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SBOBINE PROCEDURA CIVILE, primo semestre

12/09/19
La norma processuale è una norma diversa rispetto alla norma sostanziale.

La norma sostanziale è sempre una norma chiamata a risolvere un conflitto


d’interessi. Ci sono due o più parti che sono portatrici di interessi contrapposti e la
norma sostanziale non fa altro che individuare il c.d. interesse prevalente dettando
la regola di condotta e individuando una posizione di vantaggio e una di
svantaggio (pensiamo all’ipotesi di due parti). La posizione di vantaggio (o la
posizione attiva) prende la forma del diritto, del potere, della facoltà (situazioni
giuridiche hanno schemi diversi). La posizione di svantaggio (la posizione passiva)
prende la forma dell’obbligo, del dovere o di altra situazione passiva. Quindi la
norma sostanziale dettando la regola di condotta determina il sorgere della
situazione giuridica, ma possiamo chiamarla dell’effetto giuridico o del rapporto
giuridico. Situazione giuridica, effetto giuridico, rapporto giuridico possiamo usarli
come sinonimi. Invero le norme sostanziali utilizzano schemi diversi ai fini della
produzione degli effetti giuridici, si parla degli schemi di produzione degli effetti
sostanziali. Pensiamo al diritto di proprietà e ai modi di acquisto della proprietà:
compravendita, successione, donazione, ma anche gli istituti di origine romanistica
di cui agli artt 922 e seguenti del CC come accessione, specificazione (questi
ultimi invero non molto utilizzati). Nel novero dei modi di acquisto della proprietà
già s’individuano degli schemi di produzione degli effetti sostanziali diversi, perché
laddove si parla di compravendita, ma anche di successione o donazione, lo
schema che la norma sostanziale utilizza lo possiamo riportare alla sequenza
norma-potere-effetto. La norma attribuisce ai privati il potere di regolare i propri
rapporti giuridici, perché si parla del diritto civile, quindi di situazioni sostanziali
che sono disponibili generalmente. Cos’è questo potere, norma-potere-effetto?
L’autonomia privata, cioè il potere di stipulare contratti, di effettuare una
donazione, di disporre dei propri beni a seguito della nostra morte. Invece, se
pensiamo a quegli istituti degli artt 922 e seguenti (accessione, specificazione e via
dicendo), lo schema è diverso. Li la norma si limita a stabilire che in presenza di
determinati fatti di volta in volta individuati in maniera analitica l’effetto giuridico
sorge automaticamente, cioè senza la necessità che si formi l’accordo delle parti.
Dunque, qui lo schema è diverso. Lo possiamo sintetizzare nella sequenza norma-
fatto-effetto, cioè la norma stabilisce che al verificarsi di quel determinato fatto si
produce automaticamente l’effetto giuridico. Quindi anche la norma sostanziale ha
una sua complessità.

Il diritto processuale, invece, che trova la sua disciplina prevalentemente nel


codice di procedura civile, ma anche in una serie di altre disposizioni che troviamo
in leggi speciali e in disposizioni contenute ancora oggi nel codice civile per motivi
storici, prevede una serie di meccanismi, i processi appunto, i quali perseguono
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uno scopo unitario, cioè quello di consentire l’attuazione della norma sostanziale
nel momento in cui si verifica la c.d. crisi di cooperazione.

CRISI COOPERAZIONE= momento in cui la regola di condotta dettata dalla norma


sostanziale viene violata, perché, la parte passiva, la parte che si trova in posizione
di svantaggio, non la rispetta, trasgredisce la regola imposta dalla norma
sostanziale.

Esempi:

Le situazioni giuridiche soggettive possono avere strutture diverse (differenze tra la


posizione di diritto, di facoltà, di potere), ma rimaniamo nel novero dei diritti.

Pensiamo alla differenza tra diritto assoluto e diritto relativo.

Il diritto assoluto per eccellenza è la proprietà e i diritti reali di godimento.

La caratteristica del diritto assoluto è che c’è una situazione di potere del titolare
sul bene oggetto del diritto, a cui si contrappone un obbligo, un dovere generale di
astensione che grava su tutti i consociati, i quali non possono intromettersi in
questo rapporto esclusivo che lega il titolare al bene. In ipotesi di proprietà la crisi
di cooperazione può prendere forme molto diverse.

Si pensi allo spossessamento, cioè qualcuno priva il proprietario del possesso del
suo bene.

Oppure si pensi al proprietario di un fondo e al terzo che comincia a camminare


sul fondo, a passare per il fondo, pur non essendo titolare di un diritto di servitù di
passaggio, quindi in assenza di un titolo giuridico che giustifichi il suo passaggio.

Oppure si pensi ancora al proprietario di un fondo e al vicino che intraprende la


costruzione di un’opera che è illegittima perché in violazione delle norme dettate
dal codice civile sulle distanze, per esempio, che devono intercorrere tra due o più
proprietà.

Nei diritti assoluti rientrano anche i diritti reali di godimento, per esempio una
servitù di passaggio. Io sono titolare di un diritto di servitù di passaggio sul fondo
del mio vicino perché il mio fondo è intercluso e quindi ho diritto di passare per
accedere alla strada. Si supponga che il mio vicino ad un certo punto metta un bel
cancello, lo chiude a chiave e non mi dà la chiave. Ecco un’altra violazione di un
diritto assoluto che ha una forma diversa rispetto a quelle viste precedentemente.

Nei diritti assoluti rientrano anche altre situazioni di marca diversa, cioè le libertà
personali, i diritti della personalità. Sono situazioni che hanno un contenuto
diverso, perché si tratta di situazioni che hanno un contenuto e una funzione non
patrimoniale. È diverso dalla proprietà, però la struttura è la stessa. A fronte del
godimento assicurato al titolare grava su tutti i consociati un obbligo generale di
astensione. Ma anche qui si possono verificare delle crisi di cooperazione.

Si pensi all’ipotesi di qualcuno che usa il mio nome. Diritto al nome, classico diritto
della personalità che può essere violato. La violazione ha una forma diversa da
quelle precedenti.

Si pensi anche ai diritti relativi, di cui sono esempio classico le obbligazioni.


Rapporto che lega il titolare attivo, che è il titolare della posizione di diritto, al c.d.
debitore, che invece vede gravato su di sè una posizione di obbligo, di
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obbligazione. Anche in questo caso la crisi di cooperazione può prendere forme
diverse.

La forma più diffusa è l’inadempimento, la classica obbligazione pecuniaria che


non viene adempiuta, quindi il mancato pagamento.

Le situazioni giuridiche hanno un’identità molto diversa e soprattutto possono


subire crisi di cooperazione molto diverse. In tutti questi casi, che si verificano in
maniera continuativa, finché la parte titolare della posizione di svantaggio rispetta
la regola di condotta, quindi adempie a quanto stabilito dalla norma sostanziale,
non ci sono problemi. I problemi sorgono nel momento in cui si verifica una
violazione nelle forme descritte. Qui entra in gioco l’ordinamento processuale, cioè
entrano in gioco questi meccanismi il cui scopo è proprio quello di ovviare a
questa mancata cooperazione. Da questa breve descrizione emerge chiaramente
che il diritto processuale dipende da diritto sostanziale, perché è evidente che il
diritto processuale presuppone il diritto sostanziale. Si tratta di un sistema di tutela
che ha ad oggetto le norme sostanziali. In verità la relazione che corre tra il diritto
sostanziale e il diritto processuale non è di semplice dipendenza, perché il legame
che intercorre tra queste due realtà è un legame di interdipendenza. Non soltanto il
diritto processuale dipende dal diritto sostanziale, ma è vero anche il contrario,
cioè il diritto sostanziale dipende dal diritto processuale. Per comprendere questa
seconda faccia del rapporto che intercorre tra queste due dimensioni, la
dimensione sostanziale e quella processuale, dobbiamo introdurre il c.d. divieto di
autotutela privata. Gli artt 392-393 c.p. stabiliscono infatti costituisce reato il
comportamento di chi, al fine di esercitare un preteso diritto, potendo ricorrere al
giudice, si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo. Si tratta de divieto di farsi
giustizia da soli. Se il debitore non paga non si può andare a casa di questo e
prendergli il portafoglio. L’ordinamento questo non lo può tollerare. Questo è il
significato del divieto di autotutela privata. Stante il divieto di autotutela privata
imposto dagli artt 392-393 c.p., l’ordinamento sostanziale non potrebbe esistere
se lo Stato non predisponesse anche dei meccanismi processuali, non prevedesse
anche delle norme processuali, cioè delle norme che siano in grado di garantire
l’attuazione della norma sostanziale nel momento in cui la parte che è tenuta non
coopera, non collabora, e quindi si verifica la c.d. crisi di cooperazione, la
violazione della norma sostanziale. In altre parole, stante il divieto di autotutela
privata, un ordinamento che vuole essere un ordinamento giuridico, quindi un
ordinamento effettivamente esistente, non si può esimere dal predisporre, accanto
alle norme sostanziali, delle norme processuali. Se non lo facesse non sarebbe più
un ordinamento giuridico, non potrebbe essere più qualificato come giuridico
perché non garantirebbe la propria attuazione. Sarebbe un ordinamento che
rimetterebbe la propria attuazione ai rapporti di forza, cioè sarebbero le situazioni
di fatto ad imporsi a dispetto di quanto previsto dalla norma sostanziale, che
resterebbe soltanto sulla carta. La norma che ci consente di capire la base e lo
scopo dell’ordinamento processuale è l’art 24 co.1 della Cost.

Art 24 co. 1 Cost:

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Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi [cfr.
art. 113].
La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi
davanti ad ogni giurisdizione.
La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.
Questa è la norma fondamentale dell’ordinamento processuale. In essa troviamo
enunciato innanzitutto la garanzia del diritto di azione. È un po' la contropartita del
divieto di autotutela privata. Il cittadino non può farsi ragione da sé, però ha il
diritto di rivolgersi sempre al giudice e questo diritto gli è garantito in via generale
ed atipica dall’art 24 co.1 Cost. Il riferimento ai diritti e agli interessi legittimi lo
riteniamo come un riferimento generale a tutte le situazioni giuridicamente rilevanti,
a prescindere dal loro schema. L’art 24 garantisce a qualsiasi cittadino il diritto di
rivolgersi al giudice per ottenere la tutela di qualsiasi situazione giuridicamente
rilevante di cui si ritiene titolare. Questo a prescindere dall’esistenza di una norma
specifica che con riferimento a quella situazione attribuisca al cittadino il diritto di
azione. L’ordinamento italiano, a differenza di quello romano, non è un
ordinamento di azioni tipiche. Nell’ordinamento romano esistono solo le azioni
espressamente previste, anzi, una situazione può essere ritenuta giuridicamente
rilevante solo nella misura in cui esiste una norma che attribuisce un’azione al
cittadino. L’ordinamento italiano, invece, si fonda su una nozione di azione come
categoria atipica, cioè che l’ordinamento, che la Cost., affida, attribuisce a
qualsiasi cittadino, a prescindere dalla situazione giuridica che è in gioco, che il
cittadino ritiene sia stata in qualche modo violata. Quindi, il cittadino italiano, in
base all’art. 24 co.1 Cost., ha diritto di rivolgersi al giudice, ogni volta che ritiene
essere stato leso in un proprio diritto, in una propria situazione giuridicamente
rilevante e lo può fare anche se si tratta di una situazione giuridica c.d nuova, su
cui il legislatore ancora non è intervenuto. Questo è il motivo per cui il giudice
italiano si trova spesso a prendere decisioni in settori delicatissimi. Si pensi, ad
esempio, al fine vita, su cui il legislatore ancora non ha avuto la forza di intervenire,
non ha trovato il modo di emanare un’espressa normativa. Il 24 co.1 consente al
cittadino di rivolgersi comunque al giudice per far valere il suo preteso diritto.
Tuttavia l’art 24 contiene anche un altro principio, ci indica l’obbiettivo
dell’ordinamento processuale, perché è pacifico che, nell’affermare che tutti
possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi, l’art 24
enunci il c.d principio di effettività della tutela, cioè l’ordinamento processuale non
deve offrire al cittadino una tutela quale che sia, un qualsiasi provvedimento, ma
deve consentire al cittadino di ottenere le utilità che gli sono garantite dalla legge
sostanziale. Per spiegare il principio di effettività della tutela siamo soliti
richiamare le parole di Giuseppe Chiovenda, processualcivilista vissuto all’inizio
del 900 ritenuto un po' il padre della disciplina. Giuseppe Chiovenda diceva che il
processo deve dare a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello che egli ha il
diritto di conseguire sulla base della legge sostanziale. Il processo deve dare a chi
ha un diritto tutto quello e proprio quello che egli ha il diritto di conseguire sulla
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base della legge sostanziale. Quindi non un foglio di carta che si limiti a dire al
cittadino che ha ragione, che è titolare del diritto, ma il processo civile deve essere
in grado di offrire al cittadino le utilità che gli sono garantite dalla legge sostanziale.
Questa affermazione del principio di effettività della tutela ci consente di capire il
motivo per cui il processo civile italiano viene chiamato ad offrire al cittadino, a
garantire al cittadino, non una qualsiasi tutela, ma una tutela c.d. in forma
specifica. Deve essere in grado di fornire al cittadino una tutela in forma specifica,
ovvero le utilità che gli sono garantite dalla legge sostanziale e che a causa della
crisi di cooperazione non è riuscito ad ottenere in maniera spontanea. Se questo è
vero, allora si capisce anche che la tutela risarcitoria, la c.d tutela per equivalente
monetario, è una forma di tutela residuale, cioè è la tutela che deve essere
apprestata al cittadino solo e soltanto nei casi in cui non è più possibile ottenere la
tutela in forma specifica. Esempio:

Se il cittadino ha diritto alla consegna di un bene infungibile che è andato distrutto,


per esempio un quadro che ha preso fuoco, è chiaro che non potrà più ottenere
quel quadro, perché il bene ormai non esiste più ed era infungibile. In quel caso
avrà diritto di ottenere una tutela risarcitoria, quindi una tutela per equivalente
monetario, ma si tratta di una scelta di tipo residuale. Il primo compito
dell’ordinamento processuale è quello di garantire al cittadino il conseguimento
delle utilità a cui ha diritto. Se questo è vero, allora si può capire che solo per
motivi di semplificazione si parla del processo civile, perché l’ordinamento
processuale, nel momento in cui ha questo obbiettivo, molto ambizioso e
complesso, non può articolarsi in un unico sistema di tutela, considerato
l’eterogeneità della struttura delle situazioni sostanziali esistenti e considerato il
carattere eterogeneo, altresì, delle violazioni che si possono verificare nelle crisi di
cooperazione. È quindi chiaro che l’ordinamento processuale deve mettere a
disposizione dei cittadini un sistema di tutela piuttosto articolato e complesso per
venire incontro a tutti i possibili bisogni di tutela che si possono presentare. Infatti,
nell’ambito dell’ordinamento processuale, troviamo, accanto a quello che è lo
strumento generale di tutela, che è il processo a cognizione piena, e accanto ai
processi esecutivi che sono chiamati a dare attuazione concreta all’accertamento
e alla condanna, svolti dal giudice della cognizione, troviamo tutta una serie di
procedimenti speciali che sono predisposti per soddisfare esigenze più specifiche
di tutela. Quindi è un ordinamento molto complesso e che non può non essere
complesso, visto l’obbiettivo che è chiamato ad attuare. Lo scopo del corso di
diritto processuale civile è proprio quello di andare ad indagare i diversi strumenti
di tutela che sono offerti dall’ordinamento, ma anche di andare a verificare quanto
effettivamente l’ordinamento processuale è in grado di dare attuazione al suo
obbiettivo, cioè quello di offrire una tutela effettiva. Come si vedrà, mentre in alcuni
settori il legislatore è riuscito effettivamente a predisporre sistemi di tutela idonei a
offrire una tutela effettiva al cittadino in presenza di qualsiasi forma di crisi di
cooperazione, ci sono settori, invece, in cui il sistema di tutela che è offerto è
insufficiente.

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Diritto di proprietà, il contratto di locazione, il diritto del lavoratore illegittimamente
licenziato di essere reintegrato nel proprio posto di lavoro, diritti della personalità e
della libertà in genere.

Con riferimento al diritto di proprietà, infatti, troviamo un amplissimo ventaglio di


strumenti di tutela. Si pensi agli artt 948-949 del CC che predispongono strumenti
di tutela in ipotesi in cui il proprietario, ad esempio, subisca lo spossessamento,
subisca l’evizione, o l’ipotesi in cui il titolare del diritto di proprietà veda violato il
proprio diritto dal terzo che pretende di essere titolare di un diritto di servitù di
passaggio senza esserlo. Si pensi agli artt 1171-1172, la denuncia di nuova opera,
la denuncia di danno temuto, strumenti di reazione contro l’ipotesi in cui il
proprietario tema un pregiudizio da un’opera illegittima che è stata intrapresa sul
proprio e sull’altrui fondo dal vicino oppure da un edificio o da un albero che
rischia di cadere e di danneggiarlo.

Si pensi alla situazione del contratto di locazione, il quale prevede che alla
scadenza del contratto il conduttore debba restituire l’immobile al locatore. Questo
diritto di restituzione, se non viene adempiuto da parte del conduttore, apre alla
necessità di effettuare il c.d. sfratto, che è la restituzione coattiva dell’immobile al
locatore. Lo sfratto passa attraverso l’azione della forza pubblica, perché, come
dimostrano le cronache, è necessario l’intervento della polizia per effettivamente
riuscire a restituire al proprietario, al locatore, l’immobile. Il legislatore spesso, pur
non andando a toccare la disciplina sostanziale del contratto di locazione, limita la
disponibilità della forza pubblica e di fatto, in questo modo, non fa altro che
allungare la durata del contratto di locazione. Quindi, qui abbiamo una situazione
giuridica la cui tutela non è effettiva, non è piena, perché quanto previsto dalla
norma sostanziale rimane sulla carta.

Si pensi al lavoratore che è stato illegittimamente licenziato. L’art 18 della legge n.


300/1970 garantiva la reintegra del lavoratore illegittimamente licenziato, ma con la
legge n. 12/2012 il legislatore ha limitato il diritto alla reintegra. Tuttavia il diritto alla
reintegra non è una situazione che si presta ad essere attuata in forma coattiva, nel
senso che lo Stato può obbligare il datore di lavoro a far rientrare materialmente il
lavoratore nello stabilimento, ma poi il datore di lavoro può obbligare il lavoratore a
stare seduto nella sala della mensa per otto ore senza reinserirlo nella catena di
lavoro. Non c’è nessuno che può obbligare il datore di lavoro. Anche in questo
caso abbiamo una situazione sostanziale che rischia di rimanere sulla carta,
perché poi l’ordinamento processuale non la attua.

Questo è ciò di cui andremo ad occuparci, i limiti in cui questa direttiva di tutela in
forma specifica, di tutela effettiva, trova reale attuazione, diversificando settore per
settore.

I rilievi appena svolti fanno notare come ci sia un legame di interdipendenza tra
diritto sostanziale e diritto processuale, ma anche come, in virtù di questa di
interdipendenza, soprattutto in virtù del fatto che il diritto sostanziale finisce col
dipendere dal diritto processuale, questo diritto processuale, allora, non è un
fenomeno neutrale, un insieme di regole tecniche, perché attraverso lo studio
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dell’ordinamento processuale possiamo comprendere qual è effettivamente
l’ordinamento sostanziale che è effettivamente esistente.

13/09/19
Nella lezione di ieri abbiamo chiarito che l’obiettivo dell’ordinamento processuale è
quello di con- sentire a qualsiasi cittadino di ottenere, nell’ipotesi in cui subisca
una crisi di cooperazione, una tutela effettiva.

L’ordinamento processuale si compone di una serie di strumenti (di processi civili)
il cui scopo è proprio quello di consentire, come diceva Chiovenda: “tutto quello e
proprio quello che egli ha diritto di conseguire sulla base della legge sostanziale”.

Gli strumenti che l’ordinamento mette a disposizione dei cittadini per ottenere la
tutela delle situa- zioni giuridiche violate, cioè che hanno subito una crisi di
cooperazione, sono molteplici; tuttavia non ci sono soltanto i rimedi giurisdizionali,
ci sono anche altri rimedi e sono gli strumenti alterna- tivi di risoluzione delle
controversie; per esempio: la mediazione e forme simili come la negozia- zione
assistita, poi c’è l’arbitrato (l’affidamento della risoluzione della controversia ad un
collegio di privati).

Questo per dirvi che il sistema giurisdizionale di tutela delle situazioni giuridiche
non svolge una funzione esclusiva, perché la stessa funzione viene svolta anche
attraverso altri istituti.

Detto ciò è chiaro che l’apparato giurisdizionale dei diritti è lo strumento di
risoluzione per eccel- lenza delle liti tra privati e la titolarità (l’esercizio) di questa
funzione viene attribuita dalla Costitu- zione in via esclusiva alla Magistratura.

Alla Magistratura sono dedicate le disposizioni contenute nel Titolo IV seconda


parte della Costi- tuzione, che vanno dall’art. 101 all’ art. 113 Cost.

Nella Costituzione poi figurano anche altre disposizioni che si riferiscono alla
Magistratura pur non facenti parte del Titolo IV, come l’art. 24 Cost. (già visto nella
prima lezione).

Esso introduce al secondo comma il diritto di difesa, diritto inviolabile in ogni stato
e grado del procedimento; questa disposizione non riguarda solo il processo
penale ma anche quello civile, perché per molti anni si è ritenuto che dalla lettura
combinata dell’art. 24 comma 2 e l’art 3 com- ma 2 Cost. (principio di uguaglianza
sostanziale dei cittadini) si ricavasse il principio del contrad- dittorio, cioè il
principio di parità delle parti nel processo civile.

Oggi in verità tale principio lo ritroviamo direttamente affermato all’art 111 Cost.
riportato oggi se- condo la lettera che gli è stata attribuita dalla Legge
costituzionale n. 2/1999, che ha riscritto completamente il testo dell’art 111 Cost.
in cui troviamo esplicitate una serie di garanzie che ri- guardano il processo civile;
secondo l’interpretazione preferibile l‘art 111 nella sua nuova veste non è tuttavia
una norma innovativa, ma ricognitiva, perché afferma principi di cui nessuno aveva
mai dubitato.

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L’art 111 ci dice al primo comma che <<la giurisdizione si attua mediante il giusto
processo attua- to dalla legge>>, e al secondo comma che <<ogni processo si
svolge nel contraddittorio tra le parti in condizione di parità davanti ad un giudice
che è terzo e imparziale, la legge ne assicura la ragionevole durata>>.

Tornando all’art 24, degno di nota è anche il suo terzo comma, che prevede
l’assistenza ai non abbienti a cui sono assicurati i mezzi per agire e difendersi
davanti ad ogni giurisdizione (disposi- zione chiaramente riconducibile al diritto di
difesa inteso non in senso formale, ma sostanziale, in quanto lo Stato deve
mettere il cittadino in condizione di esercitare materialmente i propri diritti
processuali).

Soffermiamoci ora sulla Magistratura come apparato statale a cui lo Stato affida
l’esercizio della funzione giurisdizionale.

Che cos’è la funzione giurisdizionale? La definizione la possiamo ricavare dalla
lettura combinata dell’art. 101 primo e secondo comma e dell’art. 24 Cost.

L’art. 101 al primo comma prevede che la giustizia è amministrata nel nome del
popolo e al se- condo comma prevede che i giudici sono soggetti soltanto alla
legge.

L’art 24 prevede che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e
interessi legitti- mi.

Allora dal combinato di questi due articoli possiamo dire che la funzione
giurisdizionale è una fun- zione statale, espressione della sovranità popolare, il cui
esercizio è diffuso tra una pluralità di soggetti (i giudici) che sottostanno solo alla
legge.

Detto ciò, cosa s’intende per “Magistratura”?

L’art 102 Cost dice che la funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati


ordinari istituiti e re- golati dalle norme sull’ordinamento giudiziario; al secondo
comma prevede che non possono es-

sere istituiti giudici speciali o straordinari, possono solo istituirsi, presso gli organi
giudiziari ordi- nari, sezioni specializzate per determinate materie anche con la
partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura.

Ciò che si ricava da questi due commi sembrerebbe essere il principio dell’unicità
della giurisdi- zione perché la norma si apre affermando che la funzione
giurisdizionale viene esercitata solo dai magistrati ordinari precisando al secondo
comma che non possono essere istituiti giudici straor- dinari o speciali.

Precisazione: cosa sono i giudici straordinari e speciali in contrapposizione a quelli


ordinari: -Giudici ordinari —> sono istituiti ex ante (cioè istituiti già prima che la
controversia sorga) e han- no competenza generale.

-Giudici straordinari —> istituiti ex post con riferimento ad una determinata
controversia, un esempio può essere il Tribunale di Norimberga, istituito
appositamente per giudicare i criminali nazisti.

-Giudici speciali —> istituiti ex ante ma con riferimento a determinate cause.

Il divieto dei giudici speciali e straordinari trova deroga nel seguente art. 103,
perché tale art pre- vede espressamente 3 ipotesi di giudici speciali: il Consiglio di
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Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela
nei confronti della P.A. degli interessi legittimi e per particolari materie indicate
dalla legge anche dei diritti soggettivi.

Nel secondo comma si prevede che la Corte dei Conti ha giurisdizione nelle
materie di contabilità pubblica e nelle altre materie elencate dalla legge.

Al terzo comma si prevede che i Tribunali Militari in tempo di guerra hanno la
giurisdizione stabilita dalla legge, in tempo di pace hanno giurisdizione soltanto per
reati militari commessi da apparte- nenti alle forze armate.

Questi tre commi fanno riferimento solo a giudici speciali, quindi giudici istituti ex
ante, cioè prima che la controversia sia sorta, ma in relazione a precise e
specifiche controversie.

Il primo comma contempla il più importante giudice speciale, e cioè quello
amministrativo.

Quali sono i giudici amministrativi?

I TAR (Tribunali Amm. Regionali), che trovano riconoscimento nella Cost. all’art.
125 in cui leggia- mo che nella Regione sono istituiti organi di giustizia
amministrativa di primo grado secondo l’or- dinamento stabilito da legge della
Repubblica; la legge istitutiva dei TAR è la L.1034/1971.

In secondo (e ultimo) grado troviamo il Consiglio di Stato, con sede a Roma, che è
la “corte su- prema” della giurisdizione amministrativa.

Il secondo comma dell’art. 103 introduce la Corte dei Conti, si parla della c.d.
giurisdizione conta- bile infatti l’articolo in questione le attribuisce competenza
nella materia di contabilità pubblica e nelle altre materie elencate dalla legge.

Il terzo giudice speciale sono i Tribunali Militari che, in tempo di pace, hanno
giurisdizione solo per i reati militari commessi da appartenenti alle forze armate,
mentre in tempo di guerra hanno la giu- risdizione stabilita dalla legge.

L’elenco dei giudici speciali non finisce qua, perché se andiamo in calce alla carta
Cost. alle di- sposizioni transitorie e finali, più precisamente la n.6, troviamo scritto
che entro 5 anni dall’entrata in vigore della Cost. si procede alla revisione degli
organi speciali di giurisdizione attualmente esi- stenti, salvo le giurisdizioni del
Consiglio di Stato, della Corte dei Conti e dei Tribunali Militari. Quindi questa
norma dà per presupposto l’esistenza di ulteriori organi giurisdizione speciale, tut-
tavia occorre specificare che questa norma è del ’46 e in epoca fascista i giudici
speciali erano esponenzialmente proliferati per assicurare un novero di privilegi al
Regime. La Costituzione quin- di non prevede l’abrogazione in toto di questi istituti
bensì prevede che entro 5 anni dalla sua en- trata in vigore quest’ultimi debbano
essere rivisti, e cioè che devono essere resi compatibili con i principi costituzionali.

I più importanti tra questi ulteriori organi di giurisdizione speciale sono i giudici
tributari (provinciali e regionali).

Non esistono invece giudici straordinari, tale divieto è assoluto e non potrebbe
essere altrimenti, perché l’istituzione di un giudice straordinario, che avviene ad
hoc ed ex post, rappresenterebbe una violazione dell’art 25 Cost. che introduce il
principio del giudice naturale (“nessuno può esse- re distolto dal giudice naturale
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precostituito per legge”) —> il fatto che il giudice sia istituito prima che la
controversia sia sorta ne garantisce l’imparzialità e la terzietà.

Che differenza c’è tra magistratura ordinaria e magistrature speciali? Bisogna fare
attenzione per- ché non è una distinzione meramente formale, questi due ordini di
magistrati infatti ricoprono po- sizioni diverse all’interno dell’ordinamento, nel
senso che il legislatore ha previsto con riferimento

alla magistratura ordinaria una serie di garanzie la cui estensione e la cui forza è
assolutamente superiore rispetto alle garanzie che sono previste con riferimento
alle magistrature speciali.

Quindi lo status di magistrato ordinario non è pari allo status di magistrato speciale
(quello ordina- rio gode di maggiori garanzie).

Soffermiamoci sulla magistratura ordinaria, tale nozione è molto ampia e


comprende: giudici civili, i giudici penali e anche l’ufficio del pubblico ministero,
quest’ultimo gode delle stesse garanzie attribuite al magistrato che svolge una
funzione giudicante. Tale equiparazione è molto importante perché distingue l’Italia
da altri paesi come la Francia, in cui il P.M. opera sotto la direzione del ministro
della giustizia francese.

Chi sono i giudici civili?



La nozione di giudice civile è anch’essa molto ampia, qua, con il termine “giudice”,
si intende l’uf- ficio giudiziario e non la persona fisica.

Intanto occorre isolare la figura del Giudice di Pace, perché pur essendo a pieno
titolo un giudice civile di primo grado, non è un giudice “togato”, cioè non rientra
nella nozione di magistratura or- dinaria di cui agli artt.104 e seguenti.

Il giudice di pace è infatti un magistrato c.d. “onorario”, è cioè un magistrato “non
professionista”; significa semplicemente che ci troviamo difronte ad un cittadino al
quale il legislatore affida tem- poraneamente l’esercizio delle funzioni
giurisdizionali. La previsione dei giudici onorari risiede nel secondo comma dell’art.
106 Cost. dove si legge che la legge sull’ordinamento giudiziario può ammettere la
nomina anche elettiva di magistrati ordinari per tutte le funzioni attribuite ai giudici
singoli.

Per diventare giudice di pace non bisogna superare il concorso di magistratura, il
sistema di ac- cesso a tale carica è completamente diverso. Il giudice di pace è
stato istituito con la L.374/1991, in vigore dal 1 maggio 1995, con la ratio di
alleggerire il carico dei giudici ordinari.

Inizialmente il legislatore non aveva riposto troppa fiducia sulla figura del giudice di
pace, poi col tempo le sue competenze sono andate aumentando, fino ad arrivare
ad ottenere anche compe- tenza in materia penale.

Il giudice togato per eccellenza è il Tribunale, composto di giudici togati (giudici
“professionali, entrati attraverso un concorso pubblico), la sua competenza è di
tipo residuale perché l’articolo 9 del codice di procedura civile dice che tutto ciò
che non rientra nelle competenze del giudice di pace è di competenza del
Tribunale (e quindi è una competenza generale e residuale).

Oltre ad essere giudice di primo grado, il Tribunale è anche giudice d’appello
rispetto ai provve- dimenti emessi dal giudice di pace.

11
La Corte d’Appello ha una competenza territoriale che grosso modo coincide con
quella delle Re- gioni, essa è il giudice di secondo grado.

Davanti a quest’ultima si impugnano i provvedimenti emessi dal Tribunale come
giudice di primo grado.

Mentre il Tribunale, come regola generale, giudica in composizione monocratica e
quindi le cause sono affidate dall’inizio alla fine a un magistrato singolo; il processo
d’appello difronte alla Corte d’Appello invece si svolge sempre in composizione
collegiale (il collegio è composto da 3 magi- strati).

Sopra la Corte d’Appello troviamo la Suprema Corte, cioè la Corte di Cassazione,
con sede a Roma.

Non si può parlare del giudice di terzo grado perché in Italia la Corte di Cassazione
svolge una funzione particolare: quella c.d. nomofilattica, descritta nell’art 65 del
Regio Decreto n.12/1941 (la c.d. Legge sull’ordinamento giudiziario).

In cosa consiste la funzione nomofilattica? La Corte di Cassazione è chiamata ad
assicurare l’esatta ed uniforme interpretazione del diritto.

Il ricorso per Cassazione è inserito nel sistema delle impugnazioni civili, l’apertura
del giudizio di Cassazione passa sempre attraverso l’iniziativa della parte che è
rimasta soccombente, ma non svolge solo una funzione di garanzia soggettiva,
svolge anche una funzione di garanzia oggettiva, perché la Corte di Cassazione
attraverso le sue sentenze indica la corretta interpretazione della norma di diritto,
svolgendo in questo modo una funzione fondamentale, perché assicura il raccor-
do tra l’attività legislativa e l’attività giurisdizionale, assicurando anche
l’uguaglianza sostanziale tra i cittadini.

