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DIRITTO COMMERCIALE
VOLUME I

Marco Cian
Aggiornato alla legge 11 agosto 2014, n.116

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giudice è chiamato dalla legge ad operare valutazioni e ad assumere decisioni discrezionali che risultano
essere perlopiù di natura amministrativa (come la scelta di proseguire o meno l’impresa fallita subito dopo
la dichiarazione di fallimento). Questo però non toglie che l’autorità giudiziaria operi all’interno di tali
procedure soprattutto nell’esercizio della propria funzione giurisdizionale senza la discrezionalità della
pubblica amministrazione, aprendo quelle procedure ogni volta che si noti la sussistenza dei presupposti
previsti dalla legge e poi risolvendo le eventuali controversie insorte e garantendo l’attuazione coattiva dei
diritti.
Quindi l’autorità giudiziaria si limita allo ius dicere, restando disinteressata all’esito della procedura o alle
scelte discrezionali che risultano devolute agli altri organi che compongono l’apparato della procedura, se
non addirittura lasciate all’autonomia privata. Al giudice interessa soltanto che la procedura venga svolta
secondo il percorso e le finalità previste dalla legge.
Questa dovrebbe essere la regola, ma nel nostro sistema operano, invece, altre due procedure oltre al
fallimento e al concordato preventivo che sono la liquidazione coatta amministrativa e l’amministrazione
straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza che sono accomunate dal fatto di risultare gestite
da un apparato al cui interno il ruolo principale è affidato all’autorità amministratva, pur non restando del
tutto escluso l’intervento dell’autorità giudiziaria.
Il fallimento e il concordato preventivo, infatti, dovrebbero essere le procedure concorsuali principali
all’interno di un sistema del genere. Tuttavia, nel nostro ordinamento concorsuale, la maggior parte delle
imprese più importanti – per tipo di attività svolta e fatturato – risultano in caso di crisi, assoggettate alle
procedure amministrate.

CAPO PRIMO
IL FALLIMENTO
§22. I presuppost del fallimento e l’apertura della procedura
Secondo quanto chiarito dall’art. 1, l. fall., le procedure concorsuali si applicano all’imprenditore che
esercita un’attività commerciale, le cui dimensioni dell’azienda consentono di qualificarlo come non piccolo
e che sia privato, esclusi cioè gli enti pubblici.
Tali requisiti sono definiti come presupposti soggettivi del fallimento e la loro sussistenza è una condizione
necessaria perché possa aprirsi una procedura fallimentare, ma non sufficiente.
Perché possa definirsi fallimento, la legge richiede la sussistenza anche di un’altra condizione, e cioè lo stato
di insolvenza. Infatti, secondo l’art. 5 l’imprenditore che si trova in stato di insolvenza è dichiarato fallito.

Lo stato di insolvenza si manifesta con inadempimenti o altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il
debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni.
Da questa norma emergono due profili del presupposto oggettivo del fallimento: quello intrinseco, legato
alla condizione di obbiettiva impotenza finanziaria e quello estrinseco legato a fattori esteriori che la
manifestano.
Innanzitutto deve rilevarsi che l’incapacità ad adempiere alle proprie obbligazioni rappresenta una
situazione pregiudizievole non solo per i creditori, ma per tutti coloro che vantino un credito nei confronti
dell’imprenditore. Inoltre è anche allarmante per l’intero mercato e cioè per chi, pur senza esserlo ancora,
potrebbe divenire creditore dell’imprenditore già insolvente.
A tutela di questi e della par condicio creditorum occorre che la gestione dell’impresa e l’amministrazione
del patrimonio del debitore vengano sottratte all’imprenditore addebitato (c.d. spossessamento),
recuperando solo quanto fuoriuscito da tale patrimonio nel fallimento.
L’incapacità di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni viene riconosciuta dalla legge come
rilevante nella sua obiettività, cioè a prescindere dalle eventuali responsabilità del debitore o dalle cause
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che hanno determinato il dissesto. Non importa neanche il numero dei creditori e il numero di obbligazioni
che gravano sull’imprenditore o il loro ammontare o il fatto che siano già scadute oppure no.
Nell’individuare la fattispecie di fallimento occorre tenere in considerazione anche un’altra norma ossia l’art.
15, co. 9, secondo il quale “non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento se l’ammontare dei debiti scaduti
e non pagati risultanti dagli atti di istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore a trentamila
euro”.
La condizione prevista dalla legge che fa riferimento all’incapacità ad adempiere regolarmente alle proprie
obbligazioni consente anche di comprendere il rapporto tra insolvenza e inadempimento.
Dal requisito della regolarità deriva che potrebbe esservi un’incapacità ad adempiere “regolarmente” anche
quando non sussisti ancora alcun inadempimento. La regolarità dei pagamenti riguarda infatti non solo
l’integralità e la puntualità dei singoli adempimenti, ma anche le modalità attraverso cui li si effettua o ci si
procura il denaro necessario.
Inoltre, anche se la situazione di insolvenza si rileva nella sua attualità (e quindi solo se è temuta come
imminente), è pur vero che l’irregolarità degli adempimenti già rileva l’insolvenza proprio perché lascia
prevedere che a breve il debitore non potrà più adempiere, neanche irregolarmente. Questo costituisce un
pericolo attuale per i creditori dell’impresa.
Inoltre il concetto di capacità esprime una mera potenzialità e quindi esprime anche la condizione di chi sia
in grado di adempiere perché ha i mezzi per farlo, a prescindere dal fatto che poi, in concreto, si astenga dal
farlo. Potrebbe esservi così la capacità ad adempiere regolarmente pur in presenza di uno o più
inadempimenti. Questi potrebbero dipendere da ragioni diverse dall’incapacità finanziaria del debitore, ad
esempio quando quest’ultimo si rifiuta ad adempiere perché contesta la pretesa del creditore.
Per quanto riguarda il profilo estrinseco dell’insolvenza, l’art. 5 prevede che l’incapacità ad adempiere
regolarmente alle proprie obbligazioni deve manifestarsi con inadempiment o con altri fatti esteriori.

L’apertura della procedura

Il fallimento è dichiarato da un tribunale civile per iniziatva privata o pubblica.


E’ privata l’iniziativa di uno o più creditori. A questo fine il creditore (o creditori) faranno ricorso al tribunale
dovendo legittimarsi provando la propria qualità di creditori. Essi dovranno quindi provare l’esistenza di un
credito, anche se non necessariamente liquido o scaduto e neppure superiore all’ammontare minimo
previsto dalla legge per aprire la procedura (trentamila euro); resta discusso solo se il credito possa essere
solo condizionato.
Il creditore procedente dovrà poi allegare la sussistenza dei presupposti del fallimento, eventualmente
offrendo dei mezzi di prova come supporto.
Può anche essere lo stesso debitore, sempre con ricorso, a chiedere di essere dichiarato fallito (c.d.
autofallimento).
L’iniziativa pubblica, invece, è affidata alla richiesta, sempre rivolta al tribunale competente, di un pubblico
ministero al quale risulti l’insolvenza di un’impresa fallibile.
Il procedimento, sempre se non si concluda con la rinuncia agli atti del creditore procedente (c.d. istanza di
desistenza) e quindi con un possibile decreto di archiviazione prima di ogni pronuncia, si conclude con una
sentenza dichiarativa di fallimento o con un decreto di rigetto.
La sentenza dichiarativa di fallimento, necessariamente motivata, ha natura di accertamento costitutivo
dello stato di fallimento, derivandone tutti gli effetti connessi all’apertura della procedura fallimentare. Tali
effetti si producono nei confronti delle parti dopo che essa sia stata notificata o comunicata ad esse, e nei
confronti dei terzi dopo la sua iscrizione nel registro delle imprese.
La sentenza, inoltre, conterrà ulteriori provvedimenti di natura ordinatoria per la prosecuzione della
procedura stessa: si nominano alcuni organi della procedura (il giudice delegato e il curatore), si ordina al
fallito il deposito della documentazione relativa alla sua situazione economica e finanziaria e si stabiliscono i
termini entro i quali dovrà tenersi l’adunanza per l’esame dello stato passivo (e cioè il complesso delle

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pretese che saranno avanzate da chi affermi di vantare crediti o diritti su cose in possesso del fallito).
Il procedimento per la dichiarazione di fallimento potrebbe anche concludersi con un decreto di rigetto,
fondato sull’accertata insussistenza dei presupposti del fallimento, o della soglia minima dei trentamila euro
di debiti scaduti o della stessa qualità di creditore di chi avesse proposto ricorso.

§23. Gli organi del fallimento


Il tribunale

E’ innanzitutto il tribunale che apre il procedimento dichiarando il fallimento e resta poi investito dell’intera
procedura (art. 24). Il tribunale non solo nomina altri due organi ossia il giudice delegato e il curatore, ma
può anche, sorvegliando lo svolgersi della procedura, revocarli o sostituirli per giusta causa. Per svolgere
tale sorveglianza, il tribunale oltre ad avere un rapporto diretto con il giudice delegato, può anche sentire gli
altri organi fallimentari e lo stesso fallito.

Il tribunale, inoltre, ha il potere di decidere tutte le controversie relative alla procedura che non siano di
competenza del giudice delegato: quelle “interne” ad essa (ad es. i reclami contro i provvedimenti del giudice
delegato o la revoca del curatore), ma anche quelle “esterne” ossia tutte le azioni che ne derivano, qualunque ne
sia il valore, comprese quelle immobiliari.
Le cause che derivano dal fallimento sono tutte quelle che in assenza della procedura fallimentare
potrebbero essere di competenza di altri giudici ma che, per il fatto di derivare dal fallimento, determinano
una competenza inderogabile al tribunale fallimentare. Queste riguardano tutte quelle cause che, anche se
si riferiscono a rapporti preesistenti al fallimento, non avrebbero avuto ragione di esistere in assenza del
fallimento, come l’azione revocatoria fallimentare, o le controversie in cui si discute se la procedura
fallimentare ha prodotto lo scioglimento o no di un certo contratto. Non sono cause di fallimento, invece,
quelle che il fallito avrebbe potuto proporre per suo conto, anche a prescindere dal fallimento e cioè
l’azione per ottenere il pagamento di una fornitura effettuata o il risarcimento per un illecito subito.

Il giudice delegato

Il giudice delegato assume le decisioni attraverso cui svolge il suo ruolo centrale per la procedura attraverso
un decreto. Egli non dirige la procedura ma vigila e controlla la sua regolarità (art. 25). Inoltre, il suo
rapporto con il tribunale è molto stretto e si instaura quando quest’ultimo nomina il giudice delegato
scegliendolo al suo interno, e si sviluppa nel continuo rapporto tra questo e il collegio, al quale dovrà riferire
su ogni affare per il quale è richiesto un provvedimento del collegio e sulle quali quest’ultimo è chiamato a
decidere.

Il curatore

Il curatore è nominato dal tribunale tra soggetti muniti di particolari requisiti di professionalità, esperienza
ed indipendenza, ed è l’organo, investito della qualità di pubblico ufficiale, che operativamente si fa carico di
attuare la finalità della procedura.
Egli ha l’amministrazione del patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura (art.31).
Egli pertanto è legittimato a compiere atti negoziali con terzi ( ad es. contratti di affitto dell’azienda, o vendendo beni
dell’asse fallimentare) e a stare in giudizio per conto della procedura. Nell’esercitare questo potere il curatore è
sostanzialmente autonomo, infatti i suoi atti possono costituire oggetto di reclamo solo dal punto di vista
dell’eventuale violazione di legge.
La sua legittimazione risulta condizionata da autorizzazioni: sono autorizzazioni del giudice delegato (come
quella a continuare l’esercizio dell’impresa o ad affittare l’azienda) o di quelle del comitato dei creditori per gli atti di
straordinaria amministrazione, cioè tutti quegli atti che, per la loro rischiosità o il loro impatto, sono capaci

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di condizionare gli esiti della procedura. Inoltre, delle transazioni e degli atti eccedenti i cinquantamila euro,
dovrà darsi notizia al giudice delegato.
Se poi si tratta di atti che attuano l’azione liquidatoria pianificata ex ante in un programma di liquidazione,
questo dovrà essere approvato dai creditori e comunicato al giudice delegato, che autorizzerà il
compimento degli atti ad esso conformi.
Poco dopo l’inizio della sua attività, il curatore dovrà presentare al giudice delegato una relazione
particolareggiata sulle cause e sulle circostanze del fallimento e sulla condotta e le eventuali responsabilità,
anche penali, del fallito; dopodiché ogni sei mesi deve presentare un rapporto riepilogativo delle attività
svolte.
Infine, all’esito del suo mandato, renderà il conto della gestone con il quale potrà liberarsi della
responsabilità. Se invece, dopo il rendiconto o durante la procedura gli venisse contestato di non aver
adempiuto ai suoi doveri con la diligenza professionale, allora potrà essere revocato e subire un’azione di
responsabilità.

Il comitato dei creditori

I poteri di gestione del curatore vengono compartecipati dal comitato dei creditori.
Questo, infatti, è chiamato a condividere le iniziative del curatore, spesso autorizzandole o limitandosi ad
esprimere un mero parere non vincolante.
La condivisione delle scelte che possono rivelarsi anche strategiche, rende opportuno che il comitato dei
creditori venga composto da creditori scelti dal giudice delegato, dopo aver consultato il curatore e i
creditori, in modo da rappresentare in maniera equilibrata quantità e qualità dei crediti ed avuto riguardo
alla possibilità di soddisfarli.
Per orientare meglio le proprie scelte, il comitato ha ampi poteri ispettivi (su tutta la documentazione della
procedura) ed informatvi (chiedendo notizie al curatore e al fallito), decidendo poi, anche informalmente e con voto
espresso a distanza a maggioranza dei votanti.
Anche contro tali decisioni è ammesso reclamo al giudice delegato da parte del fallito o di ogni altro
interessato, per violazione di legge. Poi il giudice deciderà attraverso decreto motivato, a sua volta
reclamabile al tribunale.

§24. Gli effetti del fallimento


I. Per il debitore

Lo spossessamento

Lo spossessamento è la sentenza che dichiara il fallimento e che priva il fallito di amministrare e disporre
dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione del fallimento (art. 42): per beni si intende ogni situazione
giuridica attiva, anche processuale, di cui il fallito è titolare.
Da questo momento (dichiarazione della sentenza ed iscrizione nel registro delle imprese) e per tutta la
durata della procedura, tali poteri spetteranno al curatore, per destinare il patrimonio del fallito alla
soddisfazione dei creditori, dando così attuazione al principio della responsabilità patrimoniale che
comporta che il debitore risponda non solo con i suoi beni presenti, ma anche con quelli futuri, poiché
saranno compresi anche i beni che pervengono al fallito durante la procedura (ad es. un’eredità o il denaro
guadagnato per mezzo di attività lavorativa o anche una vincita al gioco. Non sono, invece, da considerarsi pervenuti i beni
preesistenti ma occultati dal debitore e rinvenuti poi durante la procedura ).
Lo spossessamento si caratterizza per la relatività della sua efficacia. Esso, infatti, opera solo a beneficio dei
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creditori e non riguarda necessariamente tutti i beni del fallito. Soprattutto, per quanto riguarda i beni
appresi dalla massa, incide solo sulla legittimazione del fallito ad amministrare i beni o a disporne, ma non
sulla titolarità dei relativi diritti che rimane immutata almeno fino a quando essi non escano dal patrimonio
per essere stati ceduti a terzi. Se però all’esito della procedura, tale cessione non avviene, il fallito non solo
sarebbe ancora titolare dei diritti sui beni residui, ma recupererebbe anche la piena legittimazione a
disporne. Lo spossessamento è un effetto temporaneo, che dura finché resta aperta la procedura.

Perdere la legittimazione a disporre di beni appresi alla procedura significa solo che, finché essa dura,
nessuna iniziativa del fallito può distogliere quei beni dalla finalità di soddisfare i creditori, rispetto ai quali,
ogni iniziativa del fallito resterà del tutto inefficace. Si parla, appunto, di inefficacia relatva. Infatti, siccome
il fallito, per effetto dello spossessamento non perde né la titolarità dei suoi beni, né la capacità di agire,
ogni atto da lui compiuto durante la procedura sarebbe valido e produrrebbe i suoi effetti nei confronti dei
terzi, ed eccezione dei creditori concorsuali, rispetto ai quali quell’atto non modifica la consistenza del
patrimonio fallimentare destinato ad essere liquidato a loro soddisfazione ( ad es. se il fallito, con regolare atto di
vendita iscritto nei registri immobiliari, alienasse un bene immobile compreso nel patrimonio fallimentare, ciò sarebbe totalmente
inefficace per la procedura e il curatore potrebbe vendere quell’immobile e destinare il ricavato ai creditori concorsuali. Ciò, però,
non impedirebbe che il terzo che abbia acquistato dal fallito, invocando la validità dell’atto compiuto, potrebbe, fuori dalla
procedura, agire contro l’alienante per l’evizione subita ) .
Quindi il significato della regola che costituisce il corollario dello spossessamento è che tutti gli atti
compiuti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci rispetto ai creditori. Questa regola si
estende anche ai pagamenti eseguiti e ricevuti dal fallito, così se il fallito utilizzasse attività occultate alla
procedura per pagare alcuni creditori concorsuali non solo compirebbe un reato (c.d. bancarotta
preferenziale) ma metterebbe colui che avesse ricevuto il pagamento nella condizione di dover riversare alla
procedura quanto ottenuto. Se invece un debitore del fallito effettuasse un pagamento direttamente a
quest’ultimo, ciò non lo libererebbe dal debito, ma lo costringerebbe a pagare nuovamente alla procedura,
salvo che non sia lo stesso fallito a rimettere il pagamento ottenuto nelle mani del curatore.

Sul piano processuale, come è spossessato dal suo patrimonio, allo stesso modo viene spossessato di tutte
le controversie relative a rapporti patrimoniali che lo riguardano. Egli non potrà partecipare al processo ma
verrà sostituito dal curatore che assume la veste di sostituto processuale in rappresentanza del fallito.
Gli effetti della dichiarazione di fallimento per il fallito oltre che patrimoniali, possono essere anche
personali, che possono essere individuati in due diritti garantiti dalla costituzione: la segretezza epistolare
(scritti che contengono informazioni di carattere confidenziale e personale, inerenti all’intimità della vita privata ) e la libertà di
circolazione.

II. Per i creditori

Come abbiamo visto, la finalità del fallimento è quella di soddisfare le obbligazioni assunte nei confronti dei
creditori concorsuali, chiamati in tal modo in quanto l’apertura della procedura farà sì che l’accertamento e
la soddisfazione delle rispettive pretese dovrà avvenire collettivamente, anche al fine di rispettare la regola
della par condicio e quindi concorsualmente
Dall’apertura del fallimento, pertanto, tali creditori non potranno più agire individualmente, in quanto ne
deriverebbe che, chi per primo si fosse attivato aggredendo il patrimonio del debitore, vedrebbe soddisfatto
interamente il suo credito anche nel caso in cui il patrimonio del debitore non bastasse poi a soddisfare più
gli altri creditori. Però si è osservato che il diritto fallimentare ha cercato di porvi rimedio affermando il
principio della proporzionalità, assicurando così una regolazione concorsuale di tutti i crediti (universalità
soggettiva) su tutto il patrimonio del debitore (universalità oggettiva) all’interno della procedura.
Tuttavia, il principio della par condicio, nel fallimento, opera solo fra creditori di pari rango e deve convivere
con il contrastante principio di preferenza, che consiste che fra i creditori concorsuali potrebbero esservene
alcuni muniti di legittime cause di prelazione (privilegio, pegno, ipoteca). Questi sono perciò anche detti
“privilegiati” poiché meriteranno di essere soddisfatti con precedenza rispetto agli altri creditori, detti
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invece “chirografari”. Vi sono tanti casi in cui il principio di preferenza prevale su quello di proporzionalità.
Tra i chirografari, inoltre, possono esservi anche altri creditori, detti subordinati o postergati, che potranno
essere soddisfatti soltanto dopo tutti gli altri chirografari.
Inoltre, anche se la finalità principale del fallimento è quella di soddisfare tutti i creditori concorsuali, vi
sono anche altri due tipi di pretese di cui essa dovrà tener conto: si tratta, innanzitutto, delle pretese aventi
ad oggetto diritti, reali o personali, su beni i quali si escludono dalla massa attiva destinata alla regolazione
concorsuale dei crediti. Chi vanta di tali pretese, quindi, chiederà che questi beni vengano separati dalla
massa attiva per essergli attribuiti in quanto è l’unico avente diritto, che viene così soddisfatto integralmente
e non concorsualmente (ad es. il proprietario di un bene che giace, magari per una riparazione, nel magazzino dell’impresa
fallita, potrà rivendicare tale bene facendo valere la titolarità di un diritto reale su cosa, che gli spetta per intero senza essere
destinata alla liquidazione concorsuale).
Benché, poi, i crediti sorti dopo il fallimento restano del tutto estranei alla procedura, possono esservene
altri dei quali invece la massa dovrà farsi carico per legge o per scelta degli organi concorsuali ( ad es. si pensi a
quanto occorra per pagare il compenso del curatore; o alle obbligazioni assunte dalla curatela per proseguire l’esercizio
dell’impresa; o per far fonte all’acquisto di beni sopravvenuti, come un eredità accettata ). In questi casi, non si tratta di
debiti concorsuali ma di debit della massa, cioè di debiti che gli organi della procedura hanno
dovuto/voluto assumere e che dovranno quindi essere pagati per intero e prima degli altri crediti, ossia in
prededuzione e quindi non concorsualmente.
Anche per questi crediti e per le altre pretese su beni di cui si chiede la separazione dalla massa, è previsto
che il relativo accertamento e la loro regolazione avvenga all’interno della procedura e secondo le regole da
essa imposte.
Tali principi, trovano espressione in due regole fondamentali poste dagli art. 51 e 52.

i. Il primo prevede il c.d. blocco delle azioni esecutve e cautelari (individuali): cioè dal giorno della
dichiarazione di fallimento nessun azione individuale esecutiva o cautelare, anche per i crediti
maturati durante il fallimento, può essere iniziata o proseguita nei confronti di questo.
ii. Inoltre, ogni credito e ogni altro diritto reale o personale, dovrà essere accertato secondo le norme
stabilite, cioè ogni pretesa avanzata nei confronti della procedura dovrà essere verificata secondo le
norme tipiche della procedura fallimentare, in tema di accertamento del passivo e dei diritti
mobiliari dei terzi.

Le domande dei creditori cautelari circa il soddisfacimento dei loro crediti, una volta verificate, andranno a
formare la c.d. massa passiva (cioè dei debiti fallimentari), facendo divenire i creditori concorsuali dei versi
e propri creditori concorrent sulla c.d. massa attiva, cioè nella ripartizione dell’attivo fallimentare.
Per realizzare questa finalità è necessario che la massa attiva e la massa passiva siano omogenee e
stabilmente definite.
L’omogeneità sarà assicurata dal rendere entrambe le masse misurabili in denaro.
La stabilizzazione, invece, verrà assicurata da un lato impedendo che dalla massa attiva possono essere
integrati valori al di fuori delle regole della procedura e dell’iniziativa dei suoi organi, e dall’altro attribuendo
un valore nominale fermo ai crediti concorsuali, cioè senza che il trascorrere del tempo, e quindi il maturare
degli interessi, possa variarne la consistenza. In questo caso si parla anche di cristallizzazione del patrimonio
fallimentare.
Tali esigenze sono disciplinate dagli art. 59 e 55.
Il primo si occupa dei credit non pecuniari e cioè che hanno ad oggetto una prestazione diversa dal denaro
(ad es. un terzo che attendeva la fornitura di merce) o anche in una prestazione in denaro ma determinata con
riferimento ad altri valori (ad es. una fattura da regolarsi in dollari). Tali crediti, detti di valore, se non sono ancora
scaduti, concorreranno secondo il loro valore alla data della dichiarazione del fallimento; mentre, se scaduti,
concorreranno secondo il valore che la prestazione avrebbe avuto alla data di scadenza, aumentato magari
dal valore del risarcimento per il ritardo.
Essi si considereranno scaduti agli effetti del concorso.
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Quando si tratta, invece, di credit pecuniari, le esigenze di stabilizzazione troveranno risposta soprattutto
impedendo che su di essi possano essere conteggiati interessi ulteriori rispetto a quelli già maturati alla data
del fallimento. Essi così verranno ammessi per il loro valore attuale e dal quel momento in poi il corso degli
interessi sarà sospeso agli effetti del concorso, cioè che tali ulteriori interessi non potranno essere fatti
valere nella procedura, ma nei confronti del fallito dopo la chiusura della procedura stessa.

In ultimo, va ricordata un’importante eccezione al principio della par condicio, e cioè quella che consente ai
creditore di compensare i propri crediti con i debiti eventualmente assunti verso il fallito, anche se non
scaduti.
L’eccezione sta nel fatto che, mentre gli altri creditori concorsuali vengono soddisfatti solo in parte all’esito
del fallimento, chi può liberarsi di un debito compensandolo con un proprio credito, consegue un risultato
equivalente all’integrale soddisfazione del credito. Per impedire, quindi, che tale vantaggio sia perseguito
strumentalmente, la legge impedisce che la compensazione operi se il credito è stato acquistato per atto tra
vivi dopo la dichiarazione di fallimento o nell’anno anteriore.

III. Sugli atti pregiudizievoli ai creditori

Fra le conseguenze che la legge ricollega all’apertura della procedura fallimentare vi è la possibilità di
eliminare gli effetti di alcuni atti giuridici che, prima del fallimento, ma quando l’insolvenza si era già
verificata, hanno inciso negativamente sulla garanzia patrimoniale che si offre ai creditori concorsuali nel
momento in cui si apre la procedura. Quindi bisogna reintegrare tale garanzia riportandola alla maggiore
consistenza che aveva nel periodo precedente al fallimento.
Anche nel caso di atti posti in essere prima del fallimento, occorre affermare la loro inefficacia rispetto ai
creditori, quindi non la loro invalidità inter partes, ma la possibilità di recuperare quanto fuoriuscito dal
patrimonio del debitore per effetto di quegli atti, per poi sottoporlo all’esecuzione fallimentare o alla c.d.
revocatoria incidentale, cioè di disconoscere ogni pretesa sorta in capo a terzi per effetto di tali atti.
Un meccanismo di reintegrazione della garanzia patrimoniale del debitore è già contemplato dal nostro
ordinamento sotto il nome di azione revocatoria ordinaria. Questo è uno strumento che consente ad un
creditore di far dichiarare inefficaci nei suoi confronti gli atti con i quali il debitore ha recato pregiudizio alle
sue ragioni, in modo che questo, ottenuta la dichiarazione di inefficacia dal giudice, possa agire
esecutivamente sul bene oggetto dell’atto impugnato, come se questo non fosse mai stato sottratto alla sua
garanzia patrimoniale. L’esercizio di tale azione è prevista dalla stessa legge fallimentare rimettendola ala
sola iniziativa del curatore e a beneficio di tutti i creditori concorsuali. I presupposti di tale azione, l’onere
probatorio e l’ambito degli atti revocabili, comportano però dei limiti alla possibilità di reintegrazione della
garanzia patrimoniale che la legge ha voluto attenuare con riferimento al caso in cui il debitore è un
imprenditore fallito, prevedendo un regime ad hoc più favorevole.

Vi sono innanzitutto degli atti compiuti dall’imprenditore prima del suo fallimento la cui inefficacia rispetto
ai creditori opera di diritto. Ciò vuol dire che il provvedimento con il quale il tribunale fallimentare afferma
tale inefficacia, avrà natura meramente dichiarativa, accertando un effetto che si è già prodotto con
l’apertura del fallimento.

i. Sono inefficaci di diritto, gli atti a ttolo gratuito compiuti dal fallito nei due anni anteriori alla
dichiarazione di fallimento (art. 64). Questi sono: gli atti traslatvi (come la donazione), gli atti di
destnazione (come un fondo patrimoniale) o gli atti di rinunzia ad un diritto o di remissione del debito.
ii. Allo stesso regime sono sottoposti i pagament antcipat, sempre se compiuti nei due anni anteriori
al fallimento (art. 65). Si tratta di pagamenti non di tutti i crediti non ancora scaduti, ma di crediti la
cui scadenza sarebbe venuta a verificarsi nel giorno della dichiarazione del fallimento o nei
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successivi, e ciò perché se per il pagamento si fosse attesa la naturale scadenza, al momento
dell’apertura del fallimento tali crediti sarebbero stati sottoposti alla regolazione concorsuale come
tutti gli altri. Attraverso la revoca, quindi, si provoca la parificazione.

L’art. 67 si occupa, invece, di regolare la vera e propria azione revocatoria fallimentare, che potrà essere
promossa dal curatore su autorizzazione del giudice delegato, dinanzi al tribunale fallimentare.
Si tratta di uno strumento volto ad ottenere la dichiarazione di inefficacia, rispetto ai creditori, degli atti a
titolo oneroso, dei pagamenti e delle garanzie poste in essere in un momento in cui l’imprenditore, non
ancora fallito, si trovava già in uno stato di insolvenza noto, o presumibilmente noto, alla controparte.
Si assiste così ad una sorta di retrodatazione dell’effetto prodotto dalla dichiarazione di insolvenza (cioè
l’indisponibilità del patrimonio del fallito) ad un momento precedente (c.d. periodo sospetto) a quello in cui
quell’insolvenza era già in essere.
Tuttavia, anche a tutela delle generali esigenze di buona fede e di sicurezza nei traffici, tale effetto non
deriva dal mero accertamento del caso che un certo atto sia stato compiuto nel periodo sospetto in
presenza di una condizione di insolvenza (presupposto oggettivo), ma dalla circostanza che il terzo
conoscesse, o che presumibilmente conoscesse, tale stato di insolvenza, c.d. scientia decoctionis
(presupposto soggettivo).
Gli atti revocabili sono distinti dalla legge in normali ed anormali. La normalità o l’anormalità di un atto è
riferita alle condizioni e agli elementi che ne caratterizzano il compimento e alla loro capacità di mostrare un
eventuale atto di insolvenza.
Mentre nel caso degli atti compiuti a condizioni naturali sarà il curatore a dover provare lo stato di
insolvenza del terzo; nel caso di atti anormali, la conoscenza dello stato di insolvenza sarà presunta in
capo al terzo e sarà questo a dover fornire l’eventuale prova contraria per sottrarsi agli effetti della
revocatoria, dimostrando che ignorava tale stato.

Sono considerati anormali:

i. gli atti a ttolo oneroso compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, se le
prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano di otre un quarto ciò che a lui è
stato dato o promesso;
ii. gli atti estntvi (cioè i pagamenti) di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati con denaro o
con altri mezzi normali di pagamento, se compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di
fallimento. Se un debito che avrebbe dovuto essere eseguito in denaro venne invece eseguito
attraverso una datio in solutum (merci di magazzino, gioielli, titoli), ciò è sinonimo di una crisi di
liquidità del debitore che fonda una presunzione di insolvenza.
iii. le garanzie (pegni, ipoteche) costituite nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento per propri
debiti preesistenti e non scaduti. La presunzione di insolvenza, in questo caso, sta nel fatto che
normalmente, se un debito ancora non è scaduto, il creditore dovrebbe aspettare; mentre se si fa
rilasciare una garanzia non pattuita originariamente, è presumibile che lo faccia perché teme la
sopravvenuta incapacità del debitore di pagare alla scadenza.
iv. lo stesso vale per le garanzie concesse per debit scadut. In questo caso però, il periodo sospetto è
abbreviato a sei mesi rispetto il caso precedente. Dopo la scadenza di un debito, il debitore
dovrebbe pagare, mentre la concessione di una garanzia evidenzia il suo bisogno di ottenere una
dilazione, e quindi una difficoltà, o incapacità, di adempiere alla scadenza.

Sono considerati, invece, normali:

i. i pagament di debit liquidi ed esigibili (scaduti);


ii. gli atti a ttolo oneroso per i quali non ricorrono indici di anomalia;
iii. quelli costitutivi di un diritto di prelazione (pegno, ipoteca) per debiti, anche di terzi, creati
contestualmente.
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L’individuazione del periodo sospetto si deve computare a partire dalla data più risalente della
pubblicazione della domanda di concordato preventivo.

L’art. 67 prevede una serie di esenzioni con cui si vuole evitare che la prospettiva di un’azione revocatoria
fallimentare possa scoraggiare il compimento di alcuni atti, potenzialmente utili per superare lo stato di crisi
di un’impresa e che provoca un timore che potrebbe condurre i terzi ad isolare un’impresa in crisi,
aggravando tale crisi fino a renderla irreversibile. Gli atti esenti dalla revocatoria fallimentare sono:

a) Pagament di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso. In questo
modo l’attività d’impresa potrà proseguire senza che le controparti cessino di effettuare le proprie
controprestazioni (ad es. una fornitura di materie prime), potendo confidare nella salvezza dei pagamenti
ricevuti, purché tali pagamenti avvengano nei termini d’uso, cioè nei modi e nei tempi osservati
ordinariamente fra le parti.
b) Le rimesse effettuate su un conto corrente bancario che non abbiano ridotto in misura consistente
e durevole l’esposizione debitoria del fallito verso la banca.
c) Pagament per prestazioni di lavoro effettuate da dipendenti ed altri collaboratori del fallito.
d) Gli atti, i pagament e le garanzie concesse su beni del debitore in esecuzione di un “piano di
risanamento” dell’impresa. In questa prospettiva l’esecuzione del piano viene “incoraggiata”
garantendo l’esenzione da una possibile futura revocatoria degli atti attraverso i quali dovrebbe
trovare esecuzione.
e) Gli atti, i pagament e le garanzie concesse su beni del debitore in esecuzione di un concordato
preventvo o di un accordo di ristrutturazione dei debit omologato. Anche in questo caso si tratta
di atti che realizzano una soluzione della crisi d’impresa secondo un piano il cui rispetto dovrebbe
consentire di evitare il fallimento. Tale soluzione viene incoraggiata promettendo che, se non
dovesse riuscire, comunque resteranno sottratti a revocatoria fallimentare gli atti attraverso cui il
piano dovrebbe realizzarsi.
f) Vengono esentati anche i pagament eseguiti alla scadenza per ottenere la prestazione di servizi
strumentali all’accesso al concordato preventivo.
g) Costituisce un caso a sé, invece, l’esenzione dalla revocatoria delle vendite e dei preliminari di
vendita aventi ad oggetto immobili ad uso abitatvo destinati a costituire l’abitazione principale
dell’acquirente o di suoi parenti o affini fino al terzo grado. Questo però solo a condizione che sia
stato pattuito un giusto prezzo. Invece, si inserisce nella logica protettiva dell’impresa la stessa
esenzione che riguarda gli immobili ad uso non abitativo quando sono destinati a costituire la sede
principale dell’attività d’impresa dell’acquirente.
h) Le operazioni di credito su pegno (ad es. un’anticipazione bancaria) e quelle di credito fondiario.

Secondo l’art. 69-bis, che pone un termine di decadenza, le azioni revocatorie non possono essere promosse
decorsi tre anni dalla dichiarazione di fallimento e decorsi cinque anni dal compimento dell’atto.
Per azioni revocatorie si intendono, oltre a quelle fallimentari, anche quelle degli atti inefficaci di diritto e
degli atti fra coniugi, ossia la revocatoria ordinaria.
Il curatore, nel rivolgersi al tribunale per far dichiarare l’inefficacia di un atto, preferirà avvalersi dell’azione
revocatoria fallimentare piuttosto che di quella ordinaria prevista dall’art. 2901 c.c. perché molto più
agevole e di ampia applicazione. Tuttavia, l’azione revocatoria ordinaria potrà risultare necessaria se l’atto
da revocare sia stato posto in essere, sia pure entro il termine di cinque anni dal suo compimento, prima del
periodo sospetto previsto per la revocatoria fallimentare.
Per quanto riguarda gli effetti dell’azione revocatoria, il suo successo comporta l’inefficacia dell’atto nei
confronti dei creditori concorsuali, quindi non la sua invalidità ma la neutralizzazione degli effetti negativi
che quell’atto altrimenti avrebbe prodotto sulla garanzia patrimoniale disponibile al momento dell’apertura
del fallimento.
Questo vuol dire che se l’imprenditore avesse assunto, con atto revocabile, un’obbligazione nei confronti dei
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terzi o concesso loro una garanzia, non si tratterà di un’azione revocatoria volta a recuperare il bene
fuoriuscito dal patrimonio del fallito, ma di disconoscere nei confronti del terzo il credito o la garanzia
ottenuta. Si tratta della c.d. revocatoria incidentale che, potendo operare anche in via di eccezione,
potrebbe essere fatta valere anche senza limiti di tempo.
Se invece si tratta di un atto oneroso che ha comportato l’assunzione di un’obbligazione già eseguita o un
trasferimento immediato di un diritto o ancora di un pagamento, allora quanto ricevuto dal terzo, o il
relativo valore (attuale) in denaro, dovrà essere restituito alla curatela per essere sottoposto all’esecuzione
collettiva di tutti i creditori concorsuali.
Il terzo che ha subito la revoca avrà, però, diritto ad insinuarsi al passivo per il credito corrispondente alla
controprestazione da lui effettuata. Conseguentemente, dopo la restituzione, si farà valere un credito pari al
valore della propria prestazione.

IV. Sui rapport giuridici preesistent

Prima del fallimento, il fallito avrà normalmente posto in essere, nell’esercizio della sua attività, una fitta
attività contrattuale.
Potrà trattarsi di contratti che hanno già trovato integrale esecuzione, ed allora vi sarà la possibilità per il
curatore di disconoscerne gli effetti ricorrendo ad un’azione revocatoria che consente di recuperare quanto
è fuoriuscito dal patrimonio del fallito in esecuzione di quei contratti.
Lo stesso discorso vale quando una delle due parti abbia integralmente eseguito la propria prestazione o
l’effetto reale del trasferimento si è già prodotto. In questo caso residuerà solo un credito della controparte,
che potrà insinuarlo al passivo, a meno che il curatore riesca a neutralizzare tale pretesa, o residuerà solo un
credito a favore del patrimonio fallimentare, che il curatore potrà esigere salvo che preferisca revocare l’atto
facendosi restituire quanto prestato in esecuzione del contratto e rinunciare ad esigere il credito.
Vi è anche la possibilità che all’apertura del fallimento un certo contratto, di per sé opponibile al fallimento,
sia ancora del tutto ineseguito o non compiutamente eseguito da entrambe le parti. In tal caso gli art. 72 ss.
parlando di rapport giuridici preesistent, disciplinando gli effetti che l’apertura del fallimento produce su
tali rapporti, indicati anche come contratti pendent. Rispetto a tali ipotesi, l’interessa della curatela sarà
quello di svincolarsi da un accordo contrattuale ancora da adempiersi.
Tale interesse è assicurato dalla regola generale prevista dall’art. 72.
Innanzitutto, con la dichiarazione di fallimento l’esecuzione dei contratti pendenti resta sospesa e in questo
arco di tempo, il curatore potrà non adempiere agli obblighi previsti dal contratto senza incorrere in alcun
tipo di sanzione, e lo stesso potrà fare il terzo in via di eccezione.
Tale stato di sospensione perdura fino a quando il curatore non scelga se subentrare nel contratto o
sciogliersi da esso: il primo caso si avrà quando il curatore ritiene conveniente la prosecuzione del
contratto, chiedendo che la sua scelta sia autorizzata dal comitato dei creditori. Tale scelta è pero
discrezionale, nel senso che né il comitato dei creditori, né altro organo della procedura, possono obbligare
il curatore a subentrare nel contratto; né tanto meno una volta che l’autorizzazione fosse avvenuta, si
potrebbe impedire al curatore di non subentrarvi più. La prosecuzione avviene per effetto di una
dichiarazione negoziale rivolta al terzo che, nel frattempo, resta in attesa passiva, salva la possibilità di
sollecitare una decisione del curatore, costituendolo in mora attraverso la richiesta al giudice delegato di
assegnargli un termine (massimo 60 giorni), trascorso il quale, in mancanza di decisione positiva, il contratto
si intenderà sciolto.
La scelta di far proseguire l’esecuzione del contratto è una scelta del curatore. Essa comporta anche
l’assunzione a carico della massa dei relativi obblighi. I crediti del terzo derivanti da quel contratto
diverranno dei debiti della massa, da pagarsi in prededuzione rispetto ai crediti concorsuali e quindi per
intero.
Quando invece il curatore decide che sia più conveniente svincolarsi dagli impegni contrattuali assunti dal
fallito, potrà farlo sciogliendo il contratto (c.d. resiliazione). Ciò, si ritiene senza neanche la necessità di

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un’autorizzazione del comitato dei creditori, infatti, potrebbe bastare anche la mera inerzia del curatore a
provocare lo scioglimento. Una volta sciolto il contratto, se il terzo avrà già adempiuto in parte alla sua
prestazione, avrà diritto di far valere nel passivo il relativo credito, da recuperare in moneta fallimentare.
Non avrà però diritto ad alcun risarcimento del danno per non aver ottenuto quanto promesso dal fallito.
Un contratto preliminare, deve precisarsi infine, che è un contratto come qualsiasi altro, salva la
particolarità che in questo caso la prestazione rispetto alla quale scegliere tra l’esecuzione e lo scioglimento
consisterà nella prestazione del consenso alla stipulazione del contratto definitivo.
La regola generale dell’art. 72 ammette delle eccezioni, ossia ipotesi particolari rispetto alle quali la legge
deroga alla regola generale e dispone a volte la prosecuzione automatica, altre lo scioglimento automatico e
altre ancora l’una o l’altra a seconda di alcune circostanze.

§25. Lo svolgimento della procedura


Attività preliminari

Le attività preliminari che devono essere compiute per dare inizio alla procedura, sono disciplinate dagli art.
84 ss. della legge fallimentare.
Fra queste attività preliminari vi è innanzitutto quella volta a concretizzare materialmente lo
spossessamento del fallito, attraverso la materiale sottrazione alla sua disponibilità di beni che entreranno
nella massa attiva. In questo proposito, la legge attribuisce al curatore il potere/dovere di farsi consegnare il
denaro contante, gli effetti cambiari e gli altri titoli del fallito, le scritture contabili e per gli altri beni di
apporre su di essi di sigilli secondo le norme previste dal Codice di procedura civile.
La vera e propria presa materiale dei beni che andranno a comporre la massa attiva avviene però con la
redazione dell’inventario nel quale non andranno inseriti i beni di terzi che sono nella mera disponibilità
materiale del fallito, mentre andranno però compresi i beni del fallito non sottoposti a sigillazione, come
quelli detenuti dai terzi, o il denaro e i titoli che il curatore si è fatto consegnare.
Uguale è l’attività preliminare con la quale il curatore comincia ad identificare la massa passiva: egli, infatti
sulla base principalmente delle scritture contabili, compilerà un elenco dei creditori, con l’indicazione dei
rispettivi crediti e dei diritti di prelazione, nonché l’elenco di tutti coloro che vantino diritti reali o personali
su cose in possesso o nella disponibilità del fallito.

La procedura fallimentare, essendo rivolta a regolare le pretese concorsuali presuppone che di tali pretese si
verifichi l’effettivo fondamento giuridico, cioè che si verifichi che chi le vanti sia l’effettivo titolare del diritto.
Tali pretese, come già detto, consistono in crediti verso il fallito, in eventuali diritti reali o personali su beni
in possesso del fallito e dei quali l’avente richiede la restituzione o il rilascio, sperandoli così dalla massa
attiva destinata a soddisfare i creditori concorsuali.
Inoltre, poiché è sempre dalla massa attiva che si dovrà attingere quanto necessario per soddisfare le
ulteriori pretese non concorsuali che si formano dalla procedura stessa (c.d. debiti della massa), anche di
esse dovrà verificarsi il fondamento giuridico, quindi per esse vi sarà concorso formale.
Secondo la regola del concorso “ogni credito, diritto di prelazione, o altro diritto reale o personale, deve
essere accertato secondo le norme previste dal capo V dalla legge fallimentare che prevede l’accertamento
del passivo e dei diritti reali mobiliari dei terzi”.

Gli organi fallimentari dovranno quindi attivarsi per definire la massa del passivo, cioè individuando gli
effettivi aventi diritto sui beni compresi nell’attivo del curatore e degli aventi diritto a partecipare, come
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creditori, ai riparti del residuo attivo.


Un primo passo fondamentale è rappresentato dagli elenchi dei creditori e dei titolari dei diritti di terzi su
cose in possesso del fallito, sulla base dei quali, oltre alle scritture, il curatore comunicherà a tutti coloro che
risultano vantare pretese concorsuali: che possono partecipare al concorso depositando domanda presso il
tribunale; le date fissate per l’adunanza dei creditori in cui dovrà esaminarsi lo stato passivo e per
presentare la relativa domanda e ogni informazione utile per agevolare la presentazione della domanda.
La domanda è riservata a chiunque vanti una pretesa contro il fallito e sarà proposta con ricorso che
indicherà, a pena di invalidità, il suo oggetto (la somma per la quale si fa ricorso o il bene di cui si chiede la
restituzione), l’eventuale titolo di prelazione e le ragioni che supportano la pretesa, anche producendo i
documenti giustificativi della propria pretesa (ad es. un contratto, una cambiale ecc.).
Alla luce delle domande proposte sarà definito il quadro a disposizione del curatore, che potrà così
predisporre un progetto di stato passivo che contiene le motivate conclusioni raggiunte in merito a ciascuna
domanda; tali conclusioni potranno essere negative quando il curatore eccepisca l’esistenza di fatti estintivi,
modificativi o impeditivi del diritto fatto valere, o la sua inefficacia.
L’udienza di verifica è fissata dalla sentenza dichiarativa di fallimento entro 120 o al massimo 180 giorni dal
suo deposito; essa si svolge in un’unica sessione e possono intervenire tutti gli interessati, c.d. adunanza
dei creditori. Alla presenza di questi, il giudice delegato esamina tutte le domande alla luce delle conclusioni
e delle eccezioni del curatore, delle osservazioni svolte e della documentazione prodotta dalle parti, e
all’esito della verifica, il giudice deciderà con decreto motivato su ciascuna domanda:

 dichiarandola inammissibile (perché non proposta nei termini o perché priva dei suoi elementi
necessari) ma potranno essere riproposte;
 respingendola in toto;
 ammettendola in toto, cioè negli stessi termini in cui è stata proposta;
 ammettendola solo in parte;
 ammettendola con riserva.

Terminato l’esame di tutte le domande, il giudice delegato forma lo stato passivo dichiarandolo esecutvo
con decreto depositato in cancelleria, che ha natura decisoria su ciascuna domanda e produce effetto
soltanto ai fini del concorso.
Dell’esito della verifica e del relativo decreto depositato in cancelleria, il curatore darà infine comunicazione
a tutti coloro che hanno proposto domanda e con ciò concludono la fase necessaria dell’accertamento del
passivo.

L’esercizio provvisorio e l’affitto d’azienda

La procedura fallimentare opera come una procedura esecutiva collettiva sull’intero patrimonio del
debitore, il cui fine è la realizzazione dell’attivo e la destinazione del ricavato alla soddisfazione dei creditori
concorrenti. Questo obiettivo emerge ripetutamente dallo stesso testo della legge, e soprattutto dalla
disciplina contenuta nel Capo VI “dell’esercizio provvisorio e della liquidazione dell’attivo”.
Si parla di esercizio provvisorio sempre con riferimento all’impresa sottoposta a fallimento, essendo poi
prevista anche la disciplina dell’affitto dell’azienda.
La possibilità di esercitare provvisoriamente l’impresa o di dare in affitto l’azienda di cui si avvale, sono due
delle principali opzioni che il curatore deve considerare, prevedendole se reputate convenienti, nel
pianificare la realizzazione nell’attivo mediante il programma di liquidazione.

L’esercizio provvisorio dell’impresa potrebbe essere disposto dallo stesso tribunale con la sentenza
dichiarativa di fallimento, qualora ritenga che dall’interruzione possa derivare un danno grave.
Salva tale ipotesi, però, è al curatore che spetta di valutare l’opportunità della prosecuzione,
sottoponendola al parere del comitato dei creditori. Se tale parere sarà favorevole, il giudice delegato potrà
autorizzare la prosecuzione dell’impresa, anche limitatamente a singoli rami aziendali. Tuttavia, la
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prosecuzione è temporanea, dovendosi prevedere una durata che tenga conto del fine della procedura e
cioè della realizzazione del valore dell’impresa.
La prosecuzione dell’attività comporta l’attribuzione al curatore del potere di gestire anche la parte
strumentale, che comporta di effettuare scelte imprenditoriali e quindi anche di sopportare rischi.
La gestione, pertanto, essendo riferibile solo alle scelte della curatela, prevede che ogni nuova obbligazione
che ne derivi costituirà un debito della massa e lo stesso varrà anche per i debiti derivanti dai contratti
pendenti. Infatti, insieme alla prosecuzione dell’impresa, devono proseguire automatcamente anche i
contratti pendent, salva la possibilità per il curatore di valutare successivamente se sciogliersene o
sospenderne l’esecuzione.
Dall’insieme delle regole che disciplinano la prosecuzione dell’impresa, risulta evidente come essa sia una
soluzione che deve essere adottata con prudenza. Infatti, la cessazione prima della durata prevista, potrà
essere ordinata sia dal giudice delegato ogni volta che il comitato dei creditori ne riconosce l’opportunità; o
dallo stesso tribunale anche a prescindere dal parere favorevole del comitato dei creditori.

Diversamente, invece, ci si riferisce all’affitto dell’azienda o dei suoi rami.


In questo caso non solo gli organi concorsuali sono sollevati dall’onere di gestire l’impresa direttamente, ma
la legge fissa delle regole volte a far sì che la massa passiva non si aggravi delle obbligazioni nuove sorte per
la prosecuzione dell’attività. Al vantaggio della conservazione dell’avviamento, si aggiunge anche quello di
accrescere la massa, incassando, in attesa della cessione, i canoni del suo affitto.
L’affitto dovrà essere autorizzato dal giudice delegato anche prima della presentazione del programma di
liquidazione e sempre su proposta del curatore e previo parere favorevole del comitato dei creditori.
Inoltre, al momento della retrocessione dell’azienda affittata, i debiti maturati durante l’affitto
continueranno a gravare solo sull’affittuario, così come i contratti pendenti.

La liquidazione dell’attivo

La liquidazione dell’attivo consiste, oltre che nei beni rinvenuti nel patrimonio del debitore all’apertura del
fallimento, anche negli altri diritti derivanti da rapporti giuridici facenti capo al fallito e nelle pretese
estranee al patrimonio del debitore prima dell’apertura del fallimento, ma spettanti alla curatela.
L’obbligo del curatore, quindi, è quello di predisporre un articolato programma di liquidazione che funge da
atto di pianificazione e di indirizzo intorno alle modalità e ai termini previsti per la realizzazione dell’attivo.
Quindi si impone al curatore di compiere tale missione secondo un piano razionale per evitare i rischi di
irrazionali disgregazioni liquidatorie.
L’approvazione del piano spetta al comitato dei creditori, mentre al giudice delegato spetta, oltre che un
controllo di legittimità formale del programma, l’autorizzazione dell’esecuzione degli atti conformi.

La legge indica come soluzione preferibile quella delle cessioni aggregate, vale a dire che la liquidazione dei
singoli beni è consentita solo quando risulta prevedibile che la vendita dell’intero complesso aziendale o di
suoi rami, o di beni o rapporti giuridici in blocco non consenta una maggiore soddisfazione di creditori.
Il contratto di cessione d’azienda o di suoi rami è sottoposto alla disciplina generale dell’art. 2556, anche
con riferimento ai contratti dai quali il curatore non si sia già sciolto e ai credit rispetto ai quali il cessionario
continuerà a beneficiare dei privilegi e delle garanzie già concesse al cedente. Per quanto riguarda i debit,
invece, la loro sorte è diversa in quanto, siccome i debiti dell’impresa fallita eccedono il suo valore, nessuno
la acquisterebbe se dovesse sottostare alla regola dell’accollo. Infatti, la legge vuole che dei debiti
dell’azienda non dovrà farsi carico il cessionario, ma sempre e solo la procedura.
Sono cedibili, inoltre, anche i singoli credit compresi quelli di natura fiscale o futuri o contestati.
Importante è poi la previsione della cedibilità delle azioni revocatorie concorsuali (art. 106): ciò significa
che se il curatore avesse già intrapreso una o più azioni revocatorie, potrebbe cedere la relativa pretesa ad
un terzo che gli subentri. In questo modo la curatela otterrà un realizzo certo ed immediato della propria
pretesa, senza dover condizionare i tempi della procedura a quelli del procedimento giudiziale in cui è fatta

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valere tale pretesa. Il terzo, invece, pagando un prezzo scontato rispetto al valore di quanto si spera di
ottenere dal successo dell’azione, potrà realizzare un risultato maggiore che gli sarebbe stato impossibile
perseguire altrimenti, per non avere la legittimazione originaria.
In ultimo, l’art. 107 definisce le modalità delle vendite e degli altri atti di liquidazione, ossia le procedure
che regolano l’individuazione dell’acquirente e la determinazione del prezzo. Al riguardo, la disciplina
concede ampia libertà al curatore, che potrà avvalersi, oltre che delle procedure di rito, anche di procedure
private, secondo forme libere. Sarà però necessario che rispettino alcune condizioni che dovrebbero
favorire il miglior risultato possibile, cioè che le procedure siano competitive e quindi aperte al massimo
numero di potenziali partecipanti. E’ quindi da escludersi la legittimità di una vendita effettuata a trattativa
privata fra il curatore e un terzo senza che vi sia stata la possibilità per altri soggetti di partecipare alla
trattativa con le loro offerte. Tali procedure dovranno inoltre partire dalla consapevolezza del valore di
mercato dell’oggetto dell’offerta e svolgersi, quindi sulla base di stime.

