificare il contenuto del provvedimento.

355.I controlli: la modifica e la revoca

Le forme di controllo sull’esercizio del potere cautelare (revoca e modifica da un lato e


reclamo dall’altro) sono destinate ad operare in diversi momenti di svolgimento del
procedimento cautelare e con diverse funzioni. La revoca e la modifica sono affidate al
giudice della causa di merito, il quale, per tutto il corso della stessa, ha il potere di revocare
o modificare la misura cautelare allorchè si verifichino “mutamenti delle circostanze”
ovvero dietro allegazione di fatti anteriori dei quali si sia acquisita conoscenza
successivamente alla pronuncia della misura cautelare. Il regime di revoca e di modifica ex
art. 669 decies è frutto di un compromesso tra due possibili scelte a favore, la prima, della
libera revocabilità e modificabilità del provvedimento e, la seconda, della revocabilità per
soli motivi di legittimità, che invece limita drasticamente l’ambito del potere di controllo,
escludendo una nuova disamina sui presupposti di fatto delle singole misure. Assoggettare
l’esercizio del potere di revoca e di modifica a “mutamenti nelle circostanze” significa
consentire al giudice designato per la causa di merito un nuovo esercizio dei poteri
cautelari, reso ammissibile dal sopravvenire di nuove circostanze che può
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rendere opportuno o addirittura necessario l’adeguamento alle stesse della misura cautelare
emessa. Dunque nei mutamenti nelle circostanze è da ricomprendere ogni vicenda (interna
o esterna al processo) che sia in grado di apportare elementi di novità, sia in relazione al
fumus boni juris sia in relazione al periculum in mora. La stessa disciplina è stata, quindi,
prevista tanto per la revoca che per la modifica, nonostante la diversità di tali poteri: mentre
il primo è finalizzato alla totale caducazione del provvedimento, il potere di modifica si
fonda su esigenze diverse e più varie allo scopo di contemperare i contrapposti interessi.

L’art. 669 decies al co. 2° dispone che, quando il giudizio di merito non sia iniziato o sia
stato dichiarato estinto, la revoca e la modifica dell’ordinanza di accoglimento, una volta
esaurita l’eventuale fase del reclamo, possono essere richieste al giudice che ha provveduto
sull’istanza cautelare se si verificano mutamenti nelle circostanze o se si allegano fatti
anteriori di cui si è acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare,
fermo restando in quest’ultimo caso l’obbligo dell’istante di fornire la prova del momento
in cui ne è venuto a conoscenza. La parte interessata ad ottenere un provvedimento di
revoca o di modifica ha a disposizione 2 possibilità: la prima è quella di iniziare la causa di
merito e di rivolgere al giudice di questa l'istanza di revoca o di modifica; la seconda è
quella di proporre l'istanza di modifica o di revoca allo stesso giudice che ha emesso la
misura cautelare.

356.Il reclamo cautelare

Il reclamo cautelare costituisce la forma di controllo più incisiva e immediata nei confronti
del provvedimento di accoglimento o di rigetto della domanda cautelare. L'art. 669
terdecies attribuisce i relativi poteri a giudice diverso da quello che ha pronunciato la
misura cautelare, in composizione sempre collegiale, all'esito di un procedimento da
instaurarsi entro un termine perentorio che si conclude con ordinanza non impugnabile di
conferma, modifica o revoca del provvedimento reclamato. Il reclamo contro i
provvedimenti del giudice singolo del tribunale si propone al collegio, del quale non può far
parte il giudice che ha emanato il provvedimento reclamato; quando invece è emesso dalla
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corte d'appello, il reclamo si propone ad altra sezione della stessa corte o, in mancanza, alla
corte d'appello più vicina. Secondo il testo originario dell’art. 669 terdecies, l’istituto del
reclamo avrebbe dovuto operare solo in presenza di provvedimento di accoglimento (totale
o parziale) della cautela richiesta, cioè all’esclusivo scopo di neutralizzare l’ipotetico
pregiudizio del soggetto passivo destinatario della cautela, il solo ritenuto meritevole di
essere sottoposto a verifica. Questa scelta fu fortemente contestata dalla dottrina, la quale
sottolineò che l’esigenza di controllo che sta alla base del reclamo cautelare nasce in
relazione non già agli effetti della misura, ma al legittimo esercizio del potere cautelare, di
cui è espressione anche il provvedimento di rigetto: laddove sia ingiustamente reso, è in
grado di arrecare alla parte istante non minore pregiudizio. Diverse sentenze della Corte
Costituzionale (in particolare la 253/1994) hanno profondamento mutato il quadro di
riferimento dell’istituto in quanto, una volta venuto meno il limite costituito dal solo
provvedimento di accoglimento, il ruolo del giudice del reclamo non è più quello del solo
controllo sulla misura cautelare pronunciata dal primo giudice, ma si è esteso al vero e
proprio esercizio di tutti i poteri cautelari: ecco perché può dirsi che il reclamo si è
trasformato in mezzo di generale riesame dei provvedimenti che il giudice della cautela
pronuncia sulla domanda cautelare. Comunque l’allargamento dell’area di reclamabilità al
provvedimento negativo è stato determinato non per garantire che l’esercizio del potere
cautelare fosse attuato attraverso due “gradi” di giudizio, ma al diverso scopo di ripristinare
la “parità delle armi” tra le parti, cioè di consentire alla parte che si sia vista rigettare, a suo
dire illegittimamente, la domanda di cautela lo stesso potere (già riconosciuto alla parte
destinataria della cautela concessa) di provocare il controllo sul provvedimento da parte di
un giudice collegiale diverso da quello che l’ha pronunciato.

Proprio l’espresso divieto di rimessione al primo giudice, sancito dall’art. 669 terdecies,
sembra confermare che il rapporto tra primo e secondo giudice non si articola sul modello
dell’appello, cioè come espressione di due distinti gradi, ma sul trasferimento ex lege al
giudice del reclamo degli stessi poteri del primo giudice,

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nell’ambito di un fenomeno di prosecuzione dell’unitario giudizio cautelare. Quindi, se è la


collegialità (e non il carattere sovraordinato dell’organo) a caratterizzare soggettivamente il
giudice del reclamo, allora il rapporto tra i due giudici è di regola quello tra giudice
monocratico e giudice collegiale dello stesso ufficio giudiziario, in una prospettiva di
controllo che può dirsi “rotatorio”.

Con riferimento all'effetto devolutivo prodotto dalla proposizione del reclamo, la parte
reclamante può sollecitare liberamente il riesame da parte del giudice del reclamo, senza
predeterminazione di censure da parte della legge, deducendo specifici vizi di merito o di
rito ovvero lamentando la mera ingiustizia del provvedimento. Gli unici limiti delle censure
proponibili sono quelli irremovibilmente fissati dalla domanda cautelare su cui il giudice di
prima istanza ha (o avrebbe dovuto) pronunciare, e si riferiscono al divieto di formulazione
di nuove domande sia con riferimento a nuovi diritti soggettivi (diversi da quello posto ad
originario fondamento della domanda) sia con riferimento all'invocazione di nuove misure
pur a cautela dello stesso diritto dedotto (diverse da quelle richieste al primo giudice).
Occorre chiedersi se il giudice del reclamo sia vincolato all’esame dei soli vizi dedotti o
delle sole censure mosse dalle parti ovvero se possa estendere, anche d’ufficio, i propri
poteri cognitivi anche a questioni assorbite nella decisione di 1° grado, che non siano state
espressamente riproposte, e a quelle eventuali parti o capi del provvedimento reclamato per
i quali nessuna censura sia stata mossa. La scelta di non devolvere la controversia al giudice
superiore, ma di trasferire la stessa in senso rotatorio al giudice collegiale dello stesso
ufficio giudiziario, è già significativa della volontà di investire il secondo giudice
dell’intera controversia. Ma ancor più rilevante in proposito è l'art. 669 terdecies co. 4°, che
impone al collegio, a seguito della convocazione delle parti, di pronunciare non oltre 20
giorni dal deposito del ricorso ordinanza non impugnabile di conferma, modifica o revoca
del provvedimento cautelare. Se tale potere-dovere è attribuito al collegio senza alcun
riferimento all’oggetto del giudizio di reclamo, la titolarità dello stesso vuol dire dunque
che al collegio sono affidati tutti i poteri già affidati al primo giudice.

Riconoscere al reclamo natura di mezzo di controllo “rotatorio” comporta anche che il


verificarsi (nel periodo di tempo che intercorre tra la pronuncia del provvedimento e la data
di proposizione del reclamo) di eventuali mutamenti nelle circostanze, tali da giustificare la
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richiesta di modifica o di revoca, fa sì che gli stessi vanno fatti valere con l’istanza di
reclamo e non, alternativamente, con il reclamo e con l’istanza di modifica o di revoca. Il
principio è oggi espresso sempre all’art. 669 terdecies co. 4°, secondo cui “le circostanze e i
motivi sopravvenuti al momento della proposizione del reclamo debbono essere proposti,
nel rispetto del principio del contraddittorio, nel relativo procedimento”. L’onere di far
valere le sopravvenienze nel corso del procedimento di reclamo risponde all’esigenza di
consentire al giudice del reclamo, quale giudice della cautela cui sono trasferiti ex lege tutti
i poteri cautelari già in capo al primo giudice, di apprezzare ogni nuova circostanza o
motivo sopravvenuto che può essere rilevante ai fini della pronuncia sulla domanda di
cautela.

Come anticipato, il provvedimento emesso in sede di reclamo assume la forma


dell'ordinanza non impugnabile, che può essere:

a. di conferma. Essa implica l'integrale di rigetto del reclamo, ma anche che il


collegio ribadisca il contenuto della misura, per la quale deve essere accertata
la sussistenza “attuale” dei presupposti, con riferimento al momento della
decisione
b. di modifica o revoca. Esse presuppongono l'esercizio di poteri “naturalmente”
collegati all'esercizio della funzione di riesame, in quanto strumentali
all'eventuale rimozione (totale o parziale) del provvedimento oggetto di
reclamo.

In tutte e tre le ipotesi si ha integrale sostituzione del provvedimento impugnato con quello
emesso dal giudice di reclamo, con efficacia ex nunc. I provvedimenti resi in sede di
reclamo hanno gli stessi caratteri di provvisorietà e non decisorietà tipici dell'ordinanza
reclamata, essendo destinati a perdere efficacia per effetto della sentenza definitiva di
merito.

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Infine va rilevato che, ai sensi dell’ultimo co. dell’art. 669 terdecies, la proposizione del
reclamo non sospende l'esecuzione del provvedimento, ma il presidente del collegio di
reclamo può disporre con ordinanza non impugnabile la sospensione dell'esecuzione,
quando per motivi sopravvenuti essa arrechi grave danno alla parte. La sospensione può
essere subordinata alla prestazione di cauzione.

357.L'attuazione delle misure cautelari

Il fenomeno dell’attuazione del provvedimento cautelare, cioè della coattiva realizzazione


del dictum cautelare, anche contro la volontà del soggetto passivo della cautela, presenta
caratteri propri, non assimilabili a quelli dell’esecuzione forzata in senso stretto. Non
essendo diretto alla produzione di effetti anticipatori a contenuto satisfattivo della pretesa, il
provvedimento cautelare non consegue la qualità di titolo esecutivo giudiziale ex art. 474 n.
1. Dall’art. 669 duodecies si ricava un triplice sistema di attuazione (che in realtà fa sorgere
non pochi problemi applicativi), a seconda che si tratti di:

a. sequestri:
i. quanto al sequestro giudiziario, l’esigenza è quella di consentire al
custode la più rapida e sicura apprensione materiale del bene
sequestrato
o quanto al sequestro conservativo, l’esigenza è quella di realizzare il vincolo del
sequestro nel rispetto delle norme generali sulla pignorabilità dei beni, al fine
di consentire l’automatica conversione del sequestro in pignoramento
b. provvedimenti cautelari che hanno ad oggetto somme di danaro. Qui
l’esigenza è quella di rispettare il principio della par condicio creditorum,
imponendo al creditore in base, impedendo al “creditore” in base a
provvedimento cautelare di soddisfarsi prima e meglio degli altri. Il controllo
sull'attuazione è svolto dal giudice dell'esecuzione, in quanto la tutela della
par condicio comporta che, anche quando l'espropriazione forzata si svolge su
impulso del solo creditore in base alla cautela, la possibilità che
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nell'espropriazione siano coinvolti altri creditori muniti di titolo esecutivo


privilegiati giustifica i poteri del giudice dell'esecuzione e la conseguente
sottrazione degli stessi al giudice della cautela
c. provvedimenti cautelari che hanno ad oggetto ordini di consegna, fare e non
fare, per i quali l’attuazione avviene “sotto il controllo del giudice che ha
emanato il provvedimento cautelare”. Questi ne determina le modalità e, ove
sorgano difficoltà o contestazioni, pronuncia i provvedimenti opportuni
previa audizione delle parti.

Nessun riferimento è contenuto nell’art. 669 duodecies circa il momento di attuazione delle
misure cautelari: la norma, non distinguendo a seconda che l’istanza per l’attuazione sia
proposta prima o dopo l’inizio della causa di merito, sembra attribuire i relativi poteri
sempre al “giudice che ha emanato il provvedimento cautelare”. Ma deve ritenersi che,
quando la causa di merito sia iniziata, il giudice di quest’ultima “attrae” tutte le competenze
cautelari, ivi compresa quella relativa all’attuazione. Ovviamente l’attuazione del
provvedimento cautelare non può essere chiesta successivamente alla pronuncia della
sentenza di merito, che: se favorevole al ricorrente in cautela, determina l’automatico
assorbimento della misura; se sfavorevole, comporta l’inefficacia ex lege della stessa. In
tutti i tre sistemi di attuazione suesposti, è sufficiente la sola notificazione del
provvedimento cautelare, che può avvenire anche contestualmente al compimento del
primo atto di attuazione. Non è necessaria la previa notificazione dell'atto di precetto, in
quanto l'obbligo di ottemperare alla misura cautelare sorge nel momento della pronuncia
della stessa e non deve essere oggetto di ulteriore intimazione nei confronti del soggetto
obbligato.

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358.La responsabilità penale ex art. 388 c.p.

Il co. 2° dell’art. 388 c.p. sanziona l’inosservanza dei provvedimenti cautelari a difesa della
proprietà, del possesso o del credito. La norma circoscrive i fatti elusivi del provvedimento
del giudice a quelli commessi dopo l’emanazione del provvedimento cautelare ed esclude
che, quando l’attuazione si sia realizzata, possa ravvisarsi elusione, trattandosi di violazione
del vincolo conseguente all’esecuzione già effettuatasi. Controverso è il significato del
termine “elusione”: sembra che ad esso non possa essere attribuito il significato di semplice
inottemperanza, cioè di mancato adempimento all’ordine contenuto nella misura cautelare,
così da ritenere applicabile la sanzione penale sulla base del semplice riscontro tra il
contenuto della misura e il comportamento del soggetto obbligato. La sanzione penale non
può essere applicata in modo indiscriminato, ma deve colpire specifiche e colpevoli
condotte elusive che il soggetto passivo pone in essere al preciso scopo di impedire, o
comunque ostacolare, l’attuazione della misura.

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PARTE NONA: LA TUTELA CAMERALE

CAP. 35: LA GIURISDIZIONE CAMERALE. I PROCEDIMENTI IN CAMERA DI


CONSIGLIO

359.Premesse sistematiche

Occorre muovere dalla corretta collocazione sistematica di quelle forme di tutela


(tradizionalmente definite di “giurisdizione volontaria”) che si attuano attraverso
l’applicazione degli artt. 737 ss. per i procedimenti in camera di consiglio. L’indagine è
stata resa ancor più problematica: nel tentativo di assicurare maggiore celerità al processo,
attraverso la semplificazione delle sue forme di svolgimento, la legge ha spesso assunto a
modello di riferimento quello camerale e lo ha utilizzato indiscriminatamente, senza alcuna
verifica di compatibilità con il suo oggetto, dando origine al fenomeno della c.d.
cameralizzazione del giudizio su diritti soggettivi. Del resto la giurisprudenza di merito e di
legittimità, con l'avallo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, considera la
giurisdizione camerale come un “contenitore neutro”, nel quale possono trovare spazio sia i
provvedimenti
c.d. di volontaria giurisdizione sia i provvedimenti di natura contenziosa, ciascuno con le
proprie peculiari e innegabili caratteristiche, sia strutturali che funzionali. Questo fenomeno
di progressiva espansione di un modello procedimentale che, pur assoggettato alle norme
degli artt. 737 ss., si distacca profondamente da queste ultime per quanto attiene alla
sostanza della materia trattata e alla forma del provvedimento conclusivo (impugnabile
nelle vie ordinarie e idoneo ad acquisire effetti di giudicato) impone la soluzione del
problema se il legislatore sia o meno libero di creare nuove forme di tutela camerale o
anche di trasformare in camerale un procedimento già assoggettato alle regole della tutela
normale. Quando si è in presenza di forme di tutela giurisdizionali che sono dirette ad
apprestare generali rimedi giurisdizionali per singole categorie di diritti soggettivi e che
sono incompatibili con il regime di instabilità tipico del provvedimento camerale e anzi
idonee ad acquisire i normali effetti di giudicato sostanziale, la sottoposizione delle stesse
alle forme camerali (essenzialmente per ragioni di celerità del procedimento) non può
essere in grado di trasformare la natura della tutela da normale a camerale, ma solo a
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sottoporla ad un rito speciale, quale quello camerale. Dunque, come quello del lavoro,
anche il rito speciale camerale può oggi essere considerato come un modello di
procedimento, idoneo al giudicato, alternativo sia al rito ordinario sia a quello del lavoro.

I processi di tutela normale speciale sottoposti a rito camerale appena richiamati devono
essere tenuti distinti da quei procedimenti in camera di consiglio ex artt. 737 ss. (o tutele
camerali in senso stretto), che costituiscono espressione di giurisdizione camerale quale
autonoma forma di tutela giurisdizionale, governata dai principi di tipicità e non idoneità al
giudicato. La giurisdizione camerale costituisce una forma di tutela che non è diretta
all'accertamento dei diritti soggettivi (di qui la sua inidoneità al giudicato sostanziale), ma a
provvedere su richieste di tutela relative a singoli poteri o facoltà che la legge, in sede di
predisposizione della singola e tipica fattispecie camerale, ha estrapolato all'interno del più
ampio contenuto del diritto soggettivo: si tratta perciò di controversie più “limitate” rispetto
a quelle ordinarie. Ovviamente l’assenza di ogni funzione di accertamento del diritto
soggettivo e la tipicità delle relative tutele costituiscono altrettanti limiti all’esercizio dei
poteri camerali, i quali, in quanto diretti a tutelare singoli segmenti del diritto soggettivo e
mai il diritto soggettivo in quanto tale, lasciano impregiudicato il possibile esercizio della
tutela normale in relazione ad ogni altro possibile contenuto del diritto soggettivo. Quanto
detto sinora, conferma la c.d. autonomia della giurisdizione camerale.

360.La natura giurisdizionale della tutela camerale

L'affermazione della natura integralmente giurisdizionale costituisce premessa


fondamentale per la ricostruzione della tutela camerale. L'attribuzione al giudice camerale
del potere di conoscere e di provvedere su determinate richieste di tutela che abbiano ad
oggetto situazioni giuridiche sostanziali comunque qualificate comporta l'attribuzione della
natura pienamente giurisdizionale alle relative tutele, senza che risulti possibile

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distinguere tra profili formali e profili sostanziali della giurisdizione, e specialmente tra
l'aspetto delle garanzie soggettive proprie della giurisdizione e il contenuto (ancora oggi da
taluno definito “sostanzialmente amministrativo” delle stesse. Quindi, al riconoscimento
della natura giurisdizionale si deve pervenire in primo luogo per il principio generale della
giurisdizionalità di ogni provvedimento di magistrato ordinario, che si ricava dall'art. 102
Cost.: tale principio, da un lato, esclude che ai magistrati ordinari spettino funzioni diverse
da quelle giurisdizionali e, dall’altro, ribadisce il monopolio della magistratura ordinaria
nell'esercizio delle funzioni giurisdizionali (salvi i casi eccezionali delle magistrature
speciali).

La giurisdizionalità dei procedimenti camerali si ripercuote anche sui problemi di


individuazione del loro oggetto, per la difficoltà di identificare, rispetto all'oggetto dei
processi di tutela normale, l'effettiva situazione giuridica sostanziale tutelata. A ben vedere,
ogni tutela camerale ha sempre ad oggetto situazioni giuridiche sostanziali imputabili a
singoli o anche a gruppi, che il giudice camerale o è chiamato a conoscere all'interno di una
più complessa vicenda negoziale o di diritto privato (con effetti che si producono all'interno
di quella) ovvero ad accertare (con effetti che incidono direttamente sui diritti coinvolti),
non nella pienezza del loro contenuto e con riferimento ad ogni potere, facoltà od altra
utilità spettanti al loro titolare, bensì esclusivamente in determinati “momenti” del loro
esercizio rigidamente tipizzati dalla legge, che necessitano di una particolare cognizione
esclusivamente rimessa al giudice camerale.

361.Il principio di tipicità e l'oggetto del procedimento camerale

La tipicità dell'oggetto delle fattispecie camerali (curandosi il legislatore di disciplinare non


solo i presupposti dell’intervento del giudice camerale, ma anche i contenuti e il regime di
efficacia dei relativi provvedimenti) svolge un ruolo determinante. Se è la legge a prevedere
ogni intervento del giudice camerale, ciò vuol dire che esso costituisce esercizio di funzione
giurisdizionale: ciò significa che il giudice camerale è chiamato a conoscere e decidere
sulle richieste di tutela di dette situazioni giuridiche sostanziali in un contesto di
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conflittualità che a volte è solo potenziale o “latente”, ma che può essere anche già in atto.
Se ciò che caratterizza la tutela camerale è di avere per oggetto il diritto non nell'integralità
del suo contenuto e con riferimento ad ogni possibile potere o facoltà spettante al suo
titolare, bensì rispetto ad un particolare e specifico momento del suo esercizio, cioè di avere
per oggetto uno specifico potere o facoltà che la legge riconosce al titolare del diritto
soggettivo, è attorno a tale oggetto che va verificata l'esistenza o meno del conflitto. Pur
limitato nella sua estensione e nel suo contenuto, il conflitto può sorgere o sullo stesso
potere o facoltà oggetto di tutela o anche sul rapporto tra questo potere e gli interessi di
natura pubblicistica la cui osservanza la legge impone al titolare del diritto.

Inoltre il conflitto può essere attuale, cioè già in atto al momento dell'intervento del giudice
camerale, o solo potenziale. Quando è solo potenziale, l'intervento del giudice camerale è
richiesto di norma in funzionale di controllo ex ante o ex post, cioè di verifica della
sussistenza o del rispetto dei presupposti legali per l'esercizio, futuro o già consumato, del
potere o della facoltà. Invece, quando il conflitto è già in atto, la contrapposizione tra
situazioni giuridiche sostanziali facenti capo a diversi soggetti è direttamente sottoposta alla
cognizione del giudice camerale, al quale spetta il compito di risolverlo con la pronuncia di
un provvedimento che incide in via diretta ed immediata sulle situazioni in gioco da lui
conosciute.

In definitiva, la tipicità costituisce vero e proprio carattere identificativo della tutela


camerale, in quanto fornisce la giustificazione del modo di operare delle fattispecie
camerali. Intervenendo a tutela di specifici e predeterminati poteri o facoltà a disposizione
di chi assume essere il titolare del diritto soggettivo, la legge vuole sottrarre tali poteri o
facoltà alla tutela normale, per consentire al giudice camerale di pronunciare quei
provvedimenti (di norma anch'essi predeterminati nel loro contenuto) ritenuti necessari per
la tutela giurisdizionale degli stessi. La tipicità sta a significare non solo la consapevole
sottrazione del segmento del diritto soggettivo alla tutela normale, ma anche garanzia di
eccezionalità di una tutela giurisdizionale che,

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proprio in quanto comprime l’area della tutela normale, è chiamata ad operare in ambiti
rigorosamente predeterminati dalla legge. Ciò comporta che il rapporto tra tutela normale e
tutela camerale, lungi dall’essere di contrapposizione, sembra essere di complementarità.

362.Le possibili forme di “collegamento” con la tutela normale

La legge può disciplinare forme di “collegamento” tra tutela camerale e tutela normale,
prevedendo, successivamente o anche contestualmente all’intervento del giudice camerale,
determinate modalità di esercizio della tutela normale. In particolare il collegamento può
avvenire:

a. attraverso la previsione di fasi a cognizione piena. In questi casi la legge


indica, in epoca successiva o anche contestuale all'intervento del giudice
camerale, le modalità di esercizio della tutela normale, con le quali si
introducono spazi più o meno ampi di cognizione piena. La richiesta di tutela
al giudice contenzioso (da parte degli stessi titolari dei diritti in gioco o anche
di terzi) costituisce il limite all'ulteriore esercizio dei poteri camerali e può
attribuire al giudice contenzioso il potere di decidere anche sulla stessa
vicenda oggetto di cognizione da parte del giudice camerale
b. con la trasformazione del procedimento da camerale a ordinario. In queste
ipotesi è la stessa legge a disporre la trasformazione del procedimento da
camerale a ordinario: ad es. l’art. 725 c.p.c., in tema di assenza, prevede che
le domande per apertura di atti di ultima volontà o per immissione nel
possesso temporaneo di beni siano avanzate da “altri interessati”. Il giudizio
“si svolge nelle forme ordinarie in contraddittorio di coloro che sarebbero
eredi legittimi”.

Ratio di queste previsioni è quella di consentire che la lite sia sottoposta alla cognizione del
giudice della tutela normale, in ragione della natura ed estensione della controversia.

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363.La cognizione camerale

Da più parti viene prospettata una vera e propria “analogia” tra cognizione camerale e
cognizione sommaria, per lo più per giustificare la possibile incisione di diritti soggettivi in
sede camerale e consentire che gli stessi diritti soggettivi incisi o sacrificati possano essere
sempre oggetto di tutela normale. Eppure:

a. se la sommarietà viene intesa in funzione della provvisorietà della tutela, cioè


dell’aspirazione del provvedimento sommario a trasformarsi in definitivo,
non può certo dirsi che il provvedimento camerale sia sommario, in quanto
esso è destinato (ad eccezione delle ipotesi in cui è espressamente prevista
una successiva tutela normale) a fornire effetti che la stessa legge sembra
considerare definitivi, cioè effetti che esauriscono il contenuto della tutela, a
prescindere dal regime di instabilità della pronuncia e dai controlli interni al
procedimento
b. se la sommarietà viene riferita alla superficialità della cognizione, deve
ancora escludersi l’analogia tra provvedimenti camerali e provvedimenti
sommari contenziosi, in quanto, se per questi ultimi i poteri cognitivi si
misurano rispetto a quelli della cognizione normale, il provvedimento
camerale viene emesso sulla base di una cognizione che la legge reputa in sé e
per sé sufficiente per questo tipo di tutela
c. se la sommarietà viene riferita al potere di assumere “informazioni” che l’art.
738 co. 3° assegna al giudice camerale (allo stesso modo col quale l’art. 669
sexies attribuisce al giudice della cautela il potere di disporre “sommarie
informazioni”), la soluzione è la stessa, in quanto le informazioni acquisibili
nel corso del procedimento camerale costituiscono strumenti di conoscenza
“autosufficienti”, cioè che consentono la definizione del merito cautelare,
pervenendo al risultato definitivo cui quella tutela è

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destinata, senza che il materiale istruttorio così acquisito possa essere in una
successiva fase apprezzato secondo le regole tipiche della tutela normale.

In definitiva si deve escludere ogni assimilazione con i procedimenti sommari (cautelari e


non) e prendere atto che le caratteristiche della tutela camerale danno vita ad una forma di
tutela giurisdizionale in tutto autonoma rispetto a quella “normale”, che sfugge ad ogni
classificazione basata sui normali criteri della cognizione piena o sommaria. Essa integra
piuttosto una tutela “speciale”, rigidamente tipizzata dalla legge, che è tale in funzione della
specialità del suo oggetto e della conseguente necessità di predisporre particolari regole
procedimentali.

364.L'inidoneità al giudicato

Se l'oggetto di ogni tutela camerale va individuato in tipici poteri o facoltà che fanno parte
del più ampio contenuto del diritto soggettivo, deve escludersi la possibilità di applicare al
provvedimento camerale gli schemi tipici della tutela normale, a cominciare delle regole di
stabilità del provvedimento finale. Proprio in quanto il provvedimento camerale non accerta
diritti o status, ma soddisfa richieste di tutela che la legge predetermina rigorosamente
anche in relazione ai suoi possibili di esiti e contenuti, esso non aspira ad acquisire un
regime di stabilità: ciò per ragioni legate innanzitutto alla “sostanza” dei diritti in gioco,
che, consistendo esclusivamente in predeterminati poteri che i titolari degli stessi già hanno
a disposizione o hanno esercitato, non devono essere accertati nella loro appartenenza ai
detti titolari, ma solo con riferimento alla possibilità e alle modalità del loro esercizio, che
può confliggere o già contrasta con interessi pubblici o superindividuali. Anzi, vi è
un’esigenza opposta a quella della stabilità, in quanto l’accertamento camerale è dalla legge
calato nel dinamismo dei diritti ad esso sottoposti: il provvedimento camerale deve tener
conto dei possibili mutamenti che si determinano a seguito dello stesso. Quanto detto
spiega la specialità dei provvedimenti camerali e in particolare la loro inidoneità al
giudicato, nel senso che la sottoposizione dei provvedimenti camerali all'opposta regola
della revocabilità e modificabilità (art. 742) costituisce conseguenza necessaria del modo di
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essere e di operare della tutela camerale.

365.Autonomia e specialità della tutela camerale. Necessità di superare la


contrapposizione tra giurisdizione “contenziosa” e “non contenziosa”

Si è detto che la tutela camerale costituisce tutela speciale: specialità da ricollegare alla sua
tipicità, cioè all’eccezionalità di una tutela che, per il suo particolare oggetto, trova nella
legge la sua fonte esclusiva, sia quanto a presupposti di accesso, sia per i contenuti della
tutela. Ciò comporta la necessità di riconoscere autonomia alla tutela camerale, innanzitutto
rispetto alla tutela normale, con cui concorre senza contrapporsi: se la legge tipizza una
forma di tutela camerale, ciò significa che ritiene di isolare un segmento del diritto
soggettivo e di tutelarlo cameralmente, senza che ad essa possa seguire o sovrapporsi la
tutela normale in difetto di espressa previsione.

Sul piano sistematico, tale ricostruzione impone di espungere da questa area tutte quelle
forme di tutela camerale considerate tali solo per i richiami alle forme camerali ex artt. 737
ss., le quali, non avendo quegli stessi caratteri identificativi (e, in particolare, decidendo su
diritti soggettivi e status secondo tecniche tipiche della tutela normale, a cominciare
dall’idoneità al giudicato), devono essere considerate forme speciali di tutela normale,
estranee all’area della giurisdizione camerale. Continuare a parlare di tutele “non
contenziose” distinte da quelle “contenziose” può essere fonte di equivoci, in quanto il
giudice camerale (al di fuori dei casi di tutele autorizzative e omologatorie) risolve veri e
propri conflitti, sebbene non investano il diritto soggettivo nel suo integrale contenuto.

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366.Le tutele autorizzative-omologatorie

I diversi caratteri funzionali e strutturali del provvedimento camerale impongono di


distinguere le tutele autorizzative-omologatorie e le tutele risolutive di conflitti. Le prime
identificano quei provvedimenti camerali che si pongono quale presupposto per il
perfezionamento o l'efficacia di atti o fattispecie di diritto privato. Esse ricomprendono ogni
ipotesi in cui un provvedimento camerale è chiamato ad integrare una fattispecie negoziale,
cioè a consentire che un atto di autonomia privata sia capace, solo dopo il controllo
giudiziario, o di perfezionarsi o di produrre i suoi effetti o alcuni di essi. Si pensi ad es. ai
decreti di autorizzazione al compimento degli atti negoziali in favore dei legali
rappresentanti di minori ed incapaci. In questi casi la funzione della tutela camerale assume
carattere preventivo, essendo diretta ad evitare l'insorgere di future controversie attorno al
diritto soggettivo a monte. Tale funzione non va comunque confusa con quella che
caratterizza il processo cautelare, in quanto, mentre la prima si ricollega allo scopo generico
di evitare l’insorgere di future liti a contenuto non determinato, né determinabile e tra
soggetti nemmeno individuati né individuabili, la seconda è legata al fine specifico di
tutelare il diritto in sé considerato, rispetto ad un pregiudizio non ancora attuale, ma già
prospettabile nei suoi contenuti oggettivi e soggettivi (il che giustifica il rapporto di
strumentalità tra la cautela concessa e la tutela di merito).