Andiamo ora ad analizzare gli arti. 104-105 Cost. in cui il legislatore prevede i
sistemi di garanzia per la Magistratura ordinaria.

Intanto entrambi gli articoli parlano solo di “magistratura” senza riferirsi
specificamente a quella ordinaria, ma è una svista, è pacifico che si riferiscano
solo alla magistratura ordinaria.

L’art 104 apre affermando che la magistratura costituisce un ordine autonomo ed


indipendente da ogni altro potere. Quindi il primo comma di questo articolo
prevede già due garanzie fondamentali per la magistratura ordinaria: quella di
autonomia e di indipendenza.

Autonomia ed indipendenza nel parlato comune vengono usate come sinonimi, ma
in questo con- testo possiamo distinguerle affermando che l’autonomia è una
nozione di tipo statico (riguarda la magistratura come organo), mentre
l’indipendenza è una nozione dinamica (riguarda la magistra- tura nel momento in
cui esercita la funzione giurisdizionale).

La nozione di autonomia la ricaviamo dallo stesso art. 104 ai commi successivi e


dall’art. 105, quest’ultima infatti trova attuazione nella previsione del Consiglio
Superiore della Magistratura (C.S.M.) detto anche l’organo di “autogoverno” della
magistratura.

Cosa vuol dire che la Magistratura è un ordine autonomo? “Autonomia" significa
che la Magistra- tura è un organo separato dagli altri poteri dello Stato, ma sempre
dal disposto dei due articoli di cui sopra, possiamo notare che tale separazione
12
non è assoluta, perché la Costituzione non ha mai perso di vista un altro valore
fondamentale dell’ordinamento, ovvero: l’unità dello stato, e gli arti. 104-105 Cost.
esprimono chiaramente questo tentativo della Costituzione di mediare tra queste
due opposte esigenze (garantire la separazione della Magistratura dagli altri poteri
dello Stato ma nello stesso tempo non perdere di vista il principio di unità dello
Stato).

L’art 104 si occupa delle regole di composizione del C.S.M. definito, come già
detto poco fa, “or- gano di autogoverno”, e ciò perché la maggior parte dei suoi
componenti sono proprio magistrati eletti da altri magistrati. In questa sua parte,
l’art. 104 rappresenta un elemento di enorme novità rispetto al passato: è
l’espressione del momento storico in cui la Costituzione fu scritta, all’indo- mani
della fine della seconda guerra mondiale, nel momento in cui l’Italia uscì dal regime
totalita- rio. In questo momento storico era pienamente diffusa la consapevolezza
che uno degli strumenti di cui il regime fascista si era servito per privare e
sopprimere la libertà degli italiani era stato pro- prio quello di imbavagliare la
magistratura, ma in che modo? Ancora non esisteva la Costituzione e la legge
fondamentale di allora era lo Statuto Albertino che prevedeva l’affidamento
dell’allora Ministro di Grazia e Giustizia tutti i poteri diretti ad incidere sullo status
di magistrato, e natural- mente tale ministro se ne serviva per eliminare tutti i
magistrati che non si fossero allineati con i principi del regime.

L’operazione compiuta dalla Costituzione invece fu proprio quella di affidare ad un


organo di au- togoverno (il C.S.M.), quindi ad un organo composto per la maggior
parte da magistrati eletti da altri magistrati, l’esercizio in via esclusiva di quei poteri
che prima erano affidati al Ministro di Gra- zia e Giustizia, quindi tutti quei poteri di
incidere sullo status/carriera dei magistrati.

Esaminiamo ora il secondo comma dell’art.104 Cost che regola la composizione


del C.S.M.

In base a tale art. il C.S.M. è presieduto dal Presidente della Repubblica,
previsione che fu frutto di un lungo dibattito aperto in seno all’Assemblea
costituente in cui vi erano idee contrastanti (chi voleva affidare la presidenza
dell’organo di autogoverno al primo presidente della Corte di Cassa- zione, chi
sosteneva dovesse spettare all’allora Ministro di Grazia e Giustizia, chi al
Presidente della Repubblica).

La scelta del Pres. della Repubblica è una scelta che esprime chiaramente
l’esigenza di garantire da una parte l’autonomia della magistratura rispetto agli altri
poteri dello Stato e dall’altra l’esi- genza di unità dello Stato. Il Pres. della
Repubblica è infatti un organo super partes, è l’organo autonomo per eccellenza
dell’ordinamento italiano, e nello stesso tempo è l’organo che rappre- senta
proprio lo Stato.

Il Pres. della Repubblica tuttavia non ha la possibilità di prendere parte alle sedute
del C.S.M. perché quest’ultimo è un organo permanente, ovvero che lavora in
modo costante (2 settimane di lavoro e una di pausa al mese) quindi la presidenza
del C.S.M. è di fatto affidata al Vicepresidente. Quest’ultimo però non può
esercitare due funzioni che sono esclusivamente presidenziali e cioè il potere di
13
scioglimento del C.S.M. e quello di indire le elezioni per i nuovi componenti del
C.S.M.; questi due poteri possono essere esercitati in via esclusiva dal Pres. della
Repubblica.

Il Pres. della Repubblica svolge anche la funzione di approvare l’ordine del giorno
del C.S.M, momento centrale questo, infatti bisogna ricordare che in passato c’è
stato un episodio che balzò sulle cronache di allora, ci fu un momento di frizione
tra il Pres. della Repubblica e il C.S.M. di quel momento, perché i consiglieri del
avrebbero voluto portare in discussione una serie di punti ma l’allora Pres. della
Repubblica Francesco Cossiga rifiutò di approvare l’ordine del giorno, mi-
nacciando di far sgomberare Palazzo dei Marescialli (il palazzo dove si riunisce il
C.S.M.) ritenen- do illegittima la posizione che prese il C.S.M.

La posizione di Cossiga ricevette il plauso dell’allora guardasigilli e delle altre forze
politiche e quindi il C.S.M. fece un passo indietro e revocò l’ordine del giorno.

Questo è l’unico momento di frizione, di contrasto, che si è verificato tra Pres. della
Repubblica e C.S.M.

Nel terzo comma dell’art. 104 troviamo i c.d. componenti di diritto, ovvero gli
organi apicali della magistratura: il Primo Presidente della Corte di Cassazione (che
è l’organo apicale della magistra- tura c.s. giudicante) e il Procuratore Generale
della Corte di Cassazione (organo apicale della magistratura c.d. requirente).

Si tratta della componente di diritto, gli organi apicali fanno parte del C.S.M. e non
devono passa- re attraverso un sistema elettivo.

Nel quarto comma troviamo invece la componente elettiva, la disposizione
prevede che gli altri componenti siano elette per 2/3 da tutti i magistrati ordinari,
tra gli appartenenti alle varie catego- rie e per 1/3 dal parlamento in seduta
comune, tra professori ordinari in materie giuridiche ed av- vocati dopo 15 anni di
esercizio.

Nella componente elettiva occorre distinguere tra la componente togata, quindi i


2/3 di magistrati ordinari appartenenti alle varie categorie, e la componente c.d.
laica, cioè i consiglieri eletti in se- duta comune dal Parlamento.

Notare bene che il quarto comma dell’art.104 non indica il numero complessivo di
consiglieri ben- sì utilizza solo delle proporzioni, tale numero lo ricaviamo dalla L.
44/2002 che ha fissato il numero massimo a 16 per la componente togata e ad 8
per la componente laica; per cui attualmente il C.S.M. è formato da 27 consiglieri
compreso il Presidente della Repubblica che lo presiede.

In base alla L. 44/2002 abbiamo detto che la componente togata è formata da 16


magistrati che sono eletti da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie
categorie (ricorda che si parla espressamente di “magistrati ordinari”, quindi i
Giudici di Pace non rientrano ne’ nella componen- te elettiva attiva né in quella
passiva).

Sempre in base alla 44/2002 si distinguono poi le categorie cui fa riferimento la


disposizione e cioè: la magistratura giudicante e la magistratura requirente ( i
magistrati giudicanti eleggono i loro rappresentanti e i magistrati requirenti i propri).

Per quanto riguarda invece la componente laica possiamo vedere che l’elezione
avviene in seduta comune in Parlamento e non si tratta di un’elezione libera ma la
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scelta deve cadere tra professori ordinari in materie giuridiche e avvocati dopo 15
anni di esercizio. —> La scelta che fu fatta dal l’Assemblea Costituente è una
scelta abbastanza chiara: si voleva che i candidati fossero scelti in base alla loro
professionalità, si volevano persone tecniche in grado di apportare il loro sapere
tecnico ai lavori del C.S.M.; la verità è che il C.S.M. è un organo completamente
politicizzato, sia da parte della magistratura, perché le nomine vengono effettuate
sulla base dell’adesione alle di- verse correnti interne della magistratura, sia da
parte del Parlamento, perché le nomine non sono basate sulla preparazione
tecnica ma sull’orientamento politico dei candidati.

In base al quinto comma dell’art. 104 il Consiglio elegge un Vicepresidente tra i


membri eletti dal Parlamento, quindi il Vicepresidente è un laico e non un
magistrato; tale scelta si spiega con l’esi- genza di contemperare la presenza nel
C.S.M. della componente di diritto (cioè del Primo Pres. della Cassazione e del
Procuratore Generale della Cassazione).

Anche in queste regole che riguardano la composizione del C.S.M. emergono in


pieno i 2 valori di cui si parlava poco fa: la circostanza che la maggior parte dei
componenti del C.S.M. provenga dalla magistratura ne esprime chiaramente
l’esigenza di assicurare indipendenza e autonomia in- tesa come separazione dagli
altri poteri dello Stato, la scelta però di introdurre anche una compo- nente laica
indica l’esigenza opposta di garantire l’unità dello Stato, perché la componente
laica viene nominata dal Parlamento che esprime la sovranità popolare in quanto
nominato dai cittadi- ni.

Il Vicepresidente è chiamato a svolgere una funzione vicaria (di ausilio):


rappresenta e sostituisce il Pres. della Repubblica a cui riferisce settimanalmente
circa i lavori svolti in Consiglio. (Ricorda che il Vicepresidente non è chiamato a
svolgere le funzioni strettamente presidenziali).

L’art. 105 si occupa invece delle funzioni attribuite e svolte dal C.S.M.: spettano al
Consiglio Su- periore della Magistratura, secondo le norme dell’ordinamento
giudiziario: le assunzioni, le asse- gnazioni, i trasferimenti, le promozioni e i
provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati.

La norma viene interpretata nel senso che si attribuiscono in via esclusiva al


C.S.M. tutti i poteri che possono incidere sullo status dei magistrati

All’interno dell’art. 105 occorre poi distinguere una serie di funzioni che hanno
carattere pretta- mente amministrativo da una funzione che invece è di tipo
giurisdizionale: infatti per quanto ri- guarda le assunzioni, le assegnazioni, i
trasferimenti e le promozioni possiamo tranquillamente affermare che si tratti di
funzioni amministrative, quindi le decisioni prese del C.S.M. sono ritenute dei
provvedimenti amministrativi e ciò si va a riflettere sul regime di impugnazione di
questi prov-

vedimenti perché tali provvedimenti saranno suscettibili di essere impugnati


difronte al TAR (come tutti i provvedimenti amministrativi).

Invece per quanto riguarda i provvedimenti disciplinari e cioè i provvedimenti
emanati nei confron- ti di magistrati che sono incorsi in responsabilità disciplinare
sono di carattere giurisdizionale (come tutti i provvedimenti disciplinari) e anche
15
questo si riflette sul regime d’impugnazione, infatti tali tipi di provvedimenti sono
imponibili davanti alla Corte di Cassazione.

Quindi non è una distinzione meramente formale, diventa concreta nel momento in
cui si deve in- dividuare il regime d’impugnazione della decisione.

Come possiamo vedere l’art. 105 nell’assegnare al C.S.M. queste competenze
precisa che queste funzioni devono essere esercitate secondo le norme
dell’ordinamento giudiziario, quest’inciso è di fondamentale importanza perché da
quest’ultimo si ricava che in base alla Cost. il C.S.M. non esercita le funzioni in
maniera arbitraria, secondo il proprio orientamento, ma bensì deve applicare la
legge sull’ordinamento giudiziario—> il termine “legge sull’ordinamento giudiziario”
è fuorviante perché tecnicamente tale legge è il Regio Decreto n.12/1941 (che
troviamo in appendice al Codi- ce), legge emanata durante il regime fascista, per
cui questa disposizione in molte sue parti è sta- ta abrogata perché incompatibile
con la Cost. ed è stata più volte modificata ed integrata tramite la tecnica della
novellazione, ma la verità è che questa legge sull’ordinamento giudiziario non vede
la propria disciplina esaurita in questo Regio Decreto ma è una disciplina
estremamente complessa e farraginosa che si ricostruisce dalla lettura di un’ampia
serie di provvedimenti che noi avremo modo di richiamare in minimissima parte
data la complessità della materia; in partico- lare però dobbiamo fin da subito
introdurre la L. sull’ordinamento giudiziario n.50/2005 modificata poi nel 2007, si
tratta della legge Castelli-Mastella, dal nome dei due guardasigilli del 2005 e del
2007, che ha portato notevoli miglioramenti alla disciplina previgente.

Quindi quando si parla di “legge sull’ordinamento giudiziario” bisogna tenere bene


a mente che non è una singola legge, ma è un’apparato normativo complesso, di
cui si auspica una codifica- zione da parte del legislatore.

La legge sull’ordinamento giudiziario è una materia coperta da riserva di legge,
l’art. 108 prevede infatti che le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni
magistratura siano stabilite con legge (ciò significa che questa materia può essere
disciplinata solo dal Parlamento); qual’è la ratio di questa scelta? Il legislatore
prevede una riserva di legge nel caso in cui si vuole che anche le mi- noranze
parlamentari abbiano la possibilità di esprimere la propria opinione, per cui questa
è una materia su cui il Governo (espressione della maggioranza parlamentare)
possono intervenire ma solo a livello di disciplina attuativa e non a livello di
disciplina di principio.

Questa previsione è molto importante perché è vero che il C.S.M. si vede attribuita
la titolarità esclusiva di tutte le funzioni previste dall’art 105 (tutti i poteri diretti ad
incidere sullo status di ma- gistrato) tuttavia questi poteri non possono essere
esercitati liberamente dal C.S.M. ma devono essere esercitati secondo le norme
sull’ordinamento giudiziario stabilite dal Parlamento —> an- cora una volta il
legislatore assicura da una parte l’autonomia della magistratura da tutti i poteri
dello Stato e dall’altra un coordinamento, perché è il Parlamento che detta le leggi
sull’ordina- mento giudiziario che regolano l’esercizio di tutti questi poteri. Tale
disposizione non va letta come sottomissione del C.S.M. al Parlamento perché il
16
C.S.M. non è soggetto al Parlamento ma alla legge sull’ordinamento giudiziario
che quest’ultimo emana.

Occorre specificare però che la legge sull’ordinamento giudiziario è stata per molto
tempo una legge lacunosa a causa della negligenza e della lentezza del legislatore,
la verità è che prima del- l’entrata in vigore della L.150/2005 molte delle funzioni
che l’art. 105 affidava all’esercizio del C.S.M. non erano regolate dalla legge,
quindi il C.S.M. si è trovato ad esercitare queste funzioni senza avere una norma di
rifermento —> cosa ha fatto allora il C.S.M. per sopperire a questa mancanza? Ha
esercitato un potere che non è espressamente previsto dall’art. 105 ma che si ri-
tiene gli appartenga trattandosi di un organo di rilevanza costituzionale, ovvero il
potere di autore- golamentazione, il potere normativo (cioè il C.S.M. ha
autoregolato la propria attività attraverso l’utilizzazione di un potere normativo
atipico, perché non previsto dall’art. 105, attraverso l’ema- nazione di
provvedimenti aventi la forma delle decisioni o spesso delle circolari per il cui
tramite ha regolato la propria attività. Ad esempio: per molti anni non esisteva una
legge che regolasse lo svolgimento del concorso di magistratura, le modalità di
svolgimento delle prove, i criteri per redi- gere le graduatorie, non c’era niente, è il
C.S.M. che si è auto-dettato le norme auto-vincolandosi al rispetto delle norme
stesse e molte volte è successo che il legislatore a posteriori ha recepito queste
norme con cui il C.S.M. aveva autoregolato la propria attività, e quindi noi oggi
ritroviamo nei testi normativi che si ricomprendono sotto la nozione di “legge
sull’ordinamento giudiziario, tutta una serie di previsioni che non rappresentano
altro che il recepimento a livello normativo di

norme dettate dallo stesso C.S.M. che si era trovato spesso paralizzato
nell’impossibilità di eser- citare le funzioni attribuite dall’art. 105 a causa della
negligenza del legislatore.

Spostiamo ora la nostra attenzione sulla funzione disciplinare esercita dal C.S.M. ,
tale funzione viene esercita completamente dalla Sezione Disciplinare interna al
C.S.M.

Quest’ultimo è il giudice speciale rispetto ai magistrati, chiamato a sindacare la


responsabilità di- sciplinare dei magistrati stessi; come detto prima, le decisioni
emanate dal C.S.M. in funzione di- sciplinare sono veri e propri provvedimenti
giurisdizionali suscettibili di essere impugnati difronte alla suprema Corte di
Cassazione.

Con riferimento alla funzione disciplinare emerge un ulteriore punto di raccordo tra
l’attività del C.S.M. e quella degli altri organi dello stato, perché se noi guardiamo
l’art. 107 secondo comma Cost. notiamo che il Ministro della Giustizia ha la facoltà
di promuovere l’azione disciplinare.

Il procedimento disciplinare che appartiene alla competenza esclusiva del C.S.M.
può essere aperto solo da 2 soggetti: il Ministro della Giustizia (in base all’art. 107
comma due Cost.) e il Pro- curatore Generale presso la Corte di Cassazione (in
base alla legge istitutiva del C.S.M., ovvero la L.195/1958)—> la verità è che anche
quando l’iniziativa è intrapresa dal Ministero della Giustizia l’azione viene esercitata
sempre dal Procuratore Generale, perché è colui che sostiene l’azione difronte al
17
C.S.M. (ciò consente di comprendere la delicatezza della situazione che si è
verificata qualche tempo fa con riferimento proprio al Procuratore Generale della
Cassazione che ha chiesto il pensionamento anticipato, perché quest’ultimo è
risultato coinvolto in una serie di indagini e si è creata una situazione
estremamente delicata perché lui è l’unico organo che può esercitare l’azio- ne
disciplinare, quindi nel momento in cui è lui stesso ad esporsi non sono ad una
responsabilità penale ma forse anche disciplinare chi la esercitava l’azione nei suoi
confronti? Quindi si è creata una situazione potenzialmente pericolosissima a cui il
Procuratore Generale stesso ha posto ri- medio chiedendo il pensionamento
anticipato).

Come si diceva questa previsione dell’art. 107 secondo comma ci consente di


cogliere un ulterio- re momento di raccordo tra C.S.M., come organo di
autogoverno della magistratura e gli altri po- teri dello Stato, il Ministro della
Giustizia è uno dei 2 titolari esclusivi dell’azione disciplinare nei confronti del
magistrato—> infatti se noi leggiamo l’art. 110 Cost. troviamo scritto che << ferme
le competenze del C.S.M. spettano al Ministro della Giustizia l’organizzazione e il
funzionamento dei servizi relativi alla giustizia>> quindi il Ministro della Giustizia è
responsabile dell’organizzazione di tutta quella che è la macchina della giustizia.
(ancora una volta separazione e unità).

Torniamo ora sull’art. 104 e andiamo adesso a soffermarci sulla nozione di


“indipendenza” della magistratura, che abbiamo detto bisogna distinguere da
quella di “autonomia”.

Abbiamo detto che la nozione di indipendenza è una nozione dinamica, che
interessa il magistra- to nel momento in cui esercita la funzione giurisdizionale, la
norma chiava è l’art. 101 secondo comma <<i giudici sono soggetti soltanto alla
legge>>. Ma cosa significa? La norma può essere letta in due direzioni: intanto si
parla di giudice che è soggetto SOLTANTO alla legge, e proprio quel “soltanto” ne
garantisce l’indipendenza, in quanto afferma che il giudice dev’essere posto al
riparo da qualsiasi tipo di interferenza nel momento in cui esercita la funzione
giurisdizionale. In- terferenze che possono essere estere (come quella del potere
Esecutivo) ma anche interne alla magistratura (quando si parla di Uffici direttivi,
organi apicali, bisogna far attenzione perché l’uffi- cio direttivo ha una competenza
amministrativa, ma il titolare dell’ufficio direttivo non può andare da uno dei
magistrati che sono addetti al suo ufficio e dirgli che soluzione dare al caso
concreto— > e ciò lo dice proprio l’art. 101 secondo comma: il giudice è soggetto
soltanto alla legge.)

Ma la norma ci dice anche altro, perché nel momento in cui precisa che il giudice
“è soggetto” soltanto alla legge, dice chiaramente che nel momento in cui esercita
la funzione giurisdizionale il giudice non può decidere il caso sulla base del suo
buonsenso, ma deve applicare la legge gene- rale astratta (il termine legge qua va
inteso come comprensivo di tutte le fonti del diritto, dalle fon- ti sovranazionali fino
al più piccolo regolamento locale).

Quindi perché l’articolo 101 secondo comma è una norma centrale? Perché
garantisce in primis il principio di legalità: la funzione giurisdizionale viene svolta
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alla luce di quanto stabilito dalla legge; e attraverso il principio di legalità si
assicura l’uguaglianza sostanziale: casi analoghi portati di- fronte a giudici diversi
devono avere lo stesso esito perché la norma è una sola ed oltre che gene- rale ed
astratta è anche uguale per tutti.

Tornando al principio d’indipendenza, abbiamo detto che sono due le nozioni di


indipendenza: c’è l’indipendenza esterna e quella interna. La prima è quella su cui
l’Assemblea Costituente si è fer- mata con maggiore attenzione, ancora una volta
per motivi storici (essa voleva creare le condizio- ni perché un regime totalitario
non potesse più affermarsi), quindi a riguardo troviamo tutta una serie di
disposizioni dirette ad assicurare tale indipendenza esterna, primo tra tutti l’art.
106 << la nomina dei magistrati ha luogo attraverso il concorso>>, in modo tale da
garantire che se uno di-

venta magistrato lo deve alla propria preparazione tecnica e non alla nomina di
qualcuno, metten- dolo così in posizione di indipendenza.

La seconda previsione la ritroviamo nell’art. 107 primo comma <<i magistrati sono
inamovibili>> e cioè che i magistrati non possono essere spostati. Tale articolo
continua poi <<non possono es- sere dispensati, sospesi dal servizio, né destinati
ad altre sedi o funzioni se non in seguito a deci- sone del C.S.M. adottata o per i
motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall’ordinamento giudi- ziario o con il
consenso dello stesso magistrato>> ( in poche parole se il magistrato fa troppo
bene il suo dovere non deve avere il timore di essere spostato dall’altra parte del
Paese).

La terza disposizione è l’art. 98 terzo comma Cost. che prevede la possibilità di


predisporre divieti per i magistrati alla iscrizione ai partiti politici.

Dobbiamo anche richiamare le disposizioni relative alla retribuzione dei giudici,
anche se non hanno rilievo costituzionale, perché una retribuzione adeguata è
essenziale per garantire l’indi- pendenza dei giudici.

Infine le norme relative all’affidamento ai magistrati di incarichi stragiudiziali, quindi


di incarichi esterni alla magistratura (materia su cui il legislatore recentemente è
intervenuto a più riprese). L’Assemblea Costituente invece non si è soffermata a
lungo sulla nozione di indipendenza interna, la norma centrale qua è l’art. 107 terzo
comma, in cui si prevede che <<i magistrati si distinguono tra loro soltanto per
diversità di funzioni>>, essi sono tutti titolari della funzione giurisdizionale, sono
tutti posti sullo stesso piano. Quindi come ha trovato attuazione questo principio
secondo cui i magistrati si distinguono tra loro solo per diversità di funzioni? Fino
al 2005 era in vigore in c.d. sistema dei ruoli aperti, creato circa negli anni ’50, in
base a tale sistema i magistrati poteva- no essere divisi solo in 3 gruppi: i giudici di
tribunale, i consiglieri d’appello e i consiglieri di cas- sazione. In base a questo
sistema il passaggio da una funzione all’altra e l’acquisizione del corri- spettivo
trattamento economico (perché ad esempio lo stipendio dei consiglieri di
cassazione è molto più elevato rispetto a quello dei giudici tribunale) era quai
automatico, perché passava at- traverso l’anzianità di servizio e un parere non
sfavorevole del C.S.M., quindi qualsiasi magistrato maturata l’anzianità di servizio
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prevista faceva domanda e tendenzialmente si vedeva attribuite le funzioni
superiori e il corrispettivo trattamento economico.

Si parla quindi di sistema a ruoli aperti perché nel sistema precedente


l’acquisizione delle funzioni successive e l’aumento dello stipendio era sganciato
dall’effettivo esercizio delle stesse, quindi cosa succedeva? Succedeva che nel
sistema previgente un magistrato, pur essendo titolare della funzione di
Consigliere di Cassazione e pur avendo lo stipendio corrispondente poteva
continuare a svolgere materialmente le funzioni di giudice di tribunale. Questo
sistema era un sistema che valorizzava al massimo il principio dell’indipendenza
interna perché questi passaggi erano auto- matici e avvenivano per anzianità,
considerando soprattutto il fatto che il numero dei giudici di tribunale è
esponenzialmente più alto rispetto al numero dei consiglieri d’appello e di
cassazione (basti pensare che questi ultimi sono solamente 150).

Quindi questo sistema come già detto valorizzava il principio di indipendenza


interna ma pagando un caro prezzo per quanto riguarda la professionalità, perché
non vi era nessun controllo di pro- fessionalità del giudice: il magistrato una volta
superato il concorso previsto dall’art 107 era tran- quillo, non c’era nessun
momento di verifica della sua professionalità, nessuna verifica della sua
produttività, nessuna verifica del suo livello d’aggiornamento, nulla.

Ad un certo punto nel dibattito emerse l’esigenza di introdurre una qualche


verifica, ed è stato proprio il C.S.M. attraverso l’esercizio d quel potere normativo
atipico di cui poco fa, ad introdurre il primo sistema di verifica, cioè un sistema di
aggiornamento obbligatorio (oggi “sistema di ac- quisizione dei crediti formativi”),
imponendo ai magistrati di acquisire ogni anno un certo numero di crediti formativi
attraverso la frequenza di corsi di aggiornamento organizzati dallo stesso C.S.M.

Successivamente quando è stato introdotta la riforma del 2005 (Legge Castelli-


Mastella) la carrie- ra del magistrato è stata completamente riscritta, abolendo il
sistema dei ruoli aperti ed introdu- cendo la regola opposta, secondo cui il
passaggio da una funzione all’altra è subordinato alla cir- costanza che si renda
disponibile un posto e che il magistrato superi una selezione o un concor- so.

Il ruolo dei magistrati è stato suddiviso in una serie molto ampia di funzioni (ci sono
decine di fun- zioni) e la legge attualmente in vigore stabilisce che via via che un
posto si rende libero viene aperto un concorso, e i magistrati interessati a ricoprire
il posto che si è reso vacante possono fare domanda al C.S.M. prendendo parte
ad una selezione. Per accedere a questo concorso la legge richiede che il
magistrato abbia nelle sue mani una serie di c.d. “valutazioni di professionali- tà”:
ogni 4 anni il magistrato è soggetto ad una valutazione, viene valutato il lavoro che
ha svolto, e viene redatta una valutazione di professionalità (procedimento
abbastanza articolato in quanto

parte dal livello locale fino ad arrivare al C.S.M.) naturalmente maggiore è


l’anzianità di servizio del magistrato e più valutazioni di professionalità avrà
accumulato nel suo fascicolo. Per ogni posto che si rende vacante viene stabilito
dalla legge il numero di valutazioni di professionalità necessa- rie per potervi
accedere, e soltanto i magistrati che sono in possesso di tale numero richiesto po-
20
tranno presentare la richiesta (quindi è un sistema selettivo in cui i ruoli sono
chiusi).

Quindi questo articolo 107 terzo comma trova attuazione in un sistema che, pur
conservando la garanzia di indipendenza interna tramite cui tutti i magistrati sono
posti sullo stesso piano, ha ri- voluzionato la carriera di magistrato.

Per completare il disegno bisogna anticipare che il principio d autonomia e
indipendenza espres- so dagli artt. 104-105 con riferimento ai magistrati ordinari
non si traduce nell’affermazione se- condo cui i magistrati non sono responsabili.
Anche i magistrati sono soggetti ad un regime di re- sponsabilità che rientra
senz’altro nella previsione dell’art 28 Cost. a tenore del quale i funzionari ed i
dipendenti dello Stato sono direttamente responsabili secondo le leggi civili, penali
e amministrative degli atti compiuti in violazione di diritti, in tali casi la
responsabilità civile si esten- de allo Stato e agli enti pubblici>> quindi anche il
magistrato, nonostante sia autonomo ed indi- pendente, è soggetto a
responsabilità civile, penale e disciplinare.

18/09/19
Abbiamo esaminato nella lezione di venerdì le disposizioni di cui agli articoli 104 e
105, ci siamo soffermati sulla nozione di autonomia e di indipendenza.

Abbiamo detto che l’autonomia della magistratura ordinaria rinviene la propria
disciplina negli articoli 104 e 105 e fondamentalmente si concretizza nella CSM,
organo di autogoverno a cui la Costituzione affida in via esclusiva la titolarità di
tutti i poteri che incidono sullo status, sulla carriera del magistrato.

Abbiamo detto che questi poteri il CSM non li esercita in maniera discrezionale ma
secondo quanto stabilito dall’ordinamento giudiziario come precisa l’art 105 in un
inciso che vi ho indicato a sottolineare perché è di fondamentale importanza,
d’altra parte abbiamo ricordato che in base all’art 108 primo comma la materia
dell’ordinamento giudiziario è coperto da riserva di legge quinid è materia che
deve essere regolata dal parlamamento potendo il governo intervenire solo alivello
di normaiva seconodaria quinid attuativa come in effetti è successo.

Poi abbiamo detto con riferimento all’indipendenza che la norma centrale è l’art
101 secondo comma “il giudice è soggetto soltanto alla legge” quindi il giudice
non ersercita la funzione giurisdizionale secondo il proprio buonsenso o secondo i
propri valori ma la dispozione enuncia il principio di legalità, quindi il giudice risolve
la controverisa applicando la norma, la norma generale ed astratta.

Abbiamo detto che questa dispozione è do asolita importanza nella misura in cui
pone acconto al principo della lealità anche il principio di uguaglianza sostanziale
dei cittadini.

Poi applicazione del principio di indipendenza sono, abbiamo visto, l’articolo 106
con riferimento all’accesso alla magistratura, l’articolo 107 che pone la garanzia di
inamovibilità e poi con riferimento alla indipendenza interna alla magistratura
21
l’articolo 107 terzo comma, nella parte in cui stabilisce che i magistrati si
distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni.

Abbiamo detto che nella magistratura non esiste un ordine gerarchico così come
avviene nella Pubblica amministrazione, ma tutti i magistrati sono posti sullo
stesso piano perché sono tutti ugualmente titolari, pieni titolari, della funzione
giurisdizionale.

Nella comparte finale della lezione ci siamo lasciati ricordando che autonomia e
indipendenza della magistratura non significa che i magistrati non siano
responsabili perché ai magistrati come funzioni dello stato si applica l’articolo 28 C
nella parte in cui stabilisce che: “i funzionari e i dipendenti dello stato e degli enti
pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e
amministrative”.

E infatti ci siamo lasciati ricordando che anche i magistrati sono soggetti a


responsabilità, in particolarità responsabilità penale, civile e responsabilità
disciplinare.

Quindi indipendenza e responsabilità sono due facce della stessa medaglia, il
magistrato è sia indipendente ma anche responsabile.

Soffermiamoci un momento sulla responsabilità del magistrato.



La responsabilità penale; il magistrato come cittadino può rendersi colpevole di un
qualsiasi reato, non c’è nessuna forma di protezione predisposta a favore del
magistrato.

Nell’esercizio delle sue funzioni può incorrere in uno dei reati contro la pubblica
amministrazione che immagino conosciate, quindi concussione, omissione di atti
d’ufficio.

Sotto il profilo della responsabilità civile, invece, c’è da ricordare una lunga e
annosa vicenda che ha riguardato la disciplina applicabile ai magistrati.

La responsabilità civile dei magistrati è disciplinata dalla legge 117 del 1988, la
cosiddetta “legge Vassalli”, il testo, ancora in vigore, è poi stato modificato da una
legge recente, la legge numero

18 del 2015.

