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I SAGGIO

LA LUNGA STRADA STORTA: DALLE AUTORIZZAZIONI AMMINISTRATIVE ALLA S.C.I.A.

Nella nostra tradizione ordinamentale, lo svolgimento di attività private era subordinato all’emanazione di
un provvedimento permissivo da parte della P.A. la cui funzione era quella di verificare in concreto la
compatibilità dell’attività in questione con l’interesse pubblico. L’autorizzazione aveva una funzione
legittimizzante senza la quale l’attività svolta era da considerarsi illecita.

Questo sistema basato sulle autorizzazioni permissive è stato superato da un altro, rispondente alla
necessità di garantire la liberalizzazione e semplificazione della libertà di impresa. Questa liberalizzazione
coinvolge anche le attività un tempo riservate e che, oramai, sono aperte a tutti i soggetti idonei, purché in
possesso di determinati requisiti. L’unico onere previsto è quello di inviare alla P.A. una comunicazione
preventiva a voler operare in quel campo, a cui conseguirà un controllo ex post da parte della stessa.

La scelta tra controllo ex ante e controllo ex post va effettuata sulla base del principio di proporzionalità.
Fermo restando la priorità logico-giuridica del controllo ex post, è necessario optare per il controllo ex ante
ogni qual volta un controllo ex post potrebbe risultare tardivo per la tutela dell’interesse pubblico.

Nell’ambito del fenomeno delle liberalizzazioni, possiamo distinguere le liberalizzazioni piene dalle
semplificazioni con effetto liberalizzante.

Tra le liberalizzazioni pure possiamo distinguere:

• Quelle in cui lo svolgimento dell’attività è libero e sottoposto solo alle regole del diritto comune;
• Quelle in cui l’attività pur essendo libera, in quanto la legittimazione a svolgerla discende
direttamente dalla legge, è sottoposta a vigilanza pubblica per assicurare che la stessa venga svolta
nel rispetto delle norme dettate dalla legge a tutela dell’interesse pubblico (es. le attività previste
dal codice della strada).

Accanto a queste ipotesi, possiamo distinguere un’altra categoria, molto più frequente, e che il prof. Liguori
chiama semplificazioni con effetto liberalizzante in quanto, pur essendo stata operata una semplificazione,
una procedura amministrativa è pur sempre prevista e consta della comunicazione e del controllo ex post.

La libertà di accesso presuppone che l’interesse pubblico non è suscettibile di essere leso per effetto di
un’iniziativa privata. Tuttavia non bisogna pensare che manca una ponderazione degli interessi in gioco.
Semplicemente la valutazione tra interesse pubblico e interesse privato è già stata fatta dal legislatore, il
che rende superfluo che la faccia anche la P.A. . Ecco perché il soggetto privato si responsabilizza e valuta
autonomamente la sussistenza dei requisiti e dei presupposti previsti dalla legge per lo svolgimento di una
determinata attività.

Questo principio è stato fatto proprio dell’istituto della D.I.A. (prima Denuncia e poi, a seguito di un
intervento del 2005, Dichiarazione di Inizio Attività) sulla base della quale era previsto che dovessero
intercorrere almeno 30 giorni dalla data di protocollo della comunicazione alla P.A. e l’inizio dell’attività,
previo l’invio di una nuova comunicazione. Nel corso di questi 30 giorni la P.A. poteva effettuare il controllo
ex post.

Con l’intervento operato dalla L. 122/2010, la D.I.A. è stata sostituita dalla S.C.I.A. (Segnalazione certificata
di inizio attività), la cui disciplina è contenuta all’interno dell’art. 19 della L. 241/1990 il quale ne definisce
l’ambito di applicazione affermando che la S.C.I.A. sostituisce ogni atto di tipo autorizzativo il cui rilascio
sarebbe subordinato esclusivamente all’accertamento dei requisiti e presupposti richiesti dalla legge. Si
deve trattare, quindi, di atti vincolati e non discrezionali. La segnalazione deve essere corredata da
un’autocertificazione del soggetto che dichiara, sotto la sua responsabilità, di essere in possesso dei
suddetti requisiti e presupposti.