367.Le tutele risolutive di conflitti

Risolutive di conflitti sono quelle tutele camerali (e i relativi provvedimenti), che danno
luogo a “compiute fattispecie”, che si pongono quali forme autonome e speciali di tutela
giurisdizionale di diritti soggettivi in particolari momenti di esercizio o di non esercizio
degli stessi, in occasione dei quali entrano o possono entrare in conflitto con interessi
pubblici o superindividuali. Si tratta di forme di tutela che incidono immediatamente sulla
realtà sostanziale secondo regole ad esse proprie, non assimilabili a quelle della tutela
normale o sommaria. Si pensi ad es. ai provvedimenti di nomina di un amministratore della
cosa comune, ai provvedimenti in materia di potestà genitoriale o alla dichiarazione di
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assenza o di morte presunta. Le tutele in esame sono dirette a risolvere e sanzionare un


conflitto determinato da una situazione di “crisi” tipicamente predeterminata dal legislatore.
I diritti soggettivi o status si presentano alla cognizione del giudice camerale con
“modalità” e in “occasioni” diverse rispetto a quelle tipiche della tutela normale, in quanto
tali situazioni sono per volontà di legge conosciute dal giudice camerale non solo quali
diritti o status facenti capo al singolo individuo, nella loro dimensione puramente
“privastitica”, bensì quali diritti il cui concreto esercizio si pone, nelle vicende prese in
considerazione dalla norma, in collegamento inscindibile con interessi pubblicistici o
superindividuali, la cui valutazione deve, sempre per volontà di legge, essere operata al
momento della decisione.

368.Il pubblico ministero

Sono molteplici e rilevanti le funzioni che il p.m. è chiamato a svolgere nei procedimenti in
camera di consiglio:

a. in primo luogo, spetta al p.m. il potere di iniziativa nei casi in cui la legge
attribuisce ad esso un vero e proprio potere di azione (ad es. artt. 48 e 50). In
questi casi il p.m. non agisce per ottenere la prevalenza di uno o dell’altro
degli interessi sui quali andrà ad incidere il provvedimento, ma per consentire
al giudice camerale di esercitare i poteri che la legge gli attribuisce per
neutralizzare le “patologie” tipiche descritte nelle norme sostanziali
b. in secondo luogo, il p.m. ha il potere di intervento obbligatorio nei casi
previsti dalla legge e facoltativo in ogni procedimento “in cui ravvisa un
pubblico interesse” (art. 70 co. 3°). La legge può richiedere la partecipazione
necessaria del p.m., a pena di nullità, o la sua audizione, facendo obbligo al
giudice

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camerale di acquisire il parere del p.m.

369.I principi del “giusto processo camerale”

L'art. 111 Cost. impone di applicare le regole del giusto processo tenendo conto delle
caratteristiche di ciascuna forma di tutela giurisdizionale, per cui dobbiamo qui guardare ai
principi del “giusto processo camerale”. Così:

a. con riferimento al principio che “la giurisdizione si attua mediante il giusto


processo regolato dalla legge”, la riserva di legge in materia di disciplina del
processo trova attuazione, nei procedimenti camerali, attraverso la tipicità di
ogni forma di tutela camerale
b. con riferimento alla garanzia del contraddittorio, l'art. 111 Cost. impone che
ogni pronuncia senza contraddittorio possa essere costituzionalmente
legittima solo a condizione che il provvedimento pronunciato inaudita altera
parte possa essere poi non solo modificato, ma anche integralmente rimosso a
seguito dell'instaurazione differita del contraddittorio. Lo stesso principio
implica il necessario rispetto da parte del giudice camerale delle fondamentali
esigenze del diritto di difesa, dal quale tra l'altro deve conseguire:
o l'obbligo di immediata comunicazione, nei casi in cui il procedimento abbia
avuto inizio su impulso ufficioso, al o ai soggetti futuri destinatari degli effetti
del provvedimento, dell'avvenuta pendenza del procedimento, con invito agli
stessi di esercitare il diritto di difesa
i. l'obbligo (anche al di fuori dei casi in cui è la legge a prevederla
espressamente) di disporre l'audizione delle parti, quando sia richiesta
da una di esse o dal p.m. Se il suo mancato esperimento nei casi di
audizione obbligatoria ex lege comporta la nullità del procedimento,
analogo vizio si potrà determinare anche laddove la richiesta di
audizione sia avanzata dalle parti o dal p.m., se il mancato esperimento
abbia inciso sul diritto di difesa di una delle parti.
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370.Cenni alle regole del procedimento

Salvo che non sia diversamente disposto, anche nel procedimento camerale vige il principio
della domanda, quale potere monopolistico della parte di dare impulso al processo e alla
conseguente richiesta di tutela, ma con valenza e portata diverse da quelle che lo stesso
principio ha in sede di tutela normale. Con la “domanda” camerale l’istante ha facoltà di
agire solo per il conseguimento di quei “risultati” tipici che la legge espressamente prevede,
essendo la domanda vincolata nel contenuto alla previsione normativa che delimita caso per
caso l’ambito del potere del giudice nel caso concreto. Quando la giurisdizione camerale si
può muovere solo su domanda privata, è indubbio che questa è ritirabile, con conseguente
estinzione del procedimento; opposta è la soluzione nelle ipotesi di istanza del p.m., dato
che quest’organo opera in situazioni in cui la giurisdizione è ex lege necessaria e officiosa,
per cui, una volta sollecitato, il giudice ha comunque il dovere di provvedere, quali che
siano le conclusioni del p.m.

Mancano regole generali sullo svolgimento del procedimento e sulle attività che il giudice
camerale è tenuto a compiere: la legge ha voluto impedire il rigido e predeterminato
frazionamento del procedimento camerale in più fasi tra loro distinte, assegnando al giudice
il potere di modellare l'iter di svolgimento più idoneo al raggiungimento delle finalità di
ciascuna tutela, tenendo conto delle esigenze del singolo caso concreto. A ben vedere,
l’atipicità del procedimento è giustificata proprio dalla tipicità delle singole forme di tutela
camerale, nel senso che il potere giudiziario di modellare il singolo procedimento, lungi
dall’essere affidato alla totale discrezionalità del giudice, deve tener conto dei contenuti
tipici della tutela e degli interessi pubblici in gioco. Il co. 3° dell'art. 738 c.p.c. consente al
giudice camerale di assumere “informazioni”, che possono consistere in

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ogni mezzo di prova, anche atipico, le cui regole di assunzione non sono quelle ordinarie,
potendo essere stabilite di volta in volta dal giudice anche in relazione alle esigenze del
singolo procedimento. La forma del provvedimento camerale è di norma quella del decreto
motivato, ma la legge può prevedere anche la forma dell'ordinanza. L’art. 741 prevede che
il decreto pronunciato all'esito del procedimento camerale acquista efficacia quando sia
decorso il termine per la proposizione del reclamo, salvo che il giudice per ragioni
d'urgenza disponga l'efficacia immediata dello stesso.

371.Il reclamo

Il reclamo costituisce strumento di controllo endoprocedimentale che l'art. 739 attribuisce


alla cognizione del giudice superiore (cioè tribunale nei confronti dei decreti del giudice
tutelare e corte d’appello avverso i decreti pronunciati dal tribunale), al quale è devoluto in
modo pieno e automatico l'intero oggetto della tutela e del giudizio che su di essa si è svolto
in prima istanza. Quindi alla funzione di riesame è “naturalmente” collegata la pienezza dei
poteri e delle prerogative che la legge riconosce al giudice camerale

Proprio in quanto la fase di reclamo costituisce prosecuzione del giudizio camerale svoltosi
davanti al primo giudice, ogni istanza di modifica e di revoca deve essere proposta, una
volta investito il giudice del riesame, solo a quest'ultimo, con contestuale sottrazione dello
stesso potere al primo giudice fino alla pronuncia del provvedimento in sede di reclamo. La
legittimazione al reclamo spetta a ciascun soggetto che abbia acquisito la qualità di parte
nel procedimento a conclusione del quale è stato emesso il provvedimento reclamato. Al
carattere di piena devoluzione si accompagna quello di sostituzione del provvedimento
reclamato, che, oltre ad essere conseguenza necessaria del riconoscimento al giudice del
reclamo degli stessi poteri già in capo al primo giudice, sembra potersi ricavare anche dalla
previsione circa l’efficacia dei decreti, che l’art. 741 attribuisce, salvo ragioni d’urgenza,
solo quando siano inutilmente decorsi i termini di proposizione del reclamo. Anche nel
procedimento di reclamo deve essere rigorosamente osservato il principio del
contraddittorio. In tutti i casi nei quali il provvedimento oggetto di reclamo è
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immediatamente esecutivo, il presidente del collegio di reclamo può disporre, con decreto
la sospensione degli effetti in presenza di grave danno. Il provvedimento reso in sede di
reclamo è sottratto a qualsiasi impugnazione, compresa quella ex art. 111 Cost.

372.Il potere di revoca e/o di modifica

Il potere di revoca e di modifica trova il suo fondamento nella necessità di consentire in


ogni momento al giudice camerale il controllo, senza la previa individuazione dei criteri
che debbono governarne l'esercizio, dei requisiti di legittimità e/o opportunità che debbono
sussistere anche in epoca successiva alla pronuncia dell'atto. La ratio di tale necessità va
ricercata nelle caratteristiche dell’oggetto e delle finalità della tutela, la quale, essendo
diretta a dare tutela a singoli poteri o facoltà che fanno parte del diritto soggettivo,
l’esercizio dei quali interferisce con interessi pubblici o superindividuali, deve consentire al
giudice di tener conto di ogni sopravvenienza che comporti l’opportunità o addirittura la
necessità di adeguare il contenuto della tutela già emessa, con ciò privilegiando non la
stabilità della stessa, ma la sua idoneità a perseguire lo scopo voluto dall’ordinamento. La
revoca e la modifica costituiscono sub-procedimenti ai quali è possibile accedere sul
presupposto della non consumazione del potere decisorio che la legge assegna al giudice
camerale: pur avendo pronunciato il provvedimento, il giudice camerale resta investito di
quello stesso potere fino al momento in cui esso abbia esaurito i propri effetti e realizzato le
finalità della tutela. La revoca e la modifica sono possibili tutte le volte in cui sia ancora
possibile paralizzare (in tutto o in parte) gli effetti del provvedimento già emesso, con
decorrenza ex tunc se i vizi sono originari ed ex nunc se la revoca o modifica sono
determinate da circostanze sopravvenute.

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PARTE DECIMA: LA TUTELA ESECUTIVA

CAP. 36: IL TITOLO ESECUTIVO E LE ATTIVITÀ PRODROMICHE


ALL’ESECUZIONE FORZATA

373.Natura giurisdizionale dell'esecuzione forzata e sua collocazione sistematica

Ogni sistema giurisdizionale deve prevedere, accanto alle tutele di cognizione normale e a
quelle sommarie, ulteriori forme di tutela, dirette a far ottenere al titolare del diritto, contro
la volontà del soggetto obbligato e senza alcuna collaborazione da parte sua, il concreto
soddisfacimento di quel diritto, e cioè (ripetendo le parole di Chiovenda) "tutto quello e
proprio quello che egli ha diritto di conseguire” secondo la legge sostanziale. Il nostro
ordinamento contiene norme sull'esecuzione forzata sia nel libro VI del codice civile sia nel
libro III del codice di procedura civile. Entrambi i codici distinguono all'interno del genus
esecuzione forzata, le due specie costituite dall'espropriazione forzata e dall'esecuzione
forzata in forma specifica, che, pur nella diversità dei diritti tutelati e delle modalità di
coattiva realizzazione degli stessi, si caratterizzano entrambe per l'attività surrogatoria che
un terzo compie al posto dell'obbligato. I processi in esame, al parti del processo di
cognizione, sono preordinati alla tutela di diritti soggettivi, si svolgono su impulso di parte
nel rispetto del contraddittorio davanti a organi giudiziari e si concludono con
provvedimenti del giudice. Essi costituiscono esercizio di funzioni giurisdizionali
“necessarie”, anche se le attività materiali dell'esecuzione forzata previste dalla legge sono
o possono essere compiute da terzi estranei all'ordine giudiziario, ai quali il giudice
conferisce apposito incarico con le modalità stabilite dalla legge.

La disciplina del processo esecutivo è stata fortemente interessata dalle riforme processuali
del 2005 e del 2006, ma recentemente il legislatore è nuovamente intervenuto sulla materia:
con la l. 162/2014 si è inteso, da un lato, velocizzare le procedure esecutive col dichiarato
obiettivo di rafforzare l’efficienza e l’economicità del processo esecutivo e, dall’altro,
estendere alla materia esecutiva le regole del processo civile telematico.

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374.L’esecuzione c.d. indiretta

Si parla di esecuzione “indiretta” per indicare il complesso delle misure coercitive intese
come strumenti, alternativi all’esecuzione forzata, diretti a premere sulla volontà
dell’obbligato, cioè a provocarne l’adempimento spontaneo attraverso l’inasprimento della
sanzione che elimini o quantomeno riduca il suo interesse a porre in essere una condotta
contraria al diritto. Il più significativo strumento dell’esecuzione indiretta è oggi previsto
dall’art. 614 bis (rubricato “Misure di coercizione indiretta”), che attribuisce al giudice, su
richiesta di parte, il potere di fissare col provvedimento di condanna, salvo che ciò sia
manifestamente iniquo, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o
inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento.
Quest’ultimo costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni
violazione o inosservanza. Tali previsioni non si applicano alle controversie di lavoro
subordinato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa. Si tratta di una misura
coercitiva a carattere generale, volta evidentemente a favorire la conformazione a diritto
della condotta della parte inadempiente. Il giudice determina l’ammontare della somma
dovuta tenendo conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno
quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile. Quanto alla disciplina
processuale, va osservato che l’ultimo momento utile per la proposizione dell’istanza è
rappresentato dall’udienza di precisazione delle conclusioni ovvero dall’udienza di
discussione della controversia. La misura può essere chiesta per la prima volta anche in
appello o eventualmente nel giudizio di rinvio.

L’ordinamento conosce anche ipotesi particolari di misure coercitive (ad es. la clausola
penale), le quali però, non presupponendo alcuna attività da parte di organi giudiziari, si
pongono al di fuori dell’esecuzione forzata.

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375.Il titolo esecutivo in generale. Certezza, liquidità ed esigibilità del diritto

L'art. 474 c.p.c. stabilisce il principio fondamentale che l'esecuzione forzata non può avere
luogo che in virtù di un titolo esecutivo (“nulla executio sine titulo”) avente ad oggetto un
diritto certo, liquido ed esigibile. In quanto condizione necessaria del processo esecutivo, il
titolo esecutivo:

a. deve esistere nel momento in cui l’esecuzione è minacciata con la


notificazione dell’atto di precetto e in cui è iniziata con l’introduzione del
processo esecutivo
b. non si può formare successivamente, salvo che vada a sostituire il titolo
esecutivo provvisorio posto originariamente a base dell’esecuzione
c. deve permanere per tutta la durata dell’esecuzione.

Nell’esigere che ogni processo di esecuzione sia promosso solo sulla base di un titolo
esecutivo, la legge vuole contemperare la duplice esigenza che la tutela dei crediti sia
ragionevolmente rapida e che sia però limitata al massimo l’ingiustizia dell’esecuzione. Per
decenni si è discusso circa la ricostruzione del titolo esecutivo tra chi lo qualificava come
atto di accertamento del diritto, chi come documento, chi come atto costitutivo della
sanzione derivante dall’inadempimento. Invero il titolo esecutivo rappresenta la condizione
necessaria e sufficiente per accedere all'esecuzione forzata, una volta che essa sia stata
promossa con l'esibizione agli organi competenti del documento che per legge rappresenta
tale atto, nell'ambito di un fenomeno di c.d. astrazione. L’art. 474 esige che i diritti
documentati nel titolo esecutivo abbiano tre caratteristiche:

d. la certezza, da intendersi non in senso assoluto, come equivalente


all’incontestabilità del diritto (basti pensare ai titoli esecutivi c.d. provvisori,
come ad es. le sentenze ancora soggette ad impugnazione), ma come
indicativa di un certo grado di “affidabilità” circa l’esistenza del diritto
rappresentato dal titolo
e. la liquidità, la quale richiede che la prestazione dovuta dal debitore sia
determinata nel suo ammontare (o nella sua quantità per quanto riguarda i

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crediti di cose fungibili), anche se tale caratteristica può ritenersi sussistente


anche qualora l'importo possa essere ricavato con un'operazione aritmetica in
base a dati contenuti nel titolo stesso ovvero anche in base a dati ad esso
estranei, ma desumibili da leggi (ad es. la misura dell’Iva) o da provvedimenti
ufficiali (ad es. gli indici di rivalutazione monetaria pubblicati dall’Istat)
f. l'esigibilità, la quale presuppone che non vi siano impedimenti all'esercizio
del diritto portato dal titolo esecutivo, cioè che il diritto non sia soggetto a
termine o a condizione sospensiva.

376.L'astrazione del titolo esecutivo. La regola nulla executio sine titulo

L'astrazione del titolo esecutivo dal diritto che esso rappresenta è quel fenomeno in base al
quale il documento rappresentativo del titolo equivale di per sé al diritto alla prestazione,
senza che l'adempimento possa essere paralizzato dall'inesistenza “effettiva” di quel diritto
(cioè del rapporto “sottostante” al “titolo astratto”). Perciò il titolo esecutivo rappresenta la
condizione necessaria e sufficiente per accedere all'esecuzione forzata, una volta che essa
sia stata promossa con l'esibizione agli organi competenti del documento che per legge
rappresenta tale atto. La conseguenza è che ogni contestazione che incida sull'esistenza del
diritto che con l'esecuzione forzata si vuol soddisfare o sulla perdurante validità o efficacia
del titolo esecutivo va sollevata e trattata in giudizi di cognizione, che rimangono estranei al
processo esecutivo e non possono di per sé paralizzarlo. Gli organi dell'esecuzione devono
procedere solo in base al titolo, cioè usare i mezzi processuali per la soddisfazione della
parte istante esattamente così come risulta dal titolo. Di conseguenza il fenomeno
dell'astrazione del titolo svolge funzioni di garanzia per il soggetto passivo dell'esecuzione
e per i terzi, nel senso che costituisce limite invalicabile per gli organi preposti
all'esecuzione forzata. Il soggetto passivo dell'espropriazione forzata, infatti, riceve dal
titolo la garanzia che non si può procedere per somme eccedenti

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il diritto accertato nello stesso e gli accessori legali, ma le funzioni garantistiche del titolo
valgono soprattutto per i terzi: l’art. 474 stabilisce la regola generale che nessuno può
subire espropriazione per l’attuazione forzata di un obbligo a cui non risulti soggetto da uno
dei titoli descritti nello stesso art. 474. Infatti un’espropriazione forzata che si svolgesse nei
confronti di chi non ha partecipato alla formazione del titolo (c.d. ultra partes) priverebbe i
terzi della già menzionata garanzia della “nulla executio sine titulo”, assoggettandoli a
poteri esecutivi degli organi giudiziari e dei loro ausiliari messi in moto dalla mera
affermazione di chi si vanta creditore. Il discorso non si estende all’esecuzione contro
l’erede e contro ogni altro successore universale dell’obbligato: l’art. 477 disciplina la
successione nel lato passivo, prescrivendo che il titolo esecutivo formato contro un soggetto
successivamente defunto abbia efficacia anche contro gli eredi. Infine, l’art. 2910 c.c.
contrappone, come oggetto dell’espropriazione, tutti i beni del debitore (co. 1°), coi quali
egli risponde dell’adempimento, a quei determinati beni di un terzo (co. 2°) vincolati a
garanzia del credito od oggetto di un atto revocato perché compiuto in pregiudizio del
creditore, escludendo implicitamente che, nel corso dell’esecuzione contro chi risulti
debitore in base al titolo, si possano espropriare beni di terzi, in ragione di una
responsabilità patrimoniale per l’altrui debito non ancora concretata su singoli beni.

377.Titoli esecutivi giudiziali e stragiudiziali

Ai sensi dell'art. 474 co. 2° c.p.c., i titoli esecutivi si distinguono in giudiziali e


stragiudiziali, a seconda che essi si formino all'esito o nel corso dello svolgimento di un
processo di cognizione davanti al giudice ovvero al di fuori e a prescindere da questo
(perciò si parla anche di titoli convenzionali). I titoli esecutivi giudiziali sono:

a. sentenze: l'efficacia esecutiva in questione è quella che ex art. 282 assiste le


sentenze di 1° grado e che è definita “provvisoria” perché è possibile la
riforma, totale o parziale, delle sentenze stesse all'esito del giudizio di
impugnazione
b. i provvedimenti del giudice ai quali la legge attribuisce espressamente
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efficacia esecutiva. Perché un provvedimento giurisdizionale, diverso dalla


sentenza, possa costituire titolo esecutivo, è necessaria l'espressa attribuzione
di tale qualità da parte della legge (si pensi al decreto ingiuntivo dichiarato
esecutivo in via provvisoria o alle ordinanze per il pagamento di somme non
contestate). Parte della dottrina fa rientrare in questa tipologia anche i verbali
di conciliazione giudiziale, che contengono accordi che le parti raggiungono
con l’intervento del giudice. Non possono considerarsi titoli esecutivi
giudiziali i provvedimenti cautelari, nonostante essi abbiano la capacità di
incidere immediatamente sulla realtà sostanziale anche contro la volontà del
soggetto passivo, in quanto detti provvedimenti non hanno funzione di
anticipata soddisfazione del diritto, ma sono finalizzati a preservarlo
nell'attesa che su di esso si pronunzi un giudice di merito. Secondo il diritto
vivente, il titolo esecutivo giudiziale non si identifica né si esaurisce nel
documento giudiziario in cui è consacrato l’obbligo da eseguire, essendo
consentita l’interpretazione extratestuale del provvedimento, sulla base degli
elementi ritualmente acquisiti nel processo in cui esso è formato.

I titoli esecutivi stragiudiziali o convenzionali sono:

 le cambiali e gli altri titoli di credito ai quali la legge attribuisce espressamente


efficacia esecutiva
 le scritture private autenticate, relativamente alle obbligazioni di somme di denaro in
esse contenute. La scrittura privata è autenticata quando la sottoscrizione è
autenticata da notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato, i quali devono
attestare che la sottoscrizione è stata apposta dal soggetto di cui deve essere
previamente accertata l’identità. Il testuale riferimento che l’art. 474 fa alla scrittura
privata autenticata indurrebbe ad escludere che possa essere considerato titolo
esecutivo anche la scrittura privata riconosciuta in giudizio e quella sottoposta con
esito positivo al giudizio di verificazione. D’altro canto, la tendenza legislativa alla
diffusione dei titoli stragiudiziali come strumento di

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realizzazione dell’economia dei giudizi, induce a propendere per l’estensione del


riconoscimento dell’efficacia di titolo esecutivo a tutte le scritture private aventi la
medesima efficacia probatoria di quelle autenticate
 gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a
riceverli. Si tratta di atti negoziali, anche unilaterali, ai quali l’art. 474 estende
l'idoneità a fondare l’esecuzione forzata, oltre che per il pagamento di somme di
denaro, anche per la consegna o rilascio.

378.Il titolo esecutivo europeo (TEE) ed il titolo esecutivo comunitario

Il Regolamento 805/2004 ha istituito il titolo esecutivo europeo per i crediti non contestati,
che può assumere natura giudiziale o stragiudiziale. Il Regolamento intende consentire
attraverso la definizione di norme minime la libera circolazione delle decisioni giudiziarie,
delle transazioni giudiziarie e degli atti pubblici relativi a crediti non contestati in tutti gli
Stati membri, senza che siano necessari, nello Stato membro dell'esecuzione procedimenti
intermedi per il loro riconoscimento e l'esecuzione. Ora, per “decisione” si intende, a
prescindere dalla denominazione usata, qualsiasi provvedimento emesso da un giudice di
uno Stato membro. Per quanto riguarda la nozione di “credito”, l’art. 4 prevede la
possibilità di certificazione del TEE soltanto per i titoli esecutivi incorporanti una condanna
al pagamento di un credito di natura pecuniaria liquido ed esigibile. Ai sensi del
Regolamento, un credito si considera “non contestato” se:

a. il debitore l'ha espressamente riconosciuto mediante una dichiarazione o


mediante una transazione approvata dal giudice o conclusa dinanzi al giudice
nel corso di un procedimento giudiziario
b. il debitore non l'ha mai contestato nel corso del procedimento giudiziale
c. il debitore non è comparso o non si è fatto rappresentare in un'udienza
relativa a un determinato credito, pur avendo contestato inizialmente il credito
stesso nel corso del procedimento
d. il debitore l'ha espressamente riconosciuto in un atto pubblico.
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Il titolo esecutivo europeo non va confuso col titolo esecutivo comunitario: alcuni atti
dell'ordinamento UE aventi natura amministrativa o giurisdizionale (ad es. le sentenze di
condanna emanate dalla Corte di giustizia) sono idonei a fondare l'esecuzione forzata e
assumono la natura di titoli esecutivi; la relativa esecuzione si svolge poi nelle forme dei
processi esecutivi nazionali e sotto il controllo delle singole autorità giudiziarie degli stati
membri, fatta salva la sospensione dell'esecuzione, che resta attribuita in esclusiva alla
giurisdizione delle Corti comunitarie. Pertanto si discute se si possa correttamente parlare di
“titolo esecutivo dell’UE” o semplicemente di titolo esecutivo nazionale di formazione
europea. La disputa sembra avere per lo più valore nominalistico: da un lato, non
disponendo l’ordinamento comunitario di un suo sistema esecutivo, i predetti atti
necessitano nei singoli ordinamenti della collaborazione delle autorità locali; dall’altro lato,
il titolo esecutivo che trova la sua fonte nell’ordinamento UE è idoneo a promuovere
l’esecuzione forzata in tutti gli Stati membri.

379.Le attività prodromiche all'esecuzione: spedizione in forma esecutiva e notifica


dell’atto di precetto

Le sentenze e gli altri provvedimenti emessi dall'autorità giudiziaria, nonché gli atti ricevuti
da notaio o da altro pubblico ufficiale e le scritture private autenticate, “per valere come
titolo per l'esecuzione forzata”, debbono essere muniti della formula esecutiva, cioè
ricevere da parte del cancelliere ovvero del notaio o pubblico ufficiale l'apposizione, dopo
l'intestazione "Repubblica Italiana. In nome della legge", del c.d. "comandiamo", che è
l'ordine a tutti gli ufficiali giudiziari che ne siano richiesti e a chiunque spetti di mettere in
esecuzione il titolo, nonché al p.m., di darvi assistenza, e a tutti gli ufficiali della forza
pubblica di concorrervi quando “ne

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siano legalmente richiesti” (art. 475). Si tratta della c.d. spedizione in forma esecutiva, che
ha la finalità di rendere individuabile quella, tra le possibili copie destinate ad altri fini, che
sarà utilizzata per promuovere il processo di esecuzione forzata. L'atto successivo,
prodromico dell’esecuzione forzata, è rappresentato dal precetto, che è un atto formato
dalla parte che ha già conseguito un titolo esecutivo giudiziale o stragiudiziale. Secondo
l'art. 480 c.p.c., l'atto di precetto, che deve contenere tutti i requisiti idonei ad individuare le
parti e il titolo esecutivo in base al titolo esecutivo, reca “l'intimazione di adempiere
l'obbligo risultante dal titolo esecutivo” entro un termine non minore di 10 giorni, con
l'avvertimento che, in difetto, si procederà ad esecuzione forzata. Si tratta di un atto
unilaterale e recettizio, indirizzato al debitore, chiamato a specificare la pretesa esecutiva
nel momento della minacciata esecuzione. Esso si pone al di fuori del processo esecutivo,
non avendo la capacità né la funzione di iniziarlo, anche se è ad esso prodromico e
preparatorio. Al precetto va riconosciuta natura composita, in quanto, pur nascendo come
atto sostanziale di intimazione all’adempimento, esso è in grado di produrre effetti sul
piano processuale.

Prima di dare avvio a qualsiasi forma di esecuzione forzata, la legge impone che, attraverso
la notificazione del titolo in forma esecutiva e del precetto, il creditore renda edotto il
soggetto passivo della propria volontà di procedere all'esecuzione forzata, non solo per
consentirgli di provvedere allo spontaneo adempimento dell’obbligo documentato, ma
anche per dargli la possibilità di proporre l'opposizione a precetto prima ancora che sia
iniziata l’esecuzione.

380.La successione nel titolo esecutivo

Il fenomeno della successione nel titolo esecutivo deve essere riguardato sia dal lato attivo
(cioè del creditore) che dal lato passivo (cioè del debitore). Cominciamo dalla successione
dal lato attivo: l'art. 475 c.p.c. consente che la spedizione in forma esecutiva del titolo possa
avvenire anche a favore del successore del creditore indicato nel titolo, “con indicazione in
calce della persona alla quale è spedito”. Il successore (mortis causa o inter vivos) può
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essere sia a titolo particolare sia a titolo universale. In entrambi i casi, se si tratta di titolo
giudiziale, il successore, anche se rimasto estraneo al processo di cognizione all’esito del
quale si è formato il titolo, può utilizzare il titolo formatosi in favore del suo dante causa ed
esercitare legittimamente l’azione esecutiva. A proposito del successore a titolo particolare,
va ricordato che l’art. 111 co. 4° prevede espressamente che la sentenza spiega sempre i
suoi effetti anche contro di lui, nel senso che la legge ha voluto considerare sia l'ipotesi che
il successore abbia comunque partecipato al processo di cognizione (acquisendo la qualità
di parte), sia l'ipotesi in cui il successore sia rimasto estraneo al processo. Se la successione
è mortis causa, potranno agire solo l'erede o il legatario, ma se la successione è inter vivos,
sono le parti che possono aver convenzionalmente attribuito ad un soggetto o all'altro il
diritto di agire in executivis.

Per quanto riguarda la successione dal lato passivo, occorre distinguere l'efficacia del titolo
esecutivo contro gli eredi da quella contro i successori a titolo particolare (inter vivos o
mortis causa) del debitore. Nella successione per causa di morte a titolo universale,
soccorre l'art. 477 c.p.c., che riconosce l'efficacia del titolo esecutivo, conseguito nei
confronti del defunto, anche contro gli eredi di quest'ultimo e impone al creditore
procedente il solo divieto di notificare loro il precetto prima di 10 giorni dalla notificazione
del titolo esecutivo. A differenza degli eredi, i successori a titolo particolare del debitore
non possono di norma essere soggetti all'osservanza di un qualsiasi titolo esecutivo
formatosi nei confronti del loro dante causa, stante il principio secondo il quale il titolo
esecutivo non produce i suoi effetti in danno di soggetti che non vi sono menzionati. Ma
l’art. 111 ultimo co. dispone che la sentenza pronunciata contro l’alienante spiega i suoi
effetti anche contro il successore a titolo particolare e, se la sentenza fatta valere come titolo
esecutivo può avere efficacia anche contro i successori a titolo particolare, consegue che il
processo esecutivo potrebbe iniziarsi anche nei confronti di questi ultimi.

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381.Le esecuzioni forzate speciali

L’art. 2910 c.c. dispone che il creditore, per conseguire quanto gli è dovuto, può fare
espropriare i beni del debitore, secondo le regole stabilite dal c.p.c. Tale rinvio apre però un
problema di coordinamento con quelle norme contenute in leggi speciali, che contemplano
forme numerose e, appunto, “speciali” di tutela esecutiva. Tra le ipotesi più diffuse di
esecuzioni forzate speciali possiamo menzionare:

a. l'esecuzione esattoriale, che riguarda la riscossione coattiva delle entrate degli


enti pubblici
b. l'espropriazione relativa a crediti fondiari. Attraverso tale procedura le banche
esercitano l'azione esecutiva sui beni ipotecati a garanzia di finanziamenti
fondiari
c. l'esecuzione forzata speciale sugli autoveicoli
d. l'espropriazione forzata su navi ed aeromobili, regolata dal codice della
navigazione.