Allora la legge 117/1988 fu approvata a seguito di un referendum abrogativo della


previgente normativa, ch era contenuta nelle prime disposizioni del codice di
procedura civile e che prevedeva una forma molto limitata di responsabilità civile
dei magistrati, un po’ troppo limitata ecco perché il referendum abrogativo passò.

La legge 117 viene emanata quindi a seguito del referendum abrogativo con lo
scopo di introdurre un regime di responsabilità civile dei magistrati, nel rispetto,
ovviamente, del principio di autonomina e indipendenza fissato dall’art 104.

Il risusltato di questa legge fu un risultato del tutto insoddifsacente, infatti, da parte
di molti per molto tempo si è detto che in fin dei conti la legge Vassallo aveva del
tutto vanificato i risultati del referendum abrogativo perché attraverso il referendum
abrogativo si era espressa chiaramente la volontà di introdurre un regime di
resposabilità dei magistrati, mentre il sistema messo a punto dalla legge Vssallil
era un sistema che metteva a punto un responsabilità più virtuale che reale, da qui
22
le istanze periodicamente portate avanti d revisione di questa disciplina.

I limiti più gorssi della legge vassalli erano, intanto, le ipotesi di responsabilità del
magistrato che erano piuttosto limitate al dolo, alla colpa grave, peraltro la nozione
di copla grave era una nozione particolarmnete ristretta.

Poi nella legge Vassalli s prevedeva che l’azione era di responsabilità fosse una
azione indiretta cioè che il cittadino doveva esercitare nei confronti dello Stato e
poi sin prevdeva che lo Stato poteva rivalersi sul magistrato che era stato ritenuto
responsabile quindi attraverso l’esercizio di una azione di rivalsa, peraltro questa
azione di rivalsa poteva essere esecitata soltanto entro limiti piuttosto ristretti
rispetto allo stipendio del magistrato.

Il problema più grosso però era rappresentato dalla previsione di un filtro di
ammissibilità, cioè il cittadino non poteva esercitare direttamente l’azione ma
prima doveva chiedere un giudizio di ammissibilità di questa azione e il risultato di
questo filtro era che di azioni ammissibili ne venivano considerate ogni anni due,
tre quindi una cosa ridicola.

Inoltre la normativa prevedeva una limitazione perché escludeva la possibilità di
eserciatre una azione di resposnabilità nei confronti del magistrato rispetto alla
attività di interpretaizone della norma e di valutazione del fatto e delle prove.

Ora, questo regime di responsabilità, praticamente virtuale, lo dico senza
esagerazione ad un certo punto aveva attirato l’attenzione anche dell’Unione
europea prima Comunità Europea perché si riteneva che questo regime non
rispondesse ai principi dell’ordinamento europeo.

Quindi, l’intervento dell’Unione Europea, se vogliamo, è stato determinante ai fini
della modifica perché ad un certo punto è stata aperta nei confronti dell’Italia una
procedura di infrazione che ha portato alla condanna dell’Italia nel 2011 nella parte
in cui la legge sulla responsabilità civile dei magistrati escludeva qualsiasi forma di
responsabilità per l’attività di interpretazione di diritto nonché di valutazione del
fatto e della prova.

Sulla scorta di questa condanna proveniente dalla corte di giustizia europea si è
messo in moto il processo di revisione che ha portato sotto la guida del governo
Renzi alla legge n 18 del 2015, questa legge in effetti è intervenuta e il risultato è
stato quello di ampliare il regime di responsabilità civile dei magistrati ma non nel
senso auspicato dalla Unione Europa infatti la legge del 2015 ha per un verso
ampliato i presupposti della responsabilità del magistrato sostanzialmente
ridisegnando la nozione di colpa grave cioè ampliandola e introducendo anche
l’ipotesi del diniego di giustizia.

Ha poi abolito il filtro della ammissibilità il che è stato salutato con enorme favore,
per cui adesso l’azione può essere direttamente esercitata, lasciando però
l’originaria scelta di una azione indiretta cioè di azione che viene esercitata nei
confronti dello stato, salvo poi la possibilità dello

stato di rivalersi nei confronti del magistrato ed è stato aumentato anche il limite
della rivalsa dello Stato nei confronti del Magistrato.

Quello che invece non è stato toccato è il limite della attività di interpretazione del
diritto e valutazione delle prove e del fatto che ancor oggi noi ritroviamo
23
nell’articolo 2 comma 2 della legge 117/1988 in cui si legge che: “fatti salvi i commi
3 e 3-bis e i casi di dolo nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, non può dar luogo
a responsabilità l’attività di interpretazione delle norme di diritto e quella di
valutazione del fatto e delle prove” quindi al di là delle ipotesi del dolo, che voi
sapete si fonda sulla intenzione del soggetto, in tutti gli altri casi che sono
chiaramente quelli comuni (è difficile che un magistrato si renda colpevole per
dolo), viene esclusa la possibilità di configurare responsabilità civile per l’attività di
interpretazione del diritto e valutazione del fatto e della prova. Quindi quella
clausola di salvaguardia per cui l’Italia è stata condannata dalla corte di Giustizia
europea non è stata in verità intaccata.

Non è stata intaccata perché si ritiene che questa clausola sia una dittea
espressione del principio enunciato nel 101 secondo comma della C secondo cui il
Giudice è soggetto soltanto alla legge, abbiamo detto che la norma crea un
rapporto diretto ed immediato tra il giudice e la legge e si ritiene che questo
rapporto diretto ed immediato comporti come conseguenza inevitabile che nello
svolgimento di tutte le attività che rientrano in questo rapporto fra giudice e norma
non possa essere configurata alcuna forma di responsabilità trattandosi di una
limitazione che è immediata espressione del principio sacrosanto di indipendenza
del magistrato e vedremo fra poco una uguale limitazione la troviamo nella
normativa relativa alla responsabilità disciplinare del magistrato.

In ogni caso questa riforma del 2015 si ritiene che abbiamo molto opportunamente
ampliato i limiti della responsabilità civile perché fino a quel momento il regime di
responsabilità civile non funzionava, non trovava mai applicazione soprattutto
passando attraverso il filtro di ammissibilità.

Infine, la responsabilità disciplinare del magistrato.



Questa è un profilo che è stato oggetto di una profonda modifica nell’ambito delle
leggi di riforma dell’ordinamento giudiziario che sono succedute negli anni
2005-2007, quindi la cosiddetta legge “Castelli-Mastella” a cui abbiamo fatto
cenno la scorsa settimana.

Infatti, prima della riforma del 2005-2007 il regime di responsabilità disciplinare del
magistrato era tutto imperniato in una disposizione contenuta nella cosiddetta
legge sulle guarentigie che risaliva al 1946, in base a questa legge il magistrato
poteva ritenersi responsabile sul paino disciplinare quando con la propria condotta
andava a ledere il prestigio dell’ordine giudiziario, Questa era la norma su cui era
riscostruita la responsabilità disciplinare, quindi una previsione totalmente atipica.

Ora, questo regime di responsabilità del magistrato creava problemi, perché se si
vuole garantire la reale indipedenza del magistrato è indispensabile tipizzare le
ipotesi di illecito disciplinare, ciò concretizzare le ipotesi e i casi in cui il magistrato
con la propria attività si espone a responsabilità disciplinare.

Questa è l’unica condizione in grado di salvaguardarne veramente la indipendenza,
nel senso che abbiamo chiarito la scorsa lezione.

Viceversa, nell’ambito di un ordinamento cui la fattispecie che genera la
responsabilità è totalmente atipica si crea uno stato di incertezza che rischia di
andare a pregiudicare l’effettiva indipendenza del magistrato cioè di mette il
24
magistrato nella condizione di non sapere quando si espone a respirabilità
nell’esercizio delle funzioni che gli sono affidate.

Per questo c’era una grossa sensibilità e si era acceso un forte dibattito sulla
necessità di

introdurre, tipizzare gli illeciti disciplinari del magistrato.



A questa richiesta il legislatore del 2005 e 2007 ha risposto, infatti nell’ambito di
uno dei decreti attuativi della legge del 2005 così come modificata nel 2007 (che è
una legge delega), ovvero nel decreto n 109 del 2006 noi troviamo l’elenco
tassativo degli illeciti disciplinari che sono stati ricondotti a quattro diverse figure,
l’articolo 1 del decreto legislativo 109/2006 prevede infatti che il magistrato:
“esercita le funzioni attribuitegli con correttezza, imparzialità, diligenza, laboriosità,
riserbo ed equilibrio e rispetta la dignità della persona nell’esercizio delle funzioni”

Dopodiché negli articoli 2 e seguenti noi troviamo l’elenco degli illeciti disciplinari
classificati a seconda che si tratti di illeciti Frutto della violazione dei valori
introdotti nell’articolo 1. Dobbiamo però sottolineare come nello stesso articolo 2
al secondo comma troviamo che fermo restando quanto previsto al comma 1, la
interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove non
danno luogo a responsabilità disciplinare, quindi anche la legge che disciplina la
responsabilità disciplinare del magistrato contiene questa clausola di salvaguardia
cioè fa salvo quello che è il nucleo dell’attività giurisdizionale, attività di
interpretazione della norma e attività di valutazione del fatto e delle prove,
escludendo la possibilità di configurare la responsabilità anche disciplinare del
magistrato con riferimento a queste e tutto ciò che rientra in questa sfera che poi è
il nocciolo, il cuore dell’attività giurisdizionale.

Anche questa previsione, naturalmente, si ritiene che sia una diretta espressione
dell’art 101 comma 2 C principio secondo cui il giudice è soggetto solo e soltanto
alla legge.

Chiarito quindi che il magistrato pur essendo autonomo ed indipendente è


comunque responsabile, facciamo un passo indietro e torniamo all’art 104 per
chiarire il significato ci ciò che rimane del primo comma: “ la magistratura
costituisce ordine autonomo ed indipendente da qualsiasi potere” -> si tratta di
chiarire perché la magistratura viene descritta come ordine in contrappunto a quelli
che sono gli altri poteri dello stato.

Questa diversità di definizione si chiarisce alla luce del particolare istituto “conflitto
di attribuzioni” che è disciplinato nell’art 134 C , si tratta di una norma che si
occupa della corte costituzionale e le affida la competenza a pronunciarsi sui
conflitti di attribuzione, cioè i conflitti che possono sorgere fra i diversi poteri dello
stato in ordine alle rispettive competenze.

Ora con riferimento al conflitto di attribuzione, naturalmente, la magistratura può
avere interesse a sollevare il conflitto ogni qualvolu altro potere dello stato abbia
violato il principio di separazione dei poteri e quindi abbia invaso un campo che la
magistratura ritiene di sua esclusiva pertinenza quindi si vogliono evitare invasioni
in quello che si ritiene il campo della magistratura quindi la tutela giurisdizionale.

Naturalmente si è posto con riferimento alla magistratura lo stesso problema che si
25
è posto con riferimento a tutti gli altri poteri dello stato ovvero l’individuazione
dell’organo legittimato a sollevare il conflitto di attribuzione.

La norma che si occupa della legittimazione attiva è contenuta nella legge istitutiva
della corte costituzionale, si tratta dell’art 37 della legge numero 87 del 1953,la
quale afferma che il conflitto id attribuzione può essere sollevato dall’organo
competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere a cui appartiene.

In pratica la attribuisce all’organo di vertice, all’organo apicale di qualsiasi potere
quindi si da per scontato l’esistenza di una gerarchia all’interno dei poteri dello
stato. Ora con riferimento alla magistratura il problema si è posto perché noi si è
detto che la magistratura non ha una struttura gerarchica, perché 107 terzo
comma ci dice che i magistrati si distinguono solo in virtù della funzione svolta e
abbiamo detto che da questa norma si ricava l’assenza di una qualsiasi struttura
gerarchica nell’ambito della magistratura.

Allora come è stata risolta questa questione?

Intanto è sempre stato ammesso che il conflitto di attribuzione potesse essere


sollevato dal CSM ma solo allorquando si configurava una situazione in cui vi era
stato l’esercizio di un potere invasivo del corpo della magistratura, della
magistratura nel suo insieme.

Ma, con riferimento a tutte le altre ipotesi, quello che la corte costituzionale ha
affermato è che siccome ogni giudice dell’ordinamento è pienamente titolare della
funzione giurisdizionale, qualsiasi giudice, sia esso un giudice di tribunale, un
consigliere d’appello o un consigliere della corte di cassazione è legittimato ad
esercitare la funzione giurisdizionale quindi a emanare provvedimenti giurisdizionali
suscettibili di acquistare la cosiddetta autorità della cosa giudicata (quindi a
diventare immutabili), si deve perciò ritenere che qualsiasi giudice dell’ordinamento
è legittimato ad esprimere la volontà ultima del potere a cui appartiene.

La magistratura, come abbiamo detto, non è una priamide e i magistrati possono


essere posti tutti sullo stesso piano.

E allora, la corte costituzionale ha affermato che qualsiasi giudice è legittimato a
sollevare il conflitto di attribuzione, non potendosi individuare nell’ambito della
magistratura un organo apicale, la funzione giurisdizionale appartiene in pari
misura a tutti i giudici di conseguenza, alla luce di questo principio che è stato
elaborato dalla corte costituzionale, si è detto che nell’ambito dell’ordinamento
giudiziario c’è una legittimazione diffusa con riferimento al conflitto di attribuzione
quindi ogni singolo magistrato è legittimato a sollevare il conflitto di attribuzione
difronte alla stessa corte costituzionale.

Quindi per esempio se un giudice sta seguendo un processo penale e si vede


opposto da parte del primo ministro un segreto di stato che di fatto impedisce la
possibilità di svolgere alcune attività, quel singolo magistrato che intende
contestare l’esistenza del segreto di stato è legittimato a rivolgersi lui stesso alla
corte costituzionale sollevando il conflitto di attribuzione.

Questo ci consente di tornare all’art 104 e di spiegare perché la magistratura


costituisce un organo e non un potere.

Nella magistratura non esiste una gerarchia, i magistrati sono un ordine, si trovano
26
tutti sullo stesso piano, sono tutti uno uguale all’altro e in tal senso sono tutti
ugualmente legittimati a sollevare il conflitto di attribuzione difronte alla corte
costituzionale.

Vediamo adesso le magistrature speciali.



Abbiamo detto che il termine magistratura ordinaria e magistratura speciale ha un
significato molto forte nell’ordinamento italiano, non si tratta di una classificazione
che vi trasmetto a scopi didattici, ma è indicativa della diversità di posizioni che
questi giudici vanno ad assumere nell’ambito dell’ordinamento.

Abbiamo visto che con riferimento alla magistratura ordinaria è la stessa carta
costituzionale ad enunciare le garanzie e a disciplinarle perché l’art 104 non si
limita a stabilire che la magistratura ordinaria è un ordine autonomo e indipendente
ma nei suoi commi successivi e nelle sue disposizioni successive troviamo anche
la disciplina della autonomia e della indipendenza. Quindi è la stessa carta
costituzionale che spiega in che cosa consiste questa autonomia e questa
indipendenza e questo, attenzione, ha una importanza fondamentale perché
significa che chi volesse modificare questo regime di indigenza, se si volesse dare
seguito ai progetti che periodicamente vengono presentati, che vorrebbero far
uscire il PM dalla magistratura ordinaria e quindi portarlo sotto il controllo del
ministro della giustizia, deve fare i conti con la corta

costituzionale -> cioè una modifica di questo genere deve passare attraverso un
processo di revisione costituzionale, il quale richiede delle maggioranze molto
qualificate, è un procedimento non paragonabile a quello ordinario.

Prevede, infatti, diversi passaggi e delle maggioranze molto alte. Questo è bene
saperlo perché è conseguenza della forza che queste disposizioni hanno
nell’ambito del nostro ordinamento.

Non è così per le magistrature speciali perché con riferimento alle magistrature
speciali, l’art 108.2 afferma che la legge assicura l’indipendenza dei giudici delle
giurisdizioni speciali, del PM presso di esse e degli estranei che partecipano
presso all’amministrazione della giustizia. L’articolo 108 comma 2 dunque enuncia
il principio di indipendenza delle giurisdizioni speciali ma non lo disciplina,
rinviandola alla legge ordinaria. Quindi appare evidente che se l’indipendenza dei
magistrati speciali trova la propria disciplina nella legge ordinaria, la modifica del
regime di indipendenza non passa attraverso il procedimento di revisione
costituzionale ma attraverso il procedimento ordinario quindi ha una forza di
resistenza molto inferiore rispetto a quanto abbiamo detto in riferimento alla
magistratura ordinaria.

Da qui si capisce la diversità di posizione che occupano i magistrati ordinari che
vedono la propria autonomia e indipendenza affermata, disciplinata e protetta dalla
carta costituzionale e dall’altra i magistrati speciali che vedono riconosciuta si la
loro indipendenza, ma trovano la disciplina della loro indipendenza in legge
ordinaria.

La legge di riferimento che attualmente disciplina la indipendenza delle
magistrature speciali è la legge numero 186 del 1982

In particolare, questa legge si occupa del più importante giudice speciale, il
27
giudice amministrativo. Questa legge è stata modificata più volte.

Questa legge ha rivisto tutto l’ordinamento della giurisdizione amministrativa che
abbiamo detto si compone dei TAR e del Consiglio di stato che è la corte suprema
della giurisdizzion amministrativa. Questa legge è stata dettata con l’intento di dare
compiuta attuazione al p di indipendenza sancita dal 108.2 perché
precedentemente le leggi che disciplinavano questa materia, si trattava di
disposizioni contenute nella legge istitutiva del TAR, legge 1071 del 1974, e
contenuta nel “TU sul consiglio di stato”, lasciavano un po’ a desiderare. Questa
indipendenza non era pienamente garantita

Quindi nel 1982 il legislatore si decise ad intervenire e dettare una legge che fosse
maggiormente garantista. Ora, l’ispirazione di questa legge è chiara, vengono
dettate delle disposizioni che traggono chiaramente ispirazione dalle norme
costituzionali dettate con riferimento alla magistratura ordinaria, quindi agli articoli
104 e ss. a partire dalla istituzione del cosiddetto consiglio di presidenza del
consiglio di stato, che rappresenta diciamo l’organo corrispondente al CSM,
l’organo di autogoverno.

Anche le regole di composizione sono simili ma non perfettamente corrispondenti
a quelle dettate nell’art 104, intanto la presidenza viene attribuita al presidente del
consiglio di stato, presidente del consiglio che è di nomina governativa, nominato
dal potere esecutivo e quindi diciamo c’è una notevole differenza rispetto alla
previsione dell’art 104 che affida la presidenza del CSM al presidente della
repubblica.

Poi le regole di composizione prevedono la presenza di:

4 magistrati in servizio presso il consiglio di stato,



6 in servizio presso il TAR

e poi anche una componente cosiddetta laica, ovvero 4 cittadini eletti 2 dalla
camera dei deputati 2 dal sensato della repubblica a maggioranza assoluta dei
rispettivi componenti tra professori ordinari in materie giuridiche o avvocati con 20
anni di esercizio professionale.

Quindi vedete che l’ispirazione è chiara anche se ci sono delle differenze per
esempio con riferimento al CSM, qui l’articolo 104 infatti prevede che la
componete laica venga eletta dal parlamento in seduta comune mentre qua si
prevede una elezione separata della camera dei deputati e del senato della
repubblica.

Al consiglio di presidenza del consiglio di stato vengono affidate art 13


competenze che in gran parte ricalcano quelle dell’art 105, quindi gli vengono
attribuiti tutti i potei diretti ad incidere sullo status dei magistrati amministrativi.

I magistrati amministrativi poi vengono divisi in diverse categorie a partire dai
giudici dei tribunali amministrativi regionali cioè TAR poi abbiamo in consiglieri di
stato, poi il presidente del consiglio di stato. Queste sono le categorie più
importanti.

domanda: è riuscita la legge 282 con tutte le sue modifiche a dare concreta
attuazione al principio di indipendenza fissato dal 108.2?

28
non pienamente!

Ci sono dei punti di questa disciplina che fanno dubitare della effettiva e piena
indipendenza del giudice amministrativo.

I punti deboli di questa disciplina:



il punto sicuramente più debole e che ha creato maggiori problemi è senz’altro
quello del sistema di accesso all’ordine giurisdizionale amministrativo.

Vi ricordate che l’art 106 comma 1 stabilisce, con riferimento alla magistratura
ordinaria, che l’unica modalità di accesso è il concorso, invece, con riferimento alla
magistratura amministrativa il sistema messo a punto da questa legge è
abbastanza complesso.

Sono gli articoli 17 e ss. della legge che prevede dei meccanismi diversi.

Uquali ssonon le linee guida di qiesto sistema?

Il sistem aprvede con riferimento all’accesso ai gradi più bassi un sistema che
passsa attraerso il superamenton di un esame, un conrso a cui possono accedere
cittadini i quali abbiano maturato una certa professionalità, non entro nel dettagio
perché non è importante.

Invece, con riferimento al grado i consigliere di stato il sistema messo a punto
dall’art 189, è un sistema misto perché questa disposizione prevede che metà dei
posti a consigliere di stato vengono coperti mediante il superamento di
un’astensione a cui possono accedere in consiglieri del TAR che facciano
domanda e che abbiano un’anzianità di almeno 4 anni di effettivo servizio. Il
numero 2 prevede che invece un quarto dei posti dei consiglieri di stato possano
essere coperti attraverso un procedimento il cui controllo è rimesso al governo, si
prevede infatti che un quarto dei posti debbano essere preservati a professori
universitari ordinari di materie giuridiche o avocati con almeno 15 anni di esercizio
professionale e che siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori o a
dirigenti generali o equiparati dei ministeri degli organi costituzionali o
amministrazioni pubbliche.

Questa nomina, ci dice il numero 2 dell’art 19 ha luogo con decreto del presidente
della repubblica su deliberazione del consiglio dei ministri previo parere del
consiglio di presidenza di cui al precedente numero 1, contente valutazioni di
piena idoneità all’esercizio della funzione di consigliere di stato sulla base
dell’attività e degli studi giuridico-amministrativi compiuti e delle doti attitudinali e
di carattere.

Quindi nella sostanza è una nomina che proviene dal consiglio dei ministri quindi
dal governo. Questa previsione è una previsione che desta delle enormi perplessità
perché è vero che la nomina non è libera nel senso che deve ricadere su cittadini
che siano in possesso di un grado di

professionalità elevato, però è di nomina governativa e questo suscita enormi


perplessità perché il governo e la pubblica amministrazione è parte necessaria del
processo amministrativo.

Il processo amministrativo è infatti quel processo che viene instaurato dal cittadino
nei confronti della pubblica amministrazione e allora questa norma affida la nomina
di un quarto dei consiglieri dello stato ad una delle parti del processo.

29
Quindi è una previsione che da sempre fa si che molti operatori mettano in
discussione l’effettiva indipendenza del giudice amministrativo.

L’ultimo quarto dei consiglieri di stato è ricoperto mediante concorso pubblico,
quindi mediante accesso dall’ esterno per titoli ed esami terorico-prativci a cui
possono partecipare dei cittadini che siano in possesso di esperienze professionali
motlo qualificate,

però è l aprevisione del numero 2, quinid l’affidamento della norma di 1 quarto dei
posti al consigliere di stato al governo è da sempre rotenuta lesiva della
inidpendenza del giudice aministratiovo

ulteiroe punto oggetto di grosso dibaritto è la nomina a presidente del coniisglio di
stato perch ex art 22 di questa legge il presidente è nominato tra i magistrati che
abbiano effetticamente esercitato per al€no5 anni funzoini direttive con deceto del
presidente dell apreubblica su proposta del presidente del consiglio dei ministri
previa deliberazione del consiglio dei ministri, sentito il parere del consiglio di
presidenza.

Quindi una norma molto farraginosa ma anche in questo caso la nomina è


governativa!

e ci sono state in epoche abbastanza recenti, un fatto che suscitò molte
discussioni cioè la nomina da parte di un governo di un presidente del consiglio di
stato che era soggetto chiaramente molto, molto vicino al governo in carica e
anche questo, diciamo, è un punto molto delicato perché il presidente del
consiglio di stato presiede al consiglio di stato quindi assume una posizione molto
delicata che può avere un grosso peso.

Il terzo punto che è al centro dell’attenzione si appunta sulla duplice funzione
svolta dal consiglio di stato,

questo è un organo avente origini molto remote, creato addirittura dal Re Carlo
Alberto, e nasce come organo con funzioni consultive che solo dopo tanto tempo
si è visto attribuire anche le funzioni giurisdizionali.

Quini il consiglio di stato continua a svolgere questa duplice funzione.

Da una parte abbiamo 4 sezioni consultive che affiancano l’attività goverbativa.
Attività della pubblica amministrazione, dall’altra abbiamo le sezioni giurisdizionali
che sono chiamate a risolvere le controversie che vedono oppsoto il cittadino e l
apubblica amministrazione All’interno dle consiflio di stato i singoli magistrati
venogno periodicamente spostati dalle sezionin giurisdizonali a quelle consultive e
viceversa e anche questo movimenti e questa duppilicità di funzione svolta da
questo organo viene ritenuta fonte di possibili esioni della efettiva indipendenza del
giudice amministratvo

Perché il consiglio di stato da una parte affianca il governo dell’esercizio della sua
attività e magari dall’altra è chiamato a risolvere una controversia che è sorta tra un
cittadino e il governo proprio con riferimento ad una attività in cui ha svolto attività
consultiva.

Infine, il terzo punto è quello degli incarichi stragiudiziali, molti giudici, in


particolare molti consigli di stato, ricevono importantissimi incarichi nell’ambito dei
ministeri, negli uffici pubblici legali e questi stessi giudici una volta terminato
30
l’incarico rientrano nel consiglio di stato a svolgere la funzione originarie.

Anche in questo caso questa circolarità tra pubblica amministrazione (che è il
governo) e consiglio di stato viene ritenuta pericolosa ai fini della effettiva
indipendenza del giudice

amministrativo.

Perché ci sono queste situazioni? Perché si prevedono questi incarichi
stragiudiziali?

La ragione è comprensibile, il giudice amministrativo è indispensabile che conosca
l’attività amministrativa dal dentro perché questo è la condizione migliore perché
possa svolgere in maniera adeguata la funzione giurisdizionale, il giudice deve
conoscere l’attività amministrativa, che ha le sue regole e i suoi meccanismi di cui
il giudice amministrativo deve essere padrone. Tuttavia, si ritiene che si tratta di
profili delicatissimi che meriterebbero di essere radicalmente ripensati.

Lasciamo ora il tema della costituzione e prendiamo il codice di procedura civile.



Il codice che noi ancora oggi abbiamo, che è in vigore è un codice che risale al
1942 quindi un codice redatto in piena epoca fascista anzi durante la 2° guerra
mondiale.

La legge viene emanata il 28 ottobre 1940 ed entra in vigore il 21 aprile del 1942.

Il testo, naturalmente, nel corso di tutti questi anni ha subito tante modifiche e
integrazioni e tra gli interventi più importanti che ritroviamo richiamati in calce alle
diverse diposizioni, possiamo ricordare:

1. la cosiddetta “novella del 1950”, la legge 281 del 1950 per il cui tramite sono
state iscritte molte delle ispezioni contenute nel secondo libro 


2. Ancora: la legge 533 del 1973 che ha integrato il codice inserendo la


disciplina del processo a cognizione piena secondo il rito lavoro. La legge
del 73 segue la legge dello statuto dei lavoratori del 1970 ed è la legge che
ha scritto interamente la disciplina del processo del lavoro che poi ha avuto
un grosso peso nelle successive riforme del processo civile. 


3. Poi: La legge di riforma 353 del 1990 contente provvedimenti urgenti per il
processo civile. È l’ultima grande riforma del processo civile e ha modificato
la disciplina del II libro “le disposizioni relative del processo a cognizione
piena” secondo il rito ordinario, ma ha introdotto anche delle importanti
novità anche nel IV libro nell’ambito della disciplina dei procedimenti speciali
che poi vedremo. 


4. Ancora: legge 374 del 1991 istitutiva del giudice di pace 


5. E ancora: decreto legislativo n 51 del 1998 istitutivo del giudice unico di


primo grado, 

giudice unico togato. 

31
E tutta una serie di ulteriori riforme, interventi di riforma anche più recenti che però
hanno inciso su profili più limitati della disciplina processuale che avremo modo di
richiamare di volta in volta.

Il codice del 1942 è un codice che ha una sua sistematica perché i lavori
preparatori hanno visto la partecipazione dei più importanti processual-civilisti
italiani.

Non soltanto importanti nel primo 900 ma importanti in assoluto, facevano parte
della commissione che ha lavorato alla stesura del codice, giuristi come:

o Piero Calamandrei (è stato oltre che membro dell’assemblea costituente è stato


anche rettore dell’università di Firenze nonché titolare della cattedra di procedura
civile, anche della facoltà di giurisprudenza di Firenze)

o poi Francesco Carnelutti (considerato il migliore giurista mai esistito in Italia), o il


Professor Enrico Redenti dell’università di bologna

o ma anche magistrati di altissimo calibro come ad esempio di dottor Conforti

questa commissione è una commissione quindi che ha impresso al codice una


struttura che aiuta

molto l’operatore perché conoscendola si è nelle condizioni si sapere dove andare


a trovare la disciplina dei diversi istituti.

Il precedente codice risaliva al 1865 ed era il codice del regno d’Italia che a sua
volta derivava dai due codici del regno di Sardegna quello del 1854 e quello del
1859, questi ultimi per motivi storici erano due codici che risentivano molto
dell’influenza francese perché erano i codici del regno di Sardegna e del Piemonte
e quindi risentivano molto in alcune parti soprattutto del code Napoleon, del
codice di procedura del 1804 rimasto in vigore fino alla riforma del 1870 in Francia.

Anche se, diciamo, nel passaggio successivo del codice del 1942 l’influenza
francese si era attenuata e invece, anche per motivi legati alla storia della
evoluzione della dottrina processual- civilistica il codice del 1942 ha subito molto
la influenza anche della scuola tedesca e quindi del codice di procedura civile della
Germania e Austria perché la scuola tedesca è una scuola di ottimo livello, molto
importante, presso la quale si è formato un giusta che ha esercitato una forte
influenza in Italia, ovvero il professor Giuseppe Chiovenda.

È il giurista cui si deve la elaborazione del principio della tutela effettiva dei diritti, il
processo deve dare a chi ha un diritto tutto quello e proprio e proprio quello che ha
diritto di ricevere sulla base del diritto sostanziale.

Il professor Chiovenda aveva esercitato compiti molto importanti in Germani e ha
impresso uno stimolo che ha molto influenzato il successivo sviluppo di tutta
scuola italiana.

I più grandi processual civilisti Italiani infatti sono stati gli allievi proprio di
Chiovenda che ha vissuto a cavallo tra 800 e 900.

Detto questo, torniamo al codice di procedura -> si divide in 4 libri, ha un numero
di disposizioni più contenuto rispetto al codice civile, le disposizioni sono 849.

Nel codice ogni libro tratta una serie di ispezioni e istituti secondo una sistematica
facilmente accessibile.

32
1. Il primo libro è un libro che contiene le disposizioni generali, ci troviamo tutta
una serie di previsioni, nome e principi che in quanto disposizioni generali si
applicano a tutti quanti i processi disciplinati nei libri successivi. 


2. Il secondo libro che prende avvio dall’art 163 è dedicato al processo di


cognizione. Detto anche il processo a cognizione piena, il processo per
eccellenza che si aggancia al diritto di azione come categoria atipica.

Abbiamo detto diritto di azione nell’ordinamento italiano è un diritto atipico
che può essere esercitato con riferimento a qualsivoglia situazione giuridica
sostanziale senza necessità che una norma specifica attribuisca al cittadino
la titolarità dell’azione. 

Ecco l’esercizio del diritto d’azione apre il processo a cognizione piena e
quindi proprio come l’azione è un processo che si connota per la sua
atipicità, cioè può essere aperto in riferimento a qualsivoglia situazione
giuridicamente rilevane e che in questa sua caratteristica si distingue dai
procedimenti speciali del IV libro. 


1. Terzo libro prende avvio con l’articolo 474 e che invece è dedicato al processo
di esecuzione. In verità sarebbe più corretto parlare di processi di esecuzione
perché non ce n’è solo uno. Questi sono dei procedimenti il cui scopo è proprio
quello di attribuire al cittadino materialmente le opportunità a cui ha diritto. Quindi
se un cittadino è riconosciuto titolare di un diritto di credito, diritto ad ottenere il
pagamento di una somma di denaro, attraverso il processo esecutivo il cittadino
ottiene proprio il denaro a cui ha diritto e non il foglio carta che dice che sei titolate
di un diritto parti a 100, con questo processo si ottengono i 100 di cui si ha diritto.

1. Libro IV prende avvio dall’articolo 633 ed è dedicato ai procedimenti speciali, è il


libro più eterogeneo, meno ordinato rispetto ai precedenti perché è stato messo
tutto ciò che non rientrava nei primi tre libri.