L’attività può essere iniziata dalla data di presentazione della S.C.I.A. e la P.A. può effettuare il controllo
entro il termine di 60 giorni.

Prima della Riforma Madia operata dalla L. 124/2015, la P.A., nei confronti della S.C.I.A., poteva agire in
vari modi:

• Entro il termine di 60 giorni, poteva esercitare il potere inibitorio, che consente alla P.A. di vietare
la prosecuzione dell’attività e rimuovere gli effetti ex tunc, salva la possibilità per il privato di
conformare l’attività alla legge entro il termine fissato.
• Oltre il termine di 60, la P.A. poteva attivare il potere sanzionatorio nei casi in cui la S.C.I.A si
fondava su dichiarazioni false e mandaci e che consentiva la caducazione della stessa;
• Sempre oltre il termine di 60 giorni e in caso di pericolo di danno per taluni interessi sensibili
(patrimonio artistico, ambiente, pubblica sicurezza etc.), la P.A. poteva esercitare l’autotutela ai
sensi degli art. 21 quinquies (revoca) e 21 nonies (annullamento d’ufficio) della L. 241/1990.

Si è parlato a tal proposito di autotutela in senso atecnico, in quanto l’esercizio del potere di autotutela
presuppone l’emanazione di un provvedimento da parte della P.A., cosa che nel caso della S.C.I.A. non c’è.

La situazione cambia a seguito della L. 124/2015, per cui la P.A. è attualmente titolare di due tipi di potere:

• Potere inibitorio, previsto dall’art. 19 comma 3 della L. 241/1990 e da esercitare entro il termine di
60 giorni dalla presentazione della S.C.I.A., tramite il quale la P.A. può impedire la prosecuzione
dell’attività, rimuovere gli effetti e chiedere la conformazione, previa sospensione dell’attività. In
mancanza di conformazione, l’attività si intende vietata.
• L’art. 19 comma 4 della L. 241/1990 prevede che, una volta scaduto il termine di 60 giorni, la P.A.
adotti comunque i provvedimenti di cui il comma 3 dello stesso articolo (inibitorio, sospensivo e
conformativo) ma solo in presenza delle condizioni di cui l’art. 21 nonies. Questo potere è
esercitabile entro il termine ragionevole di 18 mesi.

E’ bene specificare che il richiamo all’art. 21 nonies, non vuol dire che la P.A. può esercitare l’autotutela nei
confronti della S.C.I.A., ma serve solo ad individuare i requisiti in presenza dei quali la P.A. può contrastare
la segnalazione anche oltre il termine di 60 giorni.

Per quel che concerne la natura della S.C.I.A., importante è la sent. 15/2011 dell’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato nella quale si è affermato che essa non è un provvedimento amministrativo in forma
tacita, bensì un atto, soggettivamente ed oggettivamente, di natura privata attraverso il quale un
soggetto comunica alla P.A. l’intenzione di intraprendere un’attività che trova il suo fondamento nella
legge.

L’Adunanza Plenaria afferma che la S.C.I.A non è un atto di autoamministrazione bensì di


autoresponsabilità nel quale il soggetto si autoresponsabilizza affermando di essere in possesso dei
requisiti e dei presupposti previsti per l’avvio di una determinata attività. L’autoresponsabilità del privato è
contemperata dalla persistenza in capo alla P.A. del dovere di effettuare il controllo ex post.
Data la natura privatistica della S.C.I.A., sorge il problema della tutela del terzo. Secondo la sent. 15/2011
dell’Adunanza Plenaria, il silenzio della P.A. a seguito della presentazione della S.C.I.A. era da intendersi
come un atto tacito di diniego dell’emanazione del provvedimento inibitorio.

Con la conseguenza che il terzo poteva esercitare, dinanzi al giudice amministrativo, un’azione di
accertamento atipica diretta ad ottenere una pronuncia di verifica dell’insussistenza dei presupposti
previsti dalla legge per lo svolgimento dell’attività oggetto della S.C.I.A. . Qualora il terzo si fosse ritenuto
anche leso dall’attività avviata, avrebbe potuto proporre un’azione di annullamento ex art 29 del Codice
sul processo amministrativo. Tale azione, però, consentiva di sindacare anche la valutazione positiva
dell’amministrazione nei confronti dell’attività segnalata.