Le diversità di trattamento non può che trovare giustificazione in un’altra norma del codice
civile, l’art. 2745, secondo il quale il privilegio è accordato dalla legge in considerazione
della causa del credito, la quale può giustificare l’attribuzione di cause di prelazione e la
deroga alla par condicio creditorum in sede di distribuzione della somma ricavata. Perciò la
diversità di trattamento trova la sua ratio nella “qualità” del creditore procedente e nelle
ragioni di tipo economico-politico-sociale che ne stanno a fondamento, anche se altre volte
l’esigenza perseguita dal legislatore è quella di introdurre forme processuali speciali in
relazione anche alla “qualità” del bene da esecutare. Le tutele esecutive presentano
un'eterogeneità di tecniche processuali: talora la legge prevede che si possa procedere ad
esecuzione in assenza di titolo esecutivo (ad es. esecuzione su autoveicoli) oppure senza la
previa notificazione del titolo esecutivo (ad es. esecuzione per credito fondiario).

382.Le c.d. esecuzioni senza titolo

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Si tratta di quelle fattispecie normative, di carattere eccezionale, nelle quali la soddisfazione


del diritto leso da una condotta inadempiente si viene a realizzare in assenza di qualsiasi
titolo esecutivo, giudiziale o stragiudiziale, oltre che di ricorso all'autorità giudiziaria. Si
parla anche (ma impropriamente) di esecuzioni “private” o di forme di “autotutela
esecutiva”. In realtà questi fenomeni sono di fonte esclusivamente negoziale, cioè
presuppongono l'assunzione di determinate obbligazioni nell'ambito di determinati rapporti
giuridici sostanziali e si svolgono secondo regole parimenti fissate dalla legge sostanziale.
In tal senso l’improprietà del termine “esecuzione” appare evidente, in quanto questi
fenomeni si svolgono previo esercizio di poteri e di facoltà regolati dalla legge sostanziale e
sempre sull’esclusivo presupposto che il bene da liquidare per la soddisfazione del credito
sia nella materiale disponibilità del titolare di questi poteri e facoltà. I modelli di
riferimento sono costituiti da:

a. vendita in danno. Se il compratore di cosa mobile non adempie l'obbligazione


di pagare il prezzo, l’art. 1515 c.c. attribuisce al venditore, sempre che abbia
la disponibilità della cosa stessa, il potere di “far vendere senza ritardo la cosa
per conto e a spese di lui”. La vendita è fatta all'incanto a mezzo di soggetto
autorizzato a tali atti o, in mancanza di essa, nel luogo in cui la vendita deve
essere eseguita, a mezzo di un ufficiale giudiziario. Il venditore deve dare
tempestiva notizia al compratore del giorno, del luogo e dell'ora in cui la
vendita sarà eseguita. Insomma il venditore può scegliere se esercitare il
potere di disporre la vendita in danno ovvero rivolgersi al giudice
b. acquisto in danno. Ex art. 1516, se la vendita ha per oggetto cose fungibili che
hanno un prezzo corrente, in caso di inadempimento del venditore, il
compratore può ricorrere all'esecuzione coattiva del contratto, facendo
acquistare le cose da uno dei soggetti attraverso i quali è possibile procedere
alla vendita in danno. Anche in tal caso si tratta comunque di mera facoltà,
essendo sempre possibile agire in via ordinaria per il risarcimento del danno.

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383.La c.d. esecuzione forzata senza revocatoria

Il d.l. 83/2015 (convertito nella l. 132/2015) ha inserito nel c.c. l’art. 2929 bis, rubricato
“Espropriazione di beni oggetto di vincoli di indisponibilità o di alienazioni a titolo
gratuito”. Pur essendo collocata all’interno del c.c., la norma contiene regole di spiccata
valenza processuale, in quanto attribuisce al creditore, fino ad oggi legittimato a tutelare la
garanzia del proprio credito mediante il rimedio dell’azione revocatoria ordinaria ex art.
2901 c.c., il potere di agire direttamente per via esecutiva nei confronti del debitore (ovvero
senza la previa instaurazione del giudizio a cognizione piena cui dà luogo l’esercizio
dell’azione revocatoria), aggredendo i beni che hanno formato oggetto di atti dispositivi,
rappresentati da atti di costituzione di vincolo di indisponibilità e da atti di alienazione. Ai
fini del corretto esercizio dell’azione esecutiva, è necessaria la sussistenza di certi
presupposti:

a. il creditore, il quale assume di essere stato pregiudicato da un atto dispositivo


del proprio debitore, deve essere munito di titolo esecutivo
b. l’atto pregiudizievole deve essere stato compiuto dal debitore a titolo gratuito
e successivamente al sorgere del credito
c. il debitore deve essere a conoscenza del pregiudizio che l’atto ha arrecato alle
ragioni del creditore
d. i beni oggetto di disposizione devono essere costituiti da immobili o mobili
iscritti in pubblici registri
e. l’atto di pignoramento avente ad oggetto i predetti beni deve essere stato
trascritto entro un anno dalla trascrizione dell’atto dispositivo posto dal
creditore a base del pregiudizio sofferto.

La tipologia di procedimento espropriativo da intraprendere muta in ragione della natura


dell’atto compiuto:

f. se l’atto pregiudizievole è dato dalla costituzione di un vincolo di


indisponibilità, occorrerà agire nelle forme dell’espropriazione mobiliare o
immobiliare presso il debitore
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g. invece, se il pregiudizio deriva da un atto di alienazione, il creditore dovrà


procedere nelle forme dell’espropriazione contro il terzo proprietario.

CAP. 37: L’ESPROPRIAZIONE FORZATA IN GENERALE

384.Il giusto processo esecutivo

La garanzie sul giusto processo sono estese anche al processo di esecuzione forzata, in
ragione del riferimento ad “ogni processo” contenuto nell’art. 111 Cost. Nell'ambito dei
principi sul giusto processo rientra anche quello sull'effettività della tutela, che ha riguardo
al risultato complessivo che gli strumenti apprestati dallo Stato sono in grado di assicurare
al cittadino per attuare la sua pretesa esecutiva e per conseguire in concreto quanto ha
diritto di ottenere. Anche nella giurisprudenza della Corte EDU si parla di “continuità
funzionale” tra cognizione ed esecuzione, per sottolineare la necessità di considerare il
livello di efficienza non solo degli strumenti di formazione dei titoli esecutivi giudiziali, ma
anche dei mezzi di concreta attuazione degli stessi. Le riforme del 2005 e 2006, nonché del
2014 e 2015, hanno introdotto diverse novità, specialmente con riguardo all’espropriazione
forzata, che del processo esecutivo rappresenta la magna pars.

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385.La responsabilità patrimoniale e la soddisfazione coattiva dei crediti

L'art. 2910 c.c. dispone che, per conseguire quanto gli è dovuto, il creditore “può fare
espropriare i beni del debitore, secondo le regole stabilite dal codice di procedura civile”,
cioè può dare impulso al processo di espropriazione forzata, che ha lo scopo di soddisfare
coattivamente il credito contro la volontà del debitore, trasformando in denaro i beni di
quest'ultimo. La soddisfazione coattiva dei crediti può avvenire solo in danaro, dando
attuazione alle norme sulla responsabilità patrimoniale per l'adempimento delle
obbligazioni (artt. 2740 e 2741 c.c.). Eppure non tutti i beni che sono oggetto della
responsabilità patrimoniale del debitore possono essere sottoposti ad espropriazione, la
quale, essendo strumento diretto alla soddisfazione del credito, non deve andare al di là dei
beni che in concreto sono sufficienti per far conseguire al creditore quanto gli è dovuto. Al
riguardo l’art. 483 c.p.c., se da un lato consente al creditore di valersi del cumulo dei mezzi
di espropriazione, cioè nello stesso tempo e in forza dello stesso titolo e dello stesso
precetto (ad es. aggredendo immobili, mobili e crediti del debitore, che separatamente
sarebbero inadeguati alla soddisfazione del credito), dall’altro lato attribuisce al giudice
dell’esecuzione, su opposizione del debitore, il potere di limitare l’espropriazione al mezzo
che il creditore scegliere o, in mancanza, a quello che lo stesso giudice determina. Del resto
l’avvio di più esecuzioni fondate sul medesimo titolo esecutivo, non giustificato da
particolari esigenze di effettiva tutela del credito, viola il principio di infrazionabilità del
credito originariamente unico, in quanto comporta un’indebita maggiorazione degli oneri a
carico del debitore.

386.Il giudice dell'esecuzione

L'espropriazione forzata, ai sensi dell’art. 484, “è diretta da un giudice” (il giudice


dell’esecuzione) le cui regole di individuazione sono contenute negli artt. 17 (per quanto
riguarda la competenza per valore) e 26 (per quanto riguarda la competenza per territorio,
che rientra tra i casi di competenza territoriale inderogabile). A seguito dell'istituzione del
giudice unico di 1° grado, le funzioni una volta attribuite al pretore sono oggi devolute al
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giudice dell'esecuzione presso il tribunale, che decide in funzione di giudice unico. In


relazione alle diverse tipologie di espropriazione forzata:

a. per l'espropriazione di beni immobili è competente il tribunale del luogo dove


gli immobili si trovano
b. per l'espropriazione di beni mobili è competente il tribunale del luogo ove essi
si trovano
c. per l’espropriazione di autoveicoli, motoveicoli e rimorchi è competente il
tribunale del luogo in cui il debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o
la sede
d. per l'espropriazione di crediti e di cose mobili del debitore che sono in
possesso del terzo è competente il tribunale del luogo in cui il debitore ha la
residenza, il domicilio, la dimora o la sede.

Ex art. 487 i provvedimenti emessi dal giudice dell'esecuzione sono normalmente assunti
con ordinanza, sono modificabili o revocabili finchè non abbiano avuto esecuzione e sono
soggetti a riesame mediante opposizione agli atti esecutivi. Tra le garanzie del giusto
processo richiamate dall'art. 111 Cost. vi sono anche quelle dell'imparzialità e della terzietà
del giudice: tali principi si estendono ovviamente anche al processo esecutivo, nell’ambito
del quale la garanzia di imparzialità del giudice è assicurata dalle norme ex artt. 51 ss.

387.Il contraddittorio nel processo esecutivo

L'art. 486 c.p.c. sancisce il principio generale che le domande e le istanze dirette al giudice
dell'esecuzione si propongono di norma oralmente quando avvengono all'udienza ovvero
con ricorso da depositarsi in cancelleria. Salvo che sia il giudice dell'esecuzione a ritenerlo
necessario, esercitando i poteri di direzione del processo

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esecutivo a lui attribuiti, è la legge a prevedere quando debba essere disposta l'audizione
delle parti, cioè dei creditori e del debitore, nonché degli altri interessati (cioè quei soggetti
che possono essere coinvolti nell’esecuzione o in una fase di essa (si pensi ai creditori
iscritti non intervenuti). La dottrina tradizionale considera l'audizione mero strumento
diretto a sollecitare la collaborazione delle parti piuttosto che manifestazione del principio
del contraddittorio, che non troverebbe come tale riconoscimento nel processo esecutivo,
che è diretto non all’accertamento di diritti soggettivi, ma solo all'aggressione del
patrimonio del debitore in una situazione di legittima “diseguaglianza” tra le parti. Il
principio del contraddittorio, in realtà, non è estraneo al processo esecutivo, non solo
perché il giudice dell’esecuzione non può pronunciare provvedimenti “inaudita altera
parte”, ma per la necessità di assicurare alle parti la garanzia costituzionale del diritto di
difesa. Ovviamente, però, il contraddittorio deve essere attuato con modalità che non
possono non tener conto delle caratteristiche funzionali e strutturali dell'esecuzione forzata,
che si attua a prescindere dalla volontà o dalla collaborazione del soggetto inadempiente.

388.Il pignoramento quale primo atto dell'espropriazione forzata ed i suoi effetti

Dopo la notificazione del titolo in forma esecutiva e del precetto, l'espropriazione “si inizia
con il pignoramento” (art. 491), cioè con apposito atto richiesto dal creditore istante e
compiuto dall'ufficiale giudiziario. Il pignoramento ha la funzione di individuare, tra tutti i
beni facenti parte del patrimonio e oggetto generico della responsabilità patrimoniale del
debitore, quelli che sono destinati alla soddisfazione del creditore procedente, sui quali
viene a porsi un vero e proprio vincolo di destinazione nell'interesse dell'intera procedura,
cioè anche di eventuali creditori che intervengano nella stessa. Il pignoramento consiste
nell'ingiunzione che l'ufficiale giudiziario, a ciò incaricato dal creditore munito di titolo
esecutivo, fa al debitore di astenersi da qualunque atto diretto a sottrarre alla garanzia del
credito i beni che si assoggettano all'espropriazione, nonché i frutti di essi. Ex art. 494 il
debitore può evitare il pignoramento soltanto versando nelle mani dell'ufficiale giudiziario
la somma per cui si procede e l'importo delle spese, con l'incarico di consegnarli al
creditore ovvero depositando nelle mani dell'ufficiale giudiziario una somma di danaro
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eguale all'importo dei crediti per cui si procede e delle spese, aumentato di due decimi.
L'atto di pignoramento deve contenere:

a. l'invito, rivolto al debitore, a dichiarare la residenza o ad eleggere il domicilio


in uno dei comuni del circondario in cui ha sede il giudice competente
b. l'avvertimento che, in mancanza di tale dichiarazione o elezione ovvero in
caso di irreperibilità presso la residenza dichiarata o il domicilio eletto, le
successive notifiche o comunicazioni dirette al debitore saranno effettuate
presso la cancelleria del giudice competente
c. l'avvertimento circa il potere di chiedere la conversione del pignoramento
d. l'invito ad indicare ulteriori beni utilmente pignorabili quando, per la
soddisfazione del creditore procedente, i beni assoggettati a pignoramento
appaiono insufficienti ovvero per essi appare manifesta la lunga durata della
liquidazione
e. l'invito al debitore, che sia imprenditore commerciale, ad indicare il luogo
ove sono tenute le scritture contabili.

Oggetto del pignoramento possono essere sia i beni mobili ed immobili, sia i crediti che il
debitore può vantare nei confronti di un terzo. Talvolta il codice, in considerazione della
funzione cui il bene assolve o della natura del credito, ne stabilisce l'impignorabilità
assoluta o relativa (ad es. si pensi ai beni indispensabili al sostentamento del debitore e
della sua famiglia o ai beni necessari alla coltivazione del fondo). Il pignoramento produce
importanti effetti sostanziali, che in realtà incidono non “a monte” sul potere di disporre dei
beni pignorati, che resta in capo al debitore esecutato, ma sul regime di inopponibilità
dell'eventuale atto di alienazione in certi casi nei confronti dei creditori. In particolare:

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f. in base al principio di inefficacia delle alienazioni del bene pignorato sancito


dall’art. 2913 c.c., non hanno effetto in pregiudizio del creditore pignorante e
di quelli intervenuti gli atti di alienazione (sia a titolo gratuito che oneroso)
dei beni pignorati, “salvi gli effetti del possesso di buona fede per i beni
mobili non iscritti in pubblici registri”
g. il successivo art. 2914 contiene la disciplina dei rapporti tra pignoramento e
alienazioni ad esso anteriori, e dispone che sono inopponibili al creditore
pignorante e agli altri creditori intervenuti, tra le altre:
i. le alienazioni di beni immobili o mobili iscritti in pubblici registri che
siano state trascritte successivamente al pignoramento
o le cessioni di crediti che siano state notificate al debitore ceduto o accettate dal
medesimo successivamente al pignoramento
o le alienazioni di beni mobili di cui non sia stato trasmesso il possesso
anteriormente al pignoramento, salvo che risultino da atto avente data certa.

Una volta conseguito il pignoramento, la legge prevede un termine per il compimento da


parte del creditore procedente delle successive attività processuali e la sanzione in caso
d'inerzia. L'art. 497 c.p.c. stabilisce che il pignoramento “perde efficacia” quando dal suo
compimento sono trascorsi 45 giorni senza che sia stata chiesta l'assegnazione o la vendita.
La dichiarazione di inefficacia del pignoramento provoca la liberazione dei beni pignorati
non consente di accedere alle ulteriori fasi del processo di espropriazione e determina la
caducazione di tutti gli eventuali atti del processo esecutivo già compiuti (ma non del
precetto e della notificazione del titolo in forma esecutiva, che stanno al di fuori di esso).

389.La ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare

Al fine di migliorare l’efficienza dei procedimenti di espropriazione forzata sotto il profilo


dell’individuazione dei beni da assoggettare ad esecuzione, le riforme del 2005 e 2006
avevano previsto il potere dell’ufficiale giudiziario di ricercare le cose e i crediti da
espropriare rivolgendo (su istanza del creditore procedente e nelle specifiche ipotesi in cui
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non avesse individuato beni utilmente pignorabili oppure le cose e i crediti già sottoposti ad
espropriazione o indicati dal debitore apparissero insufficienti a soddisfare il creditore
procedente e i creditori intervenuti) apposita richiesta ai soggetti gestori dell’anagrafe
tributaria e di altre banche dati pubbliche. Il d.l. 132/2014, convertito in l. 162/2014, ha
conferito autonomia a tale modalità esecutiva, disciplinandola in una norma ad hoc, l’art.
492 bis. Quest’ultimo delinea un articolato sub-procedimento:

a. fase introduttiva. Il creditore, anche prima di aver eseguito un pignoramento,


qualora intenda avvalersi del procedimento in esame, deve formulare istanza
non più direttamente all’ufficiale giudiziario, bensì al presidente del tribunale
del luogo in cui il debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede.
Questi autorizza la ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare
all’interno dell’anagrafe tributaria e delle altre banche dati delle PA, previa
verifica del diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata
b. fase delle indagini. Queste sono svolte con le modalità e i limiti fissati
nell’autorizzazione del presidente del tribunale. Terminate le operazioni,
l’ufficiale giudiziario redige un unico processo verbale in cui indica tutte le
banche dati interrogate e le relative risultanze
c. fase dell’accesso e/o dell’ingiunzione, conseguente all’esito positivo delle
operazioni di ricerca.

390.Conversione e riduzione del pignoramento

La conversione del pignoramento è la sostituzione dei beni pignorati con una somma di
denaro. Ex art. 495, fino

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a che non sia disposta la vendita o l'assegnazione, il debitore può richiedere di sostituire alle
cose o ai crediti pignorati una somma di denaro pari, oltre alle spese di esecuzione,
all'importo dovuto al creditore pignorante e ai creditori intervenuti. Unitamente all'istanza il
creditore deve depositare in cancelleria, a pena di inammissibilità, una somma non inferiore
ad un quinto dell'importo del credito per cui è stato eseguito il pignoramento e dei crediti
dei creditori intervenuti indicati nei rispettivi atti di intervento. La somma da sostituire al
bene pignorato è determinata con ordinanza dal giudice dell'esecuzione, sentite le parti in
udienza non oltre 30 giorni dal deposito dell'istanza di conversione e, qualora il debitore
ometta il versamento dell’importo così determinato, le somme versate formano parte dei
beni pignorati. Il giudice può disporre, qualora ricorrano giustificati motivi, che il debitore
versi la somma con rateizzazioni mensili, entro il termine massimo di 36 mesi. Con
l'ordinanza che ammette la sostituzione, il giudice dispone che le cose pignorate siano
liberate dal pignoramento dopo che sia stata versata l’intera somma: quest’ultima è quindi
soggetta a pignoramento in loro vece. L'istanza di conversione può essere avanzata una sola
volta in tutto il corso del processo esecutivo.

La riduzione del pignoramento (art. 496), alla quale il giudice dell’esecuzione procede su
istanza del debitore o anche d’ufficio, sentiti il creditore pignorante e i creditori intervenuti,
si ha quando il valore dei beni pignorati è superiore all'importo delle spese e dei crediti per
cui si procede. L’ordinanza di riduzione del pignoramento, sebbene per legge modificabile
e revocabile finchè non abbia avuto esecuzione, ha effetto immediato e il rimedio esperibile
avverso la medesima è quello dell’opposizione agli atti esecutivi.

391.L'intervento dei creditori

Dal momento che il processo di espropriazione attua i principi della responsabilità


patrimoniale e della par condicio creditorum, la legge prevede la possibilità che, pur
nell'ambito della procedura instaurata dal singolo creditore, anche gli altri creditori trovino
la soddisfazione dei propri diritti, giovandosi dell'iniziativa assunta dal creditore
procedente. A differenza delle procedure concorsuali (ad es. il fallimento), nelle quali,
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dovendosi liquidare l’universalità dei beni del fallito a favore dell’universalità dei creditori
da soddisfare, la fase di determinazione dei crediti (cioè della massa passiva) ha luogo
prima della fase di liquidazione dei beni (cioè della massa attiva), nell'espropriazione
singolare non è prevista una siffatta fase. Perciò i creditori che ne hanno il diritto possono
intervenire anche nella fase del processo diretta alla vendita forzata (o all’assegnazione).
Solo dopo la vendita è prevista la fase di verifica dei crediti, in funzione della distribuzione
del ricavato.

Vediamo ora quali creditori sono legittimati ad intervenire nel processo esecutivo,
intervento che si pone come strumento di realizzazione del principio della par condicio
creditorum. Pertanto i creditori muniti di titolo esecutivo hanno la facoltà di scegliere tra
l’intervento nel processo già instaurato per iniziativa di altro creditore titolato e
l’effettuazione di un nuovo pignoramento del medesimo bene. Nel secondo caso, il
pignoramento autonomamente eseguito ha un effetto indipendente da quello che lo ha
proceduto. Perciò, in base al principio di autonomia dei singoli pignoramenti di cui all’art.
493, se da un lato il titolo esecutivo consente all’intervenuto di sopperire anche
all’eventuale inerzia del creditore procedente, dall’altro lato la caducazione del
pignoramento iniziale del creditore procedente, qualora non sia stato integrato da
pignoramenti successivi, travolge ogni intervento. Il codice del 1940 aveva largamente
favorito l’intervento di tutti i creditori: il previgente testo dell’art. 499 ammetteva
all’intervento, oltre ai creditori privilegiati, anche gli altri creditori. La disposizione, però, si
è prestata ad abusi, data la possibilità di intervento riconosciuta a chiunque vantasse una
qualsivoglia ragione di credito nei riguardi del debitore. Per questo le riforme del 2005
hanno significativamente ridotto l'ambito di estensione dell'intervento, prevedendo (art.
499) che possano intervenire nell'esecuzione:

a. i creditori che nei confronti del debitore hanno un credito fondato su titolo
esecutivo giudiziale o stragiudiziale (c.d. creditori titolati)

434
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b. i creditori che, al momento del pignoramento, avevano eseguito un sequestro


sui beni pignorati ovvero avevano un diritto di pegno o un diritto di
prelazione risultante da pubblici registri, ad es. un privilegio o un'ipoteca (c.d.
creditori iscritti)
c. i titolari di un credito di somma di denaro risultante dalle scritture contabili
previste dall'art. 2214 c.c.

Le ultime due categorie di creditori possono intervenire anche senza titolo esecutivo,
rappresentando perciò le uniche categorie di creditori non titolati cui la legge riconosce il
potere di intervento. Al fine di consentire l'intervento dei creditori privilegiati, l'art. 498
prevede che i creditori iscritti debbano essere avvertiti dell'espropriazione, avendo ciascuno
di essi diritto a vedersi notificato un avviso, contenente l'indicazione del creditore
pignorante, del credito per cui si procede e delle cose pignorate. L'intervento avviene con
ricorso al giudice dell'esecuzione, che deve essere depositato prima che sia tenuta l'udienza
in cui è disposta la vendita o l'assegnazione, deve contenere l'indicazione del credito e
quella del titolo di esso, la domanda per partecipare alla distribuzione della somma ricavata
e la dichiarazione di residenza o la elezione di domicilio nel comune in cui ha sede il
giudice competente per l'esecuzione. Se l’intervento ha luogo per un credito di somma di
denaro risultante dalle scritture contabili ex art. 2214 c.c., al ricorso deve essere allegato, a
pena di inammissibilità, l’estratto autentico notarile delle medesime scritture. Il creditore
non titolato che interviene nell'esecuzione deve notificare al debitore, entro i 10 giorni
successivi al deposito, copia del ricorso.

L'art. 499 c.p.c. prevede un particolare meccanismo di riconoscimento dei crediti non
titolati da parte del debitore esecutato: con l'ordinanza con cui è disposta la vendita o
l'assegnazione, il giudice dell'esecuzione fissa l'udienza di comparizione davanti a sé del
debitore e dei creditori intervenuti non titolati, disponendone la notifica a cura di una delle
parti. Tra la data dell’ordinanza e la data fissata per l’udienza non possono decorrere più di
60 giorni. All'udienza di comparizione il debitore deve dichiarare quali dei crediti per i
quali hanno avuto luogo gli interventi egli intenda riconoscere in tutto o in parte. Se il
debitore non compare, si intendono riconosciuti tutti i crediti per i quali hanno avuto luogo
interventi. La legge chiarisce comunque che in ogni caso il riconoscimento rileva ai soli

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effetti dell’esecuzione, nel senso che esso non ha efficacia al di fuori del processo esecutivo
nel quale avviene. Quindi i creditori intervenuti, i cui crediti siano stati riconosciuti dal
debitore, partecipano alla distribuzione della somma ricavata; i creditori intervenuti i cui
crediti siano stati invece disconosciuti dal debitore hanno diritto ex art. 510 co. 3°
all'accantonamento delle somme che ad essi spetterebbero, sempre che ne facciano istanza e
dimostrino di avere proposto, nei 30 giorni successivi all'udienza di comparizione, l'azione
necessaria affinchè essi possano munirsi del titolo esecutivo (ad es. dimostrino di aver
iniziato un processo di ordinaria cognizione finalizzato all’accertamento del credito e alla
relativa condanna). L’accantonamento è disposto dal giudice dell'esecuzione per il tempo
ritenuto necessario affinchè i predetti creditori possano munirsi di titolo esecutivo, e in ogni
caso per un periodo non superiore a 3 anni. Decorso il termine fissato, su istanza di una
delle parti o anche d'ufficio, il giudice dispone la comparizione davanti a sé del debitore,
del creditore procedente e dei creditori intervenuti, e dà luogo alla distribuzione della
somma accantonata.

392.L'assegnazione e la vendita, ed i relativi effetti sostanziali

Con l'assegnazione si ha il trasferimento del bene pignorato, a scopo satisfattivo, a favore


del creditore che ne faccia richiesta, sulla base della sola stima del valore, cioè senza alcuna
trasformazione dello stesso in danaro, con la conseguente chiusura del processo di
espropriazione. Quest’ultima è la c.d. assegnazione in solutum (o assegnazione satisfattiva),
nella quale non viene corrisposto alcun prezzo da parte del creditore assegnatario, il quale
però, ove il valore del bene sia superiore al credito da questi vantato, deve corrispondere il
conguaglio. Diversa è l'assegnazione-vendita (art. 506), nella quale il creditore
assegnatario, a condizione che sia munito di tolo esecutivo, versa un importo a titolo di
prezzo, non inferiore alle spese di esecuzione e ai crediti aventi diritto a prelazione anteriori
a quello dell'offerente.

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Con la vendita forzata si ha, invece, la spoliazione, in danno del debitore esecutato, della
proprietà dei beni pignorati e la trasformazione degli stessi in denaro, che sarà
successivamente oggetto di distribuzione tra i vari creditori concorrenti. I beni sottoposti ad
esecuzione sono in tal caso trasferiti coattivamente ad un terzo, detto aggiudicatario, il
quale li acquista a titolo derivativo. Gli artt. 503 e 504 disciplinano la fase della vendita,
disponendo: che essa può farsi con incanto e senza incanto, cioè senza o a mezzo di un'asta
pubblica; che, in caso di espropriazione immobiliare, l’incanto possa essere disposto solo
quando il giudice ritiene probabile che la vendita con tale modalità abbia luogo ad un
prezzo superiore della metà rispetto al valore del bene; che, se la vendita è fatta in più volte
o in più lotti, deve cessare quando il prezzo già ottenuto raggiunge l’importo delle spese e
dei crediti menzionati nell’art. 495. Le operazioni di vendita sono di norma delegate ad un
professionista.

Tra gli effetti sostanziali dell'assegnazione e della vendita, viene in rilievo in primis l'effetto
traslativo, che consiste nel trasferimento all'acquirente dei diritti che sulla cosa spettavano a
colui che ha subito l'espropriazione: tale effetto si verifica nell'espropriazione mobiliare al
momento del pagamento del prezzo e in quella immobiliare all'atto del decreto di
trasferimento. L'effetto purgativo o estintivo, invece, fa venir meno i diritti di prelazione
gravanti sul bene: infatti, a seguito della vendita o dell'assegnazione, il giudice
dell'esecuzione ordina la cancellazione delle trascrizioni dei pignoramenti e delle iscrizioni
ipotecarie. Infine occorre ricordare la regola posta dall’art. 2929 c.c., secondo il quale la
nullità degli atti esecutivi che hanno preceduto la vendita o l’assegnazione non ha effetto
riguardo all’acquirente o all’assegnatario, salvo il caso di collusione con il creditore
procedente. Gli altri creditori non sono in nessun caso tenuti a restituire quanto hanno
ricevuto per effetto dell’esecuzione.

393.La distribuzione del ricavato

Alla vendita forzata segue la distribuzione del ricavato. L’art. 509 chiarisce innanzitutto che
la somma da distribuire è formata da quanto ricavato a titolo di prezzo (o di conguaglio, in
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caso di assegnazione) delle cose vendute o assegnate, dalle eventuali rendite o proventi
delle cose pignorate, dagli importi acquisiti a titolo di multa e risarcimento del danno da
parte dell'aggiudicatario inadempiente. Le modalità di distribuzione sono diverse a seconda
che vi sia il solo creditore pignorante ovvero se vi sia concorso con i creditori intervenuti
(art. 510):

a. se vi è un solo creditore pignorante senza intervento di altri creditori, il


giudice dell'esecuzione, sentito il debitore, dispone a favore del creditore
pignorante il pagamento di quanto gli spetta per capitale, interessi e spese
b. negli altri casi, la somma ricavata è distribuita dal giudice tra i creditori, con
riguardo alle cause legittime di prelazione e previo accantonamento delle
somme che spetterebbero ai creditori intervenuti privi di titolo esecutivo, i cui
crediti non siano stati in tutto o in parte riconosciuti dal debitore.

Se, a seguito delle attività di distribuzione, residua una parte della somma ricavata, essa è
consegnata al debitore. Può accadere che sorgano controversie tra le parti sull'esistenza o
sull'ammontare di crediti ovvero sull'esistenza o sull'ordine di prelazioni (c.d. controversie
distributive). Nella controversia distributiva, regolata dall’art. 512, oggetto della
contestazione è il diritto a partecipare alla distribuzione, che è diverso dal diritto di
procedere all'esecuzione forzata (anzi lo presuppone). Il giudice dell'esecuzione, sentite le
parti e compiuti i necessari accertamenti, provvede con ordinanza, impugnabile con
l'opposizione agli atti esecutivi. Il giudice può anche sospendere la distribuzione della
somma ricavata.

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CAP. 38: I PROCESSI DI ESPROPRIAZIONE FORZATA

394.Tipologie dei processi di espropriazione forzata

I processi di espropriazione forzata si distinguono a seconda che abbiano ad oggetto:

 beni mobili che si trovino presso il debitore (espropriazione mobiliare presso il


debitore)
 crediti del debitore verso terzi o beni mobili di questo che siano in possesso di terzi
(espropriazione presso terzi)
 beni immobili (espropriazione immobiliare)
 beni di proprietà di terzi soggetti a responsabilità per debiti altrui (espropriazione
contro il terzo proprietario).