Quindi ci ritroviamo tutta una serie di procedimenti definiti speciali perché: intanto,
come regola generale, possono essere utilizzati nei casi previsti dalla legge quindi
si connotano tutti per la loro tipicità, poi speciali perché questi procedimenti non
rientrano nella nozione di processo a cognizione piena si tratta di procedimenti a
cognizione sommaria, termine che se posto in contrapposizione a quello di
cognizione piena consente di capire che si tratta di una forma di cognizione meno
approfondita (detto con un termine tecnico) e che vengono dettati dal legislatore
Italiano per assolvere a esigenze fondamentali quale l’economia processuale cioè
risparmiare la lunghezza del processo a cognizione piena che presenta un
meccanismo molto pieno, farraginoso, complesso.

Quando?

Quando non c’è una vera contestazione fra le parti ma c’è semplicemente uno che
non paga, non perché non vuole contestare l’esistenza del diritto ma perché non
paga perché non ce l’ha, perché non vuole pagare. Quindi quando c’è una lite da
pretesa insoddisfatta, ecco l’economia processuale, è inutile mettere in moto un
processo a cognizione pinea così pesane, lungo e impegnativo per tutti anche per
33
lo stato!

E poi esigenze come assicurare l’effettività della titela giurisdizojnale, ci sonon
situazioni giuridiche le uqali non possono rimanere insodffitate per tutot il tenpo di
svolgimento del processo a cognizione piena perché il tutolare verrebbe a subire
un danno irreparabile pensate balamente al dritto alla retribuzione, diritto al
mantenimento cioè situazioni critiche che hanno un contenuto patrimoniale ma che
garantiscono un bene non patrimoniale, cioè garantire la sopravvivenza della
persona e non si può lasciare il lavoratore senza stipendio per i tre anni di durata
del primo grado del processo a cognizione pine a

Quindi siccome la necessità di mettere il cittadino nella condizione di ottenere in
tempi rapidi un provvedimento che anticipa il contenuto della sentenza del
processo a cognizione piena.

Anche questa è una delle esigenze che sta alla base di questi procedimenti
speciali che ritroviamo nel IV libro.

Ma andiamoli a vedere da vicino questi libi.



Se apriamo il testo del primo libro, all’articolo 1 del codice troviamo una prima
sezione dedicata alla giurisdizione e alla competenza in generale che si occupa di
uno dei protagonisti del processo civile, il giudice.

Quindi il codice di procedura risente un po’ questa scelta dell’epoca storica in cui
è stato scritto il codice, un’epoca in cui c’era la concezione di uno stato forte. Nel
42 non c’è ancora la costituzione che pone in primo piano il cittadino e i suoi diritti,
oggi se si dovesse riscrivere un codice probabilmente si ripartirebbe dalle parti,
invece il codice del 42 parte dal giudice perché il

giudice rappresenta lo stato.



Troviamo la disciplina i una serie di istituti che interessano proprio il giudice tra cui
anche quelli che sono i requisiti di legittimazione del giudice: quale giudice deve
trattare un certo processo, si tratta degli istituti che danno attuazione a un
principio costituzionale che abbiamo già richiamato, “art 25 il giudice naturale
precostituito per legge”. Ecco le norme che precostituiscono il giudice cioè che mi
dettano i criteri per cui il giudice che deve trattare una certa controversia è già
individuato prima che la controversia sia sorta.

E a questi sono:

• ⁃  la giurisdizione, art 37 


• ⁃  la competenza articoli 7 e ss. 


• ⁃  la costituzione articoli 158 e 161 



quindi attraverso l’applicazione di questi istituti nel loro ordine logico, si
arriva alla individuazione del giudice natarle che deve trattare una certa
controversia e si vede che le disposizioni che si occupano della competenza
sono tante perché oi abbiamo già seppure succintamente descritto
l’organizzazione giudiziaria, una organizzazione complessa, sono tanti gli
istituti giudiziari. 

I giudici di primo grado sono 2, il giudice di pace e il tribunale, sicché,
34
innanzitutto, si tratta di stabilire difronte a chi fare domanda, quale è il
giudice naturale e qui entrano in gioco i criteri di materia e di valore.

Sono i due criteri di competenza che sono chiamati a disciplinare gli
spostamenti cosiddetti verticali, cioè in base a questi criteri che si stabilisce
se una causa debba essere seguita dal giudice di pace o dal tribunale. 

Talvolta risolta questa prima questione, si tratta di capire a quale ufficio
giudiziario mi debba rivolgere perché l’abbiamo già visto in Italia ci sono
decine di giudici di pace e decine di tribunali.

Lo scelgo liberamente? 

No, non è possibile, il giudice naturale è precostituito per legge allora
intervengono i criteri della competenza territoriale che attribuisce rilevanza a
profili della controversia o delle parti che indicano u legame della causa con
uno degli uffici giudiziari presenti sul territorio italiano.

Il giudice competente per territorio prende il nome di foro, il foro è il giudice
competente per territorio e quindi negli articoli 18 e ss. noi troviamo tutte le
disposizioni che appunto consentono di individuare il foro, quindi il giudice
competente. 

Poi abbiamo gli articoli 31 e ss. molto più interessanti e piuttosto complicati
perché si tratta di disposizioni che prevedono una deroga ai criteri di
contenenza per ragioni di connessione. Allora, il processo civile è come vi ho
detto una realtà piuttosto complessa, intanto è un processo che può avere
ad oggetto una sola domanda ma anche più domande, quindi può essere un
processo oggettivamente complesso oppure un processo semplice. 

E ancora, il processo civile si può solvere tra due parti, l’attore (che agisce) e
il convenuto (destinatario della domanda) ma nella realtà il processo si
svolge fra più parte, si parla di un processo litisconsortile. 


⁃ In questo primo semestre però parleremo solo del processo a due parti.

Quindi rimaniamo nell’ottica in cui processi sia a due part, fra attore e convenuto.
Anche fra

attore e convenuto io vi sposso semplificare la vita parlando il più delle volte di un


processo che può avere ad oggetto una sola domanda ma la verità è che il
processo è complesso perché anche fra due sole parti le domande sono più di una
e queste domande naturalmente possono presentare dei legami l’una con l’altra,
legami che possono essere blandi (semplicemente blandi due domande dalle
stesse parti che non hanno nessun contatto) ma delle volte si tratta di domande
molto legale l’una all’altra;

per esempio io attore propongo nei confronti del convenuto una domanda con cui
chiedo adempimento di un credito ereditario e il mio convenuto propone nei miei
confronti una domanda di accertamento ti non esistenza della mia qualità di erede.

quindi, capire, come queste due domande sono intimamente collegate. Il legame
sta nel fatto che la qualità di erede è il presupposto su cui si basa il mio diritto a
richiedere l’adempimento del credito del de cuius di cui io sono erede, mi affermo
erede.

35
Quindi il legame può essere intento allora in presenza di questi legami
l’ordinamento ha l’interesse a favorire un ordine processuale, interesse a che
queste cause vengano riunite difronte ad uno stesso giudice.

Perché è opportuno che sia lo stesso giudice a pronunciarsi su tutte e due e
domande però capite che se le due domande sono soggette alla competenza di
cui agli articoli 7 e ss. possono essere due domande che originariamente
appartengono alla competenza di due giudici diversi.

Allora l’ordinamento in presenza di legami forti, avendo l’interesse a che queste
domande vengano affrontate difronte allo stesso giudice e tratta simultaneamente,
consente negli articoli 31 e ss. che per attuare il cumulo processuale si possono
derogare i criteri originari di competenza, quindi in questi articoli troviamo tutta una
serie di disposizioni che prevedono la possibilità di derogare alle regole
precedentemente dettate agli articoli 7 e ss. per favorire il cumulo processuale, per
far si che quelle due domande possono essere portate difronte allo stesso giudice
e che quindi sia lo stesso giudice che tratta e decide contestualmente su tutte e
due le domande e gli articoli 31 e ss. riguardano sano processi fra parti (articoli
31-34-35 e 36) sia domande proposte da parti diverse (articoli 32 e 33).

Poi, articoli 37 e ss. si tratta l’art 37 della norma che si occupa della giurisdizione
che è uno dei quesiti di legittimazione de giudice. L’art 38 riguarda la competenza,
l’art 40 -> ancora una volta è una norma che si occupa di cause connesse, di
cause che presentano un legame più o meno intenso ed è anche in questo caso
una norma che detta una serie di previsioni (una norma molto ampia) il cui scopo è
lo stesso, favorire il cumulo processuale, favorire la possibilità che le due domande
vegano trattate e decise dallo stesso giudice per le ragioni che poi a suo tempo
vedremo.

Andando ancora avanti, andiamo negli articoli 50 bis e ss., ancora una previsione
relativa al giudice, queste disposizioni presentato una deroga alla norma generale
che il codice di procedura ha adottato dal 1998 e che ricordiamo oggi espresso
nell’art 48 dell’ordinamento giudiziario, ovvero la regola genarle secondo cui il
tribunale si pronuncia in composizione monocratica. Quindi le cause che rientrano
nella competenza del tribunale non sono affidate ad un giudice collegiale, il
tribunale non si pronuncia in composizione collegiale.

La regola generale è che il processo venga seguito dall’inizio alla fine da un giudice
persona fisica, un giudice singolo. Nell’art 50 bis noi troviamo una serie di ipotesi
che si ritengono tassative in cui invece il tribunale si pronuncia in composizione
collegiale, cioè, la causa viene affidata ad un giudice singolo nella prima parte
(ovvero nella parte introduttiva e nella parte

istruttoria) ma la fase finale, quella decisoria viene affidato ad un collegio cui fa


parte anche il giudice che ha seguito la prima parte che prende il nome di giudice
istruttore.

Qui troviamo i casi eccezionali di cui vale la vecchia regola della decisione
collegiale.

Poi negli articoli 51 e ss. troviamo gli istituti della astensione e della ricusazione del
giudice.

36
Il giudice deve essere terzo ed imparziale, vuol dire che deve essere distante
rispetto alle parti. A seguito della applicazione degli istituti che abbiamo detto
danno attuazione al principio del giudice naturale è possibile e che venga
individuato un magistrato che in qualche modo è legato alla causa del processo
(es è patente di una delle parti oppure è titolare di una situazione giuridica legata
all’oggetto del processo oppure ha già giudicato quella causa perché era un
giudice di primo grado che poi è passato in appello)

In questo caso intervengono i due istituti (astensione e ricusazione) = il giudice in
presenza di una delle situazioni tassativamente indicate nell’art 51 ha l’obbligo di
essere dimesso quindi è il giudice persona fisica che laddove risconti la presenza
di una delle ipotesi tassativamente indicate nell’art 51 ha l’obbligo di astenersi.

Se non lo fa e una delle parti ritiene che invece sussista una delle condizioni di cui
all’art 51 questa ha la possibilità di ricusarlo, quindi di far valere l’esistenza di uno
dei casi di cui all’art 51 si tratta degli istituti che presidiano alla terzietà e
imparzialità del giudice.

Negli articoli 57 e ss. invece noi troviamo la disciplina di quelli che possiamo
definire gli ausiliari del giudice quindi si tratta di una serie di collaboratori del
giudice, non magistrati ma personale amministrativo che coadiuva il giudice.

1.Si tratta del cancelliere, che possiamo dire in gergo atecnico sia una sorta di
segretario.

2.si tratta dell’ufficiale giudiziario che è un funzionario che svolge una funzione
molto importante es: nell’ambito del processo di esecuzione si tratta di colui a cui
viene affidato il procedimento di notifica degli atti, il procedimento per il cui tramite
un atto viene portato nella sfera di conoscibilità del suo destinatario

Poi abbiamo articoli 61 e ss.:

3.I consulenti tecnici che sono degli esperti a cui il giudice si può rivolgere se ha
bisogno di un esperto (per es. perché la controversia è tecnica e il giudice non ha
quelle conoscenze tecniche che sono necessarie per svolgere alcuni accertamenti;
può essere presente il medico legale se si tratta di valutare le conseguenze di un
incidente stradale, può essere un ingegnere se si tratta di dover riscostruire una
dinamica di un incidente a partire dai segni che sono stati rinvenuti nel luogo di un
incidente tesso); quindi il consulente tecnico è un esperto e la consulenza tecnica
è uno dei mezzi prova che rientrano nella diponibilità del giudice.

Poi negli articoli 69 e ss. troviamo il Pm, svolge un ruolo anche nel processo civili,
anche se non lo stesso rispetto al processo penale perché sulla base dell’articolo
112 della C è il Pm ad essere titolare in via esclusiva della azione penale, è l’unico
magistrato legittimato ad aprire il processo penale attraverso la richiesta di rinvio a
giudizio,

il processo civile come regola generale ha ad oggetto situazioni giuridiche di tipo


disponibile quindi come regola genarle è aperto da un cittadino che ritiene titolare
della situazione lesa ma il Pm ha un ruolo nel processo civile, intanto ex art 69
talvolta il Pm è legittimato straordinario cioè ci sono delle ipotesi tassative, indicate
dalla legge in cui un Pm ha la titolarità dell’azione civile quindi è legittimato ad
aprire il processo, non solo molti questi casi, si tratta di fattispecie in cui si

37
ritiene che sussista un interesse pubblico, quindi sono materie in cui il legislatore
ha ritenuto che sussista un interesse pubblico che legittima una iniziativa del Pm.

Poi nell’art 70 invece troviamo l’indicazione dei casi in cui il Pm è parte necessaria
del processo, cioè il processo viene aperto secondo le regole ordinarie ma il Pm
deve essere presente quindi si vedrà riconosciuta la titolarità dei poteri che
appartengono alle parti anche in questo caso la partecipazione è prevista perché il
legislatore ritiene evidentemente che sussista un interesse pubblico e che quindi ci
sia la necessità che il contraddittorio venga integrato dal Pm.

Poi finalmente nel titolo III art 75 e ss. troviamo una serie di disposizioni che
riguardano le parti e i difensori, quindi abbiamo l’art 75 che si occupa di quella
capacità processuale che grossomodo corrisponde alla capacità di agire secondo
la nozione di diritto privato.

E poi abbiamo l’art 81 che si occupa della legittimazione ad agire, di chi può
esercitare azione civile. Siccome il processo civile come regola genarle ha ad
oggetto situazioni disponibili, l’azione potrà essere esercitata da chi si afferma
titolare del diritto fatto valere in giudizio, del diritto con riferimento al quale si è
verificata la crisi di cooperazione e solo eccezionalmente ex art 81 la legge può
attribuire questa legittimazione anche ad un soggetto terzo, si tratta dei cosiddetti
legittimati straordinari, uno i questi è il Pm anche se non l’unico.

Negli articoli 82 e ss. troviamo i difensori, il difensore tecnico è l’avvocato. Nel


processo civile come regola generale non si può stare in giudizio personalmente,
esiste l’obbligo della difesa tecnica. Il processo civile è un processo tecnico che va
conosciuto e quindi l’obbligo della difesa tecnica è una previsione che si fonda
sulla esigenza di garantire il diritto di azione delle parti. Ancora andando avanti
troviamo negli articoli 90 e ss una serie di previsioni che riguardano le spese
processuali e poi il titolo IV dedicato all’esercizio dell’azione, negli articoli 99 e ss.
noi troviamo una serie di disposizioni che enunciano principi generali
dell’ordinamento processuale. Principi talvolta addirittura costituzionali, Ma si tratti
di principi generali anche se alcuni non costituzionali, che dovrebbero trovare
applicazione in tutti i processi, ricordatevi che siamo difronte a disposizioni
generali.

Fra queste:

• ⁃  il principio della domanda, sono cui il processo civile non può
essere in moto d’ufficio 

ma è necessaria l0niziativa di un soggetto 3° rispetto al giudice. 


• ⁃  Il principio del contraddittorio 101 che sappiamo è anche principio


costituzionale 

garantito dall’art 111 


• ⁃  Il principio della corrispondenza tra richiesta e pronuncia art 112 



38
• ⁃  Principio di legalità art 113 

Negli articoli 102- 103 – 104 – 105- 106 – 107- 108- 109- 110 – 111 invece
troviamo una serie di disposizioni che si occupano dei processi litisconsortili
cioè dei processi con più parti e si tratta di fattispecie che aprono a ipotesi
che non trovano direttamente una disciplina completa nel codice di
procedura civile quindi obbligano l’interprete ad una ricostruzione in via
interpretativa che si basa sui principi genarli che governano il processo
civile. 

Il titolo V è invece dedicato ai poteri del giudice, le prime diposizioni
dedicano una serie di principi anch’essi generali, nelle diposizioni dal 115 in
avanti troviamo invece una serie di 


previsioni che riguardano le prove e i poteri istruttori.



La parte probatoria è una parte centrale del processo civile. Lo scopo della attività
istruttoria è quello di convincere il giudice in ordine alla esistenza dei fatti
giuridicamente rilevanti, dei fatti rilevanti ai fini della esistenza del diritto fatto
valere in giudizio.

Negli articoli 131 ess. Che vanno a comporre il VI titolo dedicato agli atti
processuali e troviamo una serie di previsioni che si occupano del profilo formale
del processo.

Il processo civile rientra nella categoria dei procedimenti cioè è una serie
cronologicamente e logicamente ordinata di atti. Il primo atto è l’atto di
proposizione della domanda giudiziale, l’ultimo atto è il provvedimento del giudice.

Tra l’uno e l’altro si snodano tutta una serie di atti e provvedimenti posti in essere
dai protagonisti del processo civile, ovvero le parti (attore e convenuto) e il giudice.

Questi atti sono l’esercizio di poteri processuali e sono intimamente legati l’uno
all’altro perché ogni atto, come esercizio di un potere processuale, è il
presupposto dell’atto successivo ed è la conseguenza dell’atto precedente quindi
c’è una concatenazione che non è solo cronologica ma anche logica.

Allora negli articoli 131 e ss noi troviamo tutte una serie di disposizioni che sin
occupano del profilo formale del processo come serie ordinata di atti.

È una disciplina molto interessante perché nella stessa troviamo una serie in
previsioni ed istituti pe il cui tramite il legislatore tenta di creare le condizioni
perché il processo civile possa sempre raggiungere il suo esito fisiologico ovvero
la sentenza che si pronuncia sulla domanda iniziale e a tale scopo prevede tutta
una serie di meccanismi diretti ad eliminare i vizi che si possono verificare nel
corso del processo.

Un potere esercitato male, un potere esercitato in assenza dei presupposti.
Meccanismi aventi lo scopo di depurare il processo da questi vizi in modo che il
processo possa andare aventi e raggiungere il suo esito fisiologico, la sentenza o il
provvedimento che si pronuncia sulla domanda giudiziale, sulla richiesta di tutela
avanzata dall’attore accogliendola o respingendola. Sono soltanto eccezionali e
patologiche le ipotesi in cui il processo civile non può raggiungere questo scopo e
quindi si conclude con un provvedimento che chiude il processo in rito=

39
Rito sta a significare una pronuncia che contiene una dichiarazione secondo cui il
giudice prede atto della impossibilità di rispondere alla domanda giudiziale.

19/09/19
Il secondo libro contiene il maggior numero di disposizione del cpc. Esso si apre
con l’art 163 e si chiude con l’art 447 bis. È dedicato al processo a cognizione
piena, è il processo civile per eccellenza, in cui trova sfogo il diritto di azione. Così
come il diritto di azione sancito nell’art 24 della costituzione è un diritto atipico,
cioè che l’ordinamento attribuisce al cittadino con riferimento a qualsivoglia
situazione giuridica, così il processo a cognizione piena si caratterizza per la sua
atipicità, cioè è un meccanismo che può essere utilizzato con riferimento a
qualsivoglia situazione giuridica e che quindi si correla al diritto di azione e ne
condivide l’atipicità. Esistono due forme di processo a cognizione piena: il rito
ordinario che è la forma generale, e il c.d. rito lavoro, che si applica alle
controversie in materia di lavoro (il più importante), ma anche alle controversie in
materia previdenza e assistenza così come alle controversie locatizie. Gli artt. da
163 a 408 sono dedicati al rito ordinario, mentre dall’art 409 in avanti abbiamo
delle disposizioni che si occupano del rito lavoro, in particolare all’art 409 troviamo
indicazione delle controversie di lavoro ritenute soggette a questo particolare rito.
Si tratta comunque di due forme diverse di processo a cognizione piena, ove
soltanto le regole di svolgimento sono diverse.

Per quanto riguarda il rito ordinario, la più parte delle disposizioni si occupa del
processo che si svolge davanti al tribunale. Ciò si spiega per motivi storici, il
tribunale era il giudice per eccellenza quando è stato redatto il codice, esisteva al
tempo una figura di giudice onorario, il conciliatore, che svolgeva un ruolo
importante, ma il tribunale era il giudice togato per eccellenza ed è di fronte al
tribunale che il codice detta il maggior numero di disposizioni. Con riferimento al
giudice di pace, che oggi è l’altro giudice di primo grado, le disposizioni del codice
sono molto poche, ovverosia gli artt. tra 311 fino al 322, poco più di 10
disposizioni. Ci sono una serie di disposizioni particolari, ma per tutto ciò non
espressamente disciplinato c’è un rinvio alle norme del processo di fronte al
tribunale. Questa scelta è probabilmente non più ragionevole, perché il giudice di
pace è sì giudice onorario, ma che a questo punto ha un contenzioso di tutto
rispetto, e a seguito dell’entrata in vigore dell’ultima riforma della magistratura
ordinaria ha visto aumentato moltissimo il proprio contenzioso, quindi il processo
di fronte al giudice di pace avrebbe bisogno di una maggiore attenzione da parte
del legislatore poiché queste legislazioni sono troppo scarne e problemi
interpretativi ve ne sono. Per quanto riguarda il processo davanti al tribunale, prima
di guardare queste norme devo avvisarvi che esse risentono ancora della
fondamentale scelta che fu operata nel ‘42, infatti sotto l’egida del codice
precedente del ‘65, il processo di fronte al tribunale era collegiale, quando fu
scritto il nuovo codice fu fatta una scelta diversa ovvero quella di affidare ad un
giudice singolo, il giudice istruttore, le prime fasi del processo a cognizione piena,
40
cioè la fase introduttiva e di trattazione e la fase istruttoria, mentre la fase finale
decisoria fu affidata ad un collegio di cui il giudice istruttore doveva
necessariamente far parte. Tutte le disp del II libro ancora danno per presupposta
questa regola, cioè della trattazione monocratica e decisone collegiale, scelta non
più attuale perché nel 1998 il legislatore ha adottato la regola del giudice unico
monocratico di primo grado, cioè ha accolto la regola secondo cui anche di fronte
al tribunale, il processo si svolge in tutte le sue fasi di fronte ad un giudice
monocratico. Questa regola la troviamo oggi espressa nell’art 48 della legge
sull’ordinamento giudiziario (R.D. 12/1941) art 48 modificato dal dlg. 51/1998. L’art
48 detta: “In materia civile e penale il tribunale giudica in composizione
monocratica e, nei casi previsti dalla legge, in composizione collegiale”. La norma
dà per presupposta l’esistenza di una serie di eccezioni in cui si è conservata la
vecchia regola, cioè la regola della trattazione e istruzione affidate al giudice
istruttore e della decisione affidata al collegio. Queste eccezioni le troviamo oggi
espressamente previste nell’art 50bis e ss. che si occupano delle cause nelle quali
il tribunale giudica in composizione collegiale ed è proprio tale articolo che, nei
numeri da 1 a 7bis, contiene questi casi eccezionali tassativi. Quando il legislatore
nel 1998 ha introdotto questa modifica non si è preoccupato di andare a
descrivere tutte le disposizioni del II libro, ma le ha lasciate così com’erano, infatti
anche oggi troviamo il richiamo del giudice istruttore e collegio, ma sappiamo
ormai che questa non sussiste come regola generale. Sapete che il legislatore
italiano non è tra i più precisi e ha visto bene di lasciare inalterato il testo del
codice.

Il processo a cognizione piena si connota per la sua atipicità e in ciò si distingue


dai procedimenti speciali del IV libro, che invece sono tipici, che si possono aprire
solo nei casi espressamente previsti dalla legge, tranne una eccezione molto
importante. Come si svolge il processo a cognizione piena? Il processo ha un
meccanismo molto complesso, il processo civile deve essere ricondotto alla
categoria del procedimento, quindi è una sequenza cronologicamente e
logicamente ordinata di atti posti in essere da coloro che prendono parte al
processo stesso, quindi attore o convenuto (attori e convenuti poiché spesso ha
più di un partecipante) e giudice. L’atto che dà avvio al processo è l’atto di
proposizione della domanda giudiziale, il processo civile ha ad oggetto situazioni
disponibili e l’art 111 impone la garanzia di terzietà e imparzialità del giudice,
quindi non può essere il giudice a mettere in moto il processo, ma è il cittadino che
ha subito la crisi di cooperazione, il cittadino che ha bisogno della giustizia e che si
rivolge alla magistratura perché ha subito la crisi di cooperazione, e lo fa
presentando la sua domanda, che contiene proprio la richiesta di tutela. Possiamo
familiarizzare con l’idea che la domanda deve innanzitutto contenere
l’individuazione del diritto, della situazione giuridica che si deduce in giudizio, della
situazione giuridica con riferimento alla quale si richiede tutela e su cui il giudice
dovrà pronunciarsi. L’ultimo atto è il provvedimento del giudice che
tendenzialmente ha la forma della sentenza, non sempre è così. Il legislatore ha
fatto di tutto per creare le condizioni affinchè il processo si chiuda con la sentenza
41
di merito, cioè la sentenza per il cui tramite il giudice risponde alla domanda
dell’attore, accogliendola o rigettandola, dichiarando l’esistenza del diritto o la non
esistenza del diritto, offrendo la tutela richiesta o negandola. Abbiamo anticipato,
parlando della disciplina degli atti processuali e di eventuali vizi di cui questi atti
possono essere affetti, che un atto redatto in modo diverso da come previsto dalla
legge per un errore dell’avvocato è un atto invalido e quindi nullo, questa è la
disciplina generale della nullità processuale almeno in primo grado. Questo
legislatore che ha interesse affinchè l’attore ottenga la sentenza di merito per il
bene di tutti, ha messo a punto una serie di meccanismi il cui scopo è quello di
eliminare questi vizi, quindi quando andremo ad analizzare la disciplina degli atti
processuali e del regime di nullità vedremo dei meccanismi di sanatoria
(convalidazione soggettiva e oggettiva, l’ordine di rinnovazione degli atti nulli), però
talvolta questo vizio non è sanato e quindi il giudice non si potrà pronunciare sul
merito, altre volte potrà riscontrare l’esistenza di un vizio c.d. extraformale, cioè ad
es un errore sulla giurisdizione, viene portato davanti al giudice civile una
controversia appartenente alla giurisdizione del giudice amministrativo, qui il
giudice non può proseguire e dovrà chiudere con un provvedimento che dichiara il
difetto di giurisdizione. Questa è una chiusura in rito, il giudice dichiara di non
potersi pronunciare sul merito, non ci sono le condizioni né la possibilità di sanare
questo vizio in quanto in difetto di giurisdizione, ma potrà proseguire di fronte al
giudice amministrativo. Supponiamo ancora il caso in cui il giudice civile rilevi un
difetto della giurisdizione italiana, cioè si renda conto che nessun giudice italiano
può pronunciarsi su questa domanda, come ad esempio una azione reale avente
ad oggetto un bene immobile che si trova all’estero, qui c’è un difetto assoluto di
giurisdizione, nessun giudice italiano si può pronunciare, quindi al giudice non
resta che chiudere con sentenza il processo e nessun altro giudice potrà
rispondere a quella domanda in Italia.

Ogni ordinamento disciplina la propria giurisdizione e non può disciplinare la


giurisdizione altrui, perché essa è espressione della sovranità nazionale. Questi
sono esempi in cui il processo irrimediabilmente non può arrivare alla sentenza di
merito e quindi avremo un provvedimento che dichiara la non possibilità di non
potersi pronunciare sul merito e che, a seconda del vizio, potrà prendere una
forma diversa: se per esempio i giudice si dichiara incompetente il provvedimento
prenderà la forma dell’ordinanza ex art 279. Occupiamoci però adesso del caso
normale, cioè di un processo che raggiunge il suo esito fisiologico, cioè la
sentenza di merito, di accoglimento o di rigetto. In base all’art 163 cpc il processo
a cognizione piena si introduce con un atto che ha la forma della citazione. Atto di
citazione a comparire a udienza fissa, perché questo atto, come vedremo,
contiene non solo la domanda di tutela ma anche la vocatio ius, ossia l’attivazione
del contraddittorio (ricordatevi che il principio del contraddittorio è un principio
costituzionale, lo afferma l’art 111 e non può assolutamente essere derogato). In
modo particolare troviamo la fissazione della data della prima udienza, quindi è
l’attore che fissa la data della prima udienza. A seguito della redazione dell’atto di
citazione, esso dovrà essere notificato al convenuto. Il procedimento di
42
notificazione ha come protagonista l’ufficiale giudiziario e che ha come scopo
quello di portare un atto nella sfera di conoscibilità del suo destinatario. L’atto di
citazione viene notificato subito al convenuto, dopodichè verrà depositato presso
l’ufficio giudiziario di fronte al quale la domanda è proposta. L’ufficio giudiziario
dovrà essere individuato dall’attore sulla base degli istituti che regolano la
competenza, prima la giurisdizione e dopo la competenza. A questo punto il
convenuto, destinatario della domanda, dovrà difendersi e l’ordinamento gli
riconosce una serie di poteri di difesa: da quello più semplice, ossia la mera
contestazione (mera difesa); a poteri più incisivi e complessi come il potere di
proporre eccezioni in particolare quelle di merito, per il cui tramite il convenuto
introduce i fatti a sé favorevoli; il potere di proporre a sua volta domanda a favore
dell’attore, comportando che il processo avrà un duplice oggetto e quindi un
ampliamento dell’oggetto; ancora, la chiamata in causa del terzo così allargando il
contraddittorio e coinvolgendo nella lite un soggetto terzo.

Si arriva così alla prima udienza, detta udienza di prima comparizione e trattazione,
il cui scopo è quello di mettere a fuoco il tema decidendum (cioè l’oggetto/i del
processo) e il tema probandum (i fatti rilevanti che sono controversi tra le parti, con
riferimento alle quali le parti sono in contestazione). “Probandum” perché i fatti
controversi dovranno essere provati, scatta l’onere della prova.

Dopo la prima udienza scattano le cc.dd. preclusioni istruttorie, cioè viene fissato
un termine entro il quale le parti possono articolare le proprie richieste istruttorie
per provare l’esistenza dei fatti favorevoli a ciascuna parte, e ci sarà poi un
secondo termine fissato per presentare le richieste di prova contraria. A questo
punto si apre la fase istruttoria, il giudice si pronuncia sull’ammissibilità e rilevanza
dei mezzi di prova richiesti dalle parti e procede all’acquisizione delle prove
richiese. Potranno essere prove documentali, che dovranno solo essere
depositate, oppure di prove costituenti come le testimonianze, per cui invece
dovranno essere fissate una o più udienze allo scopo di acquisire la testimonianza
(dichiarazione di scienza di un soggetto terzo e soggetta ad una regolamentazione
molto rigida). Nel momento in cui si chiede una testimonianza la parte deve sin da
subito indicare al giudice i quesiti (capitolazione dei quesiti) che vuole siano posti
al testimone e il giudice valuterà l’ammissibilità e rilevanza di ciascuno dei quesiti.
Il giudice civile italiano ha poi una serie di poteri istruttori d’ufficio. Può lui stesso
disporre l’acquisizione di una lunga serie di mezzi di prova.

Terminata l’acquisizione delle prove si arriva alla ultima fase del processo, cioè la
fase decisoria. Le parti sono chiamate a precisare le conclusioni di fronte al
giudice, vengono fissati i termini per lo scambio di una serie di memorie scritte e
poi finalmente abbiamo la pronuncia della sentenza.

La disciplina appena riassunta è una disciplina estremamente puntuale, ai fini della


ricostruzione delle regole di svolgimento del processo a cognizione piena occorre
tenere di conto non solo delle disposizioni del II libro ma anche di una lunga serie
di disp contenute nel codice civile. Questa frammentazione è dovuta a motivi
storici, il codice civile è stato scritto un paio di anni prima del codice di procedura
civile e quindi il legislatore ha infilato nel VI libro una serie di disposizioni
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processuali che non ha ripetuto nel codice di procedura civile. Quindi le
disposizioni del cpc devono essere integrate da quanto previsto nel codice civile,
soprattutto per quanto concerne le prove.