Una svolta è stata segnata dal D.L. 138/2011 convertito nella L. 148/2010, il quale ha aggiunto all’art.19
della L. 241/1990 il comma 6 ter il quale prevede che “La S.C.I.A, la denuncia e la dichiarazione di inizio
attività non sono degli atti taciti immediatamente impugnabili” con la conseguenza che il terzo può
soltanto sollecitare la P.A. ad effettuare le verifiche e, in caso inerzia, esercitare l’azione contro il silenzio-
inadempimento ex 31 commi 1,2 e 3 del Codice sul processo amministrativo. Ciò garantisce il fatto che
non verrà operato alcun sindacato sulla valutazione fatta dalla P.A. nei confronti dell’attività oggetto della
S.C.I.A. .

Non bisogna dimenticare, infatti, che la P.A. non ha l’obbligo di pronunciarsi nei confronti della stessa in
quanto non si tratta di un’istanza bensì di una comunicazione. L’obbligo della P.A. sorge soltanto nel
momento in cui il controllo ex post ha un esito negativo, nel qual caso dovrà emanare un provvedimento
che disponga il divieto di prosecuzione dell’attività.

Inoltre il soggetto terzo può sollecitare queste verifiche solo entro il termine di 60 giorni dalla
presentazione della S.C.I.A., ossia finché il potere inibitorio esiste. Anche per l’esperimento di un’eventuale
azione dinanzi al giudice, essa non va proposta oltre il termine di 60 giorni. Infatti, soddisfatto questo
requisito, la pronuncia del giudice, anche se intervenuta a termine scaduto, può avere effetti retroattivi e
incidere negativamente sull’attività oggetto della S.C.I.A. .
II SAGGIO

LA FUNZIONE AMMINISTRATIVA, L’AUTORITATIVITA’ E IL DIRITTO PRIVATO

Il diritto pubblico è sempre stato considerato il diritto normale della P.A. . Questo fino a quando la novella
L. 15/2005 non ha sovvertito la logica dei rapporti tra diritto pubblico e diritto privato nell’ambito
dell’attività della P.A., aggiungendo all’art. 1 della L. 241/1990 il comma 1bis. Quest’ultimo sancisce che la
P.A., nell’emanazione di atti aventi natura non autoritativa, agisce secondo le norme del diritto privato,
salvo che la legge disponga diversamente.

In questo modo, è stato sancito che il diritto privato è il diritto normale della P.A. .

Questa disposizione è da collocarsi all’esito di un iter che ha portato alla creazione di un diritto
amministrativo misto e che si compone di due fenomeni:

• La privatizzazione di certe attività che vengono trasferite dalla disciplina di diritto pubblico a
quella del diritto privato (ad es. disciplina del pubblico impiego);
• La pubblicizzazione di certe attività di soggetti privati.

Ovviamente nel passaggio dal diritto pubblico al diritto privato si è dovuto rinunciare a qualcosa e ciò a cui
si è rinunciato sono le garanzie offerte dal diritto pubblico. Infatti quest’ultimo è il diritto delle garanzie
per eccellenza andando a tutelare gli interessi legittimi ed altre situazioni che altrimenti non riceverebbero
tutela come ad es. la tutela del terzo contro i provvedimenti di cui non è destinatario.

Inoltre, anche la tutela offerta dal diritto pubblico va ben oltre quella del diritto privato, non limitandosi al
risarcimento del danno ma spingendosi fino all’annullamento del provvedimento e al ripristino dello
status quo ante.

Allo stesso tempo, però, il diritto pubblico è anche il diritto delle prerogative e dei privilegi della P.A. ed è
proprio ciò che ha giustificato la fuga nel diritto privato, al caro prezzo della rinuncia alle garanzie offerte al
privato.

La reazione del diritto europeo è quella di un diritto desogettivizzato ossia di un diritto che non guarda la
natura pubblica o privata del soggetto agente che, se svolge un’attività di interesse pubblico, deve essere
sottoposto alle regole del diritto pubblico. Ed è proprio ciò che è avvenuto agli Organismi di diritto pubblico
per quel che concerne la materia dei contratti pubblici.