L’ordine di distribuzione

La soddisfazione dei creditori con l’effettiva ripartizione tra di essi del denaro ottenuto all’esito delle attività
di liquidazione. Nonostante tale fase potrebbe apparire semplice, si complica in seguito a due problemi.
Il primo riguarda la molteplicità dei criteri legali in ragione dei quali i crediti possono presentarsi con diversa
forza e ciò impedisce di considerarli tutti sullo stesso piano e non consente, quindi, di limitarsi alla
distribuzione del denaro ricavato in proporzione all’ammontare di crediti accertati, ma si deve tener conto
del loro ordine o rango. Quindi si crea una tensione fra il principio di preferenza e quello di proporzionalità.
Il secondo problema deriva, invece, dalla considerazione che la ripartizione è tanto più utile quanto più
tempestiva. Ciò ha condotto il legislatore a prevedere che essa cominci, mediate riparti parziali, senza
attendere il completamento delle attività di accertamento del passivo e di liquidazione dell’attivo, ma man
mano che da tale liquidazione si ricavino somme distribuibili. Questa scelta però va incontro ad uno stato di
incertezza riguardante l’ammontare complessivo del ricavato finale della liquidazione e quella riguardante
l’ammontare complessivo delle pretese che dovranno essere soddisfatte.
Il primo dei due problemi è quello di regolare l’ordine di distribuzione delle somme prevedendo diversi
livelli di preferenza nella partecipazione al riparto. Da tale previsione risalta che il principio della par
condicio vale solo per i crediti dello stesso rango, senza però escludere che possa operare un ordine
secondo cui alcune categorie di crediti vengano preferite ad altre. Quindi varrà una gerarchia in virtù della
quale ai creditori di un rango più basso non potrà venire ripartito nulla finché non trovino integrale
soddisfazione quelli di rango più elevato. Precisamente, l’art. 111 prevede che le somme ricavate dalla
liquidazione dell’attivo vengano erogate secondo tale ordine:

i. per il pagamento dei crediti prededucibili;


ii. per il pagamento di crediti ammessi con prelazione sulle cose vendute secondo l’ordine assegnato
dalla legge;
iii. per il pagamento dei creditori chirografari, in proporzione dell’ammontare del credito per cui siano
stati ammessi;
iv. fra i chirografari dovranno comprendersi anche i crediti postergati o subordinati.

I. I credit prededucibili sono quelli sorti in occasione o in funzione della procedura concorsuale. Vi
rientrano innanzitutto quelli necessari allo svolgimento della procedura (spese per la procedura),
compresi i compensi che spettano a coloro che abbiano prestato la propria opera all’interno della
procedura stessa (come il curatore), o le spese sostenute dal creditore per ottenere l’apertura della
procedura e quelli relativi ai c.d. debiti della massa, cioè quelli contratti dal curatore. Vi rientrano,
inoltre, quelli sorti in occasione o in funzione di altra procedura concorsuale ( ad es. il compenso che

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spetta ai professionisti incaricati di redigere la domanda di ammissione al concordato ). Nonostante si tratti di crediti
sorti durante la procedura fallimentare, ciò non toglie che anch’essi debbano essere accertat; una
volta accertati, andranno soddisfatti per il capitale, le spese e gli interessi, fino al giorno del
pagamento, ed essendo preferiti agli altri crediti hanno discrete probabilità di essere pagati per
intero.
II. Vengono poi i credit assistt da legittime cause di prelazione (pegno, ipoteca, privilegio), detti
anche privilegiati. Anche tra questi può operare un concorso, regolato dall’ordine di graduazione
previsto dalla legge. Quindi, può capitare che i creditori muniti di cause di prelazione non trovino
soddisfazione sull’oggetto della garanzia che era stata loro concessa ( ad es. chi gode di un’ipoteca di
secondo grado su un immobile potrebbe vedere che la sua garanzia non sia soddisfatta perché il ricavato del bene
ipotecato vada a favore del creditore ipotecario di primo grado).
III. Vi sono, in ultimo, i creditori chirografari. Solo fra questi opera la par condicio in proporzione
all’ammontare del loro credito sul ricavato della liquidazione che non sia stato assorbito dal
pagamento dei crediti prededucibili o privilegiati.
I chirografari sono sia gli stessi creditori privilegiati che non hanno trovato soddisfazione attraverso
la propria garanzia, sia coloro che vantano di credit subordinat o postergat.
La subordinazione potrà essere imposta dalla legge o pattuita per contratto e potrà essere assoluta
(cioè nei confronti di tutti i creditori chirografari) o relativa (cioè che opera solo rispetto ad alcuni
chirografari). I creditori subordinati, pertanto, si troveranno in una posizione di subalternità e
vengono indicati come antiprivilegiati.

Il procedimento di ripartzione

Le regole che disciplinano la distribuzione tendono ad assecondare l’interesse dei creditori alla maggiore
tempestività, anche se nell’incertezza di quanto sarà, alla fine, il totale del ricavato e dei crediti da
soddisfarsi. Il procedimento della ripartizione comporta che il ricavato possa venire distribuito, mediante dei
ripart parziali, trattenendo però una percentuale delle somme disponibili (c.d. accantonamenti) per
mantenersi in condizione di far fronte, in sede di ripartzione finale, anche ai crediti che sono maturati o
accertati medio tempore.

Le ripartzioni parziali dovranno avvenire nei tempi indicati dal giudice delegato (solitamente ogni quattro
mesi, ma anche con cadenze più ampie) sulla base di un prospetto delle somme disponibili e di un progetto
di ripartizione elaborati dal curatore (art. 110).
I progetti di ripartzione dovranno prevedere degli accantonament, trattenendo e depositando, in una
percentuale non inferiore al 20% delle somme disponibili, le somme occorrenti per la procedura e per far
fronte ai creditori incerti.
Gli accantonamenti sono inevitabili anche perché è esclusa la restituzione di somme riscosse (c.d. principio
dell’irripetbilità, art. 114).
Procedendo ai riparti parziali si giungerà infine al completamento della liquidazione dell’attivo e a questo
punto il curatore dovrà presentare il rendiconto. Approvato tale rendiconto e liquidato il compenso del
curatore, il giudice delegato, sempre su proposta del curatore, ordinerà la ripartizione finale delle somme
che avverrà sempre secondo i criteri che governano le ripartizioni parziali, salvo il fatto che dovranno essere
distribuiti anche gli accantonamenti effettuati.

§25. La chiusura del fallimento e l’esdebitazione


Secondo il Capo VIII della legge fallimentare, la chiusura del fallimento è uno dei due modi di cessazione
della procedura fallimentare.
Le cause di chiusura del fallimento, diverse dal concordato fallimentare e previste dall’art. 118 sono:

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1. La mancanza di domande di ammissione al passivo entro il termine previsto dalla sentenza di


apertura. In questo caso la sentenza rimarrebbe priva di scopo, anche se fosse stata avviata da un
creditore quando, neppure questo, proponesse la domanda. La procedura non avrebbe scopo
neanche se vi fossero solo domande di rivendicazione e restituzione in quanto il loro
soddisfacimento avverrebbe anche senza regolazione concorsuale.
2. Quando vi sia stata la soddisfazione di tutti i creditori anche prima che sia compiuta la ripartizione
finale dell’attivo, se le ripartizione già eseguite hanno raggiunto l’intero ammontare dei crediti
ammessi.
3. Quando è compiuta la ripartzione finale dell’attivo e quindi non resta più nulla da liquidare e
ripartire, anche se alcuni crediti restano insoddisfatti.
4. Per mancanza di attivo sufficiente a far dronte, anche in parte, non solo ai crediti concorsuali ma
anche a quelli prededucibili e alle spese di procedura.

Quando si verificano tale ipotesi, la chiusura del fallimento non avverrà automaticamente ma sarà il
tribunale che, su istanza del curatore o d’ufficio, emanerà un decreto di chiusura.
Gli effetti di tale decreto saranno diversi.
Per il fallito, cesseranno gli effetti dello spossessamento e le incapacità o limitazioni di carattere personale.
Egli così riacquisterà la piena disponibilità ed amministrazione del proprio patrimonio e quindi non solo di
quella parte eventualmente già sottratta agli effetti dello spossessamento, ma anche di quella residuata che
gli verrà restituita, oltre i beni che dovessero sopravvenire. Il fallito potrà proseguire anche nei rapporti
giuridici preesistenti che non siano sciolti.
Gli organi fallimentari, invece, decadranno anche se si lascia individuare qualche competenza
ultrafallimentare.
Nei confronti del creditori gli effetti sono importanti. Con la chiusura del fallimento ogni creditore (anche
posteriore all’apertura del fallimento) riacquisterà il libero esercizio delle azioni verso il debitore. I creditori,
infatti, potranno tornare ad agire individualmente per la parte del loro credito eventualmente non
soddisfatta nel fallimento. Chiusa la procedura, si riaprirà anche la possibilità di esigere gli interessi.
Infine, con riguardo alle azioni già intraprese, occorrerà distinguere le cause intraprese dal curatore in
sostituzione del fallito o dei creditori se non ancora conclusa alla chiusura del fallimento e allora si
interromperanno per essere riassunte dai legittimati naturali. Le azioni derivanti dal fallimento, dove non
cedute a terzi, verranno dichiarate improcedibili e i relativi giudizi saranno interrotti.
Dopo che il fallimento sia stato chiuso, potrebbe aversi, nel termine massimo di cinque anni, una riapertura dello stesso (art. 121) in
quanto potrebbe essere utile riattivare la procedura per regolare crediti che non hanno trovato soddisfazione alla chiusura della
stessa se nel frattempo si fosse ricreata la possibilità di nuove ripartizioni.

E’ possibile che con la chiusura del fallimento o dopo di essa, si produca l’effetto dell’esdebitazione, che
consiste nella liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti.
Tale effetto può essere disposto quando, nel decreto di chiusura del fallimento o in un successivo decreto ad
hoc, vengano dichiarati inesigibili nei confronti del debitore già fallito:

 sia i debiti concorsuali non soddisfatti integralmente;


 sia quelli verso i creditori concorsuali non concorrenti.

L’esdebitazione può operare, inoltre, solo a favore di persone fisiche che ne facciano apposita istanza con
ricorso presentato in sede di chiusura del fallimento o entro un anno dopo il relativo decreto.
Alla base di questo beneficio vi è la considerazione che alla prospettiva sanzionatoria convenga far prevalere
quella recuperatoria, incentivando la persona fisica fallita a reimpiegare le proprie forze lavorative
nell’iniziativa economica anziché restare paralizzata dai debiti. Questo obiettivo, però, è perseguibile solo
concedendo una liberazione dai debiti pregressi che non scoraggi la nuova attività (c.d. fresh start).
Peraltro, il soggetto fallito può cominciare una nuova attività solo se si sia rivelato onesto e meritevole, cioè

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che abbia tenuto comportamenti collaborativi con gli organi della procedura e quindi non risulta di aver
avuto nel passato condotte che inducano ad escludere la sua onestà o meritevolezza.
Inoltre, poiché tale beneficio comporta un sacrificio dei creditori, la legge stessa, per evitare che il sacrificio
risulti eccessivo, subordina la concessione di tale beneficio alla condizione che, all’esito della procedura, i
creditori concorsuali siano soddisfatti almeno in parte.
Se tutti questi requisiti sussistono, il tribunale potrà accoglierlo con decreto eventualmente reclamabile dai
creditori insoddisfatti.

§27. Il fallimento delle società


Originariamente la procedura fallimentare venne concepita solo con riguardo all’impresa individuale, per
questo motivo vi sono poche norme dettate per le società. Tale strategia legislativa è però inadeguata dal
momento che si è constatato che la maggior parte (in termini di rilevanza economica e non di numero) dei
fallimenti, riguarda le imprese che hanno forma societaria.
La parte della legge fallimentare dedicata alle società si occupa essenzialmente di attuare la responsabilità
(per debito) dei soci e di quella (per illecito) dei componenti degli organi delle società fallite.
Per quanto riguarda gli effetti della dichiarazione di fallimento sulla società, deve ritenersi che il fallimento,
pur comportando normalmente l’integrale liquidazione del patrimonio sociale, non provoca di per sé lo
scioglimento della società di capitali e delle cooperative. Inoltre, il fallimento non provoca neanche la
cessazione del funzionamento degli organi sociali, né la decadenza dei loro componenti.
Ovviamente le competenze degli organi sociali e, in particolare, degli amministratori, sono ridotte in
conseguenza al fallimento e, soprattutto di quella serie di effetti che riguardano lo spossessamento. Infatti,
ogni potere riguardante la gestione dell’impresa o l’amministrazione del patrimonio della società, dovrà
ritenersi sottratto agli organi sociali per effetto dell’avvenuto fallimento.
Inoltre, secondo l’art. 118 in caso di fallimento di una società, il curatore dovrà chiederne la cancellazione
dal registro delle imprese; se però il fallimento si chiude con un residuo attivo per la società, essa, cessati gli
effetti dello spossessamento, potrebbe proseguire la propria esistenza che potrebbe dipendere da un
aumento di capitale deliberato dai soci o dall’incorporazione della società fallita da parte di altra società in
bonis che ripieni i debiti dell’incorporata o che ne elimini lo stato di insolvenza.

L’art. 147 prevede che la sentenza che dichiara il fallimento di una società in nome collettivo, in
accomandita semplice o in accomandita per azioni, produce anche il fallimento dei soci illimitatamente
responsabili (pur se non persone fisiche).
Il fallimento “in estensione” è solo quello che si propaga dalla società ai soci illimitatamente responsabili e
non viceversa. Infatti, secondo l’art. 149 l’eventuale fallimento di uno dei soci, non comporta il fallimento
della società (ma solo, al limite, l’esclusione del socio fallito).
Quando ne ricorrono i presupposti, il fallimento in estensione dei soci si produrrà automaticamente, infatti
dovrà essere dichiarato dal tribunale senza che occorra l’istanza di altri soggetti e senza che occorra
procedere all’accertamento dell’esistenza dei presupposti di fallibilità in capo ai soci.
Il fallimento del socio illimitatamente responsabile può ritenersi un’eccezione che continua a giustificarsi in
ragione dell’utilità di sottoporre anche i patrimoni dei singoli soci alle procedure concorsuali in modo da
governare unitariamente, secondo le regole della par condicio, sia il concorso delle pretese dei creditori
sociali sia di quelli personali dei soci.
Però il fallimento in estensione può verificarsi anche in altre due serie di ipotesi:

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a) La prima riguarda i casi in cui il socio abbia cessato di essere tale (per morte, recesso o esclusione)
o di essere illimitatamente responsabile. In questi casi potrà essere dichiarato fallito in estensione
solo se ricorrono due ulteriori condizioni:
i. se non sia decorso più di un anno dallo scioglimento del rapporto sociale o dalla
cessazione della responsabilità illimitata;
ii. sempre che l’insolvenza della società attenga, almeno in parte, a debiti esistenti alla data
della cessazione della responsabilità illimitata del socio.
b) La seconda serie di ipotesi riguarda invece l’eventuale scoperta, successiva alla dichiarazione di
fallimento della società, di soci illimitatamente responsabili. In questo caso la dichiarazione di
fallimento sarà non solo in estensione (o come si distingue in questi casi “in ripercussione”), ma
anche successiva, per effetto di un’ulteriore sentenza del tribunale pronunciata su istanza del
curatore o di uno o più creditori, o di uno o più soci falliti.
i. Potrà trattarsi di soci illimitatamente responsabili ulteriori rispetto a quelli già noti al
momento della dichiarazione di fallimento della società (c.d. soci occult).
ii. O si tratterà di soci illimitatamente responsabili scoperti dopo il fallimento dichiarato nei
confronti di un soggetto ritenuto di essere un imprenditore individuale quando, sempre
successivamente a tale dichiarazione, si accerti che in realtà l’impresa dichiarata fallita non
era individuale, ma riferibile ad una società di cui il soggetto dichiarato fallito era socio (c.d.
soci occult di società occulte).
iii. Diverso, invece, è il caso in cui, sulla base di un vincolo sociale soltanto apparente, si arrivi
a pronunciare il fallimento di un socio apparente di società esistente o di una società
apparente e dei suoi soci.

Con la dichiarazione di fallimento della società e dei suoi soci illimitatamente responsabili, si apriranno
altrettante procedure, fra loro distnte ma fortemente connesse, in quanto lo scopo perseguito dalla legge
è proprio quelli di regolare il concorso delle pretese dei creditori sociali con quelle dei creditori personali
dei soci.
Al fine di consentire tale coordinamento, l’art. 148 prevede innanzitutto la nomina di organi comuni alle
diverse procedure; infatti, il tribunale procederà alla nomina di un solo giudice delegato e di un solo
curatore, salva però la possibilità di nominare diversi comitati dei creditori.
Inoltre, siccome ciascun socio risponde illimitatamente e solidalmente verso tutti i creditori sociali, il credito
dichiarato dai creditori sociali nel fallimento della società si intenderà dichiarato per l’intero nel
fallimento dei singoli soci.
D’altra parte, i creditori particolari di ciascun socio parteciperanno solo al fallimento di quest’ultimo,
infatti ne risulta che il patrimonio della società e quello dei soci sono tenut distnt e per ciascuna
procedura occorrerà procedere, seppur in modo coordinato, formando distinte masse passive,
distinguendo quindi i debiti assunti in nome della società da quelli assunti a nome del socio. Sulla base di
questo stesso principio, occorrerà determinare anche diverse masse attive, cioè quella rappresentata dal
patrimonio sociale e quelle costituite dai patrimoni personali dei singoli soci, su cui concorreranno i
creditori sociali e personali.
Sulla base di queste distinte masse attive e passive, occorrerà assicurare: il concorso fra i creditori personali
e i creditori sociali; la par condicio fra i creditori sociali; la ripartizione del carico delle obbligazioni sociali fra
i soci in misura proporzionale alla partecipazione di ciascuno.

i. Dal primo punto di vista, tutti i creditori, sociali e personali, concorreranno nelle singole procedure
secondo le consuete regole, nei limiti in cui i rispettivi crediti sono stati ammessi, potendo anche
contestare i crediti di qualunque altro creditore con cui si trovino in concorso.

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ii. La par condicio fra i creditori sociali sarà invece assicurata dalla loro partecipazione a tutte le
ripartizioni effettuate in ciascuna procedura alla quale siano stati ammessi, fino all’integrale
pagamento.
iii. Infine, qualora risultasse che alcuno dei soci abbia dovuto farsene carico in misura più che
proporzionale rispetto a quanto dovuto in rapporto alla sua partecipazione sociale, resterebbe la
possibilità di un regresso fra i fallimenti dei soci per la parte eventualmente pagata in più, sempre
che vi sia un residuo attivo nelle procedure aperte a carico degli altri soci.

Più semplici sono le conseguenze del fallimento di una società per i suoi soci limitatamente responsabili, in
quanto rispetto a questi, si tratterà solo di attuare i loro obblighi per gli eventuali conferimenti non ancora
eseguiti. Si tratta di soci accomandanti di s.a.s. e di s.a.p.a., di soci di s.p.a., s.r.l. e di società cooperative.
I versament ancora dovut dai soci costituiscono uno dei possibili crediti della massa, di cui il curatore
potrebbe esigere direttamente il pagamento o potrebbe anche chiedere al giudice delegato l’emissione di
un decreto ingiuntivo verso i soci per ottenere i versamenti ancora dovuti, anche se non fosse ancora
scaduto il termine stabilito per il pagamento.
Lo stesso tema è quello affrontato dall’art. 2467 c.c. che legittima il curatore a chiedere ai soci il rimborso di
quanto da essi ha eventualmente ricevuto in restituzione dei finanziament concessi alla società.

Vi sono, infine, due titoli di responsabilità in caso di fallimento, che potranno essere fatti valere dal
curatore, ossia la responsabilità verso la società e verso i creditori sociali.
Il curatore esercita le azioni di responsabilità contro:

 gli amministratori;
 i component degli organi di controllo;
 i direttori generali e i liquidatori;
 nella s.r.l. contro i soci che abbiano deciso o autorizzato intenzionalmente il compimento di atti
dannosi per la società, i soci e i terzi.

Tali azioni di responsabilità potranno essere esercitate dal curatore solo previa autorizzazione del giudice
delegato e sentito il comitato dei creditori. A queste condizioni, la legittimazione del curatore sarà esclusiva,
poiché tali azioni non possono essere intraprese dai soci o dai creditori ed e si interrompono eventualmente
siano state già intentate.

CAPO SECONDO
LE SOLUZIONI NEGOZIATE DELLA CRISI
§28. Il concordato preventvo
La tensione fra un’impresa commerciale in crisi e i suoi creditori può trovare soluzioni diverse da quella che
si impone con l’apertura di una procedura fallimentare.
I percorsi giudiziali alternativi a quello fallimentare che la legge prevede sono il concordato preventivo e gli
accordi di ristrutturazione dei debiti.
Il concordato preventivo costituisce, come il fallimento, una procedura concorsuale giudiziale.
Attraverso di essa un imprenditore in crisi ha la possibilità, senza perdere il potere di gestire la sua impresa e
godendo di una moratoria sui debiti esistenti, di formulare una proposta ai suoi creditori per il
soddisfacimento, parziale o differito, dei loro diritti. La proposta, se regolarmente accettata dalla
maggioranza dei creditori e omologata dal tribunale, limiterà i debiti dell’imprenditore a quanto in essa
promesso, con conseguente liberazione da ogni altro debito preesistente.
Per comprendere la funzione del concordato preventvo, è importante individuare i presupposti e

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l’obiettivo che la legge individua nella “ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei creditori”, quindi
ha, al pari di quella fallimentare, una finalità satisfattiva.
Anche dal punto di vista dei presuppost e da quello soggettivo vi è una coincidenza delle due procedure.
Dal punto di vista oggettivo, il presupposto del concordato preventivo è lo stato di crisi in cui si venga a
trovare l’impresa, dove per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza. L’insolvenza, quindi,
rappresenta un possibile (e più grave) stato di crisi, ma quest’ultimo potrebbe anche ricorrere in situazioni
meno gravi.
E’ però importante precisare di quale intensità minima devono essere tali difficoltà per poter essere
qualificati come “crisi”. Lo stato di crisi comprende anche quelle situazioni in cui, pur non essendosi
verificato un vero e proprio stato di insolvenza, vi sia comunque una situazione che realizzi il concreto
rischio, se non addirittura la certezza, che un’insolvenza, ancora non in essere, si verificherà e che sia
imminente.
La possibilità di accedere ad una procedura concorsuale pure in una situazione di difficoltà che non sia
ancora lo stato di insolvenza è data dalla funzione preventva, antcipatoria, del concordato rispetto al
fallimento. L’imprenditore in crisi ha così la possibilità di avviare una regolazione concorsuale dei propri
debiti prima ancora che la sua situazione economico-finanziaria di deteriori al punto di divenire una vera e
propria insolvenza. In questo modo il debitore, senza subire gli effetti del fallimento, potrà pilotare la crisi
della propria impresa e beneficiare di una parziale esdebitazione; ma anche i creditori potranno beneficiare
di un valore che potrà essere maggiore rispetto a quello ricavabile da una procedura fallimentare e ciò
grazie alla possibilità di anticipare il momento in cui si procederà alla regolazione concorsuale dei loro
crediti e soprattutto grazie ad un piano che, essendo ideato da chi meglio di tutti conosce le potenzialità ed
il reale valore dell’impresa in difficoltà, può consentire di estrarre da quest’ultima un valore superiore a
quello che risulterebbe dall’esito di una liquidazione fallimentare.
Un risultato economico preferibile rispetto all’alternativa fallimentare potrà conseguirsi anche quando al
concordato si accedi già in una condizione di insolvenza: in questo caso il concordato si porrà come
alternatva al fallimento.
Spetterà poi ai creditori chiamati ad approvare la proposta, di valutare, in concreto, quali vantaggi possono
realisticamente essere raggiunti attraverso il piano proposto.

Il nucleo della domanda di concordato consiste in una proposta ai creditori che viene articolata sulla base di
un programma detto piano concordatario. Tale proposta deve essere formulata esclusivamente dal debitore
che ha ampia autonomia nel determinarne i contenuti e nel programmare le modalità attraverso cui gli
obiettivi determinati potranno essere perseguiti. Ciò potrà avvenire attraverso qualsiasi forma (art. 160) ma
è lo stesso art. che prevede alcune forme in cui il piano potrebbe presentarsi:

a) Fra le forme più semplici rientra la possibilità di una mera promessa di pagamento parziale e/o
dilazionato dei crediti esistenti (c.d. concordato remissorio o dilatorio), solitamente assistita da
garanzie prestate da terzi.
b) Può essere anche prevista una mera cessione dei beni ai creditori (c.d. concordato liquidatorio): in
questo caso si tratta di una forma di liquidazione del patrimonio dell’imprenditore.
c) Forme più complesse si hanno quando il piano intende raggiungere la soddisfazione dei creditori
attraverso il compimento di operazioni straordinarie, come un conferimento d’azienda in una
società nuova o preesistente; un’incorporazione della società in crisi da parte di un’altra in bonis;
una trasformazione della società in crisi.
d) La proposta concordataria potrà essere assistita da garanzie, reali o personali, tipiche o atipiche, a
favore di tutti o alcuni creditori, che potranno essere prestate dallo stesso imprenditore o da terzi.
Anche se tali garanzie provengono dall’imprenditore, non è detto necessariamente che sia proprio
questo a farsi carico di realizzare quanto promesso; infatti, è possibile che la proposta stessa indichi
un terzo, c.d. assuntore che si accolla i debiti di cui il piano prevede il pagamento.

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e) Fra le modalità ritroviamo anche la suddivisione dei creditori in classi secondo posizione giuridica
e interessi economici omogenei, riservando trattamenti diversi ai creditori appartenenti a classi
diverse. Tuttavia i creditori di un’impresa in crisi non costituiscono un gruppo omogeneo poiché si
scompone in gruppi che hanno aspettative diverse, in ragione del titolo giuridico vantato e della
loro condizione economica: tra questi ritroviamo i crediti tributari e contributivi.
Ciò mostra che il rischio di un’offerta identica per tutti raccolga un consenso inferiore di quello che
invece potrebbe raggiungersi se l’offerta potesse essere differenziata rispetto ai diversi gruppi.
f) L’art. 160 mostra, infine, un’opzione e cioè quella di prevedere un pagamento non integrale dei
creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, purché la soddisfazione assicuratagli non risulti
inferiore a quella realizzabile sul ricavato in caso di liquidazione. Per la parte restante del credito, i
privilegiati saranno considerati come chirografari e possono essere destinatari di un’offerta di
pagamento parziale in base al patrimonio residuo.

L’apertura della procedura

La proposta del debitore risulta rappresentata processualmente dalla domanda di ammissione alla
procedura, che assume la forma del ricorso.
Insieme al ricorso deve essere depositata anche la documentazione idonea a rappresentare le componenti
attive e passive di cui i creditori dovranno tener conto per valutare la convenienza della proposta, e in
particolare:

- un’aggiornata relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa;


- uno stato analitico ed estimativo delle attività;
- l’elenco nominativo dei creditori, con l’indicazione dei rispettivi crediti e delle cause di prelazione;
- l’elenco dei titolari dei diritti reali o personali su beni di proprietà o in possesso del debitore;
- il valore dei beni e i creditori particolari degli eventuali soci illimitatamente responsabili;
- una descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta.

Quest’ultimo punto risulta di primaria importanza quando il piano prevede che la soddisfazione dei creditori
dovrà realizzarsi impiegando flussi di cassa (redditi futuri) provenienti dalla prosecuzione dell’esercizio
dell’attività d’impresa: c.d. concordato con contnuità aziendale.
Esso riguarda le ipotesi in cui venga prevista espressamente la prosecuzione dell’attività d’impresa
direttamente da parte del debitore, o la cessione dell’azienda in esercizio, o il suo conferimento in una o
più società. La descrizione delle modalità e dei tempi dell’adempimento deve essere integrata anche da
un’indicazione analitica dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal
piano di concordato (c.d. cash flows), delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di
copertura, nonché da una specifica attestazione che attesti che la prosecuzione dell’attività prevista dal
piano è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori.
La domanda e la documentazione dovranno essere accompagnati dalla relazione di un professionista che
attesti la veridicità dei dati aziendali esibiti e la fattibilità del piano stesso. Tale attestazione deve ripetersi
nel caso in cui, nel corso della procedura, il piano subisca delle modifiche.

Inoltre bisogna tener presente che il legislatore si è fatto carico di favorire l’ammissione al concordato
preventivo anche nei casi in cui l’imprenditore ancora non sia riuscito, o non abbia avuto il tempo, di stilare
un piano concordatario da presentare ai creditori.
L’art. 161 allora consente all’imprenditore in stato di crisi di depositare un ricorso contenente la domanda di
concordato, riservandosi di presentare la proposta, il piano e la documentazione successivamente, entro
un termine assegnatogli dal giudice con decreto; si parla, perciò, di concordato con riserva o preconcordato
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(o concordato prenotativo o in bianco).


Il vantaggio sta che nel periodo concessogli dal decreto (dai 60 ai 120 giorni, prorogabili di ulteriori 60 in
presenza di giustificati motivi, più altri 60 giorni in caso già penda istanza di fallimento), il debitore potrà
definire la proposta concordataria senza temere di incorrere in una dichiarazione di fallimento, dal
momento che nel frattempo già cominciano a prodursi alcuni effetti tipici della domanda di concordato, fra
cui il divieto dei creditori di azioni esecutive individuali.
Naturalmente, entro il termine assegnato, l’imprenditore dovrà integrare il ricorso con la proposta, il piano
e la documentazione. In questo caso la procedura prosegue normalmente o potrà, in alternativa, depositare
un ricorso per l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti, dirottando così la procedura di
concordato ma beneficiando ugualmente degli effetti protettivi connessi ad una normale domanda di
concordato.
Se invece entro il termine assegnato non viene consegnata la proposta, con il piano e la documentazione
richiesta, allora vi sarà mancata ammissione della procedura di concordato, con eventuale successivo
fallimento.

Sull’ammissibilità del ricorso deve pronunciarsi il tribunale che potrebbe concedere al debitore un termine
non superiore a quindici giorni per apportare integrazioni al piano e produrre nuovi documenti. Il tribunale
dovrà innanzitutto verificare la sussistenza dei presupposti della procedura e della documentazione.
Unico controllo rimesso dalla legge al tribunale è quello della correttezza dei criteri della formazione delle
diverse classi, cioè dovrebbe verificarsi se alla suddivisione dei creditori in classi corrisponda effettivamente
una omogeneità delle relative posizioni giuridiche ed interessi economici, o se essa sia irrazionale se non
addirittura strumentale a penalizzare alcuni a discapito di altri.
In base a questi criteri di giudizio, il tribunale, a norma dell’art. 162, potrà dichiarare inammissibile la
domanda di concordato con decreto non soggetto a reclamo. Tale decreto non esclude che venga proposta
una nuova domanda di concordato, ma è probabile che tale possibilità venga meno per sempre, poiché il
tribunale, contestualmente al rigetto della domanda, potrà anche accertare la sussistenza dei presupposti
richiesti, dichiarando il fallimento del debitore.
Quando invece il procedimento di verifica sull’ammissibilità del ricorso si conclude in modo positivo, il
tribunale, con decreto non soggetto a reclamo, dichiara aperta la procedura di concordato preventivo. Solo
con il decreto di ammissione il concordato potrà dirsi aperto e con lo stesso provvedimento il tribunale
nominerà gli altri organi della procedura, e cioè un giudice delegato e il commissario giudiziale.
Lo stesso provvedimento, inoltre, dovrà essere comunicato ai creditori (che saranno convocati entro trenta
giorni) ed essere pubblicato per la sentenza dichiarativa di fallimento.

Essendo la finalità del concordato quella di definire un accordo tra debitore e creditori, la procedura
concordataria, a differenza di quella fallimentare, tende a lasciare il debitore a capo della sua impresa.
Infatti, secondo l’art. 167, durante la procedura di concordato il debitore conserva l’amministrazione dei
suoi beni e l’esercizio dell’impresa. Di ogni atto compiuto dopo l’apertura della procedura, l’imprenditore
risponderà con il suo patrimonio e le controparti possono pretendere l’esatta prestazione convenuta alla
scadenza e, in caso di inadempimento, possono agire a tutela delle proprie ragioni.
Occorre però evitare che il debitore possa abusare di tale potere di gestione pregiudicando gli interessi dei
creditori; per tale motivo vengono posti due limit a tale potere:

i. In primo luogo è previsto che il compimento di atti eccedent l’ordinaria amministrazione non
possono produrre effetti nei confronti dei creditori anteriori al concordato senza l’autorizzazione
del giudice delegato. Così vale il regime che consiste nell’inefficacia degli atti compiuti dal debitore
rispetto ai creditori, cioè nell’impossibilità di sottrarre alla loro garanzia patrimoniale ciò che
costituisce l’oggetto di disposizione. Nel fallimento tale effetto viene definito spossessamento,
mentre nel concordato si parla di spossessamento attenuato.

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ii. In secondo luogo il potere di gestione dell’impresa, pur lasciato all’imprenditore, sarà esercitato
sotto la vigilanza del commissario giudiziale, che pur non potendo orientare le scelte di gestione
dell’imprenditore, può comunque controllarle e condizionarle grazie al potere di provocare
l’interruzione della procedura con la revoca dell’ammissione al concordato.

Per i creditori, invece, si produce l’effetto del blocco delle iniziatve cautelari ed esecutve. Dalla data della
pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese fino all’omologazione del concordato, i creditori non
possono, a pena di nullità, iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore, né
acquistare diritti di prelazione o iscrivere ipoteche giudiziali senza l’autorizzazione del commissario giudiziale
(art. 168).
Se poi si tratta di un concordato con continuità aziendale, il piano potrà prevedere una moratoria fino a un
anno dall’omologazione per il pagamento dei creditori muniti di cause legittime di prelazione, a meno che il
piano non preveda la liquidazione dei beni o dei diritti sui quali sussiste tale prelazione, nel qual caso il loro
pagamento avverrà in seguito alla liquidazione.
Il divieto di azioni esecutive vale, però, solo nei confronti dei creditori anteriori alla domanda di concordato,
mentre i creditori posteriori avranno tutto il diritto di essere soddisfatti alla scadenza e alle condizioni
convenute contrattualmente, potendo altrimenti intraprendere individualmente ogni iniziativa cautelare o
esecutiva nei confronti dell’imprenditore. Inoltre, in caso di fallimento, questi crediti andranno pagati in
prededuzione, essendo sorti in occasione della procedura concorsuale.

Vanno poi considerati gli effetti del concordato preventivo sui contratti pendenti e sugli atti pregiudizievoli
compiuti prima della procedura.
Circa i contratti in corso di esecuzione alla data di presentazione del ricorso, l’art. 169-bis prevede che il
debitore possa chiedere, con ricorso, l’autorizzazione a sciogliersi da essi o la loro sospensione per non più
di sessanta giorni.
Trattandosi di effetti “a domanda”, qualora questa non sussista, i contratti continueranno ad avere normale
esecuzione. Se invece vi è richiesta, si riconoscerà al terzo un indennizzo da soddisfarsi come credito
anteriore al concordato stesso.
Vi è silenzio della legge anche circa la sorte dei c.d. atti pregiudizievoli precedenti all’apertura della
procedura. Nella logica del concordato, infatti, non occorre reintegrare il patrimonio del debitore mediante
azioni che presuppongono uno stato di insolvenza del debitore, ma ciò non toglie che se la procedura si
conclude con una dichiarazione di fallimento, il termine per l’individuazione degli atti assoggettabili a
revocatoria fallimentare risale alla data di apertura del concordato preventivo, con accertamento che lo
stato di crisi che lo ha provocato, consistesse già in quel momento in un vero e proprio stato di insolvenza.

La finalità decisiva per regolare lo svolgimento del concordato preventivo è quella iniziale che la legge regola
come “dei provvedimenti immediati”, cioè dei provvedimenti da compiersi immediatamente dopo l’apertura
della procedura per impulso del commissario giudiziale.
Innanzitutto occorre effettuare una ricognizione dei creditori che ha solo lo scopo di individuare i
legittimanti al voto. Allo stesso tempo, il commissario giudiziale provvederà anche ad una ricognizione della
massa attiva, individuando così i creditori dell’imprenditore in crisi e procedendo all’inventario del suo
patrimonio.
Sia l’attivo che il passivo costituiscono gli elementi determinanti sui quali i creditori potranno fondare una
consapevole scelta di adesione o rigetto della proposta. Sempre in questa prospettiva, il commissario
giudiziale dovrà stilare una relazione partcolareggiata sulle cause del dissesto, sulla condotta del debitore,
sulle proposte di concordato e sulle garanzie offerte ai creditori.
Questo ruolo del commissario giudiziale si riflette anche sulla vigilanza che svolge al fine di tenere al riparto
i creditori da tentativi di frode. Il commissario giudiziale, infatti, non solo vigila sull’attività del debitore
durante la procedura, ma indaga anche su eventuale dolo insito nella proposta di concordato, come quando
si accorge che risultano occultati elementi dell’attivo, o che il debitore ha commesso altri atti di frode. Tale
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vigilanza riguarda anche la verifica delle condizioni previste per l’assimilabilità del concordato.
Riscontrate alcune di queste patologie, il commissario giudiziale ne riferisce al tribunale che, verificatone la
sussistenza, disporrà la revoca del decreto di ammissione e l’eventuale dichiarazione di fallimento.

Nella data fissata dal decreto di ammissione alla procedure e comunicata dal commissario giudiziale, ha
luogo l’adunanza dei creditori che sono chiamati ad approvarla o respingerla. L’adunanza si svolgerà in
un’unica udienza, sotto la presidenza del giudice delegato e con la partecipazione del commissario
giudiziale e del debitore che potranno fornire chiarimenti o replicare alle osservazioni dei creditori.
Esaurita la discussione, si procede alla votazione del concordato.
Legittimat al voto sono tutti i creditori chirografari, mentre per creditori privilegiati è previsto che se la
proposta di concordato contempli un pagamento integrale, non avranno diritto al voto.
Tuttavia, i creditori privilegiati potrebbero essere ammessi al voto:

i. se rinunciassero in tutto o in parte al diritto di prelazione;


ii. quando sia la stessa proposta del debitore a riservare un soddisfacimento non integrale ai creditori
privilegiati. In entrambi i casi, infatti, per la parte di credito non ammessa al voto, i privilegiati
saranno equiparati ai creditori chirografari.

Il voto viene dichiarato informalmente ed espressamente nella parte conclusiva dell’adunanza, della quale
deve essere redatto un processo verbale. Ai voti espressi e conteggiati potranno sommarsi anche quelli che i
creditori che non hanno votato in adunanza possono far pervenire per corrispondenza. In mancanza, coloro
che non hanno votato neppure per corrispondenza, si riterranno consenzienti e come tali saranno
considerati ai fini del computo della maggioranza dei crediti.
Il concordato potrà dirsi approvato se avranno votato a favore i creditori che rappresentano la
maggioranza dei crediti ammessi al voto. Si tratta di maggioranza non per teste ma per quote (cioè per
valore in denaro dei crediti: 50% + almeno 1 centesimo di euro). Se però il piano ha previsto diverse classi di
creditori, il concordato è approvato se in aggiunta alla maggioranza complessiva, vi sia anche una
maggioranza per quote all’interno del maggior numero di classi.

Se all’esito della votazione non vengono raggiunte le maggioranze, il concordato viene respinto. Il giudice
riferirà allora l’esito al tribunale con la possibilità che, oltre al decreto di improcedibilità della procedura,
venga emanata anche una sentenza dichiarativa di fallimento del debitore che, diversamente, potrebbe
proporre una nuova domanda di concordato preventivo.
Al contrario, in caso di approvazione da parte dei creditori, la procedura prosegue con il giudizio di
omologazione, cioè un decreto che, verificata la conformità alla legge della procedura, può produrre gli
effetti tipici del concordato.
Dieci giorni prima dell’udienza fissata potranno costituirsi, oltre al debitore e al commissario giudiziale,
anche i creditori dissenzienti ed ogni altro interessato per proporre opposizione.
Naturalmente, le opposizioni potrebbero anche non essere sollevate da chiunque, e in questo caso il
tribunale, verificata la regolarità della procedura, potrà omologare il concordato con decreto.
Però potrebbero essere sollevate opposizioni da parte di qualunque interessato e in tal caso si instaurerà un
vero e proprio giudizio contenzioso.
Una possibile opposizione può essere fondata sulla sconvenienza della proposta a cui la legge dà conto solo
con riferimento all’ipotesi in cui essa venga sollevata da un creditore appartenente ad una classe
dissenziente; o, in caso di mancata formazione delle classi, da tanti creditori dissenzienti che
rappresentano almeno il 20% dei crediti ammessi al voto.
Quando un’opposizione sia ammissibile, occorrerà pronunciarsi sul suo accoglimento o non, valutandone la
sconvenienza. Il metro che misura tale sconvenienza è un parametro definito come best interest test (test
sulla tutela del miglior interesse del creditore) che consiste nel fatto che l’opposizione sarà respinta, e quindi
non impedirà l’omologazione, qualora il tribunale ritenga che il credito possa risultare soddisfatto dal

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concordato in misura non inferiore rispetto alle alternative praticabili.


Le opposizioni, al di là di tali limiti, potranno fondarsi anche su patologie del procedimento o sulla non
fattibilità del piano.
Nei limiti di motivi fatti valere con le opposizioni, il tribunale dovrà pronunciarsi con decreto motvato
comunicato al debitore e al commissario giudiziale che provvede a darne notizia ai creditori. Se
l’opposizione viene accolta, il decreto sarà di rigetto della proposta e in tal caso potrà farsi luogo al
fallimento del debitore; altrimenti sarà emanato il decreto di omologazione del concordato, con il quale la
procedura potrà dirsi conclusa (art. 181).

Con l’omologazione si produrranno immediatamente gli effetti del concordato:

i. il debitore sarà liberato dalle limitazioni alla disponibilità del suo patrimonio recuperando piena
capacità di agire e processuale e sarà liberato anche dalle obbligazioni il cui adempimento non sia
previsto dalla proposta approvata;
ii. se si tratta di società con soci a responsabilità illimitata, il concordato produrrà effetti liberatori
anche a favore di questi ultimi;
iii. il debitore resterà obbligato a dare esecuzione a quanto promesso nel piano concordatario, sia in
termini di pagamenti veri e propri, sia in termini di atti funzionali;
iv. l’effetto esdebitatorio vincolerà tutti i creditori, compresi quelli dissenzienti, anteriori alla
pubblicazione della domanda di concordato;
v. i creditori anteriori conserveranno intatti i loro diritti nei confronti dei coobbligati, fideiussori del
debitore e degli obbligati in via di regresso con quest’ultimo;
vi. in caso di successivo fallimento (c.d. consecuzione di procedure), poi:
a) gli atti e i pagamenti compiuti in funzione della procedura o in esecuzione del piano saranno
esentati da azione revocatoria fallimentare;
b) i crediti derivanti dalla nuova finanza godranno della prededucibilità;
c) inoltre, varrà l’esenzione dai reati di bancarotta in relazione al compimento di atti o pagamenti
o altre operazioni posti in essere in esecuzione dell’accordo omologato.

Il decreto di omologazione segna la conclusione della procedura concordataria e comporta la produzione


dei suoi effetti tipici, tra cui soprattutto l’obbligo del debitore di eseguire il piano concordatario,
adempiendo a tutte le obbligazioni previste, nei modi e nei termini indicati.
Spetta poi al commissario giudiziale la sorveglianza sull’adempimento del concordato. Naturalmente dove il
piano trovi piena e puntuale esecuzione, non vi saranno ulteriori conseguenze giuridiche. Invece, può anche
accadere che gli impegni assunti non vengano rispettati e la legge considera tale ipotesi in senso oggettivo,
cioè a prescindere dai profili di dolo o colpa di chi li ha assunti, sia esso debitore o terzo. Compete quindi ai
creditori la risoluzione del concordato per inadempimento con cui verranno meno retroattivamente i suoi
effetti ma resteranno comunque efficaci gli atti compiuti durante la procedura e in esecuzione del
concordato. I creditori così potranno richiedere, ricorrendo eventualmente al fallimento, il pagamento
dell’intero credito originario, detratto quanto già ricevuto in esecuzione del concordato.
Un altro possibile esito patologico potrebbe essere l’annullamento del concordato con cui si sanzionerà non
tanto l’inadempimento del piano o la sua fattibilità, ma la sua inaffidabilità, rivelata dalla scoperta di un
disegno fraudolento del debitore che abbia dolosamente esagerato il passivo o sottratto una parte
dell’attivo. Tale scoperta potrà allora provocare l’annullamento del concordato da parte del tribunale e con
esso l’abrogazione degli effetti riconnessi alla procedura concordataria, con la conseguente possibilità di
dichiarare anche il fallimento del debitore.

§29. Il concordato fallimentare

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Anche nell’ambito di un fallimento già in atto, il concordato fallimentare è un percorso attraverso il quale
può essere offerta ai creditori la possibilità di esprimersi su un piano di regolazione delle proprie pretese,
alternativo rispetto allo sviluppo che seguirebbe la procedura fallimentare.
Il concordato fallimentare non costituisce un’autonoma procedura concorsuale, ma solo una sub-procedura
che si inscrive all’interno di una procedura fallimentare già in corso, costituendone uno dei modi di
chiusura, e consiste anch’esso in un procedimento giudiziale nel quale i creditori possono pronunciarsi su
una proposta (non proveniente dal debitore) che è orientata ad una loro parziale soddisfazione, con
esdebitazione del fallito per la parte residua.

Come abbiamo detto il concordato fallimentare si realizza in ambito di una procedura fallimentare già
aperta e che ha già prodotto lo spossessamento del fallito e che già è rivolta verso la liquidazione che
porterà alla soddisfazione dei creditori.
Anche tale percorso alternativo può promettere ai debitori risultati migliori rispetto a quelli prevedibili in
base alla procedura in corso.
Il contenuto della proposta di concordato fallimentare non differisce molto da quello del concordato
preventivo. Infatti anche in questo caso si tratta di un piano per realizzare la finalità principale di soddisfare i
creditori, secondo le modalità che il proponente può decidere liberamente e che, come il concordato
preventivo, potranno consistere:

- in una soddisfazione parziale dei creditori privilegiati e per la parte residua degradandoli a
chirografari;
- nella suddivisione dei creditori chirografari in classi destinatarie di trattamenti differenziati;
- nella realizzazione di opere straordinarie capaci di assicurare la conservazione dell’impresa;
- può anche prevedersi che il pagamento dei creditori può ottenersi almeno in parte attingendo da
flussi finanziari provenienti dalla prosecuzione, medio tempore, dell’impresa fallita.

Differenze rispetto al concordato preventivo si riscontrano sull’iniziativa. La proposta concordataria, infatti,


potrà essere presentata, almeno inizialmente, solo da uno o più creditori, o da un terzo, e sarà possibile a
partire dal momento in cui si disponga di una rappresentazione complessiva dalla massa dei creditori da
soddisfare e quindi solo dopo che sia stato reso esecutivo lo stato passivo; o prima, ma solo se vi siano
anche una contabilità ed altre notizie tali da consentire al curatore di predisporre un elenco provvisorio dei
creditori.
Il fallito non potrà invece presentare una proposta di concordato fallimentare, se non dopo il decorso di un
dalla dichiarazione di fallimento e purché non siano decorsi due anni dal decreto che rende esecutivo lo
stato passivo.

La proposta andrà poi presentata con ricorso al giudice delegato il quale, a sua volta, dovrà acquisire due
pareri: il primo del curatore che deve riferirsi ai presumibili risultati della liquidazione e alle garanzie offerte;
e poi il parere vincolante del comitato dei creditori. Inoltre, se il piano proposto prevede anche una
suddivisione dei creditori per classi destinatarie di trattamenti differenziati, esso dovrà essere sottoposto al
vaglio del tribunale che sarà chiamato a verificare il corretto uso dei criteri in base ai quali è stata operata la
suddivisione in classi e la previsione dei rispettivi trattamenti differenziati. Solo dopo che siano stati assunti i
pareri del curatore e quello necessariamente favorevole del comitato dei creditori, e superato l’eventuale
vaglio del tribunale, il giudice delegato procederà alla comunicazione ai creditori della proposta,
unitamente ai pareri. In tale comunicazione i creditori dovranno anche essere avvisati della regola secondo
la quale la mancata risposta sarà considerata come voto favorevole e del termine entro il quale potranno
pervenire le eventuali dichiarazioni di dissenso nella cancelleria del tribunale.
Legittimat al voto sono tutti i creditori chirografari e quelli muniti di privilegio, pegno e ipoteca solo se e
nella misura in cui la proposta di concordato non prevede l’integrale pagamento, o nella misura in cui essi
rinunceranno, anche parzialmente, al diritto di prelazione.

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Sulla base di tali criteri, si procederà alla votazione, conteggiando come consenzienti tutti coloro che non
avranno fatto pervenire il loro dissenso entro il termine fissato dal giudice delegato. La regola del silenzio-
assenso, infatti, prevede che la semplice inerzia comporti l’approvazione di una proposta che essi dovranno
subire senza la possibilità di contestazione.

Completata la votazione, il curatore riferirà l’esito al giudice delegato, il quale a sua volta, se sono state
conseguite le maggioranze previste dalla legge, disporrà che il curatore ne dia comunicazione al proponente
perché richieda l’omologazione del concordato.
Il giudizio di omologazione si concluderà, in caso positivo, con l’omologazione del concordato fallimentare
con decreto motivato del tribunale, emesso alla scadenza del termine per proporre opposizioni o quando
esse risulteranno definitivamente respinte. Il decreto sarà reclamabile davanti alla Corte d’Appello ed
eventualmente ricorribile in cassazione; solo quando diventerà definitivo potrà dirsi efficace.
Dopo di che il tribunale dichiarerà la chiusura della procedura fallimentare, con il che il fallito recupererà la
piena disponibilità del suo patrimonio e la liberazione da ogni impegno che non derivi dal concordato.
Il concordato fallimentare omologato, dunque, risulterà obbligatorio nei confronti di tutti i creditori
anteriori all’apertura del fallimento, e come nel concordato preventivo essi conserveranno la loro azione
per l’intero credito contro i coobbligati, i fideiussori del fallito e gli obbligati in via di regresso.

L’esecuzione del concordato fallimentare sarà sorvegliata dal giudice delegato, dal curatore e dal comitato
dei creditori, secondo le modalità previste nel decreto di omologazione, fino a quando un provvedimento
del giudice delegato accerterà l’avvenuta esecuzione del concordato, ordinando lo svincolo delle eventuali
cauzioni e la cancellazione delle ipoteche iscritte a garanzia, e ogni altra misura idonea per il conseguimento
delle finalità del concordato.
Qualora il piano non venisse eseguito o risultasse viziato da frode, potrà richiedersi la risoluzione o
l’annullamento del concordato che saranno dichiarati con sentenza che provocherà la riapertura del
fallimento, con i suoi effetti, fra i quali la riammissione dei creditori al passivo per l’importo originario del
credito, detratta la parte riscossa in parziale esecuzione del concordato.
Inoltre, per effetto di tale riapertura, è previsto (art. 140) che potranno essere riproposte azioni revocatorie
già iniziate ed interrotte per effetto del concordato. Non è neanche escluso che, a seguito dell’insuccesso
del concordato fallimentare e della conseguente riapertura del fallimento, possa essere riproposto un
nuovo concordato fallimentare. In questo caso, però, la legge (art. 141) pretende garanzie adeguate ad
evitare un nuovo insuccesso.

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DIRITTO COMMERCIALE
VOLUME II

Marco Cian
Aggiornato alla legge 11 agosto 2014, n.116

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SEZIONE PRIMA

LA NOZIONE DI SOCIETÀ E I PRINCIPI GENERALI

§37. La società come struttura organizzativa per l’esercizio di attività produttive

Le società sono strutture organizzative destinate all’esercizio di un’attività produttiva, sono organismi con
una propria dotazione patrimoniale e un apparato organizzativo più o meno articolato, attraverso i quali
viene svolta un’attività economica diretta alla produzione e allo scambio di beni o servizi.
Esse storicamente nascono come fenomeni associativi, come collettività di persone che si aggregano per
trarre un guadagno da un’iniziativa comune, quindi accanto alle imprese individuali, si sviluppano e si
affermano le imprese collettive.
Le società sono quindi enti che non fanno capo giuridicamente ad una persona fisica, ma in realtà è difficile
tracciare una netta separazione tra il fenomeno societario e l’impresa collettiva, infatti oggi sono
configurabili società che esercitano un’attività produttiva non imprenditoriale (società tra professionisti
intellettuali), o che non svolgono un’attività collettiva perché all’organismo partecipa un unico socio (società
unipersonali), ed esistono anche altri enti giuridici diversi dalle società che possono esercitare un’ impresa
(associazioni, fondazioni, consorzi).
Per questi motivi, la definizione generale del fenomeno societario li considera come organismi di diritto
privato destinati all’esercizio di attività genericamente produttive e normalmente imprenditoriali; essi
rappresentano ancora oggi le strutture tipicamente e ordinariamente utilizzate per l’esercizio di un’attività di
questo tipo.
Questo giustifica l’inserimento della relativa disciplina nel diritto dell’impresa: il diritto delle società è il
complesso delle norme che regolano l’organizzazione della struttura.
L’attività svolta in questa forma è naturalmente soggetta alla disciplina generale delle attività produttive e a
quella dell’imprenditore commerciale ma è anche necessario definire: le regole di costituzione,
funzionamento e scioglimento dell’organismo a cui essa fa capo; le posizioni giuridiche assunte dai soci e
dagli eventuali altri finanziatori che vi partecipano.
La società non si esaurisce in un mero rapporto obbligatorio tra soggetti ma l’atto costitutivo dà vita ad un
centro di interessi unitario, dotato di un patrimonio giuridicamente distinto da quelli personali dei soci e
gestito in nome dell’ente. Ciò pone la necessità di regolare l’ente sia sul piano interno (diritti, doveri e
poteri dei partecipanti, le modalità di formazione degli atti) sia su quello esterno (rappresentanza dell’ente,
responsabilità per le obbligazioni assunte in suo nome).
A questo proposito, l’ordinamento giuridico definisce una pluralità di modelli organizzativi diversificati,
ognuno dotato di regole proprie e tra cui i fondatori possono liberamente scegliere quello più vicino alle
proprie esigenze. La società semplice, la società in nome collettivo e la società in accomandita per azioni,
appartengono alla famiglia delle società di persone, che sono organismi snelli, che svolgono attività di
dimensioni non particolarmente cospicue e partecipati da un numero ridotto di soci. La società per azioni,
la società a responsabilità limitata e la società in accomandita per azioni, formano invece la famiglia di
società di capitali, che sono enti più complessi, che svolgono attività di dimensioni variabili e con un numero
di soci più o meno ampio.
Complessivamente questi sei modelli formano la classe delle c.d. società lucrative, denominate così per il
fatto di perseguire uno scopo di lucro, cioè l’obiettivo di realizzare, attraverso l’esercizio dell’attività, un
profitto da dividere tra i soci (art. 2247).
A questi sei modelli si affiancano quelli delle società cooperative e delle mutue assicuratrici che
perseguono uno scopo mutualistico, e le nuove figure della società europea e della società cooperativa
europea.
Ciascuno dei modelli indicati costituisce un tipo di società a cui è dedicato un complesso di norme e seppur
diversi, presentano tuttavia dei tratti comuni che definiscono gli elementi caratterizzanti.