Chiuso il processo di primo grado, si può aprire la fase di impugnazione. Il sistema


italiano prevede la possibilità per le parti di aprire il processo di appello e, chiuso
questo, di ricorrere alla Corte Suprema proponendo ricorso per Cassazione. Anche
il processo davanti ai giudici di impugnazione trova una disciplina analitica nel II
libro del cpc. I gradi di impugnazione vengono aperti sempre su domanda di parte,
la legittimazione ad impugnare è assegnata alla parte che è rimasta soccombente
nel giudizio precedente. È la parte che si è vista dar torto che è legittimata ad
aprire il giudizio di impugnazione. Aprire il giudizio di impugnazione è una
operazione molto complessa e delicata perché non basta manifestare la propria
intenzione di ricorrere al giudice superiore chiedendogli di controllare tutto ciò che
è successo nel primo grado di giudizio, ma deve anche formulare i motivi di
impugnazione, cioè indicare con assoluta precisione i punti di fatto e di diritto su
cui ritiene che il giudice precedente abbia commesso un errore. Deve inoltre
spiegare la causalità di quell’errore, cioè che se il giudice non l’avesse compiuto,
l’esito della lite sarebbe stato diverso e per lui più favorevole. L’appellante deve
indicare anche la decisione che avrebbe dovuto compiere il giudice precedente. Se
i motivi dell’impugnazione non rispondono alle forme dell’art 342, l’impugnazione è
dichiarata inammissibile e la conseguenza è irrecuperabile, poiché a questa segue
il passaggio in giudicato della sentenza impugnata. Il giudizio di appello si svolge
ed è retto dall’impulso di parte, tutta la disciplina rimette all’iniziativa delle parti
l’individuazione degli elementi su cui il giudice dell’appello dovrà pronunciarsi. Lo
scopo del giudizio di appello non è quello di ottenere l’annullamento della
precedente sentenza, bensì di ottenere una nuova sentenza, si parla del c.d.
effetto sostitutivo dell’appello. Ciò evidenzia la differenza tra le impugnative
processuali e quelle negoziali (annullamento, rescissione e risoluzione) che invece
hanno come scopo ottenere l’annullamento del negozio impugnato, mentre le
impugnazioni processuali hanno come scopo quello di ottenere una nuova
sentenza, poiché il fine del processo civile è sempre quello di ottenere il
provvedimento di merito indipendentemente dal giudice che lo emana.

Anche il passaggio davanti alla cassazione passa attraverso l’iniziativa della parte
soccombente, è essa che si vede riconosciuta la legittimazione ad impugnare, e lo
fa attraverso un atto che prende la forma del ricorso (si parla infatti di ricorso per
cassazione). Tale ricorso si inserisce nel sistema delle impugnazioni civili ordinarie,
ma la corte non svolge una funzione di garanzia soggettiva ma di garanzia
oggettiva, poiché attraverso le sue sentenze assolve alla funzione nomofilattica,
cioè assicurare l’esatta e uniforme interpretazione del diritto (art 65 ord. giudiz.).
Inoltre, mentre in appello si può denunciare qualsiasi errore del giudice
precedente, con il ricorso in cassazione si possono denunciare solo i vizi
tassativamente previsti nell’art 360 nei numeri da 1 a 5. Il ricorso per cassazione è
un ricorso a motivi limitati, solo quelli espressamente previsti dalla legge.

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Sono tre le caratteristiche le processo a cognizione piena, così come evidenziato
dal professor Protopisani: la prima è la predeterminazione a livello legale delle
forme e dei termini di svolgimento del processo, cioè è la legge che con precisione
indica e disciplina tutto i processo in ogni sua fase (introduttiva, istruttoria,
decisoria) indicando i soggetti legittimati a porre in essere gli atti, il contenuto degli
stessi e le modalità di svolgimento di determinate attività, ed è per questo che la
scuola fiorentina ritiene che il processo a cognizione piena rappresenti l’attuazione
concreta del principio della garanzia costituzionale dell’art 111 laddove si fa
riferimento al giusto processo regolato dalla legge (è proprio il processo a
cognizione piena in quanto esso prevede la predeterminazione da parte della legge
di tutte le regole di svolgimento);

la seconda è rappresentata dalla piena e anticipata attivazione del contraddittorio,


abbiamo visto che la domanda giudiziale proposta in forma di atto di citazione
viene prima portata a conoscenza del suo destinatario e poi incardinata presso
l’ufficio giudiziario adito, quindi il contraddittorio è attivato in maniera piena sin da
subito. Ciò avviene sia per il processo a cognizione piena che per il processo del
lavoro, sebbene per quest’ultimo la domanda giudiziale venga proposta in forma
diversa dall’atto di citazione, quella del ricorso, che ha una sequenza diversa ma il
contraddittorio è comunque attivato sin dall’inizio;

la terza caratteristica riguarda il provvedimento finale, il processo a cognizione


piena si chiude tendenzialmente con un provvedimento di merito del giudice che si
pronuncia sull’esistenza della situazione giuridica dedotta in giudizio dall’attore,
questo provvedimento, in presenza delle condizioni previste dalla legge, può
acquisire quella particolare stabilità che prende il nome di “autorità della cosa
giudicata”. La definizione di autorità della cosa giudicata la si trova all’art 2909 cc i
cui leggiamo che ” L’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato
fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”, vincola quindi in
maniera irrimediabile le parti, gli eredi e gli aventi causa. Queste caratteristiche
sono proprie sia del processo a cognizione piena col rito ordinario sia nel processo
a cognizione piena nel rito lavoro.

Il III libro del codice si occupa del processo di esecuzione. Il processo di


esecuzione non è soltanto uno, ce ne sono diverse forme. Ha come scopo quello
di consentire all’attore, chiamato parte esecutrice, che si è visto riconoscere un
diritto, le utilità sostanziali a cui ha diritto materialmente. Il processo esecutivo
nelle sue diverse forme si basa sempre sulla medesima tecnica, ovvero l’attività
sostitutiva dello Stato, lo Stato si surroga al debitore. Anche se poi dobbiamo
distinguere le diverse forme di processo esecutivo anche perché il legislatore ha
voluto dettare discipline diverse a seconda del diverso contenuto delle situazioni
sostanziali. Il processo esecutivo è messo in moto sotto impulso di parte, quindi
non d’ufficio, parte che prende il nome di creditore. Egli, per aprire tale processo,
deve avere in mano un titolo esecutivo, cioè un atto o provvedimento (detti titoli
esecutivi) fra quelli tassativamente indicati all’art 474 cpc che contenga
l’accertamento di esistenza del diritto di cui vuole il soddisfacimento. Questi titoli
esecutivi sono molto eterogenei e vanno dalla sentenza del giudice fino all’atto del
45
notaio. La sentenza del giudice viene richiamata all’art 474 anche se il riferimento è
soltanto alla sentenza di condanna, ossia una delle tre sentenze che si possono
chiedere al giudice della cognizione. Solo la sentenza di condanna è titolo
esecutivo, peraltro il legislatore del 1990 ha adottato la regola per cui la sentenza
di condanna anche di primo grado nasce provvisoriamente esecutiva ex lege (art
282 cpc), quindi chi propone una domanda di condanna non è tenuto a chiedere al
giudice di dichiarare la sentenza di accoglimento esecutiva, poiché essa nasce
esecutiva ex lege. Non è un dato scontato, per esempio in Francia non nasce
esecutiva, ma può diventarlo solo se ricorrono determinate situazioni. Si tratta di
una scelta fatta dal legislatore del 1990 tesa a valorizzare al massimo il processo di
primo grado: se le parti sanno che a conclusione di questo processo devono
pagare, è chiaro che giocheranno tutte le loro carte davanti al giudice di primo
grado, chi invece sa di poter aspettare anche il secondo grado, può mettere in atto
anche delle tattiche dilatorie, tenendosi delle informazioni per il giudice di secondo
grado e quindi guadagnare tempo. Si tratta di una scelta di politica processuale
del legislatore.

Accanto alla sentenza ci sono anche altri provvedimenti del giudice dotati di
efficacia esecutiva, per esempio alcuni provvedimenti emanati a conclusione dei
procedimenti speciali del IV libro che esamineremo (anche un decreto ingiuntivo,
che non nasce esecutivo, può essere dichiarato tale successivamente anche se in
modo provvisorio). Accanto ai provvedimenti del giudice sono richiamate al
numero 2 le scritture private autenticate, nonché i titoli di credito (cambiali,
assegno ecc.). in ogni caso, il titolo esecutivo è il presupposto essenziale per dare
avvio al processo esecutivo.

È importante sapere che di processi esecutivi ce ne sono di 3 tipi tra quelli


disciplinati in questo libro: il più importante, nonché quello a cui il codice dedica il
maggior numero di norme è quello di espropriazione forzata, procedimento diretto
a dare attuazione alle obbligazioni pecuniarie, quindi aventi ad oggetto il
pagamento di somme di denaro. Abbiamo poi le due forme di esecuzione in forma
specifica: quella per obbligo di consegna o rilascio, diretto a dare attuazione al
diritto del creditore di ottenere la consegna di un bene mobile o il rilascio di un
bene immobile, e deve trattarsi di bene infungibili. I beni immobili sono infungibili
per definizione, i beni mobili no, quindi per esempio l’opera d’arte rientra
nell’ambito applicativo di questo procedimento. Abbiamo poi l’esecuzione speciale
in forma specifica per obbligo di fare o non fare, qui si tratta di dare applicazione
ad obbligazioni di facere aventi carattere fungibile, perché se non fossero tali,
l’attività sostitutiva dello stato non sarebbe possibile (se si tratta del diritto ad
ottenere la distruzione del muro che mi impedisce di esercitare il mio diritto di
servitù, io non posso farmi giustizia da sola, ma devo munirmi di un provvedimento
esecutivo che accerta il mio diritto di servitù e condanna la controparte alla
distruzione dell’opera, se poi il mio vicino non procede spontaneamente potrò
ricorrere a questo particolare procedimento e quindi sarà lo stato a buttare giù
questo muro). Con riferimento al processo di espropriazione forzata, si tratta di un
procedimento piuttosto ampio e complicato anche perché nel suo ambito trova
46
attuazione il principio della par condicio creditorum. In base all’ 2740 cc infatti, il
debitore risponde delle proprie obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri. La
norma successiva fa riferimento ai creditori distinguendo i creditori chirografari da
quelli privilegiati stabilendo che “i creditori hanno uguale diritto ad essere
soddisfatti sui beni de debitore salve le cause legittime di prelazione” che sono
indicate al comma successivo. Il processo di espropriazione forzata è funzionale al
soddisfacimento ai diritti pecuniari. L’oggetto di tale processo è il patrimonio del
debitore, quindi c’è una differenza tra l’oggetto del diritto, che è la somma di
denaro, e l’oggetto del processo, che è il patrimonio del debitore esecutato. Per
questo, siccome il patrimonio dell’esecutato è la garanzia di tutti i creditori, in
questo procedimento trova attuazione il principio della par condicio creditorum,
quindi il procedimento è messo in atto da uno dei creditori che è munito di titolo
esecutivo, ma poi nel procedimento possono intervenire gli altri creditori dello
stesso debitore. Ciò comporta che aver avuto l’iniziativa non comporta avere la
certezza di essere soddisfatti né per primi né tantomeno per intero, perché
possono intervenire creditori privilegiati e che quindi si trovano in una posizione di
favore.

Come si svolge l’espropriazione forzata? Le fasi sono almeno tre: la prima fase è il
pignoramento, il cui scopo è quello di creare un vincolo di indisponibilità sui beni
facenti parte il patrimonio del debitore, e allora abbiamo una serie di disposizioni
che dettano le regole del pignoramento e che sono diverse in relazione alla natura
del bene oggetto del pignoramento, perché i diversi beni sono soggetti a regimi di
circolazione diversi: i beni mobili si trasferiscono sulla base di un trasferimento del
possesso, invece nella circolazione dei beni immobili ciò che è rilevante è la
trascrizione. Dovendo trovare un vincolo di indisponibilità il legislatore si è dovuto
confrontare sulle regole di circolazione che riguardano i diversi beni. Naturalmente
accanto a questi si pone anche il pignoramento dei crediti, probabilmente l’unica
forma di pignoramento che funziona;

all’indomani del pignoramento si apre, sempre su istanza di parte, la vendita


forzata, un procedimento volto a monetizzare il bene. Abbiamo tutte le forme di
vendita forzata. La vendita forzata si chiude con un provvedimento del giudice che,
previo pagamento, trasferisce il bene al suo aggiudicatario (l’acquirente);

a questo punto si apre l’ultima fase, ossia quella di distribuzione del ricavato in
base alle regole stabilite nel codice civile fra i creditori intervenuti nel processo
esecutivo a partire dai creditori privilegiati, che hanno il diritto di essere soddisfatti
per primi e per intero anche laddove siano intervenuti all’ultimo momento (è il
codice che indica le priorità anche tra i creditori che sono muniti di titoli di
prelazione). Si possono verificare tanti incidenti nell’ambito di esecuzione di questo
processo. Per es il creditore può voler contestare l’esistenza del titolo esecutivo. Ci
sono degli strumenti che consentono al debitore di far valere questi vizi e uno
strumento in particolare è l’opposizione. L’opposizione può avere come oggetto il
precetto o l’esecuzione, a seconda del momento in cui il debitore si attiva e questo
incidente determina l’apertura di un processo a cognizione piena, il processo
esecutivo va avanti e parallelamente si svolge il processo di opposizione che è più
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lungo in quanto si svolge secondo le regole del processo a cognizione piena. Può
anche essere uno degli altri partecipanti al processo a voler muovere una
contestazione, per esempio quando sono state violate le regole relative alla vendita
forzata, anche in questo caso esiste uno strumento rappresentato dall’opposizione
agli atti esecutivi, disponibile per tutti coloro che intervengono nel processo
esecutivo (debitori, ceditori o terzi interessati). Anche questo è un incidente che si
può verificare nel corso del procedimento anche se meno complicato perché si
svolge davanti al giudice dell’esecuzione. Ci sono poi tutte le contestazioni relative
al riparto del ricavato, anche i creditori possono litigare tra di loro riguardo le
priorità, e anche per queste problematiche esiste un apposito strumento
rappresentato dall’opposizione in sede di distribuzione (art 512)

I procedimenti di esecuzione forzata in forma specifica sono più semplici in quanto


l’oggetto del diritto qui coincide con l’oggetto del processo esecutivo. Sono due
procedimenti deversi: procedimento per obblighi di consegna o rilascio, in cui il
protagonista principale è rappresentato dall’ufficiale giudiziario che materialmente
va e consegna il bene all’avente diritto; il procedimento in forma specifica per
obblighi di fare o non fare, che ha come protagonista il giudice dell’esecuzione che
deve fissare le modalità di esecuzione del diritto e del corrispondente obbligo. Per
altro questo procedimento viene utilizzato anche per dare attuazione a
provvedimenti che riguardano persone (per es il diritto di visita dei minori), è uno
strumento più elastico e garantista, data la presenza principale del giudice. I
processi esecutivi però non svolgono una funzione esclusiva, in quanto il
legislatore al fine di dare attuazione concreta ai diritti riconosciuti come esistenti si
serve anche di istituti diversi che sono disciplinati nei codici e in leggi speciali.
Sicuramente il più importante strumento sono le misure coercitive art 614bis cpc.
La misura coercitiva è un provvedimento che minaccia al suo destinatario un
pregiudizio grave nel caso in cui non adempia ad un ordine del giudice, è la
minaccia di un pregiudizio peggiore di quello che gli deriverebbe dall’adempimento
spontaneo. È uno strumento di pressione sulla volontà del suo destinatario.

Le misure coercitive adesso trovano una previsione generalizzata all’interno


dell’art 614bis, inserito nel 1996 e che ha come contenuto una misura coercitiva
che consiste in una sanzione pecuniaria di tipo privatistico, cioè il giudice fissa la
somma che il destinatario dovrà consegnare alla controparte per ogni violazione o
per ogni ritardo nell’adempimento dell’ordine del giudice. Privatistico perché la
somma va pagata alla controparte. L’esigenza di prevedere le misure coercitive
nasce con riferimento a provvedimenti giurisdizionali non suscettibili di essere
attuati mediante la tecnica esecutiva, ossia con provvedimenti giudiziari aventi ad
oggetto obblighi infungibili, per es gli ordini inibitori, provvedimenti di condanna
alla cessazione di un certo comportamento.

Esempio. io sono proprietario di un fondo e il mio vicino comincia a passare su


questo affermando di essere titolare di un diritto di servitù che io ritengo
inesistente, in base all’art 1079 cc posso agire nei suoi confronti chiedendo
l’accertamento di non esistenza del diritto di servitù e la contestuale condanna alla
cessazione delle turbative e molestie. Questa condanna alla cessazione è un
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provvedimento inibitorio, in quanto ordina la non ripetizione nel futuro di una certa
condotta. L’obbligo di non fare è un obbligo infungibile perché può essere
adempiuto solo dal diretto interessato (se ordino a qualcuno di non ripetere una
certa condotta, nessuno può sostituirsi a lui). Quindi la tecnica esecutiva, che
consiste nell’attività sostitutiva dello stato rispetto al debitore, qui non può essere
utilizzata. L’unico strumento per ottenere l’attuazione di questo provvedimento è
appunto la tecnica coercitiva.

Il legislatore, prima del 96 non aveva previsto un sistema generale di misure


coercitive, ma esistevano singole previsioni di misure coercitive, per esempio nello
Statuto dei Lavoratori erano previste due misure coercitive sulla reintegra del
lavoratore illegittimamente licenziato (art 18), in cui si prevedeva che se esso fosse
stato un rappresentante sindacale e il datore di lavoro non avesse ottemperato alla
reintegrazione sul posto, quest’ultimo avrebbe dovuto versare sul fondo
adeguamento pensioni una somma di denaro pari alla retribuzione del lavoratore
(sanzione pecuniaria di tipo pubblicistico); ancora nello Statuto del Lavoratore
all’art 28 si prevede che se il datore non ottempera all’ordine di cessazione della
condotta antisindacale emesso dal giudice, il suo comportamento avrà rilevanza
penale. Tuttavia gli operatori pratici e teorici da tempo richiamavano l’attenzione
del legislatore ad introdurre un sistema tipico di misure coercitive perché, a parte
queste ipotesi, l’ordinamento prevedeva molte altre ipotesi di provvedimento
aventi ad oggetto obblighi di non fare infungibili e, stante il carattere tipico delle
misure coercitive, era difficile la possibilità di utilizzare queste previsioni dettate
con riferimento a fattispecie molto precise. Finalmente il legislatore decide di
rispondere a questa richiesta e detta l’art 614-bis, che inizialmente poteva essere
applicato solo a provvedimenti aventi ad oggetto obblighi di fare o non fare
infungibili. Successivamente è intervenuto e ne ha ampliato l’ambito applicativo,
infatti oggi può essere utilizzato in riferimento a qualsivoglia provvedimento salvo
quelli ad oggetto la condanna al pagamento di somme di denaro.

L’emanazione di queste misure è sempre subordinata ad una richiesta di parte e


ad una valutazione da parte del giudice, si tratta di una tecnica che si affianca alla
tutela esecutiva nel senso che è uno strumento diverso che però assolve alla
medesima funzione: assicurare l’attuazione pratica del provvedimento del giudice.

Esiste anche un altro istituto che può essere affiancato a questi, è l’art 2932 cc in
tema di contratto preliminare. La norma prevede che se una delle parti non
ottempera all’obbligo assunto, la controparte può recarsi di fronte al giudice, il
quale può emanare una sentenza che produce gli stessi effetti del contratto non
concluso (se si tratta di un contratto di compravendita, la sentenza produce
l’effetto traslativo). Siamo davanti a una sentenza molto particolare che però, in
base all’interpretazione preferibile, può assumere un duplice contenuto: cognitivo
da una parte, in quanto il giudice accerta il diritto e il corrispondente obbligo alla
stipula del contratto definitivo; esecutivo dall’altra poiché attua questo diritto. Il
provvedimento del giudice produce gli stessi effetti del contratto definitivo non
concluso spontaneamente. La possibilità di utilizzare questa tecnica si spiega in
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ragione della particolare natura del diritto inadempiuto, poiché si tratta di un diritto
che ha come oggetto la prestazione di una dichiarazione di volontà.

Il IV libro prende avvio con l’art 633, è il libro più eterogeneo perché qui il
legislatore ha inserito tutto ciò che non poteva essere compreso nei primi 3 libri. Si
tratta dei procedimenti speciali, ossia procedimenti a cognizione sommaria, dove
tale termine si contrappone a quello di cognizione piena. Cos’è un processo a
cognizione sommaria? Può essere spiegato sulla base di diverse considerazioni:
intanto la cognizione può essere sommaria perché parziale, e significa che il
giudice, almeno in una prima fase, ha di fronte a sé una sola parte. N.B. ricordare
che il contraddittorio è un principio costituzionale che non può essere derogato,
ma l’art 101 cpc ammette che in determinate ipotesi stabilite dalla legge esso
venga posticipato, cioè venga attivato non subito ma in un secondo tempo. È
quanto si verifica nel procedimento di ingiunzione, nella prima fase c’è solo il
creditore e il debitore non sa neppure che è stata proposta la domanda;

ma è sommaria anche perché è superficiale, anche quando il procedimento


speciale si svolge nel pieno contraddittorio delle parti, la sua cognizione è
superficiale. Il termine superficiale sta ad indicare che il giudice dei procedimenti
speciali non è tenuto ad applicare tutte le regole del II libro (in particolare tutte le
norme relative alle prove), ma deroga a tutte queste disposizioni, poiché è il
giudice stesso che procede nel modo che ritiene più opportuno secondo la
definizione offerta nell’art 669 sexies c.1 che possiamo ritenere un’ottima
definizione della cognizione sommaria vista come superficiale, in particolare è il
giudice a stabilire la modalità di acquisizione delle prove.

Questi procedimenti sommari si chiudono con provvedimenti che non hanno la


forma della sentenza ma hanno una forma diversa, più semplice, come quella
dell’ordinanza o del decreto. Questi provvedimenti sono diversi dalla sentenza non
soltanto perché hanno una forma più semplice, ma anche perché possono
acquistare una stabilità diversa da quella della sentenza, la sentenza civile è
suscettibile di acquistare l’autorità della cosa giudicata. Nella famiglia più
importante dei procedimenti speciali, quella delle misure cautelari, le ordinanze
sono per definizione provvisorie (art 669decies cpc afferma che l’ordinanza
cautelare può essere revocata e modificata in qualsiasi momento). Tutti i legislatori
prevedono i procedimenti speciali qualsiasi sia la disciplina del processo civile.
Perché? Quel è la ratio? Perché dietro a questi procedimenti si celano delle
esigenze che tutti i legislatori ritengono fondamentali e che in parte sono anche
facilmente comprensibili: innanzitutto l’esigenza di economia processuale, ossia
evitare i tempi e i costi della cognizione piena quando c’è una lite semplicemente
da pretesa insoddisfatta (quando c’è un debitore che non paga), ossia quando non
c’è una lite da pretesa contestata. In presenza di una situazione di questo tipo il
processo a cognizione piena è un spreco sia per lo Stato che per i privati perché i
costi di un processo a cognizione piena sono elevati. Per soddisfare l’esigenza di
economia processuale il legislatore predispone questi procedimenti speciali, tra cui
il più importante è proprio il procedimento di ingiunzione, teso al rilascio del c.d.
decreto ingiuntivo. Altro esempio è il procedimento per convalida di sfratto, volto
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ad ottenere un provvedimento di condanna al rilascio dell’immobile oggetto di un
contratto di locazione, perché il contratto è in scadenza o è già scaduto, oppure
perché il conducente è moroso, anche in questo caso non c’è una vera e propria
pretesa contestata, c’è un soggetto che non adempie. In entrambi casi il
legislatore salvaguardia il diritto di difesa del convenuto e quindi, se esso ha delle
contestazioni, ha la possibilità di aprire il processo a cognizione piena ( es il
debitore che si vede notificare il decreto ingiuntivo può fare opposizione a questo
entro il termine stabilito e aprire un processo che si svolge nelle forme garantite
della cognizione piena). Nel procedimento per convalida di sfratto se il conduttore
di fronte al giudice muove delle contestazioni, c’è subito il mutamento di rito.

Un’altra esigenza che il legislatore mira a soddisfare mediante la predisposizione


dei procedimenti speciali è rappresentata dall’esigenza di effettività della tutela
giurisdizionale. Il processo a cognizione piena ha una sua durata fisiologica, in
Italia patologica, e ci sono dei diritti che per il loro contenuto e la loro funzione non
possono essere lasciati insoddisfatti lungo tutto il tempo di svolgimento del
processo perché ad esempio ci sono situazioni che hanno un contenuto o una
funzione non patrimoniale. Un diritto di libertà o un diritto della personalità non si
può lasciare insoddisfatto per tutto il tempo del processo, oppure pensiamo a
diritti con contenuto patrimoniale ma che svolgono una funzione non patrimoniale,
come per esempio il diritto alla retribuzione o agli alimenti i quali sono diretti a
garantire la sopravvivenza di una persona. Per assolvere a questa funzione è
prevista una serie di procedimenti che svolgono la funzione di assicurare
l’effettività della tutela consentendo all’attore di ottenere in tempi rapidi un
provvedimento di tipo anticipatorio, ossia che anticipa il contenuto e gli effetti della
futura sentenza di accoglimento della domanda emanata al termine del processo a
cognizione piena.

L’esigenza di effettività della tutela è assolta anche secondo un diverso punto di


vista. Il legislatore ha presente che se si aspettano i termini di svolgimento del
processo a cognizione piena, si possono verificare dei fatti che rischiano di
pregiudicare la fruttuosità pratica della sentenza.

Esempio. Io sono creditrice di una somma di denaro, agisco verso il debitore per
ottenere un provvedimento di condanna all’adempimento e poi aprire un processo
esecutivo. Se io lascio il debitore libero di disporre del suo patrimonio per tutto il
tempo in cui attendo il decreto di condanna rischio di non trovare niente, per
evitare la dispersione del patrimonio ed assicurare la fruttuosità pratica della futura
sentenza, il legislatore mette a disposizione particolari provvedimenti, ossia le
misure cautelari di tipo conservativo, nel caso di specie il sequestro conservativo.

Il sequestro conservativo è un provvedimento che crea un vincolo di indisponibilità


sui beni del debitore (il processo va avanti ma tu non puoi disperdere i beni, cioè la
garanzia patrimoniale). Poniamo il caso in cui io litighi con il convenuto circa
l’appartenenza di un quadro che io ritengo che mi appartenga (perché l’ho pagato),
ma che il mio venditore non mi consegna. Se lo lasciassi nelle sue mani (debitore)
per tutto il tempo di svolgimento del processo, questo quadro potrebbe sparire in
vari modi. Per ovviare a ciò il legislatore ha predisposto la misura cautelare del
51
sequestro giudiziario dei beni, quando è controversa la proprietà o il possesso di
un bene è possibile ottenere il rilascio di una misura che affida il bene ad un
custode in modo che non possa essere toccato, cioè che la mia controparte non
ne possa godere né sul piano materiale né su quello giuridico. Anche il sequestro
giudiziale è una misura cautelare di tipo conservativo.

I procedimenti speciali possono essere divisi in 2 grandi famiglie: i procedimenti


sommari di tipo non cautelare, come il procedimento di ingiunzione e il
procedimento per convalida di sfratto; i provvedimenti sommari di tipo cautelare,
dette misure cautelari. Tra queste ultime, si segnala in modo particolare l’art 700 (il
provvedimento urgente), esso è l’unico provvedimento sommario che si connota
per la sua atipicità, il legislatore on ha tipizzato i casi in cui può essere richiesto
questo provvedimento. L’art 700 cpc infatti stabilisce che “Fuori dei casi regolati
nelle precedenti sezioni di questo capo, chi ha fondato motivo di temere che
durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia
minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al
giudice i provvedimenti d'urgenza, che appaiono, secondo le circostanze, più
idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito”. Qui la
norma non contiene l’indicazione dei casi in cui può essere richiesta la misura, ma
solo che può essere utilizzata per evitare un pregiudizio imminente e irreparabile,
inoltre afferma che spetta al giudice individuare il contenuto del provvedimento.
Nell’ottica del legislatore del ’42 essa doveva essere una misura residuale,
chiamata a coprire casi marginali ed episodici, invece è diventata l’asse portante
del sistema cautelare italiano. La Corte Costituzionale nel 19985 ha emanato una
sentenza in cui ha dichiarato che la tutela urgente, nella misura in cui è volta ad
evitare un pregiudizio irreparabile, è costituzionalmente doverosa”. Uguale
affermazione di principio la troviamo nella sentenza “Factortame” del 1990 della
corte di giustizia.

Per completare il quadro della materia si deve far riferimento ad altri due istituti: fra
le azioni costitutive necessarie ex art 2908 cc, ci sono dei casi in cui il legislatore
stabilisce che affinchè si producano determinati effetti giuridici, l’intervento del
giudice è indispensabile, quindi la sentenza diventa elemento della fattispecie da
cui deriva un determinato effetto giuridico. Per esempio, pensiamo
all’annullamento del matrimonio (art117 cc), per ottenerlo, i coniugi sono obbligati
a recarsi di fronte al giudice perché anche se sono d’accordo nell’esistenza di una
causa di annullamento del matrimonio, l’effetto annullamento non può essere
prodotto in via di autonomia privata, ma è indispensabile l’intervento del giudice.
Perché il legislatore prevede questi meccanismi? Evidentemente c’è un interesse
pubblico. Il legislatore vuole che il giudice, effettui un controllo circa l’esistenza dei
presupposti cui si correla la possibilità di ottenere l’effetto giuridico richiesto e,
siccome c’è un interesse pubblico, il legislatore non accetta che questo effetto si
produca automaticamente. Queste sentenze prendono il nome di sentenze
costitutive, la norma di riferimento è l’art 2908 cc.

Infine troviamo nelle ultimissime disposizioni del cpc negli artt. 737 ss. la disciplina
del procedimento di volontaria giurisdizione, il quale viene utilizzato dal nostro
52
legislatore nel momento in cui affida al giudice lo svolgimento di una serie di
funzioni molto diverse rispetto a quelle appena esaminate, poiché non si tratta di
funzioni giurisdizionali, ma funzioni che si prendono cura di particolari interessi (Ad
esempio interessi di cittadini che non sono in grado di prendersi cula di loro
stessi). Queste funzioni potrebbero essere affidate ad una autorità amministrativa,
ma il legislatore sceglie di attribuirle al giudice per le garanzie che esso offre
(autonomia e indipendenza). In questa categoria possiamo far rientrare funzioni
come ad esempio la nomina o rimozione dei rappresentanti legali dei minori o degli
incapaci, oppure l’autorizzazione al compimento di atti di straordinaria
amministrazione rispetto a patrimoni di questi particolari soggetti. Queste funzioni
sono svolte dal giudice attraverso il procedimento in camera di consiglio.

20/09/19
Nell’ordinamento troviamo una serie di disposizioni da cui possiamo trarre con
assoluta certezza un’indicazione molto importante, ovvero che l’oggetto del
processo, e per processo intendo fare riferimento a tutti i processi civili, è sempre
una SITUAZIONE GIURIDICA; possiamo parlare di diritto ma lo dovete intendere in
senso ampio, come indicazione di qualsiasi situazione giuridicamente rilevante a
prescindere dalla sua struttura, e che anche l’oggetto della tutela giurisdizionale è
la stessa situazione giuridica.

Queste disposizioni le rinveniamo non soltanto nel cpc, ma anche nel codice civile,
abbiamo infatti già ricordato che il codice civile è stato scritto prima del codice di
procedura e in esso il legislatore ha anticipato una serie di regole processuali che
poi non ha riscritto nel momento in cui ha redatto il codice di procedura; col
risultato che l’operatore poi deve continuare a muoversi sui due testi e integrarli
l’uno con l’altro.

La prima norma l’abbiamo già letta più volte, ci accompagna in ogni lezione ed è
l’art 24 Cost. 1° comma, laddove si legge che “tutti possono agire in giudizio per
la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”; dalla lettura di questa disposizione si
trae chiaramente che l’oggetto dell’azione, così come l’oggetto della tutela, sono
proprio i diritti e gli interessi legittimi.

Ancora, andiamo nel cpc, all’art 99 cpc che enuncia il PRINCIPIO DELLA
DOMANDA, è uno degli istituti che presidia la terzietà del giudice; lo possiamo
tradurre come il DIVIETO DI INIZIATIVA UFFICIOSA, quindi il giudice civile non può
emanare provvedimenti che nessuno gli ha chiesto, soltanto perché gli sembrano
adatti, così come non può, tanto meno, aprire un processo di fronte a sè.

L’art 99 cpc così recita: “chi vuol far valere un diritto in giudizio, deve proporre
domanda al giudice competente”. Ancora una volta appare molto chiaramente il
collegamento tra la DOMANDA e la SITUAZIONE GIURIDICA, cioè il diritto che si
fa valere in giudizio, e su cui il giudice dovrà statuire.