Quanto previsto dall’art. 1 comma 1 bis della L.241/1990, spinge ad interrogarsi su “in cosa consista l’in sé
dell’attività amministrativa” che deve essere soggetta alle regole di diritto pubblico.

La risposta ci viene fornita dalla sent. 204/2004 della Corte Costituzionale, dove si afferma che l’in sé
dell’attività amministrativa consiste nell’autoritatività. L’autoritatività non va intesa come imperatività,
ossia come l’idoneità dei provvedimenti amministrativi a degradare la posizione del privato, bensì come
unilateralità, cioè come quel modo unilaterale di incidere nella sfera giuridica di un soggetto senza il suo
consenso.

A giustificare l’applicazione delle regole del diritto pubblico o del diritto privato, sarà la natura autoritativa
o meno dell’attività. In particolare, si applicheranno:
• Le regole del diritto privato nelle vicende nelle quali non sia rinvenibile un potere di scelta
discrezionale della pubblica amministrazione. In questo caso il provvedimento emanato avrà
natura non autoritativa perché si limiterà a porre in essere un assetto di interessi già fotografato
dalla norma; (potere non autoritativo → provvedimento vincolato)
• Le regole del diritto pubblico nelle ipotesi di manifestazioni discrezionali che creano un nuovo
assetto di interessi in modo unilaterale; (potere autoritativo →provvedimento discrezionale).

Inoltre, il prof. Liguori afferma che l’art. 1 comma 1 bis va letto congiuntamente agli art. 11 e 21 octies della
L. 241/1990.

Prima della L.15/2005, l’art 11 prevedeva la possibilità che fossero stipulati accordi tra P.A. e soggetto
privato solo nelle ipotesi espressamente previste dalla legge, fungendo da deroga al divieto di utilizzare il
diritto privato.

Dopo la novella del 2005, l’art. 11 prevede che la P.A. procedente può concludere, senza pregiudizio dei
diritti dei terzi e per il perseguimento dell’interesse pubblico, accordi con gli interessati al fine di
determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero in sostituzione dello stesso.

Il prof. Liguori sottolinea il diverso uso che si fa del diritto privato nelle due disposizioni:

• Nell’art. 1 comma 1 bis si afferma che, salvo che la legge disponga diversamente, in presenza di un
potere non autoritativo e quindi vincolato si applicano le regole del diritto privato;
• Nell’art. 11 prevede, nelle forme dettate dallo stesso, la possibilità di negoziare il potere
autoritativo e quindi discrezionale della P.A., potere che in generale è sottoposto alle regole del
diritto pubblico.

La dicotomia discrezionale-vincolato è evidente anche nell’art. 21 otcies della L.241/1990 che al comma 2
prevede che “ non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento e
sulla forma quando, data la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.

Ciò vuol dire che l’art. 21 otcies comma 2 subordina l’applicazione della disciplina prevista dallo stesso
alla natura vincolata del provvedimento. Diversamente, in caso di provvedimento discrezionale, il principio
di dequotazione dei vizi formali e procedurali non si applica.

L’art. 1 comma 1 bis pone un’eccezione: “Salvo che la legge disponga diversamente”. Ciò vuol dire che ci
sono tutta una serie di provvedimenti che data la loro natura non autoritativa avrebbero dovuto transitare
nel diritto privato ma che, per espressa previsione del legislatore, sono state attratte nell’orbita del diritto
pubblico (es. disciplina dei contratti pubblici).

Tuttavia, non è sempre agevole riconoscere il carattere autoritativo o meno di un atto. Si pensi gli atti
ampliativi, ossia quelli emanati al termine di un procedimento ad istanza di parte e che riconosce un
vantaggio al proponente.

Infatti se l’autoritatività è assenza del consenso e nei provvedimenti ampliativi, essendoci l’istanza, il
consenso va presupposto, si sarebbe portati a negare la natura autoritativa degli stessi.