La scelta tra le varie tipologie dei processi di espropriazione forzata è rimessa al creditore
procedente, il quale può anche cumulare, con lo stesso titolo e con lo stesso precetto, più
mezzi espropriativi (salva la possibilità che il giudice dell'esecuzione limiti ad un solo
mezzo l'espletamento dell'espropriazione forzata).

395.L’iscrizione a ruolo dei processi di espropriazione forzata

Il codice di rito del 1942 non regolava, anche con riguardo ai processi di espropriazione
forzata, il sistema dell’iscrizione a ruolo della causa. La formale presa in carico della
procedura da parte dell’ufficio esecutivo, infatti, avveniva ad opera del cancelliere, il quale,
dopo il deposito del processo verbale ovvero dell’atto di pignoramento da parte
dell’ufficiale giudiziario presso la cancelleria del giudice competente per l’esecuzione,
formava il fascicolo d’ufficio ed iscriveva la procedura nel registro delle esecuzioni civili.
Al fine di semplificare anche questa fase del processo, il d.l. 132/2014, convertito nella l.
162/2014, ha introdotto in materia di espropriazione forzata l’obbligo a carico del creditore
procedente dell’iscrizione a ruolo della procedura da lui promossa, onerandolo sia del
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deposito della nota di iscrizione a ruolo, sia del deposito di copia conforme del titolo
esecutivo, del precetto e del processo verbale ovvero dell’atto di pignoramento entro un
termine perentorio (rispettivamente di 15 giorni nell’espropriazione mobiliare presso il
debitore e in quella immobiliare e di 30 nell’espropriazione presso terzi), stabilito a pena di
inefficacia del pignoramento. Il dies a quo di tale termine inizia a decorrere di norma dal
momento della consegna al creditore procedente del verbale ovvero dell’atto di
pignoramento da parte dell’ufficiale giudiziario. Al momento del deposito dei suddetti atti,
il cancelliere forma il fascicolo dell’esecuzione.

396.L'espropriazione mobiliare presso il debitore

L'espropriazione mobiliare presso il debitore (artt. 513 ss.) può avere ad oggetto denaro o
beni mobili che si trovano presso il debitore esecutato. A seguito della richiesta da parte del
creditore procedente, l'ufficiale giudiziario, munito del titolo esecutivo e del precetto
previamente notificati, ricerca le cose da pignorare nella “casa del debitore e negli altri
luoghi a lui appartenenti”, cioè presso l'abitazione occupata dal debitore o presso altri
luoghi nei quali lo stesso opera e che siano a lui riferibili. Solo previa autorizzazione del
giudice, su istanza del creditore, l’ufficiale giudiziario può pignorare cose determinate che
non si trovano in luoghi appartenenti al debitore, ma dei quali questi può direttamente
disporre (ad es. una cassetta di sicurezza presso una banca), mentre alcuna autorizzazione è
necessaria se le cose del debitore sono “esibite” dal terzo possessore delle stesse. Il
pignoramento deve essere eseguito sulle cose che l'ufficiale giudiziario ritiene di più facile
liquidazione, nel limite di un presumibile valore di realizzo pari all'importo del credito
precettato aumentato della metà.

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Non tutte le cose mobili possono essere pignorate, dato che gli artt. 514, 515 e 516 limitano
l'ambito oggettivo della scelta delle cose da pignorare, dichiarando

a. certi beni assolutamente impignorabili (ad es. i commestibili necessari alla


sopravvivenza del debitore o gli oggetti necessari all'esercizio della sua
attività professionale, da cui egli trae la fonte del sostentamento)
b. altri relativamente impignorabili, cioè non impignorabili in sé, ma in quanto
destinati ad una certa funzione (ad es. i beni strumentali che servono alla
coltivazione del fondo)
c. altri, infine, pignorabili solo in particolari circostanze di tempo (ad es. i frutti
non ancora raccolti).

L'ufficiale giudiziario redige processo verbale delle operazioni compiute, descrivendo le


cose pignorate, di cui deve determinare approssimativamente il valore (se del caso con
l’assistenza di uno stimatore da lui scelto). Quando ritiene opportuno differire le operazioni
di stima, redige un primo verbale di pignoramento, procedendo entro il termine perentorio
di 30 giorni alla definitiva individuazione dei beni da assoggettare al pignoramento.
Compiute le operazioni, l’ufficiale giudiziario consegna senza ritardo al creditore
procedente il processo verbale, il titolo esecutivo e il precetto, affinchè il creditore
provveda ad iscrivere a ruolo il processo. Il verbale ha carattere costitutivo del vincolo di
pignoramento, sicchè dalla data di esso decorrono gli effetti processuali e sostanziali del
pignoramento. Dopo il pignoramento, l'ufficiale giudiziario consegna al cancelliere del
tribunale il danaro, i titoli di credito e gli oggetti preziosi pignorati. Il danaro deve essere
depositato dal cancelliere nelle forme dei depositi giudiziari, mentre i titoli di credito e gli
oggetti preziosi sono custoditi nei modi che determina il giudice dell'esecuzione; per la
conservazione delle altre cose l'ufficiale giudiziario provvede trasportandole presso un
luogo di pubblico deposito o affidandole ad un custode diverso dal debitore.

Per quanto riguarda l'intervento dei creditori, occorre distinguere tra i creditori muniti o non
di titolo esecutivo, tra creditori che intervengono tempestivamente o tardivamente e tra
creditori chirografari e creditori privilegiati. La legge prevede che:

441
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d. i creditori muniti di titolo esecutivo sono dalla legge equiparati al creditore


pignorante, in quanto, oltre a partecipare alla distribuzione del ricavato,
possono provocare autonomamente singoli atti di espropriazione (ad es.
presentare l’istanza di vendita)
e. i creditori chirografari che intervengono tardivamente partecipano alla
distribuzione della parte della somma ricavata che sopravanza dopo
soddisfatti i diritti del creditore pignorante, dei creditori privilegiati e di quelli
intervenuti in precedenza
f. i creditori che hanno un diritto di prelazione sulle cose pignorate concorrono
sempre alla distribuzione del ricavato, anche quando svolgono intervento
tardivo.

Il creditore pignorante e ciascuno dei creditori muniti di titolo esecutivo possono proporre
istanza di distribuzione del danaro pignorato oppure di vendita o di assegnazione di tutti gli
altri beni, fino alla scadenza del perentorio di 45 giorni di efficacia del pignoramento.
Sull'istanza il giudice dell'esecuzione fissa l'udienza per l'audizione delle parti, nel corso
della quale esse possono fare osservazioni circa l’assegnazione e le modalità della vendita.
Se non vi sono opposizioni o se su di esse si raggiunge l'accordo delle parti comparse, il
giudice dell'esecuzione dispone con ordinanza; se invece vi sono opposizioni, il giudice
dell'esecuzione le decide con sentenza e dispone con ordinanza l'assegnazione o la vendita.
La vendita può essere di due tipi, senza incanto (o a mezzo di commissionario) oppure con
incanto, secondo la valutazione di convenienza operata dal giudice:

g. nella vendita a mezzo di commissionario, che di norma è l'istituto Vendite


Giudiziarie autorizzato con decreto ministeriale (ma può essere anche un
professionista con specifica qualificazione, ad es. una banca autorizzata ad
operazioni di borsa), il giudice dell'esecuzione affida ad esso le cose pignorate
“affinchè proceda alla vendita”, fissando il prezzo minimo che, per le cose il
cui prezzo risulta da listino di borsa o di mercato, non può essere inferiore a
questo

442
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h. nella vendita all'incanto, che è eseguita dal cancelliere, dall'ufficiale


giudiziario o dall'istituto di vendite giudiziarie, i beni pignorati sono venduti
“ai pubblici incanti” nel giorno, ora e luogo stabiliti dal giudice
dell'esecuzione. Il prezzo base è determinato, per le cose il cui valore risulti
da listino di borsa o di mercato, da quello minimo del giorno precedente alla
vendita; in ogni altro caso, dal giudice dell'esecuzione. L'effetto traslativo
della proprietà si verifica con il pagamento del prezzo di aggiudicazione;
qualora il giudice dell’esecuzione lo abbia disposto, il versamento del prezzo
può aver luogo anche ratealmente ed entro un termine non superiore a 12
mesi. Quando una cosa mesa all'incanto resta invenduta, il soggetto a cui è
stata affidata l'esecuzione della vendita fissa un nuovo incanto ad un prezzo
base inferiore di un quinto rispetto a quello precedente.

Si perviene, quindi, alla distribuzione del ricavato della vendita tra i creditori. Se non si
raggiunge un accordo tra questi ultimi, il giudice, sentite le parti, ordina la distribuzione
della somma ricavata secondo le regole del riparto e tenendo conto delle cause di
prelazione.

397.L’espropriazione di autoveicoli, motoveicoli e rimorchi

Il d.l. 132/2014, convertito in l. 162/2014, ha introdotto una disciplina speciale di


espropriazione forzata mobiliare, regolata dall’art. 521 bis, della quale il creditore può
avvalersi in alternativa a quella ordinaria nel caso in cui decida di assoggettare al vincolo
del pignoramento una specifica tipologia di cose mobili, cioè autoveicoli, motoveicoli e
rimorchi. Il procedimento in esame differisce da quello di espropriazione mobiliare presso
il debitore per il contenuto dell’atto di pignoramento e per le modalità di svolgimento della
fase iniziale dell’espropriazione. Infatti il pignoramento in esame si esegue mediante
notificazione (e successiva trascrizione) di un atto scritto, che deve contenere:

a. l’esatta indicazione dei beni e dei diritti che si intendono sottoporre ad


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esecuzione
b. l’ingiunzione ex art. 492
c. l’intimazione a consegnare entro 10 giorni i beni pignorati, nonché i titoli e i
documenti relativi alla proprietà e all’uso dei medesimi, all’Istituto Vendite
Giudiziarie autorizzato ad operare nel territorio del circondario, in cui è
compreso il luogo in cui il debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o
la sede o, in mancanza, a quello più vicino.

Col pignoramento il debitore è costituito custode dei beni pignorati e di tutti gli accessori,
senza diritto a compenso, fin quando non subentri l’Istituto Vendite Giudiziarie al momento
della consegna. Decorso infruttuosamente il termine di 10 giorni ai fini della consegna dei
beni pignorati, gli organi di polizia procedono al ritiro della carta di circolazione e
consegnano il bene pignorato all’Istituto Vendite Giudiziarie più vicino. Le successive fasi
di liquidazione e distribuzione sono regolate dalle disposizioni dettate in tema di
espropriazione mobiliare presso il debitore, in quanto compatibili.

398.L'espropriazione presso terzi

Tra i beni che sono oggetto della responsabilità patrimoniale e che l'art. 543 c.p.c.
assoggetta ad espropriazione presso terzi, vi sono i crediti di denaro che il debitore può
vantare nei confronti di terzi, nonché le cose di proprietà del debitore che siano nel
possesso di terzi: non è possibile sottoporre tali crediti e cose ad espropriazione diretta
presso il debitore, proprio perché la disponibilità di essi è in capo al terzo. Uno dei casi più
frequenti è quello in cui il debitore esecutato abbia depositato denaro in banca, quindi vanti
un credito nei confronti di quest’ultima. In casi come questo il terzo, debitore o
detentore, pur non diventando soggetto

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passivo dell’espropriazione, cioè non acquisendo la qualità di parte del processo esecutivo,
è “coinvolto” nella procedura, al solo fine di consentire che la stessa possa indirizzarsi sulle
somme di danaro dovute al debitore esecutato ovvero sulle cose da lui detenute di proprietà
del debitore: egli diventa custode delle somme e dei beni pignorati dal momento in cui
riceve l’atto di pignoramento.

Infatti, se il creditore intende assoggettare a pignoramento i beni suddetti, deve redigere e


far notificare personalmente al terzo e al debitore un atto di pignoramento presso terzi, che
deve contenere:

a. l'ingiunzione al debitore di non disporre dei crediti e delle cose che si trovano
presso il terzo
b. l'indicazione del credito per il quale si procede, del titolo esecutivo e del
precetto
c. l'indicazione delle cose o delle somme dovute e l'intimazione al terzo di non
disporne senza ordine del giudice
d. la citazione del debitore a comparire davanti al tribunale competente ex art.
26 bis, insieme all’invito a comunicare entro 10 giorni la dichiarazione ex art.
547 al creditore procedente, con l’avvertimento al terzo che, in caso di
mancata comunicazione della dichiarazione, la stessa dovrà essere resa dal
terzo comparendo in apposita udienza e che, qualora questi non compaia o
non renda la dichiarazione una volta comparso, il credito pignorato o il
possesso di cose di appartenenza del debitore, si considereranno non
contestati.e

Anche nel caso di espropriazione presso terzi, il codice individua una serie di crediti
impignorabili: alcuni assolutamente (ad es. i crediti di natura alimentare), altri solo
relativamente (ad es. le somme dovute a titolo di stipendio, salario o di altre indennità
relative al rapporto di lavoro, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, che
possono essere pignorate nella misura di un quinto, oppure le somme dovute a titolo di
pensione, che possono essere pignorate non oltre la misura massima mensile dell’assegno
sociale aumentata della metà).
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In passato sorse la questione relativa all'oggetto del pignoramento presso terzi, o meglio
all’entità della somma pignorata. Secondo la Cassazione, oggetto del pignoramento presso
terzi era rappresentato dall’intera somma di cui il terzo fosse debitore, e non dalla sola
quota di essa pari al credito per il quale il creditore aveva agito in via esecutiva: ad es., se il
terzo pignorato era banca, il pignoramento presso di essa determinava un vincolo di
indisponibilità su tutto il denaro che il debitore esecutato aveva deposito presso di essa, e
non sulla sola somma per la quale si procedeva in via esecutiva. Alla base
dell’orientamento della giurisprudenza vi era la preoccupazione di fare in modo che sulla
somma oggetto di esecuzione potessero tendenzialmente soddisfarsi non solo il creditore
procedente, ma anche tutti i creditori intervenuti. Al fine di eliminare ogni dubbio in
proposito, oggi l’art. 546 pone 2 regole fondamentali:

e. dal giorno in cui gli è notificato l'atto di pignoramento, il terzo pignorato è


soggetto, relativamente alle cose e alle somme da lui dovute, agli obblighi che
la legge impone al custode, ma soltanto nei limiti dell'importo del credito
precettato aumentato della metà (mentre prima il vincolo di disponibilità
colpiva l’intera somma)
f. el caso di pignoramento eseguito presso più terzi, il debitore può chiedere la
riduzione proporzionale dei singoli pignoramenti ovvero la dichiarazione di
inefficacia di taluno di essi. Il giudice dell'esecuzione, convocate le parti,
provvede sul punto con ordinanza, non oltre 20 giorni dall'istanza.

Passando all’esame delle modalità di esecuzione, a partire dalle riforme del 2005 e 2006, il
legislatore è intervenuto a più riprese: le principali novità hanno interessato la dichiarazione
del terzo pignorato (c.d. dichiarazione di quantità), con cui il terzo è tenuto a specificare le
cose delle quali ha il possesso e le somme delle quali risulta essere debitore. La
dichiarazione del terzo costituisce elemento costitutivo e di perfezionamento del vincolo di
pignoramento. A seguito delle riforme del 2014 e 2015, la dichiarazione deve essere
effettuata a mezzo di lettera raccomandata inviata al creditore procedente o trasmessa a
mezzo di posta

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elettronica certificata (personalmente o a mezzo di procuratore speciale o del difensore


munito di procura speciale) nel termine di 10 giorni da quando riceve la notifica dell'atto di
pignoramento. La dichiarazione deve essere resa in udienza soltanto nell’ipotesi in cui il
terzo viene citato davanti al giudice dell’esecuzione per non aver il creditore pignorante
ricevuto la dichiarazione nelle modalità suddette. La l. 228/2012 ha introdotto importanti
innovazioni circa le conseguenze della mancata dichiarazione del terzo: in precedenza era
previsto che, se il terzo non inviava la raccomandata contenente la dichiarazione, non
compariva all’udienza o compariva ma si rifiutava si fare la dichiarazione ovvero
sorgevano contestazioni sull’ammontare del credito dichiarato, si aprisse, su istanza del
creditore pignorante, un vero e proprio giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo (che
si svolgeva secondo le regole del processo di cognizione ordinaria) L’art. 548 prevede oggi
che, quando all’udienza stabilita il creditore dichiara di non aver ricevuto la dichiarazione,
il giudice fissa un’udienza successiva con ordinanza (da notificarsi al terzo almeno 10
giorni prima della nuova udienza). Se il terzo non compare alla nuova udienza o compare
ma rifiuta di fare la dichiarazione, il credito pignorato o il possesso del bene di
appartenenza del debitore si considera non contestato ai fini del procedimento. Se, invece,
sorgono contestazioni sull'ammontare del credito dichiarato dal terzo, l’art. 549 prevede che
il giudice dell’esecuzione, su istanza di parte, compiuti i necessari accertamenti nel
contraddittorio tra le parti e con il terzo, provvede con ordinanza, che produce effetti ai soli
fini del procedimento in corso e impugnabili con l’opposizione agli atti esecutivi.

Anche nel processo di espropriazione forzata presso terzi può aversi l'intervento di
creditori: in proposito l’art. 551 richiama semplicemente le norme sull’intervento nel
processo di espropriazione mobiliare presso il debitore. La fase terminale
dell'espropriazione presso terzi è rappresentata dall'assegnazione o dalla vendita.

399.L'espropriazione immobiliare

Quando s'intende assoggettare a procedura espropriativa un bene immobile, gli artt. 555 ss.
dettano un’articolata normativa in ragione delle peculiarità di tale oggetto, che, a differenza
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dei beni mobili, non deve essere ricercato dall'ufficiale giudiziario, ma (come per i crediti
che il debitore può vantare nei confronti di terzi e le cose mobili appartenenti al debitore
che siano nel possesso di terzi, nonché gli autoveicoli, motoveicoli e rimorchi che il
creditore decide di pignorare) deve essere previamente ed esattamente individuato a cura
dello stesso creditore pignorante. Oltre ai beni immobili, sono espropriabili con la
procedura in esame tutti i diritti reali immobiliari che siano suscettibili di scambio, ivi
compresi l'usufrutto, la superficie e l'enfiteusi.

400.Il pignoramento immobiliare e la custodia dell'immobile pignorato. Gli


interventi

L'art. 555 c.p.c. prevede che il pignoramento immobiliare si “esegue mediante notificazione
al debitore e successiva trascrizione” di un atto che deve contenere l'ingiunzione al debitore
di non disporre del bene e dei diritti pignorati, nonché la descrizione dei beni e dei diritti
immobiliari che si intende sottoporre ad esecuzione. L'atto di pignoramento immobiliare
deve essere notificato al debitore personalmente e, immediatamente dopo la notificazione,
consegnato da parte dell'ufficiale giudiziario che ha provveduto alla notifica al competente
conservatore dei registri immobiliari, il quale trascrive l'atto. La finalità della trascrizione
del pignoramento è quella di rendere inopponibile al creditore procedente gli eventuali atti
di disposizione del bene compiuti dal debitore esecutato nonostante il pignoramento.
L'ufficiale giudiziario consegna poi al creditore l’atto di pignoramento e la nota di
trascrizione; dal canto suo, il creditore deve depositare nella cancelleria del tribunale
competente per l’esecuzione la nota di iscrizione a ruolo, con le copie conformi del titolo
esecutivo, del precetto, dell’atto di pignoramento e della nota di trascrizione entro 15 giorni
dalla consegna dell’atto di pignoramento. Il cancelliere forma così il fascicolo
dell'esecuzione immobiliare.

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Ai sensi dell'art. 559 c.p.c., con il pignoramento il debitore è ex lege costituito custode dei
beni pignorati e di tutti gli accessori, comprese le pertinenze e i frutti; il giudice
dell'esecuzione, su istanza del creditore pignorante o di altro intervenuto, può nominare
custode persona diversa dal debitore, ma provvede senz'altro a nominare una persona
diversa quando l'immobile non sia occupato dal debitore. Del resto il giudice provvede alla
sostituzione del custode anche in caso di inosservanza degli obblighi su di lui incombenti
(ad es. quando non osserva le modalità, fissate dallo stesso giudice dell’esecuzione, con cui
deve adoperarsi affinchè gli interessati a presentare le offerte di acquisto dell’immobile
pignorato visitino i beni in vendita).

Anche nell'espropriazione immobiliare possono intervenire i soli creditori che nei confronti
del debitore hanno un credito fondato su titolo esecutivo, nonché i creditori che, al
momento del pignoramento, avevano eseguito un sequestro sui beni pignorati ovvero
avevano un diritto di pegno o un diritto di prelazione risultante da pubblici registri
(privilegio o ipoteca) e infine anche i titolari di un credito di somma di denaro risultante
dalle scritture contabili previste dall’art. 2214 c.c. L'intervento è da ritenersi tempestivo se
ha luogo non oltre la prima udienza fissata per l'autorizzazione alla vendita.

401.L'istanza di vendita e la relazione di stima dell'esperto

Decorso il termine dilatorio di 10 giorni dal pignoramento, il creditore pignorante e ognuno


dei creditori intervenuti muniti di titolo esecutivo possono chiedere la vendita dell'immobile
pignorato (art. 567). Il creditore che richiede la vendita deve provvedere, entro 60 giorni dal
deposito del ricorso, ad allegare allo stesso l'estratto del catasto e i certificati delle iscrizioni
e trascrizioni relative all'immobile pignorato effettuate nei 20 anni anteriori alla trascrizione
del pignoramento. Il successivo svolgimento della procedura fa emergere la tendenza del
legislatore ad evitare udienze e fasi inutili.

A seguito dell'istanza di vendita e del deposito della documentazione ipocatastale, il giudice


dell'esecuzione nomina con ordinanza un esperto con l'incarico di redigere la relazione di
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stima del valore dell'immobile pignorato. Con la stessa ordinanza il giudice fissa l’udienza
per la comparizione delle parti e dei creditori iscritti che non siano intervenuti, fermo
restando che tra il provvedimento di nomina e l’udienza non devono intercorrere più di 90
giorni. A seguito della nomina, l'esperto provvede alla redazione della relazione di stima,
verificando altresì la situazione giuridica e di fatto del bene, nonché la completezza della
documentazione ipocatastale depositata dai creditori. Terminata la relazione, l'esperto,
almeno 30 giorni prima dell’udienza fissata dal giudice, ne invia copia ai creditori
procedenti o intervenuti e al debitore, i quali possono presentare note scritte anche
direttamente all'udienza, purchè ne abbiano anticipato di almeno 15 giorni il testo al perito,
in modo da consentirgli di rendere chiarimenti in udienza. All’udienza fissata dal giudice, le
parti possono fare osservazioni circa le modalità della vendita e proporre le eventuali
opposizioni agli atti esecutivi.

402.La vendita forzata immobiliare

Nel codice del 1942, la legge mostrava di preferire la vendita senza incanto: il giudice
dell’esecuzione avrebbe dovuto procedere di norma alla vendita senza incanto, a meno che
egli non ritenesse opportuno procedere con il sistema dell’incanto. Eppure nella pratica il
giudice dell’esecuzione preferiva disporre direttamente la vendita con incanto. Le riforme
del 2005 hanno privilegiato, invece, una strada diversa da quella della prassi
giurisprudenziale, prevedendo che la vendita senza incanto rappresenta un passaggio
necessario, prima che si proceda, nel caso non si raggiunga l’obiettivo della liquidazione
del bene, alla vendita con incanto. Le riforme del 2014 e 2015 hanno ulteriormente ridotto
la possibilità di accesso alla vendita con il sistema dell’incanto, fino al punto da
configurarla come una tecnica meramente residuale di liquidazione dell’immobile
pignorato.

450
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Inoltre il legislatore ha potenziato i sistemi di pubblicità delle procedure esecutive


immobiliari (c.d. sistemi di provocatio ad offerendum), al fine di favorire la trasparenza e
maggiore partecipazione possibile alle operazioni di vendita. Così oggi l’art. 490 prevede
che l’avviso di vendita deve essere inserito innanzitutto nel portale telematico del Ministero
della giustizia in un’area pubblica (c.d. portale delle vendite pubbliche) e inoltre in appositi
siti almeno 45 giorni prima del termine per la presentazione delle offerte ovvero della data
dell’incanto.

Vediamo ora come si giunge alla vendita. Al termine dell'udienza destinata al


contraddittorio tra le parti sul tempo e le modalità della vendita, se non vi sono opposizioni
o su di esse si raggiunge l’accordo, il giudice dell'esecuzione emana l'ordinanza di vendita.
Questa si compone di due parti tra loro autonome e di una terza parte, che, a seguito della
riforma del 2015, non è più affidata alla valutazione discrezionale del giudice, ma
costituisce contenuto necessario di tal provvedimento al pari delle prime due parti:

a. nella prima parte del provvedimento il giudice dispone la vendita senza


incanto, stabilendone le modalità di svolgimento
b. nella seconda parte il giudice stabilisce le modalità di svolgimento
dell'eventuale vendita con incanto, la quale è disposta solo quando egli ritiene
probabile che, attraverso tale modalità, il bene staggito possa essere venduto
ad un prezzo superiore della metà rispetto al suo valore
c. la terza parte, infine, contiene la delega al professionista per le operazioni di
vendita, delega alla quale non si fa luogo soltanto qualora il giudice
dell’esecuzione, sentiti i creditori, ravvisi l’esigenza di procedere direttamente
alle operazioni di vendita a tutela degli interessi delle parti.

Dunque si comincia dalla vendita senza incanto: l'ordinanza di vendita fissa il termine, non
inferiore a 90 giorni e non superiore a 120, entro il quale possono essere proposte offerte di
acquisto ex art. 571. Tale norma prevede che le offerte possono essere presentate da
chiunque (salvo che dal debitore) e che sono inefficaci se sono inferiori di oltre un quarto al
prezzo stabilito nell’ordinanza di vendita o se l’offerente non presta cauzione in misura non
inferiore al decimo del prezzo da lui proposto, aggiungendo poi, a fini acceleratori della
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procedura di liquidazione, una previsione espressa di inefficacia dell’offerta tardiva.

Si passa così alla fase della deliberazione sulle offerte. Occorre distinguere innanzitutto a
seconda che:

d. sia presentata un'unica offerta. Gli esiti della deliberazione sull'offerta


varieranno secundum eventum:
o se l'offerta è pari o superiore al valore stimato dell'immobile, essa è senz'altro
accolta (c.d. aggiudicazione necessaria)
i. se l'offerta è inferiore a tale valore, ma in misura non superiore ad un
quarto, il giudice può dar luogo comunque alla vendita, a meno che non
ricorrano due condizioni tra loro concorrenti, e cioè che non siano state
presentate istanze di assegnazione ex art. 588 oppure che il giudice
dell'esecuzione (o il professionista delegato) ritenga che non vi sia seria
possibilità di conseguire un prezzo superiore con una nuova vendita,
nel qual caso si accede alla vendita con incanto
e. siano presentate più offerte. In tal caso il giudice dell’esecuzione invita gli
offerenti a una gara sull’offerta più alta. Tuttavia, se sono state presentate
istanze di assegnazione e il prezzo indicato nella migliore offerta è inferiore al
valore dell’immobile stabilito nell’ordinanza di vendita, il giudice non fa
luogo alla vendita e procede all’assegnazione. In ogni caso non potrà essere
accolta alcuna offerta di prezzo inferiore di oltre un quarto a quello stimato,
essendo tale offerta inefficace.

Se la vendita senza incanto non va in porto, si passa (sempre che il giudice ritenga che la
vendita con tale modalità possa aver luogo ad un prezzo superiore della metà rispetto al
valore del bene stimato) alla successiva fase della vendita con incanto. Per partecipare
all'incanto, è necessario aver prestato la cauzione entro il termine fissato dal giudice
dell'esecuzione nell'ordinanza di vendita: l'ammontare della cauzione è stabilito dal giudice
dell'esecuzione in misura non superiore al decimo del prezzo base d'asta. L'incanto ha luogo
davanti al giudice dell'esecuzione (ovvero al professionista delegato), il quale aggiudica
con decreto il bene staggito al
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migliore offerente. Il decreto di aggiudicazione è da ritenersi provvisorio, in quanto l'art.


584 c.p.c. consente che si propongano, entro il termine perentorio di 10 giorni dall'incanto,
offerte dopo l'incanto, che non sono efficaci se il prezzo offerto non supera di un quinto
quello di aggiudicazione provvisoria. Una volta certificata la regolarità delle offerte dopo
l’incanto, il giudice dell'esecuzione apre una ulteriore gara, fissando al contempo il termine
perentorio entro il quale possono essere fatte ulteriori offerte c.d. al rincaro.
L'aggiudicatario definitivo deve versare il prezzo nel termine (non superiore a 60 giorni
dall’aggiudicazione) e nel modo fissati dall'ordinanza di vendita, consegnando al
cancelliere il documento comprovante l'avvenuto versamento. La riforma del 2015 ha
implementato la possibilità di rateizzare il pagamento del prezzo di aggiudicazione entro un
termine non superiore a 12 mesi: in tal caso il giudice può autorizzare l’aggiudicatario che
ne faccia richiesta ad immettersi nel possesso dell’immobile venduto, a condizione che sia
prestata idonea fideiussione, rilasciata da banche, società assicuratrici o intermediari
finanziari. Avvenuto il versamento del prezzo, il giudice dell'esecuzione pronuncia il
decreto di trasferimento all'aggiudicatario del bene espropriato, ordinando che si cancellino
le trascrizioni dei pignoramenti e le iscrizioni ipotecarie.

In alternativa alla vendita, il legislatore prevede l'assegnazione del bene, che è una variante
della vendita forzata, che viene attivata, su istanza del creditore, per il caso in cui la vendita
non abbia luogo per mancanza di offerte. Ogni creditore, nel termine di 10 giorni prima
della data dell’udienza fissata per la vendita, può presentare istanza di assegnazione per il
caso in cui la vendita abbia avuto esito negativo. Tale istanza deve contenere l'offerta di
pagamento di una somma non inferiore alle spese di esecuzione, ai crediti aventi diritto a
prelazione anteriore a quello dell’offerente e al prezzo base stabilito per l’esperimento di
vendita per cui è presentata. Il giudice dell’esecuzione provvede su di essa fissando il
termine entro il quale l’assegnatario deve versare l’eventuale conguaglio. Avvenuto il
versamento, il giudice pronuncia il decreto di trasferimento definitivo del bene.

In caso di infruttuosità sia della vendita che dell'assegnazione, al giudice dell'esecuzione si


offre una duplice possibile opzione, e cioè tentare ancora la liquidazione del bene attivando
una nuova vendita ovvero disporre l’amministrazione giudiziaria attendendo tempi migliori
per una più fruttuosa liquidazione. In quest’ultimo caso il giudice può nominare un
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amministratore giudiziario del bene staggito, per un periodo massimo di 3 anni:


l’amministrazione del bene è affidata ad uno o più creditori ovvero ad un istituto
specializzato, con obbligo di rendiconto. Invece, se non dà ingresso all’amministrazione
giudiziaria del bene espropriato, il giudice dell’esecuzione deve fissare la nuova vendita.
Con riferimento a tale ultima possibilità, l’art. 591 modificato nel 2015 prevede 2
possibilità:

f. può accadere che il giudice dell’esecuzione stabilisca condizioni di vendita


diverse rispetto a quelle originarie e/o fissi un nuovo prezzo. In questo caso
pronuncia nuova ordinanza perché si proceda ad incanto, sempre che ritenga
che la vendita con tale modalità possa aver luogo ad un prezzo superiore della
metà rispetto al valore del bene
g. la seconda eventualità è che il giudice dell’esecuzione si limiti a stabilire
diverse forme di pubblicità, fissando un prezzo base inferiore al precedente
fino al limite di un quarto. In tal caso il giudice assegna altresì un nuovo
termine non inferiore a 60 giorni e non superiore a 90 entro il quale possono
essere proposte offerte.

Se poi anche al secondo tentativo la vendita non ha luogo per mancanza di offerte ma vi
sono domande di assegnazione, il giudice assegna il bene ai creditori richiedenti, fissando il
termine entro il quale l’assegnatario deve versare l’eventuale conguaglio.