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Non tutte le società sono organismi pluripersonali.


Sono organismi pluripersonali senza eccezioni le società di persone e in accomandita per azioni e quelle con
scopo mutualistico. Per le prime è necessaria la pluralità di fondatori (almeno due) per la natura
contrattuale dell’atto che le costituisce e perché il venir meno della pluralità dei soci ne determina lo
scioglimento e l’estinzione. Per le società in accomandita per azioni e delle cooperative, invece, le ragioni
sono diverse: strutturali per le prime, poiché sono composte tipicamente da due classi di soci
(accomandanti e accomandatari); funzionali per le seconde, perché il perseguimento di uno scopo
mutualistico ha senso solo in presenza di più fruitori.
S.p.a. e s.r.l. non sono invece necessariamente pluripersonali. Questi tipi possono essere costituiti anche
per atto unilaterale (art. 2328 e 2463), quindi da un unico fondatore, e inoltre possono veder confluire nelle
mani di un unico socio tutte le quote di partecipazione. Tale fenomeno è particolarmente diffuso nei gruppi
di società in cui la capogruppo (holding), o le società che si trovano al centro della piramide, detengono
tutte le partecipazioni delle controllate.
La società unipersonale è diventata oggi una formula giuridica organizzativa di esercizio delle attività
produttive. La società con un unico socio è un ente autonomo da questo, all’interno del quale viene formata
la volontà negoziale secondo precise regole organizzative, che acquista diritti e assume obblighi e che
espone il patrimonio di cui viene dotata alla responsabilità per l’adempimento di questi, vale a dire che la
società unipersonale acquista personalità giuridica.
La società, quando partecipata da un unico socio, risponde ad un interesse patrimoniale individuale e
l’attività produttiva svolta dalla stessa risulta, dal punto di vista economico, difficilmente distinguibile da
un’impresa esercitata dal socio in veste di imprenditore individuale.

Le società, escluse quelle create direttamente dalla legge, trovano la propria fonte in un atto di autonomia
privata, cioè un contratto o un atto unilaterale.
Il contratto di società è un atto con cui due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in
comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili. Esso definisce i tratti fondamentale del
fenomeno societario e quindi il contenuto che l’atto deve possedere. La volontà negoziale costitutiva ha ad
oggetto:

1. il conferimento di determinati beni o servizi, cioè la composizione di una dotazione di risorse,


funzionale all’esercizio dell’attività economica;
2. lo svolgimento di questa attività attraverso quel patrimonio;
3. la realizzazione di un profitto da assegnare ai partecipanti (scopo di lucro).

Va ricordato che esistono anche società che perseguono uno scopo mutualistico o consortile. Sotto il profilo
funzionale, l’art. 2247 definisce esclusivamente le società lucrative e non quelle con scopi mutualistici.
Quello che importa, però, è che tutte le società perseguono uno scopo di natura patrimoniale ed egoistico
e che il contratto di società cooperativa o consortile coincide, nei tratti essenziali, con l’atto costitutivo della
società lucrativa.
Il negozio unilaterale e il contratto condividono gli elementi fondamentali e differiscono solo sul piano del
numero di persone che si fanno promotrici dell’iniziativa.
Questa differenza evidenzia le specificità proprie del contratto di società.
Alle specificità funzionali e strutturali corrisponde una parziale autonomia del contratto di società sul piano
della disciplina. Infatti, il fenomeno societario non si realizza in un contratto che deve essere adempiuto, in
quanto la vita e l’attività dell’ente acquisiscono un autonomia di trattamento giuridico; infatti la disciplina
delle società è disciplina non dell’esecuzione dell’atto negoziale, ma di una struttura organizzativa e dei
modi di esercizio di un’attività.

L’atto unilaterale ha un rilievo organizzativo, cioè pone le basi e regola l’organizzazione dell’attività. Allo
stesso modo dà vita al rapporto di partecipazione, cioè all’insieme dei diritti e degli obblighi in capo al socio.

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Strutturalmente e funzionalmente, quindi, l’atto unilaterale e il contratto sono uguali e questo spiega come
anche il primo sia aperto all’ingresso di nuovi soci: o per mezzo della cessione, dall’unico fondatore, di parte
della sua quota, o attraverso l’adesione di altri investitori che apportano nuovi conferimenti.
In questo modo si genera un rapporto tra i soci che prima non c’era ma che non contraddice la fonte
unilaterale dell’ente proprio perché quest’ultima continua a manifestare il proprio valore per tutta la durata
della società.

Come abbiamo detto, la società è un organismo a cui si dà vita per l’esercizio di un’attività economica (art.
2247). L’ambito, ossia il settore all’interno del quale essa opera (ad es. la produzione e la vendita di
elettrodomestici, il servizio di trasporto ecc.) è indicato nell’atto costitutivo e viene definito oggetto sociale.
I caratteri che l’iniziativa deve assumere sono contenuti nell’art. 2247 che specifica che deve trattarsi di
un’attività con carattere economico, cioè la capacità di generare nuovi valori economici, attraverso la
produzione di beni e servizi o nella loro circolazione; deve quindi trattarsi di un’attività economica.
Sotto questo profilo, la nozione richiama chiaramente quella dell’imprenditore (art. 2082), anche se non è
pienamente concordante soprattutto sotto l’aspetto delle modalità di esercizio delle attività in quanto
mancano i requisiti della professionalità e dell’organizzazione.

E’ però sotto il profilo dell’oggetto dell’attività che si distingue il fenomeno imprenditoriale da quello
societario. Infatti, come si è visto, ciò che caratterizza l’attività sociale è la sua essenziale produttività, cioè la
produzione di valori economici; questo è un carattere presente in ogni attività d’impresa ma anche l’attività
del professionista intellettuale è produttiva anche se viene sottratta alla disciplina dell’impresa.
In ambito societario non solo non esiste alcuna disposizione che sottragga alla disciplina delle società
l’esercizio di una professione intellettuale da parte di una struttura organizzata, ma l’art. 10 l. 183/2011
permette la costituzione di società per lo svolgimento di una simile professione.
Questa norma chiude un lungo periodo in cui il principio di una passata disposizione (art. 2 l. 1939/1815)
vietava di costituire, esercitare o dirigere una società, un istituto, un ufficio ecc. che avevano lo scopo di
dare, anche gratuitamente, ai propri consociati o a terzi, prestazioni di assistenza o consulenza in materia
legale, tecnica, commerciale, amministrativa. Infatti la giurisprudenza, in base a tale disposizione, aveva
sempre dichiarato la nullità della costituzione di società per l’esercizio professioni intellettuali e dei contratti
d’opera da esse stipulati, anche quando la prestazione fosse stata eseguita da un professionista iscritto
all’albo.
Sebbene tale disposizione sia stata abrogata, esistono comunque dei vincoli nell’ordinamento:

a) vincoli di carattere pubblicistico, che limitano la libertà individuale e costituzionale di iniziativa


economica e di esercizio dell’arte e della scienza. Infatti molte professioni intellettuali richiedono il
conseguimento di un titolo abilitativo (cioè il superamento di esami o vittoria di un concorso) e
l’iscrizione in un apposito albo, senza i quali l’esercizio della professione è illecito e qualsiasi
contratto stipulato dal soggetto non abilitato è nullo;
b) vincoli di carattere privatistico, che incidono sul contenuto del contratto che ha ad oggetto l’opera
professionale. Infatti, tale vincolo pone tra i principi cardine del rapporto, quello dell’esecuzione
della prestazione personalmente da parte del professionista.

Il legislatore negli anni successivi si è mosso disciplinando il fenomeno solo con riguardo a specifici settori
professionali e in particolare introducendo nell’ordinamento la società tra avvocati accanto alle già esistenti
società di revisione legale.
Tale riforma del 2011 consente oggi di affermare per la prima volta la piena liceità dell’esercizio in forma
societaria di qualsiasi professione.
Il fenomeno dei rapporti tra professioni intellettuali e attività collettive è però più complesso.
Occorre innanzitutto precisare che il problema affrontato dal legislatore riguarda solo le c.d. professioni
protette, per le quali è necessaria l’abilitazione (avvocato, notaio, architetto ecc.) e non le professioni non

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protette, il cui esercizio è libero (attività di indagini di mercato). Infatti, l’erogazione di servizi non protetti è
sempre stata possibile da parte di qualsiasi società svolgendosi sotto forma di attività d’impresa, con la
conseguenza dell’integrale applicazione del relativo statuto giuridico e dell’assoggettamento alle procedure
concorsuali. Si tratta, quindi, si società imprenditrici.
Il fenomeno è rappresentato solo dalle società aventi per oggetto l’esercizio di una professione protetta. La
soluzione accolta dal legislatore prevede che: la società deve essere composta da soci abilitati (anche se non
esclusivamente) e che la prestazione deve essere eseguita da uno dei soci iscritti all’albo.
Sono quindi inammissibili le società fra capitalisti, cioè esclusivamente tra soci non abilitati.
Infine, l’espressione società tra professionisti deve essere contenuta nel nome della società.

L’attività sociale, in quanto produttiva, è creatrice di nuova ricchezza, cioè di nuove utilità economiche. Come
tale essa si distingue dall’attività di mero godimento di beni, intesa come semplice fruizione di delle utilità
derivanti da uno o più beni.
Dalla definizione dell’art. 2247 si ricava dunque l’inammissibilità di società di mero godimento: nessuna
società, infatti, può essere costituita esclusivamente a questo scopo. Tale inammissibilità è confermata
dall’art. 2248 per cui la comunione costituita o mantenuta al solo scopo del godimento di una o più cose è
regolata dalle norme del titolo VII del libro III cioè delle norme sulla comunione ordinaria. Ciò significa che se
più persone mettono in comune uno o più beni con l’unico obiettivo di trarne i relativi frutti, il solo effetto
che si produce è la costituzione tra di esse di una normale situazione di comproprietà per quote.
Quindi sorge un’impossibilità giuridica, che riguarda solo il momento genetico dell’ente ed il relativo
programma negoziale.
Diversamente accade se una società, originariamente costituita per lo svolgimento di una normale attività
economica, cessa successivamente l’esercizio e si limita a godere del patrimonio o a lasciare che ne godano i
soci; qui la società resta comunque in vita o nel secondo caso si lascia alla volontà dei soci di decidere se
scioglierla e di liquidarne il patrimonio residuo.
Le ragioni della separazione tra società e mero godimento di beni stanno nella diversa funzione assolta dai
beni stessi che ne giustifica un trattamento giuridico diverso.
La comproprietà è una situazione giuridica statica, in cui si rileva solo l’appartenenza comune del bene,
perciò la disciplina che si applica è quella del diritto dei beni, vale a dire che ogni contitolare ha diritto di fare
individualmente uso della cosa, anche però nel rispetto dei diritti degli altri comproprietà.
La società, al contrario, presenta una situazione giuridica dinamica, in cui il conferimento dei beni in
comune è strumentale all’esercizio di un’attività, perciò la relativa disciplina appartiene al diritto
dell’impresa; nessun socio, infatti, può utilizzare i beni sociali per propri scopi personali, poiché essi sono
destinati e vincolati all’esercizio dell’attività economica (art. 2256) e lo scioglimento dell’ente si verifica solo
quando questa sia stata realizzata, o quando è impossibile attuarla, o quando i soci lo decidono
all’unanimità.
Proprio per il fatto che, nella società, tutto ruota attorno all’attività la legge conferisce al patrimonio sociale
un’autonomia rispetto ai patrimoni dei soci. Infatti, i creditori particolari di questi ultimi non possono mai
aggredire i beni sociali e i soci, al contempo, non rispondono con beni propri alle obbligazioni sociali o ne
rispondono solo in via sussidiaria. I beni in comproprietà, al contrario, non godono di alcuna autonomia,
infatti i terzi che hanno acquistato crediti per effetto di atti relativi alla gestione del bene comune sono
normali creditori dei singoli comproprietari, possono aggredire sia questo bene sia quelli personali dei
comproprietari.
Però non è sempre facile definire un’attività come di godimento o produttiva. Il dubbio riguarda,
soprattutto, le attività ricettive e di noleggio. E’ godimento la semplice locazione per la riscossione di
canoni mensili, mentre non è di godimento l’attività di autonoleggio o di gestione di una struttura turistica
residenziale in quanto il proprietario dell’immobile si limita a trarre i frutti di un’utilità economica derivanti
dalla sua attività, mentre il coordinamento e l’offerta al mercato di un servizio di noleggio o di ospitalità
creano valore economico altrimenti inesistente.
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Difficile è la qualificazione dell’attività di gestione di partecipazioni. Anche qua la semplice detenzione di


quote sociali costituisce il godimento delle stesse; ma la direzione e il coordinamento delle società di un
gruppo genera valore e quindi rappresenta un’attività produttiva. Legittime sono anche le c.d. holdings
pure, cioè delle società costituite per l’acquisizione e la gestione di partecipazioni in altre società e destinate
ad assumere il ruolo di vertice di un gruppo di imprese.

L’attività economica viene svolta in nome della società; infatti chi agisce compie i relativi atti rappresentando
la società stessa facendo così ricadere su di essa gli effetti giuridici che ne conseguono. Inoltre la società
viene iscritta nel registro delle imprese. La spendita del nome sociale comporta, quindi, l’imputazione
giuridica dell’attività all’ente come tale.
Si parla di società non manifesta, o interna, o occulta, quando il contratto, pur contenendo tutti gli elementi
costitutivi dell’art. 2047, prevede che l’esercizio dell’attività avvenga nel nome di uno solo dei soci che
apparirebbe come imprenditore individuale. I partecipanti attribuiscono loro la disponibilità di beni
strumentali attraverso somministrazione periodica di mezzi finanziari necessari (conferimenti) e si
impegnano a concordare ogni decisione (esercizio comune), a suddividere utili e perdite (scopo di lucro),
mentre l’attività resta imputabile al solo socio agente.
Ci si domanda dunque se un simile patto sia valido e vincolante e quali sarebbero le conseguenze.
La questione non si pone quando nell’accordo manca uno degli elementi costitutivi del contratto di società e
in particolare quando manca la volontà di esercizio comune dell’attività come ad esempio il caso
dell’associazione in partecipazione nelle quali la gestione resta propria ed esclusiva dell’associante e dove le
attività rimangono disgiunte dai singoli associati.
Il problema invece si pone quando i compartecipi condividono oltre al rischio anche la gestione d’impresa.
In questo caso si parla di patto di occultamento invalido. L’art. 2552 mostra come l’ordinamento ammetta la
compartecipazione al rischio di un’iniziativa imputata ad un terzo solo se essa non viene estesa al potere
decisionale, altrimenti se l’attività fosse soggetta ad un potere di gestione collettivo, deve essere imputata al
gruppo. Un patto di questo tipo dà vita ad una società atipica, vietata poiché l’art. 2249 non consente la
creazione di società non riconducibili ad uno dei tipi previsti.
Tutto questo non esclude che in concreto le parti osservino il patto e che quindi il gruppo operi rimanendo
occulto. In questo caso il problema è quello di determinare se delle obbligazioni assunte dalla società
risponda solo il prestanome o se la responsabilità si estenda anche al gruppo e quindi ai soci occulti. E’
intuitivo che le controversie non sorgeranno se uno dei compartecipi contesta la validità dell’accordo, ma
perché i terzi creditori, rivelata la realtà, cercheranno di aggredire i patrimoni di tutti costoro.

La compartecipazione dei soci all’interno della società può assumere gradi e forme diverse. Al livello più alto
vi è la diretta attribuzione ai soci stessi del potere di amministrazione, cioè del potere decisionale in
ambito della gestione. Questo è un modello proprio delle società di persone in cui tutti i soci sono
amministratori. Ad un livello diverso si pone la compartecipazione dei soci nelle società di capitali nelle quali
i soci esercitano il proprio potere attraverso il voto in assemblea con il quale nominano i soggetti preposti
all’amministrazione dell’ente. Però l’atto costitutivo può escludere o limitare alcuni soci dalla
compartecipazione, sottraendo loro o limitando, nelle società di persone, il potere di amministrazione; nelle
società di capitali invece può sottrarre il diritto di voro e in particolare il diritto di nomina degli
amministratori. Nei casi estremi può anche venire azzerata ogni possibilità di partecipazione alla gestione.
Ogni modello che prevede la compartecipazione di più soggetti per l’assunzione di una decisione, deve fare i
conti con la possibilità che le persone coinvolte abbiano orientamenti tra loro contrastanti. Quindi occorre
fissare, in via preventiva, un criterio per attenuare tali confini. In alcuni tipi societari viene applicata la
regola dell’unanimità, dove nessun atto può essere compiuto se non vi sia il consenso di tutti. Questo è il
principio che viene attuato nelle società di persone per le modifiche del contratto sociale. Tale principio
implica, per il buon funzionamento dell’ente, una perfetta armonia tra i soci e mette ciascuno di essi in
condizioni di respingere qualunque scelta non condivisa. Quindi si può dire che tale modello rappresenta il

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massimo grado di esercizio collettivo dell’attività.


Nelle società di capitali, invece, vige la regola maggioritaria, dove la posizione della maggioranza
assembleare (calcolata in base alla dimensione delle partecipazioni), prevale sempre su quella della
minoranza. Il principio maggioritario consente di superare gli ostacoli ma rimette comunque la minoranza a
subire le scelte dei soci più forti. Nelle società che lo adottano, il rapporto tra i partecipanti si sviluppo
innescando una dialettica tra maggioranza e minoranza che può risultare utile quando la prima sia capace
di esprimere nel modo più efficiente l’interesse di tutti alla massimizzazione del profitto o quando consenta,
con il formarsi di volta in volta di maggioranze diverse in base alla proposta migliore, l’adozione di strategie
ottimali. Questa però può generare anche clima di tensione e di pregiudizio per la minoranza quando una
maggioranza stabile e consolidata abusi del proprio potere recando danni agli altri soci.
In questo caso la legge prevede diverse prerogative di carattere difensivo, che variano nel contenuto e a
seconda del tipo societario, che vengono accordate alla minoranza. Si tratta di poteri di vigilanza, poteri di
attivare rimedi giudiziali di fronte ad atti di mala gestio e il diritto di recedere dalla società in presenza di
giusta causa. Inoltre il principio di correttezza e buona fede funge da limite all’arbitrio del socio
nell’esercizio dei suoi diritti, cioè egli non può esercitare questi ultimi per il perseguimento di interessi non
meritevoli di tutela e che hanno il solo scopo di arrecare danno agli altri partecipanti, esponendosi al rischio
che la sua azione risulti nulla e che questi possono chiamarlo a rispondere dei danni provocati.

L’attività viene esercitata per mezzo delle unità economiche apportate dai soci, ossia da beni e servizi.
Questi sono i c.d. conferimenti che formano il complesso delle risorse iniziali che i fondatori destinano
all’esercizio dell’iniziativa economica.
Ogni entità utile e suscettibile di valutazione economica può essere oggetto di conferimento come il
denaro, la proprietà, il godimento di cose mobili o immobili, i crediti ecc. Possono essere conferiti anche gli
obblighi di non facere (ad es. l’obbligo di non costruire edifici industriali in un determinato terreno).
L’assunzione da parte dei soci di effettuare i conferimenti è contenuta nell’atto costitutivo della società; essi
possono essere di vario tipo e di diverso ammontare e rappresentano le prestazioni degli stipulanti che
giustificano la loro partecipazione alla società.
I conferimenti sono l’elemento essenziale dell’atto costitutivo della società. Infatti non esiste società se non
si forma una dotazione iniziale di risorse per l’esercizio dell’attività; inoltre ciascun fondatore deve conferire
qualcosa. Questo si deduce non solo dall’art. 2247 ma anche dalla causa del negozio societario e cioè che la
partecipazione all’iniziativa economica presuppone necessariamente l’assunzione del rischio, perché
altrimenti verrebbe meno la funzione stessa della partecipazione, decretando la nullità di ogni accordo che
escluda un socio da qualsiasi partecipazione agli utili o alle perdite. Il conferimento, infatti, rappresenta
proprio il valore del rischio: se l’attività sociale infatti si chiude in perdita, il valore di ciò che gli sarà
rimborsato con la liquidazione dell’ente sarà inferiore rispetto al valore del suo conferimento.
Questa definizione è però messa in crisi dall’attuale possibilità di costituire una s.r.l. con un capitale
complessivamente pari a 1€. Le s.r.l. con un simile capitale sono società “senza conferimenti” e quindi
senza assunzione iniziale del rischio da parte dei soci, che possono fondare la propria attività solo su risorse
reperite esternamente.
A fronte del conferimento, il socio acquista la quota di partecipazione che è proporzionale al valore che i
contraenti attribuiscono al conferimento stesso.
La legge, inoltre, non prescrive che le risorse patrimoniali debbano avere un determinato valore. Fissa solo
dei minimi nelle società di capitali (10.000€ nelle s.r.l., 50.000€ nelle s.p.a. e nelle s.a.p.a. contro i 120.000€
precedenti, per effetto del d.l. 91/2014) e dei talvolta dei limiti più elevati a seconda dell’oggetto sociale.
Queste però sono le uniche prescrizioni che devono essere osservate, infatti non esiste un principio
generale in forza del quale i conferimenti debbano essere di dimensioni adeguate per consentire lo
svolgimento dell’attività.

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Come abbiamo detto i beni conferiti sono destinati in via definitiva all’attività sociale. Quindi l’atto
costitutivo impone su di essi un vincolo di destinazione, in forza del quale viene impedito che essi vengano
sottratti all’iniziativa economica per tutta la durata della società.
Il vincolo di destinazione impone delle regole:

a) il socio conferente non può mai chiedere la restituzione del bene. Anche quando gli è concesso di
recedere dalla società, egli non può recuperare il bene conferito in proprietà, ma solo una somma di
denaro corrispondente al valore attuale della sua partecipazione; allo stesso modo non ha diritto
alla riconsegna immediata del bene conferito in godimento, il quale rimane alla società per tutto il
periodo per il quale era stato concesso originariamente;
b) il socio non è neanche libero di chiedere in qualsiasi momento la liquidazione, cioè non può
recuperare il valore dell’investimento se non nelle ipotesi in cui gli è stato concesso il recesso. In
questo senso egli con il conferimento vincola, non solo il bene, ma anche il suo valore. Infatti per
tutta la vita della società, può essere distribuito ai soci solo l’utile, cioè il maggior valore acquisito
dal patrimonio netto rispetto ai conferimenti;
c) i soci non possono individualmente servirsi dei beni per fini estranei a quelli della società;
d) i beni sono destinati alla garanzia dei creditori sociali, in modo prioritario rispetto ai creditori
individuali dei soci.

Naturalmente il vincolo di destinazione non implica che i singoli beni conferiti debbano restare nel
patrimonio della società per tutta la sua durata: infatti le materie prime potranno essere lavorate e vendute,
le cose conferite in proprietà potranno essere cedute a terzi, il denaro verrà speso ecc. Quindi la società può
disporre liberamente del proprio patrimonio come ogni altro soggetto.
Un concetto collegato ma diverso è il vincolo di indisponibilità del capitale sociale, la cui definizione
dipende da quella di capitale.
Il capitale sociale (o capitale nominale) è una posta contabile che rappresenta il valore dei conferimenti e
che viene indicata nell’atto costitutivo. Esso non va confuso con il patrimonio della società con cui si intende
l’insieme degli elementi dell’attivo e del passivo che, concretamente, fanno capo all’ente in un dato
momento. Il patrimonio è pertanto un complesso che varia continuamente (ad es. muta quando la società
vende un prodotto in quanto questo esce dal suo patrimonio e vi entra il denaro o il credito). Il capitale
sociale, invece, è un valore astratto, una posta numerica e ideale che rappresenta semplicemente il valore
delle risorse iniziali della società, quindi è un’entità immutabile che può essere modificata solo modificando
l’atto costitutivo della società (ad es. quando questa prevedi nuovi conferimenti da nuovi soci o dai vecchi,
che incrementano la propria partecipazione – aumento di capitale).
Tra le funzioni svolte dal capitale vi è la funzione produttiva, cioè rappresenta quel valore complessivo di
risorse che i soci destinano irreversibilmente all’attività. Alla luce di questa funzione ha effetto il vincolo di
indisponibilità che prevede che i soci non possano prelevare dal patrimonio della società le somme che
eccedono il valore del capitale per distribuirsele. Solo se il patrimonio netto (differenza tra attività e
passività) è superiore al capitale, allora può dirsi che l’attività sociale ha prodotto un utile che può essere
distribuito; viceversa, se il valore del patrimonio netto coincide con quello del capitale o è addirittura
inferiore, allora i risultati dell’attività sono nulli o negativi e l’attivo residuo non può essere distribuito tra i
soci, proprio a causa del vincono di indisponibilità.
In definitiva, quindi, il vincolo non riguarda specifici beni, ma un valore: infatti la società può assegnare ai
soci solo il valore dell’eccedenza tra patrimonio netto e capitale, il che significa che i soci non possono
ridurre il valore dell’investimento e quindi il rischio che hanno inizialmente accettato.

La definizione dell’art. 2247 enuncia lo scopo negoziale, cioè la causa, dell’atto costitutivo: i soci esercitano
l’attività per realizzare un guadagno (lucro oggettivo) da dividersi (lucro soggettivo) partecipando alla sua
distribuzione secondo la propria quota di partecipazione.
L’eventuale guadagno si definisce utile e, per effetto del vincolo di indisponibilità, rappresenta la sola
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porzione ideale del patrimonio che può essere distribuita tra i soci.
Inoltre, alle società lucrative si affiancano anche le cooperative che perseguono scopi mutualistici.
L’obiettivo di questi enti non è quello di realizzare un profitto da assegnare poi ai soci, ma quello di far avere
a questi direttamente beni, servizi o occasioni di lavoro più favorevoli rispetto al mercato.
La differenza tra società lucrative e mutualistiche emerge dal fatto che nelle prime il socio trae il proprio
profitto per il solo fatto di essere socio, con la distribuzione dell’utile, mentre nelle seconde ricava il suo
beneficio solo se e nella misura in cui acquisti prodotti e servizi dalla società o lavori per essa.
Infine, l’art. 2615-ter consente di costituire ogni tipo di società di persone o di capitali (escluso la società
semplice) per scopo consortile (art. 2602) cioè per uno scopo di natura mutualistica, a beneficio delle
imprese dei soci.
In tutti i casi, la società è una struttura costituita per il perseguimento di uno scopo egoistico. In generale,
il criterio che consente di distinguere tra loro i negozi associativi è basato sulla causa, cioè sulla funzione a
cui assolve la società progettata dai fondatori. A questa categoria appartengono anche le associazioni e le
fondazioni, come quelle che allestiscono mostre o organizzano manifestazioni culturali a pagamento, a
quelle di beneficenza che raccolgono fondi ecc. Infatti, in tutti questi casi, l’attività non solo è svolta
stabilmente e con metodo economico, ma persegue anche uno scopo di lucro oggettivo, proprio perché ciò
che caratterizza questi enti è la mancanza di uno scopo di lucro soggettivo in quanto i proventi realizzati
attraverso l’attività sono devoluti in beneficenza, destinati ad opere assistenziali, e quindi impiegati nel
perseguimento di uno scopo ideale o altruistico.À

L’art. 2247 non ammette eccezioni alla causa egoistica del negozio societario. Tuttavia, negli ultimi decenni,
la legislazione speciale ha introdotto in modo sempre più diffuso delle figure societarie caratterizzate
dall’assenza di scopi egoistici (ad es. le società sportive professionistiche che devono reinvestire tutti gli utili
nell’attività sportiva senza poterli distribuire in alcun modo tra i soci). Di importanza ancora maggiore è la
disciplina dell’impresa sociale; questa non è una nuova entità organizzata a carattere imprenditoriale ma è
una qualifica che associazioni, fondazioni e società possono acquisire quando esercitano un’attività
economica in alcuni settori o con modalità di utilità sociale e rispettino determinate condizioni, tra cui la
mancanza dello scopo di lucro, a condizione che esse arruolino tra il personale, in una certa percentuale,
lavoratori che appartengono alle classi disagiate e si assoggettano a certe regole coerenti con le finalità che
intende perseguire. La scelta che l’ente deve compiere è una scelta che si riflette anche nel nome, che deve
contenere l’espressione “impresa sociale”, ed è inoltre una scelta definitiva in quanto non è possibile
riconvertire la società in una con scopi lucrativi, né trasferire l’azienda se non ad altre società, fondazioni o
associazioni prive di fini egoistici. Inoltre l’autorità governativa, quando vengono meno i requisiti per il
riconoscimento della qualità di impresa sociale, ha il potere di sciogliere l’ente, devolvendone il patrimonio
non ai soci, ma ad organizzazioni che perseguono scopi della stessa natura.

SEZIONE SECONDA

LE SOCIETÀ DI PERSONE

Le società di persone di caratterizzano per l’esercizio comune di imprese di dimensioni contenute. Sul piano
delle caratteristiche, esse presentano: la responsabilità illimitata di almeno un socio per le obbligazioni
sociali, la stabilità nel tempo, la rilevanza normativa di alcune vicende personali dei soci e l’agilità
gestionale.
La disciplina di riferimento conta circa 70 articoli raggruppati subito dopo la nozione di società (artt. 2250-
2324).
Sul piano della competizione tra tipi per l’esercizio delle piccole e medie imprese, esse subiscono la
concorrenza delle s.r.l. ma tuttavia, i dati statistici confermano un interesse per le società di persone,
nonostante la responsabilità illimitata di almeno un socio.
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I motivi di questo successo vengono ritrovati soprattutto nel trattamento tributario, cioè gli utili realizzati
dalla società vengono imputati direttamente ai soci e tassati nell’ambito dell’IRPEF secondo le rispettive
quote di partecipazione. Inoltre le perdite sono direttamente imputate ai soci con conseguente riduzione
dell’imponibile nei loro confronti.
Inoltre le società di persone presentano maggiore elasticità sia in sede di costituzione che nel corso della
vita sociale.
La disciplina della società di persone ne regola tre tipi: la società semplice, società in nome collettivo,
società in accomandita semplice.
Sul piano dell’attività va detto che la società semplice può svolgere esclusivamente attività diverse da quella
commerciale e quindi si presta all’esercizio di attività d’impresa agricola e professionale. Questo limite non
sussiste invece per le s.n.c. e s.a.s. alle quali invece è consentito lo svolgimento di impresa commerciale o
altra attività.
Sul piano della responsabilità, tutte le società di persone presentano almeno un socio chiamato a
rispondere illimitatamente per le obbligazioni sociali, in solido con la società. Nella società semplice e nella
s.n.c. rispondono illimitatamente tutti i soci, mentre nella s.a.s. ne rispondono illimitatamente solo i soci
accomandatari, mentre invece per quelli accomandanti la responsabilità è circoscritta al conferimento
effettuato.
Infine, sul piano dell’organizzazione dell’attività, viene lasciata ampia autonomia e le poche regole dettate
determinano un modello organizzato “per persone”, cioè che tutti i poteri sono rimessi ai soci e non ad
organi designati, nominati o delegati.

CAPO PRIMO

LA SOCIETÀ IN NOME COLLETTIVO

§40. Profili formali e profili finanziari

Secondo l’art. 2291, nella società in nome collettivo tutti i soci rispondono solidalmente e illimitatamente
per le obbligazioni sociali. L’eventuale patto limitativo della responsabilità dei soci viene fatto valere solo
nei rapporti interni tra soci e non sarà opponibile ai creditori della società. La responsabilità di tutti i soci
sussiste anche quando la s.n.c. non è iscritta nel registro delle imprese.
E’ poi previsto che la s.n.c. agisca sotto una ragione sociale, composta dal nome di uno o più soci con
l’indicazione del rapporto sociale (art. 2292), che ha una funzione distintiva-identificativa dell’ente come
soggetto di diritto; ad esso poi possono aggiungersi ulteriori elementi (ad es. Alfa Trasporti s.n.c. di Giovanni
Bianchi).

L’atto costitutivo della s.n.c. deve contenere:

a) il cognome, il nome, il domicilio e la cittadinanza dei soci;


b) la ragione sociale;
c) i soci che hanno l’amministrazione e la rappresentanza della società;
d) la sede della società e le eventuali sedi secondarie;
e) l’oggetto sociale (cioè il settore in cui opererà);
f) i conferimenti di ciascun socio, il valore ad essi attribuito e il metodo di valutazione;
g) le prestazioni a cui sono obbligati gli eventuali soci d’opera;
h) le norme secondo cui gli utili devono essere ripartiti e la quota di ciascun socio negli utili e nelle
perdite;
i) la durata della società.

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Per quanto riguarda la forma, viene richiesta la stipula per atto pubblico o scrittura privata autenticata (art.
2296), ma questo vale solo ai fini pubblicitari ossia per ottenere l’iscrizione nel registro delle imprese.
L’iscrizione costituisce condizione di regolarità ma non di validità dell’atto costitutivo. L’unica conseguenza
della mancata iscrizione è l’assoggettamento della s.n.c. alla disciplina della società semplice, cioè la s.n.c.
non iscritta gode di minore autonomia patrimoniale, proprio come la società semplice. In questo caso si
parla di efficacia normativa dell’iscrizione.
Ne consegue che la s.n.c. non iscritta (s.n.c. irregolare) è validamente costituita anche in assenza delle
forme richieste ai fini dell’iscrizione.
Quindi la s.n.c. può essere costituita indipendentemente dall’esternalizzazione della stipula del contratto di
società. Si distingue allora tra s.n.c. irregolare, il cui atto costituivo viene stilato in forma scritta osservando
le prescrizioni richieste (ma senza l’iscrizione nel registro), e la s.n.c. di fatto, in cui manca la
documentazione dell’atto costitutivo e l’attività societaria viene effettuata per atti concludenti. Nella s.n.c. di
fatto manca la scelta del tipo s.n.c. e nel caso in cui questo non venga specificato e l’attività svolta è di tipo
commerciale, si ritiene che vadano comunque applicate le norme della s.n.c. in quanto è l’unico tipo
compatibile con la società di fatto, poiché per la costituzione degli altri tipi è richiesta la documentazione a
pena di nullità.
L’unico ostacolo alla validità dell’atto costitutivo della s.n.c. riguarda i conferimenti di beni la cui circolazione
prevede che sia assoggettata a forme particolari ad substantiam (ad es. se le parti avessero messo in
comune un bene immobile, in modo tacito, per conferirne la proprietà alla società, il conferimento sarebbe
nullo per vizio di forma).

La partecipazione ad una s.n.c. è consentita non solo alle persone fisiche, ma anche alle società di capitali
dal momento che sono dotate di personalità giuridica, per le quali è consentito che, previa autorizzazione
dell’assemblea, assumano partecipazioni in altre imprese che comportano una responsabilità illimitata per
le obbligazioni di queste.

I soci sono tenuti ad indicare nell’atto costitutivo il valore attribuito ai conferimenti e al modo di valutazione.

Il valore dei conferimenti potrà essere concordato liberamente tra i soci all’atto della stipula dell’atto
costitutivo o in sede di aumento del capitale. La somma del valore dei conferimenti dà luogo al capitale
della società, per il quale non è prevista alcuna soglia minima.
Per quanto riguarda l’entità conferibili, possono essere appunto conferiti tutti i beni e i servizi, ossia
possono formare oggetto di conferimento qualsiasi entità suscettibile di valutazione economica, e quindi,
oltre ai conferimenti in denaro, beni in natura, crediti, opera e servizi, anche quelli che hanno ad oggetto un
obbligo di non fare o beni intangibili purché siano dotati di utilità per la società.
Riguardo l’importo di ciascun conferimento, i soci possono fissarlo in piena autonomia. Tuttavia se l’entità
dei conferimenti dovuti da ciascuno non risulta determinata, scatta una duplice presunzione: sul piano del
quantum complessivo, i soci devono ritenersi obbligati a conferire quanto necessario per il conseguimento
dell’oggetto sociale; sul piano delle parti interne si presume che esse siano uguali per tutti i soci.

Con il conferimento d’opera (o servizi) il socio si obbliga nei confronti della s.n.c. a svolgere una prestazione
di fare, senza assumere la posizione di lavoratore subordinato ma quella di socio, con conseguente diritto di
partecipare agli utili della società e alle decisioni sociali. Il socio d’opera però è soggetto al rischio di
esclusione che sussiste quando emerge la sua inidoneità a svolgere l’opera conferita.

Come abbiamo detto, l’insieme dei conferimenti dei soci contribuisce a formare il capitale sociale della
s.n.c. e i soci sono liberi di fissare la cifra del capitale sociale nominale e di valorizzare i beni diversi dal
denaro nella misura tra loro concordata. La determinazione dell’importo del capitale in cifra monetaria è
richiesta dall’art. 2295 che prescrive l’indicazione nell’atto costitutivo del valore attribuito ai conferimenti.

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Perciò deve ritenersi che nella s.n.c. il capitale è l’elemento essenziale dell’atto costitutivo, a cui alcune
disposizioni assegnano una funzione vincolistica ed organizzativa.

a) Sul piano vincolistico, nella s.n.c. una prima disciplina di tutela del capitale si ritrova nel divieto di
restituire ai soci i conferimenti o di distribuire somme attinte dal patrimonio sociale, se non nella
misura in cui vi sia eccedenza del patrimonio netto rispetto all’importo del capitale indicato nell’atto
costitutivo.
- Data la minore autonomia patrimoniale attribuita alla s.n.c. è previsto che la decisione di
riduzione del capitale non è immediatamente efficace, ma lo diventa decorsi tre mesi dal
giorno dell’iscrizione della società nel registro delle imprese. Nello stesso termine di tre
mesi i creditori della società anteriori all’iscrizione che ritengano di subire un pregiudizio
dall’esecuzione della riduzione, possono fare opposizione dinanzi al tribunale che può
disporre che essa possa comunque avvenire, salva un’idonea garanzia da parte della
società. Questo ha l’obiettivo di tutelare i creditori delle società di persone di tipo
commerciale da riduzioni facoltative del capitale, effettuate in ragione di un’esuberanza del
capitale rispetto al perseguimento dell’oggetto sociale, ma pregiudizievoli per i creditori.
- Inoltre è vietato distribuire somme tra i soci se non per utili realmente conseguiti, che
riflette il principio del divieto di distribuzione di utili fittizi (somme non corrispondenti ad un
eccedenza tra patrimonio netto e capitale sociale). La s.n.c. può quindi richiedere la
restituzione degli utili fittizi eventualmente distribuiti.
Da queste regole si ricava un obbligo a carico degli amministratori di conservazione del
capitale.
E’ anche possibile decidere l’aumento del capitale, ad es. per far entrare un nuovo socio
che apporterà nuovi conferimenti.
Dunque, tutte le operazioni che incidono sul capitale vanno considerate come modifiche
dell’atto costitutivo e quindi devono essere decise dai soci all’unanimità.
b) Sul piano organizzativo invece, va ricordata la funzione del capitale di attribuire importanza alla
partecipazione al capitale in quanto in base ad essa si misura la maggioranza per determinate
decisioni.

Nelle s.n.c. l’atto costitutivo può anche indicare espressamente le norme secondo cui gli utili devono essere
ripartiti e la quota di ciascun socio negli utili e nelle perdite.
Se la parte di ciascuno negli utili coincide con la quota di partecipazione al capitale, allora è possibile
alterare tale simmetria tra conferimenti e partecipazione agli utili (ad es. un socio potrà partecipare al 30%
del capitale e solo al 20% degli utili; così come il socio d’opera potrà avere il 10% degli utili anche se il suo
conferimento non venga imputato a capitale). Nei rari casi in cui la partecipazione agli utili del socio d’opera
non è determinata nell’atto costitutivo ex ante, è previsto un intervento del tribunale che dovrà giudicare
secondo equità.
Nel rapporto tra utili e perdite vi è un unico limite all’autonomia dell’atto costitutivo, in quanto l’art. 2265
dispone che è nullo il patto con cui uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazioni agli utili e alle
perdite. Si tratta del c.d. divieto del patto leonino, che mira ad evitare che si possano creare situazioni di
particolare favore o svantaggio nei rapporti tra un socio e gli altri.

La quota di partecipazione agli utili e alle perdite assume rilevanza in sede di liquidazione della società. La
parte di ciascuno negli utili funge da criterio per la distribuzione del surplus di attivo al netto del rimborso
dei conferimenti. Per converso, la parte di ciascuno nelle perdite determina la distribuzione tra i soci del
peso dei debiti sociali, una volta che i fondi della s.n.c. si rilevano insufficienti.
Infine il diritto del socio alla percezione degli utili sorge automaticamente, una volta che viene approvato il
bilancio da cui risultano gli utili stessi.

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L’autonomia patrimoniale prevede che, a presidio della stessa rispetto alle potenziali aggressioni di coloro
che abbiano di mira il patrimonio personale dei soci, i creditori particolari non possono chiedere la
liquidazione della quota del socio loro debitore finché dura la società.
I creditori particolari possono tutelarsi aggredendo solo gli utili che spettano al socio debitore e possono
porre in essere atti conservativi sulla quota che spetta a questi in occasione della liquidazione della società.
E’ invece sottratta loro la facoltà di provocare lo scioglimento del singolo rapporto sociale anche quando
offrono la prova che gli altri beni del socio sono insufficienti alla soddisfazione del credito.

Un altro aspetto dell’autonomia patrimoniale riguarda la responsabilità per le obbligazioni sociali. Nella
s.n.c. tutti i soci rispondono solidalmente e illimitatamente per esse con l’intero patrimonio personale,
senza alcuna possibilità di determinare un limite. Anche i soci persone giuridiche rispondono con il loro
patrimonio, sebbene la persona fisica che partecipa al capitale della persona giuridica socia di una s.n.c. ne
risponde nei limiti di quanto conferito nella società di capitali.
Inoltre i soci rispondono in solido tra loro, nel senso che ciascuno di loro può essere costretto ad adempiere
per l’intero importo dell’obbligazione sociale e tale adempimento libera gli altri soci nei confronti dei terzi.
Nei rapporti esterni, l’eventuale patto che dovesse intercorrere tra i soci è dichiarato privo di efficacia nei
confronti dei terzi.
La responsabilità per le obbligazioni sociali permane anche dopo lo scioglimento del rapporto sociale ed ha
importanza anche in caso di fallimento della s.n.c. Infatti i soci sono esposti al fallimento, in estensione al
fallimento della s.n.c. Anche l’ex socio potrà essere dichiarato fallito ma solo nel termine di un anno dallo
scioglimento se l’insolvenza dipende da obbligazioni sorte prima dello stesso.

La responsabilità dei soci di s.n.c. verso i creditori sociali è sussidiaria rispetto a quello della società, in
quanto l’art. 2304 accorda ai soci il beneficio di preventiva escussione. Tale beneficio prevede un onere a
carico dei creditori sociali che sono chiamati a provare, nel processo di esecuzione promosso contro i soci, di
aver prima escusso, in modo infruttuoso, il patrimonio della società.
Il beneficio opera automaticamente, sempre se la s.n.c. è iscritta nel registro delle imprese, e non viene
meno quando la società si trovi in stato di liquidazione.

§41. Profili organizzativi

Le regole in tema di amministrazione e rappresentanza presentano un margine di elasticità. Innanzitutto vi


è un modello legale (applicabile in mancanza di una diversa opzione dell’atto costitutivo) che prevede
l’amministrazione disgiunta di tutti i soci per assicurare la piena funzionalità della società, munendo ogni
singolo amministratore di più ampi poteri di gestione e rappresentanza. Esso però prevede che tra i soci vi
sia massima fiducia, in quanto ciascuno può operare indipendentemente dagli altri e far insorgere
obbligazioni che comportano la responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci. Allo stesso tempo viene
sancita la derogabilità per adattare il regime di amministrazione alle concrete esigenze della società.
L’atto costitutivo, però, può anche disporre che gli amministratori operino secondo il regime
dell’amministrazione congiunta.

In regime di amministrazione disgiunta ciascun singolo socio amministratore è pienamente legittimato ad


assumere le decisione di carattere gestorio indipendentemente dagli altri amministratori, senza doverli
quindi coinvolgere né avvisarli sulle opinioni prese.
Allo stesso tempo, il legislatore riconosce a ciascun amministratore il diritto di opposizione di veto nei
confronti di una o più operazioni programmate dagli altri amministratori. Essi si concretizza nel diritto di
manifestare il proprio dissenso rispetto all’operazione, prima che essa sia realizzata. L’opposizione acquista
la propria efficacia negativa (cioè impedisce il compimento dell’operazione) sempre che venga esercitata
tempestivamente. Questo presuppone che l’amministratore venga in anticipo a conoscenza dell’operazione

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che l’altro intende compiere, o perché quest’ultimo lo ha informato spontaneamente o perché ha acquisito
tale informazione autonomamente; è ammesso anche che gli amministratori facciano opposizione animati
dal solo sospetto.

Il regime di amministrazione congiunta (art. 2258) rappresenta uno schema gestionale in cui tutti agli
amministratori si impone un confronto costante, diverso a seconda del sottotipo prescelto. Entrambe le
varianti richiedono una previsione dell’atto costitutivo.

a) La prima variante è l’amministrazione congiunta all’unanimità, nel senso che per la decisione
occorre il consenso di tutti gli amministratori. Si tratta di un modello privilegiato dal codice in
quanto si applica in mancanza dell’espressa indicazione dello schema scelto e ha la volontà di
coinvolgere tutti gli amministratori nella decisione, senza esclusione di nessuno. Inoltre attraverso
tale regola si mette in discussione l’agilità decisionale in quanto si concede a ciascun singolo un
potere di veto poiché nessun amministratore può esercitare da solo il potere decisionale, ma deve
coinvolgere gli altri nelle decisioni. Inoltre nell’amministrazione congiunta il gruppo dei soci non
assume nessun ruolo di scioglimento dell’opposizione.
b) La seconda variante è quando gli amministratori decidono a maggioranza. In questo modo si crea la
possibilità che un amministratore prevalga su un altro e tale maggioranza vale anche per la
partecipazione agli utili.

La rigidità dell’amministrazione congiunta è temperata dall’art. 2258 che consente al singolo amministratore
di compiere individualmente atti di gestione quando vi sia urgenza di evitare un danno alla società.

Il potere di gestione degli amministratori, cioè quello di decidere le operazioni sociali da compiere per la
realizzazione dell’oggetto sociale, deve distinguersi dal potere di rappresentanza. Per potere di
rappresentanza si intende quello di esternare, nei rapporti tra la s.n.c. e i terzi, la volontà della società,
acquistando in nome della stessa diritti ed assumendo obbligazioni in base alle decisioni prese dagli
amministratori per il raggiungimento dell’oggetto sociale. Occorre, quindi, individuare chi sia titolato a
spendere il nome della società.
L’art. 2295 prevede che l’individuazione dei rappresentanti può essere contenuta nell’atto costitutivo.
Potranno essere rappresentanti tutti gli amministratori o solo alcuni di essi o addirittura soltanto uno.
In caso di pluralità di rappresentanti, l’atto costitutivo deve precisare se essi operano congiuntamente o
disgiuntamente. In mancanza di indicazioni, dovrà reputarsi che il potere di rappresentanza sia simmetrico a
quello di gestione.
Quanto all’estensione del potere di rappresentanza, l’art. 2298 precisa che l’amministratore che ha la
rappresentanza della società possa compiere tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale, salvo le
limitazioni che risultano dall’atto costitutivo o dalla procura. Esso comprende anche il potere di
rappresentanza giudiziale della società (art. 2266). Lo stesso articolo precisa anche che le limitazioni non
sono opponibili ai terzi, se non sono iscritte nel registro delle imprese o se non si prova che i terzi ne hanno
avuto conoscenza. Inoltre sui terzi ricade il rischio che possano essere dichiarati inefficaci gli atti estranei
rispetto all’oggetto sociale della società.
Va poi segnalato che l’autonomia statutaria può dar luogo ad ipotesi di dissociazione tra poteri di gestione
e di rappresentanza, cioè può essere eliminata la coincidenza soggettiva tra amministratori e
rappresentanti, riservando la rappresentanza solo ad alcuni amministratori o un solo socio; può essere
alterata la simmetria tra regole di gestione e di rappresentanza, differenziando le modalità di esercizio; può
prevedere diversi sistemi a seconda dell’operazioni, distinguendo in particolare tra atti di ordinaria e
straordinaria amministrazione.

L’art. 2295 richiede che l’atto costitutivo indichi i soci che hanno l’amministrazione e la rappresentanza della
società. Si parla in tal caso di nomina nell’atto costitutivo, in quanto questa indicazione esprime la volontà
dei soci di investire, solo alcuni di loro del potere gestorio e rappresentativo, escludendo gli altri.
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La nomina può anche mancare del tutto e in questo caso troverà applicazione la regola secondo cui il potere
di amministrazione e di rappresentanza spettano a tutti i soci.
L’atto costitutivo può anche limitarsi a prevedere il numero degli amministratori, rinviando ad una decisione
successiva dei soci, che costituisce appunto un atto separato. La possibilità di poter essere nominati con
atto separato si ricava dall’art. 2259 in tema di revoca: in questo modo il nuove entrato in società, anche se
subentra ad un amministratore, non acquista il diritto di amministrare, ma quello di concorrere alla nomina
di amministratore.
Alla revoca, inoltre, è riservata una norma più articolata. Innanzitutto si distingue tra revoca negoziale
(voluta dai soci) che è automaticamente efficace purché soddisfi i requisiti di legge, e revoca giudiziale che
può produrre effetto solo dopo la pronuncia del tribunale.
Per la revoca negoziale viene dettata una regola differenziata a seconda se gli amministratori sono nominati
nell’atto costitutivo o con atto separato. Nel primo caso l’art. 2259, co.1, stabilisce che la revoca ha effetto
solo se sussiste una giusta causa, cioè quando si verifica un fatto di inadempimento degli obblighi
abbastanza gravi da legittimare la revoca dell’amministratore; e deve inoltre richiedere l’unanimità dei
consensi (salvo che la società abbia introdotto una clausola di maggioranza). La revoca priva il socio solo del
potere di amministrazione, ma non alla sua partecipazione sociale.
Per gli amministratori nominati con atto separato, invece, la revoca è ammessa secondo quanto disposto
dal mandato (art. 2259, co.2). Di conseguenza è efficace anche in assenza di giusta causa anche se questo
espone la società al rischio di dover risarcire il danno.
L’art. 2259,co.3, infine, riconosce in capo a ciascun socio il diritto di richiedere la revoca giudiziale per giusta
causa.

Gli amministratori hanno il compito di gestire l’impresa sociale. A questo fine essi hanno il potere di
compiere tutti gli atti necessari o opportuni per il conseguimento dell’oggetto sociale come predisporre
l’apparato strumentale, decidere le strategie imprenditoriali, organizzare le modalità di svolgimento
dell’attività, operare secondo i criteri di economicità per ridurre i costi e massimizzare i profitti. Inoltre agli
amministratori spettano compiti più specifici come tenere la contabilità, redigere il bilancio d’esercizio,
iscrivere la società nel registro delle imprese mediante deposito dell’atto costitutivo presso il relativo ufficio.
Inoltre sugli amministratori grava anche un obbligo di generale vigilanza sull’operato degli altri e di
intervento quando si riscontri il pericolo del compimento di operazioni dannose.
L’art. 2260 prevede che i diritti e gli obblighi degli amministratori siano regolati dalle norme sul mandato.
L’obbligo degli amministratori di gestire l’attività è un’obbligazione di mezzi; infatti essi sono tenuti a
svolgere le loro funzioni con la diligenza del buon padre di famiglia e non rispondono, in caso di
andamento negativo, quando hanno adempiuto ai loro doveri; lo fanno solo quando non abbiano
uniformato i loro comportamenti agli standard di diligenza imposti.
Ne consegue che nelle scelte gestorie gli amministratori godono di un notevole margine di discrezionalità a
patto che rispettino i canoni di prudenza e ragionevolezza che devono guidare le loro scelte per una sana e
corretta gestione imprenditoriale della società.
Per quanto riguarda la loro responsabilità, il codice si limita a sancire che “gli amministratori sono
solidalmente responsabili verso la società per l’adempimento degli obblighi ad essi imposti dalla legge e dal
contratto sociale” e che “la responsabilità non si estende a quelli che dimostrino di essere esenti da colpa”
(prova di non avere colpa – art. 2260). Si tratta di un’azione di risarcimento danni.