Tuttavia il prof. Liguori afferma che c’è autoritatività ogni qual volta è indispensabile e necessario il filtro
della P.A. .
Nell’ambito degli atti ampliativi, un’attenzione particolare va riservata agli atti autorizzativi, molto
frequenti in passato e che sono stati sostituiti dall’istituto della S.C.I.A. .

Aver sostituito tutta una serie di provvedimenti amministrativi con un atto di natura privata significa
aver riconosciuto la natura non autoritativa degli stessi per cui sono transitati nell’area del diritto
privato.

Ciò vuol dire che affermare che l’autoritatività è assenza del consenso è riduttivo, in quanto l’autoritatività
è una qualità del potere e consiste nella discrezionalità.
III SAGGIO

LE REGOLE DELLA FUNZIONE E DELLA RESPONSABILITA’

La riflessione del prof. Liguori prende le mosse dalla sent. 500/99 delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione che afferma la risarcibilità del danno derivante da lesione di interesse legittimo. È bene
specificare che non tutti gli interessi legittimi sono risarcibili ma solo quelli in cui è certo il collegamento con
il bene della vita tale da rendere quella situazione giuridica soggettiva meritevole di tutela.

Nell’affrontare il problema della risarcibilità, il prof. Liguori mette in relazione le regole della funzione con
le regole della responsabilità.

Le prime, sono volte ad assicurare la correttezza, la regolarità dell’attività di una P.A.; le seconde, vengono
chiamate in gioco soltanto quando le regole della funzione falliscono e non sono idonee a tutelare
opportunamente il cittadino.

Entrambe sono necessarie per garantire una tutela piena dell’interesse legittimo, così come afferma la
sent.500/900 dove si delinea il carattere complementare della tutela di annullamento e quella
risarcitoria.

Il primo problema affrontato nel saggio è che tipo di responsabilità è quella della pubblica amministrazione
che agisca in veste di autorità: extracontrattuale, contrattuale o precontrattuale?

In realtà, la sent. 500/99 afferma si tratti di una responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. .
Tuttavia due pronunce successive, una del Consiglio di Stato e un’altra della Corte di Cassazione, hanno
affermato si trattasse di un’ipotesi di responsabilità contrattuale.

Sebbene l’odierna giurisprudenza maggioritaria ed anche il prof. Liguori ritengano che si tratti di
responsabilità extracontrattuale, Il prof. Liguori, all’epoca, si chiese se non avesse ragione questa dottrina
e giurisprudenza ad inquadrare il rapporto P.A.-cittadino come un contatto sociale qualificato, sulla base
del quale sorgono degli obblighi reciproci di buona fede e correttezza.

Questa dottrina e questa giurisprudenza minoritaria affermavano che il rapporto tra P.A. e cittadino non
sorgesse soltanto al momento dell’emanazione del provvedimento finale ma al momento dell’avvio del
procedimento. Con la conseguenza che ogni qual volta che la P.A. nel corso del procedimento avesse
violato gli obblighi di correttezza e buona fede sarebbe stata chiamata a rispondere ed eventualmente
anche a risarcire.

Per questo motivo, il prof. Liguori afferma la necessità di inquadrare la responsabilità della P.A. come una
forma di responsabilità extracontrattuale al fine di limitare le ipotesi in cui quest’ultima è chiamata a
pagare perché in questo caso pagherebbero tutti i consociati.

Inoltre il prof. Liguori afferma che, poiché la pretesa del soggetto si sostanzia nell’attribuzione del bene
della vita, quandanche la P.A. sia chiamata a pagare, la forma di risarcimento che deve essere preferita non
è quella per equivalente ma la restitutio in integrum (che garantisce l’attribuzione del bene della vita e
dello status quo ante).

La restitutio in integrum, però, è possibile solo quando è certa la spettanza del bene della vita e cioè
quando l’esercizio del potere è vincolato. Quando, invece, c’è ancora discrezionalità da spendere è
risarcibile soltanto la chance.
Tuttavia i primi commentatori che hanno affrontato il problema della risarcibilità dell’interesse legittimo e
della restitutio in integrum non consideravano quest’ultima come una forma di risarcimento e finivano per
sovrapporla all’annullamento, che anche consente l’attribuzione del bene della vita.