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403.La distribuzione del ricavato

Dopo il pagamento del prezzo e il decreto di trasferimento, si entra nella fase della
distribuzione del ricavato, diversa a seconda che vi sia un solo creditore (quello che ha
eseguito il pignoramento) senza che vi sia stato intervento di altri creditori ovvero che vi sia
una pluralità di creditori:

a. nella prima ipotesi il giudice dell'esecuzione, sentito il debitore, dispone a


favore dell'unico creditore il pagamento di quanto ad esso spetta per capitale,
interessi e spese
b. in ogni altra ipotesi, il giudice provvede d'ufficio a formare un progetto di
distribuzione, contenente la graduazione dei creditori e a depositarlo in
cancelleria, affinchè possa essere esaminato dalle parti (creditori e debitore),
con contestuale fissazione dell'udienza per la loro audizione.

Se il progetto è approvato ovvero si raggiunge l'accordo tra tutte le parti, se ne dà atto nel
processo verbale e il giudice dispone il pagamento delle singole quote. In caso contrario, si
apre una controversia distributiva che può sospendere la distribuzione, in attesa che venga
risolta dal giudice.

404.La delega ai professionisti delle operazioni di vendita forzata immobiliare

Ai fini di alleggerire i carichi di lavoro del giudice dell'esecuzione, la legge 302/1998 aveva
previsto la delega ai notai, da parte del giudice dell'esecuzione, del compito di indire e
dirigere le operazioni di vendita con incanto dei beni immobili sottoposti a procedura di
espropriazione forzata. Le riforme processuali del 2005 hanno allargato la possibilità di
delega ad altri professionisti, quali avvocati e commercialisti, e hanno ampliato l'oggetto
della delega, comprendendovi l'intera fase della vendita (quindi anche la fase della vendita
senza incanto). Quindi la legge oggi consente la possibilità di sottrarre un ampio segmento
del processo esecutivo alla gestione diretta del giudice dell’esecuzione, a meno che
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quest’ultimo, sentiti i creditori, ravvisi l’esigenza di procedere direttamente alle operazioni


di vendita a tutela degli interessi delle parti. Alla base di tale previsione vi è la
constatazione che la trasformazione in danaro dei beni è un’attività economica che
presuppone una capacità professionale, che gli organi dell’ufficio esecutivo
istituzionalmente non hanno.

Avvenuto il versamento del prezzo, il professionista delegato predispone il decreto di


trasferimento e trasmette senza indugio il fascicolo al giudice dell'esecuzione, al quale
soltanto la legge riserva l'emanazione del decreto di trasferimento definitivo del bene.
Quando sorgano difficoltà nel corso delle operazioni delegate di vendita, il professionista
può rivolgersi al giudice dell’esecuzione, il quale le risolve con decreto. Le parti e gli
interessati possono proporre reclamo avverso il decreto, nonché avverso gli atti del
professionista delegato con ricorso allo stesso giudice, il quale provvede con ordinanza; il
ricorso non sospende le operazioni di vendita salvo che il giudice, ricorrendo gravi motivi,
disponga in tal senso. Contro il provvedimento del giudice è ammesso il reclamo ex art. 669
terdecies. La riforma del 2015 ha disposto che il giudice dell’esecuzione, sentito
l’interessato, dispone la revoca della delega delle operazioni di vendita se non vengono
rispettati i termini e le direttive per lo svolgimento delle operazioni, salvo che il
professionista delegato dimostri che il mancato rispetto dei termini o delle direttive sia
dipeso da causa a lui non imputabile.

405.L'espropriazione dei beni indivisi

Questo processo espropriativo ha per oggetto beni indivisi, che l’art. 599 consente di
sottoporre a pignoramento anche quando non tutti i comproprietari siano obbligati verso il
creditore procedente. Nell’espropriazione in esame si è soliti ricomprendere anche l’ipotesi
ex art. 189 co. 2°, in cui i creditori

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particolari di uno dei coniugi, che si trovano in regime di comunione legale dei beni,
intendono soddisfarsi (in via sussidiaria) sui beni della comunione anche se il credito è
sorto anteriormente al matrimonio, fino al valore corrispondente alla quota del coniuge
obbligato. Il pignoramento non può che colpire la quota, sia pure indivisa, del bene oggetto
di comproprietà. Occorre notificare agli altri comproprietari (non debitori) un avviso, per
effetto del quale ai comproprietari, oltre ad essere data conoscenza del pignoramento, è
fatto divieto di “lasciar separare dal debitore la sua parte delle cose comuni senza ordine del
giudice”, cioè di stipulare atti negoziali di divisione, che potrebbero pregiudicare il
soddisfacimento del credito. Ex art. 600 il giudice dell'esecuzione, su istanza del creditore
pignorante o degli stessi comproprietari, dopo aver sentito tutti gli interessati (cioè, oltre
alle parti e ai comproprietari, anche i creditori iscritti o che abbiano fatto opposizione in
data anteriore al pignoramento), deve provvedere alla separazione in natura della quota
spettante al debitore, quando la separazione sia materialmente possibile e non produca
pregiudizio al bene. Diversamente, se la separazione in natura non è chiesta o non è
possibile, il giudice dispone che si proceda alla divisione ai sensi del codice civile, salvo
che ritenga probabile la vendita della quota indivisa ad un prezzo pari o superiore al valore
della stessa. Nel caso di divisione secondo il codice civile, l'esecuzione è sospesa di diritto
finchè sulla divisione stessa non sia intervento un accordo fra le parti o sia pronunciata una
sentenza di divisione. Avvenuta la divisione, la vendita o l'assegnazione dei beni attribuiti
al debitore ha luogo secondo le norme comuni. Il giudizio con cui si procede alla divisione
(c.d. divisione endoesecutiva), pur costituendo una parentesi di cognizione nell’ambito del
procedimento esecutivo, dal quale rimane soggettivamente e oggettivamente distinto tanto
da non poterne essere considerato né una continuazione né una fase, tuttavia è ad esso
funzionalmente correlato. Ne consegue che il giudizio di divisione dei beni pignorati non
può essere iniziato e, se iniziato, non può proseguire ove venga meno in capo all’attore la
qualità di creditore e, con essa, la legittimazione e l’interesse ad agire.

406.L'espropriazione contro il terzo proprietario

Ai sensi dell’art. 602, l'espropriazione contro il terzo proprietario (cioè contro un soggetto
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diverso dal debitore) ha ad oggetto o un bene gravato da pegno o da ipoteca per un debito
altrui ovvero un bene la cui alienazione da parte del debitore è stata revocata per frode: ad
es. terzi proprietari possono essere il terzo datore di pegno o il terzo proprietario di beni
mobili registrati soggetti ad ipoteca. Per la sua relazione giuridica con il bene oggetto
dell'espropriazione, il terzo (pur non essendo debitore del creditore procedente) è
certamente soggetto passivo e destinatario dell'azione esecutiva, anche se essa lo colpisci
solo in relazione a determinati beni. All'espropriazione contro il terzo proprietario si
applicano le norme ordinarie dettate per l'espropriazione mobiliare e immobiliare, integrate
dagli artt. 603 e 604. L'art. 603 impone che il titolo esecutivo ottenuto nei confronti del
debitore e il precetto siano notificati anche al terzo e che, in quest’ultimo atto, deve essere
fatta espressa menzione del bene del terzo che si intende espropriare. Il terzo proprietario
può proporre tutte le opposizioni che potrebbe proporre il debitore esecutato e inoltre
(diversamente dal debitore) può formulare offerte di acquisto nell’incanto. Infine, il terzo
deve essere sentito ogni volta che la legge prevede l’obbligo in capo al giudice
dell’esecuzione di audizione del debitore.

407.L'espropriazione forzata contro le pubbliche amministrazioni

Occorre premettere che le PA e gli enti pubblici sono soggetti al principio della
responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c. e che, di fronte al provvedimento di condanna
al pagamento di somme di denaro, la posizione del soggetto pubblico non è diversa da
quella del soggetto privato, salvi i limiti posti dalla legge alla pignorabilità dei beni dello
Stato e degli enti pubblici, in relazione alla loro natura e destinazione. Le somme di denaro
della PA possono essere considerate impignorabili soltanto per effetto di una disposizione
di legge o di un provvedimento amministrativo che nella legge trovi fondamento, non
essendo sufficiente a tal fine la mera

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iscrizione nel bilancio dell’ente, in quanto la funzione amministrativa non può svolgersi in
contrasto col principio ex art. 2740 c.c. Se ai fini della formazione del titolo esecutivo nei
confronti della PA non sussistono particolari differenze, molteplici sono le differenze nella
fase di realizzazione della pretesa, al punto che può parlarsi di una forma speciale di
processo esecutivo nei confronti della PA. Il discorso riguarda in particolare
l’espropriazione presso terzi, che rappresenta la forma preponderante per il recupero, nei
confronti degli enti pubblici e delle PA di crediti aventi ad oggetto somme di denaro. L'art.
31 del d.l. 669/1996 dispone che le amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici non
economici completano le procedure per l'esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei
lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e comportanti l'obbligo di pagamento di somme di
danaro entro il termine di 120 giorni dalla notificazione del titolo esecutivo, prima del quale
il creditore non può procedere ad esecuzione forzata né porre in essere atti esecutivi.
Evidentemente si tratta di una disposizione “di favore”. Inoltre gli atti introduttivi del
giudizio di cognizione, gli atti di precetto, nonché gli atti di pignoramento e sequestro
devono essere notificati a pena di nullità presso la struttura territoriale dell'ente pubblico
nella cui circoscrizione risiedono i soggetti privati interessati e contenere i dati anagrafici
dell’interessato, il codice fiscale e il domicilio.

CAP. 39: I PROCESSI DI ESECUZIONE FORZATA IN FORMA SPECIFICA

408.Premessa

Oltre all'espropriazione forzata nelle sue varie forme, il codice di procedura civile disciplina
l'esecuzione forzata in forma specifica, che ha ad oggetto la consegna o il rilascio di un
bene ovvero un obbligo di fare o di non fare. Opportunamente è stato osservato (Luiso) che,
mentre la direzione degli effetti dell’espropriazione forzata è soggettiva, perché dipende
dall’individuazione del debitore esecutato da parte del creditore procedente e gli effetti si
verificano solo nella sfera giuridica di tale soggetto, nell’esecuzione in forma specifica la
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direzione degli effetti dell’esecuzione è oggettiva. Infatti gli effetti della stessa si producono
non secondo la scelta del creditore procedente, ma secondo l’effettiva situazione esistente:
più precisamente, nei confronti di chi detiene materialmente il bene, nell’esecuzione per
consegna o rilascio, ovvero nei confronti di quest’ultimo e del proprietario, nell’esecuzione
degli obblighi di fare.

Va osservato anche che la legge nulla dice in ordine al problema del possibile conflitto tra
esecuzione per consegna o rilascio ed esecuzione di obblighi di fare o non fare. Tale
problema ci sembra risolvibile in base al principio generale che vieta provvedimenti
giudiziari paralizzanti o limitanti l’efficacia di altri provvedimenti giudiziari: ne deriva la
prevalenza dell’esecuzione forzata specifica iniziata per prima.

409.L'esecuzione forzata in forma specifica per consegna (di cose mobili) o rilascio
(di cose immobili)

Come risulta dall’art. 2930 c.c., chi ha titolo per l'esecuzione forzata per consegna o rilascio
ottiene (o riottiene) il possesso (o il pieno possesso) di una cosa mobile o immobile
determinata contro chi la possiede o la detiene in violazione del diritto accertato nel titolo.
Ai sensi dell'art. 605 c.p.c., il precetto per consegna di beni mobili o rilascio di beni
immobili deve contenere, oltre alle indicazioni di cui all'art. 480, anche la descrizione
sommaria dei beni stessi. Circa il procedimento da seguirsi, l'art. 606 c.p.c. dispone che,
decorso il termine per l'adempimento spontaneo indicato nel precetto, l'ufficiale giudiziario,
munito del titolo esecutivo e del precetto, si reca nel luogo in cui le cose si trovano e le
ricerca, facendone consegna alla parte istante o a persona da essa designata. Se pero le cose
da consegnare sono pignorate, la consegna non può avere luogo e la parte

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istante deve far valere le sue ragioni mediante opposizione di terzo all’esecuzione. La
liquidazione delle spese della procedura, che sono poste a carico della parte esecutata, è
fatta dal giudice dell’esecuzione.

L'esecuzione si estingue se la parte istante, prima della consegna o del rilascio, vi rinuncia
con atto da notificarsi alla parte esecutata e da consegnarsi all'ufficiale giudiziario
procedente. Particolari disposizioni sono dettate dall'art. 608 c.p.c. con riferimento al
rilascio dell'immobile, che è l’ipotesi più frequente di applicazione: la norma prevede che in
tal caso l'esecuzione inizia con la notifica dell'avviso con il quale l'ufficiale giudiziario
comunica almeno 10 giorni prima alla parte tenuta a rilasciare l’immobile il giorno e l'ora in
cui procederà. Nel giorno e nell'ora stabiliti, l'ufficiale giudiziario, munito del titolo
esecutivo e del precetto, si reca sul luogo dell'esecuzione e immette la parte istante o una
persona da lei designata nel possesso dell'immobile, ingiungendo agli eventuali detentori di
riconoscere il nuovo possessore. L'esecuzione si esaurisce in ogni caso con l'immissione
della parte procedente nel possesso dello stesso.

410.Provvedimenti circa i mobili estranei all’esecuzione per rilascio

Al fine di rendere più agevole e certa la chiusura della procedura di rilascio, il d.l.
132/2014, convertito in l. 162/2014, è intervenuto sullo specifico profilo della liberazione
dell’immobile oggetto di rilascio dai beni mobili (estranei all’esecuzione) che ivi si trovano,
riscrivendo l’art. 609. Analizziamo l’iter:

a. l’ufficiale giudiziario intima al soggetto tenuto al rilascio (se è proprietario


dei beni mobili rinvenuti nell’immobile oggetto di rilascio) ovvero al soggetto
che ne risulta essere proprietario (se è persona diversa dall’intimato) di
asportare tali beni, fissando un preciso termine per l’asporto
b. se i beni non vengono asportati nel termine assegnato, la loro sorte viene
rimessa alla volontà del soggetto istante
c. se, a seguito di richiesta della parte istante, il valore dei beni stimato
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dall’ufficiale giudiziario è superiore all’importo delle spese di asporto e di


custodia e queste ultime sono anticipate dalla parte istante, l’ufficiale nomina
un custode, incaricandolo di trasportare i beni in altro luogo. Dopodichè si
procede alla loro vendita, secondo le modalità determinate dal giudice della
procedura di rilascio
d. se non vi è istanza oppure viene formulata istanza ma non viene esborsato
l’importo occorrente per l’asporto e la custodia oppure, ancora, il valore dei
beni è inferiore a quello delle spese di asporto e di custodia, l’ufficiale
giudiziario dichiara abbandonati i beni e ne dispone lo smaltimento e/o la
distruzione
e. prima che abbia luogo la vendita ovvero lo smaltimento e/o la distruzione, al
proprietario dei beni viene data la facoltà di chiedere al giudice
dell’esecuzione la consegna degli stessi in suo favore.

411.L'esecuzione forzata in forma specifica per fare e non fare

Come risulta dagli artt. 2931 e 2933 c.c., chi ha titolo per l’esecuzione in forma specifica di
un fare o non fare, ottiene, per mezzo di operazioni affidate dal giudice ad uno o più terzi e
compiute “a spese” dell’obbligato, un risultato che è l’equivalente, o meglio il “surrogato”,
di ciò che doveva essere conseguito o conservato a seguito dell’adempimento da parte del
debitore dell’obbligo di fare o di non fare inadempiuto. L'art. 612 c.p.c. richiamato dagli
artt. 2931 e 2933 c.c., premesso al co. 1° che chi intende ottenere l'esecuzione forzata di
una sentenza di condanna per violazione di un obbligo di fare o di non fare, dopo la
notificazione del precetto, deve chiedere con ricorso al giudice dell'esecuzione che siano
determinate le modalità dell'esecuzione, al co. 2° stabilisce che il giudice dell'esecuzione
designa con ordinanza l'ufficiale giudiziario e i soggetti che devono procedere al
compimento dell'opera non eseguita o alla distruzione di quella compiuta dall'obbligato.
Questo provvedimento, contrariamente a quanto sostiene la giurisprudenza, è destinato solo
a determinare le modalità

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dell'esecuzione e a designare gli ausiliari del giudice, non a decidere il contenuto delle
operazioni risarcitorie o riparatorie. L'ufficiale giudiziario ex art. 613 può farsi assistere
dalla forza pubblica e deve chiedere al giudice dell'esecuzione, che provvede con decreto, le
opportune disposizioni per eliminare le difficoltà che sorgono nel corso dell'esecuzione. Del
resto gli organi del processo esecutivo possono, in sede di esecuzione in forma specifica,
sostituirsi all’obbligato solo nel compimento di operazioni materiali, e non di attività
giuridiche intese a modificare, a favore dell’avente diritto, la sfera giuridica dello stesso
obbligato. Inoltre l'esecuzione forzata in forma specifica per l'esecuzione degli obblighi di
fare e di non fare non è adoperabile per l'attuazione di obblighi materialmente o
giuridicamente infungibili, cioè che possono essere posti in essere soltanto dall'obbligato
(ad es. l’obbligo di dipingere un quadro). Bisogna rammentare che le accennate “operazioni
surrogatorie” del fare o disfare inadempiuto possono, in varie ipotesi normative, essere
compiute in sede di cognizione ordinaria e sono qualificate come risarcitorie o riparatorie,
ma non esecutive. Allora è chiaro che il processo in esame serve solo quando le operazioni
riparatorie e risarcitorie si debbano compiere su di un bene che è posseduto o detenuto dal
soggetto passivo, cioè quando non bastino a realizzare la sanzione le fasi di cognizione
descritte. Infine, la parte che per ottenere l'esecuzione in proprio favore dell'obbligazione di
fare ha dovuto iniziare un processo di esecuzione ha diritto al rimborso, oltre che delle
spese anticipate per far compiere le operazioni materiali di esecuzione dell'obbligo, anche
di quelle di rappresentanza tecnica (cioè dell'avvocato).

CAP. 40: LE OPPOSIZIONI ESECUTIVE

414. Il “sistema” delle opposizioni esecutive

Le opposizioni esecutive (artt. 615-621) costituiscono giudizi di ordinaria cognizione,


autonomi sia rispetto al processo di esecuzione, sia rispetto al processo di cognizione nel
quale si forma il titolo esecutivo, che si svolgono di norma (ma non sempre) nel corso di un
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processo esecutivo già pendente e che sono diretti a provocare accertamenti sulla legittimità
dell'azione esecutiva intrapresa, o di singoli atti emessi dal giudice dell'esecuzione nel corso
di svolgimento del processo esecutivo. L’autonomia delle opposizioni esecutive rispetto ai
giudizi di cognizione ordinaria nel corso dei quali si formano i titoli esecutivi è, però,
soltanto strutturale (cioè attiene all’indipendenza dei giudizi), ma non funzionale, nel senso
che nel corso dei giudizi di opposizione non è possibile sovvertire il contenuto di
provvedimenti cognitivi ormai consolidati, né incidere sulle vicende del processo di
cognizione ancora in corso, essendo l’esito del giudizio oppositivo comunque destinato ad
esplicare effetti sul processo esecutivo pendente. Le opposizioni esecutive si svolgono
secondo le regole procedimentali che reggono il giudizio di ordinaria cognizione, nonché
sulla base di regole appositamente dettate dal legislatore.

Tra le opposizioni esecutive il posto preminente è occupato dall'opposizione all'esecuzione


e dall'opposizione agli atti esecutivi, ma il codice prevede anche l’opposizione di terzo
all’esecuzione. La differenza fra opposizione all'esecuzione e opposizione agli atti esecutivi
va individuata nel fatto che la prima investe l'an dell'azione esecutiva, cioè il diritto della
parte istante a promuovere l'esecuzione sia in via assoluta che relativa, mentre la seconda
attiene al quomodo dell'azione stessa e concerne quindi la regolarità formale del titolo
esecutivo o del precetto ovvero dei singoli atti di esecuzione senza riguardare il potere
dell'istante ad agire in executivis. Va osservato che il sistema delle opposizioni esecutive si
è ampliato, comprendendo anche le opposizioni proposte contro il provvedimento del
giudice dell’esecuzione che risolve le controversie sorte in sede di distribuzione del
ricavato ex art. 512: tali controversie sono oggi decise dal giudice dell’esecuzione con
ordinanza, impugnabile con il rimedio dell’opposizione agli atti esecutivi. In sostanza le
riforme processuali hanno attribuito al giudice dell’esecuzione il potere, avente natura e
funzione dichiarative, di risolvere con ordinanza quelle controversie che in precedenza
costituivano anch’esse oggetto di una parentesi cognitiva. Ciò, da un lato, rafforza la tesi

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tradizionale, secondo la quale nel processo esecutivo non vi sono controversie da decidere,
ma diritti da attuare, tant’è vero che al giudice dell’esecuzione non è mai concesso il potere
di emanare sentenze, ma solo ordinanze e decreti; dall’altro, rafforza la centralità del
sistema delle opposizioni esecutive, nel senso che, a seguito delle riforme, l’opposizione
distributiva non costituisce più un processo cognitivo esterno alla procedura esecutiva.

415. L'opposizione all'esecuzione

L'opposizione all'esecuzione è un ordinario giudizio di cognizione con il quale “si contesta


il diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata” (art. 615), cioè si contesta la
legittimità dell'azione esecutiva sulla base di un determinato titolo esecutivo. Essa può
proporsi sia prima che dopo l'inizio dell'esecuzione forzata (nel primo caso si parla di
opposizione a precetto). La contestazione può avere ad oggetto:

 la legittimazione attiva o passiva. In tal caso si contesta che il creditore istante sia
soggetto diverso dal creditore effettivo ovvero che il soggetto esecutato (o da
esecutare) non sia l'effettivo debitore
 l'inesistenza, l'invalidità o l'inefficacia del titolo esecutivo. In questi casi la
contestazione può avere ad oggetto sia vizi originari del titolo esecutivo (ad es.
l'assoluta incertezza del soggetto obbligato), sia vizi successivi (ad es. la
sopravvenuta revoca del provvedimento sommario costituente titolo esecutivo)
 l'inesistenza, l'invalidità o l'inefficacia del diritto documentato nel titolo esecutivo. Si
tratta della c.d. opposizione di merito all'esecuzione, che tiene conto della tipologia
del titolo esecutivo fatto valere. Infatti, se l’esecuzione è promossa in base a titolo
esecutivo giudiziale, il giudicato eventualmente già formatosi o anche la mera
pendenza del giudizio di cognizione nel corso del quale il titolo si è formato
impediscono di dedurre in questa sede censure di merito già assorbite da quel
giudicato o tuttora oggetto di accertamento da parte del giudice della cognizione.
Pertanto gli unici motivi di opposizione potranno riguardare fatti modificativi o
estintivi, verificatisi successivamente al formarsi del titolo. Invece, se si tratta di
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titolo esecutivo stragiudiziale, proprio per l’assenza di un processo cognitivo già


concluso o in itinere, i motivi di opposizione non subiscono alcuna limitazione
 l'impignorabilità dei beni che il creditore procedente intende sottoporre ad esecuzione
forzata.

Quanto alla legittimazione attiva, l'opposizione all'esecuzione è esperibile in primis dal


debitore esecutato. Talora, però, il soggetto legittimato può non coincidere con quello
indicato come debitore dal titolo esecutivo, ad es. nel caso di successione a titolo
particolare o universale oppure di espropriazione contro il terzo proprietario. Si ammette in
dottrina che l'opposizione possa essere proposta in via surrogatoria, ex art. 2900 c.c., anche
da un creditore dell'esecutato, nel caso di inerzia di quest'ultimo. Inoltre, nell'opposizione al
precetto, la legittimazione attiva compete al soggetto contro cui l'esecuzione è minacciata e
quella passiva al creditore che ha intimato il precetto. Ai fini dell'individuazione del giudice
competente a pronunciarsi sull'opposizione all'esecuzione, l'art. 615 c.p.c. distingue a
seconda che l’opposizione venga proposta prima o dopo l'inizio dell'esecuzione:

 l'opposizione a precetto si propone con citazione davanti al giudice competente per


materia o valore e per territorio
 quando l'esecuzione è già iniziata, le contestazioni sull'an si propongono con ricorso
al giudice dell'esecuzione.

La legge non fissa, diversamente da quanto fa per l’opposizione agli atti esecutivi, un
termine finale di decadenza per la proposizione dell'opposizione all'esecuzione. Perciò il
termine non può che coincidere con la conclusione delle operazioni esecutive.

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416. La sospensione del titolo esecutivo

Il codice del 1940 non prevedeva un generale controllo giurisdizionale preventivo


sull’idoneità del titolo esecutivo a fondare legittimamente un’esecuzione forzata, anche in
relazione ad eventuali fatti verificatisi successivamente alla formazione del titolo che
potevano paralizzare il ricorso all’azione esecutiva (si pensi soprattutto alla sopravvenuta
riforma della sentenza di 1° grado). La notificazione dell’atto di precetto poteva provocare
eventuali opposizioni da parte del soggetto passivo, che però non consentivano di
paralizzare l’azione esecutiva, non prevedendo il testo previgente dell’art. 615 co. 1° alcun
potere di sospensione in capo al giudice dell’opposizione a precetto, potere che era
riconosciuto solo al giudice dell’esecuzione, cioè solo dopo l’avvenuto esercizio dell’azione
esecutiva. La giurisprudenza aveva tentato di colmare il vuoto normativo, ritenendo
ammissibile, in mancanza del potere in capo al giudice dell’opposizione a precetto,
l’intervento del giudice della cautela atipica, nella fase temporale che va dalla notifica
dell’atto di precetto al pignoramento, diretto ad inibire al creditore di procedere al
pignoramento, con provvedimento d’urgenza ex art. 700.

Le riforme del 2005 e 2006 hanno significativamente inciso sul tema: infatti oggi l’art. 615
co. 1° stabilisce che il giudice dinanzi al quale è proposta l’opposizione a precetto,
concorrendo gravi motivi, può sospendere, su istanza di parte, l’efficacia esecutiva del
titolo. Di norma, l'istanza di parte sarà contenuta nello stesso atto che introduce
l'opposizione a precetto, e in ogni caso prima che il creditore opposto dia inizio all'azione
esecutiva attraverso il pignoramento. Per quanto attiene al presupposto dei “gravi motivi”,
riteniamo che essi siano di norma quelli che si ricavano dalle ragioni poste a fondamento
dell’opposizione a precetto e che rendono probabile il conseguente accoglimento
dell’opposizione. Il provvedimento di sospensione (o di diniego di sospensione) è
impugnabile attraversi reclamo ex art. 669 terdecies.

417. Il procedimento

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L'opposizione a precetto si propone di norma con citazione di fronte al giudice competente


per materia e valore in ordine al diritto azionato in executivis, individuato, quanto alla
competenza territoriale, nel giudice del luogo ove si svolge l'esecuzione. Il convenuto può
difendersi con una comparsa di risposta ovvero una memoria difensiva e in quella sede
proporre le eccezioni e le eventuali domande riconvenzionali. Di fronte al giudice così
individuato, la trattazione della causa si svolge secondo il rito ordinario a cognizione piena.
Nel corso della prima udienza (o in un'udienza fissata ad hoc) il giudice è chiamato a
decidere sull'eventuale istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo. Quando è
iniziata l'esecuzione, la forma prescritta per l’opposizione è quella del ricorso al giudice
dell'esecuzione, che può essere presentato anche oralmente in udienza e deve contenere i
requisiti richiesti dall’art. 125 e dall’art. 163 n. 4 e n. 5. Il procedimento con cui viene
decisa l'opposizione all'esecuzione è stato fatto oggetto di importanti modificazioni ad
opera della l. 52/2006, in particolare:

 il giudice dell'esecuzione, con decreto redatto in calce al ricorso, fissa l'udienza per la
comparizione delle parti di fronte a sé e il termine perentorio per la notificazione del
ricorso e del decreto
 all'udienza di comparizione si applicano le norme del procedimento camerale
 nel corso di questa udienza, il giudice dell'esecuzione provvede innanzitutto
sull'istanza di sospensione del processo esecutivo, ove proposta, e successivamente
valuta quale sia l'ufficio giudiziario competente a decidere l'opposizione
 se ritiene sussistente la competenza dell'ufficio fissa alle parti un termine perentorio
per l'instaurazione del giudizio di merito; altrimenti rimette la causa dinanzi
all'ufficio giudiziario da lui ritenuto competente, assegnando alle parti un termine
perentorio per la riassunzione della causa
 l'opposizione è decisa con sentenza appellabile.

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418. L'opposizione agli atti esecutivi

L'opposizione agli atti esecutivi rappresenta un autonomo giudizio di cognizione, con il


quale si fanno valere ex art. 617 le contestazioni sulle “regolarità formali” di singoli atti
esecutivi o di atti preliminari all'esecuzione forzata (non a caso di parla anche di
“opposizione formale). Innanzitutto è necessario individuare la linea di discrimine tra
opposizione all'esecuzione e opposizione agli atti esecutivi: ebbene, mentre l’opposizione
all’esecuzione ha per oggetto il diritto della parte istante di procedere ad esecuzione forzata
per difetto originario o sopravvenuto del titolo esecutivo o della pignorabilità dei beni,
l'opposizione agli atti esecutivi consiste nella contestazione della legittimità dello
svolgimento dell'azione esecutiva attraverso il processo, e quindi ha ad oggetto la regolarità
degli atti e dei provvedimenti adottati nel corso del processo esecutivo o preliminari
all'azione esecutiva, nonché la loro notificazione. Peraltro la contemporanea proposizione,
con unico atto, di opposizione all’esecuzione e di opposizione agli atti esecutivi, non sposta
la competenza funzionale del giudice dell’esecuzione: ne consegue che la parte integrante
l’opposizione agli atti esecutivi spetta alla competenza per materia del giudice
dell’esecuzione, mentre la parte integrante l’opposizione all’esecuzione resta soggetta ai
criteri di competenza per valore. Occorre aggiungere che il richiamo contenuto nell'art. 617
al concetto di “regolarità formali” va interpretato non in senso letterale, limitato ai soli vizi
che investono la forma, ma esteso a tutti i vizi di invalidità, inopportunità e incongruenza
che possono colpire l'atto esecutivo, cioè ad ogni deviazione e abuso che può verificarsi
nella pronuncia dell'atto, anche con riferimento all'uso distorto dei poteri discrezionali che
la legge attribuisce al giudice dell'esecuzione: ad es. sono opposizioni agli atti esecutivi
quelle con cui l'esecutato deduce le nullità dell'apposizione della formula esecutiva al titolo
notificato oppure gli errori nelle modalità di redazione del precetto.

419. Il procedimento

Al contrario dell’opposizione all’esecuzione (per la proposizione della quale non è previsto


alcun termine), l'opposizione agli atti esecutivi va proposta nel termine perentorio di 20
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giorni. La decorrenza di questo termine deve sempre presupporre la conoscenza legale o la


conoscibilità dell'atto esecutivo opposto e varia perciò a seconda dell'atto impugnato: dalla
notificazione del titolo esecutivo o dal precetto o dal primo atto di esecuzione, se si tratta di
detti atti, ovvero dal giorno in cui il singolo atto è stato compiuto. Se l'opposizione non è
tempestivamente proposta, resta preclusa la successiva deduzione del vizio dell'atto
esecutivo e viene a determinarsi la conseguente “sanatoria” dello stesso. Sono legittimati
all'opposizione il debitore esecutato, il terzo assoggettato all'espropriazione, i creditori
(procedente e intervenuti), i terzi che, pur non essendo parti del processo, partecipano a
determinate fasi del processo esecutivo o sono comunque destinatari degli effetti dell'atto
esecutivo (ad es. gli offerenti all’incanto). Come per l’opposizione all’esecuzione, anche
per l'opposizione agli atti esecutivi l'art. 617 c.p.c. distingue tra opposizione preesecutiva ed
esecutiva, a seconda che le contestazioni siano indirizzate prima dell'inizio dell'esecuzione
nei confronti del titolo esecutivo, del precetto o del preavviso di rilascio ovvero in momento
successivo all'inizio dell'esecuzione:

 nel primo caso l'opposizione va proposta con citazione davanti al giudice del luogo
dove il precetto è stato notificato, e il procedimento si svolge secondo le forme del
rito di ordinaria cognizione
 nel secondo caso, quando l'esecuzione è iniziata, le opposizioni si propongono con
ricorso (o anche oralmente all’udienza) al giudice dell'esecuzione.