Uno dei problemi del diritto delle s.n.c. riguarda la possibilità di investire del ruolo di amministratore
soggetti estranei alla compagine sociale. La questione prevede tre posizioni principali: quella
dell’inammissibilità, fondata sul principio che il potere di amministrazione spetta solo ai soci a
responsabilità illimitata; quella secondo cui è possibile conferire ad un soggetto esterno la direzione
dell’impresa anche se questo non sarà un vero e proprio amministratore ma un institore; e quella dell’intera
ammissibilità dell’amministratore non socio.

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Per determinare la posizione dei soci esclusi dall’amministrazione, va innanzitutto sottolineato che essi
partecipano, così come gli amministratori, all’attività sociale, essendo coinvolti nelle decisioni che il codice
rimette a tutti i soci.
L’art. 2261 riconosce ai soci che non partecipano all’amministrazione dei poteri di controllo che consistono
nel diritto di:

1) avere dagli amministratori notizia dello svolgimento degli affari sociali (diritto di informazione);
2) consultare i documenti relativi all’amministrazione (diritto di ispezione);
3) ottenere il rendiconto quando gli affari sono stati compiuti (diritto al rendiconto).

Nelle prime due ipotesi si consente solo al socio di procurarsi le informazioni ed i documenti che reputa
necessari per valutare sia l’andamento generale della società che quello delle specifiche operazioni alle
quali sia particolarmente interessato. Il principio all’accesso ai documenti, però, non può ritenersi esteso
fino a comprendere l’ispezione di cose o luoghi.
Il diritto al rendiconto è ancorato al termine di ogni anno o a diverso termine previsto nell’atto costitutivo. Il
rendiconto va inteso come prospetto analitico delle operazioni realizzate (con espressa indicazione delle
entrate e delle uscite) e andrà approntato solo su richiesta dei soci non amministratori.
Tali diritti possono essere esercitati anche dopo la perdita della qualità di socio (dal socio receduto o
escluso o dagli eredi del socio deceduto) nei limiti in cui le informazioni richieste riguardino affari sociali dal
cui esito dipende la responsabilità dell’ex socio o la determinazione del valore della sua quota.

Uno dei tratti tipi delle s.n.c. è l’assenza di una disciplina generale delle decisioni dei soci, in quanto in essa
si riscontra solo la disciplina di singole decisioni rimesse ad essi.
Tali decisioni prevedono due variabili già accennate: l’unanimità e la maggioranza.

a) L’unanimità trova applicazione per le modifiche dell’atto costitutivo. Vi rientrano sia le modifiche
soggettive che quelle oggettive, fatte salve le decisioni di trasformazione in società di capitali,
fusione e scissione per le quali basta la maggioranza.
b) Il principio di maggioranza, viene calcolato in base a tre diversi criteri:
- Per la decisione sull’opposizione in regime di amministrazione disgiunta, così come per la
decisione di trasformazione in società di capitale, fusione e scissione, i soci sono chiamati a
decidere a maggioranza in base alla partecipazione agli utili (per quote di interesse).
- Per la proposta di concordato a maggioranza in base alla partecipazione al capitale, la
quale non necessariamente coincide con la partecipazione agli utili.
- Per la decisione di esclusione del socio a maggioranza calcolata per teste (in base al
numero dei soci).
- Sono poi contemplate decisioni senza indicazione del numero di consensi richiesti, rispetto
alle quali la dottrina ha formulato diverse ipotesi.
Una prima interpretazione è quello di ricercare nel sistema delle società di persone un
principio generale valido per tutte le decisioni non regolate anche se si è riconosciuto da un
lato il principio delle regola unanimistica e dall’altro quello del criterio maggioritario.
Una seconda interpretazione, invece, prende atto della convivenza nel sistema delle società
di persone di questi due diversi principi applicabili a seconda del tipo di decisione. Così si
deve distinguere tra decisioni inerenti all’attività gestorie che vanno assimilate al principio
della maggioranza, e decisioni inerenti alla struttura organizzativa assimilabili
all’unanimità.
Nella prima categoria rientrano le decisioni di nomina e revoca degli amministratori
nominati con atto separato e l’approvazione del bilancio da cui scatta il diritto agli utili; nella
seconda categoria, invece, rientrano alcune decisioni che, sono assimilabili alle modifiche

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contrattuali e come tali sono assoggettate all’unanimità. Esse si riferiscono al consenso


all’esercizio di attività concorrenziali da parte del socio.

Inoltre, il codice non detta nessuna regola riguardo il procedimento da applicare alle decisione dei soci di
s.n.c. né per quelle degli amministratori. La mancanza di qualsiasi prescrizione ha alimentato la convinzione
che le decisioni fossero del tutto svincolate da regole formali. Tuttavia la dottrina ha cercato di colmare
questa lacuna per l’esigenza di articolare il procedimento decisionale nel rispetto delle fasi tipiche del
procedimento collegiale (convocazione, riunione, discussione, votazione e verbalizzazione).
Anche con riferimento alla disciplina applicabile all’impugnativa della decisione viziata, non si riscontrano
norme, ad eccezione di quella sull’esclusione. Questo infatti è l’unico caso in cui il legislatore applica una
forma di impugnativa nella decisione viziata, individuando il soggetto legittimato (socio escluso), il termine
(trenta giorni dalla comunicazione) ed un rimedio cautelare (potere del tribunale di sospendere l’esecuzione
della decisione in pendenza del giudizio).

Le modifiche dell’atto costitutivo vanno assunte all’unanimità dei soci (art. 2252). L’ambito di applicazione
di questa regola ricomprende sia le modifiche avente ad oggetto elementi oggettivi che quelle relative ad
elementi soggettivi. Possono rientrare nella categoria delle modifiche degli elementi tipici dell’atto
costitutivo: le persone dei soci, la ragione sociale, gli amministratori o i rappresentanti, la sede sociale ecc.
Nei rapporti tra soci le modifiche sono immediatamente efficaci, ma divengono opponibili ai terzi solo dopo
l’iscrizione nel registro delle imprese, da effettuarsi a cura degli amministratori entro trenta giorni. Le
modifiche non iscritte possono essere opposte solo fornendo la prova che i terzi ne fossero comunque a
conoscenza.
Il principio dell’unanimità, inoltre, tutela l’interesse dei soci di conservare nel tempo l’assetto originario
dell’atto, ma è consentito derogare a tale principio solo se vi sono dei modelli alternativi che tutelano tale
interesse. Tipo strumento alternativo è l’inserimento di una clausola di maggioranza; l’art. 2252 ha
individuato, però, nella clausola di arbitraggio un ulteriore forma di possibile deroga al principio
unanimistico, in alternativa a quello maggioritario, e cioè la possibilità di derogare singole decisioni in tutto
o in parte a terzi arbitratori, o di prevedere l’automatico ricorso all’arbitratore ogni volta che si verifica un
dead-lock, cioè una paralisi, ad esempio, per effetto del dissenso di un socio.

Come abbiamo visto la regola unanimistica abbraccia anche i mutamenti soggettivi del contratto e quindi
ogni ipotesi di trasferimento delle quote di partecipazione, sia inter vivos che mortis causa. Questa
caratteristica conferma l’importanza dell’elevato vincolo fiduciario tra i componenti della compagine sociale,
giustificato dal fatto che tutti i soci rispondono illimitatamente per le obbligazioni assunte attraverso
l’operato gestorio degli amministratori.
Diversamente da quanto accade per le modifiche oggettive, la deroga non si realizza attraverso una clausola
di maggioranza, ma attraverso la clausola di libera trasferibilità delle partecipazioni sociali, che rimuove
ogni vincolo alla circolazione sia inter vivos che mortis causa, o la clausola di prelazione che inserisce un
meccanismo che privilegia chi è già socio.
Le modifiche soggettive possono prescindere anche da una decisione dei soci, come nel caso di morte o
recesso di un socio. In questo caso l’atto costitutivo subisce una modifica sul piano soggettivo legata ad un
evento naturale o a una dichiarazione negoziale. Resta però l’obbligo degli amministratori di provvedere
entro trenta giorni dall’evento che ha dato luogo alla modifica ad iscriverla presso il registro, rendendola
così opponibile ai terzi.

§42. Lo scioglimento del singolo rapporto sociale. Lo scioglimento della società.


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Le norme in tema di scioglimento del singolo rapporto sociale (art. 2284-2290) governano il legame tra
vicende personali dei soci e vincolo societario. Le singole cause di scioglimento (morte, recesso ed
esclusione) si ricollegano ad eventi personali o patrimoniali che colpiscono la persona del socio o vanno ad
incidere sulle relazioni interpersonali tra i soci; sono quindi eventi che impediscono, limitano o rendono
sgradito il protrarsi della partecipazione di un determinato socio in società.
Questi eventi non colpiscono direttamente l’organizzazione societaria salvo che l’attività sociale prosegue
con gli altri soci. Possono influire qualora la società si ritrovi in stato di unipersonalità protratta per oltre sei
mesi; in questo caso le cause di scioglimento, collegate all’inerzia dell’unico socio rimasto, comporta lo
scioglimento della società.
Fonte dello scioglimento del singolo socio può essere la sua volontà (recesso), o degli altri soci (esclusione
facoltativa), per una previsione legale (esclusione di diritto) o un evento naturale (morte).
Spesso le tensioni sociali tra soci hanno origine non tanto dalla gestione dell’impresa societaria, bensì da
conflitti interpersonali di carattere coniugale o familiari.
Infine si può notare che nella s.n.c. lo scioglimento del singolo rapporto sociale non tronca immediatamente
ogni legame tra socio e società, infatti l’ex socio o i suoi eredi dovranno attendere un limite (fino a sei mesi)
per vedersi liquidato il valore della quota; continueranno a rispondere illimitatamente alle obbligazioni sorte
fino alla data dello scioglimento del rapporto; potranno essere dichiarati falliti entro un anno dallo
scioglimento del rapporto e il nome del socio receduto o defunto potrà essere inserito nella ragione sociale,
con il suo consenso o con quello degli eredi.

Morte del socio

L’art. 2284 esprime il principio secondo cui la morte di un socio determina l’obbligo della società di
liquidare la quota ai suoi eredi.
Tuttavia, tale principio, vale a condizione che nel termine dei sei mesi previsti per la liquidazione della quota
agli eredi, non vengano adottate decisioni che potrebbero incidere su tale situazione.
Le alternative che i soci superstiti possono attuare sono due ed entrambe presuppongono una decisione, da
assumersi all’unanimità, che modifica l’atto costitutivo. Esse sono: lo scioglimento anticipato della società e
la continuazione della società con gli eredi.

i. I soci superstiti possono preferire lo scioglimento anticipato per motivi di ordine soggettivo, quando
ritengono che la figura del socio deceduto fosse essenziale per la prosecuzione dell’attività; o per
motivi di ordine oggettivo, quando i soci ritengono che sia impossibile liquidare la sua quota senza
privare la società del patrimonio necessario al perseguimento dell’attività. In questo caso la
decisione di porre in liquidazione la società, purché presa entro sei mesi dalla morte del socio, evita
che si perfezioni il diritto degli eredi alla corresponsione della quota di liquidazione per la quale
dovranno attendere, così come gli altri soci, l’esito del procedimento di liquidazione della società.
ii. La seconda alternativa della continuazione della società con gli eredi richiede il consenso degli
eredi del socio. Poiché il subentro dei soci non comporta il frazionamento della quota tra essi, nel
caso in cui gli eredi siano più di uno, si formerà una comunione di questi sulla quota ed occorrerà il
consenso di tutti anche in merito alla nomina di un rappresentante comune per l’esercizio dei diritti
sociali.
I soci superstiti dovranno accettare tali eredi come soggetti che subentrano in società come soci e
anche come amministratori. Tale accettazione sarà necessaria anche quando gli eredi, come spesso
accade nelle società familiari, abbiano già una partecipazione in società.

Recesso del socio

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L’art. 2285 prevede il recesso del socio distinguendo tra società a tempo determinato e a tempo
indeterminato.

a) Per le società a tempo indeterminato non vi sono limiti in merito ai presupposti per l’esercizio del
diritto di recesso, quindi i soci sono liberi di recedere (c.d. recesso ad nutum) con l’onere di
rispettare un termine di preavviso di tre mesi. Ai fini del recesso, il codice equipara queste società a
quelle contratte per tutta la vita di uno dei soci, nelle quali sussiste pur sempre un termine finale
che è appunto la morte del socio, ma questo termine non può essere determinato a priori. Questa
regola va applicata anche qualora la società, pur essendo a tempo determinato, contempli un
termine che non è determinabile o che comunque è tale da superare le aspettative di vita medie
dell’essere umano. Quando la durata di una società a tempo determinato venga prorogata senza
fissare un termine, si passa automaticamente al regime che governa le società contratte a tempo
indeterminato.
b) Per le società a tempo determinato, invece, l’ordinamento subordina la validità del recesso alla
sussistenza di una giusta causa o ad un’apposita previsione dell’atto costitutivo.
- Per quanto riguarda la previsione di cause facoltative di recesso, il legislatore non pone
limiti all’autonomia privata, così si potrà prevedere che i soci abbiano diritto di recedere
qualora si verifichino eventi relativi alla loro persona (ad es. quando trasferiscono la loro
residenza in una regione diversa da quella dove ha sede la società) o alla società (ad es.
quando non siano raggiunti determinati obiettivi entro un dato periodo).
- Con riferimento alla giusta causa, invece, spesso la pretesa del socio di recedere non viene
assecondata dagli altri che negano la sussistenza di giusta causa. Così si apre, a seguito di
tensione tra i soci, un contenzioso giudiziario volto appunto ad accertare quali siano i
presupposti del recesso con la conseguente reazione dei soci che consiste nella decisione di
escludere il socio che ha dichiarato di voler recedere.
La giusta causa viene individuata nella reazione ad un comportamento degli altri soci che
sia obiettivamente, ragionevolmente ed irreparabilmente pregiudizievole del rapporto
fiduciario tra soci, vale a dire nella violazione di obblighi contrattuali o alla violazione di
doveri di fedeltà, lealtà, diligenza o correttezza inerenti alla fiducia del rapporto. Vi è giusta
causa anche quando sussistono situazioni oggettive che aggravano la responsabilità del
socio o le condizioni di rischio economico in presenza del quale egli aveva aderito al
contratto sociale. La giusta causa si nega alle situazioni soggettive del socio, come malattie
gravi, impedimenti fisici o età avanzata. Naturalmente resta la possibilità che queste
vicende, se conducono all’interdizione o inabilitazione del socio, legittimino gli altri soci ad
escludere il socio.

L’esclusione facoltativa

L’esclusione facoltativa è la causa di scioglimento del singolo rapporto sociale legata ad un’iniziativa della
società stessa, attraverso una decisione adottata a maggioranza dagli altri soci. In questo caso la volontà
del socio estromesso è contraria e mira al mantenimento della posizione nella società. In ragione di tale
conflitto il legislatore ha approntato a tutela del socio escluso una forma specifica di opposizione diretta a
verificare ex post la sussistenza dei presupposti sostanziali e procedimentali fissati dagli art. 2286 e 2287.
Inoltre, l’esclusione resta una decisione facoltativa poiché gli altri soci sono liberi anche si mantenere
inalterato il rapporto con il socio escluso.
I presupposti dell’esclusione facoltativa possono essere raggruppati in tre categorie: gravi inadempienze
delle obbligazioni che derivano dalla legge o dall’atto costitutivo; interdizione, inabilitazione o condanna del
socio a pena che comporti l’interdizione dai pubblici uffici; impossibilità sopravvenuta della prestazione per
inidoneità del socio a svolgere l’opera conferita, o perimento della cosa che il socio si è obbligato a
trasferire.
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a) Il primo gruppo delle inadempienze gravi ricomprende:


 l’obbligo di effettuare il conferimento promesso nel contratto (ad es. il socio si è impegnato
nell’atto costitutivo a conferire denaro per un determinato importo o a conferire certo bene
e successivamente si rende inadempiente);
 il comportamento del socio contrario al principio di buona fede, quado si riscontra un uso
sistematico dei diritti del socio con l’unico scopo di arrecare danno alla società. Tuttavia non
può essere escluso il socio che semplicemente si oppone ad una o più decisioni, ma si
rivelerà un comportamento ostruzionistico del socio qualora ostacoli l’assunzione di
qualsiasi decisione che mira alla paralisi dell’attività sociale con l’impossibilità di conseguire
l’oggetto sociale.

Non rientrano nel procedimento di esclusione gli addebiti correlati alla violazione degli
obblighi gravanti sul socio in quanto amministratore della s.n.c. Infatti le gravi
inadempienze a cui si riferisce l’art. 2286 riguardano comportamenti ed obblighi gravanti
sul socio in quanto tale, perciò le inadempienze gravanti sull’amministratore non possono
giustificare l’esclusione. L’esclusione determina la perdita della qualità di socio, compreso il
diritto di partecipazione agli utili, quindi si tratta di una sanzione molto penalizzante,
sproporzionata rispetto all’infrazione addebitata al socio/amministratore.

b) Il secondo gruppo di ipotesi comprende l’interdizione, inabilitazione o condanna del socio.


 Le ipotesi di interdizione e inabilitazione assumono rilevanza in quanto incidono sulla
composizione della base sociale. Infatti, di regola, tali eventi comportano il subingresso di
un tutore nell’esercizio dei diritti sociali. Tale tipologia di evento è ritenuta insufficiente a
porre gli altri soci nella condizione di decidere l’estromissione del socio interessato, e lo
stesso vale nel caso in cui venga nominato un amministratore di sostegno.
 Per contro, la condanna penale di un socio rischia di screditare la società, pregiudicando la
sua immagine commerciale. Per condanna non si considerano sufficienti a considerare
l’esclusione del socio le misure cautelari penali (sequestro penale o antimafia) che
colpiscono il suo patrimonio, anche quando prevedono la nomina di un custode o un
amministratore giudiziario della quota.

c) Il terzo gruppo, invece, riguarda particolari tipologie di conferimento, sia di beni in godimento che
d’opera i quali richiedono che per un determinato arco di tempo permangono determinate
condizioni tali da assicurare alla società l’acquisizione dell’utilità promessa dal socio (ad es. se il
socio si è impegnato a prestare una determinata opera per dieci anni dal suo ingresso in società, e
dopo otto anni diviene fisicamente inabile a svolgere l’opera promessa, egli viene a trovarsi in una
situazione di parziale inadempimento rispetto alla società).

d) L’atto costitutivo della società può anche indicare ulteriori ipotesi di esclusione che si affiancano a
quelle dell’art. 2286 mentre è preclusa la clausola che consente di escludere il socio senza alcuna
motivazione, a discrezione assoluta degli altri soci.

Sul piano procedimentale l’esclusione va decisa, come abbiamo detto, dai soci a maggioranza, definita come
maggioranza per teste, nel senso che ciascun socio può esprimere un singolo voto, indipendentemente
dalla partecipazione al capitale o agli utili; infatti sono ammessi al voto anche i soci “non di capitale” cioè
quelli che partecipano agli utili e alle perdite senza aver conferito denaro o altri beni.
Per la complessità della vicenda, la legge prevede che l’efficacia dell’esclusione decorre dopo trenta giorni
dalla comunicazione della stessa al socio escluso, al quale viene offerta la possibilità di opporsi alla
decisione stessa, sottoponendola allo scrutinio del giudice che verifica i presupposti fissati dall’art. 2286.
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Per il socio escluso vi è l’onere di agire tempestivamente per chiedere che venga sospesa l’efficacia della
decisione in attesa che si concluda il giudizio di merito sulla validità dell’esclusione. Se viene accolta tale
opposizione del socio, egli ha il diritto di essere reintegrato nella società e quindi parteciperà ai risultati
positivi e negativi prodotti dalla società.
Qualora, invece, la società si componga solo di due soci, non potendosi formare una maggioranza per teste,
si concede a ciascuno dei soci la facoltà di richiedere direttamente al tribunale l’esclusione dell’altro. In
questo caso l’esclusione acquista efficacia solo dopo che il tribunale si sia pronunciato al riguardo, ferma
restando la possibilità però di richiedere un provvedimento di urgenza che assicuri provvisoriamente gli
effetti della decisione, conferendo efficacia anticipata all’esclusione.
Qualora il socio che richiede l’esclusione non ottenga il provvedimento d’urgenza, l’altro conserverà la
qualità di socio, rendendo così estremamente conflittuale l’attività sociale.

L’esclusione di diritto, invece, sussiste in due ipotesi: quando il socio venga dichiarato fallito perché titolare
di un’impresa individuale o perché illimitatamente responsabile di un’altra società; e quando il creditore
particolare del socio abbia ottenuto la liquidazione della quota del socio stesso.
In questi casi l’esclusione non è legata ad una decisione degli altri soci ma ad una valutazione effettuata
direttamente dal legislatore rispetto ai quali ai soci è sottratta ogni discrezionalità. La perdita della qualità di
socio nella s.n.c. comporta inoltre la perdita automatica della qualità di amministratore.
L’esclusione di diritto è dettata a tutela di interessi esterni alla società (creditori del socio) e gode di piena
autonomia, la cui disciplina è immodificabile dall’atto costitutivo.

Regola comune a tutte le ipotesi di scioglimento del singolo rapporto sociale è quella dell’obbligo della
società di liquidare in denaro la quota del socio. Il legislatore concede alla società un termine di sei mesi
per provvedere al pagamento (tre in caso di esclusione di diritto). Resta però la possibilità che i soci
superstiti preferiscano sciogliere anticipatamente la società e in questo caso il socio receduto o escluso, o gli
eredi del socio defunto, dovranno attendere per il pagamento i tempi della liquidazione della società. Dopo
il decorso di sei mesi il diritto può dirsi perfezionato.
Dove la società non rispetti tale termine semestrale, l’inadempienza esporrà la società ad azioni esecutive e
gli amministratori a responsabilità.
Situazione diversa si ha se la società si compone di due soli soci. In questo caso se la società permane per
oltre sei mesi in stato di unipersonalità, si procede allo scioglimento.
Inoltre non è mai consentito chiedere la liquidazione della quota agli altri soci illimitatamente responsabili
in quanto la loro responsabilità opera solo nei confronti dei terzi. La domanda andrà indirizzata sempre ed
esclusivamente alla società, anche quando questa sia rimasta unipersonale.
L’art. 2289 identifica il diritto dell’ex socio ad una somma di denaro che rappresenti il valore della quota,
quindi non fa riferimento alla restituzione del bene conferito in proprietà o in godimento.
Per quanto riguarda i criteri di determinazione del valore della quota, lo stesso art. stabilisce che debba
avvenire sulla base della situazione patrimoniale della società al momento dello scioglimento e che se vi
sono operazioni in corso, il socio o i suoi eredi partecipano agli utili e alle perdite inerenti a tali operazioni.
La data di riferimento per il calcolo è quella dello scioglimento, mentre il pagamento può avvenire entro sei
mesi, decorsi i quali scatta l’obbligo di corrispondere gli interessi legali.
Una volta liquidata la quota all’ex socio, il capitale della s.n.c. andrà corrispondentemente ridotto, mentre
per quanto riguarda la quota di partecipazione agli utili e alle perdite dell’ex socio, si accresce
proporzionalmente a quella degli altri soci.

Lo scioglimento della s.n.c., invece, si ha in diversi casi: decorso del termine; volontà di tutti i soci;
conseguimento dell’oggetto sociale o sopravvenuta impossibilità di conseguirlo; quando viene a mancare la
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pluralità dei soci, se entro sei mesi non è ricostituita; provvedimento dell’autorità governativa nei casi
previsti dalla legge; dichiarazione di fallimento; altre cause previste dal contratto sociale.

1) La prima ipotesi di scioglimento, per decorso del temine, è automatica e si ricollega alla durata della
società che costituisce uno degli elementi tipici dell’atto costitutivo della s.n.c.

Nei casi diversi dal decorso del termine, si ha scioglimento anticipato, in ragione di un evento
sopravvenuto che determina l’apertura della liquidazione.

2) La prima ipotesi è la volontà di tutti i soci di anticipare lo scioglimento rispetto al termine fissato
nell’atto costitutivo; tale decisione è necessaria per porre in liquidazione del società a tempo
indeterminato o la cui durata è decorsa tacitamente.
3) La seconda ipotesi comprende due eventi: il conseguimento dell’oggetto sociale che presuppone
un tipo di attività circoscritta (ad es. la società che ha per oggetto la costruzione e la vendita di un
centro commerciale); e l’impossibilità di conseguimento che può essere vista sia come
impossibilità oggettiva (talvolta causata dall’illiceità sopravvenuta dell’attività) che come
impossibilità soggettiva, dovuta o al venir meno di una partecipazione essenziale o all’incrinarsi dei
rapporti tra i soci. In questo caso di parla di insanabile dissidio nelle società di persone, in grado di
condurre allo scioglimento della società, a meno che non si escluda il socio opponente che abbia un
atteggiamento ostruzionistico.
4) Infine, come abbiamo detto, la società può sciogliersi per sopravvenuta unipersonalità, che si
verifica per lo più nelle società di soli due soci, in caso di morte o recesso di uno di essi.

Il verificarsi di una causa di scioglimento determina automaticamente l’ingresso della s.n.c. in stato di
liquidazione. L’attività residua deve essere preordinata a liquidare il patrimonio sociale, a pagare i creditori
della società e a ripartire l’eventuale residuo attivo tra i soci. Solo dopo il compimento di tali operazioni si
potrà procedere alla cancellazione della s.n.c. dal registro delle imprese ed alla conseguente estinzione.
Con l’entrata in stato di liquidazione, però, non viene meno l’organizzazione societaria in quanto questa
cessa solo con la successiva cancellazione dal registro delle imprese. In questo caso potrebbe essere
ammessa la revoca della liquidazione, purché adottata con il consenso di tutti i soci.
Lo stato di liquidazione prevede anche una limitazione dei poteri degli amministratori, che scatta al
momento dello scioglimento della società. Da questo momento essi conservano il potere di amministrare,
ma limitatamente agli affari urgenti, e fino a che siano presi i provvedimenti necessari per la liquidazione.
Agli amministratori si applica il divieto di nuove operazioni ossia di evitare che possa perseguirsi l’attività
produttiva in fase di liquidazione come se lo scioglimento non si fosse verificato. Tale norma non va intesa
però in senso rigido in quanto si ammettono operazioni che mirano esclusivamente a salvaguardare il valore
del patrimonio.
La riduzione dei poteri e la correlata responsabilità spingono gli amministratori ad avviare in modo
tempestivo il procedimento formale di liquidazione, che si articola nella nomina dei liquidatori, passaggi di
consegne tra questi e gli amministratori, pagamento delle passività, riparto delle attività tra i soci e infine la
cancellazione della s.n.c. dal registro delle imprese. Le modalità di liquidazione possono essere indicate
nell’atto costitutivo ma in mancanza, i soci possono adottare una decisione ad hoc sulla base del principio
dell’unanimità. Se l’atto costitutivo non dispone nulla in merito alla liquidazione del patrimonio ed i soci non
trovano un accordo al riguardo, si aprirà allora il processo di liquidazione previsto dal codice.

a) In primo luogo occorrerà nominare, sempre all’unanimità, uno o più liquidatori.


b) Essi succedono agli amministratori della società nella gestione del patrimonio e dell’attività sociale.
La legge impone agli amministratori l’obbligo di collaborare con i liquidatori fornendo loro beni e
documenti sociali e presentando il conto della gestione per il periodo successivo all’ultimo bilancio.
Ai liquidatori è fatto obbligo di prendere in consegna i beni e i documenti sociali e di redigere,
insieme agli amministratori, l’inventario dal quale risulta lo stato attivo e passivo del patrimonio
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sociale. Essi devono sottoscrivere congiuntamente l’inventario che determina il subingresso dei
liquidatori nella gestione della società.
c) Gli obblighi e le responsabilità dei liquidatori sono gli stessi degli amministratori. I liquidatori, sia
se nominati dai soci o dal tribunale, possono essere revocati per volontà di tutti i soci e dal tribunale
per giusta causa su richiesta di uno o più soci.
Sul piano dei poteri, ai liquidatori è consentito il compimento degli atti necessari per la
liquidazione, ossia quegli atti che consentono di trasformare in denaro il patrimonio della società. I
liquidatori hanno poi la rappresentanza della società, sia sostanziale che giudiziale a tutela del
patrimonio della società nei confronti dei terzi. Allo stesso tempo i liquidatori non possono
prescindere da tali poteri per difendere la società dalle eventuali aggressioni dei creditori sociali.
In capo ai liquidatori sorge inoltre un duplice divieto, ossia quello di intraprendere nuove
operazioni e il divieto di ripartire tra i soci i beni sociali, finché non siano stati pagati tutti i
creditori della società o non siano accantonate le somme per pagarli.
d) Quindi uno dei criteri principali è anteporre il diritto dei creditori sociali ad essere soddisfatti. I
liquidatori per il pagamento debiti sociali, devono attingere innanzitutto ai fondi della società. Se
questi risultano insufficienti, i liquidatori possono chiedere ai soci i versamenti ancora dovuti sulle
rispettive quote e allo stesso modo si ripartisce tra i soci il debito del socio insolvente.
e) Estinti i debiti sociali, l’attivo residuo è destinato al rimborso dei conferimenti. Se l’atto costitutivo,
tuttavia, prevede che la ripartizione dei beni sia fatta in natura, si applicano le disposizioni sulla
divisione delle cose comuni.
Infine se dopo il rimborso dei conferimenti risulti un’eccedenza di attivo, essa andrà ripartita tra i
soci in proporzione della parte di ciascuno negli utili, fissata dall’atto costitutivo.

Dopo l’approvazione del bilancio finale, i liquidatori devono presentare istanza per la cancellazione della
società dal registro delle imprese (art. 2312). La cancellazione si pone sia come momento terminale del
procedimento di liquidazione, e determina anche l’estinzione della società.
Il codice si occupa dell’ipotesi in cui, successivamente alla cancellazione, emergano situazioni giuridiche
attive e passive riconducibili alla società estinta.
Al fine di consentire la ricostruzione dell’andamento degli affari sociali, la maggioranza dei soci deve
designare un depositario delle scritture contabili e dei documenti sociali che è tenuto a conservarli per dieci
anni dalla cancellazione.
Per le sopravvenienze passive i creditori sociali insoddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti
dei soci che continueranno a rispondere illimitatamente per le obbligazioni sociali, anche dopo la
cancellazione.
Potranno essere chiamati a rispondere anche i liquidatori nel caso in cui i creditori sociali riescano a provare
che il mancato pagamento è dipeso da loro colpa (ad es. quando si riscontra un debito sociale che non è
stato tenuto conto dai liquidatori in fase di liquidazione).
Per i residui attivi non distribuiti e le sopravvenienze attive la legge non dice nulla ma si ritiene che essi
ricadano in una situazione di contitolarità tra soci.
La cancellazione ha i suoi effetti anche sul piano delle procedure concorsuali per un anno dalla
cancellazione dal registro delle imprese, vale a dire che la s.n.c. anche se estinta, può reputarsi ancora in vita
ai fini concorsuali per un periodo limitato di un anno.

CAPO SECONDO

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LA SOCIETÀ IN ACCOMANDITA SEMPLICE E LA SOCIETÀ SEMPLICE

§43. Società in accomandita semplice

La società in accomandita semplice si caratterizza per due categorie di soci: i soci accomandatari e i soci
accomandanti e il venir meno di una delle due categorie comporta lo scioglimento della società (art. 2323).
Tali categorie si distinguono per il diverso regime di responsabilità: gli accomandatari rispondono
solidalmente ed illimitatamente per le obbligazioni sociali, mentre gli accomandanti rispondono
limitatamente alla quota conferita (art. 2313).
Inoltre il codice prevede la regola secondo cui soltanto i soci accomandatari possono essere
amministratori (art. 2318) mentre gli accomandanti sono esclusi dall’attività gestoria, nei limiti indicati dal
c.d. divieto di immistione (art. 2320).

Per gli accomandatari valgono le stesse regole dettate per i soci della s.n.c., diversa invece è la posizione dei
soci accomandanti che sono istituzionalmente a responsabilità limitata, vale a dire che tale limitazione
della responsabilità è prevista nell’atto costitutivo.
La limitazione di responsabilità a favore dei soci accomandanti opera a prescindere dallo stato soggettivo
dei creditori sociali, infatti gli accomandanti rispondono limitatamente alla loro quota anche quando la s.a.s.
si trovi in una condizione di irregolarità, ossia non sia iscritta nel registro delle imprese. Tale responsabilità
vale anche nei rapporti interni.
La responsabilità limitata comporta che il patrimonio dei soci non può essere attaccato direttamente dai
creditori sociali, quali possono soddisfarsi solo sul patrimonio dei soci accomandatari e su quello della
società. Se tuttavia i conferimenti promessi dall’accomandante non sono in tutto o in parte effettuati, si
ammette il diritto dei creditori sociali di promuovere nei confronti di questi un’azione surrogatoria per
ottenere l’integrale versamento del conferimento che era stato loro promesso.

Vi sono regole specifiche che si soffermano in particolar modo sulla figura dell’accomandante.
Per l’accomandatario, infatti, valgono le stesse regole esposte in tema di s.n.c., compresa la possibilità di
investire del potere di amministrazione solo alcuni dei soci accomandatari. Poiché nella maggior parte dei
casi la s.a.s. viene costituita con un unico socio accomandatario, questo funge da unico amministratore,
senza doversi confrontare, con il potere di veto degli altri soci, al momento delle scelte gestionali. L’unico
accomandatario può anche essere una società di capitali.
L’accomandante invece non può assumere la veste di amministratore, ma è pur sempre socio ed in quanto
tale portatore di un’istanza partecipativa all’attività sociale.

Per quanto riguarda i conferimenti, va sottolineato che il socio accomandante partecipa all’iniziativa
economica apportando mezzi finanziari; ma può anche apportare altri tipi di beni e perfino la propria
opera, nella misura in cui sia reputata comunque conveniente per la società.

Un secondo aspetto di differenziazione riguarda il regime di circolazione delle quote di partecipazione di


soci. Esse, siano degli accomandanti o degli accomandatari, non possono essere rappresentate da azioni.
Per l’accomandatario, la circolazione della partecipazione è soggetta alla stessa disciplina dettata per la
s.n.c., quindi necessita del consenso unanime degli altri soci, salvo diversa previsione statutaria. L’atto
costitutivo potrebbe anche prevedere che la circolazione della partecipazione dell’accomandatario sia
subordinata al gradimento di un singolo socio, accomandatario o accomandante. Invece, per la circolazione
mortis causa, verrà applicata la regola fissata dall’art. 2284.
La circolazione della partecipazione dell’accomandante, invece, su versante mortis causa si realizza
liberamente in capo ai soggetti designati dal de cuius; la circolazione inter vivos invece si basa sul principio
maggioritario: infatti la cessione non avrà effetto in assenza del consenso dei soci che rappresentano la
maggioranza del capitale.

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Il terzo principio cardine della s.a.s. è il divieto di immistione a carico dell’accomandante che, come
abbiamo visto, accedono al beneficio della responsabilità limitata sul presupposto che non sono
amministratori e non possono esserlo.
L’art. 2320 articola il divieto di immistione in un limite di carattere generale e in una eccezione.
Con riferimento al limite (“i soci accomandanti non possono compiere atti di amministrazione, né trattare o
concludere affari in nome della società”) emerge il problema di individuare quando questo possa dirsi
superato: esso ruota sia intorno agli atti esterni, cioè all’agire in nome e per conto della società, sia intorno
agli atti interni, con riguardo alle decisioni gestorie.
L’eccezione, invece, si riferisce alle attività svolte in forza di una procura speciale per i singoli affari. Infatti
gli accomandati muniti di rappresentanza per il singolo affare può stipulare contratti collegati ad esso senza
la presenza degli accomandatari; solitamente però si investe l’accomandante di una posizione che gli
consente di presenziare in società e di trattare con i terzi. L’eccezione inoltre riconosce anche
all’accomandante il potere di dare autorizzazioni e pareri per determinate operazioni. Le autorizzazioni e i
pareri hanno carattere necessariamente consultivo e non vincolante. In ogni caso, questo rappresenta una
crepa nel divieto di immistione, volta ad assecondare l’interesse dell’accomandante a tutelare il proprio
investimento rispetto ad atti di gestione particolarmente rischiosi o pregiudizievoli.
Inoltre il socio accomandante può essere investito dall’atto costitutivo di poteri di controllo sulla legittimità
sull’operato degli amministratori ed è fornito ex lege di poteri di informativa annuale sulle attività sociali
(ricevendo comunicazione del bilancio) e di verificare l’esattezza dei documenti che le rappresentano che ha
il potere di consultare.
Una volta che si realizzi una violazione del divieto di immistione, si producono conseguenze sia in termini
negoziali che sul principio della responsabilità limitata e comporta la possibilità dell’esclusione
dell’accomandante.
Per quanto riguarda gli effetti sugli atti gestori, se essi sono stati compiuti senza procura, non impegnano la
società, ma comportano una sanzione per l’accomandante che tutela sia la controparte che tutti i terzi.
Inoltre, la violazione del divieto di immistione comporta anche l’assunzione di responsabilità illimitata per
tutte le obbligazione sociali (art. 2320, co.1). Lo stesso comma stabilisce che il socio può essere escluso a
norma dell’art. 2286, infatti la violazione rappresenta una grave inadempienza che quindi legittima
l’esclusione. Ciò però deve avvenire con il pieno consenso dei soci accomandatari.

Per quanto riguarda le cause di scioglimento della s.a.s. a quelle comuni alla s.n.c. si aggiunge quella
rappresentata dal venir meno di una delle due categorie di soci. Quindi anche se la s.a.s. conserva una
pluralità si soci, ma questi appartengono tutti alla stessa categoria, la società non può proseguire per via
dell’essenzialità di entrambe le categorie.
C’è da dire però che lo scioglimento non opera automaticamente, ma l’art. 2323 concede un termine di
tolleranza di sei mesi nei quali è consentito ricostituire le due posizioni. In particolare, se viene meno la
categoria degli accomandatari, la società può rimanere operativa per i sei mesi di tolleranza mediante la
nomina di un amministratore provvisorio che è legittimato a compiere atti di ordinaria amministrazione ma
che però non assume la qualifica di socio accomandatario.

La s.a.s. irregolare ricorre nel caso di mancata iscrizione dell’atto costitutivo nel competente registro delle
imprese.
In questo caso, e fino a quando non avvenga l’iscrizione tardiva per regolarizzare la società, questa può
godere solo di autonomia patrimoniale.
La qualità di accomandante rimane comunque anche in questo caso opponibile ai creditori; tuttavia, l’art.
2317, co. 2, accentua le limitazioni alla partecipazione degli accomandati all’attività gestoria. A questi ultimi,
infatti, è preclusa anche la possibilità di operare come procuratori per i singoli affari, pena la responsabilità
illimitata per tutte le obbligazioni sociali. Di conseguenza per conservare la responsabilità limitata, il socio
accomandante dovrà astenersi da tali atti.

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In difetto di un’adeguata pubblicità della struttura societaria, non è garantita ai terzi la possibilità di
verificare a priori la posizione e il ruolo assunto da ciascun socio agente e, pertanto, il loro affidamento
viene tutelato con il sorgere di un vincolo non solo a carico della società, ma anche a carico dell’agente
stesso.

§44. Società semplice

La società semplice rappresenta l’unico tipo di società non commerciale, cioè che essa esercita solo un tipo
di attività d’impresa e consortile. Ad essa è consentito esclusivamente l’esercizio in comune di attività
d’impresa agricola (art. 2249), professionali o di mero godimento nei casi eccezionali previsti dalla legge.
La tecnica legislativa dei rinvii rende la società semplice il prototipo normativo delle società di persone,
quindi la costruzione di società semplici solo per l’esercizio di attività agricola gli ha conferito scarsa
diffusione. Tale situazione è rimasta immutata anche dopo le recenti modifiche legislative che hanno
consentito di sfruttare la società semplice anche per attività non agricola.

La disciplina della costituzione di una s.s. è improntata su una massima libertà formale, infatti il contratto
non è soggetto a forme speciali, salvo quelle richieste dalla natura dei beni conferiti (art. 2251); l’atto
costitutivo può essere anche concluso verbalmente o per fatti concludenti (c.d. società di fatto).
Questa semplicità emerge dal fatto che l’art. 2251 omette qualsiasi prescrizione di contenuto dell’atto
costitutivo.
Infatti non è previsto che il contratto debba menzionare un capitale sociale o i conferimenti e manca anche
una norma che prescriva il valore ad essi attribuito e il metodo di valutazione. Anzi, la nozione di capitale
sociale è completamente assente nella disciplina della società semplice e la destinazione all’esercizio di
un’attività non commerciale la esclude anche dall’obbligo di tenuta delle scritture contabili e della redazione
annuale del bilancio. Comunque sia, il legislatore provvede a colmare l’eventuale mancanza degli elementi
essenziali del contratto per effetto di norme suppletive.
Inoltre, il codice del 1942 non prevedeva neanche l’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese, ma tale
condizione è mutata nel tempo, prima con la riforma del registro delle imprese che ha previsto l’iscrizione
delle s.s. in una sezione speciale al solo scopo di certificazione anagrafica e pubblicità, successivamente l’art.
2 del d.lgs. 228/2001 ha riconosciuto efficacia dichiarativa all’iscrizione delle s.s. che esercitano attività
agricola.

Per quanto riguarda la responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali resta fermo il principio proprio delle
società di persone secondo cui almeno uno dei soci deve assumere la responsabilità illimitata per le
obbligazioni sociali anche se, di regola, tutti i soci sono illimitatamente responsabili (a differenza della
s.a.s.), ma tale regola è parzialmente derogabile. Infatti, nella s.s. è possibile che i soci stipulino un accordo
finalizzato a limitare la responsabilità di alcuni di essi, che sarà opponibile ai terzi solo se: i soci beneficiari
dell’accordo non hanno il potere di rappresentanza e quindi non agiscono in nome e per conto della società
e che il patto sia portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei, in quanto, in mancanza, tale limitazione
non è opponibile (art. 2267).
Ne consegue che i creditori sociali, oltre la garanzia del patrimonio sociale, godono anche della garanzia
personale e solidale dei soci che hanno agito in nome e per conto della società, a cui si aggiunge quella degli
altri soci per i quali non sussiste alcuna limitazione o esclusione.
Vi sono differenza con le s.n.c. e le s.a.s. anche sul piano delle modalità di attuazione della responsabilità.
Il beneficio di escussione, opera infatti in termini meno rigidi nelle s.s. in quanto il socio può essere il
destinatario diretto dell’azione esecutiva promossa dai creditori sociali e può sottrarsi solo in via di
eccezione, indicando i beni societari su cui il creditore può agevolmente soddisfarsi. In mancanza, il socio
subisce l’iniziativa esecutiva.

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Per quanto riguarda invece la posizione dei creditori personali del singolo socio, essi possono colpire, anche
in questo caso, gli utili spettanti al socio debitore tramite il pignoramento e procedere al sequestro
conservativo della quota spettante allo stesso in sede di liquidazione.
Nella s.s. il creditore particolare può chiedere in ogni momento la liquidazione della quota del socio
debitore, purché dimostri che gli altri beni sono insufficienti a soddisfare i suoi crediti. La quota deve essere
liquidata entro tre mesi dalla domanda, salvo che sia stato deliberato lo scioglimento della società, e il socio
debitore è escluso di diritto dalla stessa.

Mentre la disciplina della partecipazione del socio agli utili e alle perdite è uguale a quella della s.n.c.,
l’esonero dall’obbligo di tenuta delle scritture contabili incide sulla contabilità societaria. Nella s.s. manca un
vero e proprio bilancio d’esercizio, tuttavia l’art. 2262 prevede il diritto del socio nella s.s. di percepire la sua
parte di utile, nasce con l’approvazione del rendiconto che deve essere redatto dai soci amministratori al
termine di ogni anno.
Questo documento, che rappresenta i costi e i ricavi dell’attività, è diverso da quello che invece rappresenta
lo strumento incaricato a tenere informati i soci non amministratori sull’andamento della società, il quale
andrà approntato solo su loro richiesta). Il rendiconto contabile non prevede alcun obbligo di pubblicità e
per il solo effetto del principio di buona fede e correttezza, esso deve essere comunicato ai soci in termine
utile per consentirne una valutazione e la successiva approvazione a maggioranza (tutti, amministratori e
non).

Mentre per l’amministrazione della società trova applicazione la stessa disciplina esposta con riferimento
alla s.n.c., vi è una disciplina particolare in merito alla rappresentanza della società.
La società acquista diritti e assume obblighi per mezzo dei soci che hanno la rappresentanza e sta in giudizio
attraverso essi; in mancanza di diversa previsione contrattuale, la rappresentanza spetta a ciascun socio
amministratore e si estende a tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale.
Diverso dalla s.n.c. appare il regime dell’opponibilità dei limiti originari del potere.
Quando l’iscrizione della società è dotata di mera efficacia notiziale i limiti originari saranno sempre
opponibili ai terzi e questi hanno a propria tutela la c.d. verifica dei poteri, cioè il diritto di ottenere dal socio
con cui contratta i documenti che giustificano il suo potere di rappresentanza. Sono regolati dalla stessa
disciplina anche le limitazioni successive e l’estinzione del potere di rappresentanza con la conseguenza che
potranno essere opposti solo se verranno portate a conoscenza dei terzi con mezzi idonei.
Quando invece l’iscrizione è fornita per legge di efficacia dichiarativa, troverà applicazione la disciplina
relativa all’efficacia dell’iscrizione nel registro delle imprese, sia per le limitazioni originarie, che per quelle
successive che per l’estinzione del potere, e l’opponibilità sarà sempre condizionata all’iscrizione nel
registro delle imprese.

Per le modifiche dell’atto costitutivo valgono le stesse regole applicate alla s.n.c. ma regole diverse
sussistono in caso di trasformazione.
Prima della riforma del diritto societario del 2003, la possibilità di trasformare una società semplice trovava
due ostacoli: uno di carattere sostanziale per quanto riguarda i creditori particolari che avrebbero perso il
diritto alla liquidazione della quota del socio debitore); l’altra di ordine formale, basata sulla mancanza di un
regime pubblicitario.
Questa obiezione è stata però superata in quanto oggi è condivisa la soluzione secondo cui la mancanza di
un regime pubblicitario non determina l’inammissibilità della trasformazione delle società, in quanto esse
non è un presupposto della trasformazione, ma ne è una sua diretta conseguenza dal momento che la
decisione di trasformazione è soggetta ad iscrizione.
Da questo punto di vista è ammissibile anche la trasformazione in società semplice, purché l’attività abbia
carattere agricolo, professionale, o nei casi previsti in via eccezionale dalla legge, di mero godimento.
La trasformazione non comporta pregiudizi per quanto riguarda le obbligazioni anteriori. Infatti, i soci
potranno essere aggrediti dai creditori sociali per l’adempimento dei debiti anteriori alla trasformazione e
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con le stesse modalità anteriori, cioè con la possibilità di eccepire il beneficio di preventiva escussione, ma
con gli stessi limiti che derivano dal nuovo tipo di società.
Diverso invece è il caso della trasformazione di una società semplice, soprattutto con riferimento ai
creditori personali del socio. Non vi è un divieto di trasformazione della s.s. ma l’art. 2307 prevede che è
possibile riconoscere ai creditori particolari il diritto ad opporsi alla trasformazione, nel termine di tre mesi
dall’iscrizione dell’atto di trasformazione, e con l’accoglimento dell’opposizione la società ha il dovere di
provvedere a liquidare la quota del socio che sarà, di conseguenza, escluso di diritto dalla società.

SEZIONE TERZA

LA SOCIETÀ PER AZIONI

CAPO PRIMO

LA STRUTTURA FORMALE

§45. La società per azioni: fattispecie economica e rilevanza giuridica

Il fenomeno s.p.a.

La società per azioni (artt. 2325 ss.) è oggi il tipo più importante di società disciplinata dall’ordinamento, sia
per il suo diffuso utilizzo da parte di operatori economici per l’attuazione di attività imprenditoriali, sia per la
sua rilevanza sul piano economico.
Il successo della s.p.a. si deve soprattutto all’efficace “formula negoziale” come efficiente strumento di
reperimento e di utilizzo di risorse in vista della produzione d’impresa. In questa prospettiva possono
evidenziarsi diversi elementi.

a) Innanzitutto, il cuore della s.p.a. è quello di essere uno strumento che consente di conferire risorse
finanziarie, al servizio di un’attività, presso degli investitori di rischio “autonomi”, cioè soggetti
interessati a non essere personalmente coinvolti nella gestione dell’iniziativa e nelle responsabilità,
che quindi viene affidata a fiduciari diversi dagli investitori che sono incaricati di sfruttare gli
investimenti e di permettere agli investitori di ottenere un lucro. Questi ultimi invece mantengono
una legittimazione a operare un controllo di merito sugli atti posti in essere con le risorse da essi
investite, inteso cioè ad impedire che i fiduciari traggano personale profitto dai mezzi che sono stati
loro consegnati per la gestione o che siano negligenti nello svolgimento dell’incarico a loro
assegnato.
b) In secondo luogo, tale modello organizzativo prevede un meccanismo di assegnazione delle “quote
d’interesse” collegato al fatto della contribuzione a una provvista finanziaria “di rischio” e alla
misura di tale contribuzione. Nella s.p.a. il titolare dell’iniziativa è colui che ne fornisce il capitale da
utilizzare immediatamente nella gestione e che non può essere restituito in caso di esito negativo,
ed infatti la contribuzione al rischio identifica questo finanziatore come socio rispetto all’eventuale
creditore, cioè che solo a lui competono, oltre che i dividendi, anche poteri di nomina e revoca degli
organi sociali e le ulteriori prerogative azionarie. Inoltre la misura dell’apporto di ciascuno serve
anche come parametro di distribuzione dei risultati e del potere all’interno della società,
concretizzando il c.d. potere plutocratico secondo cui, tra i soci, il potere è strettamente
proporzionale alla ricchezza investita e capitalizzata.
Questo implica la necessità che si adotti una regola di esatta e rigorosa predeterminazione, oltre
che dell’investimento del singolo, anche del rischio d’impresa e quindi di delimitazione della
garanzia patrimoniale. Ciò spiega appunto il fatto che la responsabilità del socio è limitata alla

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quota conferita e, dunque, le società per azioni si dicono caratterizzate dalla c.d. autonomia
patrimoniale perfetta.
c) In terzo luogo, l’investimento di mezzi finanziari in questo tipo di società è favorita anche
dall’opportunità offerta a chi vi contribuisce di operare un disinvestimento anticipato rispetto alla
conclusione dell’iniziativa, e ciò grazie alla possibilità di cedere a terzi delle quote dell’investimento
di cui si è titolare, e cioè del loro collocamento nel c.d. mercato secondario, offerta dal meccanismo
di suddivisione delle quote in “azioni”. La s.p.a. è destinata alla realizzazione di importanti progetti
imprenditoriali, e per questo motivo il vincolo di destinazione delle risorse investite deve essere
stabile e duraturo, perciò vi è la possibilità di cedere quote d’interesse in quanto questo consente di
evitare che l’immobilizzazione degli investimenti comporti un vincolo eccessivo per il singolo. A
questo è collegato il meccanismo dell’assegnazione delle azioni, cioè di frazioni standard
dell’investimento in capitale, che attribuiscono al loro titolare dei diritti che, essendo indicati nello
statuto, sono: soggetti al libero trasferimento senza che questo comporti una modifica
nell’organizzazione; suscettibili di più facile valutazione da parte dei terzi interessati all’acquisto.
La possibilità di rendere più agevole tale disinvestimento, permette l’accesso all’iniziativa economica
anche da parte di coloro che non dispongono di grandi capitali, né che abbiano inclinazioni
imprenditoriali, come ad esempio i risparmiatori privati.
Proprio perché sia possibile e incentivato il processo di avvicinamento del risparmio privato
all’investimento azionario, il modello della s.p.a. è disciplinato dallo sviluppo del mercato
secondario degli investimenti in capitale di rischio; infatti le azioni sono particolarmente efficienti sul
piano della sicurezza e della celerità in quanto possono essere anche emessi nella forma cartolare o
con sistemi in grado di fornire garanzie al possessore. Dato il suo successo nella storia economica
internazionale, la s.p.a. ha incentivato la nascita e lo sviluppo dei mercati mobiliari e ha permesso lo
sviluppo del submodello delle s.p.a. con azioni quotate che, per il suo sviluppo, è diventata
destinataria di un particolare statuto che la governa.

Antenate delle attuali s.p.a. sono le antiche compagnie coloniali del XVI-XVII secolo e costituite per la
realizzazione di grandi imprese commerciali. Esse erano emanate da autorità sovrane che operavano una
raccolta frammentata di risorse private, allo scopo di finanziarie risorse che necessitavano di ingenti risorse.
Proprio questa possibilità di frazionare la raccolta dei mezzi presso un pubblico indifferenziato, e dunque
anonimo, che si può considerare l’idea originaria su cui poi, nei secoli successivi, si è sviluppato il modello
azionario. Questa idea però ha subito nel tempo delle correzione ed integrazioni. Innanzitutto nel tempo i
finanziatori hanno assunto il titolo di finanziatori dell’iniziativa, ossia “soci” detentori del potere di
controllo, eliminando così la figura del mero creditore e le compagnie sono diventate società. Da qui il
problema oggi definito come agency costs, collegato all’affidamento ad altri del capitale anonimo; il
problema consiste appunto nella necessità di evitare che i fiduciari utilizzino tale capitale in proprio favore,
avvantaggiandosene illecitamente. Poi, all’originaria idea di rendicontizzare i risultati della gestione al
completamento dell’intero affare e quindi in sede di liquidazione, va a sostituirsi quella della divisione
dell’iniziativa in periodi dell’anno detti esercizi, rispetto ai quali è possibile operare, attraverso una
contabilizzazione, il calcolo dei risultati parziali dell’attività e quindi gli “utili di periodo”. Infine, per fare in
modo che nonostante il protrarsi nel tempo dell’iniziativa si consentisse a chi vi partecipava di operare un
disinvestimento in tempi ragionevoli, si è sviluppata la possibilità di trasferire durante societate le quote di
partecipazione, che è stato reso più agevole incorporando queste quote in titoli di investimento (azioni) e
della creazione dei mercati secondari. Questo ha favorito lo sviluppo della s.p.a. per effetto dell’accesso ad
essa del risparmio privato.