Ancora, l’art 81 cpc si occupa della cosiddetta LEGITTIMAZIONE AD AGIRE, è


uno dei requisiti extraformali relativi alle parti, cioè indica chi può proporre la
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domanda giudiziale. In verità la norma si occupa delle eccezioni, cioè si occupa dei
casi di SOSTITUZIONE PROCESSUALE, ovvero dei casi tassativamente indicati
dalla legge in cui taluno è ammesso a far valere in nome proprio un diritto altrui, e
dice che fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere
nel processo in nome proprio un diritto altrui. Vedete ancora una volta c’è un
collegamento chiaro fra l’AZIONE e la SITUAZIONE DI DIRITTO, fra la SITUAZIONE
DI DIRITTO e il PROCESSO.

Passando al codice civile, possiamo soffermarci innanzitutto sull’art 2907 cc, che
si occupa ancora del PRINCIPIO DELLA DOMANDA, anche se se ne occupa
nell’ottica visuale del giudice, l’art 99 cpc è scritto invece nell’ottica della parte, e il
2907 così recita: “alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria
su domanda di parte e quando la legge lo dispone anche su istanza del pubblico
ministero o d’ufficio.”

Vedete, al di là del contenuto della norma che poi approfondiremo, anche in


questo caso è molto evidente il collegamento fra la DOMANDA DI PARTE e la
SITUAZIONE DI DIRITTO, fra la SITUAZIONE DI DIRITTO e la TUTELA
GIURISDIZIONALE.

E poi l’art 2697 cc, che è la norma centrale in tema di PROVE, e in cui troviamo
enunciato il PRINCIPIO DELL’ONERE DELLA PROVA, cioè è la norma che
stabilisce chi nel processo deve provare che cosa, e così recita: “chi vuol far valere
un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”, poi la
seconda parte che non rileva per l’argomento trattato stabilisce che “chi eccepisce
l’inefficacia di tali fatti, ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto,
deve provare tali fatti su cui l’eccezione si fonda”. A noi interessa il 1° comma
perché anch’esso fa emergere il collegamento fra la DOMANDA DI PARTE, quindi
fra l’AZIONE che viene esercitata, e il DIRITTO fatto valere in giudizio.

Allora quello che possiamo trarre dalla lettura di queste disposizioni è che
l’oggetto del processo è la SITUAZIONE GIURIDICA, è il DIRITTO fatto valere in
giudizio, e che questo stesso diritto costituisce l’oggetto della tutela
giurisdizionale.

Noi sappiamo che il giudice risponde alla domanda giudiziale con un


provvedimento finale, che generalmente ha la forma della SENTENZA, per cui
possiamo dire che questa situazione giuridica, che è oggetto del processo,
costituirà l’oggetto anche della sentenza, se il processo raggiunge il suo esito
fisiologico.

Ora, il provvedimento finale, come abbiamo anticipato nella lezione di ieri, in


presenza delle condizioni indicate dalla legge, acquista una particolare stabilità,
che è l’autorità della COSA GIUDICATA, la sentenza “passa in giudicato”, acquista
l’autorità della cosa giudicata, che trova la propria norma di riferimento nell’art
2909 cc, che recita: “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato
fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”.

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Il GIUDICATO è il risultato a cui tende il PROCESSO A COGNIZIONE PIENA, che
abbiamo detto essere lo strumento di tutela generale predisposto
dall’ordinamento. Dalla lettura di queste disposizioni possiamo argomentare che
l’oggetto del giudicato coincide, tendenzialmente (ci possono infatti essere delle
situazioni che incidono sull’ampiezza del giudicato), con il DIRITTO oggetto del
processo, diritto che viene fatto valere in giudizio dall’ATTORE, che è colui che si
rivolge al giudice perché ha subito la crisi di cooperazione.

Infatti dalla lettura delle norme del cpc noi possiamo evidenziare che è proprio
l’attore, nel momento in cui apre il processo, proponendo la domanda, a fissarne
l’oggetto, a individuare la situazione giuridica con riferimento alla quale invoca la
tutela.

Abbiamo già ricordato che il secondo libro disciplina 2 moduli di processo civile:

1) il processo civile secondo il RITO ORDINARIO, che è il modello generale;

2) e il processo civile secondo il RITO LAVORO, che si applica solo alle


controversie di cui all’art 409, e oltre alle controversie in materia di previdenza
e locatizie.

La differenza fra ATTO DI CITAZIONE, che è l’atto introduttivo del processo a


cognizione piena secondo il rito ordinario, e il RICORSO, che è l’atto introduttivo
invece del processo secondo il rito lavoro, è che l’atto di citazione è un atto
complesso, la cui disciplina è all’art 163 ed è un atto che contiene sia l’esercizio
del diritto di azione, la cosiddetta editio actionis, sia l’attivazione del
contraddittorio, perché come abbiamo anticipato l’ATTO DI CITAZIONE, una volta
redatto, viene prima portato a conoscenza del suo destinatario attraverso il
procedimento di notificazione, e solo dopo che l’atto è stato portato a conoscenza
del suo destinatario la causa viene incardinata presso il giudice adito.

Il RICORSO invece contiene soltanto l’editio actionis, quindi l’esercizio del diritto
d’azione, perché il ricorso, una volta che è stato redatto, viene presentato all’ufficio
giudiziario adito, sarà il giudice a fissare con decreto in calce al ricorso la data
della prima udienza, dopodiché il ricorso e il decreto contenente la fissazione della
data dell’udienza vengono notificati al convenuto.

Ai fini dei limiti oggettivi del giudicato mi interessa solo l’editio actionis, quindi il
sottoatto di esercizio del diritto di azione.

Per rispondere alla domanda relativa a come si individua il diritto possiamo fare
riferimento all’art 163 cpc, che si occupa del contenuto dell’atto di citazione,
indicando i requisiti di forma-contenuto dell’atto di citazione.

L’art 163 indica ben 7 requisiti, ai fini dell’editio actionis però rilevano soltanto 3 di
questi 7 requisiti.

Come fa l’attore a dedurre in giudizio la propria situazione giuridica? Il diritto con


riferimento al quale invoca la tutela da parte del giudice? Lo deve individuare.

E allora abbiamo gli elementi identificativi del diritto, che sono 3:

1. abbiamo l’elemento soggettivo, quindi le PARTI, che è il requisito di cui al n.2


dell’art 163;

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2. abbiamo l’indicazione della COSA oggetto della domanda, che è il requisito di
cui al n.3;

3. poi abbiamo l’indicazione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le


RAGIONI della domanda; ed è il requisito di cui al n.4.

—> questi sono gli elementi identificativi di qualsiasi diritto, di qualsiasi situazione
giuridicamente rilevante.

Andiamo a vedere nel dettaglio il profilo soggettivo: chi sono le PARTI? La nozione
di parte è in realtà una nozione polivalente, ora, ai fini della individuazione del
diritto fatto valere in giudizio rileva soltanto la nozione in senso sostanziale di
parte —> PARTE è colui che si afferma titolare, sul lato attivo e sul lato passivo di
una determinata situazione giuridica.

Pensiamo sempre a situazioni semplici per adesso, che appartengono quindi sul
lato attivo e su quello passivo a una sola parte.

Le parti in senso sostanziale sono quindi gli affermati titolari attivi e passivi della
situazione giuridica. Quindi, se viene dedotta in giudizio un’obbligazione
pecuniaria, le parti sostanziali saranno il CREDITORE e il DEBITORE, cioè chi ha il
diritto di pagare e chi ha l’obbligo di pagare.

Se viene dedotto in giudizio, viene esercitata un’azione di rivendica che ha ad


oggetto il diritto di proprietà ma è un’azione di condanna in cui il proprietario
chiede non soltanto l’accertamento del diritto, ma chiede anche la restituzione del
bene, il titolare attivo sarà il PROPRIETARIO, il titolare passivo sarà la parte che ha
nelle sue mani il bene rivendicato.

Come vi ho detto, questa non è l’unica accezione del termine “parte”, perché nel
processo si parla anche di parte in senso formale; diciamo che, generalmente le
parti in senso formale e la parti in senso sostanziale coincidono, perché di solito
sono proprio le parti sostanziali che fanno valere in giudizio le proprie situazioni
giuridiche, però ci sono molti casi in cui si ha una scissione, tra la parte in senso
sostanziale e la parte in senso formale.

Lo stesso n.2 dell’art 163 fa riferimento ad uno dei casi in cui si verifica questa
scissione, laddove parla dei RAPPRESENTANTI, così recita infatti il n.2: “l’atto di
citazione deve contenere il nome, il cognome, la residenza, e il codice fiscale
dell’attore, il nome e il cognome e il codice fiscale, residenza e domicilio del
convenuto, e delle persone che rispettivamente li rappresentano o li assistono; se
attore o convenuto è una persona giuridica, un’associazione non riconosciuta o un
comitato, la citazione deve contenere la denominazione o la ditta, con l’indicazione
dell’organo o ufficio che ne ha la rappresentanza in giudizio.”

Ecco, la rappresentanza non si riferisce soltanto alle persone fisiche, ma anche alle
persone giuridiche, e anche a quegli enti che non sono persone giuridiche, ma che
comunque non sono nemmeno persone fisiche, come appunto i comitati o le
associazioni non riconosciute.

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Chi sono i RAPPRESENTANTI? I rappresentanti sono sempre delle parti che


agiscono in nome e per conto di altri; non sono quindi titolari della situazione
giuridica dedotta in giudizio, ma agiscono in nome e per conto di altri; quindi non
sono soggetti ad alcun effetto, materialmente agiscono nel processo, quindi
saranno loro attraverso il difensore tecnico evidentemente presente a ricevere gli
atti processuali, ma non sono soggetti né agli effetti della sentenza, perché la
sentenza statuisce su una situazione che non appartiene a loro, né saranno
soggetti agli effetti processuali tipo l’obbligo di pagamento delle spese, perché
agiscono in nome altrui; sono quindi degli estranei rispetto al processo.

Ma nella nozione di parte in senso formale rientrano anche i LEGITTIMATI


STRAORDINARI, ovvero rientra la previsione dell’art 81, cioè coloro che, in base a
espressa previsione di legge, agiscono in nome proprio per un diritto altrui —>
ecco la differenza rispetto ai rappresentanti —> il legittimato straordinario agisce in
nome proprio per un diritto altrui.

Vi faccio un esempio: l’azione surrogatoria (art 2900 cc) —> il creditore può
sostituirsi al debitore nell’esercizio delle azioni poste a tutela del patrimonio. Il
presupposto dell’azione surrogatoria è che il debitore sia inerte, non si curi del
patrimonio, non si cura di conservare la garanzia patrimoniale; l’art 2900 consente
al creditore di agire in nome proprio, ma per conto del debitore, quindi di far valere
in giudizio i diritti facenti parte il patrimonio del debitore. —> questo è il classico
esempio di sostituzione processuale/legittimazione straordinaria.

Allora il legittimato straordinario NON è parte in senso sostanziale, perché per


definizione fa valere in giudizio una situazione giuridica che appartiene ad altri, ma
la fa valere in nome proprio, per cui non è soggetto agli effetti della sentenza,
perché la sentenza statuisce su una situazione giuridica che non gli appartiene, ma
è soggetto agli effetti del processo, per cui al pagamento delle spese processuali.

Quindi ai fini dell’individuazione della situazione giuridica dedotta in giudizio,


rilevano soltanto le parti in senso sostanziale!

Il secondo profilo di identificazione del diritto è il n.3 dell’art 163 = l’OGGETTO


della cosa oggetto della domanda.

Si parla generalmente di petitum della domanda. Intanto dobbiamo fare una


distinzione importante fra l’oggetto IMMEDITATO, o petitum immediato, e
l’oggetto/petitum MEDIATO.

L’oggetto IMMEDIATO è il tipo di provvedimento che l’atto richiede, perché il


giudice civile può offrire 3 diversi tipi di tutela:

1) la tutela di mero accertamento;

2) la tutela di condanna;

3) la tutela costitutiva;

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Non è il giudice a scegliere, ma è l’ATTORE che deve indicare al giudice il
provvedimento che chiede. Quindi l’attore deve indicare al giudice il tipo di tutela
che intende ottenere.

Naturalmente ai fini di questo discorso interessa l’altra nozione di oggetto, il


petitum MEDIATO o SOSTANZIALE, ovvero l’indicazione, come diceva Giuseppe
Chiovenda, del bene della vita per cui si agisce, quindi la somma di denaro, il bene
immobile. L’espressione bene della vita rende perfettamente l’idea dell’oggetto
mediato/sostanziale.

Infine, i fatti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda; si parla in
questo caso di CAUSA PETENDI. Per capire che cosa essa sia e che cosa vi rientri
dobbiamo recuperare una nozione di teoria generale del processo e del diritto,
ovvero la nozione di fattispecie giuridica: ogni situazione giuridica, a prescindere
dalla sua struttura, possiamo ricostruirla come l’effetto giuridico di una determinata
fattispecie. Cioè la legge stabilisce, attraverso le sue norme, che alla presenza di
una serie di fatti, scaturisce l’effetto giuridico —> questi fatti prendono il nome di
FATTISPECIE COSTITUTIVA.

Facciamo degli esempi per capire: parliamo di quali siano i fatti costitutivi del
diritto di proprietà, e sono i modi di acquisto della proprietà, quindi la
compravendita, la successione, la donazione, l’accessione, la specificazione,
l’usucapione —> questi sono i possibili fatti costitutivi del diritto di proprietà.

Parliamo delle obbligazioni, quali sono i loro fatti costitutivi? Sono le FONTI delle
obbligazioni, quindi il fatto illecito, i contratti, e gli atti unilaterali —> questi sono i
cosiddetti fatti costitutivi, vanno a comporre la cosiddetta fattispecie costitutiva,
sono i fatti che debbono sussistere affinché la fattispecie costitutiva si perfezioni e
quindi l’effetto giuridico possa prodursi.

Attenzione, io ho fatto degli esempi molto semplice, ma nella realtà spesso queste
sono delle fattispecie costitutive complesse; intanto non sempre la fattispecie
costitutiva si compone di un solo elemento, ma è possibile che si componga di 2 o
più elementi, ed è anche possibile che questi elementi vengano ad esistenza in
momenti temporali diversi; per cui si parla di una fattispecie costitutiva a
formazione progressiva; quindi finché la fattispecie non si è perfezionata, e questo
richiederà un certo lasso di tempo, l’effetto giuridico non sorge, perché la
fattispecie deve essere perfetta, affinché l’effetto sorga.

Facciamo un esempio banale: pensiamo a un contratto che è soggetto a termine


iniziale; il termine iniziale è elemento costitutivo, è fatto costitutivo che verrà ad
esistenza in un momento sicuramente successivo alla stipula del contratto. Quindi,
gli effetti del contratto non sorgono nel momento stesso in cui il contratto viene
stipulato, ma solo nel momento in cui matura il termine iniziale.

Quindi vedete una fattispecie costitutiva complessa, formata dal contratto + il


termine e a formazione progressiva, perché due elementi non vengono ad
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esistenza contemporaneamente, visto che il termine iniziale di solito è spostato in
avanti rispetto alla stipula del contratto.

La congenie dei fatti costitutivi rappresenta la CAUSA PETENDI, la causa della


situazione giuridica dedotta in giudizio, il titolo della domanda.

E qui possiamo però introdurre fin da ora una distinzione che ha rilevanza sulla
disciplina processuale, perché la fattispecie costitutiva non sempre svolge una
funzione identificativa; ci sono situazioni giuridiche che si individuano sulla base
del solo CONTENUTO. Si parla di diritti autodeterminati, in contrappunto ai diritti
eterodeterminati.

I diritti eterodeterminati rappresentano la regola generale, sono diritti con


riferimento ai quali il fatto costitutivo svolge una funzione identificativa, per cui in
assenza dell’indicazione del fatto costitutivo, il diritto non si individua.

Pensiamo a un’obbligazione pecuniaria: se io mi limito ad affermare che sono


creditrice nei confronti del convenuto di 100 euro, senza indicare il titolo del mio
diritto, la CAUSA PETENDI, il diritto non è individuato, perché questi 100 euro io
posso essere obbligata a pagarli ad esempio come prezzo del contratto di
compravendita, come rata del mutuo, come canone di locazione, ma se io non
indico il titolo del mio diritto, la CAUSA PETENDI, quindi il contratto di
compravendita, il contratto di locazione o il contratto di mutuo, io la situazione
giuridica non l’ho individuata; dire sono creditrice di 100 non vuole dire niente, non
si sa qual è il diritto che io intendo far valere.

I diritti eterodeterminati, appunto tipo le obbligazioni pecuniarie, sono diritti che


possono sussistere più volte nello stesso arco temporale fra due parti; perché io
posso anche essere creditrice di 100 + 100 + 100, perché con la mia controparte
ho stipulato sia un contratto di compravendita, sia uno locazione che uno di
mutuo, e questo non paga niente; quindi, se io non indico la CAUSA PETENDI il
diritto non è individuato.

Ai diritti eterodeterminati si contrappongono invece i diritti autodeterminati, e


questi sono le situazioni giuridiche che si individuano sulla base del solo
contenuto, perché sono situazioni giuridiche che nello stesso arco temporale
possono sussistere una sola volta fra due parti. Esempio più banale ne è la
proprietà: se io affermo di essere proprietaria di questo codice, io ho già
individuato il diritto, la situazione giuridica; che io questo codice lo abbia
acquistato con un contratto di compravendita, o che l’abbia usucapito, o che
l’abbia acquistato tramite donazione, è indifferente, perché il diritto è già
individuato, ed è la proprietà del codice; ecco quindi, che con riferimento a questa
classe di situazioni giuridiche, il fatto costitutivo NON svolge una funzione
identificativa. Vedremo che questo avrà delle conseguenze sul piano processuale.

Dobbiamo completare un po’ il quadro, perché abbiamo detto che nell’ambito del
processo è l’ATTORE che tendenzialmente fissa l’oggetto del processo, indicando
le parti, indicando il petitum e indicando la causa petendi, però sappiamo che nel
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processo vige il PRINCIPIO DEL CONTRADDITTORIO, dobbiamo quindi fare i
conti con il destinatario della domanda, la parte nei cui confronti viene invocata
tutela, la quale a sua volta è titolare di una serie di poteri processuali, che sono i
poteri di difesa del CONVENUTO, che possono incidere sull’oggetto del processo.

Quali sono questi poteri? Il convenuto ha 4 poteri:

- il potere più limitato è il potere di mera difesa, che ha ad oggetto i fatti


costitutivi fatti valere in giudizio dall’attore; attraverso la mera difesa il convenuto
contesta l’esistenza dei fatti costitutivi, quindi non introduce un elemento di
novità, ma contesta la causa petendi, o una parte della causa petendi, che
l’attore ha posto a fondamento della sua domanda. È un comportamento che ha
una rilevanza? Sì. Ha una rilevanza molto importane, perché nel processo civile
vige il PRINCIPIO DI NON CONTESTAZIONE (art 115 cpc). Il processo civile
abbiamo già detto avere generalmente ad oggetto diritti disponibili, e se
l’oggetto del processo è un diritto disponibile, il giudice, in base all’art 115, è
tenuto a ritenere esistenti i fatti che non sono controversi fra le parti; quindi, se il
convenuto non contesta uno o più di uno dei fatti che l’attore ha posto a
fondamento della sua domanda, il giudice ritiene quei fatti esistenti.
Naturalmente, qualcosa il convenuto deve contestare, perché se non contesta
niente rischia di vedere accolta la domanda. Viceversa, se il convenuto contesta
in maniera specifica i fatti che l’attore ha posto a fondamento della sua
domanda, questi fatti diventano CONTROVERSI fra le parti, e quindi scatta
l’ONERE DELLA PROVA; quindi, la parte interessata, che in questo caso è
l’attore, avrà l’onere di provare l’esistenza di questi fatti. Naturalmente il
principio di non contestazione vale anche nei confronti del convenuto.

- c’è poi il potere di eccezione, il potere di sollevare eccezioni, in particolare in


questo momento mi interessa l’eccezione cosiddetta di merito, che è uno
strumento processuale per il cui tramite il convenuto deduce in giudizio i fatti a
sé favorevoli. Tornando alla nozione di fattispecie, abbiamo parlato finora di
quella costitutiva, dei fatti costitutivi la cui esistenza è necessaria perché l’effetto
giuridico sorga; ma la nozione di fattispecie è una nozione più ampia, non c’è
solo quella di fattispecie costitutiva; nella fattispecie giuridica, da cui scaturisce
l’effetto giuridico, si rinvengono anche fatti che hanno un effetto opposto
rispetto ai fatti costitutivi, e sono i fatti MODIFICATIVI, ESTINTIVI e
IMPEDITIVI; i fatti cioè il cui effetto è quello di determinare il venir meno o la
modifica dell’effetto giuridico che è sorto; quindi sono fatti che sono favorevoli al
convenuto. Ora, quando l’attore agisce in giudizio, in base all’art 163, è tenuto
ad allegare alla sua domanda soltanto i fatti costitutivi, e dalla lettura dell’art
2697, in tema di onere della prova, il professor Giovanni Fabbrini, che è stato
titolare della cattedra di procedura civile per tanti anni a Firenze, ha desunto il
cosiddetto PRINCIPIO DI SEMPLIFICAZIONE della fattispecie, cioè dalla lettura
di queste norme si trae che all’attore il legislatore consente di agire in giudizio
allegando e provando soltanto i fatti a sé favorevoli, cioè i fatti costitutivi. 

Dall’art 2697 si ricava infatti che sta al convenuto, se vuole, allegare in giudizio i
60
fatti a sé favorevoli, quindi i fatti modificativi, estintivi, impeditivi, che, se
controversi fra le parti, se oggetto di contestazione da parte dell’attore,
dovranno essere provati dallo stesso convenuto; perché l’art 2697 dice che
“ciascuna parte ha l’onere di provare i fatti a sé favorevoli”. Quindi se il
convenuto esercita il suo potere di eccezione, si determinerà nel processo un
ampliamento dei fatti giuridicamente rilevanti, che il giudice dovrà accertare.

- ha poi il potere di proporre domanda riconvenzionale, cioè il convenuto può


farsi attore del suo attore, quindi, io attore agisco chiedendo il pagamento del
prezzo, il convenuto in via riconvenzionale mi chiede la consegna del bene —>
questa è la classica domanda riconvenzionale; io attore agisco per l’esecuzione
del contratto, il convenuto in via riconvenzionale propone domanda di
annullamento del contratto. Quindi la domanda riconvenzionale è una vera e
propria domanda giudiziale, è una domanda che è proposta in un processo che
è già aperto, una domanda proposta in corso di causa ma comunque una vera e
propria domanda giudiziale. Quindi, è una domanda per il cui tramite il
convenuto deduce in giudizio una situazione giuridica ulteriore rispetto a quella
che ha già dedotto in giudizio l’attore, e quindi si ha un ampliamento
dell’oggetto del processo —> il giudice si dovrà pronunciare non su una
domanda, ma su due domande, e l’art 36, che si occupa proprio della domanda
riconvenzionale, per favorire il cumulo di queste due domande, che sono spesso
legate da nessi di connessione molto intensi, permette alla deroga di alcuni dei
criteri di competenza, perché le due domande, se prese separatamente, magari
sono domande destinate a essere portate davanti a due giudici diversi, perché
la competenza appartiene a due uffici giudiziari diversi. 

Quindi attraverso la domanda riconvenzionale si ha, innanzitutto un
ampliamento dell’oggetto del processo, perché l’oggetto di questo processo a
questo punto sono due situazioni giuridiche: quella introdotta dall’attore
attraverso la DOMANDA ORIGINARIA, e quella introdotta dal convenuto
attraverso la DOMANDA RICONVENZIONALE; naturalmente aumenteranno
anche i fatti che il giudice dovrà accertare, perché la domanda riconvenzionale
porta con sé tutti i fatti costitutivi e modificativi, estintivi, impeditivi della
seconda situazione giuridica.

- ha inoltre il potere di chiamare in causa un terzo, quindi è il potere di suscitare


un intervento su istanza di parte (art 106 cpc), il quale porta ad un ampliamento
in senso soggettivo del processo —> c’è un terzo che acquista la qualità di
parte, perché l’intervento su istanza di parte, la chiamata in causa del terzo
consiste nella proposizione di una domanda giudiziale, e si ha generalmente
anche un ampliamento in senso oggettivo, quindi si aggiunge un’altra situazione
giuridica che corre fra il convenuto e il terzo che viene chiamato.

Attraverso l’esercizio quindi dei POTERI DI DIFESA del CONVENUTO si può avere
un ampliamento, vuoi dell’oggetto del processo, vuoi del cosiddetto materiale
61
cognitivo, quindi dei fatti che il giudice dovrà accertare ai fini dell’esistenza o non
esistenza dei diritti oggetto del processo.

Torniamo al giudicato.

Abbiamo visto che è l’ATTORE, attraverso la domanda o le domande giudiziali


(l’attore può proporne anche due contemporaneamente), e il CONVENUTO, se a
sua volta si attiva proponendo la domanda riconvenzionale, a fissare l’oggetto del
processo; ed è su questo oggetto che il giudice si pronuncerà con sentenza.

Abbiamo rilevato a inizio lezione che tendenzialmente l’oggetto della sentenza


coincide con l’oggetto del processo, così come fissato dalle parti.

Prendiamo in considerazione l’ipotesi più banale, un processo semplice fra un


attore e un convenuto, avente ad oggetto una sola domanda —> come fa il giudice
a rispondere alla domanda giudiziale? È già emerso oggi che al giudice possono
essere richieste diverse forme di tutela, è possibile richiedere la tutela di mero
accertamento, è possibile richiedere la tutela di condanna, o la tutela costitutiva,
ma ognuna di queste sentenze contiene sempre la condotta di accertamento
sull’esistenza o non esistenza del diritto che l’attore ha dedotto in giudizio, anzi,
precisiamo meglio: se il giudice accoglie la domanda dell’attore, la sentenza
conterrà per primo l’accertamento di esistenza del diritto, e poi conterrà quel
qualcosa in più che l’attore gli ha chiesto, per esempio la condanna del convenuto.
Se invece il giudice rigetta la domanda, il rigetto della domanda sarà sempre una
sentenza di accertamento negativo, cioè una sentenza che rifiuta la richiesta
dell’attore perché il giudice ha accertato che il diritto invocato dall’attore non
esiste. Allora come fa il giudice a pronunciarsi sull’esistenza o non esistenza del
diritto fatto valere in giudizio? Il giudice è chiamato a svolgere una serie di attività,
e queste attività possono essere sintetizzate in due questioni: il giudice è chiamato
a risolvere infatti la QUESTIONE DI FATTO (la QUAESTIO FACTI), e la
QUESTIONE DI DIRITTO (la QUAESTIO IURIS) —> l’attività giurisdizionale del
giudice possiamo sintetizzarla in questo schema, che è lo schema del
SILLOGISMO GIUDIZIALE. Il giudice fissa la premessa minore, che è la
QUESTIONE DI FATTO, fissa la premessa maggiore, che è la QUESTIONE DI
DIRITTO e successivamente, in base a un’attività logico-deduttiva trae la sua
conclusione, ossia l’accertamento dell’esistenza o della non esistenza del diritto
fatto valere in giudizio.

In cosa consiste la QUESTIONE DI FATTO? Ha ad oggetto tutti i fatti


giuridicamente rilevanti che sono entrati nel processo; quindi la congenie di fatti
costitutivi, modificativi, estintivi e impeditivi che le parti hanno introdotto nel
processo. Per adesso limitiamoci a questa definizione, poi torneremo sui veicoli
per mezzo dei quali questi fatti possono entrare legittimamente nel processo.

Quello che possiamo fin da subito chiarire, è che i fatti non possono entrare nel
processo su iniziativa del giudice, quindi sul giudice civile grava il cosiddetto
DIVIETO DI UTILIZZAZIONE DELLA PROPRIA SCIENZA PRIVATA. Quindi, anche
se il giudice ha una conoscenza privata dei fatti che hanno rilevanza con
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riferimento al processo che pende di fronte a lui, non li può utilizzare; così come
non può andare a fare l’investigatore; il giudice civile non è un investigatore, quindi
deve svolgere la sua attività e deve statuire sull’esistenza o non esistenza del
diritto sulla base di ciò che emerge lecitamente dagli atti giudiziali.

Dico sempre ai miei studenti che il processo è come una sorta di scatola: il giudice
guarda ciò che è entrato nella scatola, ma non può essere lui a far entrare in
giudizio i fatti giuridicamente rilevanti. Il divieto di utilizzazione della scienza privata
è un limite che grava sul giudice civile, che NON trova espressione normativa, non
lo trovate espresso nel codice di procedura italiano (il codice francese invece lo
enuncia espressamente), il codice italiano invece non contiene questa indicazione
ma è una regola d’oro, una regola che nessuno mette in discussione; perché?
Perché si tratta di un principio che presidia la garanzia di TERZIETA’ e
IMPARZIALITA’ del giudice.

Come fa il giudice ad accertare l’esistenza o non esistenza dei fatti? Abbiamo già
prima incidentalmente introdotto il PRINCIPIO DI NON CONTESTAZIONE —> se il
processo civile, come generalmente avviene, ha ad oggetto diritti disponibili, ha
una rilevanza determinante la circostanza che il singolo fatto entrato nel processo
sia controverso o meno fra le parti; perché se non c’è controversia fra le parti, il
giudice lo ritiene esistente, quindi non c’è bisogno di andare a svolgere attività
istruttoria/processuale in genere. Se invece c’è una contestazione fra le parti, nel
senso che una delle parti dice “è vero”, e l’altra parte dice “no non è vero”, allora
scatta l’ONERE DELLA PROVA. Abbiamo già detto in base all’art 2697 che l’onere
della prova scatta a carico della parte nel cui interesse il fatto opera. Quindi, sarà
interesse di quella parte chiedere al giudice l’acquisizione di mezzi di prova il cui
scopo è convincere il giudice che il fatto esiste. Naturalmente la controparte potrà
esercitare i suoi poteri probatori contrari: cioè potrà chiedere l’assunzione di prove
diretti a convincere il giudice che quel fatto non esiste —> pensate all’incidente
stradale: l’attore danneggiato porterà una serie di testimoni che ricostruiranno una
certa dinamica dei fatti, facilmente il convenuto porterà testimoni che diranno cose
esattamente contrarie. Quindi la prova diretta e la prova contraria; sta al giudice
valutare secondo il suo prudente apprezzamento, art 116 cpc, come si sono svolti
i fatti; quindi se i fatti giuridicamente rilevanti esistono o non esistono.

Ora, se il giudice vuole emanare una sentenza di accertamento, in cui dichiara che
il diritto esiste, il giudice dovrà accertare tutti i fatti costitutivi, perché abbiamo
detto che tutti i fatti costitutivi sono indispensabili perché il diritto nasca; ma dovrà
accertare anche la non esistenza di tutti i fatti modificativi, estintivi e impeditivi;
perchè? Perché è sufficiente che un solo fatto modificativo, estintivo o impeditivo
esista, per impedire al giudice di dichiarare l’esistenza del diritto, almeno nei
termini in cui l’attore l’ha prospettato. Quindi se la sentenza è una sentenza di
accertamento positivo, allora l’attività cognitiva del giudice è ampia, perché dovrà
soffermarsi su tutti i fatti che sono stati introdotti nel processo.

Se però il giudice si rende conto che uno dei fatti costitutivi non esiste, oppure si
rende conto che uno dei fatti modificativi, impeditivi, estintivi esiste, è fondato, per
esempio la prescrizione, che è di facilissimo accertamento perché si basa sul
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decorso del tempo, basta fare due calcoli, per il giudice è sufficiente, potrà
immediatamente emanare una sentenza dichiarativa della non esistenza del diritto,
e di conseguenza rigettare la domanda, è inutile andare a svolgere attività
processuale quando non c’è bisogno, quindi l’accertamento negativo si può
basare su un solo fatto = la non esistenza di un fatto costitutivo o l’esistenza di un
fatto modificativo, estintivo, impeditivo; gli altri fatti il giudice non li guarda
nemmeno, si ha una cosiddetta DICHIARAZIONE DI ASSORBIMENTO: il giudice
non statuisce su questi fatti.

Quindi, con riferimento alla QUAESTIO FACTI, questa è dominata dal PRINCIPIO
DISPOSITIVO, perché sono le parti a regolare l’introduzione dei fatti in processo,
non il giudice, su cui grava il divieto di utilizzazione della scienza privata.

Con riferimento invece alla QUESTIONE DI DIRITTO, quindi la premessa


maggiore del sillogismo giudiziale, la regola è opposta, ovvero vige in Italia il
principio iura nomi curia (?) —> è il giudice che liberamente individua e interpreta
la norma di diritto da applicare al caso concreto. Quindi in Italia le parti possono
naturalmente indicare al giudice gli elementi di diritto, la norma che ritengono
applicabile al caso concreto; l’attore che agisce per il risarcimento del danno può
indicare al giudice che si tratta di una forma di responsabilità contrattuale, ma il
giudice non è vincolato a quest’indicazione. La regola generale in italia è che la
norma di diritto NON svolge funzione individuatrice del diritto, la norma non rientra
tra gli elementi di identificazione della situazione giuridica, per cui il giudice non va
ad intaccare la situazione giuridica che il giudice ha fissato nel processo; è
totalmente libero il giudice, tranne casi eccezionali.