Ex art. 618 il giudice dell'esecuzione fissa con decreto l'udienza di comparizione delle parti
davanti a sé e il termine perentorio per la notificazione del ricorso e del decreto. Nei casi
urgenti, con il decreto di fissazione dell'udienza, egli dà, inaudita altera parte, i
provvedimenti opportuni e quelli indilazionabili: provvedimenti, questi, che il legislatore ha
lasciato volutamente innominati, in quanto in grado di adattarsi alle particolarità della
situazione contingente. Infine il giudice dell’esecuzione (analogamente a quanto previsto in
caso di

470
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opposizione all’esecuzione e di opposizione di terzo all’esecuzione) può anche disporre la


sospensione della procedura esecutiva. Tutti questi provvedimenti sono reclamabili ex art.
669 terdecies.

Successivamente, in ogni caso, il giudice dell'esecuzione fissa un termine perentorio per


l'introduzione del giudizio di merito, previa iscrizione a ruolo a cura della parte interessata.
Il giudizio si svolge davanti allo stesso ufficio giudiziario, ma di fronte ad un giudice che,
secondo i criteri tabellari, è diverso dal giudice dell'esecuzione: la previsione attua
evidentemente il principio costituzionale di terzietà e imparzialità del giudice, impedendo
che dell’opposizione conosca il medesimo giudice (inteso come persona fisica) che ha
emanato l’atto esecutivo opposto. La sentenza pronunciata sull'opposizione agli atti
esecutivi è espressamente dichiarata “non impugnabile” dall’art. 618. Essa, però, in quanto
pronunciata in unico grado, dotata di carattere decisorio e incidente su diritti soggettivi
delle parti, è ricorribile in Cassazione con ricorso straordinario ex art. 111 Cost.

420. L'opposizione di terzo all'esecuzione

L'opposizione di terzo all'esecuzione rappresenta un rimedio messo a disposizione di un


soggetto che non è parte del processo esecutivo, ma che può vantare pretese in ordine alla
“proprietà o altro diritto reale sui beni pignorati” (art. 619). L'oggetto di questa opposizione
è limitato, nel senso che non può estendersi al titolo esecutivo in quanto tale (che non
produce né può produrre effetti nei confronti del terzo), ma solo a quegli atti esecutivi che
coinvolgono beni che il terzo assume essere propri. In sostanza, il terzo opponente (non
essendo parte del processo esecutivo) è legittimato a far valere il proprio diritto reale sul
bene oggetto dell'esecuzione forzata, ma non ad eccepire i vizi della relativa procedura
ovvero ad impugnare la validità del titolo posto a base di essa (ad es. il terzo non può
dedurre l’impignorabilità dei beni). L'opposizione in esame si propone con ricorso al
giudice dell'esecuzione, prima che sia disposta la vendita o l'assegnazione dei beni. Ex art.
620, se in seguito all'opposizione il giudice non sospende la vendita dei beni mobili o se
l'opposizione è proposta dopo la vendita stessa (c.d. opposizione tardiva), i diritti del terzo
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si fanno valere sulla somma ricavata. In questo giudizio il debitore esecutato riveste la
qualità di litisconsorte necessario, in quanto la relativa sentenza non tende al solo
accertamento dell'illegittimità dell'esecuzione in rapporto al suo oggetto, ma ha ad oggetto
l'accertamento della provenienza del diritto spettante all'opponente sul bene. Il giudice
dell'esecuzione fissa con decreto l'udienza di comparizione delle parti davanti a sé.
All'udienza le parti possono raggiungere “un accordo”, cioè pervenire alla conciliazione
della lite: in questo caso il giudice dell'esecuzione ne dà atto con ordinanza; in caso
contrario, egli provvede ai sensi dell'art. 616 c.p.c. Pertanto, se competente per la causa è
l'ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice dell'esecuzione, questi fissa un termine
perentorio per l'introduzione del giudizio di merito; altrimenti rimette la causa dinanzi
all'ufficio giudiziario competente, assegnando un termine perentorio per la riassunzione
della causa. Nel corso del giudizio, il terzo opponente è sottoposto ai limiti della prova
testimoniale posti dall’art. 621, non potendo provare con testimoni (né per presunzioni
semplici) il proprio (vantato) diritto sui beni mobili pignorati nella casa o nell'azienda del
debitore, tranne che l'esistenza del diritto stesso sia “resa verosimile” dalla professione o
dal commercio esercitati dal terzo o dal debitore: si tratta di limiti probatori dettati
dall’esigenza di evitare possibili collusioni fra debitore e terzo.

421. Le opposizioni esecutive in materia di lavoro

Secondo l'art. 618 bis c.p.c., le opposizioni all'esecuzione e agli atti esecutivi relative alle
controversie individuali di lavoro e alle controversie in materia di previdenza e di
assistenza obbligatorie sono disciplinate dalle norme previste per il rito speciale del lavoro,
in quanto applicabili. La ratio della norma è da individuarsi nel fatto che le opposizioni
all’esecuzione rientrano nella competenza per materia del giudice del lavoro, in
considerazione dell’origine del credito e della natura della relativa causa. La norma
aggiunge che resta ferma la competenza

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del giudice dell'esecuzione nei casi disciplinati dal co. 2° dell'art.615 (opposizione ad
esecuzione già iniziata e opposizione che riguarda la pignorabilità dei beni) e dal co. 2°
dell'art.617 (opposizione agli atti esecutivi proposta dopo l'inizio dell'esecuzione e
opposizione inerente alla notificazione del titolo esecutivo o del precetto e ai singoli atti di
esecuzione). La l. 52/2006 ha aggiunto al co. 2° dell’art. 618 bis l’inciso “nei limiti dei
provvedimenti assunti dal giudice dell’esecuzione con ordinanza”. Il richiamo al rito del
lavoro deve ritenersi integrale per le opposizioni a precetto, mentre, per le opposizioni
esecutive proposte quando l’esecuzione è già iniziata, l’applicazione del rito del lavoro è
esclusa limitatamente alla fase camerale, di competenza del giudice dell’esecuzione ai sensi
dell’art. 616.

422. Opposizioni esecutive e rito sommario di cognizione

Occorre chiedersi se le opposizioni esecutive possano essere proposte nelle forme del
procedimento sommario (semplificato) di cognizione, in quanto modello processuale
alternativo alla cognizione ordinaria:

 per quanto attiene all'opposizione a precetto, il rito sommario di cognizione non pare
incompatibile con un procedimento che è in tutto e per tutto governato dalle regole
della cognizione ordinaria e perciò anche dal suo modello alternativo
 soluzione opposta deve rinvenirsi per le opposizioni all'esecuzione già iniziata e per
l'opposizione agli atti esecutivi, che sono regolate da disposizioni aventi
caratteristiche dichiaratamente speciali. Identiche considerazioni possono essere
svolte per le opposizioni in materia di lavoro, di previdenza e di assistenza, nonché
per l’opposizione di terzo all’esecuzione.

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CAP. 41: SOSPENSIONE ED ESTINZIONE DEL PROCESSO ESECUTIVO

423. Finalità e limiti della sospensione

La sospensione del processo esecutivo (artt. 623 ss.) determina l'arresto dello svolgimento
della procedura esecutiva, con la finalità di evitare il rischio che, in conseguenza del
compimento di ulteriori atti di esecuzione, si producano effetti irreversibili in danno dei
soggetti in essa coinvolti. Così, ex art. 626, quando il processo è sospeso, nessun atto
esecutivo può essere compiuto, salvo diversa disposizione del giudice dell'esecuzione.
Tuttavia, proprio perché determina un arresto della sequenza che conduce alla
soddisfazione del creditore procedente e dei creditori intervenuti, il potere di sospensione è
governato da limiti rigorosi: l’art. 623 stabilisce che, salvo che la sospensione sia disposta
dalla legge o dal giudice davanti al quale è impugnato il titolo esecutivo, l’esecuzione
forzata non può essere sospesa che con provvedimento del giudice dell’esecuzione. Da
questa norma possono enuclearsi 3 casi di sospensione:

 la sospensione disposta dalla legge


 la sospensione disposta dal giudice davanti al quale è impugnato il titolo esecutivo
 la sospensione da parte del giudice dell'esecuzione.

I primi due casi danno luogo a sospensioni c.d. necessarie, mentre il terzo è legato
all'esercizio di poteri discrezionali da parte del giudice dell'esecuzione. Vi è, poi, la
sospensione che consegue ex art. 624 bis all’istanza congiunta dei creditori titolati.

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424. La sospensione necessaria disposta dalla legge

La sospensione del processo esecutivo può essere disposta, in primo luogo, direttamente
dalla legge. La necessarietà deriva qui dal fatto che la legge impone al giudice
dell'esecuzione, con valutazione operata ex ante, in presenza di determinati presupposti, di
arrestare il corso del processo esecutivo, pur lasciando fermi gli effetti degli atti esecutivi
fino a quel momento compiuti. Un'ipotesi di sospensione per legge è ad es. quella prevista
dall'art. 601 c.p.c., nell'espropriazione di beni indivisi: in questo caso il giudice
dell'esecuzione ha l'obbligo di sospendere il processo quando il bene indiviso deve essere
oggetto di divisione.

425. La sospensione necessaria disposta dal giudice davanti al quale è impugnato il titolo
esecutivo

La seconda tipologia di sospensione è quella disposta dal giudice davanti al quale è


impugnato il titolo esecutivo. Rientrano in questa tipologia tutti i provvedimenti di
sospensione che possono essere emessi dal giudice della cognizione, tra i quali:

 la sospensione da parte del giudice d’appello degli effetti provvisoriamente esecutivi


della sentenza di 1° grado
 la sospensione della sentenza esecutiva pronunciata dallo stesso giudice d'appello, in
pendenza del ricorso per cassazione
 la sospensione disposta dal giudice competente a conoscere dell'opposizione di terzo
 la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo disposta dal giudice dell'opposizione
a precetto.

Il giudice dell'esecuzione è in questi casi chiamato a pronunciare il provvedimento di


necessaria sospensione del processo esecutivo, che ha natura meramente ricognitiva.

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426. La sospensione disposta dal giudice dell'esecuzione

La terza ipotesi di sospensione, stavolta non necessaria, è considerata dall'art. 623 c.p.c.
come espressione della regola generale secondo la quale, al di fuori delle ipotesi già
analizzate, solo il giudice dell'esecuzione può sospendere, con apposito provvedimento, il
processo pendente davanti a lui. La norma va coordinata con il successivo art. 624, il quale
disciplina tale potere attribuendo al giudice dell’esecuzione, ove sia proposta opposizione
all’esecuzione, il potere di sospendere il processo, “concorrendo gravi motivi”. Sull'istanza
di sospensione del processo il giudice dell'esecuzione provvede con ordinanza, sentite le
parti. Solo nei casi urgenti può disporre la sospensione con decreto, nel quale fissa l'udienza
di comparizione delle parti, in occasione della quale provvede con ordinanza. I presupposti
per disporre la sospensione del processo esecutivo che si ricavano dall’art. 624 sono,
quindi, oltre alla pendenza del giudizio di opposizione, l'esistenza di gravi motivi e la
proposizione di apposita istanza della parte. I gravi motivi, che giustificano l'accoglimento
dell'istanza di sospensione, sono quelli che si ricavano dalle ragioni poste a fondamento
della stessa opposizione e che rendono probabile l’accoglimento dell'opposizione. Il
presupposto dei gravi motivi va ovviamente collegato alla natura del titolo esecutivo che
sorregge l’azione esecutiva intrapresa e, di conseguenza, ai motivi che possono fondare
l’opposizione all’esecuzione. Il provvedimento di sospensione disposto ex art. 624 è idoneo
ad acquisire una propria stabilità, che può derivare da determinate ipotesi:

 il provvedimento di sospensione non è reclamato entro il termine di 15 giorni ex art.


669 terdecies
 se reclamato, il provvedimento di sospensione è confermato dal giudice del reclamo
 il provvedimento di sospensione è stato disposto dal giudice del reclamo, in
accoglimento dello stesso.

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L'art. 624 prosegue al co. 3° stabilendo che in tali casi il giudice dell'esecuzione dichiara,
anche d'ufficio, con ordinanza, l'estinzione del processo e ordina la cancellazione della
trascrizione del pignoramento, provvedendo anche sulle spese. L'ordinanza è reclamabile ex
art. 630 co. 3°. Il legislatore qui ha voluto mettere a disposizione delle parti la possibilità di
chiudere anticipatamente il processo esecutivo, evitando di attendere l'esito del giudizio di
opposizione. Pertanto accade che:

 l'opponente, che si è visto accogliere l'istanza di sospensione, deve scegliere se


promuovere il giudizio di merito oppure chiedere che sia disposta l'estinzione del
processo esecutivo
 in questo secondo caso, sono le altre parti a dover scegliere se promuovere il giudizio
di merito, affinchè l'opposizione sia decisa, oppure accettare l'estinzione del processo
esecutivo e la conseguente cancellazione della trascrizione del pignoramento.

428. La sospensione del processo esecutivo su istanza congiunta dei creditori titolati

L'art. 624-bis c.p.c. dispone che, su istanza di tutti i creditori muniti di titolo esecutivo, il
giudice dell'esecuzione può, sentito il debitore, sospendere il processo fino a 24 mesi. La
legittimazione a formulare l’istanza è limitata ai creditori titolati, per cui gli altri creditori
non titolati intervenuti dovranno subire tale scelta. L'istanza può essere proposta fino a 20
giorni prima della scadenza del termine per il deposito delle offerte di acquisto o, nel caso
in cui la vendita senza incanto non abbia luogo, fino a 15 giorni prima dell'incanto.
Sull'istanza, il giudice provvede nei 10 giorni successivi al deposito e, se l'accoglie, dispone
che nei 5 giorni successivi al deposito del provvedimento di sospensione lo stesso sia
comunicato al custode e pubblicato sullo stesso sito internet nel quale è pubblicata la
relazione di stima. La sospensione è disposta per una sola volta ed è revocabile in qualsiasi
momento, anche su richiesta di un solo creditore.

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429. La riassunzione del processo sospeso

A seguito del venir meno della causa della sospensione oppure decorso il periodo della
sospensione su richiesta dei creditori titolati ex art. 624 bis, il processo esecutivo non
riprende automaticamente il proprio corso, ma deve essere riassunto con ricorso nel termine
perentorio fissato dal giudice dell'esecuzione, e in ogni caso non oltre 6 mesi dal passaggio
in giudicato della sentenza di 1° grado o dalla comunicazione della sentenza d'appello che
rigetta l'opposizione all'esecuzione.

430. L'estinzione

Il fenomeno dell'estinzione del processo esecutivo si verifica quando non è più possibile la
prosecuzione di qualsiasi attività processuale, in presenza di fattispecie tipiche previste
dalla legge, da ricollegare a condotte volontarie attive delle parti (ad es. la rinuncia) ovvero
a condotte inerti. Queste ipotesi sono da taluni qualificate come casi di estinzione “tipica”
del processo esecutivo, per distinguerle da altre ipotesi di chiusura “atipica”. La distinzione
tra i due gruppi di ipotesi trova fondamento normativo sia nell’art. 187 bis disp. att. c.p.c.
(introdotto dalla l. 80/2005) che per la prima volta in un testo normativo ha fatto
riferimento alla “chiusura anticipata del processo esecutivo”, accostando questo fenomeno a
quello dell’estinzione; sia nell’art. 164 bis disp. att. c.p.c. (introdotto dal d.l. 132/2014), che
disciplina il fenomeno della “chiusura anticipata per infruttuosità” dei processi di
espropriazione forzata.

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431. Le ipotesi tipiche di estinzione

Nell'ambito del fenomeno dell'estinzione tipica possono inquadrarsi, tra le altre:

 la rinuncia (art. 629). Il fenomeno dell’estinzione per rinuncia al processo di


esecuzione ha caratteristiche non del tutto coincidenti con quelle dell'analogo
fenomeno che può colpire il processo di cognizione. La distinzione non comporta un
diverso contenuto del provvedimento finale, che è sempre e solo quello dichiarativo
dell’estinzione della procedura, ma nel caso di rinuncia al processo esecutivo non è
necessaria l’accettazione da parte del debitore, il quale non può avere interesse alla
prosecuzione del processo di esecuzione contro di lui promosso. L’ipotesi di
estinzione in esame può verificarsi quando, prima dell’aggiudicazione o
dell’assegnazione, il creditore pignorante e i creditori intervenuti muniti di titolo
esecutivo rinunciano agli atti ovvero quando, dopo la vendita, rinunciano agli atti
tutti i creditori concorrenti. Perciò l'estinzione del processo esecutivo per rinuncia è
disciplinata diversamente a seconda delle fase di svolgimento in cui si trova il
processo esecutivo: l’effetto estintivo viene ricollegato alla rinuncia o dei soli
creditori titolati ovvero di tutti i creditori
 l'inattività delle parti (art. 630). Oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge
(ad es. quando il pignoramento diviene inefficace ex art. 497, quando dal suo
compimento sono trascorsi 45 giorni senza che sia stata chiesta l’assegnazione o la
vendita), il processo esecutivo si estingue quando le parti non lo proseguono o non lo
riassumono nel termine perentorio stabilito dalla legge o dal giudice. Il testo
originario dell’art. 630 prevedeva che l’estinzione operasse di diritto, ma che dovesse
essere eccepita dalla parte interessata prima di ogni altra sua difesa. La l. 69/2009 ha
modificato la norma citata, stabilendo che l'estinzione opera sì di diritto, ma che essa
è dichiarata, anche d'ufficio, con ordinanza del giudice dell'esecuzione. L'ordinanza è
comunicata alle parti a cura del cancelliere, se è pronunciata fuori dall'udienza.
Quindi l’inattività delle parti non configura più un’inerzia sanabile per via
dell’acquiescenza delle parti, bensì una causa di estinzione sottratta alla loro
disponibilità. La dichiarazione di estinzione è, tuttavia, possibile non oltre la prima
udienza successiva al verificarsi della stessa. Contro l'ordinanza che dichiara
479
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l'estinzione ovvero rigetta l'eccezione relativa, è ammesso reclamo da parte del


debitore o del creditore pignorante o degli altri creditori intervenuti, nel termine
perentorio di 20 giorni dall'udienza o dalla comunicazione dell'ordinanza. Il collegio
provvede in camera di consiglio con sentenza. Ciò significa che il reclamo determina
l’apertura di un vero e proprio giudizio di cognizione sul contrapposto interesse
sostanziale dei creditori e del debitore
 la mancata partecipazione all'udienza (art. 631). Se nel corso del processo esecutivo
nessuna delle parti si presenta all'udienza, fatta eccezione per quella in cui ha luogo
la vendita, il giudice dell'esecuzione fissa una udienza successiva di cui il cancelliere
dà comunicazione alle parti. Se nessuna delle parti si presenta neppure alla nuova
udienza, il giudice dichiara con ordinanza l'estinzione del processo esecutivo
 l’omessa pubblicità sul portale delle vendite pubbliche (art. 631 bis). Questa ipotesi,
introdotta dal d.l. 83/2015, consegue alla mancata pubblicazione dell’avviso di
vendita sul portale delle vendite pubbliche nel termine stabilito dal giudice, per causa
imputabile al creditore pignorante o al creditore intervenuto munito di titolo
esecutivo.

432. Gli effetti dell'estinzione

Gli effetti dell'estinzione del processo esecutivo sono diversi a seconda del momento in cui
essa si verifica:

 se l'estinzione si verifica prima dell'aggiudicazione o dell'assegnazione, essa rende


inefficaci gli atti compiuti, determinando il venir meno del vincolo del pignoramento
sui beni, che pertanto tornano nella disponibilità del debitore

480
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 se essa avviene dopo l'aggiudicazione o l'assegnazione, la somma ricavata è


consegnata al debitore.

Con l'ordinanza che pronuncia l'estinzione è disposta sempre la cancellazione della


trascrizione del pignoramento e, con la stessa, il giudice dell'esecuzione provvede alla
liquidazione delle spese sostenute dalle parti (se richiesto) e dei compensi spettanti
all'eventuale professionista delegato.

433. Le ipotesi di chiusura “atipica” del processo esecutivo

Come già detto, l'art. 187 bis disp. att. c.p.c. (introdotto con la l. 80/2005) ha fatto per la
prima volta riferimento al concetto di “chiusura anticipata del processo esecutivo”,
accostando tale fenomeno a quello di estinzione. Secondo tale norma, in ogni caso di
estinzione o di chiusura anticipata del processo esecutivo avvenuta dopo l'aggiudicazione,
anche provvisoria, o l'assegnazione, restano fermi nei confronti dei terzi aggiudicatari o
assegnatari gli effetti di tali atti. Questo accostamento non autorizza comunque
l’assimilazione ai casi di estinzione, trattandosi di fenomeni diversi quanto alle cause e al
regime di controllo. Infatti si è qui in presenza di situazioni che impediscono al processo di
proseguire per ragioni “oggettive”, che prescindono da condotte inerti delle parti e perciò
sollecitano l’esercizio, in qualsiasi momento, dei poteri officiosi del giudice, il quale è
chiamato a pronunciare provvedimenti (ordinanze) che, accertando (positivamente o
negativamente) condizioni di proseguibilità del processo esecutivo, costituiscono atti
esecutivi, avverso i quali è esperibile l’opposizione agli atti esecutivi. Tra i casi di chiusura
atipica del processo esecutivo possiamo annoverare ad es. la chiusura:

 a seguito dell'accertato difetto di giurisdizione del giudice dell'esecuzione


 per originaria inesistenza del titolo esecutivo
 per difetto di patrocinio legale obbligatorio delle parti
 per sopravvenuta dichiarazione di fallimento del debitore
 per l’ipotesi disciplinata dall’art. 164 bis disp. att. c.p.c. (rubricato “Infruttuosità

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dell’espropriazione forzata”), il quale prevede che il giudice dell’esecuzione possa


disporre, anche d’ufficio, la chiusura anticipata del processo di espropriazione forzata
ogniqualvolta non sia più possibile ottenere un ragionevole soddisfacimento delle
pretese dei creditori, anche in esito alla valutazione dei costi necessari per la
prosecuzione della procedura, delle probabilità di liquidazione del bene staggito e del
presumibile valore di realizzo conseguibile mediante la liquidazione di tale bene. Il
legislatore, dunque, ha affidato al giudice il potere-dovere di chiudere
anticipatamente una procedura esecutiva, di cui è ormai acclarata l’inutilità.

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PARTE UNDICESIMA: I METODI DI RISOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE


ALTERNATIVI ALLA GIURISDIZIONE

CAP. 42: LA CONCILIAZIONE

434. Gli strumenti di risoluzione non giurisdizionale delle controversie

La garanzia costituzionale della tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi (art. 24 Cost.)
non esclude che, quando tali diritti siano disponibili (o meglio, quando sui beni e sugli
interessi che ne sono sostanza non interferiscano norme di diritto pubblico), le controversie
che sugli stessi nascano siano composte dalle parti con negozi di diritto privato. Nell'ambito
degli strumenti di risoluzione delle controversie alternativi alla giurisdizione (c.d. ADR,
acronimo di Alternative Dispute Resolutions) e aventi efficacia e natura negoziali, si
inquadrano quei fenomeni e istituti previsti dall'ordinamento al fine di favorire, in
considerazione dei costi e dei tempi del processo, la composizione negoziale in luogo della
decisione giurisdizionale delle controversie giuridiche. Si tratta di strumenti ai quali
l'ordinamento attribuisce importanza sempre crescente, in considerazione non solo del fatto
che essi contribuiscono all'alleggerimento dei carichi giudiziari, ma anche del fatto che essi,
affidando alle stesse parti la soluzione delle controversie tra loro insorte, possono regolare
gli interessi in contesa anche in maniera più soddisfacente per le parti medesime di quanto
non possa fare il provvedimento del giudice.

435. La mediazione finalizzata alla conciliazione: il d.lgs 4 Marzo 2010 n. 28

L'ordinamento giuridico prevede forme di conciliazione stragiudiziale in relazione alla


natura delle materie oggetto di controversia ovvero alle caratteristiche dei soggetti in esse
coinvolti. Il fenomeno è frequente nell’ambito delle relazioni commerciali e industriali: si
pensi alle numerose commissioni o collegi di conciliazione istituiti, anche su base
volontaria, presso gli organismi rappresentativi di categorie professionali (ad es. la l.
580/1993, di riforma delle Camere di commercio, ha previsto la possibilità di promuovere
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la costituzione di commissioni arbitrali e conciliative per la risoluzione di controversie tra


imprese ovvero tra imprese, consumatori e utenti.

Gli strumenti che favoriscano il ricorso a forme non obbligatorie di conciliazione


stragiudiziale sono oggi al centro del dibattito sulla più ampia riforma della giustizia civile.
Il d.lgs. 3/2005 aveva introdotto una innovativa disciplina della conciliazione stragiudiziale
con riferimento alle controversie in materia societaria, prevedendo innanzitutto
l’istituzione, ad opera delle camere di commercio e di soggetti pubblici e privati, di
organismi di conciliazione, iscritti in apposito elenco tenuto presso il Ministero della
giustizia, previa dimostrazione di determinati requisiti dimensionali, di onorabilità e di
professionalità. In caso di esito positivo della conciliazione, il verbale di conciliazione era
omologato dal presidente del tribunale e costituiva titolo per procedere, oltre che
all’espropriazione forzata, anche all’esecuzione forzata in forma specifica. Il d.lgs. 28/2010
ha poi dettato una disciplina generale in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione
delle controversie civili e commerciali. L’art. 1 si preoccupa di chiarire che col termine
“mediazione” deve intendersi l'attività, comunque denominata, svolta da un terzo
imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo
amichevole per la composizione di una controversia, sia nella formulazione di una proposta
per la risoluzione della stessa; mentre col termine “conciliazione” deve intendersi la
composizione di una controversia a seguito dello svolgimento della mediazione. Dunque, la
parte che intende avvalersi delle opportunità previste dal d.lgs. 28/2010 deve rivolgere
istanza di conciliazione ad uno degli organismi, istituiti da enti pubblici e privati che diano
garanzie di serietà ed efficienza, iscritti in apposito elenco tenuto presso il Ministero della
giustizia. Tra gli organismi di conciliazione riconosciuti direttamente dalla legge,
particolare rilievo riveste la Camera di conciliazione e arbitrato presso la Consob, per la
risoluzione di controversie insorte tra gli investitori e gli intermediari per la violazione da
parte di questi degli obblighi contrattuali di informazione, correttezza e trasparenza.

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436. Il procedimento

L’istituto in esame è finalizzato ad evitare il processo contenzioso davanti al giudice dello


Stato, consentendo alle parti della futura (eventuale) controversia di esaminare, davanti ad
organo non giurisdizionale, con funzioni esclusivamente conciliative, il contenuto della
pretesa e di ricercare mezzi di soluzione della lite. Quando la mediazione finalizzata alla
conciliazione è prevista come meramente facoltativa, essa non è mai in grado di confliggere
con la garanzia costituzionale della tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi (art. 24
Cost.), in quanto espressione della libera volontà del soggetto che la richiede. Quando,
invece, essa è prevista come obbligatoria, è la legge ad imporre che sia previamente adito
l’organo di mediazione e a sanzionare il mancato esperimento del tentativo di conciliazione
con l’improcedibilità della domanda giudiziale: in questo caso occorre valutare se il divieto,
pur temporaneo, di adire il giudice sia conforme alla garanzia costituzionale. Nella
giurisprudenza della Corte Costituzionale è consolidato il principio in base al quale l’art. 24
Cost. non vieta che la legge possa subordinare l’esercizio dei diritti a controlli o condizioni
(c.d. giurisdizione condizionata), purchè non vengano imposti o prescritti oneri o modalità
tali da rendere concretamente impossibile (o anche estremamente difficile) l’esercizio del
diritto di difesa. La Corte Costituzionale (sent. 26/2010) ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale di tali previsioni, per eccesso di delega legislativa.

La mediazione obbligatoria è stata reintrodotta dal d.l. 69/2013 con alcune modificazioni.
Innanzitutto il d.lgs. 28/2010 dispone oggi che chi intende esercitare in giudizio un’azione
relativa ad una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni
ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno
derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa
o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari è tenuto
preliminarmente ad esperire il procedimento di mediazione ovvero il procedimento di
conciliazione previsto dal decreto: quindi l’esperimento del procedimento è previsto dalla
legge come condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L’improcedibilità deve
essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice non
oltre la prima udienza. Il giudice, se rileva che la mediazione è stata iniziata ma non
conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di 4 mesi dal deposito
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della domanda di mediazione; allo stesso modo provvede quando la mediazione non è stata
esperita, assegnando contestualmente alle parti il termine di 15 giorni per la presentazione
della domanda di mediazione. La condizione, invece, si considera avverata se il primo
incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo. Al di fuori delle controversie
sopra indicate, il tentativo di mediazione non è condizione di procedibilità della domanda
giudiziale, quindi le parti restano libere di sperimentarla prima di rivolgersi al giudice.

Il d.lgs. 28 ha previsto anche la conciliazione c.d. delegata, affidata all’impulso del giudice,
che non è stata interessata dalla sentenza della Corte Costituzionale. Il giudice, valutata la
natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, può invitare le
stesse a procedere alla mediazione. L’invito deve essere rivolto prima dell’udienza di
precisazione delle conclusioni ovvero, quando tale udienza non è prevista, prima della
discussione della causa.

La mediazione obbligatoria e quella delegata non si applicano:

 nei procedimenti per ingiunzione


 nei procedimenti per convalida di licenza o sfratto
 nei procedimenti di consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite
 nei procedimenti possessori
 nei procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all’esecuzione
forzata
 nei procedimenti in camera di consiglio
 nell’azione civile esercitata nel processo penale.

Dopo la presentazione all’organismo, la domanda di mediazione è comunicata alle altre parti


della controversia.

486
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Da questo momento la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della
domanda giudiziale. Il procedimento di mediazione ha una durata non superiore a 3 mesi.
All’atto delle presentazione della domanda di mediazione, il responsabile dell’organismo
designa un mediatore e fissa il primo incontro tra le parti non oltre 30 giorni dal deposito
della domanda. Il procedimento si svolge senza formalità presso la sede dell’organismo di
mediazione o nel luogo indicato dal regolamento di procedura dell’organismo. Il mediatore
è tenuto al rispetto del dovere di riservatezza e non può essere tenuto a deporre, in qualità di
testimone, sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite nel
procedimento di mediazione. Inoltre tali dichiarazioni e informazioni non possono essere
utilizzate nel giudizio avente il medesimo oggetto. Guardiamo adesso ai possibili esiti:

 quando l’accordo non è raggiunto, il mediatore può formulare una proposta di


conciliazione. In ogni caso egli formula una proposta di conciliazione se le parti
gliene fanno concorde richiesta in qualunque momento del procedimento. Se la
conciliazione non riesce, il mediatore forma processo verbale con l’indicazione della
proposta, sottoscritto dalle parti e dal mediatore
 se le parti raggiungono l’accordo, il mediatore forma il verbale di conciliazione, cui è
allegato il testo dell’accordo sottoscritto dalle parti e dal mediatore. L’accordo
raggiunto, anche a seguito della proposta, può prevedere il pagamento di una somma
di denaro per ogni violazione o inosservanza degli obblighi stabiliti ovvero per il
ritardo nel loro adempimento. Il verbale di accordo, il cui contenuto non sia contrario
all’ordine pubblico o a norme imperative, è omologato, su istanza di parte e previo
accertamento anche della regolarità formale, con decreto del presidente del tribunale
nel cui circondario ha sede l’organismo. Esso costituisce titolo esecutivo per
l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di
ipoteca giudiziale.