La prassi conosce una pluralità di tipologie di società azionarie, che differiscono in base a diversi punti di
vista. Si distinguono in particolare: le società di medio-grandi dimensioni da quelle piccole, individuate in
base ai dati economici espressi dalle imprese (capitale investito, patrimonio netto, ricavi); le s.p.a. con

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compagini sociali ampie e aperte alla partecipazione di nuovi soci, da quelle invece a ristretta base familiare
o destinate allo svolgimento di iniziative riservate e quindi chiuse all’ingresso di nuovi soci; società che si
rivolgono ai mercati come luogo di reperimento degli investitori, dalle società prive di questa caratteristica;
le società le cui azioni sono quotate nei mercati regolamentati, da quelle le cui azioni sono negoziate al di
fuori di tali mercati; le società con titolarità diffusa presso i privati da quelle le cui partecipazioni sono in
mano pubblica.
Il problema è sempre stato quello di valutare se fosse possibile delineare una disciplina di volta in volta
diversa per tali diverse tipologie. A chi dava risposta positiva a tale quesito, si contrapponevano quelli che
invece affermavano non solo la legittimità di questi diversi sottotipi ma anche la possibilità di concedere loro
una disciplina differenziata che fosse indirizzata a questi diversi sottotipi. Quest’ultima visione si è andata
affermando sempre più nel tempo tra gli interpreti fino ad essere assunta dal legislatore con l’art. 2325-bis
che enuclea la categoria delle “società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio” come le s.p.a.
destinatarie di una particolare disciplina. Questa classe è individuata da circostanze relative all’esecuzione
dell’attività societaria e quindi dall’eventualità che le azioni siano quotate in mercati regolamentati o diffuse
in maniera rilevante.
Ne consegue una disciplina articolata per l’imitare l’ambito di applicazione della disciplina delle s.p.a. e per
dettare delle norme speciali riservate a questa sottoclasse. Si distingue in particolare un regime comune a
tutte le s.p.a. indipendentemente dal grado di presenza nei mercati; e due statuti speciali, uno dettato con
riferimento alle società che fanno ricorso al capitale di rischio e uno con riguardo a tutte le altre. Inoltre,
all’interno della categoria delle società che fanno ricorso al capitale di rischio deve riconoscersi una
disciplina speciale destinata alle società con azioni quotate nei mercati regolamentati.

Una situazione opposta a quella società a compagine azionaria si verifica quando tutte le azioni di una data
s.p.a. appartengono ad un’unica persona, che detiene una partecipazione totalitaria della società. Diverso
da quanto era previsto nel recente passato, oggi il legislatore ammette che si può strutturare e svolgere
un’attività lucrativa nella forma di s.p.a. unipersonale, senza che ciò possa viziare l’organizzazione.
Quindi, una s.p.a. può essere validamente costituita anche da un unico socio o vedere successivamente
ridotta ad un unico azionista la compagine sociale, senza che ciò provochi lo scioglimento della società.
La presenza nella società di un solo azionista, comporta il gravare di specifici oneri a carico dei soci ed
amministratori.
Dal punto di vista dei conferimenti, l’azionista è obbligato a prestare da subito l’intero apporto cui si sia
impegnato con la sottoscrizione del capitale sociale. In particolare va versato presso una banca già alla
sottoscrizione dell’atto costitutivo tutto l’ammontare dei conferimenti in denaro; mentre rimane l’obbligo di
immediata integrale liberazione delle azioni da emettere a fronte di apporti in natura. Quando invece la
partecipazione del socio diventa totalitaria successivamente alla costituzione, per i versamenti ancora
dovuti risponderà entro novanta giorni.
Sotto il profilo riguardante l’informazione dei terzi, la detenzione delle azioni nelle mani di un’unica
persona obbliga gli amministratori a rendere pubblica tale circostanza (art. 2362), con il deposito presso il
registro delle imprese di un’apposita dichiarazione, che contiene l’indicazione delle generalità dell’azionista
stesso.
Allo stesso tempo, l’art. 2362, co.2, stabilisce che quando si costituisce o ricostituisce la pluralità dei soci, gli
amministratori devono depositare una dichiarazione presso il registro delle imprese e in caso di inerzia degli
amministratori, può provvedere a farlo anche l’unico socio.
Tali adempimenti sono particolarmente importanti in quanto è al rispetto di questi che è collegato il regime
di responsabilità esclusiva della società col proprio patrimonio sociale per le obbligazioni insorgenti
dall’attività. Infatti, l’art. 2325, co.2, dispone che quando i conferimenti non siano stati effettuati o fino a
quando non sia stata attuata la pubblicità, in caso di insolvenza della società, per le obbligazioni sociali
sorte nel periodo in cui le azioni sono appartenute ad un’unica persona, sarà essa a risponderne
illimitatamente. La responsabilità illimitata dell’unico socio è un tipo di responsabilità sussidiaria, in quanto
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sorge unicamente nel momento in cui la s.p.a. non adempia alle sue obbligazioni e che si riveli infruttuosa
l’escussione del suo patrimonio.
Diversa invece è l’ipotesi di fallimento, in quanto al socio non può essere estesa la dichiarazione di
fallimento come conseguenza del fallimento della società.
Sempre a salvaguardia del patrimonio come garanzia dei terzi, è stabilita la regola di cui all’art. 2362, co. 2,
che riguarda il caso in cui lo svolgimento dell’attività determini l’instaurarsi di rapporti contrattuali tra la
s.p.a. e il suo unico socio. Per evitare manovre fraudolente di quest’ultimo ai danni dei creditori, con
l’aggiramento della garanzia rappresentata dal patrimonio della società, si prevede che i contratti della
società con l’unico socio o le operazioni a suo favore siano opponibili ai creditori della società solo se
risultano dal libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio di amministrazione o da atto scritto
avente data certa anteriore al pignoramento.

§46. La costituzione della s.p.a. e le altre vicende dell’organizzazione

Le norme sulla società per azioni hanno come finalità non solo quella di attuare uno dei tipici rapporti
contrattuali previsti dal legislatore, bensì la disciplina di una complessa organizzazione destinata alla
raccolta e all’impiego combinato di risorse produttive, costruita secondo le caratteristiche della formula
azionaria. In questa prospettiva, la fattispecie legale di s.p.a. è rappresentata da un insieme di regole
organizzative relativa al come deve svolgersi un’attività lucrativa, i cui risultati siano destinati a investitori
anonimi.
La legge disciplina il momento della costituzione della società. Al riguardo non è sufficiente la stipula di un
contratto ma si richiede l’instaurazione e il completamento di un procedimento che si conclude con
l’iscrizione nel registro delle imprese, e soltanto da questo momento la società acquista la personalità
giuridica e viene ad esistenza.
L’atto che contiene la volontà dei fondatori a dare vita alla società e che ne determina gli elementi essenziali,
è l’atto costitutivo che viene affiancato dallo statuto che invece contiene le regole relative allo svolgimento
dell’attività.
Una volta costituita la s.p.a. l’assetto organizzativo non rimane “cristallizzato”, ma può essere revisionato ed
integrato come conseguenza della sperimentazione “sul campo” delle regole originariamente previste che
possono comportare l’opportunità di una modifica per un migliore raggiungimento dell’obiettivo. La legge
prevede così la possibilità di apportare modificazioni allo statuto.
Oltre a prevedere i termini e le condizioni generali per l’eventuale modifica dello statuto, il legislatore si
preoccupa anche di dettare una normativa speciale per i casi in cui la variazione interessi il capitale sociale
in seguito ad un suo aumento o ad una sua riduzione. Un ulteriore normativa è prevista anche per
particolari ipotesi di alterazione degli assetti originari dell’organizzazione come la trasformazione, la fusione
o la scissione.

La costituzione della s.p.a. è segnata da due momenti: la definizione degli elementi formali e sostanziali
della società in un atto costitutivo e la pubblicità dell’avvenuta costituzione dell’ente.
Dal primo punto di vista, la legge detta una serie di regole relativa alla forma e al contenuto dell’atto;
prevede la necessità di ulteriori adempimenti materiali che vengono qualificati come “condizioni per la
costituzione” e stabilisce due procedimenti diversi per integrare gli elementi formali e sostanziali.
Per quanto riguarda la pubblicità, invece, oltre a prevedere il procedimento attraverso il quale avverrà
l’iscrizione della s.p.a. nel registro delle imprese, vengono dettate anche ulteriori norme che riguardano i
problemi che derivano dalla particolare efficacia della pubblicità sui fatti che intervengono nel periodo che
intercorre tra la stipulazione dell’atto costitutivo e l’iscrizione.

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Ai sensi dell’art. 2328, co.1, la s.p.a. può essere costituita per contratto o per atto unilaterale. In entrambi i
casi si deve però redigere un formale atto costitutivo, i cui contenuti sono specificati nel co. 2 dello stesso
articolo.

a) Un primo gruppo di elementi attiene alle caratteristiche identificative dell’attività economica che la
società si propone di svolgere. Possono ricondursi a questo insieme i punti 2,3,4 e 13 dello stesso
articolo, che impongono di dover specificare denominazione, sede, oggetto, capitale e durata.
L’essenzialità di questi elementi è dimostrata dalla loro irrinunciabilità a pena di nullità della società.
b) Un secondo gruppo riguarda gli elementi previsti dai punti 5,6,7,8 e 12 che impongono
l’inserimento nell’atto costitutivo del numero e delle caratteristiche delle azioni e della loro
emissione, del valore attribuito a crediti e conferimenti in natura, norme secondo le quali gli utili
devono essere ripartiti, i benefici eventualmente accordati ai promotori o ai soci fondatori e
l’importo globale, anche approssimato, delle spese per la costituzione della società. Questi elementi
caratterizzano l’attività su un piano dinamico, in quanto si tratta di prestazioni individuate ex ante,
ma destinate a incidere nel tempo sui modi di approvvigionamento delle risorse da parte della
società o sul relativo conto economico.
c) Infine, un ultimo gruppo di elementi è formato da previsioni che incidono sulla struttura di governo
della società, essendo rivolti a determinare a quali soggetti e con quale ordine dei rapporti spetterà
di stabilire come le risorse investite o reperite verranno gestite per realizzare l’attività comune. Di
questo insieme fanno parte le indicazioni ai numeri 9 e 10 che riguardano il sistema di
amministrazione adottato e la quantità di poteri degli amministratori e il numero dei componenti
dell’organo di controllo. Possono integrarsi a tale categoria anche gli elementi indicate nei numeri 1
e 11 che riguardano l’individuazione nominativa dei soci fondatori e dei primi soggetti incaricati
della gestione della società e del relativo controllo.

L’art. 2328, co. 3, tratta dello statuto precisando che esso contiene le norme relative al funzionamento
della società. Questo documento ha per oggetto le regole rivolte a stabilire come la s.p.a., una volta
costituita, sia destinata ad operare: cioè esso è composto dalle formalità sul modo di emissione e
circolazione delle azioni e le procedure sul funzionamento degli organi sociali.
Con riferimento ai rapporti tra atto costitutivo e statuto, va precisato che lo statuto costituisce parte
integrante del primo, anche se è oggetto di atto separato, ed insieme concorrono a comporre le regole
dell’organizzazione. Infine si stabilisce che in caso di contrasto tra le clausole dell’atto costitutivo e quelle
dello statuto, prevalgono le seconde.

Importante condizione in materia di costituzione della s.p.a. è quella secondo cui l’atto costitutivo deve
essere redatto per atto pubblico (art. 2328, co.2).
La forma dell’atto pubblico è stabilita dalla legge come requisito di regolarità ed è rivolta a soddisfare una
duplice esigenza: quella di certificare la dichiarazione con cui viene fondata la s.p.a. e destinati i
conferimenti a capitale; e a operare una verifica circa l’effettiva conformità a legge di tale dichiarazione.
La redazione per atto pubblico implica che al notaio sia affidata una funzione di controllo. I contenuti del
controllo notarile sono contenuti nell’art. 28 l.not. ai sensi del quale è vietato al notaio ricevere atti
“espressamente proibiti dalla legge o contrari al buon costume e all’ordine pubblico”. La forma notarile deve
essere osservata anche per lo statuto dal momento che esso è parte integrante dell’atto costitutivo.

L’art. 2329 stabilisce che, affinché si possa procedere alla costituzione della s.p.a., debbano essere rispettate
tre condizioni:

1) che il capitale sociale sia sottoscritto per intero;


2) che siano rispettate le previsioni relative ai conferimenti;
3) che sussistano le autorizzazioni e le altre condizioni richieste dalla legge per la costituzione della
società, in relazione al suo oggetto.
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La prima condizione riguardante l’integrale sottoscrizione del capitale sociale, corrisponde al c.d. principio
di effettività in senso lato. Tale principio implica che l’intero conferimento di mezzi di rischio che risulta
destinato al servizio degli scopi sociali sia oggetto di un impegno individuale da parte dei soci, e cioè che il
capitale sia un’entità reale ed attuale.
La seconda condizione, riguarda il rispetto delle norme sui conferimenti ed è ispirata alle regole di
effettività in senso stretto e di integrità del capitale sociale che impongono, almeno in parte (per il 25% dei
conferimenti in denaro e della totalità dei conferimenti di tipo diverso), che la società abbia immediata e
sicura disponibilità delle risorse ad essa destinate e che il loro valore corrisponda interamente alla cifra del
capitale sottoscritto. Questo si realizza in base ad un’esigenza di solidità della dotazione, rilevante per il
raggiungimento di un corretto equilibrio economico - finanziario nei rapporti con i creditori e il mercato.
La terza condizione riguarda tutte quelle ipotesi in cui la rilevanza dell’attività induce il legislatore a
subordinarne lo svolgimento al rilascio di autorizzazioni (ad es. per l’attività bancaria la costituzione della
società è subordinata all’autorizzazione della Banca d’Italia).
Tale formalità, però, riguarda solo quelle autorizzazioni che devono pervenire prima della stipula dell’atto
costitutivo (o prima dell’iscrizione nel registro delle imprese) affinché si possa esercitare l’attività in cui
consiste l’oggetto sociale.

Al fine di integrare la fattispecie costitutiva, il codice civile prevede due diversi procedimenti: quello della
c.d. costituzione istantanea e quello della c.d. costituzione per pubblica sottoscrizione.
La costituzione istantanea è la più immediata e diffusa nella prassi. Essa prevede che i contenuti
dell’organizzazione vengano decisi istantaneamente dai sottoscrittori del capitale al momento della stipula
dell’atto costitutivo presso il notaio. Quindi vi è una contestualità tra la determinazione del programma di
attività, la sua adozione con la destinazione dei conferimenti, la formulazione delle clausole e la formale
volontaria costituzione.
La fattispecie della costituzione per pubblica sottoscrizione, invece, è più articolata. Infatti da un lato
prevede che le fasi precedenti avvengano in momenti diversi; dall’altro invece prevede che le sottoscrizioni
siano sollecitate presso il “pubblico” e quindi tra investitori sconosciuti. Questo si ha con la presentazione di
un progetto di s.p.a. da parte dei “promotori” che invitano gli interessati ad aderire e a sottoscrivere quote
di capitale, in modo che quando sia stata raggiunta la cifra da raccogliere, si perviene alla stipulazione
dell’atto costitutivo fra gli aderenti.
Tale procedimento però ha avuto scarso successo nella prassi, la quale ha preferito il sistema della
costituzione istantanea tra un numero ristretto di fondatori e con una prima contribuzione di risorse, per
farla poi seguire da una fase di raccolta ulteriore da attuare presso un maggior numero di risparmiatori
tramite un aumento di capitale.

Affinché il procedimento di costituzione della s.p.a. si completi, è necessaria l’iscrizione della società nel
registro delle imprese.
In funzione alla procedura di iscrizione, l’art. 2330 impone innanzitutto al notaio che ha ricevuto l’atto
costitutivo di depositarlo entro 20 giorni presso l’ufficio del registro delle imprese. Al deposito vanno allegati
i documenti che provano la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 2329. Là dove il notaio o gli
amministratori, non provvedono a depositarlo nel termine stabilito, possono provvedere i singoli soci.
Contestualmente al deposito si dovrà presentare la richiesta di iscrizione, su cui l’ufficio del registro effettua
un controllo di regolarità formale della documentazione; se l’esito sarà positivo, l’ufficio iscriverà la società
nel registro.
Una volta iscritta, la s.p.a. acquista la personalità giuridica. In questo caso la pubblicità ha un rilevo
costitutivo, cioè determinante per la produzione degli effetti dell’atto. Ciò implica che l’atto costitutivo e lo
statuto divengono efficaci nel momento in cui vi sia stata l’iscrizione: a partire da questo momento le
clausole statutarie fungeranno da parametri dai quali dipende la validità degli atti di utilizzo delle risorse
sociali e l’esistenza dell’ente societario come soggetto in grado di entrare in rapporto con i terzi.

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Rimane da capire quali sono gli effetti che la stipula dell’atto costitutivo produce nel periodo antecedente
l’iscrizione. A questo proposito, non ci si può limitare a constatare che da tale stipula discende un
irrevocabile vincolo dei sottoscrittori ai conferimenti, che potrà sciogliersi solo se entro 90 giorni dalla
redazione dell’atto costitutivo l’iscrizione non abbia avuto luogo. Bisogna anche chiedersi quale sia il regime
applicabile agli atti che in questo periodo vengono eventualmente posti in essere.
Nel codice civile si fa riferimento principalmente agli atti che ricadono sulla sfera soggettiva di coloro che
partecipano alla fase di costituzione della s.p.a. In particolare, l’art. 2331, co. 2, stabilisce che “per le
operazioni compiute in nome della società prima dell’iscrizione sono illimitatamente e solidalmente
responsabili verso i terzi coloro che hanno agito”. Alla responsabilità di questi soggetti si aggiunge poi
quella dell’unico socio fondatore e di quelli che hanno autorizzato il compimento dell’operazione. Il co. 3,
invece, si limita a precisare che la società è responsabile quando, in seguito all’iscrizione, abbia approvato
un’operazione compiuta precedentemente all’iscrizione, essendo in questo caso tenuta a rilevare coloro che
hanno agito. Dalle norme però non risulta né se vi sia un criterio in base al quale la s.p.a. debba o no
reputarsi obbligata a procedere a ratificare gli atti compiuti antecedentemente nel suo interesse, una volta
che viene iscritta; né quale sia la sorte degli atti compiuti nell’interesse della s.p.a. che non vengono
approvati successivamente. Solitamente si affrontano tali quesiti chiedendosi se si tratti o meno di una
società in formazione. Se la risposta è affermativa, già prima dell’iscrizione può identificarsi un interesse
sociale all’operazione e si possono individuare i soggetti a cui si richiede il perseguimento di tale interesse;
pertanto una volta costituita, la società ha il dovere di ratificare gli atti che, posti in essere da questi soggetti,
risultano rispondenti a tale interesse.

Dopo la costituzione della società, vi è l’opportunità di apportare modifiche all’assetto originario della
s.p.a. Trattandosi di un’organizzazione il cui obiettivo è quello di formulare un apparato di regole per il
raggiungimento dello scopo lucrativo, è possibile che con il passare del tempo le clausole statutarie
originarie risultino insufficienti e quindi suscettibili di modifica, soppressione, sostituzione o che possono
essere affiancate da altre che rispondono meglio al nuovo bisogno del mercato.
Tale modifica può riguardare sia le clausole dello statuto in senso stretto, cioè quelle relative al
funzionamento dell’apparato organizzativo; sia le regole dell’atto costitutivo che identificano la società. Il
legislatore le qualifica entrambe come modificazioni dello statuto e prevede una disciplina generale con
l’art. 2436. Le previsioni contenute in questa disciplina, però, non riguardano tutti gli elementi indicati
nell’art. 2328, infatti alcuni di essi non possono considerarsi come vere e proprie clausole suscettibili di
modifica secondo le formalità previste in questa norma. Tali punti non sono quelli indicati nell’atto
costitutivo come dati storici dell’organizzazione come i nomi dei soci che sono destinati a variare in seguito
ai trasferimenti azionari e i nomi degli amministratori e dei sindaci o dei componenti del consiglio di
sorveglianza che sono destinati a cambiare con il rinnovo degli organi sociali.
In coerenza con l’autonomia che l’organizzazione acquista rispetto al suo atto costitutivo, le modifiche
statutarie sono sottratte alla regola dell’approvazione all’unanimità dei soci e sono affidate alla competenza
degli organi sociali, cioè alla competenza dell’assemblea straordinaria, tranne che per i casi di riduzione di
capitale per perdite dove la competenza è dell’assemblea ordinaria o del consiglio di sorveglianza. Sono
salve anche le ipotesi riguardanti le mere funzioni tecnico – esecutive, tenendo conto della rilevanza della
fattispecie in relazione alla gestione della società, in base alla quale la legge consente che nello statuto sia
prevista l’attribuzione o una delega della competenza all’organo amministrativo o al consiglio di
sorveglianza.

Come abbiamo detto le modifiche dello statuto sono di competenza dell’assemblea straordinaria dei soci.
Esse vengono decise, quindi, da questo organo che delibera con i normali quorum costitutivi e deliberativi
previsti.
Le nuove regole statutarie, una volta deliberate, possono essere adottate solo osservando importanti vincoli
formali. In particolare, l’art. 2436 prevede anzitutto l’iscrizione presso il registro delle imprese della

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modifica a cura del notaio, mediante il deposito dell’atto e allegando le eventuali autorizzazioni richieste.
Tuttavia, il co. 1, prevede che questi, prima del deposito, è tenuto a verificare l’adempimento delle
condizioni previste dalla legge, cioè deve operare un controllo sul rispetto delle norme.
Se la verifica del notaio dà esito negativo, questo deve comunicarlo “tempestivamente” entro trenta giorni
agli amministratori che, a loro volta, hanno trenta giorni per scegliere tra il “convocare l’assemblea per gli
opportuni provvedimenti”, in modo da valutare la possibilità di assumere una nuova decisione, o “ricorrere
al tribunale” affinché esso, al termine di un apposito procedimento di verifica della sussistenza delle
condizioni di legge, “ordini l’iscrizione nel registro delle imprese con decreto soggetto al reclamo”. Gli
amministratori hanno anche la possibilità di non procedere e in questo caso, trascorsi trenta giorni dalla
comunicazione, la deliberazione è definitivamente inefficace. Qualora l’organo opti per il ricorso al tribunale,
si apre il c.d. procedimento di omologazione per l’ipotesi in cui la società, nonostante l’esito negativo,
reputa infondati i rilievi del notaio.
Se invece l’esito è positivo, l’ufficio del registro delle imprese procede all’iscrizione e solo a seguito di
questa, la delibera di modificazione dello statuto produce i suoi effetti.

L’art. 2332 disciplina la nullità della società e ne individua le cause. In tale articolo è stabilita per la s.p.a. la
diversa regola della tassativa individuazione, da parte del legislatore, di quelle ipotesi di contrarietà alla
legge che giustificano la dichiarazione di invalidità della società. Si prevede che la nullità della s.p.a. può
essere pronunciata solo nei casi di: mancata stipulazione dell’atto costitutivo nella forma dell’atto pubblico;
illiceità dell’oggetto sociale; mancanza nell’atto costitutivo di ogni indicazione che riguarda la
denominazione della società, i conferimenti o l’ammontare del capitale sociale o l’oggetto sociale.
In base a tale norma la violazione della maggioranza delle norme previste in tema di costituzione della s.p.a.
è irrilevante sul piano dell’invalidità, al contrario di quanto accade nei contratti. Quindi è chiaro che solo le
ipotesi previste dalla legge possono dar luogo alla nullità della società.
Tale disciplina riguarda anche tutte le ipotesi in cui potrebbe riconoscersi l’annullabilità o l’inefficacia
dell’atto costitutivo, vale a dire che non si potrà mai provocare l’annullamento di una s.p.a. invocando il vizio
della volontà o dell’incapacità di uno dei soci.
Un altro punto fondamentale in cui la disciplina dell’invalidità della s.p.a. si distacca dai contratti è quello
delle conseguenze dell’eventuale concreto accertamento di un’ipotesi di nullità. In generale, in tema di
contratto, il negozio nullo non produce effetti; mentre la s.p.a. è caratterizzata dalla c.d. irretroattività dei
relativi effetti. In questo modo, l’iscrizione della s.p.a. nel registro delle imprese ne comporta la validità
dell’azione a prescindere dalla circostanza che l’atto costitutivo fosse stato stipulato a sua volta in modo
conforme alle regole. Si prevede, infatti, che la dichiarazione di nullità non pregiudica l’efficacia degli atti
compiuti in nome della società dopo l’iscrizione nel registro delle imprese e quindi non può essere pretesa
alcuna restituzione nei confronti dei terzi dopo l’accertamento dei vizi di nullità della s.p.a.
Inoltre, è anche efficace l’impegno assunto dal socio con la sottoscrizione del capitale sociale anche se
relativo a una società nulla; infatti è stabilito che i soci non sono liberati dall’obbligo di conferimento fino a
quando non sono soddisfatti i creditori sociali.
Ciò, tuttavia, non comporta che una s.p.a. rispetto alla quale si sia accertata la presenza di vizi rilevanti può
continuare ad esercitare la sua attività. Infatti la contrarietà ai principi che governano l’organizzazione
implica che il programma societario non può ritenersi degno, per il futuro, di riconoscimento e tutela; ma
poiché la società non può “scomparire”, il legislatore dispone che la nullità abbia come conseguenza la
liquidazione. Si prevede così che la sentenza che dichiara la nullità nomina i liquidatori in quanto la nullità
finisce con l’affiancare le ipotesi previste come cause di scioglimento del rapporto sociale ed estinzione
della s.p.a.
Inoltre essa è soggetta ai principi e alle regole generali sulla nullità per gli aspetti non disciplinati dall’art.
2332. Quindi all’azione di nullità è applicabile la regola che ne stabilisce l’imprescrittibilità. Anche per la
legittimazione all’azione di nullità si deve seguire la previsione generale secondo cui essa spetta a chiunque
ne abbia interesse e cioè non a qualunque privato che ritenga di essersi “accorto” del vizio di nullità, ma
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solo da parte di coloro che abbiano un concreto interesse qualificato, cioè coloro che siano titolari di una
situazione giuridica il cui soddisfacimento è stato impedito o ostacolato dall’esistenza della s.p.a. invalida.

Un vizio può però riguardare anche singole clausole dell’atto costitutivo o dello statuto, o può riguardare
solo la partecipazione di un singolo socio. L’art. 2332 non si occupa espressamente di queste ipotesi, ma
comunque è ad essa che si rimanda in via interpretativa.
Si consideri il caso di una clausola statutaria che risulta viziata. L’art. 2332, attraverso il principio di
tassatività, impedisce che, anche quando questa clausola è determinante del consenso dei soci fondatori, la
sua invalidità possa provocare quella dell’atto costitutivo e quindi della nullità della società.
Diverso però risulta il caso dell’invalidità della singola partecipazione. Poiché non si tratta di assicurare le
esigenze di stabilità e irretrattabilità dell’organizzazione nel suo complesso, si afferma che non c’è motivo di
ritenere irrilevanti questi vizi: perciò, ad es., il fondatore, il cui consenso sia stato estorto con violenza,
potrebbe chiedere l’annullamento della sua partecipazione. Tuttavia questo non può avere effetto
retroattivo, in quanto si deve garantire a tutela dei creditori l’effettivo impegno finanziario assunto dal socio;
perciò la sentenza di annullamento comporta solo il recesso del socio dalla società e a lui spetterebbe non la
restituzione di quanto conferito, ma il rimborso in denaro di una quota di liquidazione pari al valore attuale
della sua partecipazione.

Come abbiamo detto le clausole statutarie compongono la struttura dell’organizzazione sociale e con la
redazione dello statuto si può dire che i soci definiscono le concrete modalità di realizzazione dell’interesse
sociale. E’ perciò oggetto di regolamentazione anche la posizione dell’azionista in quanto socio e tenuto
conto dei diritti e dei poteri che l’ordinamento societario gli attribuisce, egli è libero di determinare il suo
esercizio come meglio crede. E’ ipotizzabile anche che gli azionisti abbiano interesse a definire vincoli al
proprio comportamento in società per coordinare meglio la propria azione e assicurarsi così la salvaguardia
più efficace dell’interesse proprietario alla conservazione e valorizzazione dell’investimento azionario.
Proprio per il soddisfacimento di tale interesse, sono diffusi nella prassi degli accordi che si affiancano allo
statuto per regolamentare le posizioni degli azionisti: tali accordi prendono il nome di patti parasociali. Essi
sono dei veri e propri contratti, stipulati tra i soci, i quali impongono a se stessi determinati vincoli in
relazione all’esercizio dei poteri amministrativi o limiti alla libera facoltà di disporre delle azioni.
In concreto queste intese vengono stipulate tra i membri della famiglia che detengono partecipazioni di
controllo in una società o anche nelle grandi società, tra gli azionisti “di riferimento”, i quali, pur detenendo
singolarmente quote modeste di capitale, possono garantirsi insieme una stabile posizione di controllo sulla
società stessa. La causa di tali negozi non può definirsi societaria in quanto non hanno come obiettivo il
perseguimento dello scopo associativo della produzione e distribuzione dell’utile, ma la protezione
dell’investimento operato nella s.p.a.
Dalla natura extrasociale di tali patti deriva che essi producono effetti di carattere obbligatorio tra le parti,
mentre ne viene esclusa l’idoneità a incidere sulle regole organizzative della s.p.a., vale a dire che la
violazione degli accordi va trattata come un normale inadempimento contrattuale con la conseguenza di
risarcire il danno eventualmente procurato alle controparti, ma non comporta mai l’invalidità di atti della
società.
Inoltre, sempre in ragione di tale natura extrasociale, il diritto societario non si occupa di tali accordi, ma
dedica attenzione solo agli effetti e alle interferenze che essi possono determinare nei confronti dell’attività.
Infatti, poiché i patti parasociali hanno per oggetto la regolamentazione degli interessi del socio,
l’esecuzione di questi è in grado di incidere in modo significativo sulla realizzazione degli interessi che
discenderebbero da uno svolgimento spontaneo dell’attività e dall’applicazione delle norme di legge e dello
statuto. Così si pone il problema di stabilire se ed entro quali limiti tale influenza dei patti parasociali
sull’attività può essere consentita.
La questione si è posta soprattutto con riguardo ai c.d. sindacati di voto, cioè ai patti che hanno ad oggetto
l’esercizio del voto da parte dell’azionista. Dopo un intenso dibattito che ha visto opporsi diverse posizioni, il

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legislatore ha preso posizione in favore della validità degli accordi parasociali dedicando due disposizioni
del TUF, gli art 122 e 123, ai patti che riguardano le azioni quotate nei mercati regolamentati, e poi ha
inserito nel codice civile due articoli, 2341-bis e 2341-ter, che riguardano gli accordi parasociali che hanno
ad oggetto la partecipazione in s.p.a.
Queste norme introducono alcuni elementi di disciplina dei patti parasociali. In particolar modo l’art. 2341-
bis considera rilevanti ai fini della disciplina non tutti i tipi di patti che incidono sull’esercizio dei diritti del
socio, ma solo quelli che hanno un dato oggetto e determinate finalità, vale a dire quegli accordi che hanno
per oggetto l’esercizio del diritto di voto nelle società per azioni o nelle società che le controllano; pongono
limiti al trasferimento delle azioni o delle partecipazioni in società che le controllano; hanno per oggetto o
per effetto l’esercizio di un’influenza dominante su tali società.
La norma si pone anche per disciplinare anche l’ampiezza temporale degli accordi, stabilendo che essi non
possono avere durata superiori a cinque anni e si intendono stipulati per questa durata anche se le parti
hanno previsto un termine maggiore. Dove non sia previsto espressamente un termine, ciascun socio può
anche recedervi con un preavviso di centottanta giorni.
Invece, l’art. 2341-ter si occupa della pubblicità dei patti parasociali, che riguardano società che fanno
ricorso al mercato del capitale di rischio.
Tali patti devono essere comunicati dalla società e dichiarati in apertura di ogni assemblea con l’obbligo di
trascrizione della dichiarazione nel verbale e del relativo deposito presso il registro delle imprese.

CAPO SECONDO

LA STRUTTURA FINANZIARIA

§47. Il capitale sociale e i conferimenti

Lo svolgimento dell’attività di una s.p.a. presuppone la raccolta nel mercato dei finanziamenti ad essa
destinati. A fronte della partecipazione a favore della società, gli investitori ricevono strumenti
rappresentativi della posizione che essi rivestono nei confronti della stessa società, che a sua volta dipende
dal tipo di operazione effettuata per l’investimento.
Si distingue, quindi, la raccolta nel mercato di tipo essenziale, cioè necessaria per la sua esistenza, da una
raccolta eventuale.

a) E’ essenziale quella raccolta effettuata al momento della creazione delle azioni. In questa
circostanza la società riceve il c.d. capitale “di rischio” a cui lega le sorti degli azionisti, indispensabili
al funzionamento dell’organizzazione e titolari di diritti di tipo patrimoniale ed amministrativo. Gli
azionisti, in quanto soci, non solo partecipano alla distribuzione degli utili e dell’avanzo di
liquidazione, ma hanno voce in capitolo anche per quanto riguarda l’esercizio dell’impresa comune.
Le azioni sono, inoltre, destinate a circolare: in questo modo si realizza la possibilità di
disinvestimento che costituisce un’altra caratteristica della s.p.a. Per rendere più agevole tale
circolazione, è stabilita l’emissione dei titoli azionari i quali, essendo titoli di credito, rendono più
sicuro l’acquisto della partecipazione nel mercato e consentono di realizzare sia gli interessi dei soci
che della società.
b) E’ eventuale, invece, la raccolta di risorse sul mercato effettuata tramite la creazione e
l’assegnazione dei c.d. altri strumenti finanziari partecipativi, i quali possono essere emessi anche a
fronte di una contribuzione non finanziaria (ad es. una prestazione d’opera) e attribuiscono ai
titolari gli stessi diritti patrimoniali di quelli degli azionisti e diritti di tipo amministrativo anche se in
misura ridotta. Lo stesso vale per l’emissione di obbligazioni, cioè strumenti con cui la s.p.a. si
procura risorse “a debito”, impegnandosi alla restituzione a una data scadenza delle somme
ricevute e a effettuare pagamenti aggiuntivi a titolo di interessi nei confronti dei finanziatori. I

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titolari delle obbligazioni, proprio in ragione del fatto che non contribuiscono a creare il “capitale di
rischio” bensì quello “di debito”, non godono degli stessi diritti partecipativi dei soci. Tuttavia è
stabilita una disciplina volta alla tutela della loro posizione nei confronti della società e tale
disciplina è estesa anche ai titolari degli strumenti finanziari assimilabili alle obbligazioni.

Con “capitale sociale” si intende l’insieme dei mezzi originariamente prestati dai soci e stabilmente destinati
alla società allo svolgimento dell’attività produttiva che costituisce l’oggetto sociale. Tale concetto riguarda
anzitutto un “fatto”, vale a dire che il capitale sociale è ciò che è stato effettivamente prestato dai soci e
posto a disposizione dell’attività; in secondo luogo la destinazione dello stesso corrisponde ad una “regola”,
cioè la prestazione del capitale avviene in conformità di una previsione dei soci i quali stabiliscono che la
società deve avere un certo capitale.
Dal primo punto di vista il codice civile prevede che il capitale sia integralmente sottoscritto, cioè che i soci
abbiano già assunto, con le dichiarazioni di sottoscrizione, l’impegno ad effettuare i conferimenti in misura
pari alla cifra che si intende raggiungere come capitale. Tale cifra esprime un dato storico e consente di
effettuare in ogni momento un raffronto dei finanziamenti operati dai soci.
Dal secondo punto di vista, invece, occorre sottolineare la stabilità. Infatti all’originaria sottoscrizione
corrisponde un vincolo della società al mantenimento nel corso del tempo di entità di pari ammontare. Così
viene adottata una regola di costante autodestinazione all’attività di mezzi per un importo pari, al netto dei
debiti sociali, alla cifra che risulta dalla somma delle stesse sottoscrizioni. Tale regola è rigida in quanto è
previsto che la previsione dell’adozione di un certo capitale avvenga con una clausola statutaria. Ne
consegue, quindi, la c.d. fissità del capitale sociale, e cioè la tua invariabilità nel tempo. Infatti affinché sia
modificata la cifra del capitale sociale non basta una decisione ordinaria di tipo gestorio, assunta dagli
amministratori, ma occorre che si proceda ad una formale modifica dello statuto che dovrà essere decisa
dall’assemblea straordinarie.
Da tale regola discende un vincolo di non distribuzione presso gli azionisti di risorse, che si manifesta nel:
divieto di ripartizione di utili in caso di perdita del capitale sociale, “fino a quando il capitale non sia
reintegrato o ridotto in misura corrispondente”; nella previsione secondo cui la restituzione dei
conferimenti ai soci e la conseguente riduzione del capitale sociale non è libera, ma è condizionata a un
giudizio di concreta sostenibilità dell’operazione da parte della società. La regola della stabilità è poi
all’origine dell’inserimento di un’apposita voce relativa al capitale nel passivo del bilancio, nella classe del
“patrimonio netto”.
Nelle s.p.a., la scelta del capitale sociale da sottoscrivere non è completamente libera. Infatti, l’art. 2327
prevede che essa deve costituirsi con un capitale non inferiore a 50mila euro (capitale minimo). Il notaio,
infatti, non può procedere alla stipula dell’atto costitutivo dove verifichi che il capitale sottoscritto è
inferiore alla soglia minima. Essa poi è vincolante anche in seguito alla costituzione della s.p.a., lungo tutto il
corso dell’esistenza dell’ente. Infatti è previsto che il capitale sociale non può mai ridursi al di sotto della
misura minima prevista, pena lo scioglimento.

Come già detto, la cifra del capitale sociale coincide con quella risultante dalle sottoscrizioni dei soci. Infatti
non è possibile che la società dichiari un capitale per una somma superiore o inferiore a quella sottoscritta.
In Italia non è neanche contemplato il meccanismo tipico dei sistemi anglosassoni, ossia il c.d. capitale
autorizzato, ai sensi del quale i soci si limitano a stabilire nell’atto costitutivo la quota massima di capitale da
potersi raccogliere nel corso della vita della società, mentre compete agli amministratori la decisione di
emettere e azioni e raccogliere così il nuovo capitale. Un sistema simile, nel nostro ordinamento, è
ammesso solo a proposito della c.d. delega agli amministratori all’aumento del capitale.
Con la dichiarazione di sottoscrizione del capitale, chi la emette si assume l’impegno ad effettuare una
prestazione in favore della s.p.a., il conferimento, il cui valore è determinato tenendo conto del capitale
rappresentato dalle azioni da emettere a nome del sottoscrittore e corrisponde a una quota del complessivo
capitale della società.

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In relazione ai conferimenti, la legge detta una disciplina articolata che va dall’art. 2342 a 2343-quater, la
quale forma il sistema del c.d. “capitale reale”, volte alla realizzazione del c.d. principio di effettività del
capitale sociale, cioè che viene effettivamente conferito e non rimane solo sulla carta.
A tale proposito si prevede che “se nell’atto costitutivo non è stabilito diversamente, allora il conferimento
deve farsi in denaro”. La legge però ammette una deviazione subordinandola al consenso dei soci espresso
nell’atto costitutivo o nella delibera di aumento del capitale sociale mediante conferimenti in natura.
Poi è richiesto dall’art. 2342, co.2, che un quarto dei conferimenti in denaro deve essere versato dai soci
immediatamente, alla sottoscrizione dell’atto costitutivo, per poi rimanere depositato presso una banca fino
al momento dell’iscrizione della s.p.a. nel registro delle imprese. Con questa disposizione, da un lato, si
prevede che la società disponga da subito di una parte dei mezzi destinati, per ricoprire almeno in parte i
costi di start-up, dall’altro si ottiene una sorta di impegno cauzionale dei soci, garantendosi così la serietà
del loro impegno preso con la società. Spetta poi agli amministratori richiedere ai soci i versamenti ancora
dovuti.

Per i conferimenti diversi dal denaro il legislatore prevede un’ampia serie di previsioni, ispirate ai principi di
“effettività in senso stretto” e si “integrità” del capitale. Cioè si vuole assicurare che il capitale sociale sia
certo nel “se” e nel “quanto” imponendosi che la società consegua la sicurezza della disponibilità delle
prestazioni promesse a copertura del capitale sociale e che il valore di tali risorse sia pari alla quota di
capitale sociale individualmente assunta dal conferente.
Al principio di effettività “in senso stretto” fa riferimento la norma dell’art. 2342, co. 3, secondo la quale le
azioni corrispondenti ai conferimenti di beni in natura e di crediti “devono essere integralmente liberate
all’atto della sottoscrizione”. In questo modo il legislatore evita che il rinvio nel tempo dell’adempimento
della prestazione comporti il rischio successivo di una mancata acquisizione del conferimento da parte della
s.p.a. Tale esigenza non si riferisce tanto all’acquisizione immediata di tutte le utilità della cosa conferita, ma
all’assunzione da parte degli amministratori della sicura e irrevocabile disponibilità della fonte produttiva di
tali utilità. Per questo è ammissibile il conferimento di un bene sono solo in proprietà, ma anche in
godimento in quanto l’esecuzione immediata della prestazione consisterà nel mettere a disposizione della
società il bene, anche se poi le utilità verranno percepite successivamente.
Inoltre è previsto il divieto dell’art. 2342, co.5, ai sensi del quale “non possono formare oggetto di
conferimento le prestazioni d’opera o di servizi”; infatti il concorso di tali prestazioni alla formazione del
capitale è impedito dal fatto che esse sono inidonee a fornire agli amministratori il controllo del fattore di
produzione rappresentato dal singolo conferimento.
Con riferimento invece all’esigenza di integrità del capitale, ad esso è dedicato l’art. 2343, ai sensi del quale
l’emissione e la consegna di azioni a fronte del conferimento di beni in natura o di crediti avvengono solo a
seguito di un procedimento complesso che prevede: la stima del valore del bene o del credito apportati, in
una relazione giurata di un esperto; il successivo controllo di tale stima da parte degli amministratori e
infine la proporzionale riduzione del capitale sociale nell’ipotesi in cui da una revisione degli amministratori
risulta che il valore dei beni o dei crediti conferiti era inferiore di oltre un quinto a quello per cui è avvenuto
il conferimento, a meno che il conferente non decida di integrare con versamento in denaro la propria
prestazione o di recedere del tutto dalla società. In quest’ultima ipotesi, è stabilito che egli ha il diritto alla
restituzione del conferimento solo quando sia possibile in tutto o in parte in natura.

Abbiamo detto che per formare il capitale sociale occorrono gli apporti dei soci, ma non è vero il contrario;
infatti non è vero che ad ogni apporto del socio corrisponde l’imputazione in capo a questi di una quota del
capitale sociale. Deve infatti tenersi presente la possibilità che tutti o alcuni dei soci effettuino in favore
della società delle prestazioni aggiuntive rispetto a quelle necessarie a formare il complessivo capitale
sociale. Così è possibile che al socio possa essere richiesto, oltre al suo conferimento, anche di operare una
prestazione ulteriore che favorisce lo scopo comune, accrescendo il patrimonio della società, senza però
aumentare il capitale.

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i. Tale possibilità può essere rappresentata dal soprapprezzo, la cui prestazione è prevista dalla legge
nell’aumento di capitale sociale ma è considerata ammissibile (facoltativa) nell’ambito di
costituzione della s.p.a. Il soprapprezzo costituisce un “apporto” del socio, da considerarsi come
pagamento di una sorta di corrispettivo a carico del singolo sottoscrittore per l’accesso alla società.
ii. Diversa è l’ipotesi in cui il socio effettui un conferimento a capitale individualmente esuberante:
cioè imputato alla formazione del capitale complessivo, ma superiore alla quota di capitale
nominale a lui assegnata. Si tratta del caso in cui un azionista si obbliga ad un conferimento
superiore rispetto a quello necessario in relazione alle azioni da emettere in suo favore, in quanto
strumentale all’emissione di azioni in favore di un altro socio per un valore più che proporzionale al
conferimento a cui questo si obbliga. Quindi, dietro apposita previsione statutaria, è possibile che
un socio accetti di prestare più “capitale reale” rispetto a quello che gli verrà assegnato con le azioni
emesse a suo favore e, al contrario, un altro socio concorda di ottenere azioni di valore nominale
superiore al valore del proprio conferimento.
iii. Infine i soci, per venire incontro ad un bisogno della società, possono effettuare “versamenti” a
patrimonio, senza canalizzarli nelle forme previste per l’aumento di capitale e senza che a tali
versamenti corrisponda un incremento o variazione del capitale e della misura delle singole
partecipazioni. Si parla in questo caso di “apporti spontanei”, più comunemente definiti come
“versamenti in conto capitale” o “versamenti a fondo perduto” a seconda della destinazione degli
stessi per sopperire ad una futura esigenza di capitalizzazione o alla copertura delle perdite.

Da queste tipologie di apporti, devono però distinguersi i prestiti che i soci erogano alla società. Infatti, i
primi finanziano la seconda fornendole risorse a titolo di capitale di debito, e quindi divengono creditori
della stessa come qualsiasi altro terzo che a sua volta ha prestato denaro alla società.

Altra possibile prestazione dei soci, aggiuntiva rispetto ai conferimenti a capitale, è prevista nell’art. 2345 e
riguarda, appunto, le c.d. azioni con prestazioni accessorie. Tale disposizione stabilisce che “oltre l’obbligo
dei conferimenti, l’atto costitutivo può stabilire anche l’obbligo dei soci di eseguire le prestazioni accessorie
non consistenti in denaro, determinandone il contenuto, la durata, le modalità e il compenso, stabilendo
particolari sanzioni in caso di inadempimento”.
Si realizza così una sorta di personalizzazione della partecipazione azionaria, la sui spettanza viene legata
alle sorti di un rapporto tra il socio e la s.p.a., descritto e disciplinato nell’atto costitutivo.
Le norme contenute nell’art. 2345 prevedono da un lato che le azioni circolino solo su consenso degli
amministratori; dall’altro prevedono che, in assenza di una disposizione diversa nell’atto costitutivo, gli
obblighi oggetto di prestazione accessoria non possono essere modificati senza il consenso di tutti i soci.

§48. Le azioni. Creazione ed estinzione.

Ai sensi dell’art. 2346, co.1, “la partecipazione sociale è rappresentata da azioni”. La previsione contiene
tre distinti precetti:

 che l’assegnazione di azioni attesta e misura la partecipazione al capitale sociale di ciascun socio;
 che dal numero e dal tipo di azioni assegnate discendono entità e contenuti della partecipazione
all’attività sociale di ciascun socio e quindi la quantità e il contenuto dei diritti e degli obblighi ad
esso imputati;
 che il possesso o la disponibilità delle azioni condiziona l’acquisto e l’esercizio dei diritti
partecipativi.

In tali affermazioni, il termine “azioni” assume significati diversi: nel primo caso si tratta di partizioni del
capitale sociale; nel secondo di insieme di situazioni giuridiche soggettive; nel terzo di documenti destinati
all’esercizio di quei diritti.
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Le azioni rappresentano la partecipazione del socio al capitale sociale. Esse indicano in che misura la
collettività dei soci valuta il conferimento apportato dal singolo in termini di risorsa finanziaria produttiva,
rientrante nella dotazione comune di capitale (ad es. un capitale sociale di 60.000€ diviso in 60 azioni,
l’assegnazione di 20 azioni di fronte ad un conferimento indica che esso è stato valutato 20.000€ e quindi
che al relativo conferimento è stato riconosciuto di aver contribuito al capitale per un terzo). Le singole
azioni devono considerarsi una “misura prefigurata di investimento” e in particolare come l’unità minima
di finanziamento richiesta in una certa s.p.a. per partecipare all’iniziativa d’impresa.
La previsione secondo cui lo statuto deve predeterminare, con le azioni, le unità standard di investimento
nell’impresa societaria, consente ai singoli investitori di decidere la quantità della propria partecipazione
individuale; inoltre tale previsione rende le partecipazioni fungibili l’una all’altra per quanto riguarda
l’esercizio dell’attività comune e suscettibili di determinare un’incidenza su di essa da parte del singolo
socio, che sarà diversificata solo in base alla misura dell’investimento effettuato dal socio stesso. In questo
modo si attua il principio della “spersonalizzazione” della partecipazione secondo cui a rilevare sul piano
della relazione tra gli associati è il valore monetario del contributo del singolo rapportato all’intera
dotazione di capitale di rischio.
In coerenza con tale aspetto, la legge regola il valore nominale delle azioni, con cui si intende la parte della
dotazione di capitale di rischio che deve considerarsi espressa dalla singola azione, ed è un valore che deve
corrispondere alla divisione della cifra del capitale sociale per il numero delle azioni emesse (nell’es.
precedente 1/60 di 60.000=1.000). Esso a fondamentale importanza sul piano dei rapporti tra la s.p.a. e i
singoli azionisti in quanto misura i diritti spettanti a ciascuno di loro che competono, appunto, in
proporzione alle azioni possedute.
Il valore nominale delle azioni rappresenta un dato formale, in quanto esprime in termini monetari l’unità
minima di investimento. Pertanto, in nessun modo tale espressione deve considerarsi identificativa del
valore reale delle azioni, il quale non può essere funzione di un’astratta previsione statutaria, ma dipende
dal valore del patrimonio netto concretamente presente nella s.p.a. in un dato momento storico. Quindi esso
è dato dalla divisione del valore del patrimonio aziendale per il numero di azioni emesse e muta nel tempo
al mutare di tale patrimonio. Tenendo conto della “dipendenza” del valore reale delle azioni al valore di altri
beni, le azioni si definiscono “beni di secondo grado”.
L’art. 2346, co.3, consente tuttavia che manchi una determinazione statutaria del valore nominale delle
azioni: in questo caso si avrà una s.p.a. con azioni senza valore nominale.
A norma dell’art. 2354, co.3, il valore nominale delle azioni o, per le azioni senza valore nominale, il numero
complessivo delle azioni emesse e l’ammontare del capitale sociale, devono essere indicati nei titoli
azionari eventualmente emessi dalla società. Tale formalità serve a far conoscere al sottoscrittore il peso
della partecipazione assunta in rapporto al capitale complessivo; cioè implica un gravoso onere di
correzione del titolo da parte degli amministratori nei casi in cui tali dati dovessero successivamente
divenire non più attuali.

Poiché la creazione delle azioni implica la formazione del capitale sociale, esse presuppongono la
sottoscrizione, cioè una dichiarazione con la quale i soci si vincolano a prestare conferimenti per una
somma almeno pari a quella del capitale sottoscritto, che deve nel complesso coincidere con quello che la
società intende adottare come capitale di rischio per l’esercizio dell’attività. Le azioni sono emesse sulla base
del valore del conferimento operato o promesso dal socio. Si tratta di operare un’equazione tra la somma
che il socio si impegna a versare all’atto della sottoscrizione del capitale e il numero complessivo delle
azioni, tenendo conto del loro valore nominale.
La sottoscrizione del capitale può avvenire in due occasioni diverse: o al momento della costituzione della
s.p.a.; o nel corso dell’attività, quando si decide di accrescere la dotazione finanziaria e quindi operare un
aumento di capitale sociale attraverso nuovi conferimenti. Sempre nel corso della vita della s.p.a. è possibile
operare un’emissione azionaria a prescindere dalla raccolta di nuove risorse e in questo caso le azioni
possono essere assegnate “gratuitamente” a chi ne sarà titolare: questo si verifica nelle ipotesi di aumento
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di capitale sociale realizzato tramite un’imputazione a capitale di altri fondi come riserve disponibili o utili.
Alla creazione delle azioni corrisponde, di conseguenza, anche l’estinzione delle stesse e l’annullamento
degli eventuali titoli emessi. Ciò può avvenire, oltre che in occasione dello scioglimento generale, anche
nelle ipotesi di riduzione di capitale previste dalla legge connesse ad una decisione dei soci di modifica dello
statuto, o allo scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio.

Riepilogando, i presupposti della creazione delle azioni sono: la sottoscrizione delle azioni rappresentative
del capitale, che interviene al momento della stipula dell’atto costitutivo (artt. 2328, 2329) e il versamento
presso una banca del 25% del valore nominale delle azioni, con divieto degli amministratori di operare un
prelievo fino a quando la società non sia iscritta (art. 2342, co. 2). Nel caso in cui abbia ad oggetto beni in
natura, allora il conferimento va effettuato per intero.
Questi fatti sono necessari e sufficienti per la creazione delle azioni e alla relativa assegnazione al
sottoscrittore, il quale ne acquista la titolarità senza che occorra altra formalità. Inoltre è possibile che le
azioni siano assegnate a un socio, mediante apposita clausola dell’atto costitutivo, in modo non
proporzionale alla sottoscrizione effettuata: ciò si ha quando altri azionisti prestino conferimenti in surplus
rispetto alla propria sottoscrizione, in modo “da coprire” la parte di capitale non apportata da questo socio.
La mancanza di uno di questi presupposti, determina la nullità della partecipazione ma questa non ha
efficacia retroattiva (cioè non legittima una pretesa alla restituzione del conferimento effettuato), ma
comporta il diritto dell’azionista alla liquidazione in denaro della propria quota.