Per questo il prof. Liguori si interroga sui vantaggi che offre la restitutio in integrum rispetto all’azione di
annullamento e afferma che ciò sta nel fatto che, mediante l’esperimento dell’azione di annullamento, il
soggetto, per ottenere l’attribuzione del bene della vita, deve affrontare due giudizi: uno di cognizione,
volto alla pronuncia dell’annullamento; l’altro di esecuzione, mediante l’azione di ottemperanza, volto a
ottenere l’esecuzione della sentenza.

Ricorrendo alla restitutio in integrum abbiamo, invece, un’anticipazione della tutela alla fase di cognizione
attraverso una pronuncia che è al tempo stesso costitutiva, in quanto sancisce l’annullamento del
provvedimento, e di condanna alla reintegrazione in forma specifica come misura risarcitoria.

Ovviamente ciò se ricorrono i presupposti della restitutio in integrum che sono, oltre quelli previsti dall’art.
2043 (condotta dolosa o colposa, danno ingiusto, nesso di causalità), quelli previsti dall’art. 2058 c.c. e
cioè deve risultare:

• Possibile;
• Non eccessivamente oneroso.

Per verificare la correttezza del suo ragionamento, il prof. Liguori utilizza il settore degli appalti pubblici,
nell’ambito del quale, in materia di realizzazione di grandi infrastrutture, è stata emanata una legge che
sancisce che nel caso in cui la P.A. fosse chiamata a risarcire perché ha affidato l’incarico a Tizio piuttosto
che a Caio (che sarebbe l’affidatario legittimo), dovrà farlo nelle forme del risarcimento per equivalenza.

Il prof. Liguori, da questa affermazione, ha tratto due conseguenze:

• Che, in questo specifico caso, il legislatore ha ritenuto preminente la realizzazione dell’opera;


• Che in tutti gli altri casi, la forma di risarcimento che deve essere preferita è la restitutio in
integrum.

Ne consegue che quando la P.A. si rende conto che il legittimo affidatario è il secondo in graduatoria, essa
deve porre immediatamente rimedio e non arrivare al punto in cui l’unica forma di risarcimento possibile
sarebbe quella in termini economici. In questo caso, infatti, la P.A. pagherebbe due volte:

• Colui che, pur non essendo l’affidatario legittimo, ha eseguito i lavori;


• Colui che sarebbe stato legittimato ad eseguirli, a titolo di risarcimento.

Per ovviare una cosa del genere è necessario che non ci sia stata esecuzione del contratto.

A tal fine, il legislatore ha previsto nell’art. 82 del D.lgs. 50/2016 la clausola dello stand still period che
stabilisce che la P.A. non può stipulare il contratto prima che siano trascorsi 35 giorni dalla comunicazione
dell’aggiudicazione. Questo termine è stato fissato avendo riguardo al termine di presentazione del ricorso
(30 giorni) al fine di evitare che il contratto venga stipulato in pendenza di giudizio.

Inoltre, qualora insieme al ricorso venisse proposta e concessa una misura cautelare, il contratto non potrà
essere stipulato per ulteriori 20 giorni.

Se la P.A. non rispetta i predetti termine, il giudice dovrà disporre l’inefficacia del contratto.
In questo modo il legislatore ha voluto porre un rimedio specifico per evitare la produzione del danno.
Stessa funzione viene svolta dall’art. 2 bis L.241/1990, che prevede il cosiddetto danno da ritardo.

Il nocciolo duro di questo saggio affrontato dal prof. Liguori è che:

• La responsabilità della P.A. che agisce in veste di autorità è una forma di responsabilità
extracontrattuale e ciò al fine di evitare le ipotesi in cui quest’ultima è chiamata a pagare;
• Quandanche la P.A. sia chiamata a pagare, la forma di risarcimento che deve essere preferita è la
restitutio in integrum che conviene sia al soggetto privato, in quanto, in questo modo, gli sarà
attribuito il bene della vita (vero oggetto della sua pretesa), che alla P.A., che eviterà di attingere
alle casse dei contribuenti.

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