437. Il trasferimento dinanzi ad arbitri delle cause civili pendenti (art. 1 del d.l. 132 del
2014)

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L’art. 1 d.l. 132/2014 prevede che, nelle cause civili dinanzi al tribunale o in grado di
appello pendenti alla data di entrata in vigore del decreto, che non abbiano ad oggetto diritti
indisponibili e che non vertano in materia di lavoro, previdenza e assistenza sociale, le parti
possono richiedere con istanza congiunta di promuovere un procedimento arbitrale. Il
giudice, in presenza dei presupposti richiamati dalla norma, dispone la trasmissione del
fascicolo al presidente del consiglio dell’ordine del circondario in cui ha sede il tribunale
ovvero la corte d’appello per la nomina del collegio arbitrale per le controversie di valore
superiore a 100000 euro e, ove le parti lo decidano concordemente, di un arbitro per le
controversie di valore inferiore alla cifra suddetta. Il procedimento prosegue davanti agli
arbitri, mentre il lodo ha gli stessi effetti della sentenza. La norma sembra essere una tipica
espressione della tendenza, manifestata dal legislatore, di introdurre previsioni con finalità
deflattive sulla base di valutazioni scollegate da ogni considerazione della concreta realtà
giudiziaria. In questo caso, a condannare la norma alla disapplicazione sono, da un lato,
l’idea stessa del trasferimento della causa alla sede arbitrale con l’assunzione dei relativi
costi (che si sommano a quelli già sostenuti per l’introduzione della causa davanti ai giudici
dello Stato) e, dall’altro lato, il presupposto della “istanza congiunta” delle parti che non ha
mai dato prova di funzionamento per ragioni di “strategia processuale”, risultando assai
poco probabile che, in una situazione nella quale le posizioni delle parti si sono già definite,
si possa coagulare il consenso di tutte al trasferimento in questione.

438. La negoziazione assistita da uno o più avvocati

Sempre nell’ambito delle misure volte alla “degiurisdizionalizzazione”, si colloca la


negoziazione assistita, la quale consiste in un “accordo mediante il quale le parti
convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per

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risolvere in via amichevole la controversia tramite l’assistenza di avvocati iscritti all’albo”


(art. 2 d.l. 132/2014). L’obiettivo è quello di favorire, nell’ambito di una cooperazione leale
e in buona fede tra avvocati e parti, accordi diretti a risolvere “in via amichevole” la
controversia, senza l’intermediazione di figure “esterne” (ad es. il mediatore e l’organismo
di conciliazione). A tal uopo la legge ha previsto un procedimento piuttosto farraginoso,
che passa attraverso il previo accordo sulla “convenzione”, cioè sulle regole da seguire per
tentare di raggiungere l’accordo amichevole: solo in caso di accordo positivo sul modus
procedendi, gli avvocati possono iniziare le trattative dirette alla ricerca della soluzione
amichevole della controversia. La parte interessata comunica all’altra l’invito a stipulare la
convenzione, che deve avere alcuni requisiti di forma-contenuto: in primo luogo l’invito
deve indicare l’oggetto della controversia (la controversia non deve riguardare diritti
indisponibili o la materia del lavoro). L’invito deve poi contenere l’avvertimento che la
mancata risposta all’invito entro 30 giorni dalla ricezione o il suo rifiuto può essere valutato
dal giudice ai fini delle spese del giudizio, nonché ai fini della concessione della
provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo. Con l’assistenza di un avvocato per ciascuna
parte, la convenzione di negoziazione deve essere redatta, a pena di nullità, in forma scritta
e deve precisare il termine concordato dalle parti per l’espletamento della procedura. In
ogni caso il termine non può essere inferiore a un mese e superiore a 3, ed è prorogabile per
ulteriori 30 giorni su accordo tra le parti. Dal momento della comunicazione dell’invito a
concludere una convenzione di negoziazione assistita ovvero dalla sottoscrizione della
convenzione si producono sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale. In caso di
esito positivo della negoziazione, le parti sottoscrivono un contratto assoggettato alla
disciplina comune. L’art. 5 attribuisce all’accordo che compone la controversia, sottoscritto
dalle parti e dagli avvocati, la qualità di titolo esecutivo e di titolo per l’iscrizione di ipoteca
giudiziale. Gli avvocati sono chiamati a certificare l’autografia delle firme e la conformità
dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico. Insomma, è evidente che la
disciplina pone diversi obblighi e divieti in capo agli avvocati: innanzitutto costituisce
dovere deontologico degli avvocati informare il cliente all’atto del conferimento
dell’incarico della possibilità di ricorrere alla convenzione di negoziazione assistita. L’art. 9
prevede poi che:

 i difensori non possono essere nominati arbitri


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 avvocati e parti devono comportarsi con lealtà e tenere riservate le informazioni


ricevute. Le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite nel procedimento non
possono essere utilizzate nel giudizio avente il medesimo oggetto
 la violazione delle prescrizioni suddette e degli obblighi di lealtà e riservatezza
costituisce per l’avvocato illecito disciplinare, come anche impugnare un accordo
alla cui redazione ha partecipato.

439. Le negoziazione assistita c.d. obbligatoria

Vi sono due gruppi di ipotesi in cui la negoziazione assistita è obbligatoria è costituisce


condizione per accedere al processo davanti al giudice dello Stato:

 la prima è costituita dalle controversie in materia di risarcimento del danno da


circolazione di veicoli e natanti
 la seconda riguarda le domande di pagamento a qualsiasi titolo di somme non
eccedenti 5000 euro.

L’obbligo di invitare alla negoziazione assistita è escluso, oltre che per le pretese aventi ad
oggetto diritti indisponibili o in materia di lavoro, per le controversie assoggettate alla
mediazione obbligatoria dal d.lgs. 28/2010, per le controversie derivanti da contratti
conclusi tra professionisti e consumatori, nonché quando la parte può stare in giudizio
personalmente. Inoltre la negoziazione non trova applicazione:

 nei procedimenti per ingiunzione


 nei procedimenti di consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite

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 nei procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all’esecuzione


forzata
 nei procedimenti in camera di consiglio
 nell’azione civile esercitata nel processo penale.

La condizione di procedibilità della domanda giudiziale è soddisfatta con l’invio all’altra


parte dell’invito a stipulare la convenzione di negoziazione assistita negli stessi termini
sopra richiamati. Al pari della disciplina in tema di mediazione obbligatoria,
l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata
d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza.

440. La negoziazione assistita in materia di separazione personale, di cessazione degli


effetti civili o di scioglimento del matrimonio, di modifica delle condizioni di
separazione o di divorzio

L’art. 6 contiene una rilevante novità di sistema, in quanto prevede che la convenzione di
negoziazione assistita da almeno un avvocato per parte può essere conclusa tra i coniugi al
fine di raggiungere una soluzione consensuale di separazione personale, di cessazione degli
effetti civili o di scioglimento del matrimonio, di modifica delle condizioni di separazione o
di divorzio. Si tratta di una forte innovazione giacchè si consente la possibilità di pervenire
alla separazione, al divorzio e alle relative modifiche evitando il ricorso al tribunale. Sono
in particolare 2 i profili da considerare:

 anzitutto la negoziazione assistita è qui finalizzata non al raggiungimento di un


generico accordo amichevole, ma ad un accordo che tiene luogo degli effetti dei
corrispondenti provvedimenti giurisdizionali, ma con forte abbattimento dei tempi e
dei costi
 in secondo luogo, con specifico riferimento agli accordi che modificano le condizioni
di separazione e di divorzio, le parti possono essere incentivate al raggiungimento di
intese che producono effetti pressochè immediati e sono svincolate dai presupposti

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richiesti per la revisione giudiziale (a cominciare dal requisito della sopravvenienza


di fatti nuovi).

La legge distingue a seconda che siano presenti figli minori, figli maggiorenni incapaci o
portatori di handicap ovvero economicamente non autosufficienti o meno:

 nel primo caso, l’accordo raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione


assistita deve essere trasmesso entro il termine di 10 giorni al procuratore della
Repubblica presso il tribunale competente, il quale, quando ritiene che l’accordo
risponde all’interesse dei figli, lo autorizza; in caso contrario, lo trasmette entro 5
giorni al presidente del tribunale, che fissa entro i successivi 30 giorni la
comparizione delle parti e provvede senza ritardo
 nel secondo caso, l’accordo raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione
assistita è trasmesso al procuratore della Repubblica presso il tribunale competente, il
quale, quando non ravvisa irregolarità, comunica agli avvocati il nullaosta per i
successivi adempimenti.

Il controllo del procuratore è, dunque, diverso, dato che nel primo caso la verifica è
condotta in relazione all’interesse dei figli, mentre nel secondo caso ad eventuali
irregolarità di natura formale. Una volta raggiunto l’accordo, ai fini del successivo iter di
perfezionamento della fattispecie, l’avvocato “è obbligato a trasmettere entro il termine di
10 giorni, all’ufficiale dello stato civile del Comune in cui il matrimonio fu iscritto o
trascritto, copia dell’accordo” munito delle certificazioni da parte degli avvocati
dell’autografia delle firme e della conformità dell’accordo alle norme imperative e
all’ordine pubblico.

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441. Separazione, divorzio e modifica delle condizioni davanti all’ufficiale dello stato
civile

L’art. 12 d.l. 132/2014 prevede un’ulteriore forma di separazione, divorzio o modifica, per
alcuni aspetti ancor più semplificata rispetto a quella appena esaminata, con la possibilità di
stipulare (stavolta con l’assistenza solo facoltativa dell’avvocato) l’accordo davanti
all’ufficiale dello stato civile del comune di residenza di uno dei coniugi o del comune dove
è trascritto l’atto di matrimonio, dopo che ciascuna delle parti rende allo stesso ufficiale le
dichiarazioni (di volersi separare, divorziare o di voler modificare le condizioni). Sempre
che non vi siano figli minori, figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap ovvero
economicamente non autosufficienti (circostanza che esclude l’accesso al procedimento in
esame), l’art. 12 prevede che i coniugi possono concludere l’accordo dinanzi al sindaco del
comune suindicato. L’atto contenente l’accordo è compilato e sottoscritto immediatamente
dopo il ricevimento delle dichiarazioni. Nei soli casi di separazione personale, cessazione
degli effetti civili del matrimonio o di scioglimento del matrimonio secondo condizioni
concordate, l’ufficiale dello stato civile, quando riceve le dichiarazioni dei coniugi, li invita
a comparire di fronte a sé non prima di 30 giorni dalla ricezione per la conferma
dell’accordo. Il fatto che la mancata comparizione equivale a mancata conferma
dell’accordo lascia intendere che qui la legge ha imposto ai coniugi un ulteriore spazio di
riflessione. L’accordo non può contenere patti di trasferimento patrimoniale.

442. Il tentativo di conciliazione nelle controversie di lavoro

La legge prevedeva come obbligatorio anche il tentativo di conciliazione nelle controversie


di lavoro: dunque anche in questi casi il preventivo esperimento del tentativo di
conciliazione stragiudiziale assumeva il rango di condizione di procedibilità della domanda
giurisdizionale. La l. 183/2010 ha modificato la previsione del tentativo di conciliazione da
obbligatorio a facoltativo. Pertanto chi intende proporre in giudizio una domanda relativa ai
rapporti previsti dall’art. 409 può promuovere, anche tramite l'associazione sindacale di
appartenenza, un previo tentativo di conciliazione presso la commissione di conciliazione
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istituita presso la Direzione provinciale del lavoro.

La comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe


la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i 20 giorni
successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza. La richiesta del
tentativo di conciliazione, sottoscritta dall’istante, è consegnata o spedita mediante
raccomanda con avviso di ricevimento. Copia della richiesta del tentativo di conciliazione
deve essere consegnata o spedita con raccomandata con ricevuta di ritorno a cura della
stessa parte istante alla controparte. Se la controparte intende accettare la procedura di
conciliazione, deposita presso la commissione di conciliazione, entro 20 giorni dal
ricevimento della copia della richiesta, una memoria contenente le difese e le eccezioni,
nonché le eventuali domande in via riconvenzionale. Ove ciò non avvenga, ciascuna delle
parti è libera di adire l’autorità giudiziaria. Entro i 10 giorni successivi al deposito, la
commissione fissa la comparizione delle parti per il tentativo di conciliazione, che deve
essere tenuto entro i successivi 30 giorni. Dinanzi alla commissione il lavoratore può farsi
assistere anche da un’organizzazione cui aderisce o conferisce mandato.

Se la conciliazione riesce (anche solo limitatamente ad una parte della domanda), si forma
processo verbale, sottoscritto dalle parti e dai componenti della commissione di
conciliazione. Se essa non riesce, la commissione di conciliazione deve formulare una
proposta per la bonaria definizione della controversia: se la proposta non è accettata, i suoi
termini vanno riassunti nel verbale con indicazione delle valutazioni espresse dalle parti.
Delle risultanze della proposta formulata dalla commissione e non accettata il giudice tiene
conto in sede di giudizio. Il processo verbale di avvenuta conciliazione è depositato presso
la Direzione provinciale del lavoro a cura di una delle parti o per il tramite di
un’associazione sindacale. Il direttore, accertatane l’autenticità, provvede a depositarlo
nella cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione è stato redatto. Il giudice, su istanza
della parte interessata, accertata la regolarità formale del verbale di conciliazione, lo
dichiara esecutivo con decreto.

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443. La conciliazione giudiziale: natura e funzione

La conciliazione delle parti può essere tentata dal giudice anche nel corso del processo. Nel
processo di cognizione ordinaria, il tentativo di conciliazione non costituisce oggi un
passaggio procedimentale necessario. Ai sensi dell’art. 185, il giudice istruttore, solo in
caso di richiesta congiunta delle parti, fissa la comparizione delle medesime al fine di
interrogarle liberamente e di provocarne eventualmente la conciliazione. Il giudice
istruttore ha altresì facoltà di fissare la predetta udienza di comparizione personale ai sensi
dell’art. 117, cioè in ogni stato e grado del processo. Se le parti non compaiono senza
giustificato motivo, la loro assenza costituisce comportamento valutabile dal giudice ai fini
della decisione: il giudice può trarre da tale condotta delle parti argomenti di prova. Quando
è disposta la comparizione personale, le parti hanno facoltà di farsi rappresentare da un
procuratore generale o speciale, il quale deve essere a conoscenza dei fatti della causa. La
procura deve essere conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata e deve
attribuire al procuratore il potere di conciliare o transigere la controversia. Il tentativo di
conciliazione può essere rinnovato in qualunque momento dell'istruzione. Nel processo del
lavoro, l'obbligatoria presenza delle parti di persona all'udienza di discussione è disposta
dalla legge al fine di consentire al giudice di espletare il tentativo di conciliazione, che è qui
necessario, cioè non condizionato dalle caratteristiche e dal possibile esito della
controversia. L’interesse dell’ordinamento alla conciliazione giudiziale è inoltre
comprovato dalla disposizione (art. 2113 co. 4°), che deroga al normale divieto di rinunce o
transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni
inderogabili della legge o di contratti o accordi collettivi. In tutti i casi di conciliazione
giudiziale, quando le parti si sono conciliate, si forma processo verbale della convenzione
conclusa, e questo costituisce titolo esecutivo. La conciliazione raggiunta si concreta quindi
in un atto che ha gli effetti sostanziali dei negozi privati di composizione delle controversie
giuridiche. Questi aspetti dell’efficacia della conciliazione in esame, che la differenziano da
quella extraprocessuale, si giustificano con la presenza del magistrato, che concorre a
“qualificare” il negozio. L’art. 185 esclude comunque la possibilità di configurare la
conciliazione come atto complesso del giudice e delle parti e di estenderlo al di là della
sfera dei diritti disponibili.

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Va rilevato che il tentativo obbligatorio di conciliazione da parte del giudice è prescritto


espressamente dal legislatore anche con riferimento ad alcuni procedimenti differenziati di
cognizione ordinaria, in relazione ai quali è maggiore l’interesse dell’ordinamento ad una
definizione consensuale della controversia: si pensi ad es. al tentativo obbligatorio di
conciliazione che il presidente del tribunale deve esperire nel giudizio di separazione
personale dei coniugi o di divorzio. In altri settori dell’ordinamento, il favore della legge
per la composizione giudiziale delle controversie giuridiche si spinge fino ad imporre al
giudice il dovere di presentare alle parti un progetto di composizione, che si considera
approvato dalle parti se le stesse non sollevano esplicite contestazioni. Queste previsioni
normative inducono alla conclusione che tutte le funzioni conciliative descritte, pur
attuandosi nel corso di un processo, non hanno natura giurisdizionale, in quanto non
producono alcun effetto di sovrana attuazione dell’ordinamento, ma, da un lato, si
esauriscono nella mera cooperazione ad atti di diritto privato, e, dall’altro, consistono in
documentazione degli stessi atti privati.

CAP. 43: L’ARBITRATO

444. Il negozio di arbitrato libero (o irrituale)

Dei negozi privati di composizione o prevenzione delle controversie giuridiche il codice


civile descrive solo la transazione, definito come il contratto col quale le parti, facendosi
reciproche concessioni, pongono fine ad una lite già iniziata o prevengono una lite che può
insorgere tra loro. Non si dubita però che vi siano altri negozi a ciò finalizzati:
diversamente dalla transazione, i questi casi la controversia viene risolta o prevenuta con
la

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ricerca e il raggiungimento di una soluzione considerata dalle parti giusta secondo diritto o
secondo equità. Si può parlare, a tal proposito, anche di negozi di accertamento negoziale,
laddove “accertamento” significa che le parti danno forza negoziale alla soluzione della
situazione controversa che esse hanno “elaborato” o “recepito”: si è detto “elaborato o
recepito” perché qui, come in ogni negozio di diritto privato, l’elemento oggettivo (nella
specie, il risultato del predetto giudizio di diritto o di equità) può essere tutto dettato dalle
parti ovvero risultare dalla cooperazione tra queste e uno o più terzi, ai quali è rimessa la
determinazione dell’oggetto.

Il negozio di arbitrato libero o irrituale è il negozio di accertamento, la cui determinazione


oggettiva è affidata ad uno o più terzi, i c.d. arbitri liberi (o irrituali), che potremmo definire
gli arbitratori dei negozi in esame. La validità dei negozi di accertamento comporta che la
controversia non possa essere decisa in sede giurisdizionale, a meno che non venga nella
stessa sede previamente invalidato il negozio di accertamento. Contro questo negozio sono
esperibili dalle parti interessate le impugnative negoziali previste dal codice civile (per
errore, violenza o dolo); inoltre l’art. 1349 c.c. consente l’intervento “sostitutivo” da parte
del giudice rispetto al giudizio degli arbitratori solo quando quest’ultimo manchi o sia
manifestamente iniquo o erroneo. I criteri valutativi dell'iniquità o erroneità variano a
seconda della struttura che le parti abbiano dato al giudizio arbitrale e dei vincoli che esse
abbiano posti all'arbitro. Il giudizio arbitrale, inoltre, può essere più o meno o per nulla
“processualizzato”, ora ricorrendo alla previsione delle più garantistiche forme di
contraddittorio, ora affidandosi alla pura equità dell'arbitro chiamato a “riempire il
biancosegno” (il foglio già sottoscritto dai litiganti all'arbitro perché lo riempia con la sua
decisione). Delle clausole compromissorie per arbitri liberi, cioè di quelle pattuizioni
private che preventivamente stabiliscono la devoluzione ad arbitri liberi di una serie di
future ed eventuali controversie giuridiche, si è negata in passato la legittimità
costituzionale, sostenendo che in questo caso le parti si obbligherebbero soltanto a far
valere in giudizio il diritto, se e in quanto questo sorgerà. Ma in realtà le clausole
compromissorie differiscono dai compromessi (cioè quei negozi della cui legittimità
costituzionale non si dubita, con i quali le parti affidano la risoluzione di una o più
controversie tra di loro insorte ad arbitri rituali) solo per previsioni più ampie e per
l’efficacia differita nel tempo. In definitiva, ci sembra che gli arbitrati liberi o irrituali
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esprimano la libertà delle parti di derogare ai tipi negoziali predisposti dall’ordinamento,


purchè ci si muova in materia di diritti disponibili e si perseguano scopi meritevoli di tutela,
qual è certamente lo scopo di risolvere o prevenire contrattualmente controversie
giuridiche. Così il legislatore ha codificato e “procedimentalizzato” la previsione
dell’arbitrato irrituale: l'art. 808 ter c.p.c. (introdotto dal d.lgs. 40/2006), infatti, prevede che
le parti possono, con disposizione espressa per iscritto (la c.d. convenzione di arbitrato
irrituale), stabilire che la controversia sia definita dagli arbitri mediante “determinazione
contrattuale”. Pertanto, qualora una delle parti, nonostante la pattuizione di una clausola
arbitrale per arbitrato irrituale, proponga domanda innanzi all'organo giurisdizionale e la
controparte eccepisca la sussistenza della clausola, il giudice deve dichiarare la domanda
improcedibile. Perciò è lo stesso legislatore che assegna al lodo irrituale la natura e
l’efficacia di un contratto e che individua la linea di discrimine con l’arbitrato rituale.
Coerentemente la norma prevede che il lodo contrattuale è annullabile:

 se la convenzione dell'arbitrato è invalida o se gli arbitri hanno pronunciato su


conclusioni che esorbitano dai suoi limiti e la relativa eccezione è stata sollevata nel
procedimento arbitrale
 se gli arbitri non sono stati nominati con le forme e nei modi stabiliti dalla
convenzione arbitrale
 se il lodo è stato pronunciato da chi non poteva essere nominato arbitro
 se gli arbitri non si sono attenuti alle regole imposte dalle parti come condizione di
validità del lodo
 se non è stato osservato nel procedimento di arbitrato irrituale il principio del
contraddittorio.

445. L’arbitrato irrituale in materia di lavoro

Ferma restando la facoltà di ciascuna delle parti di adire l’autorità giudiziaria e di avvalersi
delle procedure di

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conciliazione e di arbitrato previste dalla legge e dai contratti collettivi, l’art. 412 quater
c.p.c. prevede che le controversie di lavoro ex art. 409 possono essere proposte innanzi ad
un collegio di conciliazione e arbitrato irrituale composto da un rappresentante di ciascuna
delle parti e da un terzo membro, in funzione di presidente, scelto di comune accordo dagli
arbitri di parte tra i professori universitari di materie giuridiche e gli avvocati ammessi al
patrocinio dinanzi alla Cassazione. La parte che intenda ricorrere al collegio deve notificare
all’altra un ricorso sottoscritto personalmente o da un suo rappresentante al quale abbia
conferito mandato e presso il quale deve eleggere il domicilio. Tale ricorso deve contenere:

 la nomina dell’arbitro di parte


 l’indicazione dell’oggetto della domanda, delle ragioni di fatto e di diritto sulle quali
si fonda la domanda stessa, dei mezzi di prova e del valore della controversia entro il
quale si intende limitare la domanda
 il riferimento alle norme invocate dal ricorrente a sostegno della sua pretesa
 l’eventuale richiesta di decidere secondo equità.

Se la parte convenuta intende accettare la procedura di conciliazione e arbitrato nomina il


proprio arbitro di parte, il quale entro 30 giorni dalla notifica del ricorso procede ove
possibile, concordemente con l’altro arbitro, alla scelta del presidente e della sede del
collegio. Ove ciò non avvenga, la parte che ha presentato ricorso può chiedere che la
nomina sia fatta dal presidente del tribunale nel cui circondario è la sede dell’arbitrato.
Invece, in caso di scelta concorde del terzo arbitro e della sede del collegio, la parte
convenuta, entro 30 giorni da tale scelta, deve depositare presso la sede del collegio una
memoria difensiva sottoscritta da un avvocato cui abbia conferito mandato e presso il quale
deve eleggere il domicilio: tale memoria deve contenere le difese e le eccezioni in fatto e in
diritto, le eventuali domande in via riconvenzionale e l’indicazione dei mezzi di prova.
Entro 10 giorni dal deposito della memoria difensiva, il ricorrente può depositare presso la
sede del collegio una memoria di replica; entro i successivi 10 giorni, il convenuto può
depositare una controreplica. Il collegio fissa il giorno dell’udienza, da tenere entro 30
giorni dalla scadenza del termine per la controreplica del convenuto, dandone
comunicazione alle parti almeno 10 giorni prima. All’udienza il collegio esperisce il
tentativo di conciliazione: se la conciliazione riesce, si applica l’art. 411 c.p.c.; se la

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conciliazione non riesce, il collegio provvede, ove occorra, a interrogare le parti e ad


ammettere e assumere le prove, altrimenti invita all’immediata discussione orale. La
controversia è decisa, entro 20 giorni dall’udienza di discussione, mediante un lodo, che è
impugnabile ex art. 808 ter c.p.c.

Sulle impugnazioni decide in unico grado il tribunale, in funzione di giudice del lavoro,
nella cui circoscrizione è la sede dell’arbitrato. Il ricorso è depositato entro il termine di 30
giorni dalla notificazione del lodo. Decorso questo termine ovvero se il ricorso è stato
respinto dal tribunale, il lodo è depositato nella cancelleria del tribunale nella cui
circoscrizione è la sede dell’arbitrato. Il giudice, su istanza della parte interessata, accertata
la regolarità formale del lodo arbitrale, lo dichiara esecutivo con decreto.

446. L'arbitrato rituale

Con l'istituto dell'arbitrato rituale la legge consente alle parti di devolvere controversie ad
arbitri, nonché di costruire il relativo procedimento in modi che conducono a conferire alla
pronuncia arbitrale, detta “lodo”, un'efficacia assimilabile a quella di una sentenza resa dal
giudice dello Stato. Quindi lo scopo pratico perseguito dalle parti nel devolvere la
controversia agli arbitri è il medesimo che le parti avrebbero potuto (ma non hanno voluto)
perseguire agendo davanti al giudice, ma gli strumenti sono radicalmente diversi, nella
struttura e negli effetti, da quelli giurisdizionali. Il legislatore è intervenuto più volte sulla
disciplina di questo istituto, per ultimo col d.lgs. 40/2006. Così l’arbitrato rituale vede oggi
affermata la sua equiparazione, sotto il profilo effettuale, alla tutela normale davanti al
giudice dello Stato: l’art. 824 bis c.p.c. prevede espressamente che il lodo ha, dalla data
della sua ultima sottoscrizione, gli effetti della sentenza pronunciata dall'autorità
giudiziaria. A garanzia

500
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della corretta risoluzione della controversia, l’arbitrato rituale presenta caratteristiche


analoghe al giudizio che si svolge dinanzi ai giudici dello Stato, in primo luogo, come ha
affermato la Corte costituzionale, l'interpretazione e l'applicazione da parte degli arbitri
delle norme applicabili alla fattispecie concreta sottoposta al loro giudizio.

Ben prima della riforma del 2006 si era discorso dell’arbitrato rituale come di una sorta di
“giurisdizione privata”, nel tentativo di esprimere con una formula sintetica il fenomeno in
virtù del quale, tramite un procedimento privato, si consegue un risultato equivalente a
quello della decisione giudiziaria. Resta però da stabilire se l’ampia assimilazione, quanto
agli effetti, che l’ordinamento oggi prevede tra lodo arbitrale e sentenza del giudice
ordinario, conduca ad un’assimilazione tout court delle due giurisdizioni, dei suoi
strumenti, delle garanzie procedimentali e dei relativi poteri. Invero, il previgente art. 816
offriva alle parti (e il vigente 816 bis offre tuttora) ampia facoltà di stabilire nella
convenzione di arbitrato le norme che gli arbitri devono osservare nel procedimento: il che
è vietato alle parti nel giudizio ordinario. Per questo, su di un fronte opposto alle tesi
integralmente “giurisdizionale” dell’arbitrato, si è argomentato che, anche dopo la riforma
introdotta con il d.lgs. 40/2006, la legge conferisce al lodo gli effetti, ma non il valore o
l'autorità o la forza degli atti giurisdizionali, tale da far conseguire ad esso l'autorità del
giudicato sostanziale, che l'art. 2909 c.c. ricollega all'accertamento contenuto nelle sentenze
del giudice statale. Dal punto di vista sostanziale, gli effetti del lodo sono e rimangono
effetti di tipo negoziale, cui è estranea la possibilità di conseguire quella particolare qualità
o stabilità consistente nell’irretrattabilità dell’accertamento, che è propria dell’autorità
dell’atto giurisdizionale passato in giudicato, alla quale soltanto è riconducibile
l’esaurimento di ogni pretesa giurisdizionale. L’equiparazione normativa tra lodo arbitrale e
sentenza del giudice statuale deve intendersi in relazione al regime processuale del lodo, e
cioè nel senso che il lodo, a differenza dell’ordinanza e similmente alla sentenza del
giudice, è irrevocabile e immodificabile da parte degli arbitri che lo hanno pronunciato, è
sottratto alle impugnazioni negoziali e alle azioni di risoluzione per inadempimento. Del
resto, va osservato, da un lato, che mai la volontà delle parti potrebbe conferire alla
pronuncia arbitrale l’efficacia che spetta alla sentenza civile, propria di una funzione
sovrana dell’ordinamento, e, dall’altro, che nel privato procedimento arbitrale non si
esercitano poteri di diritto pubblico, quali si svolgono nel processo giurisdizionale. Non è
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un caso che l’art. 813 co. 2° c.p.c. si preoccupa di precisare che agli arbitri non compete la
qualifica di pubblico ufficiale (che appartiene al giudice dello Stato) ovvero di incaricato di
pubblico servizio. Sotto altro profilo, ogni tentativo di “giurisdizionalizzazione”
dell’arbitrato rituale sarebbe in contrasto con le norme della Costituzione (artt. 24, 25, 102 e
103) che riservano alle pubbliche magistrature le funzioni giurisdizionali di tutela dei diritti
soggettivi. Eppure la Corte Costituzionale ha escluso il sospetto di incostituzionalità
dell’arbitrato, facendo perno sull’essere l’equiparazione di effetti tra lodo e sentenza pur
sempre risultato di un atto di un organo giurisdizionale, cioè del giudice che, attraverso il
procedimento di omologazione ex art. 825, consente l’acquisizione da parte del lodo
dell’efficacia esecutiva propria della sentenza.

La ratio e insieme il limite della legittimità dell’istituto arbitrale risiedono nella sua natura
essenzialmente privatistica, il che è a fondamento delle numerose sentenze della stessa
Corte Costituzionale che hanno pronunciato l’incostituzionalità di arbitrati c.d. obbligatori,
cioè imposti dalla legge. Pertanto vi è un limite costituzionale alla completa equiparazione
tra lodo e sentenza, consistente nel fatto che, se la vicenda conclusa dal lodo rimane
interamente privata, le garanzie costituzionali di tutela dei diritti offrte da organi giudiziari
statali impediscono che il lodo abbia di per sé alcuna efficacia di sentenza passata in
giudicato e impongono che, prima di ogni incontestabilità e irretrattabilità del lodo
equiparata alla detta efficacia, esso sia impugnabile davanti alla magistratura togata, almeno
per mancato rispetto delle paritarie garanzie di difesa e per vizi ed errori che siano sintomi
di possibile ingiustizia (esigenze, queste, soddisfatte oggi attraverso le impugnative del
dolo ex artt. 827 ss.). Inoltre le garanzie costituzionali impediscono che l’applicazione delle
norme compiuta dal lodo incida sull’esistenza o sull’estensione di diritti e obblighi o vincoli
giuridici in capo a terzi estranei ai negozi che hanno dato vita agli arbitrati.

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447. La convenzione di arbitrato. Compromesso e clausola compromissoria

Gli arbitri rituali derivano il fondamento del loro potere dalla convenzione di arbitrato, che
è l'accordo col quale le parti, titolari di diritti disponibili, esprimono la concorde volontà di
far decidere da soggetti privati le controversie tra loro insorte, soggetti da loro già designati
o che saranno designati attraverso forme e modalità predeterminate. A tal proposito, la
capacità di stipulare il patto compromissorio coincide con la capacità di rivestire la qualità
di parte del giudizio. Non è possibile stipulare convenzioni di arbitrato su materie aventi ad
oggetto diritti indisponibili (ad es. i coniugi non possono affidare agli arbitri la soluzione
delle controversie in materia familiare). Se la convenzione di arbitrato interviene in
riferimento ad una controversia già insorta si parla di compromesso (art. 807), mentre se
essa è stipulata con riferimento a future (eventuali) controversie che potranno insorgere tra
le parti si parla di clausola compromissoria (art. 808). L’art. 808 quater prevede che, nel
dubbio, la convenzione di arbitrato si interpreta nel senso che la competenza arbitrale si
estende a tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto cui la convenzione
si riferisce. Sia in relazione al compromesso che alla clausola compromissoria è prevista, a
pena di nullità, la forma scritta, che si intende rispettata anche se la volontà delle parti
risulta espressa “per telegrafo, telescrivente, telefacsimile o messaggio telematico, nel
rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la trasmissione e la ricezione
dei documenti teletrasmessi”. La clausola compromissoria è soggetta al regime delle
clausole c.d. vessatorie ex artt. 1341 e 1342 c.c. Infine, in passato ci si era chiesti se la
convenzione di arbitrato conservasse la propria efficacia allorchè gli arbitri avessero deciso
la controversia non nel merito, ma in rito (ad es. dichiarando inammissibile la domanda
arbitrale): la riforma del 2006, introducendo l’art. 808 quinquies, ha chiarito che la
conclusione del procedimento arbitrale senza pronuncia sul merito non toglie efficacia alla
convenzione d’arbitrato.