E’ possibile che i soci, spontaneamente o sollecitati dagli amministratori, nel corso della vita della società
ritengano di dover aggiornare l’originaria cifra del capitale sociale: o perché la considerano non adeguata
all’attività che si sta svolgendo, o per uno sviluppo qualitativo o dimensionale futuro dell’iniziativa. Da
questa decisione, la società trae spesso beneficio in termini di maggiore credibilità rispetto al mercato e ai
creditori, i quali potranno dirsi maggiormente “garantiti” rispetto al passato circa la solvibilità del proprio
debitore.
Questa operazione può assumere due configurazioni: aumento di capitale sociale gratuito e aumento di
capitale sociale a pagamento.
L’aumento di capitale gratuito consiste in una mera operazione contabile di imputazione a capitale di
valori patrimoniali già esistenti in società, senza incremento, quindi, del patrimonio, concretandosi in una
sorta di “compensazione” tra le poste presenti al suo interno (ad es. posto un capitale di 200 euro e riserve
statutarie per 100, un eventuale aumento gratuito del capitale fino a 300 potrà consistere nell’azzeramento
di tale riserva e nell’aumento della posta del capitale). Questo si fonda sulla “pura e semplice” decisione
organizzativa. Condizione necessaria perché si possa effettuare tale aumento, è che la società già possieda
“fondi propri” in misura superiore rispetto a quelli corrispondenti all’importo del capitale sociale stabilito
precedentemente, e che li detenga come fondi disponibili e cioè non vincolati per legge ad un determinato
utilizzo. Con la decisione di aumento del capitale cessa tale situazione di “disponibilità” e le riserve vengono
assoggettate al precetto della non restituibilità, tipico del capitale sociale.
L’aumento del capitale gratuito è previsto dall’art. 2442, secondo cui “l’assemblea può aumentare il capitale,
imputando ad esso le riserve e gli altri fondi disponibili iscritti in bilancio”. L’operazione si concreta in una
deliberazione dell’assemblea straordinaria con cui si decide di “imputare” a capitale risorse patrimoniali che
la società ha già acquisito.
L’operazione può concretarsi anche nell’emissione di nuove azioni e in tale evenienza, queste azioni devono
avere le stesse caratteristiche di quelle già in circolazione e devono essere assegnate gratuitamente agli
azionisti in proporzione di quelle già possedute.
Alternativamente all’emissione di nuove azioni, l’aumento del capitale gratuito può attuarsi anche
“mediante aumento del valore nominale delle azioni in circolazione”.

L’emissione di nuove azioni successiva alla costituzione della s.p.a. ricorre in collegamento ad un’operazione
di aumento di capitale sociale tramite nuovi conferimenti o, come si dice anche, a pagamento.
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Anche in questa fattispecie la decisione della società di modificare il capitale sociale dipende dalla volontà di
adeguare le risorse destinate all’attività ai suoi volumi effettivi o da un piano di sviluppo della stessa attività:
tuttavia la società, per supportare tale progetto, ricorre a nuovi apporti provenienti dall’esterno, o perché
priva di mezzi propri, o perché, anche quando ne abbia la disponibilità, preferisce comunque procurarsi
nuovi mezzi finanziari e destinare le riserve accumulate precedentemente per altri usi.
L’aumento di capitale sociale “a pagamento”, trattandosi di una modifica dell’atto costitutivo, prevede un
organo competente che è l’assemblea dei soci che delibera in sede straordinaria.
Nell’aumento di capitale tramite nuovi conferimenti, la delibera non è sufficiente per il mutamento della
cifra del capitale sociale, e perché tale mutamento si produca, occorre che intervengano nuove
sottoscrizioni, cioè dichiarazioni degli investitori con le quali vengono espressi gli impegni a conferire il
denaro o altri beni necessari a coprire il capitale nominale aggiuntivo.
L’art. 2439, co. 2, si preoccupa di coordinare la delibera di aumento del capitale e le successive
sottoscrizioni. In tale proposito, il legislatore prevede che vada determinato il termine finale entro il quale
devono intervenire le sottoscrizioni, stabilendosi che, qualora allo scadere di quel termine il capitale raccolto
sia inferiore a quello deliberato, allora l’aumento di capitale non può avere luogo nemmeno in parte e i
sottoscrittori sono liberati dal vincolo che avevano assunto. La precisazione del termine massimo per la
raccolta delle nuove adesione è un elemento essenziale della delibera di aumento del capitale ed da esso
dipende il momento in cui si produce la modifica dell’organizzazione.

Come abbiamo detto, l’aumento del capitale sociale tramite nuovi conferimenti si caratterizza perché la
modifica della cifra del capitale sociale nominale avviene in conseguenza di una nuova destinazione di
risorse finanziarie. Per tale motivo il codice si preoccupa di dettare una serie di regole volte ad assicurare
l’effettività del capitale.

i. Anzitutto, l’art. 2438, prevede che è vietata la realizzazione di un aumento di capitale fino a quando
non vi sia l’integrale liberazione delle azioni precedentemente emesse; infatti, è incoerente agli
occhi del legislatore, che si provveda a raccogliere nuova finanza in un momento in cui una parte del
finanziamento a cui la società abbia già diritto, non sia stata ancora riscossa. Nulla vieta però solo di
programmare la nuova raccolta di capitale prima del completamento dell’operazione di riscossione
della vecchia.
ii. In relazione all’impegno dei sottoscrittori, l’art. 2439, co. 1, stabilisce che, in caso di conferimenti in
denaro, il 25% di questi debba essere versato al momento della sottoscrizione come nel caso della
costituzione.
iii. Come avviene per il caso delle azioni originarie, le azioni di nuova emissione dovranno liberarsi
tramite conferimenti in denaro, a meno che si stabilisca di accettare dai nuovi sottoscrittori degli
apporti in natura. Tale decisione deve essere presa in assemblea straordinaria e in questo caso, le
azioni devono essere liberate integralmente al momento della sottoscrizione e occorre depositare la
relazione di un perito. Inoltre la stima deve essere depositata prima della delibera di aumento di
capitale e deve essere conosciuta dai soci almeno al momento di tale decisione, la quale dovrà
avere per oggetto, non solo l’identità del bene che si intende apportare, ma anche il relativo valore.

L’aumento di capitale tramite nuovi conferimenti potrebbe alterare le precedenti percentuali di


partecipazione alla società da parte degli azionisti. Infatti, da una parte si incrementa il numero di azioni in
circolazione e aumenta la misura complessiva di azioni su cui calcolare le percentuali partecipative di
ciascun socio; dall’altra, non si verifica un automatico aumento proporzionale alla misura delle azioni
possedute da ciascun socio. Là dove accada che i nuovi obblighi di conferimento siano stati assunti da terzi,
o che i precedenti soci siano indotti a sottoscrivere le nuove azioni in modo non proporzionale alle azioni
possedute anteriormente, la misura dei relativi diritti e obblighi cambierà in corrispondenza delle nuove
sottoscrizioni (ad es. immaginata una società con capitale sociale di 200.000€ diviso in 200 azioni di 1.000€
ciascuna e distribuito paritariamente tra quattro soci, Tizio, Caio, Sempronio e Mevio, e amministrata da
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Tizio, un aumento di capitale reale di 100.000€ sottoscritto solo dai primi due soci conferirebbe a questi la
maggioranza del nuovo capitale ai danni della precedente partecipazione degli altri due, che a quel punto
sono ridotti a una posizione di comprimari).
La possibilità che l’aumento di capitale realizzi un mutamento delle precedenti partecipazioni è fonte di
pregiudizi degli interessi individuali dei soci, dato che la maggioranza potrebbe approfittare di tale
occasione in modo abusivo. Inoltre la possibilità di un’alterazione non concordata della distribuzione delle
partecipazioni potrebbe provocare un conflitto tra gli azionisti tale da incidere sulla continuità della gestione
dell’attività sociale.
A questo proposito è fondamentale la previsione dell’art. 2441, co. 1, ai sensi del quale “le azioni di nuova
emissione e le obbligazioni convertibili in azioni devono essere offerte in opzione ai soci in proporzione al
numero delle azioni possedute”. In questo modo il socio può decidere autonomamente se accettare o meno
l’offerta rivoltagli dagli amministratori o se mantenere la precedente quota di partecipazione.
Per assicurare il rispetto del diritto di opzione dei soci, la legge determina il procedimento di raccolta delle
nuove sottoscrizioni, stabilendo che l’offerta va pubblicata presso il registro delle imprese ad opera degli
amministratori e dal momento di tale pubblicazione, decorre un termine per l’esercizio del diritto di
opzione, da precisare nell’offerta stessa, non inferiore a quindici giorni.
Inoltre, il legislatore stabilisce che le azioni inoptate (cioè quelle che rimangono non sottoscritte allo
scadere dell’offerta in opzione) non possono essere collocate liberamente; infatti, l’art. 2441, co. 3, dispone
che coloro i quali abbiano esercitato tempestivamente il diritto di opzione, dove ne esprimono richiesta,
hanno diritto di prelazione nell’acquisto delle azioni e delle obbligazioni convertibili in azioni che siano
rimaste inoptate. Pertanto solo nel caso in cui restino azioni non sottoscritte anche dopo che si sia
esercitato il diritto di opzione, queste possono essere collocate dagli amministratori presso eventuali terzi.
Il vincolo imposto dalla società all’esercizio del diritto di opzione, però, potrebbe determinare dei limiti in
quanto molto spesso accade che per l’attuazione di programmi che potrebbero arrecare vantaggi alla s.p.a.
si necessita, appunto, dell’ingresso di un terzo in società tramite la sottoscrizione di un aumento di capitale.
Quindi in questo caso, l’obbligo di offrire opzione ai soci per le azioni di nuova emissione, potrebbe impedire
tale questione e allora, per evitare che ciò si verifichi, la legge stabilisce che il diritto di opzione può essere
escluso, solo in determinati casi (art. 2441): a) quando le azioni “devono essere liberate mediante
conferimenti in natura”; b) quando “l’interesse della società lo esige”; c) quando le azioni “sono offerte ai
dipendenti della società o di società che la controllano o che sono da essa controllate”; d) o nei limiti del
10% del capitale sociale preesistente.

Operazione opposta è la riduzione del capitale sociale che consiste nell’abbassamento della soglia di
investimento destinata all’attività sociale, rispetto a quella precedentemente prevista dai soci con la
determinazione del capitale sociale.
Occorre distinguere due ipotesi. La prima è la c.d. riduzione reale del capitale che presuppone un
corrispondente impoverimento della società, con restituzione ai soci di parte delle risorse precedentemente
apportate; la seconda, è la c.d. riduzione nominale che la legge disciplina in seguito al verificarsi di perdite
di capitale e realizza semplicemente un riallineamento tra l’importo del capitale statutariamente
programmato e l’importo del patrimonio di cui la società dispone effettivamente in un dato momento
storico.
La riduzione reale è di competenza dell’assemblea straordinaria ed è regolata dall’art. 2445, co. 1, che
prevede due possibili modalità dell’operazione: i soci possono stabilire o il rimborso del capitale versato, o
la liberazione dei soci dall’eventuale debito residuo ai versamenti.
Con la riforma del diritto societario del 2003, tale disciplina ha subito una modifica rispetto al passato, in
quanto è stata abrogata la previsione del requisito di esuberanza del capitale rispetto all’oggetto sociale per
poter applicare la riduzione. Nell’attuale testo dell’art. 2445, si sono quindi ampliati gli spazi di
discrezionalità della maggioranza assembleare sulla decisione dell’operazione da attuare. Questa può
essere presa non solo se giustificata da una sovrabbondanza delle risorse interne della società rispetto
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all’attività in corso, ma anche se queste risorse non sono eccessive.


L’eliminazione del requisito dell’esuberanza del capitale non significa tuttavia che può deliberarsi una
riduzione senza che siano offerte spiegazioni al riguardo. Infatti, l’art. 2445, co.2, stabilisce che “l’avviso di
convocazione deve indicare le ragioni e le modalità di riduzione”. La riduzione del capitale, infine, è soggetta
a un importante vincolo, vale a dire che essa “può essere eseguita solo dopo 90 giorni dall’iscrizione nel
registro dell’imprese, purché entro questo termine nessun creditore sociale anteriore all’iscrizione abbia
fatto opposizione”. Tale potere di opporsi alla decisione al ribasso del capitale sociale dipende dal ruolo di
“garanzia” a cui questo assolve rispetto alla solvibilità della società.
Tuttavia, ciò non significa che la tale valutazione dei creditori debba condizionare le scelte dei soci. Infatti,
l’art. 2445, co.4, stabilisce che la società può rivolgersi al tribunale e che questo, quando ritiene infondato il
pericolo di pregiudizio per i creditori o la società abbia prestato idonea garanzia, può disporre che
l’operazione abbia comunque luogo nonostante l’opposizione. L’esecuzione dell’opposizione comporta la
riduzione del valore nominale delle azioni o l’estinzione di alcune azioni in misura corrispondente alla
riduzione decisa e a parità di trattamento tra i soci e quindi proporzionalmente alla rispettiva
partecipazione.

Altra ipotesi di riduzione del capitale sociale è quella che consegue alla produzione di perdite tali da
intaccare il capitale stesso (c.d. perdite di capitale). L’ipotesi considerata dagli artt. 2446 e 2447 è quella in
cui il patrimonio netto della società sia inferiore alla cifra del capitale sottoscritto.
La disciplina della riduzione del capitale per perdite è spiegata in coerenza con la funzione di garanzia del
capitale sociale. Infatti, come il legislatore si preoccupa della sua formazione, così si preoccupa anche del
suo mantenimento: ciò comporta la necessità di prevedere regole da applicare nel caso in cui la provvista
originariamente apportata sia in tutto o in parte venuta meno, non perché parte delle risorse sono state
restituite ai soci, ma perché sono state consumate nell’ambito dell’attività sociale.

A. In particolare, l’art. 2446 stabilisce anzitutto che, qualora la perdita del capitale sociale sia superiore
a un terzo rispetto alla misura dello stesso, gli amministratori hanno l’obbligo di convocare
l’assemblea a cui dovranno sottoporre una relazione sulla situazione patrimoniale della società.
Alla riunione i soci non devono necessariamente adottare una decisione di modifica alla cifra del
capitale sociale; è previsto semplicemente che l’assemblea assuma gli opportuni provvedimenti.
Ciò che il legislatore richiedere è che i soci vengano avvertiti circa la divergenza tra il capitale sociale
sottoscritto e quello reale di cui la società effettivamente dispone: saranno poi i soci a decidere
discrezionalmente, sulla base della relazione degli amministratori, se la divergenza sia da
considerare subito intollerante. Tale discrezionalità non è loro concessa se la perdita perdura per un
altro esercizio. Infatti il legislatore non consente di mantenere il capitale sociale non effettivo oltre
tale periodo, imponendo di dover aggiornare la cifra del capitale in modo da renderla
corrispondente a quella esistente. L’art. 2446, co.2, prevedere che se entro l’esercizio successivo a
quello in cui è stata accertata la perdita questa non risulta diminuita a meno di un terzo,
l’assemblea ordinario o il consiglio di sorveglianza che approva il bilancio di tale esercizio deve
ridurre il capitale in proporzione alle perdite accertate. La società non può sottrarsi a tale
adempimento e nel caso in cui questo accada, gli amministratori e i sindaci o il consiglio di
sorveglianza devono rivolgersi al tribunale affinché questo disponi la riduzione.
B. Una regola particolare è prevista nell’ipotesi, art. 2447, in cui la perdita di oltre il terzo del capitale
lo porti ad una misura inferiore al minimo di 50.000€ consentito dall’art. 2327. In questo caso la
legge impone che l’assemblea sia convocata “senza indugio” e che essa debba “deliberare la
riduzione del capitale e il contemporaneo aumento dello stesso a una cifra non inferiore al minimo”.
In alternativa vi è la possibilità di trasformare la società in un tipo per il quale sia previsto un
capitale minimo inferiore, dovendo altrimenti deliberare lo scioglimento della società.

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C. L’obbligazione all’attivazione degli amministratori, però, opera solo nel caso in cui vi sia una perdita
non inferiore a un terzo del capitale sociale, ciò perché per attuare il sistema di norme deve
sussistere una perdita considerata grave e non un calo di dimensioni contenute e temporanea.
Tuttavia anche in questi casi l’assemblea può comunque decidere di ridurre il capitale sociale e di
operare un riallineamento tra la misura statutaria e quella effettiva (c.d. riduzione facoltativa).
A questa ipotesi però non si ha ben chiaro quale disciplina vada applicata: l’art. 2446 ritiene
comunque che gli amministratori sono obbligati al deposito dei documento o, in alternativa, l’art.
2445, reputa necessario il rilascio da parte dei creditori di un loro consenso alla riduzione.

Anche la riduzione nominale comporta o la riduzione del valore nominale di tutte le azioni esistenti o
l’estinzione di alcune di esse, colpendo, in tal caso, ciascun socio in proporzione alla partecipazione
posseduta.

§49. La partecipazione azionaria

Un altro ruolo fondamentale assegnato alle azioni è quello di rappresentare la partecipazione individuale
all’attività sociale. Con il termine azione non si identifica, pertanto, la quota unitaria di investimento in
capitale di rischio nella s.p.a. ma un’ideale “porzione unitaria” del rapporto che lega l’azionista alla società. I
contenuti del rapporto sono espressi e conformati dai diritti e gli obblighi assunti dai soci, attribuitigli dalle
azioni possedute.
Va evidenziato che se da un lato l’assegnazione di azioni costituisce il titolo per l’assunzione della
partecipazione sociale, dall’altro la stessa partecipazione, intesa come insieme dei diritti del socio,
rappresenta un elemento fondamentale per l’esistenza dell’organizzazione societaria e il buon
funzionamento della governance.

Le azioni sono le unità minime indifferenziate della partecipazione individuale all’attività societaria e ai
risultati: esse si caratterizzano in quanto indivisibili, inscindibili e uguali.

Il primo requisito è sancito dall’art. 2347 che stabilisce che “le azioni sono indivisibili” e quindi vi è
“l’impossibilità per l’azionista di suddividere in più parti la partecipazione all’attività sociale e di imputare
separatamente ai titolari delle singole parti diritti e obblighi sociali, in modo frazionato”.
L’indivisibilità dell’azione non comporta però che essa non possa essere oggetto di contitolarità tra più
persone ma solo la necessità che una eventuale contitolarità non contraddica la regola secondo cui l’azione
deve esprimere la misura minima dell’investimento in quella specifica s.p.a. e quindi dell’unitaria
partecipazione in società. Dunque l’art. 2347, co.1, prevede che “nel caso di contitolarità di un’azione, i
diritti dei comproprietari devono essere esercitati da un rappresentante comune” che viene nominato
secondo le regole previste in tema di comunione (artt. 1105 e 1106).
Inoltre l’indivisibilità non significa neanche immutabilità della previsione circa il valore nominale dell’azione.
Infatti essa può essere oggetto di modifica con l’osservanza della procedura prevista dall’art. 2436. E’
possibile però che i assemblea straordinaria si decida una riduzione o un aumento del valore nominale
unitario delle azioni a cui conseguirà, nel primo caso, il frazionamento delle azioni in circolazione; nel
secondo caso, il raggruppamento delle stesse in funzione alla formazione di un’unità partecipativa
maggiore.

Le azioni sono anche inscindibili, nel senso che non è ammissibile il frazionamento, da parte dell’azionista,
che consiste nel disporre in modo parziale il contenuto dell’azione a favore di altri soggetti, con l’attribuzione
ad essi solo di uno o più diritti azionari e non della proprietà dell’intera partecipazione.
E’ quindi considerata illecita la vendita del voto. Il principio di inscindibilità è regolato dall’art. 2347, nei
limiti in cui tale norma non si interessi al principio dei necessaria correlazione tra rischio e potere: per cui, se
il valore nominale delle azioni rappresenta, oltre che l’unità di misura dell’investimento in società, anche la
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soglia minima dell’impegno finanziario del socio, l’incidenza nella governance da parte del socio può
garantirsi solo quando vi siano valori non inferiori a tale soglia. Perciò non può considerarsi lecito l’esercizio
di un diritto sociale da parte di chi lo abbia acquistato isolatamente e cioè non abbia investito in società,
limitandosi ad assicurarsi la possibilità di influire sulle sorti della società.

Per quanto riguarda il principio dell’uguaglianza, invece, esso è disciplinato dall’art. 2348, co.1, che dispone
di attribuire ai relativi titolari partecipazioni uguali l’una alle altre e che “le azioni devono essere di uguale
valore e conferiscono ai loro possessori uguali diritti”. Tale principio non implica però che le azioni debbano
essere tutte identiche, in quanto la legge consente, nel co.2 dello stesso articolo, la creazione di categorie
diverse di azioni, che attribuiscono diritti particolari. Semplicemente non è ammissibile che la diversità della
partecipazione azionaria sia legata, anziché al tipo di azione posseduta, alla persona o al “tipo di persona”
che venga a possederla. Una differenziazione tra azionisti può determinarsi solo in correlazione con
l’eventualità che essi possiedano diverse quantità di azioni emesse da una s.p.a. Ciò sia perché in conformità
con il c.d. criterio plutocratico (il potere è direttamente proporzionale alla ricchezza posseduta) la maggior
parte dei diritti sociali spettano in base al numero di azioni possedute; sia perché alcuni diritti sociali sono
condizionati ex lege, o per statuto, al possesso di una certa quota partecipativa.
Inoltre, sotto il profilo organizzativo, le azioni si caratterizzano del c.d. principio di autonomia, secondo cui
ognuna di esse attribuisce al proprio possessore dei diritti esercitabili in modo autonomo, con la possibilità
di esercitare in modo diversificato prerogative sociali fondamentali da parte dello stesso soggetto. Tale
possibilità potrebbe essere temperata dal principio di buona fede o dal divieto di abuso del diritto, ossia
istituti che rendono lecito l’esercizio diversificato dei diritti solo dove giustificato da ragioni obbiettive, come
nel caso di esercizio dei diritti sociali da parte di un fiduciario per conto di più fiducianti.

Dalla titolarità delle azioni discende l’attribuzione di situazioni soggettive previste dalla legge che prendono
il nome di diritti sociali. In particolare, all’azionista spettano diritti di tipo patrimoniale e amministrativo.

Appartengono alla categoria dei diritti patrimoniali, il diritto agli utili e il diritto alla quota di liquidazione
della società in sede di scioglimento generale o parziale.
Il socio ha diritto alla quota di liquidazione per il caso di scioglimento parziale del vincolo sociale solo nel
caso in cui sia avvenuto il pagamento dei creditori sociali, poiché gli azionisti, in quanto soci, sono titolari di
una pretesa residuale, vale a dire che possono pretendere un pagamento dalla società, che corrisponda al
finanziamento effettuato, solo dopo che siano stati soddisfatti tutti coloro che vantano verso la società un
diritto.
Per quanto riguarda invece la riscossione agli utili prodotti dalla società, non occorre attendere il momento
della conclusione dell’affare sociale o la fine dell’attività. Infatti al socio spetta il diritto al dividendo, il quale
matura di anno in anno nella misura in cui la società produca un utile di esercizio distribuibile. Tuttavia,
purché tale diritto sorga, l’art. 2433, co.2, stabilisce che la società non può pagare dividendi sulle azioni se
non per utili realmente conseguiti e che risultano da un bilancio regolarmente approvato. Pertanto occorre:

a) che risultino effettivamente utili d’esercizio dal conto economico relativo all’anno considerato;
b) che gli utili da distribuire trovino capienza nello stato patrimoniale della società, al netto delle
perdite eventualmente prodottesi negli anni precedenti, in quanto viene salvaguardato il principio
della postergazione dei diritti degli azionisti al soddisfacimento degli altri creditori. Inoltre va
sottolineato che non basta che nella società residui un patrimonio sufficiente al soddisfacimento dei
creditori, ma occorre anche che residui un patrimonio netto di valore almeno pari al capitale
sociale. Perciò la distribuzione è impedita dove le perdite pregresse intaccano il capitale, questo
perché altrimenti la distribuzione dell’utile si tradurrebbe in un rimborso di capitale ai soci, contro il
principio dell’irreversibilità della sua destinazione all’attività sociale.

Inoltre, tale diritto per sorgere, non basta neanche che un utile distribuibile risulti dal bilancio approvato di
anno in anno, ma è necessario che l’assemblea dei soci deliberi espressamente con riferimento alla
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distribuzione dei dividendi, dedotti gli accantonamenti previsti ex lege o per statuto. Infine va notato che la
maggioranza dei soci detiene un potere ampiamente discrezionale, poiché davanti ad un bilancio che
registra utili, può anche decidere di trattenere le relative somme, istituendo un’apposita riserva o rinviare
ad esercizi successivi ogni decisione circa la loro distribuzione, salvo eventuali previsioni statutarie.

Il successo della s.p.a. è legato alla circostanza che la sua disciplina accorda l’esigenza che all’organizzazione
di attività commerciali sono destinati stabilmente capitali di rischio, e l’interesse di chi li ha apportati a poter
operare il disinvestimento anche prima della fine di tali attività. Questo accordo si realizza soprattutto grazie
alla possibilità che ha il socio di trasferire la propria partecipazione in un mercato adeguato agli interessi
degli azionisti, cioè che i titoli possono essere scambiati a un prezzo che riflette il valore effettivo della
partecipazione all’attività, il quale dipende da una percezione esterna delle potenzialità della s.p.a. di
produrre e distribuire utili.
La legge si preoccupa proprio di tutelare tali interessi dei soci che possono essere pregiudicati da modifiche
dell’organizzazione decise dalla maggioranza degli azionisti, là dove egli non vi abbia acconsentito. Per
evitare il rischio che egli subisca un abbassamento del valore di mercato delle azioni, al socio è attribuito il
diritto di recesso: cioè il potere di sciogliersi dalla società, per mezzo di una propria, volontaria e
unilaterale manifestazione di volontà, e di ottenere anticipatamente la quota di liquidazione, da calcolare
sulla base di criteri che tengono conto dei valori che potevano essere attribuiti alla partecipazione prima
delle modifiche.
Ai sensi dell’art. 2437, tale diritto è concesso al verificarsi di particolari ipotesi che incidono sul programma
produttivo originario.

I. L’articolo prevede, come cause inderogabili di recesso, le deliberazioni di: a) modifica dell’oggetto
sociale; b) trasformazione della società; c) trasferimento della sede sociale all’estero; d) revoca dello
stato di liquidazione; e) eliminazione di una o più cause di recesso previste dallo statuto; f) modifica
dei criteri di determinazione del valore delle azioni in caso di recesso; g) modificazioni dello stato
riguardanti i diritti di voto o di partecipazione.
La tutela della posizione del socio in relazione a queste ipotesi è garantita in modo assoluto, infatti
“è nullo ogni patto volto a escludere o rendere più gravoso l’esercizio del diritto di recesso” in
relazione a tali cause.
II. A queste fattispecie si affiancano poi quelle derogabili, cioè quelle in cui il recesso opera solo dove
lo statuto non disponga diversamente. Tali ipotesi sono: a) la proroga del termine della società; b)
l’introduzione o la rimozione di vincoli alla circolazione dei titoli azionari.
III. E’ anche consentito che la tutela del socio venga rafforzata con l’inserimento nello statuto di
ulteriori cause di recesso. Tuttavia tali ipotesi atipiche di recesso devono comunque essere
collegate a importanti mutamenti del programma organizzativo e non a vicende economiche della
società.
IV. Tuttavia, è riconosciuto al socio anche un diritto di recesso ad nutum, cioè non collegato al
verificarsi di particolari ragioni, nel caso in cui la società sia costituita a tempo indeterminato e
questo per evitare che il socio rimanga per sempre “prigioniero” dell’affare intrapreso. Per questa
ipotesi è previsto però un preavviso di 180 giorni che può essere modificato in aumento dallo
statuto, fino a un anno. La stessa possibilità di recesso non è offerta in caso di società quotata nei
mercati regolamentati essendo escluso per definizione il rischio che il socio rimanga “imprigionato”
nel suo investimento.

Le modalità di esercizio del diritto sono previste dall’art. 2437-bis, che stabilisce che il recesso viene
esercitato, per tutte o alcune azioni, con lettera raccomandata, da spedire entro 15 giorni dall’iscrizione nel
registro delle imprese della delibera che lo legittima. Tuttavia il recesso può derivare anche da un fatto
diverso dalla delibera e in questo caso il termine di legge è di 30 giorni dalla conoscenza del fatto da parte
del socio.
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Dal momento dell’esercizio del recesso le azioni del socio recedente devono rimanere depositate presso la
sede sociale, per evitare la circolazione che sarebbe incompatibile con la procedura di liquidazione. Tuttavia
la comunicazione della dichiarazione di recesso e il deposito delle relative azioni non bastano affinché la
partecipazione del socio cessi, ma occorre aspettare il completamento del rimborso della quota di
liquidazione.
Per il calcolo della quota di liquidazione, invece, la legge fissa dei criteri precisi volti a proteggere il valore
dell’investimento azionario e l’interesse del socio alla sua monetizzazione al momento dell’uscita dalla s.p.a.
In particolare è disposto che il valore di liquidazione venga stabilito dagli amministratori “tenuto conto della
consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive reddituali, oltre che dell’eventuale valore di
mercato delle azioni”. Dunque si procede ad una valutazione del patrimonio sociale in base ai suoi valori
reali attuali.
L’art. 2437-ter detta una procedura volta alla tutela del socio in vista di una corretta determinazione della
quota di liquidazione da parte degli organi sociali. Si stabilisce che coloro che sono interessati a recedere
possono visionare anticipatamente la determinazione del valore delle azioni ai fini del recesso. Dove i soci
intendono contestare tale determinazione, possono farlo con la stessa dichiarazione di recesso e sollecitare
così la stima da parte di un esperto nominato dal tribunale, il quale è chiamato a effettuarla tramite
relazione giurata.
Infine, con apposite norme viene definita la procedura di liquidazione al socio della quota. E’ stabilito in
particolare che le azioni del socio receduto vengano offerte in opzione agli altri soci proporzionalmente, e
che ai soci che esercitano il diritto di opzione, spetta anche un diritto di prelazione per le eventuali azioni
non optate dagli altri azionisti. Le azioni residue, se non vengono collocate nel mercato, devono essere
rimborsate direttamente dalla società, attingendo alle riserve disponibili o agli utili. Se questi fondi non
sussistono, occorrerà che si deliberi una riduzione del capitale sociale. Qualora venga presentata
opposizione da parte dei creditori, la delibera di scioglimento diverrà inevitabile a meno che non si privi di
efficacia il recesso del socio revocando “a monte” la delibera: tale revoca dovrà avvenire entro 90 giorni da
questa deliberazione.

Per diritti di tipo “amministrativo” si intendono le prerogative che esprimono modi e termini di
partecipazione del socio alla realizzazione dell’attività sociale. Tra questi vanno ricordati i diritti che
rispondono ad un interesse riferibile alla generalità dei soci, strumentali alla formazione delle delibere
assembleari, dunque i diritti di interventi e di voto.
Attraverso il diritto di voto gli azionisti hanno la possibilità di incidere sulla vita della società, sia
direttamente, concorrendo alle scelte in materia di organizzazione dell’attività sociale; sia indirettamente
influendo nei confronti della gestione, specie con la nomina e la revoca degli amministratori. Quindi tale
interesse al “controllo” dell’impresa comune rappresenta l’altro fondamentale profilo che giustifica
l’investimento azionario individuale.
In relazione alle regole riguardanti la spettanza del voto, il codice civile prevede il c.d. sistema “un’azione-
un voto” disciplinato dall’art. 2351, co.1, che stabilisce che “ogni azione attribuisce il diritto di voto”. L’unità
di investimento rappresentata dall’azione, quindi, va considerata anche come unità di potere azionario
cosicché, per aumentare la propria capacità di incidere sulle sorti della società, il socio deve incrementare
proporzionalmente la propria quota di investimento nel capitale sociale. Viene in questo modo favorita la
c.d. democrazia azionaria e quindi la possibilità di frammentare il potere in misura del possesso delle
azioni.
Un’importante deviazione a questa regola è oggi rappresentata dalla previsione di cui al d.l. 91/2014 e
contenuta nell’art. 2351, co.3, ai sensi del quale “salvo quanto previsto dalle leggi speciali, lo statuto può
prevedere la creazione di azioni con diritto di voto plurimo per particolari argomenti o subordinato al
verificarsi di particolari condizioni”. Si precisa, inoltre, che “ciascuna azione a voto plurimo può avere un
effetto di massimo tre voti”. In tal modo è stato cancellato il divieto di emissione di azioni a voto plurimo, in
precedenza previsto dallo stesso articolo al comma 4, ispirato all’esigenza di evitare concentrazioni di
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potere. Tale divieto è però ancora in vigore per le società quotate che mantengono le azioni a voto plurimo
solo se emesse anteriormente alla quotazione.

La s.p.a. può però essere sede di tensioni tra soggetti portatori di interessi diversi. Così, all’interesse degli
amministratori alla gestione dell’impresa si contrappone quella dei soci al controllo della stessa, per evitare
o ridurre il rischio che gli amministratori approfittino della propria posizione di detentori esclusivi della
gestione e la indirizzino verso scopi contrari a quelli per la quale è stata loro conferita. In vista di proteggere
tale esigenza, sono previste le competenze dell’assemblea dei soci e le loro prerogative.
La s.p.a. è anche sede di un ulteriore contrapposizione di interessi, cioè quella tra maggioranza e
minoranza dei soci, in vista dell’esistenza, in capo ai primi, del potere di determinare o indirizzare le scelte
sociali, e l’aspettativa dei secondi di evitare che l’esercizio di tale potere comporti una prevaricazione del
perseguimento di interessi personali che non riguardano la realizzazione della causa lucrativa comune.
Al fine di tutelare tale aspettativa vengono riconosciuti agli azionisti detentori di quote minori del capitale
sociale i c.d. diritti della minoranza. Tra tali situazioni si possono distinguere, in primo luogo, le prerogative
funzionali alla promozione della regolare attività dell’assemblea, attraverso la possibilità di sollecitare o
rinviare la convocazione della riunione per una migliore preparazione della discussione; in secondo luogo, vi
sono quelle ipotesi in cui la tutela accordata è occasionata da comportamenti degli amministratori e
comporta la possibilità di sollecitare l’intervento, nei loro confronti, da parte degli organi di vigilanza e
controllo. Si rilevano in particolare i casi di potere di denunzia spettante ai soci: o nei confronti del collegio
sindacale, per l’ipotesi di compimento di fatti censurabili da parte degli amministratori; o al tribunale, nel
caso in cui vi sia un sospetto fondato di gravi irregolarità nella gestione.
Le prerogative attribuite dalla legge sono riconosciute al socio, o a gruppi di soci, solo al possesso di
particolari percentuali del capitale sociale. Tale delimitazione consente di attenuare il rischio di
comportamenti ricattatori da parte di chi possiede una sola azione o di quote di investimento marginali
rispetto al capitale complessivo.

Tali diritti spettano al socio in quanto titolare delle azioni e con esse acquista la possibilità di esercitare tutte
le prerogative collegate. Tale possibilità subisce, tuttavia, una limitazione là dove le azioni siano sottoposte a
vincoli di tipo reale o giudiziale, dovendosi in questo caso conciliare l’interesse del socio con quello di altri
soggetti in capo ai quali sono sorti tali vincoli.
Al riguardo, il legislatore si occupa dell’eventualità che le azioni siano oggetto di pegno o usufrutto o che
siano soggette a sequestro e ciò al fine di determinare a chi spetta l’esercizio dei diritti azionari, se al socio o
agli altri soggetti coinvolti.
L’art. 2352 si occupa innanzitutto della disciplina del diritto di voto stabilendo che: in caso di pegno o
usufrutto, esso spetta, salvo che non sia disposto diversamente, al creditore pignoratizio o all’usufruttuario;
in caso di sequestro, esso spetta al custode. Il creditore pignoratizio e l’usufruttuario, però, rivestono una
posizione rilevante nell’organizzazione sociale in quanto nell’esercizio del voto essi possono far prevalere il
proprio interesse protetto dalla situazione soggettiva posseduta e non rappresentare gli interessi del titolare;
invece diversa è la posizione del custode, il quale è chiamato ad esercitare i diritti per conto altrui.
Al socio invece compete, secondo l’art. 2352, co.2, il diritto di opzione in caso di aumento di capitale a
pagamento. Le azioni che derivano da questo tipo di aumento tramite nuovi conferimenti non vanno ad
accrescere il contenuto dei diritti reali esistenti, né si estende su di essi l’ipotetico sequestro. Però è stabilito
che, là dove il socio non provveda a versare le somme necessarie all’esercizio dell’opzione almeno tre giorni
prima della scadenza del diritto, e non vi siano altri soci che si offrano di acquistarlo, “questo deve essere
alienato per suo conto a mezzo banca o intermediario autorizzato alla negoziazione nei mercati
regolamentati”: anche in caso di inerzia l’azionista è tutelato per far sì che non perda le chanches di
guadagno che possono eventualmente derivare dalle vicende dell’attività.
Per tutti gli altri diritti, in caso di sequestro sarà sempre disposto l’esercizio a opera del custode, mentre

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nell’ipotesi di pegno o usufrutto, è previsto che l’esercizio spetti sia al creditore pignoratizio o
all’usufruttuario, sia al socio.

L’art. 2348, oltre a sancire il principio di uguaglianza di valore delle azioni e della pari dignità giuridica dei
loro possessori, al co. 2 precisa che “si possono creare, con lo statuto o una successiva modifica di questo,
categorie di azioni fornite di diritti diversi”, consentendo così alla s.p.a. di emettere azioni “speciali”
caratterizzate dall’attribuzione di diritti diversi da quelli che normalmente spettano al socio in base al
possesso dell’azione. La logica alla base dell’emissione di tali azioni è quella della diversificazione dell’offerta
di tali strumenti finanziari di raccolta di capitale, per rispondere all’esigenza di una varietà di interessi che
fanno capo agli investitori presenti sul mercato. Tra essi, infatti, vi possono essere sia soggetti interessati al
controllo della società e alla partecipazione dell’impresa, sia individui che mirano unicamente al profitto e al
risultato dell’attività; tra questi ultimi si distinguono poi coloro che adottano un’ottica industriale di lungo
periodo, e gli “speculatori puri” che sono interessati ad essere lucrati in un breve arco di tempo; infine alcuni
possono avere maggiore propensione al rischio, mentre altri potrebbero volerlo ridurre al massimo.
La logica della spersonalizzazione dell’azione si mantiene anche per e azioni “speciali”. Infatti non è possibile
creare una singola azione attributiva di particolari diritti ad hoc per rispondere alle esigenze di un unico
socio; ciò che è possibile è creare una categoria di azioni, uguali tra loro, che risponda alle esigenze di una
particolare classe di investitori.
Per assecondare l’eventualità di una domanda di investimento diversificata, si concede all’autonomia
statutaria un’ampia libertà di creazione di categorie speciali. Dal punto di vista dei contenuti di tali azioni,
possono riguardare sia la posizione patrimoniale del socio, sia quella amministrativa.

a) Sotto il primo profilo, ossia ai diritti di tipo patrimoniale, possono crearsi categorie di azioni che
attribuiscono ai relativi possessori un “privilegio patrimoniale” che consiste nel diritto a un utile
maggiorato o maggiormente garantito rispetto agli altri azionisti; o una priorità nella riscossione
del diritto al dividendo entro certe percentuali (ad es. gli azionisti ordinari possono concorrere al
dividendo solo dopo che gli azionisti speciali abbiano ricevuto una remunerazione pari al 2% del
capitale investito).
b) L’art. 2348, co. 2, precisa inoltre che la “diversità” della posizione patrimoniale dell’azionista può
riguardare anche “l’incidenza delle perdite”, cioè è ammissibile la creazione di una categoria
azionaria che attribuisce all’azionista speciale il diritto di subire l’imputazione delle perdite della
società solo dopo che esse abbiano colpito la partecipazione degli altri soci.
c) Azioni rappresentative di una partecipazione particolare sono le c.d. azioni correlate che si
caratterizzano in quanto “fornite di diritti patrimoniali correlati ai risultati dell’attività sociale in un
determinato settore” e cioè da una particolare porzione dell’attività o dalla realizzazione di uno
specifico affare. Tale correlazione dei diritti ai risultati di un determinato settore implica tuttavia un
onere contabile più gravoso in capo agli organi sociali, vista la necessità di accertare tali risultati in
documenti che estraggono, dal conto economico, i costi e i ricavi del settore: si prevede quindi che
sia lo statuto a indicare, oltre quali siano tali costi e ricavi, anche “le modalità di rendicontazione”
degli stessi.
d) Da punto di vista dei diritti amministrativi, invece, l’art. 2351 consente sia il potenziamento che la
compressione dell’“ordinaria” posizione del socio, fino ad ammettere che si possano creare sia
azioni a voto plurimo, sia che si possa del tutto escludere il diritto di voto dell’azionista (si parla di
azioni a voto escluso o azioni a voto limitato ad una particolare materia). Si potrà anche
subordinare il diritto di voto delle azioni speciali al verificarsi di particolari condizioni (azioni a voto
condizionato) stabilendo, ad es. che il diritto di voto spetti solo se, nell’esercizio precedente, non
siano stati distribuiti utili.

Unici limiti inderogabili alla creazione di tali categorie sono rappresentati dal divieto del patto leonino e dal
rispetto di un equilibrio tra rischio e potere, nell’allocare il diritto di voto tra le varie categorie.
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La ricorrenza di una pluralità di emissioni diversificate, determina un sistema di governo societario più
diversificato. Dunque, da un lato vi è la necessità di proteggere la posizione dei portatori degli interessi della
categoria in minoranza, contro l’eventualità di decisioni della maggioranza; dall’altro è fondamentale che la
maggioranza possa assumere decisioni opportune nell’interesse sociale.
Per rispondere a tali esigenze, il legislatore prevede l’istituzione di un organo particolare, ossia l’assemblea
speciale degli azionisti di categoria.
Al fine della tutela degli interessi di categoria, l’art. 2376, co.1, dispone che, quando le deliberazioni
dell’assemblea pregiudicano i diritti di una categoria di azioni, esse devono essere approvate anche
dall’assemblea speciale degli appartenenti alla categoria interessata e ciò a pena di inefficacia di tali
deliberazioni.
In altre parole, l’assemblea generale degli azionisti può, con le consuete maggioranze, anche modificare i
diritti delle azioni speciali e non occorre che ricerchi il consenso individuali dei loro titolari, ma non può
neppure farlo in modo autonomo imponendo la propria decisione su quella dei soci di categoria: dovrà
invece ottenere il consenso della maggioranza di questi espressa in forma di delibera dell’assemblea
speciale.

§50. I titoli azionari. Legittimazione del socio e circolazione delle azioni

Uno degli elementi fondamentali che spiega l’ampia diffusione delle s.p.a. è la possibilità offerta agli
azionisti di poter disinvestire prima della conclusione dell’affare utilizzando la via del “mercato secondario”,
cioè tramite il trasferimento delle azioni a terzi. Per garantire la circolazione delle azioni, il legislatore ha
approntato un sistema di regole rivolto a rendere possibile la creazione di un efficiente mercato secondario
delle azioni.

a) A questo scopo è previsto che la s.p.a. si possa avvalere dello strumento di emissione dei titoli
azionari, la cui trasmissione è governata dalla regole sui titoli di credito. Questa operazione di
emissione è accompagnata dalla consegna al socio di documenti che rappresentano tali azioni: essi
diventeranno un mezzo necessario per permettere la cessione della partecipazione e l’esercizio dei
relativi diritti.
Tali documenti hanno un contenuto tipico, previsto dall’art. 2354, co. 3, ai sensi del quale le azioni
devono indicare: 1) la denominazione e la sede della società; 2) la data dell’atto costitutivo e della
sua iscrizione e l’ufficio del registro delle imprese dove la società è iscritta; 3) il loro valore nominale
o, se si tratta di azioni senza valore nominale, del loro numero complessivo e l’ammontare del
capitale sociale; 4) l’ammontare dei versamenti parziali sulle azioni non interamente liberate; 5) i
diritti e gli obblighi ad esse inerenti. Si tratta di indicazioni che permettono la conoscenza, da parte
dell’acquirente, delle caratteristiche essenziali dell’affare in cui investe.
b) L’art. 2354, co. 6, fa salve le “disposizioni delle leggi speciali in tema di strumenti finanziari negoziati
o destinati alla negoziazione nei mercati regolamentati”. Tali strumenti finanziari non possono
essere rappresentati da documenti, quindi ne consegue che per le azioni negoziate in mercati
regolamentati non può avvenire un’emissione di titoli in forma cartacea. Infatti, il trasferimento e
l’esercizio dei diritti derivanti da tali azioni, devono effettuarsi in conformità alla c.d.
dematerializzazione degli strumenti finanziari, vale a dire che le azioni saranno rappresentate da
titoli scritturali, le cui regole di circolazione sono analoghe a quelle dei titoli di credito.
Si tratta però di un sistema non esclusivo in quanto è stabilito dal TUF che “l’emittente degli
strumenti finanziari può assoggettarli a tale disciplina” ma deve essere contemplata nello statuto.
c) Lo statuto può anche stabilire l’adozione di un sistema “intermedio” tra quelli di emissione
cartolare e di dematerializzazione, potendosi prevedere che i titoli azionari, dopo essere stati
emessi nella forma cartacea, possono essere affidati in deposito a una società di gestione

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accentrata e così assoggettati allo stesso regime di circolazione previsto in caso di


dematerializzazione: si parla di “dematerializzazione parziale”.
d) Infine, la documentazione dell’azione in forma cartacea o scritturale non è obbligatoria (tranne che
per le azioni quotate). L’art. 2346, co.1, precisa infatti che “lo statuto può escludere l’emissione di
tali titoli” e in questa eventualità accade che all’atto della creazione seguirà solo l’iscrizione
dell’azionista nel libro dei soci e all’atto del trasferimento seguirà l’iscrizione dell’acquirente in tale
libro.

L’emissione dei titoli azionari consente l’applicazione di una disciplina volta a permettere a dare velocità e
certezza a due momenti fondamentali nella vita dell’organizzazione societaria: l’esercizio dei diritti sociali e
la circolazione delle azioni.
Il possesso dei titoli azionari da parte dell’azionista consente, anzitutto, di riconoscergli la c.d. legittimazione
all’esercizio dei diritti attribuitagli dalle azioni possedute.
Il concetto di legittimazione va distinto da quello di titolarità in quanto, quest’ultima, riguarda solo la
spettanza del diritto, mentre la prima riguarda l’individuazione del soggetto a cui compete di fatto il potere
di esercitarlo nei rapporti con i terzi.
Nell’ipotesi dei titoli di credito, legittimato all’esercizio del diritto è il possessore del titolo. Il possesso però
non attribuisce di per sé la titolarità del diritto ma a farlo è la legittimazione, che consiste nel potere di
pretendere la prestazione dal debitore senza dover provare la titolarità del diritto stesso, e il debitore, a sua
volta, sarà liberato dal suo obbligo se pagherà al legittimato senza dolo o colpa grave.
La separazione tra legittimazione e titolarità realizza efficienza: in quanto consente il velocizzarsi dell’azione
connessa all’esercizio di un diritto, specie dove questo è sottoposto ad una serie di trasferimenti. Infatti da
una parte l’acquirente potrà esercitare le proprie pretese senza essere soggetto a contestazioni circa
l’effettività del proprio acquisto; dall’altra parte, la persona soggetta alla pretesa altrui, potrà a sua volta
effettuare la prestazione richiestagli dal legittimato, senza dover operare verifiche sull’esistenza e validità del
rapporto sottostante.
E’ per questo che l’emissione di un titolo azionario, nella misura in cui attribuisce la legittimazione
all’esercizio dei diritti sociali a chi assuma il possesso legittimo del titolo, conferisce allo stesso modo i
caratteri di certezza e rapidità all’attività sociale.
Certezza e rapidità caratterizzano anche la circolazione delle azioni rappresentate da titoli. Infatti, chi
acquista un titolo azionario ne può prontamente assumere la legittimazione e quindi con essa la possibilità
di un efficiente esercizio delle proprie prerogative. In secondo luogo, il possesso legittimo del documento
conferisce pure la titolarità dell’azione nel senso di non poter essere contestato un suo eventuale acquisto a
non dominio.
Pertanto, l’investitore che decida di acquistare azioni, non dovrà investigare circa la reale titolarità
dell’ipotetico veditore, essendo sufficiente, ai fini dell’acquisto della titolarità, che gli sia garantita
l’assunzione del possesso legittimo dei titoli stessi.

Ai sensi dell’art. 2354, co.1, “i titoli possono essere nominativi o al portatore a scelta del socio, se lo statuto
o le leggi speciali non dispongono diversamente”. Tale previsione risale all’emanazione del codice civile;
tuttavia vi è un altro provvedimento che smentisce l’originaria scelta del codice e che è ancora vigente, che
stabilisce che “le azioni delle società aventi sede nello Stato devono essere nominative”.
Vi è quindi l’obbligatorietà delle azioni nominative; fanno eccezione solo i rari casi in cui la legge ha
espressamente autorizzato l’emissione di azioni al portatore che oggi è prevista solo per le azioni di
risparmio e per le azioni delle Sicav (società destinate allo svolgimento di attività di gestione del risparmio).
La nominatività azionaria comporta anzitutto l’applicazione di un particolare regime in tema di circolazione
che si articola in due diverse modalità di trasferimento. L’art. 2355, co.4, rinvia al sistema del c.d. transfert.
Ai sensi di questa disposizione, il trasferimento azionario si opera con la c.d. doppia annotazione del nome
dell’acquirente sul titolo e sul registro dell’emittente, o con rilascio in un nuovo titolo intestato al nuovo

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socio. Queste formalità sono a cura dell’amministratore e possono avvenire su richiesta: a) dell’alienante,
che deve provare la propria identità e capacità di disporre mediante un’apposita certificazione; b)
dell’acquirente, il quale deve esibire il titolo e dimostrare il suo diritto mediante atto autentico.
Alternativamente al transfert, l’art. 2355, co.3, stabilisce che il trasferimento delle azioni nominative può
avvenire anche “mediante girata autenticata dal notaio o da altro soggetto secondo quanto previsto dalle
leggi speciali”. La girata deve essere piena e, dove le azioni non siano interamente liberate, deve essere
sottoscritta anche dal giratario. La circolazione mediante girata non elimina però la rilevanza del libro dei
soci; infatti il giratario ha il diritto di ottenere l’annotazione del trasferimento nel libro dei soci.
In relazione poi alla disciplina della legittimazione all’esercizio dei diritti incorporati nel titolo azionario, la
speciale disciplina dettata per le s.p.a. contiene una deroga a quanto previsto per i titoli nominativi nell’art.
2021. Infatti la regola contenuta in questa disposizione, secondo cui il possessore consegue la legittimazione
“per effetto dell’intestazione a suo favore contenuta nel titolo e nel registro dell’emittente”, per le azioni
vale solo per il caso di circolazione tramite transfert. Nel trasferimento mediante girata, infatti, l’art. 2355
prevede che il giratario che si dimostri possessore in base ad una serie continua di girate “è comunque
legittimato ad esercitare i diritti sociali” ma non occorre che il possessore del titoli chieda e ottenga
l’iscrizione nel libro dei soci. Solo in seguito all’esercizio dei diritti da parte dell’azionista, la società dovrà
iscrivere il nome del giratario nel libro dei soci.
Con riferimento, invece, alla trasparenza della titolarità di azioni, essa è disposta solo per il caso in cui il
socio non rimanga un investitore inerte ma si attivi esercitando i diritti sociali.
Per le azioni al portatore, invece, si applica un regime più snello e, premesso che la loro emissione può
avvenire solo nel momento in cui le azioni sono interamente liberate, esse si trasferiscono con la consegna
del titolo. L’esercizio dei diritti sociali, pertanto, avverrà con la sola dimostrazione del possesso del
documento.

Nel tempo, di fronte all’evoluzione del contesto economico, la forma cartolare si è rivelata non più adeguata
ai suoi scopi. In primo luogo, soprattutto con l’avvento della tecnologia, il ricorso alla chartula si è rivelato
un fattore di rallentamento della circolazione; in secondo luogo, l’affermarsi dell’intermediazione finanziaria
ha favorito il fenomeno dell’integrale affidamento fiduciario delle negoziazioni a persone ed entri
professionalmente dedicati a tale attività, soggetti a vigilare e a garantire l’autenticità degli scambi
riuscendoci in misura maggiore rispetto al vecchio sistema della c.d. incorporazione del diritto nel titolo.
Per queste ragioni sono state elaborate tecniche più efficienti per realizzare gli scopi di circolazione e
legittimazione che evitano o riducono la necessità del ricorso allo scambio fisico del documento, grazie al
coinvolgimento di intermediari professionali, chiamati a raggiungere tali obiettivi attraverso una serie di
contabilizzazione delle emissioni e degli scambi.
Il legislatore ha riservato la possibilità di emettere titoli azionari cartacei solo dove si tratta della circolazione
di azioni non quotate in mercati regolamentati. Invece, gli strumenti negoziati o negoziabili in tali mercati,
non possono essere rappresentati da documenti: dunque per le azioni che rientrano in questa categoria è
stabilito un regime caratterizzato dalla c.d. dematerializzazione dell’emissione (dematerializzazione totale),
dove la creazione e circolazione dei documenti azionari è stata sostituita integralmente da un sistema di
iscrizioni e annotazioni dei nomi degli azionisti su registri tenuti da appositi intermediari.
Pure le azioni non quotate però, dove previsto dallo statuto, possono essere assoggettate a tale sistema o a
quello della c.d. dematerializzazione della circolazione (dematerializzazione parziale) in cui l’affidamento
della circolazione delle azioni agli intermediari è soggetto al deposito dei titoli presso un “gestore”.