D’altra parte già ci siamo soffermati sull’art 101.2: “il giudice è soggetto soltanto
alla legge”, quindi nessuno si può mettere fra il giudice e la norma.

Quindi con riferimento alla QUAESTIO IURIS c’è una regola contraria rispetto a
quella che abbiamo visto valere rispetto alla QUAESTIO FACTI, cioè il giudice
utilizza proprio la propria scienza privata, il proprio sapere professionale. Sarà il
giudice quindi ad individuare la norma da applicare al caso concreto, ma
naturalmente dovrà agire nel rispetto del PRINCIPIO DEL CONTRADDITTORIO,
cioè, una volta individuata la norma, una volta che l’ha ricostruita, deve dare alle
parti la possibilità di esporre le proprie ragioni. Perché, tornando ai vostri studi di
diritto sostanziale, un conto è configurare rispetto a una certa fattispecie una
forma di responsabilità contrattuale, un altro conto è prospettare una
responsabilità extracontrattuale: intanto perché varia la fattispecie costitutiva,
perché nella responsabilità extracontrattuale il danneggiato che cosa deve
provare? Art 2043 cc: l’elemento soggettivo, il dolo e la colpa della controparte,
quindi si allarga la fattispecie costitutiva per l’attore; nella responsabilità
contrattuale, in base all’art 1218 cc, l’elemento soggettivo non ha rilevanza, conta
l’impossibilità della prestazione eventualmente. E poi perché le conseguenze sono
diverse: attraverso la responsabilità contrattuale probabilmente si ottiene un
risarcimento più ampio rispetto alla responsabilità extracontrattuale. Quindi non è
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neutra l’applicazione di una o di un’altra norma; questa è una scelta carica di
conseguenze per le parti, che quindi devono poter esercitare i propri poteri, quindi
il giudice è libero nella individuazione della norma da applicare, ma nel rispetto del
PRINCIPIO DEL CONTRADDITTORIO.

Una volta risolta la QUAESTIO FACTI e la QUAESTIO IURIS allora il giudice


formulerà la propria conclusione. Quindi, una volta che la fattispecie è stata
dedotta in giudizio, il giudice subito deve individuare la norma, quindi deve subito
chiarirsi se si tratta di una colpa di responsabilità contrattuale o extracontrattuale,
per fare un esempio banale. Poi si passerà all’accertamento dei fatti rilevanti, e
successivamente il giudice formulerà la propria conclusione affermando l’esistenza
o la non esistenza del diritto al risarcimento del danno, per esempio.

È su questo accertamento di esistenza o non esistenza del diritto fatto valere in


giudizio che si forma il GIUDICATO SOSTANZIALE (art 2909): “fa stato fra le parti,
gli eredi, gli aventi causa”, ha ad oggetto che cosa? L’accertamento contenuto
nella sentenza; l’accertamento di che cosa? Di esistenza o non esistenza del diritto
fatto valere in giudizio dall’attore.

E qui si pone una prima complicazione, e qui cominciamo a parlare dei LIMITI
OGGETTIVI del GIUDICATO. Perché io fino ad adesso io vi ho fatto degli esempi
semplici, degli esempi in cui i fatti giuridicamente rilevanti avevano la struttura del
fatto storico, però non è sempre così, perché spesso i fatti giuridicamente rilevanti
hanno invece natura non di fatto storico, ma di fatto-diritto, cioè sono l’effetto di
un’autonoma fattispecie. Vi faccio un esempio: se io agisco per ottenere
l’adempimento del credito ereditario, io sono l’erede e agisco nei confronti del
debitore del decuius per avere l’adempimento del credito ereditario, fatto
costitutivo del diritto ad ottenere il pagamento, è la mia qualità di erede —> la
qualità di erede NON è un fatto storico, è uno status, è una situazione
giuridicamente rilevante, è l’effetto di un’autonoma fattispecie giuridica.

Un altro esempio: io agisco per ottenere il risarcimento del danno che il convenuto
ha causato ad un bene di mia proprietà —> fatto costitutivo rispetto al mio diritto
ad ottenere il risarcimento del danno è la proprietà del bene: intanto io posso
chiedere ed ottenere il risarcimento del danno in quanto sia la proprietaria del bene
che è stato danneggiato. Allora la proprietà è fatto costitutivo, e sappiamo bene
non essere un fatto storico, è una SITUAZIONE DI DIRITTO, è una situazione
giuridicamente rilevante, è l’effetto giuridico di un’autonoma fattispecie.

Ma, se così è, negli esempi che vi ho proposto, appare evidente che questi fatti-
diritti, avendo la consistenza della situazione giuridica, essendo effetti giuridici di
autonome fattispecie, potrebbero essere dedotti nell’ambito di autonomi processi,
perché i processi possono essere aperti in riferimento a qualsivoglia situazione
giuridica.

Da qui la domanda: se nell’ambito del processo, torniamo ai nostri esempi, che io


erede ho aperto nei confronti del debitore del decuius per ottenere l’adempimento
del credito ereditario, il mio convenuto contesta la qualità di erede, dice “no tu non
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sei l’erede”, e quindi il giudice, trattandosi di un fatto-diritto, ma fatto oggetto del
processo è il credito ereditario, non la qualità di erede, quindi il giudice si trova di
fronte a un fatto costitutivo, fatto che non è fatto storico, ma è un fatto-diritto, che
è controverso fra le parti, che quindi deve accertare in base alla regola che
abbiamo introdotto precedentemente. Questo accertamento del fatto-diritto che fa
parte della fattispecie giuridica da cui trae origine il diritto oggetto del processo, il
diritto oggetto della domanda originaria, è un accertamento che il giudice compie
con autorità di cosa giudicata, oppure no? Non è una domanda banale, perché il
giudice, trattandosi di una fatto, seppur un fatto-diritto, controverso fra le parti,
deve svolgere attività cognitiva, deve accertare se esiste la qualità di erede, oppure
se non esiste. Certo il convenuto potrebbe non contestare questa qualità di erede,
e allora il giudice la ritiene per buona, quindi qui non svolge alcuna attività
cognitiva, ma se la contesta, il giudice deve svolgere un accertamento per
rispondere alla domanda che gli è stata proposta, allora è del tutto legittimo
chiedersi se questo accertamento è svolto con autorità di cosa giudicata, quindi se
anche questa seconda situazione giuridica sarà accertata con autorità di cosa
giudicata.

Allora, intanto cerchiamo di introdurre un po’ di terminologia tecnica: quando una


situazione giuridica è elemento della fattispecie giuridica da cui trae origine un
altro effetto giuridico, si ritiene che fra le due situazioni giuridiche intercorra una
relazione che prende il nome di CONNESSIONE PER PREGIUDIZIALITA’
DIPENDENZA, e che cos’è? È una relazione che può intercorrere fra due situazioni
giuridiche e che consiste in ciò che l’una, detta RAPPORTO PREGIUDIZIALE o
PRINCIPALE, è elemento della fattispecie giuridica da cui trae origine l’altro
rapporto, che prende il nome di RAPPORTO DIPENDENTE; ecco perché si parla di
CONNESSIONE PER PREGIUDIZIALITA’ DIPENDENZA, c’è un rapporto principale/
pregiudiziale e un rapporto dipendente.

Nell’esempio che io vi ho proposto, è la qualità di erede ad essere il rapporto


pregiudiziale, ed è il credito ereditario ad essere il rapporto dipendente; è la
proprietà ad essere il rapporto pregiudiziale, e il risarcimento del danno è il
rapporto dipendente.

Io vi ho fatto degli esempi semplici in cui il rapporto pregiudiziale ha la rilevanza di


fatto costitutivo, però purtroppo le cose sono più complicate, perché il rapporto
pregiudiziale può avere anche la rilevanza d fatto modificativo, estintivo,
impeditivo. Vi faccio un esempio banale: la compensazione. Cos’è? È uno dei
modi di estinzione dell’obbligazione. Consiste in un controcredito. Allora la
compensazione, sul piano processuale è un fatto estintivo, perché determina il
venir meno dell’obbligazione. Esiste in questo caso un rapporto di connessione
per pregiudizialità dipendenza fra i due crediti; ma il controcredito eccepito in
compensazione ha rilevanza di fatto estintivo, non di fatto costitutivo.

Però ragioniamo soltanto sull’ipotesi più semplice: il rapporto pregiudiziale ha


rilevanza di fatto costitutivo rispetto al rapporto dipendente, che è l’oggetto della
domanda originaria, questa è la situazione che stiamo esaminando.

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Torniamo alla nostra domanda: cosa fa il giudice che si trova di fronte ad un fatto
costitutivo che ha la consistenza del fatto-diritto e che è controverso fra le parti?
Lo accerta con autorità di cosa giudicata o senza autorità di cosa giudicata? La
risposta a questo quesito noi la ritroviamo nell’art 34 cpc —> è la norma intorno
alla quale viene ricostruita tutta la teoria dei limiti oggettivi del giudicato: “il giudice
se per legge o per esplicita domanda di una delle parti è necessario decidere con
efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene per materia o
valore alla competenza di un giudice superiore, rimette tutta la causa a
quest’ultimo, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della
causa davanti a lui.” Allora, intanto l’art 34 fa parte di quella sequela di disposizioni
di articoli da 31 a 36 che vi ho detto per favorire il cumulo processuale consente la
deroga alla competenza, ma questo profilo non ci interessa adesso, ci interessa
soltanto la prima parte —> “il giudice se per legge o per esplicita domanda di una
delle parti è necessario decidere con efficacia di giudicato una questione
pregiudiziale…” —> intanto cos’è una QUESTIONE PREGIUDIZIALE? È proprio
quello di cui stiamo parlando, è un fatto giuridicamente rilevante che è controverso
fra le parti; quindi i fatti giuridicamente rilevanti prendono il nome di punti
pregiudiziali, se controversi diventano una QUESTIONE PREGIUDIZIALE. Qui
abbiamo una questione pregiudiziale che ha la consistenza del fatto-diritto.

Allora, questa norma mi dice che “il giudice, se per legge o per esplicita domanda
di una delle parti…”, quindi mi dice questa norma che il giudice accerta la
questione pregiudiziale con autorità di cosa giudicata se imposto dalla legge o se
viene proposta una domanda da una delle parti. In base a una lettura al contrario
della disposizione si desume che se non è imposto dalla legge, e se non è
richiesto da una delle parti, questo accertamento è svolto senza autorità di cosa
giudicata. Quindi quello che questo articolo enuncia una regola restrittiva in punto
dei limiti oggettivi del giudicato.

Che cos’è questa domanda di parte? Tornando agli esempi, io propongo domanda
di adempimento ereditario, il mio convenuto contesta la mia qualità di erede. A
questo punto l’attore può, in sede di replica, proporre una seconda domanda:
chiedere al giudice di accertare la qualità di erede con autorità di cosa giudicata
—> è la domanda di accertamento incidentale, prevista proprio dall’art 34; ma può
essere anche il convenuto: a fronte della mia domanda di adempimento del credito
ereditario il convenuto contesta la mia qualità di erede e propone in via
riconvenzionale o in via di domanda di accertamento incidentale una domanda di
accertamento negativo della mia qualità di erede, chiede al giudice di accertare
che io non sono l’erede.

Quindi questa è la DOMANDA DI ACCERTAMENTO INCIDENTALE.

Oppure si fa riferimento alla legge: ci sono delle ipotesi in cui è la legge a imporre
che la questione pregiudiziale che ha la natura, l’essenza, la consistenza del fatto-
diritto venga sempre accertata con autorità di cosa giudicata.

Un esempio è proprio la COMPENSAZIONE —> l’art 35 si occupa della


compensazione e da questo si desume che se il convenuto solleva un’eccezione di
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compensazione, quell’eccezione in realtà è una domanda; attraverso l’eccezione di
compensazione, il convenuto chiede al giudice di accertare con autorità di cosa
giudicata l’esistenza del suo controcredito.

Altre ipotesi che troviamo con riferimento a una serie di fattispecie in cui c’è una
particola esigenza di certezza, per cui si vuole che certe situazioni vengano
sempre accertate con autorità di cosa giudicata —> ad esempio, in tema di
verificazione della SCRITTURA PRIVATA oppure in tema di QUERELA DI FALSO:
sono due istituti che studieremo quando parleremo delle prove documentali.

Torniamo all’art 34: questo somministra una regola restrittiva in punto di limiti
oggettivi del giudicato, perché vi dice che le questioni pregiudiziali, quindi i fatti
giuridicamente rilevanti che sono controversi fra le parti e che hanno la
consistenza del fatto-diritto, come regola generale vengono accertati senza
autorità di cosa giudicata.

Cosa vuol dire accertare senza autorità di cosa giudicata? Vuol dire che questo
accertamento è, in gergo tecnico, incidens per tantum(?), cioè è un accertamento
che vale solo ai fini della causa in corso, della causa originaria. La conseguenza è
che questo altro diritto, il rapporto pregiudiziale, potrà essere dedotto in un
autonomo processo, perché il primo accertamento non acquisterà mai autorità di
cosa giudicata, e quindi lascia aperta la possibilità di un secondo e autonomo
processo.

Naturalmente l’ordinamento processuale corre un grosso rischio, perché il


secondo giudice potrebbe arrivare a conseguenze opposte rispetto a quelle
stabilite dal primo giudice, quindi il primo giudice potrebbe aver accertato,
incidens per tantum, che la qualità di erede sussiste, e quindi ha accolto la
domanda di adempimento del credito ereditario, successivamente l’attore propone
una domanda di accertamento della sua qualità di erede di fronte a un secondo
giudice, il quale accerta che la sua qualità di erede non sussiste.

È un rischio che l’ordinamento processuale accetta, e lo fa per motivi di economia


processuale, perché ritenere che tutti i rapporti pregiudiziali controversi fra le parti
vengano accertarti con autorità di cosa giudicata significherebbe complicare
troppo il processo originale.

Per cui, se le parti hanno interesse, possono proporre la DOMANDA DI


ACCERTAMENTO INCIDENTALE ex art 34, ma se non lo fanno, il processo va
avanti solo sulla domanda originaria, quindi solo sul rapporto dipendente.

Il rischio è che si formino due sentenze, due giudicati in contraddizione —> si parla
di una contraddittorietà logica, perché i due giudicato NON hanno lo stesso
oggetto: il primo giudicato ha ad oggetto il rapporto dipendente, e il secondo ha
ad oggetto il rapporto pregiudiziale. Per cui la contraddittorietà corre tra l’oggetto
della sentenza che ha ad oggetto il rapporto pregiudiziale, e il presupposto logico
della sentenza che ha ad oggetto il rapporto dipendente.

Ma questa contraddizione logica è un rischio che l’ordinamento accetta e questa


conclusione la traiamo sul disposto dell’art 34, che non lascia adito ad alcun
dubbio.

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Quindi la regola generale è che l’ordinamento processuale italiano ha accolto una
nozione ristretta dei limiti oggettivi del giudicato. Ci sono invece dei settori in cui si
è affermata in via dottrinale una nozione più ampia dei limiti oggettivi del
giudicato , in deroga a quanto previsto dall’art 34.

Torniamo ora al GIUDICATO, abbiamo detto che l’autorità di cosa giudicata è il


risultato a cui tende il processo a cognizione piena, un accertamento circa
l’esistenza o non esistenza dell’oggetto del processo, che è individuato dalle parti,
generalmente l’attore.

Quando si forma il giudicato? Dobbiamo distinguere una nozione FORMALE di


giudicato e una nozione SOSTANZIALE: la nozione SOSTANZIALE è quella che
offre l’art 2909, che cos’è l’autorità di cosa giudicata? È questo “fare stato fra le
parti, gli eredi e gli aventi causa”.

Il giudicato FORMALE che cos’è? È la condizione necessaria ma non sufficiente


perché si formi il giudicato sostanziale. Una sentenza passa in giudicato formale,
dice l’art 24 del codice di procedura civile, “se non è più soggetta né al
regolamento di competenza, né all’appello, né al ricorso per cassazione, né a
revocazione…” allora da questa disposizione si trae che passa in giudicato formale
la sentenza che non è più soggetta ai mezzi di impugnazione ordinari, che sono
quelli indicati dall’art 324.

Quand’è che una soggetta non è più soggetta ai mezzi di impugnazione? Sono
due le ipotesi:

1) le parti hanno esaurito tutti i possibili mezzi di impugnazioni, siamo arrivati alla
fine del sistema dei mezzi di impugnazione; a quel punto non c’è più alcuno
strumento ordinario per attaccare la sentenza, ci sono quelli straordinari.

2) le parti lasciano inutilmente decorrere i termini per impugnare, perché tutti


questi mezzi di impugnazione sono soggetti a termini posti a pena di
decadenza; per esempio —> l’APPELLO è il secondo grado di giudizio e deve
essere proposto entro 6 mesi dalla pubblicazione della sentenza, che è il
deposito della sentenza nella cancelleria o, se la parte vittoriosa la notifica,
entro 30gg dalla notifica. Notificare la sentenza consente di far correre il
termine veloce di impugnazione. RICORSO PER CASSAZIONE è soggetto al
termine lungo, 6 mesi dal deposito della sentenza in cancelleria, o al termine
breve, che però è di 60gg dalla notificazione della sentenza.

Se le parti lasciano inutilmente decorrere i termini per impugnare che sono
posti a pena di decadenza e non possono quindi essere sforati, il mezzo di
impugnazione non è più esperibile, e quindi la sentenza passa in giudicato
formale, quindi non è più aggredibile attraverso mezzi di impugnazione ordinari.

Abbiamo detto che il giudicato formale è condizione necessaria ma non sufficiente,


perché? Perché una sentenza che è passata in giudicato formale può acquistare
l’autorità della cosa giudicata se è una SENTENZA DI MERITO, quindi se è una
sentenza che contiene l’accertamento di esistenza o non esistenza del diritto fatto
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valere in giudizio; se invece è una sentenza che chiude IN RITO il processo, perché
il giudice accerta che non esistono le condizioni perché si pronunci sul merito,
quella sentenza è suscettibile di passare in giudicato formale ma non può
acquistare l’autorità della cosa giudicata materiale, perché non c’è il contenuto.

Quindi questo è il momento in cui si forma il giudicato sostanziale.

Sulla natura del giudicato sostanziale i processual civilisti ci hanno praticamente


sbattuto la testa da sempre, si discute in dottrina se il giudicato ha una natura
sostanziale o ha una natura formale: ovvero, se l’essenza del giudicato è la regola
di condotta che il giudicato detta alle parti, e che regola quindi il rapporto giuridico
fra le parti, oppure se l’essenza del giudicato consiste nel vincolo che il giudicato
opera e che ha come destinatari tutti i giudici dell’ordinamento, che non possono
tornare a occuparsi della situazione giuridica, ormai accertata con autorità di cosa
giudicata. È un dibattito che non si è mai risolto.

Quello che rimane è sicuramente quello che diceva Giuseppe Chiovenda, cioè che
una volta che si forma l’autorità della cosa giudicata, una volta che si forma il
giudicato sostanziale, a nessun giudice può essere chiesto di rimettere in
discussione il bene della vita che la prima sentenza ha riconosciuto o
disconosciuto; quindi non si può chiedere a un secondo giudice di disconoscere il
bene della vita che il primo giudicato ha attribuito, o non li si può chiedere di
riconoscere un bene della vita che invece è stato dal primo giudicato negato.

Su che cosa si basa il GIUDICATO?

Possiamo dire che si basi su 2 meccanismi:

A) PRECLUSIONE DA DEDOTTO E DEDUCIBILE: è fatto divieto alle parti di


portare di fronte a un secondo giudice la situazione già accertata in una
sentenza passata in giudicato sulla base di fatti diversi rispetto a quelli portati
di fronte al primo giudice, ma fatti che erano comunque deducibili di fronte al
primo giudice —> quindi fatti già esistenti nel momento in cui il primo
processo si è svolto. Ne tanto meno sulla base degli stessi fatti discussi
davanti al primo giudice.

Ecco il DEDOTTO e il DEDUCIBILE = fatti già dedotti, e fatti non dedotti ma
che già esistevano e quindi avrebbero potuto essere dedotti; e questo a
prescindere del se la parte interessata ne era a conoscenza o meno.

Non è quindi possibile mettere in discussione l’accertamento coperto
dall’autorità di cosa giudicata sulla base di fatti già dedotti o comunque già
esistenti e quindi deducibili di fronte al primo giudice.

B) IRRILEVANZA RISPETTO ALLA LEGGE SOPRAVVENUTA ANCHE SE CON


EFFICACIA RETROATTIVA: irrilevanza rispetto alla situazione già accertata in
una sentenza coperta dell’autorità della cosa giudicata della nuova legge, della
legge sopravvenuta, anche se legge avente efficacia retroattiva. Quindi se la
materia oggetto della sentenza passata in giudicato viene sottoposta ad una
nuova disciplina da parte del legislatore, quindi la normativa che ha applicato il
primo giudice viene sostituita con una normativa completamente diversa, e a
70
questa nuova legge viene attribuita efficacia retroattiva, l’accertamento
contenuto in una sentenza passata in giudicato, seppure fondato sulla
normativa abrogata NON può essere messo in discussione.

Come possiamo spiegare questi due meccanismi? Riprendendo la definizione di


Virgilio Andrioli, che diceva che l’autorità della cosa giudicata interrompe la
relazione che intercorre fra una certa fattispecie e la norma generale e astratta. Nel
momento in cui si forma l’autorità della cosa giudicata, è il giudicato a dettare la
lex specialis, la norma che regola quella fattispecie.

Tutte le vicende che riguardano la norma generale astratta sono indifferenti rispetto
a quella fattispecie, perché quella fattispecie trova la propria lex specialis nel
giudicato.

Naturalmente questa affermazione è un’affermazione che è destinata a creare dei


problemi, perché voi sapete che non esiste soltanto un ordinamento, esistono più
ordinamenti che si intersecano uno con l’altro; e quindi primo punto problematico
riguarda il rapporto fra il giudicato e l’ordinamento costituzionale: cosa succede se
la norma sulla cui base è stata emanata la sentenza coperta dall’autorità della cosa
giudicata viene dichiarata incostituzionale dalla corte. È un quesito complesso;
generalmente si ritiene che valga la regola che abbiamo introdotto con riferimento
alla legge sopravvenuta: che quindi questa dichiarazione di incostituzionalità non
abbia rilevanza sul giudicato.

Problemi certamente più complessi si creano invece nei rapporti con gli
ordinamenti sovranazionali: ci sono stati dei casi in cui la corte di giustizia europea
ha dichiarato che la sentenza europea ha prevalenza rispetto al giudicato. C’è la
famosa sentenza Lucchini che ha scompaginato assiomi che si ritenevano
indistruttibili; ma sono problematiche molto complesse e come spesso avviene
nello studio dei rapporti fra l’ordinamento europeo e l’ordinamento nazionale, ciò
che ci sta alla base è la considerazione di una serie di conseguenze pratiche,
concrete, economiche, che probabilmente spesso sono alla base della pronuncia
della corte suprema europea.

Mi limito solo a introdurvi queste problematiche per farvi capire che anche questo
giudicato è esposto a dei pericoli, però non nell’ordinamento nazionale.

Per oggi mi fermo qua, nella prossima lezione vedremo i casi in cui i limiti oggettivi
del giudicato sono ampi.

26/09/19
(chiarimento sui diritti eterodeterminati e autodeterminati: è una distinzione che si
appunta sul ruolo svolto dal fatto costitutivo.

Si parla di diritti autodeterminati con riferimento a situazioni giuridiche con


riferimento alle quali il fatto costitutivo non svolge un ruolo individuatore, perché la
71
situazione giuridica si identifica sulla base del solo petitum. L’esempio classico
sono i diritti assoluti, tipo il diritto di proprietà, il quale è un diritto autodeterminato,
perché il fatto costitutivo non è individuatore, che io abbia acquistato questo
codice sulla base di un contratto di compravendita o per successione è
assolutamente indifferente, è il petitum a identificarlo, è una situazione giuridica
che in un certo arco temporale può sussistere una sola volta fra due persone;

al contrario si parla di diritti eterodeterminati con riferimento a tutte le hp in cui il


fatto costitutivo svolge un ruolo individuatore. La mancata indicazione del fatto
costitutivo mi impedisce di identificare il diritto. Se io affermo che sono creditrice
di 100 euro da lei, finché non indico il fatto costitutivo (un mutuo, una
compravendita, un contratto, di locazione..) non si capisce di cosa si sta parlando,
perché una situazione giuridica avente ad oggetto, in questo caso il pagamento di
una somma di denaro, può sussistere più volte nello stesso arco temporale fra due
soggetti, perché io posso essere creditrice nei suoi confronti contemporaneamente
di 100 a titolo di mutuo, di 100 a titolo di prezzo del contratto di compravendita e
di 100 a titolo di pagamento del canone locativo. Quindi in ragione di questa
diversa struttura il ruolo del fatto costitutivo è diverso, e questo avrà delle enormi
ripercussioni sulla disciplina processuale).

Anche la lezione di oggi è dedicata ai limiti oggettivi del giudicato. Per questo
ripartiamo dall’art. 34, perché abbiamo già chiarito nella scorsa lezione che si tratta
della norma di riferimento.

L’art. 34 dice che “il giudice, se per legge o per esplicita domanda di una delle
parti è necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale
che appartiene per materia o valore alla competenza di un giudice superiore,
rimette tutta la causa a quest’ultimo, assegnando alle parti un termine perentorio
per la riassunzione della causa davanti a lui”.

Abbiamo detto che l’art. 34 si inserisce in una serie di disposizioni che al fine di
favorire il cumulo processuale consentono la deroga ai criteri originari di
competenza (però in questo momento questi spostamenti di competenza non ci
interessano).

Quello che mi interessa è invece la prima parte della disposizione. Il problema che
l’art. 34 risolve è questo: abbiamo detto che il giudice, al fine di statuire sulla
esistenza o non esistenza del diritto fatto valere in giudizio, vede risolvere le
questioni di fatto e la questione di diritto. Le questioni di fatto interessano tutti i
fatti giuridicamente rilevanti ai fini del diritto fatto valere in giudizio, dell’effetto
dedotto in giudizio. Ogni diritto, ogni situazione giuridica ha l’effetto giuridico di
una certa fattispecie, all’interno della quale acquistano rilevanza:

- i fatti costitutivi, cioè i fatti la cui esistenza è indispensabile perché l’effetto


sorga, e

- i fatti modificativi, estintivi, impeditivi, che invece hanno un effetto opposto,


perché determinano il venir meno o la modifica dell’effetto sorto in presenza
di fatti costitutivi, una volta che si è perfezionata la fattispecie costitutiva.

72
Abbiamo altresì detto che questi fatti giuridicamente rilevanti possono avere lo
spessore del fatto storico oppure essere, a loro volta, situazioni giuridiche, effetti di
autonome fattispecie, che sono richiamati da un’altra norma. Gli esempi che vi ho
proposto e su cui vi consiglio di ragionare è quello innanzitutto della domanda di
adempimento del credito ereditario e la qualità di erede la qualità di erede è
fatto costitutivo rispetto al diritto da parte dell’erede di pretendere l’adempimento
del credito appartenente al de cuius.

Il secondo esempio è quello della domanda di risarcimento del danno proposta


con riferimento al danno che ha subito un determinato bene. Anche in queste hp è
evidente che la proprietà del bene è fatto costitutivo rispetto al diritto a ottenere
risarcimento del danno, perché solo il proprietario ha diritto di essere risarcito.

La questione che ci siamo posti è quella relativa al se il giudice del processo


avente ad oggetto originario il rapporto dipendente, che nel primo caso è il credito
ereditario, nel secondo caso è la domanda risarcitoria, debba accertare con
autorità di cosa giudicata anche il rapporto giuridico che funge da fatto costitutivo,
che ha rilievo di fatto costitutivo.

Abbiamo evidenziato che il giudice laddove uno dei fatti giuridicamente rilevanti è
controverso fra le parti deve accertare l’esistenza o meno di questo fatto. Abbiamo
detto che questa regola vale a prescindere dal se il fatto sia un fatto storico oppure
un fatto diritto, un fatto che ha la consistenza dell’effetto giuridico, perché è
l’effetto di un’autonoma fattispecie.

Abbiamo detto che la soluzione di questa questione ci è somministrata dall’art. 34,


perché se noi leggiamo l’art. 34 al contrario dobbiamo desumere che solo e
soltanto se imposto dalla legge o in presenza di una domanda di parte la
questione pregiudiziale viene accertata con autorità di cosa giudicata. Dal che si
desume che se la legge non lo prevede e se manca una domanda di parte questo
accertamento non è coperto dall’autorità della cosa giudicata.

Quindi l’art. 34 somministra una regola ristretta in punto di limiti oggettivi del
giudicato. Questa è una scelta che ha fatto l’ordinamento in maniera consapevole,
riprendendo teorie formulate da Giuseppe Chiovenda, e che ha alla sua base
l’esigenza di favorire la rapida chiusura del processo. Perché non è indifferente che
l’oggetto del processo sia semplice o complesso, se l’oggetto è complesso, se
cioè a una domanda originaria si somma un’altra domanda la disciplina
processuale si appesantisce ed entrano in gioco tutta una serie di meccanismi che
condizionano tutto lo svolgimento del processo.

Vi ho altresì fatto notare che, dal momento in cui il legislatore ha adottato una
regola restrittiva come quella enunciata nell’art. 34, l’ordinamento ha accettato un
rischio, ovvero il rischio che si formino sentenze logicamente contraddittorie. Dal
momento in cui il primo giudice accerta l’esistenza, il modo di essere del rapporto
pregiudiziale incidenter tantum, senza autorità di cosa giudicata, la conseguenza è
che quel rapporto potrà essere dedotto nell’ambito di un secondo e autonomo
processo, potrà costituire l’oggetto di un secondo e autonomo processo di fronte
a un diverso giudice, il quale potrà pervenire ad una conclusione opposta rispetto
73
a quella raggiunta dal primo giudice incidenter tantum. Quindi il primo giudice
accerta che sussista la qualità di erede e, di conseguenza, accoglie la domanda di
adempimento, e il secondo giudice ritiene invece che la qualità di erede non
sussiste. Il primo giudice accerta l’esistenza del diritto di proprietà e, di
conseguenza, accoglie la domanda del risarcimento del danno, il secondo giudice
accerta che il diritto di proprietà dell’attore non sussiste. Questa è la conseguenza
che l’ordinamento processuale ha accettato nel momento in cui ha adottato la
regola dell’art. 34.

Vi faccio notare che le 2 sentenze hanno 2 oggetti diversi, perché la prima


sentenza emessa a conclusione del primo processo avrà ad oggetto il rapporto
dipendente, che era l’oggetto della domanda originaria, mentre la seconda
sentenza avrà ad oggetto il rapporto pregiudiziale. Quindi non c’è una
incompatibilità fra l’oggetto delle 2 sentenze, ma fra l’oggetto di una sentenza,
che è la sentenza avente ad oggetto il rapporto pregiudiziale (quella emanata per
seconda) e il presupposto logico della sentenza precedente, quella avente ad
oggetto il rapporto dipendente. Per cui si parla di una incompatibilità logica.

Quindi l’art. 34 enuncia una regola restrittiva in punto di limiti oggettivi del
giudicato.

Naturalmente vi faccio notare che parliamo sempre e soltanto di processi a due


parti, perché se le situazioni giuridiche appartengono a parti diverse, anche
parzialmente diverse, entra in gioco un altro grossissimo tema, i limiti soggettivi del
giudicato (con cui ci confronteremo nel secondo semestre, che è un tema
insoluto, che non ha soluzione, su cui si sbatte sempre la testa, da sempre. Ma in
questo momento noi ne prescindiamo, riflettiamo solo su processi fra due parti, e
sono le stesse parti, sia nel primo che nel secondo processo).

Questa è la regola enunciata dall’art.34. Ci sono dei settori con riferimento ai quali
si stanno affermando soluzioni più ampie, che si ritiene non siano soggette alla
regola restrittiva dell’art.34.

Il primo settore è un SETTORE DI CONNESSIONE PER PREGIUDIZIALITÀ-


DIPENDENZA in cui la relazione che intercorre fra il rapporto pregiudiziale e il
rapporto dipendente è particolarmente stretta. Negli esempi che abbiamo
esaminato sinora, e che vi ho riproposto adesso, la relazione di connessione per
pregiudizialità dipendenza intercorreva fra due rapporti giuridici distinti, però
collegati perché uno è elemento della fattispecie giuridica da cui deriva l’altro,
qualità di erede - credito ereditario, diritto di proprietà - diritto di risarcimento del
danno. Quindi sono situazioni giuridiche distinte ma collegate.