448. La scelta tra arbitrato irrituale e arbitrato rituale

Delicati problemi possono sorgere quando si tratta di interpretare la volontà delle parti
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espressa al momento della sottoscrizione della convenzione di arbitrato, e in primis di


stabilire se l’arbitrato da esse voluto con quella convenzione sia rituale o irrituale. Prima del
d.lgs. 40/2006, la giurisprudenza riteneva che la natura rituale o irrituale dell’arbitrato fosse
desumibile avendo riguardo alla volontà delle parti, da ricostruirsi secondo le ordinarie
regole di interpretazione dei contratti, al di là delle formule letterali usate. Occorreva
dunque tenere conto se le parti avessero inteso demandare agli arbitri una funzione
sostitutiva di quella del giudice (ricorrendo in tal caso l’arbitrato rituale) ovvero se avessero
voluto investire il collegio arbitrale della soluzione di determinate controversie in via
negoziale, mediante un negozio di accertamento ovvero mediante strumenti conciliativi o
transattivi (ricorrendo in tal caso l’arbitrato irrituale). In caso di dubbio, la giurisprudenza
prevalente riteneva che fosse prevalente la natura irrituale dell’arbitrato, in ragione del
carattere eccezionale dell’arbitrato rituale.

Il primo comma dell'art. 808 ter c.p.c., introdotto dal d.lgs. 40/2006, prevede oggi che le
parti possano, con disposizione espressa per iscritto, stabilire che “la controversia sia
definita dagli arbitri mediante determinazione contrattuale. Altrimenti si applicano le
disposizioni del presente titolo”. Pertanto la qualificazione dell'arbitrato in termini di rituale
o irrituale può essere compiuta innanzitutto dalle parti, nella misura in cui esse assegnano
concordemente e anticipatamente al lodo l'efficacia di una determinazione contrattuale. In
mancanza, la norma prevede che l'arbitrato debba intendersi come rituale.

449. Autorizzazione agli arbitri a pronunciare secondo equità

L'art. 822 c.p.c. attribuisce alle parti il potere di autorizzare “con qualsiasi espressione” gli
arbitri rituali a

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pronunciare secondo equità, cioè svincolandoli dalla rigorosa osservanza delle norme di
diritto e consentendo di trarre il loro criterio di giudizio dall'interpretazione della volontà
negoziale delle parti e dal contesto in cui si sono formati i rapporti dedotti in giudizio.
L'autorizzazione delle parti a decidere secondo equità comporta la preclusione
dell'impugnazione per nullità del lodo per errores in judicando, sempre che non vi sia stata
inosservanza di norme fondamentali e cogenti di ordine pubblico, dettate a tutela di
interessi generali e perciò non derogabili dalla volontà delle parti.

450. Le controversie arbitrali

L'art. 806 c.p.c. prevede che le parti possano far decidere da arbitri le controversie tra di
loro insorte che non abbiano per oggetto diritti indisponibili, salvo espresso divieto di
legge. La norma aggiunge che le controversie in materia di lavoro ex art. 409 possono
essere decise da arbitri solo se previsto dalla legge o nei contratti o accordi collettivi di
lavoro. Ad es. devono ritenersi non compromettibili:

 le controversie che riguardano questioni di stato e capacità delle persone


 le controversie di separazione personale tra coniugi
 le controversie che non possono formare oggetto di transazione, cioè aventi ad
oggetto diritto non disponibili dalle parti.

Ai sensi dell'art. 808 bis, le parti possono stabilire, con apposita convenzione risultante da
atto scritto, che siano decise da arbitri le controversie future relative a uno o più rapporti
non contrattuali (ad es. per regolare rapporti in materia di diritti reali o di risarcimento del
danno), a condizione che essi siano determinati. Va inoltre segnalato che un orientamento
costante della giurisprudenza riteneva non compromettibili le controversie rientranti nella
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Tuttavia tale orientamento deve ritenersi
superato dalla disposizione oggi contenuta nell’art. 12 del Codice del processo
amministrativo (d.lgs. 104/2010), che espressamente dispone la compromettibilità per
arbitrato rituale delle suddette controversie, con l’unico limite che si tratti di arbitrato di
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diritto (dunque con esclusione dell’arbitrato di equità).

451. Nomina, accettazione e sostituzione degli arbitri, e loro responsabilità

Dalla convenzione di arbitrato nasce il potere di nominare l'arbitro o gli arbitri, che
“possono essere uno o più, purchè in numero dispari” (art. 809). La convenzione d'arbitrato
deve contenere la nomina degli arbitri oppure stabilire il numero di essi e il modo di
nominarli. In caso d'indicazione di un numero pari di arbitri, un ulteriore arbitro, se le parti
non hanno diversamente convenuto, è nominato dal presidente del tribunale. Se manca
l'indicazione del numero di arbitri e le parti non si accordano al riguardo, gli arbitri sono 3
e, in mancanza di nomina, se le parti non hanno diversamente convenuto, provvede il
presidente del tribunale. Quando la convenzione di arbitrato prevede che gli arbitri debbano
essere nominati dalle parti e tuttavia manchi la nomina “volontaria”, fatta direttamente dalla
parte cui è stata notificata la domanda d’arbitrato, l’altra (cioè quella che ha rivolto l’invito)
può chiedere con apposito ricorso che la nomina sia fatta dal presidente del tribunale nella
cui circoscrizione è la sede dell’arbitrato, mentre, se le parti non hanno ancora determinato
la sede, il ricorso è presentato al presidente del tribunale del luogo in cui è stata stipulata la
convenzione di arbitrato oppure, se tale luogo è all’estero, al presidente del tribunale di
Roma. Un'ipotesi particolare si ha quando più di due parti siano vincolate dalla stessa
convenzione d'arbitrato (c.d. arbitrato pluriparti). In questo caso, l’art. 816 quater prevede
che ciascuna parte può convenire tutte o alcune delle altre parti nel medesimo procedimento
arbitrale se la convenzione d'arbitrato devolve a un terzo la nomina degli arbitri, se gli
arbitri sono nominati con l'accordo di tutte le parti ovvero se le altre parti, dopo che la
prima ha nominato l’arbitro (o gli arbitri), nominano

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d'accordo un ugual numero di arbitri o ne affidano a un terzo la nomina. Poiché raramente


le parti in contesa riescono a nominare gli arbitri d’accordo tra loro, la legge prevede che il
procedimento iniziato da una parte nei confronti di altre si scinda in tanti procedimenti
quante sono queste ultime.

L'art. 812 c.p.c. disciplina la “capacità ad essere arbitro”, disponendo che non possa essere
arbitro chi è privo (in tutto o in parte) della capacità legale di agire. Comunque agli arbitri
non compete la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio. La
qualità di arbitro si acquisisce non con la nomina, ma con l'accettazione da parte
dell'arbitrato nominato, che ex art. 813 “deve essere data per iscritto”, e proprio dalla data
dell’accettazione decorre il termine per la pronuncia del lodo. Infatti uno degli obblighi
degli arbitri è quello di rendere il lodo entro il termine stabilito dalle parti o dalla legge. Al
pari del giudice dello Stato, anche l'arbitro può essere ricusato dalle parti per i motivi
indicati dalla legge. Il codice prevede l'ipotesi che gli arbitri vengano meno per morte o
altra causa:

 l'arbitro può innanzitutto venir meno per morte o per rinuncia o per “qualsiasi
motivo” (art. 811) e in questi casi la sua sostituzione avviene secondo quanto è
stabilito per la nomina nella convenzione di arbitrato, cioè con nuova designazione
proveniente dalla parte che l'aveva nominato, salvo la possibilità di ricorrere alla
nomina giudiziale in caso di inerzia di quest’ultima
 vi è poi la diversa ipotesi della sostituzione prevista dall'art. 813 bis, che consegue
all'omissione o ritardo nel compimento di un atto relativo alle funzioni arbitrali, in
presenza dei quali la sostituzione avviene o “d'accordo tra le parti” (o dal terzo a ciò
incaricato dalla convenzione d’arbitrato) o, in mancanza, all'esito di un procedimento
instaurato dalla parte interessata davanti al presidente del tribunale. Quest’ultimo,
sentite le parti, provvede con ordinanza non impugnabile e, ove accerti l’omissione o
il ritardo, dichiara la decadenza dell'arbitrato e provvede alla sua sostituzione.

La riforma del 2006 ha esplicitato il sistema della responsabilità e dei diritti degli arbitri.
Innanzitutto l’art. 813 ter prevede che l'arbitro risponde dei danni cagionati alle parti nei
casi in cui, con dolo o colpa grave, abbia omesso o ritardato atti dovuti ed è stato perciò
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dichiarato decaduto; ovvero abbia rinunciato all'incarico senza giustificato motivo; ovvero,
con dolo o colpa grave, abbia omesso o impedito la pronuncia del lodo entro il termine per
fissato. Inoltre la legge estende all’arbitro i casi di responsabilità, per dolo o colpa grave,
previsti per i giudici dello Stato dalla l. 117/1988. L'azione di responsabilità dell'arbitro può
essere proposta in pendenza del giudizio arbitrale oppure, se è stato pronunciato il lodo,
dopo l'accoglimento dell'impugnazione con sentenza passata in giudicato e per i motivi per
cui l'impugnazione è stata accolta. Infine, per quanto riguarda i diritti degli arbitri, questi
hanno diritto al rimborso delle spese e all'onorario per l'opera prestata, e le parti sono tenute
in solido al relativo pagamento.

452. I principi del procedimento arbitrale

La riforma del 2006, con la finalità di sopire le incertezze applicative che si registravano
nella prassi, ha inciso in maniera significativa sulla disciplina del procedimento arbitrale.
Cominciamo dalla domanda arbitrale: secondo parte della dottrina, l'atto di nomina degli
arbitri deve contenere anche la domanda arbitrale, cioè l'atto che dà impulso al
procedimento arbitrale. Con questo atto la parte dichiara l'intenzione di promuovere il
procedimento, specifica i termini della pretesa, con riferimento al petitum e alla causa
pretendi, e nomina il proprio arbitro (o i propri arbitri). Proprio la notificazione della
domanda arbitrale determina la pendenza del procedimento arbitrale e da tale momento
decorrono gli effetti processuali e sostanziali della domanda arbitrale (a cominciare
dall’effetto interruttivo della prescrizione). Ai sensi dell'art. 816 c.p.c., le parti possono
determinare la sede dell'arbitrato nel territorio della Repubblica, altrimenti provvedono gli
arbitri. Se le parti e gli arbitri non hanno determinato la sede dell'arbitrato, questa è nel
luogo in cui è stata stipulata la convenzione di arbitrato e, se tale luogo non si trova nel
territorio nazionale, la sede è a Roma.

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Guardiamo adesso alle regole del procedimento. L’art. 816 bis fissa il fondamentale
principio che siano le stesse parti a determinare, nella convenzione d'arbitrato o con atto
scritto separato (purchè anteriore all’inizio del giudizio arbitrale), le norme che gli arbitri
debbono osservare nel procedimento e la lingua dell'arbitrato. In mancanza, sono gli stessi
arbitri che hanno facoltà di regolare lo svolgimento del giudizio e determinare la lingua nel
modo che ritengono più opportuno. Eppure questa libertà incontra precisi limiti previsti
dalla legge, e cioè:

 il limite dato dal rispetto del principio del contraddittorio (artt. 24 e 111 Cost.),
espressamente sancito dall’art. 816 bis c.p.c.
 il diritto delle parti a farsi assistere da un difensore (diritto alla difesa tecnica)
 il rispetto delle norme e dei principi di ordine pubblico processuale (ad es.
l'imparzialità degli arbitri o la corrispondenza tra chiesto e pronunciato)
 l'obbligo per gli arbitri di provvedere, con ordinanza revocabile, su tutte le questioni
che si presentano nel corso del procedimento (art. 816 bis co. 3°)
 l'obbligo di sospensione del procedimento per pregiudizialità penale (art. 819 bis), se
la controversia pende davanti all'autorità giudiziaria. L'obbligo di sospensione vi è
altresì quando gli arbitri rimettono alla Corte Costituzionale la questione di
legittimità costituzionale di una norma che essi sono chiamati ad applicare ovvero se,
nel corso del procedimento, sorge una questione pregiudiziale su materia che non
può essere oggetto di convenzione d’arbitrato. A quest’ultimo riguardo, va osservato
che la riforma del 2006 ha ampliato i poteri cognitivi degli arbitri sulle questioni
pregiudiziali su materie non arbitrabili, in quanto ex art. 819 essi risolvono senza
autorità di giudicato tutte le questioni rilevanti per la decisione della controversia,
anche se vertono su materie che non possono essere oggetto di convenzione di
arbitrato, salvo il caso che esse debbano essere decise con efficacia di giudicato per
legge. Inoltre, su domanda di parte, tali questioni pregiudiziali sono decise con
efficacia di giudicato se vertono su materie che possono essere oggetto di
convenzione di arbitrato; se esse non sono comprese nella convenzione d’arbitrato, la
decisione con efficacia di giudicato è subordinata alla richiesta di tutte le parti
 gli arbitri non possono concedere sequestri o altri provvedimenti cautelari, salva
diversa disposizione di legge
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 l'intervento volontario o la chiamata in arbitrato di un terzo sono ammessi solo con


l'accordo del terzo e delle parti e con il consenso degli arbitri. Sono sempre ammessi
l'intervento adesivo dipendente e l'intervento del litisconsorte necessario (art. 816
quinquies).

Altri principi, contenuti nell’art. 816 ter, governano l'istruttoria arbitrale:

 gli atti di istruzione possono essere delegati dagli arbitri ad uno di essi
 gli arbitri possono assumere la testimonianza direttamente presso di sé, presso
l'abitazione o l'ufficio del testimone ovvero richiedendo al testimone di fornire per
iscritto le risposte ai quesiti. Se un testimone rifiuta di comparire davanti agli arbitri,
questi possono richiedere al presidente del tribunale della sede dell’arbitrato che ne
ordini la comparizione davanti a loro
 gli arbitri possono farsi assistere da uno o più consulenti tecnici e chiedere alla PA le
informazioni scritte relative ad atti e documenti dell'amministrazione stessa che è
necessario acquisire al giudizio.

453. Competenza degli arbitri e rapporti tra gli arbitri e l'autorità giudiziaria

Può accadere che, nel corso del procedimento arbitrale, vengano contestate dalle parti la
validità, il contenuto o l'ampiezza della convenzione d'arbitrato o la regolare costituzione
degli arbitri. L'art. 817 riconduce tali questioni nell’ambito della competenza arbitrale e
dispone che, quando esse sorgano, gli arbitri decidono sulla propria competenza. La norma
prevede altresì che la parte che non eccepisce nella prima difesa successiva

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all'accettazione degli arbitri la loro competenza per inesistenza, invalidità o inefficacia della
convenzione d'arbitrato, non può per questo motivo impugnare il lodo (salvo che la
controversia sia non arbitrabile); allo stesso modo è a dirsi per la parte che non eccepisce
nel corso dell’arbitrato che le domande delle altre parti esorbitano dai limiti della
convenzione arbitrale.

Specularmente può accadere che una delle parti che abbia stipulato la convenzione di
arbitrato, anzichè instaurare il procedimento arbitrale, dia inizio ad un giudizio dinanzi al
giudice dello Stato: sorge così la problematica dei rapporti tra quest’ultimo e gli arbitri.
L’art. 819 ter c.p.c. risolve tale questione in termini di “competenza”, prevedendo che la
pronuncia con cui viene affermata o negata la “competenza” dell'autorità giudiziaria in
relazione ad una controversia deferita ad arbitri è impugnabile con il regolamento di
competenza (diversamente da quanto ritenuto dalle decisioni della Cassazione antecedenti
alla riforma del 2006, che propendevano per la sua appellabilità). L'eccezione di
convenzione arbitrale è, pertanto, da considerarsi come un'eccezione di incompetenza (e
non più, come riteneva la giurisprudenza, un’eccezione di merito). Essa deve essere
proposta, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta e la mancata proposizione
dell'eccezione esclude la competenza arbitrale limitatamente alla controversia decisa in quel
giudizio. Il richiamo che il legislatore ha inteso fare alla “competenza” arbitrale è del tutto
peculiare. Infatti i principi sulla competenza statica e dinamica presuppongono che oggetto
di contrasto sia l’appartenenza della controversia al giudice adito o ad altro giudice dello
Stato e soprattutto che la decisione sulla stessa controversia non sia mai, in caso di sentenza
declinatoria di competenza, puramente “negativa”, essendo sancito dall’art. 44 l’obbligo del
giudice che si ritenga incompetente di designare il giudice ritenuto competente, davanti al
quale la parte interessata può tempestivamente riassumere il processo (c.d. translatio
judicii). Ma questo sistema, per poter operare, presuppone che la questione di competenza
insorga tra giudici tutti appartenenti alla magistratura ordinaria, in quanto la possibilità di
trasmigrazione della causa da un giudice ad altro giudice richiede che entrambi siano
sottoposti all’efficacia vincolante delle statuizioni che la Cassazione pronuncia, quale
organo supremo della giurisdizione. L’estraneità degli arbitri all’esercizio della
giurisdizione esclude invece che questi possano essere destinatari di provvedimenti
vincolanti sulla competenza. Per gli arbitri il problema della propria “competenza” è solo
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quello di individuare nella convenzione di arbitrato la “fonte” che legittima l’esercizio del
potere decisorio. Insomma l’indagine che gli arbitri sono chiamati a compiere in via
preliminare è ben più elementare rispetto alla corrispondente indagine del giudice togato:
infatti non esistono per gli arbitri regole di competenza, ma è solo la convenzione di
arbitrato che segna il presupposto di riferimento e i confini del loro potere decisorio.

Ove l'eccezione sia formulata, il giudice dello Stato, se la ritiene fondata, si dichiarerà
incompetente, nel senso che accerterà la mancanza delle condizioni di decidibilità della
causa nel merito, avendo le parti, attraverso la convenzione di arbitrato, sottratto alla
giurisdizione statuale il potere di deciderla. Tale provvedimento non potrà indicare alcun
altro giudice statale competente. Se, invece, l'eccezione non viene formulata ovvero se il
giudice la ritiene infondata, potrebbe verificarsi che sulla medesima controversia si
pronuncino sia il giudice dello Stato che gli arbitri, determinando così una sorta di contrasto
pratico tra giudicato statale e lodo non più impugnabile: in questo caso si ritiene che si
debba applicare il criterio invalso in giurisprudenza per la soluzione del contrasto tra due
giudicati statali, cioè che possa prevalere il giudicato formatosi per ultimo.

454. Pronunzia ed efficacia del lodo rituale. L'omologazione del lodo

Il lodo deve essere pronunciato entro il termine disposto dalle parti ovvero, in mancanza,
nel termine di 240 giorni dall'accettazione della nomina da parte degli arbitri, che, in caso
di non contestualità da parte di tutti gli arbitri, decorre dall'ultima accettazione. Questo
termine ha carattere convenzionale e perciò le parti possono consentire la proroga con atto
scritto. La proroga può essere concessa anche dal presidente del tribunale, su istanza
motivata anteriore alla scadenza del termine, di una delle parti o degli arbitri. Il mancato
rispetto del termine è causa di nullità del lodo, a condizione che la parte, prima della
deliberazione, abbia comunicato alle

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altre parti e agli arbitri che intende far valere la loro decadenza (art. 821). Il lodo è
deliberato a maggioranza di voti con la partecipazione di tutti gli arbitri ed è redatto per
iscritto. Esso deve contenere:

 l'indicazione delle parti


 l'indicazione della convenzione di arbitrato e delle conclusioni delle parti
 l'esposizione sommaria dei motivi
 il dispositivo
 la sottoscrizione di tutti gli arbitri, con l'indicazione del giorno, mese e anno in cui è
apposta.

L'art. 824 bis dispone che il lodo rituale ha dalla data della sua ultima sottoscrizione gli
effetti della sentenza pronunciata dall'autorità giudiziaria: la norma rende palese
l’intenzione del legislatore di attribuire al lodo tra le parti un’efficacia vincolante pari a
quella prodotta da una sentenza e una stabilità, allorchè il lodo non sia più impugnabile,
pari alla cosa giudicata.

Ai sensi dell'art. 825 c.p.c., la parte che intende “far eseguire” il lodo nel territorio della
Repubblica (cioè far sì che esso possa essere portato ad esecuzione nelle forme del processo
di esecuzione forzata) ha l'onere di depositarlo unitamente all'atto contenente la
convenzione di arbitrato, nella cancelleria del tribunale nel cui circondario è la sede
dell'arbitrato. Il tribunale, previo accertamento della sua regolarità formale, dichiara
esecutivo il lodo con decreto (c.d. omologazione del lodo). Contro il decreto che nega o
concede l'esecutorietà del lodo, è ammesso reclamo mediante ricorso alla corte d'appello,
entro 30 giorni dalla comunicazione; la corte, sentite le parti, provvede in camera di
consiglio con ordinanza. La funzione dell’intervento omologatorio del giudice risiede in
un’esigenza di controllo da parte dell’ordinamento (limitato in questa sede al profilo
“estrinseco” che il lodo pronunciato dagli arbitri abbia i requisiti formali indicati nell’art.
823) necessario a dotare di forza esecutiva un atto privato, che già produce tra le parti i
medesimi effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria: l’intervento
giurisdizionale diventa necessario solo quando occorre promuovere esecuzione forzata
contro chi disobbedisca ad una decisione arbitrale di condanna. L'art. 825 c.p.c. prevede

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esplicitamente che il lodo reso esecutivo è soggetto a trascrizione o annotazione, in tutti i


casi nei quali sarebbe soggetta a trascrizione o annotazione la sentenza avente il medesimo
contenuto.

455. L'arbitrato c.d. amministrato

L'art. 832 c.p.c. prevede che la convenzione di arbitrato possa fare rinvio ad un regolamento
arbitrale precostituito (ad es. dalle camere di commercio): si parla in questi casi di arbitrato
regolamentato o amministrato. In caso di contrasto, la convenzione di arbitrato prevale
comunque sul regolamento precostituito. L'ente, istituzione o associazione che predispone il
regolamento di arbitrato in genere provvede anche a nominare gli arbitri e ad ospitare la
sede dell'arbitrato. Al fine di garantire l’imparzialità degli arbitri, è però fatto divieto alle
istituzioni associative e di categoria, sotto pena di nullità del lodo, di nominare arbitri nelle
controversie che contrappongono i propri associati (o appartenenti alla categoria) a terzi.
Inoltre, se l'istituzione arbitrale si rifiuta di amministrare l'arbitrato, la convenzione di
arbitrato resta efficace, applicandosi, in luogo del regolamento arbitrale, le norme generali
del codice di procedura civile. Tra i sistemi di arbitrato amministrato previsti dalla legge,
particolare rilievo riveste quello previsto dal d.lgs. 179/2007, che istituisce una Camera di
conciliazione e arbitrato presso la Consob per la risoluzione di controversie insorte tra gli
investitori e gli intermediari per la violazione da parte di questi degli obblighi di
informazione, correttezza e trasparenza previsti nei rapporti contrattuali con gli investitori.

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456. Le impugnazioni del lodo rituale

Ex art. 827, il lodo è soggetto alle impugnazioni per nullità, per revocazione e per
opposizione di terzo, che si propongono dinanzi alla corte d'appello, nella cui circoscrizione
è la sede dell'arbitrato. Questi mezzi di impugnazione possono essere proposti
indipendentemente dal deposito del lodo presso la cancelleria del tribunale al fine di
ottenerne la dichiarazione di esecutività (omologazione). Ciò conferma che la tutela in
esame è accordata dalla legge non perché il lodo sia stato dichiarato esecutivo, ma perché
esso potrebbe essere invalido e, in quanto tale, deve poter essere sottoposto alla cognizione
della corte d’appello.

L'impugnazione per nullità costituisce il tipico mezzo di impugnazione del lodo arbitrale,
proponibile nel termine di 90 giorni dalla notificazione del lodo. Essa non è più proponibile
decorso un anno dalla data dell'ultima sottoscrizione da parte degli arbitri (art. 828). Si
tratta di un mezzo di impugnazione a critica vincolata, i cui motivi sono elencati dall’art.
829: essi attengono a vizi della convenzione di arbitrato, nonché alla violazione di norme
del procedimento arbitrale, con la conseguenza che la parte che ha dato causa a un motivo
di nullità, o vi ha rinunciato, o che non ha eccepito nella prima istanza o difesa successiva
la violazione di una regola che disciplina lo svolgimento del procedimento arbitrale, non
può per questo motivo impugnare il lodo. La norma dispone che l'impugnazione per nullità
è ammessa:

 se la convenzione d'arbitrato è invalida


 se gli arbitri non sono stati nominati secondo le regole
 se il lodo è stato pronunciato da chi non poteva essere nominato arbitro, cioè non
possedeva la relativa capacità
 se il lodo ha pronunciato fuori dei limiti della convenzione d'arbitrato
 se il lodo è privo della motivazione, del dispositivo o della sottoscrizione degli arbitri
 se il lodo è stato pronunciato dopo la scadenza del termine stabilito
 se nel procedimento non sono state osservate le forme prescritte dalle parti sotto
espressa sanzione di nullità e la nullità non è stata sanata
 se il lodo è contrario ad altro precedente lodo non più impugnabile o a precedente
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sentenza passata in giudicato tra le parti


 se non è stato osservato nel procedimento arbitrale il principio del contraddittorio
 se il lodo conclude il procedimento senza decidere il merito della controversia e
quest'ultimo doveva essere deciso dagli arbitri
 se il lodo contiene disposizioni contraddittorie
 se il lodo non ha pronunciato su alcuna delle domande ed eccezioni proposte dalle
parti in conformità alla convenzione di arbitrato.

L'impugnazione per nullità è altresì ammessa (art. 829 co. 3°) per errores in judicando,
precisamente “per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia”,
ma soltanto se essa è stata prevista dalle parti o disposta dalla legge. Resta ferma la
possibilità di impugnare il lodo per contrasto con l’ordine pubblico.

L'art. 830 contiene regole sul contenuto della sentenza resa dalla corte d'appello investita
dell'impugnazione per nullità. Innanzitutto, su istanza di parte, la corte d'appello può
sospendere con ordinanza l'efficacia del lodo, quando ricorrono gravi motivi (c.d. inibitoria
del lodo arbitrale). Inoltre, quando la corte accoglie l'impugnazione, dichiara con sentenza
la nullità del lodo, ma, quando il vizio incide solo su una parte del lodo che sia scindibile
dalle altre, ne dichiara la nullità parziale. Se le parti non abbiano stabilito diversamente
nella convenzione di arbitrato o con accordo successivo, la corte pronuncia anche sul
merito. In questo caso, il giudizio della corte d'appello avrà carattere anche rescissorio.
Quando la corte d’appello non decide nel merito, alla controversia continua ad applicarsi la
convenzione di arbitrato, salvo che la nullità dipenda dalla sua invalidità o inefficacia, con
la conseguenza che la parte interessata dovrà proporre un nuovo arbitrato. Avverso

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la sentenza resa dalla corte d'appello, è esperibile l'ordinario ricorso per cassazione. Inoltre
l'art. 831 c.p.c. prevede l'impugnabilità del lodo per revocazione, ma soltanto limitatamente
ai motivi di revocazione straordinaria, e per opposizione di terzo in tutti i casi previsti
dall'art. 404 c.p.c., cioè per opposizione di terzo sia ordinaria che revocatoria.

457. L'arbitrato societario

Il d.lgs. 5/2003, che ha riformato la disciplina sostanziale delle società, contiene alcune
disposizioni (artt. 34-36) dedicate all’arbitrato societario. Si tratta di un arbitrato rituale,
ancorchè speciale, cioè limitato alle controversie societarie, che non si differenzia, quanto a
natura giuridica (privatistica) e ad effetti per l'ordinamento del suo risultato finale (il lodo),
dall'arbitrato comune. Ai sensi dell'art. 34, gli atti costitutivi delle società (fatta eccezione
per quelle quotate in borsa) possono prevedere, mediante clausole compromissorie, la
devoluzione in arbitri di tutte o alcune delle controversie insorgenti tra soci, ovvero tra i
soci e la società. Pertanto non è possibile fare ricorso alle norme dell’arbitrato societario a
seguito di compromesso.

La clausola compromissoria statuaria deve obbligatoriamente prevedere il numero e le


modalità di nomina degli arbitri, conferendo in ogni caso, a pena di nullità, il potere di
nomina di tutti gli arbitri ad un soggetto estraneo alla società. Quindi, a differenza che
nell’arbitrato comune (ove gli arbitri sono nominati dalle parti e, in assenza, dal giudice),
gli arbitri sono nominati dal terzo indicato nella clausola; se quest’ultimo non provvede, la
nomina è richiesta al presidente del tribunale del luogo in cui la società ha la sede legale. La
clausola compromissoria statutaria è vincolante per la società e per tutti i soci. Possono
essere devolute ad arbitrato societario anche le controversie promosse da amministratori,
liquidatori ed sindaci o nei loro confronti. L'art. 34 dispone che le controversie devolvibili
in arbitrato societario devono avere ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale
(sebbene la legge di delega avesse conferito al legislatore delegato il potere di prevedere
l’assoggettabilità ad arbitrato societario anche delle controversie attinenti a diritti
indisponibili). Il co. 5° dell’art. 34 prevede che non possano essere oggetto di clausola
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compromissoria le controversie nelle quali la legge prevede l'intervento obbligatorio del


p.m. Gli arbitri societari, se da un lato, come detto, non possono giudicare direttamente di
controversie in ordine a diritti indisponibili, dall'altro possono conoscere per via incidentale
di questioni, anche non compromettibili, dalla cui soluzione dipende la decisione della
controversia loro sottoposta. Tale principio è stato poi esteso all’arbitrato comune dal d.lgs.
40/2006, atteso che il nuovo art. 819 prevede che gli arbitri rituali risolvono senza autorità
di giudicato tutte le questioni rilevanti per la decisione della controversia, anche se vertono
su materie che non possono essere oggetto di convenzione di arbitrato.

Infine, una ulteriore particolarità prevista dal d.lgs. 5/2003 consiste nell'attribuzione agli
arbitri societari del potere cautelare di sospensione dell'efficacia delle delibere assembleari
impugnate dinanzi a loro. Il c.p.c. all’art. 818 esclude che agli arbitri possano essere
attribuiti poteri cautelari, salvo “diversa disposizione di legge”. In deroga a questa
previsione generale, l'art. 35 del d.lgs. conferisce agli arbitri societari il potere di disporre,
con ordinanza non reclamabile, la sospensione dell'efficacia della delibera assembleare,
intorno alla cui validità si controverte dinanzi a loro. Questo potere cautelare deve
considerarsi tipico, cioè non estensibile ad alcuna altra misura cautelare. Il regime di
irreclamabilità dell’ordinanza potrebbe trovare giustificazione sulla base di 2 rilievi:

 il primo ha riguardo alla breve durata degli effetti della cautela in questione: la
necessità di rispettare il termine per la pronuncia del lodo comporta che all’ordinanza
di sospensione deve seguire, entro breve tempo, la decisione sul merito
 il secondo concerne l’opportunità di evitare che, attraverso l’eventuale reclamo
(necessariamente davanti al tribunale collegiale), possano determinarsi “interferenze”
da parte del giudice dello Stato sull’arbitrato.

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