Il sistema di dematerializzazione totale degli strumenti finanziari prevede la necessaria scelta da parte
dell’emittente di una società di gestione accentrata, a cui affidare il ruolo di contabilizzare l’emissione e
sovraintendere alle operazioni di trasferimento. Questa società deve essere unica “per ciascuna emissione
di strumenti finanziari” (in Italia la sola società che svolge tale attività è la Monte Titoli s.p.a.).
Una volta scelta la società di gestione accentrata, ad essa l’emittente comunica “l’ammontare globale

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dell’emissione di strumenti finanziari, il suo frazionamento e gli intermediari a cui accreditare i titoli
emessi”, i quali saranno banche, sim, agenti di cambio che per conto dei singoli clienti comunicheranno alla
s.p.a. le dichiarazioni di sottoscrizione. La società di gestione accentrata: a) apre per ogni emissione un
conto a nome dell’emittente; b) accende, per ogni intermediario che gliene faccia richiesta, un conto
destinato a registrare tutte le disposizioni azionarie operate.
Quindi le operazioni originarie sono state sostituite, nel sistema della dematerializzazione, da una serie di
scritturazioni contabili. In particolare, la prima consegna dei titoli ai sottoscrittori è sostituita dall’iscrizione
sia presso la società di gestione accentrata, in un “conto titoli” a nome della s.p.a. emittente e in più conti a
nome dei vari intermediari incaricati alla trasmissione degli ordini di sottoscrizione, sia presso gli stessi
intermediari presso i vari conti intestati ai sottoscrittori. Il successivo trasferimento delle azioni, invece,
avverrà tramite l’addebito e l’accredito dei conti tenuti dai titolari delle azioni presso gli intermediari e il
corrispondente addebito e accredito dei conti che gli intermediari stessi hanno aperto presso la società di
gestione accentrata (operazione di giro).
Si è detto che il titolare dei conti, ossia colui il quale ha ottenuto la registrazione in suo favore, in base a
titolo idoneo e in buona fede, non è soggetto a pretese o azioni da parte dei precedenti titolari. Lo stesso
vale anche in caso di dematerializzazione in quanto è protetto anche l’acquisto azionario a non dominio,
purché sia avvenuto in buona fede e con l’osservanza delle formalità di legge. Il titolare di azioni
dematerializzate, inoltre, gode di una posizione equivalente a quella del possessore di un titolo cartaceo,
ossia quella della c.d. autonomia obbligatoria: infatti, a chi risulta titolare del conto presso l’intermediario,
l’emittente può opporre solo le eccezioni personali al soggetto stesso e quelle comuni a tutti gli altri titolari
degli stessi diritti.
Quanto infine alla legittimazione dell’azionista, il titolare del conto presso l’intermediario ha la
legittimazione piena ed esclusiva all’esercizio dei diritti relativi agli strumenti finanziari in esso registrati. Per
l’esercizio di tali diritti, tale legittimazione è attestata da apposite certificazioni rilasciate dall’intermediario
o da una comunicazione trasmessa da questo direttamente all’emittente. Inoltre, l’esercizio dei diritti sociali
può avvenire sia personalmente, sia tramite lo stesso intermediario, con apposito mandato. Per i diritti
patrimoniali, il mandato all’intermediario opera ex lege ed è inderogabile, in quanto è stabilito che tali diritti
possono esercitarsi solo tramite gli intermediari.

La s.p.a. può anche statutariamente decidere di non adottare affatto strumenti rivolti ad agevolare la rapida
e sicura circolazione delle azioni, escludendo l’emissione dei titoli (sia in forma cartacea che scritturale).
Con riferimento alla disciplina della circolazione delle azioni, in caso di non emissione dei titoli, la legge
stabilisce che il trasferimento delle azioni ha effetto nei confronti della società dal momento dell’iscrizione
nel libro dei soci.

E’ principio generale dell’ordinamento delle s.p.a. la libera circolazione della zioni.


Nelle società quotate nei mercati regolamentati, la libera circolazione delle azioni è fondamentale per
consentire il buon funzionamento della gestione. Tuttavia ciò non significa che non sia ammesso e
giustificato che in una s.p.a. si adottino regole di limitazione della circolazione delle azioni. Infatti, là dove si
tratti di una società che non fa ricorso al mercato del capitale di rischio, gli azionisti possono avere interesse
a controllare e condizionare il ricambio nelle quote di titolarità dell’impresa, per evitare che esso conduca a
un’alterazione degli assetti precedenti della governance.
Il legislatore prevede espressamente la possibilità che, nei casi di emissione di azioni nominative o di
mancata emissione dei relativi titoli, il principio di libera circolazione delle azioni possa subire vincoli o
condizionamenti ad opera dell’autonomia statutaria.
Per consentire, inoltre, l’opponibilità delle limitazione statutaria ai terzi acquirenti, è stabilito che le
limitazioni al trasferimento delle azioni devono risultare dal titolo.

i. Con riferimento ai contenuti di tali vincoli, è prevista la possibilità che si vieti del tutto, via
statuto, il trasferimento delle azioni (divieto di trasferimento). Esso è tuttavia temporalmente
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contenuto ex lege, ed ha una durata massima di cinque anni dalla costituzione della società o dal
momento in cui il divieto viene introdotto.
ii. La prassi prevede ulteriori clausole che implicano deroghe meno radicali. Ampia diffusione
ritrovano le clausole statutarie “di prelazione”, con le quali viene stabilito che il socio che
intenda trasferire le azioni è vincolato a offrirle prima agli altri soci, i quali avranno diritto ad
essere preferiti nell’acquisto rispetto al terzo interessato. La clausola prevede che l’alienante
debba comunicare la propria intenzione di vendere alla società e che gli altri soci abbiano un
certo periodo di tempo entro il quale far valere le loro eventuali dichiarazioni di esercizio della
prelazione. Se questa non è esercitata o se è esercitata solo parzialmente, l’alienante è libero di
cedere le proprie azioni al terzo.
iii. Vera e propria clausola di chiusura della compagine sociale è quella c.d. di gradimento che si ha
quando il trasferimento delle azioni viene subordinato al consenso degli organi sociali. In questa
ipotesi gli azionisti hanno l’intento di selezionare le persone che possono entrare a far parte della
compagine sociale, da ammettere sulla base di criteri predeterminati.
Si tratta di una clausola lecita che deve essere però compatibile con la regola secondo la quale
l’azionista può vedersi concessa la possibilità di disinvestire. Per questa ragione è valida la
clausola che puntualizza ex ante i criteri in base ai quali deve essere concesso il consenso
societario all’aspirante acquirente (clausola di gradimento non mero: ad es. il gradimento può
essere negato all’acquirente che abbia rivestito cariche politiche rilevanti e quindi possa
pregiudicare l’immagine di assoluta neutralità politica che la società vuole dare di sé).
L’art. 2355, co.2, stabilisce invece che le clausole che subordinano il trasferimento delle azioni al
“mero gradimento” degli organi sociali (cioè che non indicano i criteri sui quali dovrà basarsi la
loro decisione) sono inefficaci se non prevedono, a carico della società o degli altri soci, un
obbligo di acquisto oppure il diritto di recesso dell’alienante. Stesa inefficacia colpisce la clausola
che sottopone a particolari condizioni il trasferimento delle azioni mortis causa, salvo che sia
previsto il gradimento e questo sia concesso.

§52. Le obbligazioni

Il reperimento delle risorse finanziarie nel mercato può avvenire anche con strumenti diversi dalle azioni. E’
prevista in particolare la possibilità di emettere obbligazioni con la cui emissione la s.p.a. riceve risorse
finanziarie “a debito” col conseguente impegno a restituire a una data scadenza la somma originariamente
ricevuta e a effettuare pagamenti aggiuntivi nei confronti dei finanziatori, a titolo di interessi.
La previsione di un rimborso delle somme versate rappresenta proprio l’elemento che le contraddistingue
dalle azioni. Mentre l’emissione di queste ultime presuppone l’adesione del titolare al contratto di società, il
rapporto sottostante all’emissione delle obbligazioni è identificato in un mutuo o un'altra operazione di tipo
creditizio.
Come le azioni, anche le obbligazioni sono titoli di massa. Esse presuppongono, infatti, la creazione da parte
della s.p.a. di una pluralità di strumenti, aventi uguale valore, nell’ambito di un’unica operazione finanziaria.
Al contrario di quanto avviene per le azioni non è prevista la mancata emissione delle obbligazioni, in
quanto caratterizzate come titoli: si tratta infatti di titoli di credito (appartenenti al genere dei titoli di
debito, distinto da quello dei titoli partecipativi a cui appartengono le azioni).
La prassi prevede una varia tipologia di obbligazioni, in dipendenza a termini e condizioni alle quali
vengono sottoposti.
Dal punto di vista del contenuto economico, si distinguono: le obbligazioni aventi una struttura semplice
con la previsione della restituzione finale della somma prestata e del pagamento degli interessi, che può
essere corrisposto periodicamente, o inglobato nell’ammontare del capitale da restituire, con prezzo di
emissione sotto la pari (zero coupon bond); e obbligazioni complesse, come quelle indicizzate, nelle quali la
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quantificazione della somma dovuta a titolo di interessi è legata a diversi parametri (indici di borsa ecc.);
quelle a premio, le quali prevedono la corresponsione di somme aggiuntive rispetto a quelle
ordinariamente spettanti in base al rapporto di credito; l’art. 2411, co.2, ammette anche la possibilità di
emettere obbligazioni partecipative in cui i tempi e l’entità del pagamento degli interessi possono variare in
dipendenza dell’andamento economico della società.
Sul piano del contenuto giuridico, invece, meritano particolare attenzione: le obbligazioni postergate, nelle
quali il rimborso del prestito è condizionato alla soddisfazione dei diritti di altri creditori della società; e le
obbligazioni convertibili in azioni caratterizzate dal diritto dell’obbligazionista di assegnare azioni in cambio
delle obbligazioni possedute.

Data l’essenzialità della forma cartolare delle obbligazioni, la loro esistenza presuppone un procedimento
che consiste nella delibera e nella successiva materiale emissione.
La delibera di creazione delle obbligazioni è di competenza degli amministratori, ma solo se lo statuto o la
legge non dispone diversamente (attribuendo tale competenza all’assemblea). La competenza potrebbe
essere anche attribuita dal consiglio di amministrazioni ad organi delegati (comitato esecutivo o singoli
amministratori delegati).
Ai sensi dell’art. 2410, co.2, la decisione in ordine all’emissione delle obbligazioni, deve risultare da un
verbale redatto dal notaio e deve essere depositata e iscritta nel registro delle imprese. Inoltre il notaio deve
esercitare un controllo di legalità sulla delibera e se il controllo dà esito negativo, gli amministratori devono
valutare se assumere una nuova delibera o se ricorrere al tribunale per l’omologazione.
L’emissione dei titoli, invece, si ha con la sottoscrizione da parte degli investitori, a cui segue la consegna dei
titoli cartacei o la realizzazione delle formalità previste in tema di dematerializzazione.
I titoli emessi possono essere nominativi o al portatore e devono contenere le indicazioni elencate nell’art.
2414.

L’emissione di obbligazioni assume particolare rilevanza sul piano finanziario sia sul piano quantitativo che
qualitativo.
Dal primo punto di vista occorre considerare come la creazione di obbligazioni comporta un aumento
dell’esposizione finanziaria della società e quindi un incremento dell’importo complessivo delle risorse
reperite a credito, con l’accrescersi delle passività registrabili in bilancio.
Dal secondo punto di vista vanno tenuti presenti i caratteri del prestito obbligazionario, la cui restituzione è
stabilita nel medio-lungo periodo, e i cui titolari sono investitori spesso anonimi, reperiti o operanti sul
mercato dell’intermediazione finanziaria.
Sebbene per regola generale gli amministratori e le società sono liberi di definire la composizione del debito
finanziario della società, tale discrezionalità incontra un limite per quanto riguarda l’entità del prestito
obbligazionario. In particolare è stabilito che “la società può emettere obbligazioni per una somma non
eccedente il doppio del capitale sociale, della riserva legale e delle riserve disponibili che risultano
dall’ultimo bilancio approvato”.
La ratio del divieto è molto discussa. Infatti, si contrappongono l’opinione secondo cui esso sarebbe
riconducibile all’esistenza di garantire gli obbligazionisti dell’esistenza di fondi sufficienti alla restituzione del
prestito; e l’orientamento che tende a vedere la norma come regola rivolta a contenere la leva finanziaria
dell’impresa sociale, per evitare una eccessiva sproporzione tra debito e patrimonio sociale.
La prima tesi è stata smentita dalla legge che assegna all’emissione un tetto superiore rispetto a quello non
solo del capitale sociale ma dello stesso patrimonio netto complessivo. La seconda opinione è invece
incoerente con il fatto che non è imposto nessun rapporto dalla legge tra patrimonio netto e livello di
indebitamento complessivo della società.
In conformità alla sua ratio, lo stesso art. 2412 prevede una serie di ipotesi in cui il limite non si applica.

a) Nell’ipotesi in cui le obbligazioni eccedenti rispetto a tale soglia sono destinate alla sottoscrizione da
parte di investitori professionali, soggetti a vigilanza prudenziale e che quindi sono in grado di
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valutare i rischi assunti con la sottoscrizione dei titoli societari e decidere se giudicare l’investimento
prudente. Per evitare poi che il collocamento presso tali soggetti possa rappresentare solo un
escamotage per raggiungere investitori sprovveduti, tale comma stabilisce che “in caso di successiva
circolazione delle obbligazioni, chi le trasferisce risponde della solvenza della società nei confronti
degli acquirenti che non siano investitori professionali”.
b) Per l’emissione delle obbligazioni “destinate a essere quotate nei mercati regolamentati o in sistemi
multilaterali di negoziazione”.
c) Per l’emissione di obbligazioni “che danno il diritto di acquisire o sottoscrivere azioni”, cioè per le
obbligazioni convertibili in azioni o cui sono collegati warrants nei confronti di azioni emesse o di
nuova emissione. La conversione e i warrants devono avere ad oggetto azioni della stessa società
emittente.
d) Quando ricorrono “particolari ragioni che interessano l’economia nazionale”, sempre che la società
in questo caso sia “autorizzata con provvedimento dell’autorità governativa” all’emissione sopra la
soglia di legge e “con l’osservanza dei limiti, delle modalità e delle cautele stabilite nel
provvedimento stesso”.

La legge riconosce all’obbligazionista un interesse a monitorare il comportamento della società, avendo


riguardo sia all’attività in generale, sia alle vicende incidenti sul rapporto creditizio. Questo trova
fondamento nell’interesse degli obbligazionisti, da un lato, al rispetto del programma contrattuale, dall’altro
alla tutela del valore di scambio del titolo stesso.
In questa prospettiva la legge prevede due organi: l’assemblea degli obbligazionisti e il rappresentante
comune.
L’assemblea degli obbligazionisti è l’organo indicato ad assumere tutte le decisioni che riguardano il
prestito obbligazionario, in considerazione dell’interesse comune (art. 2415).
La legge prevede un’elencazione delle competenze che spettano a tale organo, stabilendo che esso delibera
in ordine a: 1) la nomina e la revoca del rappresentante comune; 2) le modifiche delle condizioni del
prestito; 3) la proposta di concordato; 4) la costituzione di un fondo per le spese necessarie alla tutela degli
interessi comuni e sul relativo rendiconto; 5) su altri oggetti di interesse comune per gli obbligazionisti.
In relazione al rappresentante comune degli obbligazionisti, l’art. 2417 prevede che questo non deve
essere necessariamente scelto tra gli stessi e precisa che questa carica può essere rivestita da persone
giuridiche autorizzate all’esercizio dei servizi di investimento o da società fiduciarie. Si tratta di un organo
necessario e una volta nominato dura in carica non più di tre esercizi ma può essere rieletto; può anche
essere revocato ad nutum dall’assemblea degli obbligazionisti, spettandogli il diritto al risarcimento del
danno nel caso in cui fosse revocato senza giusta causa.
I doveri previsti dalla legge fanno di questo una sorta di organo titolare di una “funzione esecutiva”: cioè
oltre a dover curare l’esecuzione delle deliberazioni assembleari degli obbligazionisti e assistere alle
operazioni di sorteggio delle obbligazioni, deve anche tutelare gli interessi comuni degli obbligazionisti nei
rapporti con la società. Inoltre assiste all’assemblea dei soci.
Ai sensi dell’art. 2422, infine, il rappresentante comune ha diritto di esaminare il libro delle obbligazioni e
quello delle adunanze dei soci, oltre che ottenere estratti.
Fuori dai casi in cui è coinvolto l’interesse comune dei soci, la tutela della posizione di tali soggetti è affidata
alla loro iniziativa individuale, limitata solo nella circostanza che il comportamento eventualmente
contestato sia stato approvato in gruppo. Si tratta di un limite rigido e inderogabile.

Un tipo particolare di obbligazioni a cui la legge dedica un’apposita disciplina all’interno del codice civile,
con l’art. 2420-bis, è quello delle c.d. obbligazioni convertibili in azioni.
Lo strumento prevede che il rapporto originario, nato come concessione di credito dall’investitore alla
società, si converta nel corso dello svolgimento della relazione, in rapporto sociale: cioè la somma
originariamente acquisita dalla società a titolo di “capitale di debito”, dopo la conversione viene a

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considerarsi come “capitale di rischio”, in quanto si attribuiscono all’investitore dei titoli che rappresentano
la sua mutata situazione, vale a dire che gli vengono attribuite azioni, al posto delle originare obbligazioni. Si
realizza così, da un lato, l’interesse della società a ottenere immediata liquidità; dall’altro si offre
all’investitore la possibilità di effettuare un investimento più redditizio.
Tale situazione è assoggettata ad una serie di regole speciali indirizzate a dare protezione all’obbligazionista
in quanto detentore di una potenziale partecipazione. Anzitutto la delibera di emissione delle obbligazioni
convertibili è di competenza dell’assemblea straordinaria, anziché del consiglio di amministrazione. Questo
perché l’elemento fondamentale che caratterizza tale fattispecie è la previsione che accanto alla decisione di
emissione delle obbligazioni vi è quella che la società assuma una deliberazione di aumento del capitale
sociale per un ammontare pari alle azioni da attribuire in conversione.

CAPO TERZO

LA STRUTTURA ORGANIZZATIVA

§54. Il sistema tradizionale: l’assemblea

Le società per azioni sono caratterizzate dalla presenza di una struttura organizzativa complessa, articolata
in tre organi sociali, ai quali la legge assegna specifiche funzioni, le quali sono inderogabili da parte dello
statuto.
La tipologia degli organi sociali e le relative competenze, variano a seconda del sistema di amministrazione e
controllo adottato dalla società. Mentre il c.c. del ’42 prevedeva un solo sistema organizzativo, basato sulla
tripartizione tra assemblea, organo amministrativo e collegio sindacale, la riforma del 2003 ha previsto la
possibilità per la s.p.a. di adottare due sistemi alternativi, cioè il sistema dualistico, di derivazione tedesca, e
il sistema monistico, di derivazione anglosassone.
Quando la società adotta uno dei sistemi alternativi, variano sia la tipologia degli organi sociali (nel sistema
dualistico avremo un consiglio di sorveglianza e un consiglio di gestione; nel sistema monistico, avremo un
comitato per il controllo sulla gestione), sia le relative competenze (in particolare, nel sistema dualistico il
consiglio di sorveglianza svolge sia le funzioni di controllo di legalità della gestione, assegnate nel sistema
tradizionale al collegio sindacale, sia alcune funzioni assegnate all’assemblea, come la nomina e la revoca
degli amministratori e l’approvazione del bilancio).
Indipendentemente dal sistema di amministrazione e controllo, l’ordinamento delle s.p.a. prevede un
assetto societario interno, caratterizzato dal principio della ripartizione fissa di competenze. Questo assetto
ha come obiettivo quello di assicurare la definizione di meccanismi di governo dell’impresa (c.d. corporate
governance) che privilegiano l’interesse all’efficienza della gestione.
In questo sistema, l’esercizio dell’impresa è interamente affidato all’organo amministrativo, specializzato
nell’attività di gestione e responsabile anche verso i creditori ed i terzi per i danni arrecatogli con il proprio
operato (art. 2392, 2394, 2395); viceversa, le decisioni di tipo organizzativo (nomina delle cariche sociali,
approvazione del bilancio, modifiche statutarie), sono rimesse alla competenza dei soci, i quali sono
destinatari dei risultati dell’attività sociale.
Inoltre, le società azionarie sono caratterizzate dalla presenza, all’interno dell’organizzazione societaria, di
un’autonoma funzione di controllo sulla legalità e sulla correttezza della gestione imprenditoriale e
dell’assetto aziendale, e sulla regolarità dei bilanci e delle scritture contabili. La prima funzione è assegnata
al collegio sindacale (o al consiglio di sorveglianza nel sistema dualistico, o al comitato di controllo in quello
monistico); la seconda al revisore, salvo che lo statuto assegno tale compito al collegio sindacale.
I poteri dell’assemblea risultano arretrati rispetto alla posizione degli amministratori i quali hanno una
competenza esclusiva su tutto ciò che riguarda la gestione dell’impresa sociale, ma questo non deve essere
visto come rivolto ad attribuire minore importanza agli interessi degli azionisti. Tali interessi possono essere
tutelati attraverso altri strumenti come la previsione di ampi spazi per il recesso dalla società (art. 2437),
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l’azione di responsabilità della minoranza (art. 2393), la possibilità di impugnare le decisioni del consiglio
(art. 2388).
Anche nelle società non quotate il modello organizzativo è caratterizzato da una forte rigidità; infatti nelle
s.p.a. è possibile semplificare solo alcuni aspetti procedurali ed organizzativi “secondari” (ad es. prevedere
forme personalizzate dell’avviso di convocazione dell’assemblea, aumentare alcuni quorum costitutivi e
deliberativi, ricorrere alla figura dell’amministratore unico), mentre non si può intervenire sulle
caratteristiche principali del funzionamento di tale modello.
Per le società quotate è prevista, inoltre, una disciplina rafforzata ed articolata, caratterizzata da obiettivi
omogenei voti ad incentivare l’investimento del risparmio privato nelle società emittenti: accrescendo la
tutela delle minoranze, aumentando il livello di efficienza dell’organo amministrativo e la qualità e la
quantità dei controlli sul suo operato e migliorando il livello di trasparenza delle informazioni al mercato.
Per quanto riguarda la disciplina dell’assemblea, le particolarità principali riguardano la previsione di
maggiori obblighi informativi pre-assembleari a carico degli amministratori; l’introduzione di istituti specifici
come l’introduzione dell’ordine del giorno; la fissazione di quorum più articolati per l’assemblea
straordinaria e la creazione di un’apposita disciplina per la rappresentanza in assemblea.
Per quanto riguarda l’organo amministrativo, la disciplina prevede un’articolazione più complessa di questa
funzione, ed in particolare la compresenza di amministratori esecutivi e non, amministratori indipendenti ed
amministratori nominati dalla minoranza, per assicurare una maggiore efficienza e correttezza della
gestione. Prescrizioni più specifiche sono dettate per le c.d. operazioni con parti correlate, volte a ridurre i
rischi che gli amministratori e i soci di maggioranza estraggano benefici privati dalla loro posizione, e quelle
in materia di piani di incentivazione per i compensi degli amministratori in modo da garantire maggiore
trasparenza nei meccanismi di remunerazione delle cariche.
Anche la funzione di controllo, infine, è regolata in modo più stingente. Per il collegio sindacale sono
previsti: l’elezione di un sindaco da parte della minoranza con funzioni di presidente del collegio; requisiti
speciali di indipendenza e professionalità e limiti al cumulo degli incarichi.
Quanto alla revisione contabile, il TUF prevede per le società quotate una disciplina più severa volta ad
assicurare maggiore indipendenza dei revisore e la prestazione di servizi aggiuntivi a pagamento.

L’assemblea dei soci è presente in tutti i sistemi di amministrazione e controllo, ma le sue competenze
risultano più limitate in caso di scelta del sistema dualistico.
Le sue principali caratteristiche sono queste. In primo luogo, l’assemblea è un organo rappresentativo degli
azionisti della società, anche se non è necessariamente composta da tutti gli azionisti. Tale possibilità
rispetta le esigenze delle società aperte, caratterizzate dal disinteresse di una rilevante parte dei soci
rispetto alla vita interna.
In secondo luogo è un organo insopprimibile e necessariamente collegiale: lo statuto, infatti, può al
massimo consentire ai soci di esprimere il proprio per corrispondenza o elettronicamente, ferma restando
però la necessità di convocare e tenere la seduta assembleare; pertanto, ogni avente diritto al voto ha il
diritto di assistere ai lavori assembleari per assicurare che le scelte fondamentali per la vita societaria
vengano adottate in seguito ad un procedimento che assicuri le esigenze di partecipazione, ponderatezza e
certezza delle decisioni.
In terzo luogo, le competenze dell’assemblea sono determinate dalla legge e, salvo limiti previsti da questa,
non sono derogabili in favore di altri organi della società.
Infine, l’assemblea decide secondo la regola di maggioranza, sulla base di aliquote di capitale fissate in
misura variabile a seconda della materia (c.d. quorum costitutivi e deliberativi), in tal modo si assicura che i
soci di controllo abbiano la possibilità di indirizzare la gestione e di adattare la struttura organizzativa con
modifiche statutarie.

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Le competenze dell’assemblea, in sede ordinarie e straordinaria, sono rispettivamente stabilite dagli art.
2364 e 2365.
La divisione tra assemblea ordinaria e straordinaria ha la funzione di assicurare che:

 le decisioni periodicamente necessarie per il funzionamento dell’organizzazione sociale siano


adottate in “sede ordinaria”, secondo regole di funzionamento più snello e una maggioranza meno
elevata;
 le decisioni riguardanti le regole di funzionamento (modifiche statutarie), le vicende evolutive
(liquidazione, trasformazione, fusione e scissione) e alla struttura finanziaria (operazioni sul
capitale, obbligazioni convertibili), siano invece adottate in “sede straordinaria” secondo regole che
assicurano una maggiore partecipazione dei soci, grazie a quorum più elevati e una maggiore
certezza di regolarità della decisione, mediante la presenza del notaio.

A. Le competenze fondamentali e indisponibili dell’assemblea ordinaria, previste dall’art. 2364 sono: 1)


l’approvazione del bilancio e la destinazione degli utili; 2) la nomina e la revoca degli altri organi
sociali; 3) la determinazione del compenso degli amministratori e dei sindaci; 4) la deliberazione
dell’azione di responsabilità contro altri organi della società; 5) ogni altra competenza rimessa da
altre disposizioni di legge all’assemblea dei soci, senza specificazione riguardo alla sede ordinaria o
straordinaria.
Si esclude che lo statuto possa attribuire all’assemblea ulteriori competenze, rispetto a quelle
previste dalla legge. Quanto disposto dall’art. 2364, n. 5, si riferisce solo alle ipotesi in cui è la legge
stessa a rimettere all’assemblea una determinata decisione, o alle ipotesi in cui la legge stessa
stabilisce che lo statuto possa derogare ad una competenza dell’organo amministrativo.
Nel silenzio della legge, è quest’ultimo l’organo a competenza generale all’interno della società.
Vi è un’ulteriore materia, però, di eventuale spettanza dell’assemblea, ossia quella della
autorizzazioni eventualmente richieste per il compimento di atti degli amministratori.
In generale, come si è detto, la gestione dell’impresa sociale spetta agli amministratori in modo
esclusivo, tuttavia l’art. 2364 consente allo statuto di prevedere che, per certe operazioni, gli
amministratori debbano ottenere l’autorizzazione dell’assemblea.
Con l’autorizzazione, la legge esclude che lo statuto possa attribuire all’assemblea una competenza
diretta su atti di gestione e limita il suo intervento al caso in cui gli amministratori abbiano già
deliberato di compiere l’atto e debbano quindi ricevere il consenso dell’organo assembleare per
eseguire l’operazione. Autorizzando l’operazione, l’assemblea non ne può però imporre il
compimento; infatti gli amministratori restano liberi di decidere di eseguirla o meno e quindi anche
di rivalutare la loro decisione, tanto è vero che l’autorizzazione non li solleva dall’obbligo di valutare
con la normale diligenza l’opportunità di compimento dell’operazione, né dalla responsabilità per i
danni che da questi derivano eventualmente alla società.
La norma precisa che, nel caso in cui l’assemblea conceda l’autorizzazione agli atti di gestione
prevista dallo statuto, “resta ferma” la piena responsabilità degli amministratori per gli atti
compiuti nei confronti della società.
Ne consegue che sia il collegio sindacale o la minoranza, sia l’assemblea ordinaria stessa, conserva
la legittimazione all’azione sociale di responsabilità per danni cagionati al patrimonio sociale.
Il ricorso del legislatore all’autorizzazione induce però a ritenere che, in caso di diniego da parte
dell’assemblea, gli amministratori non sono legittimate a compiere l’operazione, in quanto il
compimento dell’atto gestionale, nonostante la mancata autorizzazione, li esporrà alla piena
responsabilità per tutti i danni conseguenti all’operazione compiuta, oltre a determinare la
sussistenza di una giusta causa di revoca.
Inoltre lo statuto può definire l’ambito di applicazione dell’autorizzazione, individuando categorie di
atti, secondo criteri di tipo quantitativo (ad es. eccedenti un certo valore), qualitativo (ad es. che
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incidono sulla struttura imprenditoriale e finanziaria della società), analitico (ad es. le cessioni
d’azienda) o generico (ad es. operazioni aventi valore strategico), fermo restando il principio
secondo cui l’assemblea non può decidere nella gestione corrente.
B. Le competenze fondamentali dell’assemblea straordinaria sono fissate dall’art. 2365 e sono
limitate alle modificazioni statutarie e alla nomina dei liquidatori. Vi sono però anche altre
competenze stabilite dal codice civile e in particolare: la deliberazione di non emissione delle azioni,
l’emissione di obbligazioni convertibili in azioni, l’autorizzazione alla concessione di prestiti e
garanzie per la sottoscrizione o l’acquisto di proprie azioni.
Il testo di tale articolo esclude la possibilità che lo statuto possa aumentare le competenze
statutarie dell’assemblea straordinaria in quanto l’estensione delle competenze può derivare solo
da norme speciali di legge. Un caso isolato di possibile ampliamento statutario è previsto dall’art.
2410 in materia di emissione delle obbligazioni.
Viceversa, sono previste numerose ipotesi di delega all’organo amministrativo, tramite clausola
statutaria, del potere di deliberare modificazioni statutarie che presentino carattere minore o che
risultino collegate con l’ambito gestionale. Alcune sono: 1) l’incorporazione di altre società già
controllate per intero o quasi; 2) istituzione o la soppressione di sedi secondarie; 3) il trasferimento
della sede legale nell’ambito del territorio nazionale; 4) la scelta degli amministratori dotati del
potere di rappresentanza; 5) la riduzione del capitale in caso di recesso del socio; 6) l’adeguamento
dello statuto a disposizioni di legge; 7) il trasferimento della sede all’interno del territorio nazionale.
Ad esse si aggiungono altre ipotesi contemplate dal c.c.: 1) l’aumento di capitale a pagamento,
inclusa l’eventuale decisione di escludere il diritto di opzione dei soci; 2) l’emissione di obbligazioni
convertibili; 3) la nomina del direttore generale e dei liquidatori.

L’assemblea è un tipico organo collegiale, il cui funzionamento è caratterizzato dalle fasi tipiche dei
procedimenti collegiali, regolate dal c.c.
I momenti essenziali del procedimento collegiale hanno carattere formale (cioè devono rispettare forme
vincolate) e sono: convocazione dell’organo (con relativo “ordine del giorno”), costituzione e riunione,
discussione, votazione e deliberazione, proclamazione e verbalizzazione.
Le regole di fonte legale possono essere integrate, e talvolta derogate, da apposite clausole statutarie. Il
rispetto di tali regole è condizione di validità delle deliberazioni: salvo i due casi estremi di mancata
convocazione e mancata verbalizzazione che determinano la nullità della deliberazione (art. 2379), la non
conformità della deliberazione alla legge e allo statuto è causa di annullabilità della delibera (art. 2377), a
meno che il vizio non risulti ininfluente sul risultato deliberativo.

a) La prima fase del procedimento deliberativo è quella della convocazione, che è decisa dall’organo
amministrativo ogni qual volta lo ritenga opportuno.
Al verificarsi di alcune circostanze, però, la convocazione diviene obbligatoria: in particolare quando
si determinano perdite superiori ad un terzo del capitale sociale o si verifichi una causa di
scioglimento della società. Inoltre, la convocazione dell’assemblea ordinaria è obbligatoria in via
generale almeno una volta all’anno, per l’approvazione del bilancio. Il termine per la relativa
delibera non può essere superiore a 120 giorni dalla chiusura dell’esercizio (che coincide di regola
con la fine dell’anno solare) e quindi l’assemblea deve essere convocata con congruo anticipo in
modo da rispettare tale termine.
La convocazione è obbligatoria anche se sussiste la richiesta della minoranza di tanti soci che
rappresentano un decimo del capitale sociale. La percentuale minima richiesta per la convocazione,
può essere modificata dallo statuto solo in diminuzione e non in aumento.
La richiesta dev’essere accompagnata anche dall’indicazione di argomenti da trattare. Essa deve
avere necessariamente ad oggetto materie di competenze dell’assemblea e non dell’organo
amministrativo (ad es. non può essere utilizzata per discutere e deliberare su materie gestionali) e

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inoltre non è ammessa su argomenti nei quali l’assemblea delibera su proposta o relazione degli
amministratori (ad es. approvazione del bilancio, decisioni di fusione e scissione).
L’ottemperanza all’obbligo di convocazione può avvenire anche da parte dell’organo di controllo
(collegio sindacale, consiglio di sorveglianza) in caso di inerzia dell’organo amministrativo. La
convocazione deve avvenire “senza ritardo”, cioè che gli amministratori sono obbligati a provvedere
nel termine di trenta giorni, stabilito dall’art. 2631, che prevede sanzioni amministrative pecuniarie
a carico degli amministratori e dei sindaci.
Dove non sia dato seguito alla richiesta, i soci possono rivolgersi al tribunale che provvede con
decreto, sentiti i componenti degli organi di amministrazione e controllo, i quali potranno opporre
l’esistenza di un giustificato motivo. Il rifiuto è legittimo solo se fondato su ragioni di illegittimità
della richiesta, o su ragioni di “abuso del diritto” da parte della minoranza.
b) L’atto di convocazione dell’assemblea è di competenza dell’organo amministrativo e deve essere
deliberato collegialmente dal consiglio di amministrazione. Questa regola è derogabile in parte e si
ritiene quindi che lo statuto può rimettere tale competenza anche a singole cariche amministrative,
come il presidente del c.d.a., ferma restando la titolarità in capo all’organo collegiale che può
sempre deliberare in materia. Una volta deliberata la convocazione da parte del consiglio, l’avviso di
convocazione è emesso dal presidente del c.d.a. a meno che il consiglio non autorizzi un altro
amministratore indicato ad hoc. Altri soggetti titolari del potere di convocazione, nelle ipotesi
previste dalla legge, sono: i sindaci (art. 2386, quando vengono a mancare tutti gli amministratori o
l’amministratore unico; quando la convocazione sia obbligatoria e l’organo amministrativo non
provvede; quando il collegio ravvisa fatti censurabili di rilevante gravità), il tribunale,
l’amministratore giudiziario e i liquidatori.
c) Le modalità di emanazione dell’avviso di convocazione variano a seconda delle caratteristiche della
società. Nelle società non quotate, esso deve essere pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della
Repubblica almeno quindici giorni prima di quello fissato per l’adunanza. Lo statuto può anche
prevedere la pubblicazione su “almeno un quotidiano” indicato in esso, fermo il rispetto del
termine legale.
Nelle società “chiuse” lo statuto può anche prevedere delle modalità di convocazione più semplici e
con termine ridotto, purché garantiscano la prova dell’avvenuto ricevimento dell’avviso almeno otto
giorni prima dell’assemblea. Quindi può essere prevista la comunicazione per raccomandata con
ricevuta di ritorno, ma anche per posta elettronica certificata, telefax o consegnata direttamente a
mano dei soci.
L’avviso di convocazione deve contenere tutte le indicazioni relative alla data, all’ora e al luogo della
riunione, oltre all’ordine del giorno.
Nelle società quotate, l’assemblea è convocata almeno trenta giorni prima della data di svolgimento
dell’assemblea, mediante avviso pubblicato sul sito internet della società e con le altre modalità
previste dalla Consob.
d) Quanto al luogo della seduta, l’assemblea deve essere convocata nel comune dove ha sede la
società, a meno che lo statuto non autorizzi la convocazione anche in luoghi diversi. Infatti è
legittima la clausola che preveda convocazioni all’estero, o in ambito provinciale e regionale. E’
invece invalida la clausola che non indichi specificamente i luoghi in cui è consentita la
convocazione.
e) L’ordine del giorno ha la funzione di informare i soci sulle “materie” sulle quali si dovrà discutere e
deliberare. Non è necessario però che sia indicato il contenuto di specifiche proposte che saranno
avanzate dall’organo amministrativo, quindi può essere “sintetico” ma non “generico” (ad es. si
potrà indicare il rinnovo delle cariche sociali; l’approvazione del bilancio).
f) L’assemblea si reputa validamente costituita quando tutti i soci sono presenti alla riunione (c.d.
assemblea totalitaria: art. 2366). Tale eventualità consente: di rendere possibile lo svolgimento

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dell’assemblea anche in difetto di convocazione; sanare ogni eventuale irregolarità procedimentale


relativa alla fase di convocazione; di legittimare l’assemblea ad assumere ogni determinazione di
propria competenza, anche al di fuori dell’ordine del giorno previsto nell’avviso di convocazione.
A tal fine è sempre necessaria la presenza di tutti gli aventi diritti al voto, ma non occorre la
presenza di tutti gli amministratori e di tutti i sindaci, essendo sufficiente che assista la
maggioranza dei componenti dei rispettivi organi.

La validità delle deliberazioni assembleari della s.p.a. è subordinata al raggiungimento di un quorum


costitutivo, cioè della presenza alla riunione di un numero minimo di azioni richiesto per la validità della
seduta, ed al successivo raggiungimento di un quorum deliberativo, cioè di una maggioranza di voti
favorevoli alla decisione, che può essere calcolata secondo diversi criteri: in particolare, in base alla
maggioranza, può essere semplice o rafforzata; in base al computo, può essere prevista la maggioranza del
capitale sociale o del solo capitale presente in assemblea.
Il quorum costitutivo consiste nella regola per cui, se non interviene alla seduta un certo numero di soci
(rappresentanti una certa aliquota di capitale sociale), l’assemblea non può iniziare i proprio lavori in quanto
risulta essere non regolarmente costituita. La funzione di questa regola è quella di garantire che le decisioni
vengano assunte con la partecipazione e il confronto tra un numero minimo di soci portatori di una quota
adeguata dell’investimento azionario.
Per il calcolo del quorum costitutivo non devono computarsi le azioni “istituzionalmente” prive del diritto di
voto e di intervento, come le azioni di risparmio e quelle a voto limitato. Devono computarsi le azioni
“occasionalmente” prive di tale diritto. Questo significa che nel primo caso viene agevolata la possibilità di
costituire regolarmente l’assemblea. La ratio della norma risiede nell’intenzione di evitare che situazioni
occasionali, come la sospensione temporanea del diritto di voto, incida in modo tale da attribuire ad esigue
minoranze rilevanti poteri deliberativi, soprattutto in sede straordinaria.
Il quorum deliberativo risponde invece ad una funzione diversa: perché una decisione possa considerarsi
adottata, occorre che si sia espresso favorevole un certo numero di soci.
Per il calcolo del quorum deliberativo, la legge ricorre di volta in volta a due parametri: in alcuni casi è
computato sul capitale sociale complessivo della società; in altri, sul capitale presente in assemblea. In
questo secondo caso si tiene conto anche della posizione dei presenti non votanti o coloro che si sono
astenuti.
Con riferimento ad entrambi i paramenti, non si deve tener conto (e pertanto si riducono le maggioranze
necessarie per approvare la delibera): a) delle azioni del socio in conflitto di interessi, anche se non sia
sospeso il suo diritto di voto, qualora dichiari di astenersi in ragione della propria situazione personale; b)
dei soci il cui voto sia occasionalmente sospeso.
I quorum costitutivi e deliberativi sono fissati dalla legge in misura diversa a seconda della materia, della
convocazione e del tipo di società.
In sede di prima convocazione, per l’assemblea ordinaria il quorum costitutivo è pari alla metà del capitale
sociale; il quorum deliberativo, invece, è pari alla maggioranza assoluta del capitale avente diritto di voto e
presente in assemblea. Per l’assemblea straordinaria, invece, il quorum costitutivo è pari alla maggioranza
assoluta del capitale sociale per le società chiuse e alla metà del capitale sociale per quelle aperte; il
quorum deliberativo è pari alla maggioranza assoluta del capitale sociale complessivo per le società chiuse,
e a due terzi del capitale presente in assemblea per le società aperte.
I quorum legali di prima convocazione possono essere modificati in aumento dallo statuto, in via generale o
per singole materie. Tuttavia si ritiene generalmente inammissibile, nella s.p.a., una clausola statutaria che
imponga l’unanimità o maggioranze così elevate da ostacolare il regolare funzionamento dell’assemblea.
Pertanto tali clausole sono nulle con la conseguente necessità di applicare in sostituzione i quorum legali.
Poiché l’art. 2368, co.2, consente le deroghe in aumento, è da ritenersi invece illegittima la modificazione in
diminuzione dei quorum, al fine di garantire un’adeguata rappresentatività delle maggioranze assembleari,
in materie di particolare importanza.
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Se all’inizio della riunione si rileva la mancata formazione del numero legale, il presidente dell’assemblea
deve dichiarare la mancata costituzione della seduta e l’assemblea viene convocata a nuova data. Per
evitare di riavviare tutto il procedimento ex novo, l’art. 2369 prevede l’istituto della seconda convocazione.
Essa deve essere fatta per un giorno diverso da quello della prima, ma la seduta deve tenersi entro trenta
giorni dalla prima.
La legislazione ha fissato regole volte a favorire la deliberazione ed abbassando la soglia dei quorum.
Nelle società aperte di tipo non cooperativo, lo statuto può prevedere che l’assemblea si tenga in
convocazione unica, con applicazione dei quorum previsti per l’assemblea di seconda convocazione in sede
ordinaria e di quelli delle assemblee successive alla seconda in sede straordinaria.
I quorum legali per le assemblee in seconda convocazioni sono definiti dall’art. 2369. Per l’assemblea
ordinaria non è previsto nessun quorum costitutivo, mentre il quorum deliberativo non è stabilito per cui
deve applicarsi la maggioranza assoluta del capitale presente.
Per l’assemblea straordinaria, il quorum costitutivo è pari a un terzo del capitale sociale e il quorum
deliberativo ai due terzi del capitale rappresentato in assemblea.
Un punto discusso in passato riguardava la legittimità di eventuali clausole statuarie che prevedessero
maggioranze superiori a quelle di legge per l’assemblea ordinaria in seconda convocazione. Tale problema
oggi è stato risolto dall’art. 2369, co. 4, per il quale lo statuto può richiedere maggioranze più elevate,
tranne che per l’approvazione del bilancio e per la nomina e la revoca delle cariche sociali.

Il diritto di intervenire in assemblea spetta, oltre a tutti i componenti dell’organo amministrativo e


dell’organo di controllo, anche a tutti gli azionisti titolari di diritto di voto.
Il diritto di intervento in assemblea ha carattere puramente strumentale, e non gode di tutela autonoma
rispetto al diritto di voto; di conseguenza non hanno diritto di intervento gli azionisti privi del diritto di voto,
vale a dire: gli azionisti di risparmio nelle società quotate, il titolari di azioni di godimento e senza voto, il
nudo proprietario o il debitore che abbia dato in pegno le proprie azioni e l’azionista che ha subito un
sequestro delle proprie azioni.
Anche nel caso di azioni a voto limitato i soci possono intervenire nelle sole assemblee in cui hanno diritto
di voto con la conseguenza che potrà cambiare la base di calcolo dei quorum.
Per essere ammesso alla singola assemblea, l’azionista deve dimostrare la propria legittimazione. Salvo il
caso in cui non siano stati emessi titoli, occorre distinguere a seconda che l’azione sia documentata in un
titolo cartaceo o risulti immessa nei sistemi di gestione accentrata.
Nella prima ipotesi il socio deve esibire i titoli azionari. La sua identità e la sua legittimazione cartolare
verranno accertate seduta stante dal presidente dell'assemblea. Lo statuto può però subordinare
l’intervento del socio ad una prenotazione da effettuarsi mediante deposito dei titoli azionari presso la sede
della società, o presso le banche indicate nell’avviso di convocazione. Il termine massimo di prenotazione,
che può essere stabilito nello statuto, non è fissato dalla legge nelle società chiuse, mentre è fissato in due
giorni non festivi per quelle aperte.
Per le società con azioni soggette al regime di dematerializzazione, il controllo della legittimazione è
demandato agli intermediari presso cui sono registrate le azioni, i quali effettuano una comunicazione alla
società, dietro richiesta del socio. La legittimazione all’intervento spetta pertanto al soggetto indicato
dall’intermediario in conformità alle proprie scritture.
Un’importante novità della riforma è costituita dall’ammissibilità dell’intervento telematico e del voto per
corrispondenza dietro previsione di un’apposita clausola statutaria.
Nel primo caso, la partecipazione del socio avviene mediante l’utilizzo di mezzi di telecomunicazione: ai
soci che partecipano a distanza deve essere data la possibilità di intervenire attivamente anche nella
discussione assembleare e votare simultaneamente agli altri soci; deve essere garantita la parità di
trattamento tra partecipanti e la possibilità di identificarli in maniera attendibile. Le modalità di svolgimento
dell’assemblea sono precisate nell’avviso di convocazione.
Nel caso di voto per corrispondenza, il socio non partecipa alla seduta assembleare ma invia il proprio voto
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prima della seduta, in forma cartacea o elettronica, con le modalità indicate nello statuto. Il sistema del voto
per corrispondenza richiede, però, che nell’avviso di convocazione siano formulate le singole proposte su cui
dovrà esprimersi il voto favorevole, contrario o di astensione.
Il socio che esprime il suo vuoto per corrispondenza “si considera intervenuto all’assemblea” e quindi le
relative azioni vanno calcolate nel quorum costitutivo.

Il presidente dell’assemblea ha un ruolo di particolare importanza nel procedimento collegiale, perché ad


egli spettano: il controllo sulla regolare costituzione dell’organo, incluso l’accertamento dell’identità e della
legittimazione dei presenti; la direzione dei lavori; lo scrutinio e la proclamazione dei risultati; la
verbalizzazione.
Le fasi di svolgimento dei lavori possono essere disciplinate da un regolamento assembleare interno ma
questa figura è piuttosto rara nella pratica. Il presidente dell’assemblea è rappresentato dalla persona
indicata nello statuto (che di solito fa riferimento alla carica del presidente del c.d.a. o ad altra carica
amministrativa) o, in mancanza, da quella eletta con il voto di maggioranza dei presenti (calcolata per
teste), ed è di norma affiancato da un segretario, eletta nelle stesse modalità del presidente, che lo assiste
nelle varie operazione e collabora alla verbalizzazione, controfirmando il documento finale.
Le funzioni del segretario possono essere assunte dal notaio al quale è affidata la verbalizzazione.
Il codice, inoltre, non disciplina l’ipotesi della revoca del presidente dell’assemblea, al fine di assicurare la
massima stabilità della carica. In effetti, almeno nel caso in cui il presidente sia individuato mediante ricorso
alle clausole statutarie, è preferibile ritenere che esso non sia revocabile neanche in caso di giusta causa. Se
invece è nominato dall’assemblea, prevale il principio della revocabilità di tutte le cariche. Infatti è vero che
anche nell’ipotesi in cui il presidente sia stato eletto dall’assemblea vige l’esigenza di una certa stabilità della
carica, che non potrebbe essere revocabile ad nutum; però è ammissibile la validità di una delibera di
revoca del presidente e di una sua sostituzione nel caso in cui ricorra una giusta causa, in caso di abuso di
poteri presidenziali o di manifesta incapacità a condurre i lavori assembleari.

La disciplina legale dello svolgimento dei lavori è per larga parte rimessa alle valutazioni del presidente, il
quale deve innanzitutto procedere alla verifica della legittimazione in capo ai presenti, escludendo dalla
partecipazione chi non ne ha diritto. Egli inoltre può regolare la discussione, imponendo limiti di tempo agli
interventi ed esercitando poteri di “polizia” interni se si verificano abusi o scorrettezze da parte di qualcuno
dei partecipanti.
Un punto molto delicato nello svolgimento dei lavori assembleari, è costituito dall’esercizio del diritto di
informazione da parte degli azionisti. Spesso gli interventi di questi ultimi consistono in domande rivolte
agli amministratori o ai sindaci che hanno il dovere di rispondere, purché la domanda sia pertinente e la
materia di cui si tratta non sia coperta da segreto aziendale.
Il presidente deve rispettare innanzitutto l’ordine del giorno, evitando così allargamenti o restrizioni
ingiustificate della materia in discussione. Anche la successione degli argomenti contenuta nell’ordine del
giorno dev’essere rispettata, salvo che l’assemblea stessa deliberi una inversione dell’ordine del giorno. La
discussione deve essere regolata in modo da evitare ogni discriminazione a danno degli azionisti, ma è
possibile adottare un limite ai tempi di discussione. Il presidente può anche sciogliere la seduta, nel caso in
cui non sussistano le condizioni per un ordinato svolgimento dei lavori.
In ordine alla votazione, deve innanzitutto essere scelto il metodo, dal presidente. Fra i possibili metodi di
voto vi sono: le dichiarazioni verbali, il metodo per alzata di mano, il metodo per acclamazione, l’utilizzo di
schede precompilate. La votazione deve essere simultanea, causa l’alterazione nella successione nelle varie
fasi. Se vi sono più proposte di deliberazione, spetta al presidente decidere quale mettere per prima in
votazione. Non è ammissibile invece il sistema del voto segreto, in quanto l’art. 2375 impone
l’identificazione nel verbale dei soci favorevoli, contrari e astenuti. Inoltre il voto segreto comporta delle
complicazioni ai fini dell’esercizio del diritto di impugnazione e del diritto di recesso, che spettano ai
dissenzienti o astenuti.

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Infine, il voto segreto è incompatibile con la disciplina del conflitto di interessi, la cui applicazione impone di
verificare come abbia votato ogni socio.
Subito dopo la votazione, deve essere accertato il risultato dei lavori e il presidente deve effettuare la c.d.
proclamazione (cioè la dichiarazione che l’assemblea ha accolto, o rigettato, le singole proposte di
deliberazione), con la conseguenza che la trattazione del relativo punto all’ordine sia esaurito.

Le deliberazioni devono infine risultare da un verbale, che ha la funzione di documentare lo svolgimento


dell’assemblea, e ha carattere obbligatorio e necessario, in quanto la sua assoluta mancanza determina la
nullità della deliberazione (art. 2379), mentre le irregolarità nella sua redazione determinano l’annullabilità
della delibera.
In caso di assemblea straordinaria, il verbale deve essere redatto da un notaio, che lo sottoscrive insieme al
presidente. La presenza del notaio si spiega in ragione della funzione di controllo attribuitagli in ordine alla
legalità della deliberazione: infatti va ricordato che le delibere hanno ad oggetto il più delle volte una
modifica dello statuto e quindi l’insieme di regole fondamentali soggette al controllo notarile. Il notaio che
ritrovi nella decisione un profilo concreto di nullità, è tenuto comunque alla sua redazione in quanto è
tenuto a documentare ciò che accade realmente, ma successivamente non procederà all’iscrizione nel
registro delle imprese, bloccando così l’operatività della delibera.
In caso di assemblea ordinaria, il verbale è redatto insieme e sottoscritto dal presidente e dal segretario.
Riguardo al contenuto del verbale, l’art. 2375, co.1, precisa che deve essere “analitico”, cioè deve indicare
l’identità dei partecipanti, il capitale rappresentato in assemblea, le modalità e il risultato delle votazioni, e
deve consentire l’identificazione dei soci favorevoli, contrari e astenuti. Con la sola eccezione
dell’indicazione nelle modalità e del risultato della delibera, tutti gli altri elementi possono essere allegati
(come il c.d. foglio firme, che serve ad indicare i presenti alla seduta).
Nel verbale devono essere anche riassunte le dichiarazioni, purché pertinenti all’ordine del giorno. La
verbalizzazione inesatta o incompleta, determina l’annullabilità.
Per quanto riguarda i tempi di redazione del verbale, l’art. 2375, co.3, stabilisce che non è richiesta la
contestualità, in quanto esso può essere redatto in data posteriore alla seduta assembleare, purché senza
ritardo e in tempo utile per gli obblighi di deposito e pubblicazione. L’omessa verbalizzazione entro tali
termini, determina la nullità della deliberazione, salva la sanatoria per verbalizzazione tardiva che può farsi
valere nel termine di tre anni.

Nelle s.p.a. è consentito agli azionisti partecipare all’assemblea personalmente, o mediante un proprio
rappresentante. Questa opzione può risultare utile al socio per diverse finalità: avvalersi di soggetti
professionalmente qualificati, di ovviare una propria impossibilità o difficoltà di partecipare direttamente ai
lavori, quella di rafforzare il legame parasociale con gli altri soci.
Lo statuto delle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio può però escludere questa
possibilità o limitarla in diversi modi (ad es. imponendo, per ragioni di riservatezza, che il delegato debba
essere necessariamente un socio).
La rappresentanza in assemblea oggi è disciplinata dall’art. 2372 che prevede una disciplina di base per tutte
le s.p.a. e alcune norme particolari per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio. Inoltre
prevede per le sole società quotate degli istituti speciali della sollecitazione di deleghe e dell’associazione di
azionisti.

A. Alcune regole sono di carattere generale e valgono per tutte le società azionarie.
i. In particolare, la delega deve essere sempre conferita per iscritto e i relativi documenti
devono rimanere conservati dalla società al fine di permettere il controllo successivo di
regolarità della deliberazione. Può ritenersi valida un’eventuale clausola statutaria che
disponga di requisiti formali convenzionali (ad es. autenticazione della firma o data certa
della procura), ma non una clausola che deroghi al requisito della forma scritta.