Ora ci sono delle hp in cui questa relazione si manifesta in una forma diversa, nel
senso che siamo di fronte a due situazioni giuridiche fra le quali intercorre una
relazione molto più stretta. Non sono due situazioni giuridiche autonome, separate,
ma c’è un rapporto giuridico di base, complesso, e una coppia pretesa-obbligo
interna al rapporto pregiudiziale. Facciamo degli esempi, pensiamo ai contratti
sinallagmatici, contratti a prestazioni corrispettive, ragioniamo sulla
compravendita, (che è il più importante). Il contratto di compravendita è il classico
74
contratto a prestazioni sinallagmatiche, il sinallagma, che è questa relazione di
interdipendenza, corre fra i due principali effetti che scaturiscono dal contratto:

1) l’effetto traslativo, il passaggio della proprietà, che, attenzione, non è


l’oggetto di un’obbligazione in senso tecnico in Italia, perché l’effetto
traslativo in Italia si produce nel momento in cui si forma il consenso, scatta
immediatamente l’effetto traslativo. Il contratto di compravendita è un
contratto ad effetti reali.

2) nel sinallagma all’effetto traslativo corrisponde l’obbligo di pagamento del


prezzo, che invece è un’obbligazione in senso tecnico.

Queste sono le due prestazioni che hanno una struttura diversa, legate da questo
vincolo sinallagmatico. Prendiamo un’altra hp, prendiamo esempi di rapporti di
durata, come per es. il rapporto di mutuo. Il contratto di mutuo prevede che un
sogg. consegna a un’altra parte una somma di denaro e quest’altro si impegna a
restituirla nel tempo. Quindi scaturiscono una serie di prestazioni periodiche,
avente ad oggetto il pagamento di una somma di denaro. Oppure pensiamo al
contratto di locazione, il locatore concede al conduttore la facoltà di godimento del
bene, il conduttore si obbliga al pagamento del canone, perché deve essere
corrisposto periodicamente.

La domanda che ci dobbiamo porre è quella relativa al se, nel momento in cui
viene dedotto nell’ambito del primo processo la singola coppia pretesa-obbligo,
che scaturisce dal contratto a prestazioni sinallagmatiche, vale la regola dell’art. 34
e di conseguenza l’oggetto del giudicato rimane nei militi della coppia pretesa-
obbligo dedotta in giudizio. Facciamo un esempio: io agisco per ottenere il
pagamento del prezzo, perché il mio compratore non ha pagato. La domanda è:
l’oggetto di questo processo è limitato alla coppia diritto-obbligo al pagamento del
prezzo oppure si estende al rapporto giuridico fondamentale, al rapporto di
compravendita, a tutti gli effetti del contratto di compravendita, in primis l’effetto
traslativo.

Ora proprio con riferimento ai contratti a prestazioni sinallagmatiche in


giurisprudenza e in una parte della dottrina (faccio riferimento agli studi svolti dal
professor Menchini dell’università di Pisa) ad un certo punto è maturata la
consapevolezza di trovarsi di fronte a una situazione diversa rispetto alle hp
classiche di connessione per pregiudizialità dipendenza che abbiamo esaminato
sinora. Perché applicare la regola dell’art. 34 a queste hp ha come risultato che il
primo giudice può accogliere la domanda diretta ad ottenere il pagamento del
prezzo, dopodiché il convenuto potrebbe impugnare il negozio giuridico, il
contratto di compravendita, esercitare un’azione di annullamento dello stesso
contratto di fronte a un secondo giudice, e ottenere una sentenza di annullamento
del contratto, (cosa possibile se si applica l’art. 34).

Ora fra queste 2 sentenze, la sentenza che ha accolto la domanda di


adempimento dell’obbligazione di pagamento del prezzo e la sentenza che mi
dichiara l’annullamento del contratto, c’è una tensione, una contraddittorietà molto
più forte rispetto a quella che è emersa nelle hp precedentemente esaminate.
Perché qua non siamo di fronte a due rapporti giuridici distinti, sebbene collegati,
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siamo di fronte a una relazione più stretta, c’è il rapporto giuridico di base, il
rapporto giuridico complesso, che è la compravendita, e c’è il singolo effetto che
scaturisce dal contratto di compravendita. Effetto che è interno al contratto di
compravendita, è una coppia pretesa-obbligo che si inserisce nel contratto di
compravendita e che è legata dal vincolo di sinallagmaticità con la prestazione a
carico del venditore che è l’effetto traslativo che si è già prodotto.

Qui la contraddittorietà non è una contraddittorietà logica, è una contraddittorietà


pratica, perché applicare l’art. 34 e la regola restrittiva espressa dall’art. 34 in
queste hp, significa adoperare il processo in maniera da scardinare a livello
processuale una realtà che a livello sostanziale è unitaria. Sulla base di questo
ragionamento giurisprudenza e parte della dottrina hanno sostenuto che siamo di
fronte a una forma di connessione diversa, più intensa, che prende il nome di
connessione per pregiudizialità dipendenza logica, per distinguerla dalla
precedente (che prende il nome di connessione per pregiudizialità dipendenza
tecnica) ed ha affermato che in questi particolari settori è necessario adottare una
regola e una nozione ampia dei limiti oggettivi del giudicato, affermando che
l’oggetto del processo e del giudicato si estende sempre al rapporto giuridico
fondamentale al cui interno si inserisce la coppia pretesa-obbligo dedotta in
giudizio.

Quindi anche se la domanda originaria ha ad oggetto la coppia pretesa-obbligo,


avente ad oggetto uno degli effetti del contratto a prestazioni sinallagmatiche,
l’oggetto del processo e del giudicato si estende necessariamente al rapporto
giuridico fondamentale, significa che il giudice accerta la validità e l’efficacia del
rapporto giuridico fondamentale, perché la coppia pretesa obbligo non è altro che
un segmento interno a questo rapporto giuridico che deve essere mantenuto
unitario, perché è unitario a livello sostanziale.

Sull’ampiezza di questa deroga si può discutere, nel senso che tutte le


osservazioni svolte dal professor Menchini hanno riguardato soprattutto i contratti
a prestazioni sinallgmatiche, perché con riferimento ad essi i rilievi sono di palmare
evidenza. Sono forse un po’ meno evidenti con riferimento alle altre hp, alle hp del
contratto di mutuo, del contratto di locazione, però le metterei come hp dubitative.
Vi ho detto che non riuscirò sempre a darvi delle certezze, delle soluzioni chiare,
anche perché vi descriverei un quadro che non corrisponde a quello reale.

Un’ulteriore hp, che viene indicata come deroga all’art. 34, riguarda le hp di
incompatibilità, i rapporti incompatibili. L’incompatibilità è una relazione che può
intercorrere tra rapporti giuridici, soprattutto mi interessa in questo momento il
caso dei rapporti giuridici di tipo assoluto, ad es. la proprietà. Si distinguono due
forme di incompatibilità:

1) incompatibilità diretta: si ha quando due parti si affermano titolari dello


stesso diritto. Quindi ci sono 2 persone che si affermano
contemporaneamente proprietarie di questo codice, oppure di un terreno o
di un bene immobile. Voi capite che, stante tutto quello che ci siamo detti
precedentemente, non è possibile, perché la caratteristica del diritto
assoluto è proprio quella di poter appartenere a una sola parte in un
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determinato arco temporale. Si tratta di hp in cui due persone si affermano
titolari dello stesso diritto assoluto, avente ad oggetto lo stesso bene, quindi
c’è un’ identità di petitum;

2) incompatibilità indiretta: è diversa perché ricorre nelle hp in cui un


soggetto si afferma titolare di una situazione giuridica e un altro soggetto si
afferma titolare di un’altra situazione giuridica che ha per presupposto lo
stesso diritto di cui si afferma titolare la controparte. Ad es. io chiedo
l’adempimento del credito ereditario e il mio convenuto afferma essere lui
l’erede. Ecco l’incompatibilità indiretta. Incompatibilità che sussiste fra un
diritto e il presupposto logico dell’altro, di un altro diritto, che è il diritto
dipendente.

Vediamo come si comportano i limiti oggettivi del giudicato con riferimento queste
fattispecie.

Cominciamo con la INCOMPATIBILITÀ DIRETTA.

La domanda che ci dobbiamo porre è questa: se l’attore fa valere nei confronti del
convenuto una domanda avente ad oggetto un diritto assoluto, quindi
consideriamo la classica hp di un’azione di rivendica ( l’azione di rivendica è
un’azione di condanna al rilascio che ha ad oggetto il diritto di proprietà sul bene),
se l’attore propone una domanda avente ad oggetto un diritto assoluto nei
confronti di un convenuto e questa domanda viene accolta, e quindi avremo una
sentenza coperta dall’autorità della cosa giudicata, che dichiara l’esistenza del
diritto dell’attore, il convenuto può aprire un secondo e autonomo processo in cui
chiede a un secondo giudice di accertare che è lui il proprietario dello stesso
bene? Il primo giudicato che accerta l’esistenza di un primo diritto impedisce o no
l’apertura di un secondo processo avente ad oggetto un diritto direttamente
incompatibile con il diritto già accertato con autorità di cosa giudicata?

La risposta è un risposta NEGATIVA, nel senso che non può farlo, perché è
pacifico che l’autorità della cosa giudicata copre non soltanto il rapporto giuridico
oggetto del processo ma anche il rapporto giuridico direttamente incompatibile
con esso. Nel momento in cui l’attore propone la sua domanda avente ad oggetto
un determinato rapporto giuridico, e quindi deduce questo rapporto giuridico in
giudizio, è come se deducesse in giudizio anche il rapporto giuridico direttamente
incompatibile. Quindi nell’ es. precedentemente offerto, nell’hp dell’azione di
rivendica, se l’azione viene accolta e quindi abbiamo una sentenza che passa in
giudicato e che ha ad oggetto il diritto di proprietà dell’attore sul bene, questa
sentenza si ritiene pacificamente che contenga anche l’accertamento di non
esistenza del diritto di proprietà del convenuto sullo stesso bene, del rapporto
giuridico direttamente incompatibile. Quindi il convenuto, se questo è vero, non
può aprire un secondo e autonomo processo avente ad oggetto il diritto
direttamente incompatibile con quello ormai accertato con autorità di cosa
giudicata. Se infatti si consentisse l’apertura di questo secondo processo è chiaro
che si svuoterebbe di contenuto il primo processo. Quindi se il convenuto intende
far valere il suo diritto di proprietà e intende ottenere un accertamento con autorità
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di cosa giudicata del suo diritto, deve proporre subito domanda riconvenzionale,
quindi nell’ambito del primo processo deve chiedere al giudice di accertare con
autorità di cosa giudicata che è lui il proprietario del bene.

Con riferimento invece alla INCOMPATIBILITÀ INDIRETTA ormai avete gli strumenti
per capire che si applica pacificamente l’art. 34, perché l’incompatibilità indiretta
ricade pacificamente nella nozione di connessione per pregiudizialità dipendenza.
Quindi nell’hp che abbiamo sempre fatto, domanda di adempimento del credito
ereditario, si è detto che la qualità di erede, come regola generale, viene accertata
senza autorità di cosa giudicata. Quindi, siccome nessuna norma impone di
accertare la qualità di erede con autorità di cosa giudicata e se nessuna delle parti
propone una domanda di accertamento incidentale ex art. 34, l’accertamento del
giudice è un accertamento incidenter tantum. Quindi un accertamento svolto solo
ai fini dell’accertamento del rapporto dipendente dedotto in giudizio, oggetto
originario del processo. La conseguenza è che se la domanda viene accolta e se la
sentenza che accoglie la domanda di adempimento del credito passa in giudicato,
questo giudicato non impedisce al convenuto di aprire un secondo e autonomo
processo per chiedere a un secondo giudice di accertare che è lui l’erede e non
l’attore, perché il rapporto pregiudiziale è stato accertato senza autorità di cosa
giudicata, e quindi sia l’attore sia il convenuto possono aprire il secondo processo
e chiedere l’accertamento della qualità di erede.

Se il secondo giudice la pensa diversamente dal primo e quindi ritiene che sia il
convenuto il vero erede abbiamo due sentenze logicamente contraddittorie che
devono convivere, perché il secondo giudicato non può travolgere il primo, il primo
ha un altro oggetto, ormai ha una vita propria, quindi devono coesistere queste
due sentenze. L’ordinamento dettando l’art. 34 ha accettato questo rischio e
quindi coesisteranno queste due sentenze che d’altra parte hanno un oggetto
diverso.

SETTORE DEI CREDITI PECUNIARI (settore molto problematico)

Cioè settore dei diritti aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro. Si tratta
delle obbligazioni pecuniarie. Le obbligazioni pecuniarie sono sempre costituite da
una pluralità di voci (termine usato in senso atecnico). Quando si deve pagare una
certa somma di denaro facilmente si devono pagare anche gli interessi, e magari
anche la rivalutazione monetaria. Se poi ripeschiamo dal nostro passato le
obbligazioni risarcitorie, allora ci dovremmo ricordare anche che dire “ho diritto al
risarcimento del danno”, questa espressione “risarcimento del danno” è
comprensiva di un ampio ventaglio di voci: il danno materiale, il danno biologico, il
danno alla salute, lucro cessante, danno emergente.. (sono tante queste voci). E
allora la domanda che si è posta nella pratica è quella relativa al se il creditore,
colui che ha diritto a ottenere il pagamento di un somma di denaro, è libero di
frazionare questo suo diritto di credito in più domande giudiziali, quindi oggi agisce
per ottenere il lucro cessante di fronte a un primo giudice e domani apre un
secondo processo per chiedere il danno emergente e le altre voci di danno, oppure
oggi agisce per ottenere la domanda del capitale e in un secondo processo vuole
chiedere gli interessi e la rivalutazione monetaria. Quindi, può frazionare il suo
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credito in più processi oppure è tenuto a far valere tutte le voci, l’intero diritto di
credito nell’ambito del primo processo? Come si fa a rispondere a questa
domanda? Si tratta di chiarirsi le idee sui limiti oggettivi del giudicato. Quando io
propongo una domanda avente ad oggetto un diritto di credito a petitum
frazionabile (che sono le obbligazioni pecuniarie poi) debbo dedurre questo diritto
per intero nell’ambito di un unico processo oppure posso riservarmi il diritto di
frazionarlo in più processi? Capite che si fronteggiano due valori opposti, perché:

1) da una parte c’è il principio dispositivo, ricordatevi che si parla di diritto


civile, quindi un diritto dominato dall’autonomia privata, chi intende
ricostruire l’ordinamento processuale partendo dal p. dispositivo, quindi da
una lettura privatistica del processo, dirà che spetta all’attore, spetta al
creditore decidere primo se agire in giudizio oppure no, secondo delimitare
l’oggetto del processo. Quindi siccome siamo di fronte a situazioni
disponibili allora rientra nella libertà dell’attore scegliere come comportarsi,
vuole aprire 10 processi è libero di farlo, la giustizia è al servizio del
cittadino. A questa concezione se ne oppone un’altra:

2) una concezione di stampo più pubblicistico, ma non solo pubblicistico,


ovvero si dirà che questo processo costa, costa innanzitutto allo stato, ai
cittadini, perché aprire 10 processi? Ogni processo pesa, sono numeri, pesa
a livello di denaro, perché c’è un costo della macchina pubblica, pesa sul
ruolo dei giudici, molto, e poi c’è il diritto di difesa del convenuto. Perché si
deve obbligare qualcuno a sostenere le spese dei costi di 10 processi con
riferimento ad uno stesso rapporto di credito debito?

Capite che sono due concezioni completamente opposte. Che cosa ci ha detto la
giurisprudenza? Purtroppo questo è un terreno su cui si misura l’incapacità della
Corte di Cassazione italiana di assolvere in maniera decente alla funzione
nomofilattica che le viene affidata dall’art. 65 dell’ordinamento giudiziario. Perché
la Corte di Cassazione proprio per la difficoltà, la delicatezza del tema, viene
periodicamente chiamata a pronunciarsi su questioni che rientrano in questa
tematica, e puntualmente offre una soluzione diversa, passando proprio da un
estremo all’altro. Quindi è uno dei settori in cui la Corte di Cassazione purtroppo
spesso a Sezioni Unite ha dato la peggiore prova di sé, e questo non fa altro che
incentivare l’apertura del contenzioso, perché l’avvocato chiaramente le proporrà
le domande, andrà avanti fino in fondo nella speranza di incorrere in una pronuncia
favorevole. D’altra parte se viene detto tutto e il contrario di tutto vale la pena
tentare. Vedete che è un cane che si morde la coda, si innescano dei circoli viziosi
quando la Corte di Cassazione non assolve alla funzione che le viene attribuita.

E infatti, riducendo all’osso lo sviluppo che si è registrato in giurisprudenza,


dobbiamo dire che si è partiti da un orientamento che era chiaramente ispirato al
principio dispositivo. Quindi siamo partiti con l’idea che sta all’attore, al cittadino
decidere liberamente se proporre oppure no l’azione giudiziale ma anche se
parcellizzare o meno il suo diritto, la sua situazione giuridica. Quindi sta al cittadino
ritagliare come più gli conviene l’oggetto del processo. E questo orientamento è un
orientamento che ha trovato il favore non soltanto della giurisprudenza ma anche
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di valorosi processualcivilisti che notoriamente hanno una concezione privatistica
del processo.

Successivamente (e vi posso citare a questo riguardo l’ultima sentenza delle


Sezioni Unite che lo ha sostenuto, si tratta delle Sezioni Unite numero 108/2000),
la Corte di Cassazione invece ha ribaltato il suo orientamento, la famosa sentenza,
ancora una volta a Sezioni Unite 23726/2007 ha preso le distanze dal precedente
intervento e ha affermato che il creditore non può frazionare il proprio credito,
ragionando sul rilievo secondo cui il frazionamento del credito rappresenta una
violazione del principio di buona fede. Quindi ha affermato la Corte che se il
creditore agisce nell’ambito di un primo processo facendo valere soltanto una
parte del suo credito, e se successivamente alla chiusura di questo processo con
sentenza passata in giudicato apre un secondo processo, questa seconda
domanda non può andare avanti. Uso in maniera consapevole un’espressione
atecnica “non può andare avanti”, perché poi quale fosse il tipo di censura,
diciamo, su questo altro profilo la Corte di Cassazione ha offerto almeno 7 o 8
soluzioni. Per altro questa stessa posizione è stata successivamente ribadita nel
2011, nella sentenza 28286, che l’ha affermata in maniera puntuale con riferimento
alle obbligazioni risarcitorie (questa sentenza verrà richiamata successivamente). Il
dibattito però non si è chiuso perché le sezioni semplici hanno abbracciato la
soluzione offerta dalle Sezioni Unite, ma ancora sono proseguiti degli orientamenti
contrastanti e la questione è stata rimessa ancora una volta alle Sezioni Unite, che
in ordine di tempo si è pronunciata, l’ultimo intervento risale al 2017, alla sentenza
4090 del 2017. Con riferimento a questa particolare fattispecie la Corte di
Cassazione ha elaborato il proprio principio con riferimento ad una particolare
specie di rapporti, e nel caso di specie il lavoratore aveva proposto una prima
domanda nei confronti del datore di lavoro per ottenere la rideterminazione del
TFR tenendo conto di una serie di voci retributive che erano state percepite in
maniera continuativa. Chiuso il primo processo con sentenza passata in giudicato,
aveva aperto un secondo processo di fronte a un secondo giudice chiedendo
ancora una volta il ricalcolo del TFR sulla base della rielaborazione di ulteriori voci
retributive, quindi in particolare di un premio fedeltà, che non era stato tenuto in
considerazione dal primo giudice. La Corte di Cassazione, ancora una volta a
Sezioni Unite, ha di nuovo cambiato direzione, focalizzando la propria attenzione
sulla struttura della situazione dedotta in giudizio, cioè sulla circostanza che i
crediti dedotti in giudizio dal creditore erano crediti che si inserivano nell’ambito di
un unico rapporto, rapporto di lavoro che è un rapporto di durata, ma erano
situazioni giuridiche distinte, che avevano una certa autonomia.

Sulla base di questo ragionamento la Corte ha affermato che, con riferimento a


crediti che nascono da rapporti di durata (e qui l’esemplificazione richiamata dalla
Corte è stata ampia, non soltanto i rapporti di lavoro ma anche rapporti di
consulenza, rapporti di assicurazione, rapporti di locazione, rapporti di leasing,
rapporti di finanziamento), le domande aventi ad oggetto i diritti di credito diversi
ma che nascono dallo stesso rapporto giuridico come regola generale debbono
essere fatti valere nell’ambito di un processo unitario, ma che, dice la Corte, è
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possibile far valere separatamente, laddove questo risponde ad un interesse
dell’attore. Interesse che l’attore deve affermare e provare. E da cosa è dato
l’interesse dell’attore? La Corte va nello specifico, fa riferimento alla circostanza,
per esempio, che l’attore ha a sua disposizione una serie di prove documentali,
che gli consentono di aprire un procedimento speciale, che è il procedimento di
ingiunzione, per alcuni soltanto dei crediti derivati da questo rapporto di durata. E
questa, afferma la Corte, è una situazione che dà corpo all’interesse dell’attore,
perché il procedimento di ingiunzione, come procedimento speciale, gli consente
di avere un provvedimento velocemente, un provvedimento che può essere dotato
di efficacia esecutiva, e quindi consentirgli di ottenere in tempi più rapidi il
soddisfacimento almeno di una parte di questi crediti.

Il secondo es. che offre la Corte è legato al riparto di competenza fra il Giudice di
Pace e Tribunale. Rileva la Corte che il creditore può avere interesse a far valere
dei crediti separatamente, dei crediti piccoli, minori separatamente di fronte al
Giudice di Pace, perché anche il processo di fronte al Giudice di Pace gli consente
di ottenere un provvedimento dotato di efficacia esecutiva in tempi più rapidi
rispetto a quanto gli consente il Tribunale, di fronte a cui si deve recare se deve
cumulare tutte le domande in un processo unitario. E nell’argomentare questa
soluzione la Corte richiama una serie di disposizione del cpc che danno per
scontata la possibilità per il creditore di segmentare il proprio diritto di credito. In
particolare la Corte ha richiamato l’art. 31 e l’art. 40 del cpc. Si tratta di
disposizioni che abbiamo già visto, che per favorire il cumulo processuale
consentono la deroga ai criteri di competenza, sia per materia, valore, sia per
territorio. L’art. 31 in modo particolare si occupa della c.d. accessorietà.
L’accessorietà è una forma di connessione per pregiudizialità dipendenza, che si
caratterizza per un rapporto pregiudiziale che è più importante, più grosso rispetto
al rapporto dipendente. L’esempio classico di accessorietà che troverete in tutti i
manuali è proprio il rapporto che intercorre fra il diritto a ottenere il pagamento del
capitale e il diritto a ottenere il pagamento degli interessi. Questo è il classico
rapporto di accessorietà.

Ora l’art. 31 così come l’art. 40, che si occupa della riunione di processi
separatamente proposti, danno per scontato che il cumulo processuale è una
possibilità, è una facoltà che l’ordinamento vuole favorire, sì, perché gli serve per
evitare che vengano emanate sentenze contraddittorie, ma non lo impone.

Quello che ci si dimentica di ricordare è che le situazioni giuridiche a petitum


frazionabile, quindi i crediti pecuniari, si distinguono in due grosse categorie:

1) i rapporti di valuta

2) i rapporti di valore

non è una classificazione didattica, perché stando ai migliori studi svolti dai
privatisti (e mi riferisco in modo particolare agli studi del professor Bianca) mentre i
rapporti di valuta sono rapporti in cui le singole voci, il diritto al capitale, per es. il
diritto agli interessi, si configurano come situazioni giuridiche distinte, sebbene
connesse per pregiudizialità dipendenza, i rapporti di valore, tipicamente le
obbligazioni risarcitorie (sia che si tratti di obbligazioni risarcitorie derivanti da
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responsabilità contrattuale o da resp. extracontrattuale, è indifferente), sono
situazioni giuridiche che a livello sostanziale sono unitarie. Uno solo è il diritto al
risarcimento del danno e all’interno del diritto al risarcimento del danno si
individuano i diversi segmenti, le diverse voci, appunto il danno materiale, il danno
biologico, il danno alla salute e via dicendo. Ma sono segmenti interni a una
situazione giuridica unitaria.

Questa distinzione dovrebbe avere una sua rilevanza, perché mentre con
riferimento ai rapporti di valuta si fa fatica ad accogliere il principio della
infrazionabilità del credito, perché gli art. 41 - 40 ci dicono chiaramente che, con
riferimento a queste situazioni giuridiche che possono tranquillamente essere
ricondotte alla figura della accessorietà, siamo di fronte a una forma di
connessione per pregiudizialità-dipendenza tecnica. Il diritto al capitale e il diritto
agli interessi e il diritto alla rivalutazione monetaria sono situazioni giuridiche
distinte ma connesse per pregiudizialità dipendenza.

Allora, con riferimento a crediti pecuniari riconducibili allo schema del rapporto di
valuta, il principio della infrazionabilità del credito difficilmente può essere
accettato, perché qua trattandosi di situazioni distinte si dovrebbe riconoscere
all’attore il diritto al frazionamento, il diritto di portare queste situazioni giuridiche di
fronte a giudici diversi. L’ordinamento può creare le condizioni per facilitare il
cumulo. Quindi l’art. 31, l’art. 40,che poi andremo ad analizzare, e questo è un
conto. Altra cosa è dire che però se l’attore fa valere soltanto alcune di queste
situazioni e poi intende aprire un secondo processo, questo secondo processo
venga chiuso in rito, per la non possibilità del secondo giudice di conoscere le
altre situazioni giuridiche, questo è inaccettabile a fronte del dato normativo.

Invece con riferimento ai rapporti di valore il ragionamento è diverso. Perché se è


vero che si tratta di situazioni giuridiche che a livello sostanziale sono unitarie,
allora si può dire quanto abbiamo già detto con riferimento alla connessione per
pregiudizialità dipendenza logica. Ovvero il processo non può essere utilizzato per
scardinare ciò che a livello sostanziale è unitario, libero il creditore di decidere se
aprire o non aprire il processo, ma nel momento in cui lo pare deve dedurre in
giudizio tutte le possibili voci, l’intero rapporto di credito-debito. Quindi le
variazioni quantitative di questi crediti di valore si possono tranquillamente
ammettere all’interno del processo perché si tratta di variazioni interne a una
situazione giuridica che è unitaria, che è una sola. E allora qua il principio di
infrazionabilità del credito ha un suo senso, corrisponde a quella che è la struttura
del rapporto. Ricordiamoci sempre che il diritto processuale è strumentale rispetto
al diritto sostanziale, quindi prima di tutto, prima di ricostruire la disciplina
processuale dobbiamo sempre partire dall’analisi di ciò che entra nel processo,
della realtà sostanziale che entra nel processo. Perché è questo il primo elemento
che l’operatore deve tenere in considerazione. Diciamo che in questa
giurisprudenza della Corte di Cassazione questa distinzione, che invece è molto
importante, non emerge mai, se non indirettamente.

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Andiamo ad esaminare un ulteriore settore in cui si è affermata una nozione ampia
dei limiti oggettivi del giudicato, ovvero le azioni di impugnativa negoziale.

I negozi giuridici possono essere impugnati azione di annullamento, azione di


rescissione, azione di risoluzione, azione di nullità del contratto

La domanda che dobbiamo porci è proprio quella di fissazione dei limiti oggettivi
del giudicato con riferimento a questo particolare settore e quindi, per fare un
esempio concreto, se proposta, ad esempio, azione di risoluzione del contratto, il
giudicato di rigetto di questa domanda impedisce oppure no allo stesso attore di
aprire un secondo processo esperendo nei confronti dello stesso contratto un
ulteriore azione. Quindi, rigettata l’azione di risoluzione del contratto, è possibile
per l’attore esercitare autonomamente l’azione di annullamento del contratto?
Rigettata l’azione di annullamento del contratto, è possibile agire autonomamente
ed esercitare un’azione di rescissione dello stesso contratto?

Per rispondere a questa domanda occorre confrontarsi con i limiti oggettivi del
giudicato, cioè stabilire qual è l’oggetto del processo e del giudicato in ipotesi di
azione di impugnativa negoziale. Anche questo è un tema estremamente dibattuto
su cui si sono registrate delle incertezze molto gravi, per molto tempo.

La giurisprudenza per molto tempo, almeno con riferimento alle azioni di


rescissione, risoluzione e di annullamento del contratto, ha adottato una nozione
estremamente ristretta dei limiti oggettivi del giudicato. Sul piano teorico, queste
azioni richiamate, vengono ricondotte alle c.d. azioni costitutive, cioè ipotesi in cui
l’effetto richiesto si produce in base ad una sequenza che può essere così
sintetizzata norma - fatto - potere sull’an - accertamento giurisdizionale –
effetto

Che cosa vuol dire? Vuol dire che, per ottenere l’effetto annullamento del
contratto, la norma stabilisce che, in presenza di determinati fatti (errore, dolo,
violenza ecc …), è necessario che la parte interessata, che la parte colpita dal
fatto, si attivi proponendo una domanda (quel potere sull’an) e che il giudice
accolga questa domanda, perché è la sentenza del giudice a produrre l’effetto di
annullamento. Questo particolare diritto, questo potere sull’an della parte che
diciamo prende la forma della domanda giudiziale, ma è soltanto una forma, viene
chiamato come diritto potestativo a necessario esercizio giudiziale cioè è un
potere sostanziale per il cui tramite la parte attribuisce rilevanza giuridica a quel
fatto, per esempio, un vizio del consenso (errore, dolo, violenza).

Quindi, errore, dolo, violenza, in base alla disciplina sostanziale, non producono
efficacia automaticamente, è necessario che la parte interessata gli attribuisca
rilevanza attraverso l’esercizio de diritto potestativo, che è un potere sostanziale.

Quindi lo schema dell’annullamento, della rescissione e della risoluzione è molto


diverso da quello della nullità. Quest’ultima, infatti, opera di diritto, opera
automaticamente, non c’è bisogno del potere di intermediazione privato la
nullità opera secondo lo schema norma-fatto-effetto

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Quando si verifica una causa di nullità l’effetto nullità si produce da solo,
autonomamente, infatti, a livello processuale, l’azione di nullità è un’azione di
accertamento, perché opera autonomamente, opera di diritto la nullità.

Per molto tempo la giurisprudenza e la dottrina hanno ritenuto che, in ipotesi di


azioni di impugnativa negoziale rientranti nello schema di tutela costitutiva (norma
– fatto – potere sull’an – accertamento giurisdizionale – effetto), l’oggetto del
processo e del giudicato è il diritto potestativo a necessario esercizio giudiziale. Di
questo diritto potestativo a necessario esercizio giudiziale la giurisprudenza ha
adottato una nozione molto ristretta, affermando che il diritto potestativo a
necessario esercizio giudiziale s’identifica alla luce del fatto su cui si basa e
dell’effetto che si vuole ottenere. Per cui, ad esempio, noi abbiamo il diritto
potestativo a necessario esercizio giudiziale diretto ad ottenere l’annullamento del
contratto e basato sull’errore. Abbiamo un altro diritto potestativo a necessario
esercizio giudiziale diretto ad ottenere l’annullamento e basato invece sul dolo.
Abbiamo un diritto potestativo a necessario esercizio giudiziale diretto ad ottenere
l’annullamento basato sulla violenza. Abbiamo il diritto potestativo a necessario
esercizio giudiziale diretto ad ottenere la rescissione basato sulla non
proporzionalità delle prestazioni oppure sull’inadempimento, per quanto riguarda la
risoluzione del contratto.

Qual è la conseguenza di una nozione così ristretta dei limiti oggettivi del
giudicato? È evidente, il giudicato di rigetto della prima domanda non m’impedisce
l’apertura di un secondo processo, laddove il secondo processo ha ad oggetto un
diverso diritto potestativo a necessario esercizio giudiziale. Quindi se io ho
proposto domanda di annullamento del contratto per errore, il giudicato di rigetto
di questa domanda non mi impedisce di esercitare contro lo stesso contratto
un’altra azione di annullamento basata sulla violenza, perché è diverso l’oggetto, è
diverso il diritto dedotto in giudizio e oggetto del giudicato. La nozione ristretta dei
limiti oggettivi del giudicato facilita la reiterazione dei processi relativi alla stessa
vicenda sostanziale, che è il contratto impugnato.

Poi è emersa in dottrina una tesi intermedia, una tesi che però è rimasta piuttosto
limitata, è una tesi che viene fatta risalire al professor Augusto Cerino Canova.
Quest’ultimo riteneva che il diritto potestativo a necessario esercizio giudiziale si
dovesse identificare sulla base solo dell’effetto e non del fatto. Questa era una
posizione intermedia che, diciamo, allargava un po' le