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ii. E’ poi prescritta la nullità della delega in bianco, cioè priva di indicazione del nome del
delegato.
iii. La procura è revocabile anche se sia conferita nell’interesse del delegato. E’ inoltre da
ammettersi la revoca tacita, che avviene mediante presentazione personale dell’azionista in
assemblea.
B. Nelle sole società che fanno ricorso al mercato di capitale di rischio, la procura può essere solo per
singole assemblee e pertanto vale il divieto di delega a tempo indeterminato o per più di
un’assemblea che ha la funzione di evitare abusi. Si consente solo che la procura valga per tutte le
convocazioni, anche successive alla prima.
Nelle società chiuse, invece, la delega per più assemblee è ammessa, anche se rimane temperata
dalla revocabilità ad nutum della procura da parte del socio.
C. Il regime delle società quotate prevede l’esenzione da alcune regole, che valgono per le sole società
chiuse e per quelle con azioni diffuse, e dalla presenza di istituti appositi.
i. Le disposizioni che non si applicano alle quotate sono:
 Il numero massimo di delegati rappresentabili da parte di un singolo delegato è
definito dall’art. 2372, co.5, in venti nelle società chiuse; in cinquanta, cento e
duecento per le società aperte a seconda dell’entità del capitale. Lo statuto può
introdurre anche limitazioni più rigide. Nelle società quotate, invece, i limiti non
valgono e in questo caso prevale l’idea del legislatore secondo cui il ricorso alle
deleghe va incentivato, come strumento di contendibilità del controllo.
 Vi è poi, sempre nelle sole società non quotate, un divieto di delega a favore di
membri degli organi di amministrazione e controllo della società o di dipendenti
della stessa. Anche in questo caso, però, il divieto è operante solo per la
rappresentanza volontaria, e non nel caso in cui partecipano all’assemblea i
rappresentanti legali o statutari di altri soggetti.
Per le società quotate la disposizione non contempla divieti rigidi, ma prevede una
disciplina di trasparenza applicabile a tutti i casi di potenziale conflitto di interessi
del rappresentate e i suoi sostituti. L’ambito di questa fattispecie include, oltre gli
organi di amministrazione e controllo, anche altri soggetti, fra cui il socio di
controllo della società (ma anche il socio legato da semplice rapporto di
collegamento e tutti i soggetti legati alla società da rapporti di natura patrimoniale).
La disciplina è però meno rigida in quanto si limita a prevedere la comunicazione
per iscritto al delegante delle circostanze da cui deriva il conflitto, e l’obbligatorietà
delle istruzioni di voto per ciascuna delibera.
ii. Si è poi detto che il regime delle società quotate prevede alcuni istituti specifici.
 E’ previsto in primo luogo che la delega possa essere rilasciata a favore di un
rappresentante obbligatoriamente designato dalla società, che dovrà votare
secondo le istruzioni di voto del socio e al quale i soci potranno conferire procura
entro la fine del secondo giorno precedente la data di prima o unica convocazione
dell’assemblea, mediante sottoscrizione di un modulo disciplinato da un
regolamento della Consob.
 Nelle società quotate è prevista poi una particolare procedura di agevolazione della
rappresentanza assembleare, denominata sollecitazione di deleghe che mira a
conciliare l’esigenza dei piccoli soci di partecipare indirettamente alla votazione,
con quella delle minoranze organizzate o di soggetti esterni che intendono favorire
il consenso dei risparmiatori su singole proposte deliberative.
 Non costituisce “sollecitazione” il caso in cui il conferimento di deleghe sia
effettuato anche a seguito di raccomandazioni o altre indicazioni di voto, da

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associazioni di azionisti, costituite per scrittura privata autenticata, non esercenti in


attività d’impresa e composte da almeno cinquanta soci, persone fisiche, ciascuna
delle quali non detenga più dello 0,1% del capitale sociale rappresentato da azioni
con diritto di voto.

L’esercizio del diritto di voto costituisce un diritto di partecipazione del singolo ed è pertanto rimesso al
libero apprezzamento del socio, che può scegliere autonomamente di partecipare o meno all’assemblea e di
votare a favore o contro le singole proposte. Ne consegue che, in caso di impugnazione delle deliberazioni
assembleari, l’autorità giudiziaria non può sindacare il merito della deliberazione, ma può solo verificare se
la delibera presenta aspetti di illegittimità.
Questo non significa che il diritto di voto nel diritto societario sia assolutamente libero ed insindacabile,
infatti esso incontra un limite esterno, tracciato dalla disciplina del conflitto di interessi.
L’art. 2373 ridefinisce, nei confronti dell’azionista, una regola generale per cui il componente dell’organo che
si trovi in conflitto d’interessi con l’ente, dovrebbe astenersi dal partecipare alla votazione sulla materia
oggetto di conflitto.
Tale conflitto si verifica solo quando l’interesse personale del socio sia contrapposto a quello della società, e
cioè quando il socio è posto nell’alternativa di privilegiare l’interesse sociale o quello personale.
In sostanza la legge non impone all’azionista di orientare il proprio voto in modo da perseguire l’interesse
sociale, dopo aver proceduto ad una valutazione di questo (ad es. il socio non potrà essere sanzionato per
aver considerato male le conseguenze che sarebbero derivate dalla modifica dell’oggetto sociale, anche
qualora la scelta fosse stata avventata). L’ordinamento non gli impone neanche di partecipare alle
assemblee e di votare, neppure quando una delibera è vitale per la società. Ancora, la legge non si occupa
neanche dell’ipotesi in cui l’azionista persegue, con il proprio voto, un interesse extrasociale, finché questo
non entra in contrasto con quello sociale.
Il legislatore non sancisce però un obbligo di astensione a carico dell’azionista in caso di conflitto d’interessi,
disponendo che il suo voto costituisce causa di annullabilità della deliberazione solo quando: a) sia stato
determinante (c.d. prova di resistenza); b) abbia contribuito ad approvare una deliberazione idonea a
danneggiare la società.
Pertanto la disciplina normativa rimette al socio solo la decisione se astenersi o votare e il presidente
dell’assemblea non può mai estrometterlo dalla riunione, poiché si corre il rischio di annullamento della
deliberazione se il voto viene esercitato in direzione contraria all’interesse della società. Se ne deduce che il
gruppo di controllo, che si trovi in situazioni di conflitto di interessi, può deliberare legittimamente a
condizione di non assumere decisioni che arrechino danno al patrimonio sociale. In questo modo la
disciplina non incide sul piano sostanziale: ciò che rileva è che la decisione sia oggettivamente conforme con
l’interesse sociale e non con l’interesse esterno del socio.
L’idoneità a danneggiare la società deve comunque essere intesa in senso oggettivo e non va confusa con la
circostanza che l’azionista, attraverso un atto deliberativo, realizzi anche i propri personali interessi. Per
questa ragione la giurisprudenza ritiene che le delibere di nomine a cariche sociali siano valide, anche nel
caso in cui determinati azionisti abbiano votato per sé stessi.
L’unica ipotesi in cui il codice vieta il voto è quella stabilita dall’art. 2373, co.2, per i soci-amministratori
nelle delibere che riguardano la loro responsabilità. In queste ipotesi il socio è privo di legittimazione al
voto, per cui il presidente dell’assemblea ha il dovere di escluderlo dalla votazione, fermo restando il suo
diritto di partecipare alla discussione su materie che interessano la propria posizione.

Situazione diversa è quella che si determina se una deliberazione viene assunta dalla maggioranza per
danneggiare non la società, ma i soci in minoranza: tale situazione viene definita come abuso di
maggioranza.

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A questo riguardo, è accettata la tesi secondo cui la deliberazione assembleare deve rispettare il principio di
buona fede ed è annullabile per non conformità alla legge in caso di violazione.
Anche il dovere di correttezza funge da limite esterno alla liberà di esercizio del diritto di voto da parte
dell’azionista, sanzionando il comportamento del socio che persegue, con il voto, l’obiettivo di arrecare
danno agli altri soci.
La sanzione consiste nell’annullamento della delibera e nel risarcimento del danno a carico dell’azionista e
a favore dei soci danneggiati.
Accanto al problema dell’abuso di potere della maggioranza, vi è anche quello dell’abuso di potere della
minoranza, e cioè del caso in cui l’adozione della delibera sia impedita dal comportamento di alcuni soci,
finalizzato al raggiungimento di interessi extra sociali. Questo accade più facilmente nel caso in cui le
partecipazioni sono divise fra due soci in parti uguali, o nel caso di assemblee straordinarie di società
aperte, in cui si delibera con il voto favorevole di almeno due terzi del capitale presente, dal momento che il
socio detentore di più del terzo dello stesso può far rigettare qualsiasi proposta.
Anche in questo caso, l’azionista può essere mosso dall’intento di perseguire un interesse personale in
danno di quello sociale o per danneggiare altri soci contro il principio di buona fede.
Rispetto a tali situazioni, deve riconoscersi la responsabilità civile dell’azionista che abbia tenuto una
condotta abusiva. La giurisprudenza ritiene che non si possa annullare il voto e non si può attuare un
accertamento dell’approvazione della proposta sostenuta dal voto degli altri azionisti. L’impugnazione della
deliberazione negativa è inammissibile.
Appare però corretto negare all’autorità giudiziaria di poter sostituire la deliberazione invalida con quella
che sarebbe derivata se i soci di minoranza non avessero votato in senso contrario. L’annullamento delle
deliberazioni negative dovrebbe avere quindi solo l’esito di imporre che l’assemblea venga riconvocata sullo
stesso ordine del giorno.

Le deliberazioni assembleari possono essere viziate dalla violazione di norme che disciplinano le varie fasi
del procedimento deliberativo, o che riguardano il contenuto della delibera, determinandone l’invalidità.
Come nella disciplina dei contratti, il codice non regola il fenomeno unitario di invalidità, ma prevede due
figure diverse: l’annullabilità e la nullità. Mentre nella disciplina dei contratti costituisce un rimedio
speciale, nella disciplina societaria essa costituisce la categoria generale e residuale, cioè quella che si
applica per la gran parte delle fattispecie. L’annullabilità si determina non solo quando viene violata una
norma imperativa, ma anche quando viene violata una norma dispositiva o una clausola statutaria (art.
2377, co.2).
La nullità, a sua volta, si determina solo quando ricorre una delle tre cause tipiche previste dall’art. 2378:
l’illeceità o impossibilità dell’oggetto, la mancanza di convocazione e la mancanza di deliberazione.
L’annullabilità richiede un’impugnazione tempestiva (entro 90 giorni) e anche la nullità deve essere fatta
valere entro un dato termine, sebbene più lungo (3 anni), mentre vi sono addirittura delibere che, non
appena ne viene data esecuzione (come nelle operazioni di fusione, scissione e trasformazione), divengono
non impugnabili (e l’impugnazione eventualmente già promossa diviene improcedibile), allo scopo di
assicurare la stabilità dell’assetto organizzativo. La legittimazione ad impugnare l’annullabilità spetta, non a
tutti i soci, ma solo a chi detiene una determinata aliquota del capitale.

A. L’art. 2377 prevede due tipologie di cause di annullabilità.


In via generale, co.2, dispone l’annullabilità delle deliberazioni che non siano prese “in conformità
della legge o dello statuto”. La difformità della delibera dalla legge o dallo statuto può determinarsi
per la violazione di norme sostanziali o procedimentali.
Nel caso di vizi di contenuto, si determina un problema di distinzione dalla figura più grave della
“illiceità dell’oggetto”, che dà invece luogo a nullità. Non sussistono invece difficoltà di valutazione
se la disposizione di ordine sostanziale è di fonte statutaria o se la norma di legge violata è
derogabile, dovendosi in questo caso escludere la ricorrenza di un’illiceità dell’oggetto. Anche

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l’annullabilità per i vizi di procedimento, derivante dalla violazione di norme aventi fonte legale o
statutaria non pone problemi di distinzione con le cause di nullità, che sono circoscritte alle due
ipotesi di omessa convocazione e omessa verbalizzazione: qualunque altra violazione di norme
procedimentali, determina annullabilità e non nullità della deliberazione.
L’art. 2377, co.5, prevede poi delle ipotesi specifiche di annullabilità per le quali non è sufficiente la
mera sussistenza del vizio per determinare l’annullabilità della deliberazione, occorrendo invece che
il vizio superi una determinata soglia di rilevanza sostanziale: 1) la partecipazione all’assemblea di
persone non legittimate è causa di annullamento solo se, a seguito della c.d. prova di resistenza, la
partecipazione sia risultata determinante per il raggiungimento del quorum costitutivo; 2) lo stesso
vale per l’invalidità dei singoli voti (come un voto espresso in presenza di vizi di volontà: violenza,
dolo, errore) o per il loro errato conteggio da parte del presidente dell’assemblea; 3)
l’incompletezza o l’inesattezza del verbale sono invece cause di annullamento solo quando
impediscono l’accertamento del contenuto, degli effetti o della validità della delibera.
B. La legittimazione ad impugnare le deliberazioni annullabili spetta, innanzitutto, ai soci assenti,
dissenzienti o astenuti che avevano diritto di voto sulle materie oggetto della deliberazione. Il
nuovo art. 2352, ult.co., ha poi risolto un vecchio problema, stabilendo che i diritti amministrativi
diversi dal voto, fra cui l’impugnazione, spettano sia al socio, sia al creditore pignoratizio o
all’usufruttuario; mentre nel caso di sequestro delle azioni, spettano unicamente al custode.
Vi è però un limite alle impugnative dei piccoli soci, in quanto la legittimazione ad impugnare spetta
solo a minoranze qualificate, che detengono determinate quote di capitale (5% del capitale sociale,
ridotto all’uno per mille nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio). Lo statuto
può tuttavia escludere o ridurre questo requisito. La soglia minima può essere raggiunta anche
sommando una pluralità di domande presentate separatamente.
I soci che non rappresentano la parte di capitale necessaria per essere legittimate a impugnare la
deliberazione assembleare “hanno diritto al risarcimento del danno cagionatogli dalla non
conformità della deliberazione alla legge o allo statuto”.
La legittimazione all’azione di annullamento è data pure agli amministratori e al collegio sindacale.
L’impugnativa attribuita agli organi della società è oggetto di un potere/dovere, che persiste anche
nel caso in cui la deliberazione sia stata approvata all’unanimità dai soci, e deve essere esercitata
valutando la concreta possibilità di pregiudizio per l’interesse sociale.
C. Il termine per l’impugnativa è di novanta giorni e decorre dalla data della deliberazione, o
dall’iscrizione nel registro delle imprese, o dalla data del deposito nel registro se la delibera è
soggetta solo a tale obbligo.
D. Con riferimento al procedimento di impugnazione, l’azione si propone mediante atto di citazione
notificato alla società.
La proposizione dell’azione non sospende l’esecuzione della delibera da parte degli amministratori,
ma la sospensione cautelare può essere disposta dal tribunale su richiesta degli attori se
l’impugnazione appare sorretta da valide ragioni e se sussiste il rischio di grave pregiudizio per le
ragioni dell’istante nel periodo che occorre per definire il giudizio di merito con sentenza: il giudice,
in particolare, dovrà valutare comparativamente il pregiudizio che riceverebbe la società
dall’eventuale sospensione cautelare (ad es. mancato afflusso di risorse in caso di sospensione della
delibera di aumento di capitale), con il pregiudizio che riceverebbe il ricorrente dall’esecuzione della
delibera (ad es. perdita di titolarità delle azioni) e che può essere anche di tipo indiretto, per il
danno che la società stessa può subite dalla deliberazione impugnata.

A. Le cause di nullità delle deliberazioni assembleari sono previste dall’art. 2379, co.1, e sono tre: una
di tipo sostanziale, e cioè la illiceità o impossibilità dell’oggetto; due di tipo procedimentale, e cioè
la mancata convocazione dell’assemblea e la mancata verbalizzazione della deliberazione.

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i. L’illiceità dell’oggetto pone il problema di distinguere tale figura dalla non conformità
della deliberazione alla legge. La giurisprudenza indica come criterio generale di
distinzione tra delibere nulle e annullabili per vizi sostanziali quello dell’interesse
tutelato dalla norma violata: sono nulle le delibere che costituiscono violazione di
norme inderogabili poste nell’interesse generale, mentre sono semplicemente
annullabili quelle che costituiscono una violazione di norme, anche inderogabili, ma
poste nell’interesse e a tutela dei soci.
ii. Riguardo la mancata convocazione dell’assemblea, il vizio è causa di nullità solo se è
assoluto e sostanziale. Questo vizio si verifica per il semplice fatto che anche uno solo
dei soci, avente diritto al voto, non sia avvertito nelle forme minime previste. La
convocazione non è invece “omessa”, ma solo irregolare se l’avviso non rispetta i
termini di convocazione o se manca di alcuni contenuti tipici della legge o dello statuto.
In particolare, affinché la convocazione possa essere solo irregolare e non mancante,
occorre che sia ricevuto prima dello svolgimento dell’assemblea, da ciascuno degli
aventi diritto al voto, un avviso proveniente da almeno un componente dell’organo di
amministrazione o controllo, che contenga almeno la data dell’assemblea, per far sì che
l’azionista non venga colto di sorpresa da una decisione adottata in sua insaputa.
iii. La mancanza del verbale è causa di nullità solo se consiste nell’assoluta mancanza di un
documento, sottoscritto “dal presidente dell’assemblea, o dal presidente del consiglio di
amministrazione o del consiglio di sorveglianza e dal segretario o dal notaio”, e
contenente almeno l’indicazione dell’oggetto e della deliberazione assunta
dall’assemblea. La mancata indicazione degli elementi di cui all’art. 2375, può essere
solo causa di annullabilità. Si avrà semplice annullabilità anche se il verbale è
sottoscritto dai soggetti indicati ma sia privo della sottoscrizione del presidente
dell’assemblea o del segretario.
In questi casi si può proporre un’azione volta ad accertare il contenuto della delibera
che sostituisca la verbalizzazione irregolare.
La nullità, invece, è santa con effetto retroattivo se la verbalizzazione interviene prima
dell’assemblea successiva, salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede.
B. La legittimazione all’impugnazione spetta a chiunque vi abbia interesse compresi i soci che hanno
votato a favore della deliberazione. La nullità può essere rilevata anche d’ufficio dal giudice.
C. Le deliberazioni nulle possono essere impugnate nel termine di tre anni dall’iscrizione o dal
deposito nel registro delle imprese, se previsti dalla legge, o in caso contrario, dalla trascrizione nel
libro delle adunanze dell’assemblea.
D. Un problema di ordine generale è quello relativo alla permanenza o meno del principio di
inefficacia originaria dell’atto nullo, in base al quale la nullità opera ex tunc (“da allora”) e la
sentenza ha natura di mero accertamento. Sugli amministratori grava l’obbligo di non dare
esecuzione alle deliberazioni nulle, indipendentemente dall’intervento dell’autorità giudiziaria.
La mancata impugnazione nei termini di legge determina, invece, la sopravvenuta efficacia della
delibera.
E. Per quanto riguarda gli effetti della sentenza di nullità, la sentenza di nullità non pregiudica i diritti
acquisiti dai terzi in buona fede. La nullità inoltre è sanabile, mediante apposita sostituzione con
un’altra delibera assembleare.

§55. Gli amministratori

Nel sistema tradizionale di amministrazione e controllo, la gestione dell’impresa societaria è affidata


all’organo amministrativo, che può essere a composizione unipersonale (amministratore unico) o
pluripersonale (consiglio di amministrazione). Gli amministratori hanno una competenza esclusiva

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sull’attività di gestione e quindi sul compimento di tutte le operazioni volte ad attuare l’oggetto sociale.
La competenza esclusiva dell’organo amministrativo è inderogabile e può essere limitata solo nei casi
previsti dalla legge (art. 2410, co.1, e 2447-ter, co.2).
L’assemblea, invece, non ha poteri decisionali in materia gestoria e sulla gestione può incidere solo
indirettamente grazie a: i) potere di scelta dei “governanti” dell’impresa; ii) potere di controllo; iii) potere
normativo; iv) potere autorizzatorio su singoli atti di competenza degli amministratori attribuito dallo
statuto.
Questa regola di divisione dei poteri all’interno dell’organizzazione societaria è dettata dall’ordinamento che
intende dare certezza ed efficienza al governo dell’impresa, rafforzando il ruolo del potere esecutivo
interno. I soci possono scegliere fra i diversi modelli di governo dell’impresa legalmente tipici, ma non
possono crearne varianti atipiche.

L’assemblea ordinaria nomina con propria deliberazione i candidati alla carica gestoria. Lo statuto fissa la
composizione numerica, ossia l’assemblea.
La competenza assembleare per la nomina è sancita dagli art. 2364, n.2, e 2383, co.1, in base a un principio
fondamentale, inderogabile dagli statuti.
Il codice civile fissa, inoltre, alcune deroghe che prevedono la possibilità di nomine separate:

- l’art. 2351, ult.co., consente che lo statuto attribuisca il potere di nomina di un consigliere
indipendente ai portatori di strumenti finanziari partecipativi;
- l’art. 2449, prevede la possibilità che lo statuto assegni il potere di nomina esterna di “un numero di
amministratori”, purché “proporzionale alla partecipazione al capitale sociale”, ad enti pubblici
titolari di partecipazioni in s.p.a. che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio. Laddove le
società fanno ricorso a tale mercato, tale possibilità è ammessa solo a favore dell’ente che sia
portatore di strumenti finanziari partecipativi (c.d. golden share).

In materia di nomina degli amministratori, non sono stabilite norme generali a tutela delle minoranze, in
quanto la maggioranza assembleare può legittimamente nominare l’intero consiglio di amministrazione.
Solo nelle società quotate, il modello legale impone sistemi di nomina di amministratori “di minoranza”.
Tuttavia l’art. 2368, co.1, prevede che “per la nomina alle cariche sociali, lo statuto può stabilire norme
particolari”, in vario modo:

- stabilendo norme volte a garantire la c.d. rappresentanza delle minoranze;


- richiedendo che la composizione interna dell’organo amministrativo rispetti determinati requisiti di
professionalità dei singoli membri;
- fissando norme volte a garantire l’indipendenza dei componenti del c.d.a.

Sono conosciute dalla pratica anche delle tecniche volte ad assicurare la “rappresentanza” delle minoranze
in consiglio di amministrazione.
Ricorrono innanzitutto delle clausole sui sistemi di nomina che presuppongono una certa composizione
della compagine sociale. In particolare:

- nomina di uno o più amministratori per “gruppi” di azioni, sia con sistemi di votazioni separate
all’interno dell’assemblea generale, sia con designazioni separate e successiva “approvazione” in
assemblea generale, sia tramite “assemblee separate” che deliberano autonomamente
dall’assemblea generale;
- fissazione di requisiti di eleggibilità degli amministratori.

Altre tecniche non perdono di funzionalità al mutare degli assetti della compagine azionaria:

- modifiche statutarie ai quorum assembleari, con la previsione di maggioranze qualificate per la


delibera di nomina;
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- sistemi elettorali con temperamento della regola di maggioranza (c.d. voto cumulativo, voto limitato
e voto scalare);
- c.d. voto di lista.

L’elezione con scrutinio di lista è la tecnica maggiormente diffusa nella pratica per consentire la nomina di
“rappresentanti di minoranza” tanto da essere imposto dal legislatore l’adozione per le società quotate.
Questa tecnica prevede di presentare più liste di candidati e consente di trarre gli amministratori da
eleggere non solo dalla lista maggiormente votata, ma anche da quella seconda per numeri di voti ricevuti.
Quindi nelle società quotate è stabilito che almeno un componente del c.d.a. deve essere espresso da una
lista di minoranza.

Possono essere nominati amministratori di s.p.a. sia soci, sia terzi, che non siano soci (art. 2380-bis, co.2).
Lo statuto però potrebbe scegliere di limitare l’eleggibilità ai soli soci.
I soci trovano tuttavia dei limiti nella scelta degli amministratori. Infatti l’ordinamento prevede delle cause
legali di ineleggibilità e di decadenza dalla carica, quali l’incapacità legale, il fallimento e le condanne penali
che comportano l’interdizione dagli uffici pubblici o privati.
La nomina del soggetto ineleggibile è nulla (art. 2379), e se la causa di ineleggibilità sopravviene,
l’amministratore decadrà automaticamente dal suo ufficio.
Il modello legale non prevede requisiti di professionalità e onorabilità per gli amministratori di tutte le
s.p.a., ma solo per quelle quotate o per alcune società a statuto speciale.
Ulteriori requisiti di professionalità/onorabilità possono essere stabiliti, però, dallo statuto in tutte le s.p.a.,
anche diversificandoli in base alla funzione svolta dall’amministratore una volta eletto.
In aggiunta ad essi, sono imposti ad alcuni amministratori anche requisiti di “indipendenza” nei confronti
degli azionisti di controllo e del management. Sia nelle società a statuto speciale che in quelle quotate, ai
consigli di amministrazione devono appartenere o un consigliere indipendente, o due se il consiglio è
composto da più di sette componenti. In tutte le s.p.a., poi, gli statuti possono prevedere che uno o più
amministratori siano indipendenti rispetto agli azionisti e agli altri amministratori.
Il requisito dell’indipendenza è volto a migliorare gli standard di affidabilità sulla correttezza dei gestori,
tramite la vigilanza affidata ad amministratori dotati di un’autonomia di giudizio a fronte di situazioni di
conflitto di interessi in cui siano convolti o il gruppo di controllo o gli altri amministratori.
L’amministratore indipendente deve rimanere tale per tutta la durata della carica. Infatti “l’amministratore
indipendente che, successivamente alla nomina, perda i requisiti di indipendenza, deve darne
comunicazione al consiglio di amministrazione e decade dalla carica”.

Per l’ipotesi di concorrente chiamato alla carica di amministratore, l’art. 2390 contiene un divieto di
concorrenza, sancito a carico di determinati soggetti.
Tale divieto viene in rilevo solo con riferimento ad un’attività svota in altra impresa in concorrenza attuale o
potenziale con quella svolta dalla società. Esso, quindi, vieta espressamente all’amministratore l’esercizio di
impresa individuale, di attività concorrente per conto altrui, l’assunzione di qualità di socio illimitatamente
responsabile, e l’assunzione della qualità di amministratore o direttore generale di altra impresa.
Però è possibile un’autorizzazione in deroga al divieto, che deve essere assunta da una delibera formale
dell’assemblea ordinaria, senza necessitare di una specifica motivazione.
L’eventuale violazione di tale divieto, può esporre l’amministratore a revoca per giusta causa e a
risarcimento dei danni.

L’assunzione della carica di amministratore non è automatica, ma richiede un atto di accettazione, che può
essere anche tacito.
L’art. 2383, co.4, fissa gli adempimenti pubblicitari della nomina nel registro delle imprese, richiedendo
l’iscrizione dei dati anagrafici nel termine di trenta giorni dalla notizia della nomina, a cura di ciascun
amministratore. Tale termine decorre dal momento dell’accettazione da parte dell’eletto. La stessa

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pubblicità vale anche in caso di cessazione della carica.


E’ negato alla persona giuridica di essere nominato come amministratore.
Possono però, al contrario, essere amministratori anche soggetti non investiti formalmente dalla carica con
un atto di nomina seguito dall’accettazione. Si tratta dell’amministratore di fatto, ossia un soggetto (spesso
l’azionista di maggioranza) che si inserisce nella gestione della società (con investitura tacita, cioè con piena
consapevolezza e consenso da parte degli azionisti) che svolge compiti amministrativi e talvolta anche
rappresentativi, se munito di procure speciali provenienti dagli amministratori di diritto della società. In
questo caso la giurisprudenza riconosce che l’amministratore di fatto abbia gli stessi poteri e le stesse
responsabilità (civile e penale) proprie dell’amministratore di diritto.

La durata massima della carica è di tre anni (art. 2383, co.2). La norma è inderogabile, restando quindi
inammissibili amministratori a vita o in posizione privilegiata al mantenimento della carica.
Non è però sancita una regola di necessaria contemporaneità della data di cessazione delle cariche, ma lo
statuto può imporre la sincronicità dei mandati gestori, specie per garantire l’effettività dei sistemi di
nomina di amministratori “di minoranza”.
L’amministratore cessa dalla carica anzitutto per i) scadenza del termine, ma può cessare anzitempo anche
per altre cause: ii) rinunzia (c.d. dimissioni); iii) revoca; iv) cause di decadenza previste ex lege (art. 2382) o
dallo statuto; e v) decesso.
Dove interviene la cessazione di uno o più amministratori per tali cause, la disciplina tende a salvaguardare
l’efficienza dell’organizzazione societaria, ovviando a soluzioni di continuità dell’esercizio della funzione
amministrativa.

i. Con riguardo alla scadenza del termine, l’art. 2385, co.2, fissa la regola della illimitata
prorogatio dell’organo amministrativo (cioè della permanenza in carica) fino alla sua
sostituzione da parte dell’assemblea.
ii. Le c.d. dimissioni dell’amministratore sono ammesse dalla legge e non richiedono la
forma scritta ad substantiam. Non necessitano neanche di una giustificazione, né
comportano alcun obbligo di indennizzo verso la società.
La rinunzia ha effetto immediato e una volta comunicata non può essere revocata. La
regola dell’effetto immediato è però derogata quando comporta una paralisi dell’organo
amministrativo, o per il venir meno della maggioranza dei componenti in carica, o nel
caso in cui il dimissionario sia amministratore unico. In questi casi, la rinunzia ha effetto
solo dal momento della sostituzione dell’organo amministrativo o nel momento in cui
viene ricostituita la maggioranza degli amministratori.
iii. La revoca dell’amministratore, invece, può essere esercitata, senza limiti, da parte
dell’assemblea ordinaria. Sono prevista anche ipotesi di revoca di diritto (art. 2393,
co.5) e di revoca giudiziale (art. 2409, co.4). Eccezione a tale regola è che il potere di
revoca dell’amministratore nominato da enti pubblici, è attribuito solo all’ente pubblico
stesso che ha effettuato la nomina.
La delibera di revoca non richiede alcuna motivazione e la sua efficacia non è
subordinata alla sussistenza di una giusta causa. La mancanza di giusta causa, però, dà
luogo al diritto al risarcimento del danno a favore dell’amministratore revocato.

Se nel corso del mandato vengono a mancare uno o più amministratori, per cause diverse dalla revoca
assembleare, soccorre la disciplina della sostituzione degli amministratori.
In particolare, in caso di cessazione di uno o più consiglieri, ma solo se rimane in carica la maggioranza
degli amministratori di nomina assembleare, l’art. 2386 prevede il potere di cooptazione (scelta) di membri
del consiglio di amministrazione, con deliberazione del consiglio stesso, la quale deve essere approvata dai
sindaci.
L’amministratore cooptato dura in carica fino all’assemblea immediatamente successiva alla nomina, la
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quale potrà confermarlo.


Quando però viene meno la maggioranza degli amministratori nominati dall’assemblea, quelli rimasti in
carica devono convocare l’assemblea per la sostituzione dei mancanti.
In mancanza di diversa disposizione, il componente cooptato, e confermato dall’assemblea, scadrà dalla
carica contemporaneamente alla scadenza del mandato di quei consiglieri che si trovavano in carica all’atto
della sua nomina.

L’organo amministrativo può avere una composizione numerica varia, da una a più persone, secondo le
indicazioni dello statuto, che può anche limitarsi a fissare un numero minimo e massimo, chiedendone la
determinazione all’assemblea ordinaria.
Il numero minimo degli amministratori può anche corrispondere ad un solo amministratore, lasciando così
all’assemblea la scelta tra amministrazione monocratica o collegiale.
Tuttavia nelle s.p.a. quotate, deve prevedersi necessariamente un c.d.a., con amministratore di minoranza
e/o indipendente.

Se gli amministratori sono più di uno, essi costituiscono il consiglio di amministrazione, e l’amministrazione
dovrà allora essere attuata con metodo collegiale. Questo significa che le deliberazioni dovranno rispettare
questo metodo e dovranno avere come criterio decisionale quello di maggioranza.
Fondamentalmente, per il buon funzionamento dell’organo consiliare vi è la figura del presidente del
consiglio di amministrazione che può essere nominato direttamente dall’assemblea o essere eletto dal
consiglio stesso fra i suoi componenti.
Con riguardo alle sue competenze, il presidente del consiglio di amministrazione ha un ruolo centrale: a lui
spettano i) la convocazione dell’organo; ii) la fissazione dell’ordine del giorno; iii) la direzione della
discussione; iv) la proclamazione dei risultati della votazione; v) la verbalizzazione dove non sia previsto
l’intervento del notaio. Tra le funzioni tradizionali del presidente, vi è anche quella di curare la corretta
informazione di tutti i componenti dell’organo, ai fini della ponderata adozione delle deliberazioni.
Nel definire i poteri organizzativi del presidente, la disciplina ha formalizzato anche le fasi del procedimento
deliberativo.

i. La convocazione di tutti i consiglieri è essenziale per la legittimità della deliberazione


nelle forme previste dallo statuto. Essa è disposta dal presidente che emana un avviso,
ma ciascun componente ha il potere di richiedere che venga convocato il consiglio dal
presidente.
ii. L’avviso deve contenere l’ordine del giorno, che non è derogabile da parte del
consiglio.
iii. Il consiglio adotta le proprie deliberazioni con i quorum fissati dall’art. 2388, co.1. In
particolare con il quorum costitutivo della “presenza della maggioranza degli
amministratori in carica” e con il quorum deliberativo della “maggioranza assoluta dei
presenti”.

Le deliberazioni del consiglio di amministrazioni possono essere impugnati in caso di non conformità alla
legge o allo statuto (art. 2388, co.4).
La disciplina non distingue tra casi di nullità e annullabilità: tutti i possibili vizi delle deliberazioni consiliari
integrano sempre una causa di annullabilità, da far valere nel termine di novanta giorni dalla data della
deliberazione.
La legittimazione ad impugnare è attribuita agli amministratori assenti o dissenzienti o astenuti e al collegio
sindacale, per impedire la produzione di un danno alla società.
Anche il singolo socio è legittimato ad impugnare la deliberazione qualora sia lesiva dei suoi diritti, cioè
quando pregiudica situazioni soggettive che nascono all’interno dell’organizzazione societaria.

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Le funzioni amministrative possono essere delegate dal consiglio ad uno o più dei propri componenti (c.d.
amministratori delegati) o ad un collegio ristretto composto sempre dai propri componenti denominato
comitato esecutivo.
Questa opzione vede l’organo amministrativo articolarsi in un plenum (riunione planetaria), con funzioni di
controllo e indirizzo e in un nucleo delegato: appunto l’amministratore delegato o anche più amministratori
delegati, che possono essere chiamati a formare un comitato esecutivo. A questo organo è affidata non solo
la gestione complessiva, a cominciare dal day-by-day management, ma anche la predisposizione delle linee
strategiche dell’impresa che poi devono essere oggetto d’esame del consiglio.
Il plenum del consiglio, rimanendo titolare della funzione amministrativa, anche se non esercita
direttamente le funzioni gestorie delegate, avrà comunque il dovere di vigilare sull’operato del delegato e
di intervenire dove occorra, con diverse conseguenze in base a presupposti di responsabilità dei consiglieri
deleganti e dei consiglieri delegati, se questi ultimi abbiano compiuto atti di mala gestio nelle materie loro
delegate ai danni della società, dei creditori, dei singoli soci e dei terzi.
La delega è soggetta all’autorizzazione di un’apposita clausola statutaria o di una deliberazione
dell’assemblea ordinaria, ed è attribuita con delibera consiliare, che dovrà determinare il “contenuto” e i
“limiti” della delega; inoltre è esclusa l’ammissibilità di una delega generica che non contiene la
determinazione dei poteri delegati; mentre è ammissibile una delega generale.
Alcune competenze rimangono però non delegabili (come la redazione del progetto di bilancio, l’aumento
del capitale) e riservate al consiglio, senza possibilità di deroghe.
Gli organi delegati hanno comunque competenze ex lege, derogabili a favore della competenza del
consiglio. Il co.5 dell’art. 2381, dispone infatti che “gli organi delegati curano che l’assetto organizzativo,
amministrativo e contabile, sia adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa”.
L’organo delegato ha anche la competenza di deliberare sui “piani strategici industriali e finanziari della
società”, che il consiglio esamina. Fatta salva la diversa disposizione statutaria, il consiglio può limitarsi ad
una presa dell’atto, o all’espressione di un parere o anche a procedere all’approvazione, alla modifica
parziale o totale, dei piani dell’amministratore delegato.
La delega, come già detto, può anche essere fatta ad un organo collegiale che prende il nome di comitato
esecutivo. Non è però esclusa la previsione di più comitati interni, che non sono titolari di deleghe
amministrative, ma hanno funzioni solo istruttorie all’attività deliberativa.
Il consiglio mantiene una competenza concorrente e sovraordinata sulle materie delegate, e ha il dovere di
impedire direttive ai delegati e di avocare a sé la decisione su singole operazioni rientranti in materie
delegate, come pure di disporre la revoca della delega in qualsiasi momento, senza necessità di
giustificazione. Dunque, nell’insieme, il consiglio conserva tali poteri/doveri: a) indirizzo; b) avocazione
(sospensione della delega per singoli atti); c) sostituzione; d) controllo.
In base alle funzioni di controllo, l’art. 2381 sancisce delle regole di corretta circolazione delle informazioni
all’interno del consiglio.
Gli amministratori delegati hanno l’obbligo di fornire regolarmente informazioni essenziali agli altri organi
sociali con periodicità non inferiore a sei mesi (tre mesi nelle quotate), sul generale andamento della
gestione e sulla sua prevedibile evoluzione, nonché sulle operazioni di maggior rilievo effettuate dalla
società e dalle sue controllate. Si tratta quindi di un obbligo di reporting che ogni delegato deve adempiere
nell’ambito dell’area gestionale affidata alla sua cura.
L’obbligo di vigilanza del consiglio è fissato dalla disposizione per cui il consiglio “valuta sulla base della
relazione degli organi delegati, il generale andamento della gestione”.
L’attività valutativa del consiglio è estesa a tutti gli elementi contenuti nei rapporti periodici dei delegati. La
disciplina impone anche a tutti gli amministratori un obbligo di “agire in modo informato” e li rende
responsabili per non avere assunto le opportune iniziative, in relazione alle informazioni possedute, avendo
il singolo amministratore l’obbligo di attivarsi per impedire il realizzarsi di eventi dannosi.

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Gli amministratori, diversamente dai soci, non sono titolari di un interesse, ma gestori di un interesse altrui,
e come tali sono soggetti a regole di comportamento che attengono all’obbligo di diligente gestione, e
all’obbligo del perseguimento dell’interesse sociale.
Può accadere, tuttavia, che l’amministratore si trovi ad essere latore (che si assume un incarico) di interessi,
per conto proprio o altrui, diversi da quello sociale. Al fine quindi di prevenire distorsioni nell’esercizio del
proprio compito, l’ordinamento predispone una disciplina (art. 2391), inderogabile dagli statuti e rafforzata
da tutela penale, che impone obblighi di trasparenza a carico degli amministratori stessi, che dovranno
informare sia tutti gli altri componenti dell’organo di gestione, sia i sindaci, nei casi in cui siano portatori di
interessi personali, per conto proprio o di terzi.
L’obbligo di comunicazione agli altri amministratori e ai sindaci si aggrava, divenendo un vero e proprio
obbligo di astensione, quando la situazione si presenta in capo ad un amministratore delegato. In questo
caso, questi ha l’obbligo di informare l’organo, e dovrà poi conformarsi alla sua decisione.
Se portatore di interesse è invece l’amministratore unico, questi non è obbligato ad astenersi, ma solo a
comunicare ai sindaci la situazione in cui si ritrova per poi “darne notizia anche alla prima assemblea utile”.
Il consigliere latore dell’interesse, oltre all’obbligo di informare, ha anche quello di votare in modo non
pregiudizievole all’interesse della società. Non è invece obbligatoria l’astensione al voto.
Una volta informato, il consiglio, per deliberare in presenza di un interesse di un amministratore, ha
l’obbligo di adeguata motivazione della deliberazione: deve quindi esplicitare “ragioni e convenienze” della
deliberazione per la società e dovranno indicarsi sia i presupposti della deliberazione, sia le sue finalità.
La delibera assunta in violazione della disciplina è invalida. In caso di mancato adempimento degli obblighi
sia di comunicazione che di motivazione, o voto determinante dell’amministratore interessato, la delibera è
soggetta ad impugnazione, entro 90 giorni, ma solo quando possa arrecare danno alla società.
La pronuncia di invalidità deve essere supportata dall’interesse concreto e attuale della società a rimuovere
gli effetti di una decisione su una data operazione, per violazione della disciplina.
Resta ferma comunque la tutela risarcitoria per violazione della disciplina sugli interessi degli
amministratori, anche per il danno da lucro cessante. La tutela risarcitoria sussiste anche nell’ipotesi in cui
l’amministratore si approfitti, nell’interesse personale o di terzi, di informazioni che ha acquisito
nell’esercizio delle sue funzioni all’interno della società (c.d. corporate opportunities).

Una disciplina speciale, che rafforza le cautele sugli interessi degli amministratori, si applica solo alle società
che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio. Essa si sostanzia in un obbligo di informazione al
mercato e in un obbligo di istruttoria per i casi in cui il rischio di decisioni in conflitto di interessi è
maggiore, che ricorre tutte le volte in cui l’organo amministrativo deliberi di realizzare un’operazione
economica che ha come controparti soggetti particolarmente “prossimi” alla società e che la disciplina
qualifica come “parti correlate” (art. 2391-bis).
Essa comprende soggetti che appartengono all’area del controllo e del collegamento societario, a quella dei
dirigenti con responsabilità strategiche, e infine a quella dei soggetti “vicini” ai precedenti per legami
personali.
“Un’operazione con una parte correlata è un trasferimento di risorse, servizi o obbligazioni,
indipendentemente dal fatto che sia stato pattuito un corrispettivo”.

L’esercizio delle funzioni dell’amministratore avviene normalmente a titolo oneroso: il diritto al compenso
dell’amministratore nasce direttamente ex lege e non richiede apposita clausola statutaria, né deliberazioni
assembleari.

a) I compensi agli amministratori sono stabiliti, in via generale, dalla stessa assemblea che li nomina;
b) I compensi del comitato esecutivo possono essere stabiliti direttamente dall’assemblea o dal
consiglio all’atto di nomina;

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c) I compensi degli amministratori “investiti di particolari cariche in conformità allo statuto” e cioè del
presidente e degli amministratori delegati, sono stabiliti dal consiglio di amministrazione, all’atto
della nomina o della delega, previo parere del collegio sindacale.

La compensazione esige un grado di trasparenza: nelle società non quotate essa è moderata, dovendosi
indicare nella nota integrativa solo l’ammontare cumulativo dei compensi degli amministratori e non
dovendo dare alcuna indicazione al riguardo in caso di bilancio redatto in forma abbreviata.
L’esigenza di trasparenza trova maggiore tutela nelle società quotate, dove è necessaria l’indicazione dei
compensi percepiti da ciascun componente.
Il co. 2 dell’art. 2389 prevede espressamente che il compenso degli amministratori può essere costituito da
una partecipazione agli utili conseguiti dalla società, o dal diritto di opzione alla sottoscrizione o
all’acquisto di azioni.

La società opera all’esterno attraverso persone fisiche. Quindi è necessario individuare una o più persone
che abbiano il potere di agire in nome e per conto della società.
Si distingue, a tale proposito, fra rappresentanza organica (o statutaria) e rappresentanza volontaria.
La forma di rappresentanza volontaria è eventuale ed è disciplinata da mere regole generali. Si tratta di una
rappresentanza di secondo grado che può essere conferita con una procura speciale da parte del
rappresentante statutario. Se la società è anche titolare di un’impresa commerciale, vi è poi anche la
possibilità, oltre a quella di rappresentanza fondata su procura speciale, di una rappresentanza a contenuto
più o meno ampio, derivante da altre regole relative alla rappresentanza commerciale.
La rappresentanza organica, invece, è necessaria per la società per poter agire all’esterno, e trova disciplina
nell’art. 2384. Tale potere di rappresentanza può essere attribuito solo ad uno o più amministratori, con
indicazione inserita nello statuto che gli stessi amministratori potrebbero modificare su delega statutaria.
Qualora siano individuati più amministratori come rappresentanti, lo statuto stesso preciserà se il potere di
rappresentanza è attribuito in via congiuntiva o disgiuntiva.
Per i rappresentanti statutari vige una disciplina di particolare tutela dei terzi contraenti, secondo una
normativa caratterizzata da una tutela sempre più estesa dell’affidamento dei terzi. La regola presuppone
che il rappresentante statutario è necessariamente rappresentante generale e che gli eventuali limiti
statutari dell’ambito della rappresentanza non sono opponibili, anche se pubblicati nel registro delle
imprese, tranne al terzo che abbia intenzionalmente agito a danno della società (c.d. exceptio doli). Ai limiti
statutari sono equiparati quelli disposti con delibera assembleare una tantum, con riferimento a
determinate operazioni.
Nella stessa disciplina rientra il diverso caso in cui l’atto compiuto dal rappresentante non sia tanto il
violazione di espressi e precisi limiti statutari, ma risulti persino estraneo all’oggetto sociale (c.d. atto ultra
vires), in quanto esso costituisce un limite implicito ai poteri di rappresentanza statutari. La società
potrebbe opporre il superamento al terzo solo nella misura in cui rientri nella specie dell’exceptio doli.
La norma protegge i terzi non solo nel caso di vizio del potere rappresentativo derivante dalla violazione di
clausole statutarie, ma anche nel caso di limiti legali, in cui il vizio sia costituito dalla violazione di una
norma di legge.
Diverso trattamento riceve l’atto compiuto dal rappresentante in situazione di conflitto d’interessi, che
trova un regime speciale più severo per il terzo, in quanto entra in gioco la disciplina dell’annullabilità tutte
le volte in cui il rappresentante abbia agito in conflitto di interessi, senza il supporto di una delibera
autorizzativa del consiglio di amministrazione.

Le regole generali sulla responsabilità civile degli amministratori per violazione di obblighi inerenti al proprio
ufficio sono dettate dagli artt. 2392 ss. Lo schema tradizionale della disciplina prevede tre ipotesi di
responsabilità civile: verso la società, verso i creditori sociali e verso i singoli soggetti.

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La responsabilità civile verso la società è la più importante perché spesso ingloba le altre. La responsabilità
degli amministratori verso la società è un tipo di responsabilità contrattuale, per inadempimento
dell’obbligo di corretta amministrazione e in particolare per violazione dei doveri ad essi imposti dalla legge
e dallo statuto, a cui devono adempiere con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro
specifiche competenze (art. 2392, co.1). Il danno risarcibile si ritrova in tutti i casi in cui la cattiva gestione
porti ad un deterioramento dello stato patrimoniale o del conto economico della società.
La responsabilità contrattuale degli amministratori è fondato su un criterio di colpevolezza.
In proposito, dalla disciplina emerge una distinzione fra l’obbligo generale di diligenza, in cui il
comportamento dovuto non è dettato dalla legge ma si determina alla stregua dei criteri della negligenza,
imprudenza ed imperizia, e gli obblighi specifici di diligenza per i quali il comportamento dovuto è tipizzato
dalla legge e quindi la colpa dell’amministratore si integra per il solo fatto di non aver adempiuto al
comportamento imposto dalla legge.
La distinzione ha come conseguenza l’onere della prova in giudizio.
La colpa dell’amministratore nella violazione dell’obbligo generale di diligenza va valutata secondo tre
criteri: negligenza, imprudenza e imperizia.
Con riguardo all’imprudenza, l’obbligo di diligente gestione si dirà violato solo quando l’amministratore
abbia fatto scelte assolutamente irrazionali e incompatibili con la logica d’impresa.
Se si rileva che vi sia stata violazione del dovere generale di diligenza, la prova della colpa deve essere data
dalla società attrice.
Se, invece, si rileva la violazione di un obbligo specifico di diligenza, l’onere della prova a carico della società
attrice consisterà solo nella prova dell’inadempimento e non anche della colpevolezza. Secondo le regole
generali colpevolezza sussiste nel caso in cui si dimostri che il comportamento degli amministratori ha
implicato l’inosservanza di norme giuridiche o tecniche. Resta però sempre salva la prova dell’errore
scusabile da parte dell’amministratore convenuto, il quale sarà esente da responsabilità se dimostra una
causa che ha reso impossibile l’adempimento o dimostri un “fatto impeditivo” dell’adempimento.
La responsabilità degli amministratori è poi solidale e si estende ai c.d. amministratori di fatto.
In proposito la disciplina distingue tra una responsabilità diretta di ciascun consigliere di amministrazione,
che sorge per gli atti di competenza del consiglio di cui fa parte, ed una responsabilità per omessa o
difettosa vigilanza, che può addebitarsi al singolo consigliere non delegato rispetto ad atti di competenza di
amministratori delegati.
Al riguardo, agli amministratori è imposto un obbligo di intervento tutte le volte sia a conoscenza di fatti
pregiudizievoli per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose.
Il singolo amministratore può però sottrarsi dal vincolo di solidarietà nella responsabilità con gli altri
amministratori dando la prova contraria, dimostrando di essere estraneo al vincolo di solidarietà in ragione
della lontananza che separa il singolo comportamento dannoso compiuto da un altro amministratore,
rispetto alla sfera di funzioni che gli competono o al proprio ambito di competenze professionali.
Anche se l’amministratore non è in grado di sottrarsi al vincolo di solidarietà, dispone comunque di un
mezzo per separare la propria posizione dagli atti produttivi di responsabilità, rispettando la procedura di
dissociazione prevista dal co. 3 dell’art. 2392. Tale procedura lo esonera da responsabilità a tre condizioni: i)
che faccia annotare il suo dissenso senza ritardo nel libro delle adunanze del consiglio; ii) che informi
immediatamente del suo dissenso il presidente del collegio sindacale; iii) che l’amministratore che si sia
dissociato risulti effettivamente esente da colpe. Sotto quest’ultimo aspetto, quindi, non deve essere
rimasto inadempiuto né l’obbligo di agire informati di ciascun amministratore, né l’obbligo di vigilanza e di
intervento dei consiglieri non delegati sugli organi delegati.

L’azione sociale di responsabilità necessita di deliberazione dell’assemblea ordinaria, anche se non è


indicato nelle materie da trattare (art. 2393, co.2) in deroga del principio per cui l’oggetto della
deliberazione deve essere indicato nell’ordine del giorno. Ma la deliberazione è consentita solo se la
responsabilità è legata a fatti compresi nell’esercizio oggetto di discussione e non a fatti pregressi o
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successivi.
Oltre all’assemblea, anche il collegio sindacale ha competenza a deliberare, con la maggioranza qualificata
dei due terzi dei componenti.
La deliberazione di esercizio all’azione comporta la revoca degli amministratori, purché approvata con voto
favorevole di almeno 1/5 del capitale (se adottata in assemblea). La revoca automatica comporta anche
l’obbligo dell’assemblea di provvedere alla nomina di nuovi amministratori.
E’ inoltre nella piena disponibilità dell’assemblea deliberare espressamente la rinunzia all’azione o una
transazione gli amministratori, senza che occorra alcuna motivazione.
La delibera di rinunzia o transazione può essere però impedita dall’esercizio di un diritto di veto con voto
contrario da esprimersi in assemblea da parte di una minoranza qualificata.

Il legislatore attribuisce la legittimazione all’esercizio dell’azione sociale di responsabilità anche ad una


minoranza qualificata (art. 2393-bis).
La quota di capitale richiesta perché la minoranza possa esercitare l’azione è, nelle società chiuse 1/5 (20%)
e, in quelle aperte, di 1/40 (2,5%).
L’azione esercitata dagli azionisti di minoranza ha carattere surrogatorio (che può sostituire qualcosa con gli
stessi effetti), ed è infatti definita dalla legge come “azione sociale di responsabilità” tale che le somme
dovute per l’eventuale sentenza di condanna (o transazione) vanno alla società e non ai soci che hanno
agito.
La società potrà poi sempre rinunciare o transigere l’azione spettante alla minoranza.
L’aspetto più critico di questo istituto, è rappresentato dall’accesso alle informazioni necessarie per avviare
e supportare l’azione da parte delle minoranze. Il sistema infatti non consente agli azionisti indagini
esplorative all’interno dell’organizzazione societaria, né la consultazione di libri sociali e documentazione
relativa all’amministrazione.

L’azione di responsabilità dei creditori sociali è fondata su due presupposti (art. 2394):

i. anzitutto occorre che sia addebitabile agli amministratori l’ “inosservanza degli obblighi
inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale”;
ii. l’azione, poi, può essere proposta dai creditori solo in via sussidiaria, cioè quando il
patrimonio sociale risulti insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti.

L’azione di responsabilità dei creditori sociali ha natura autonoma ed è disciplinata dall’art. 2394-bis che,
nell’intestare al curatore fallimentare la legittimazione all’azione di responsabilità, fa riferimento alla
pluralità di azioni. Data la natura autonoma ne segue l’inopponibilità ai creditori delle eccezioni che gli
amministratori possono invocare verso la società e che il risultato utile dell’azione non verrà acquisito dal
patrimonio della società, ma solo a quello di chi agisce.
La prescrizione (quinquennale) decorre dal momento in cui si è manifestato l’evento dannoso, cioè
l’insufficienza del patrimonio sociale, e quindi l’insolvenza; in pratica, dalla dichiarazione di fallimento che fa
presumere che il deficit patrimoniale si sia rilevato in quel momento, salva la prova contraria
dell’interessato circa il fatto che l’insufficienza del patrimonio al soddisfacimento dei creditori si sia
manifestata in un momento anteriore alla dichiarazione di fallimento.
L’eventuale rinunzia o transazione dell’azione sociale di responsabilità si riflette sull’azione di responsabilità
dei creditori: in particolare la rinunzia è inopponibile ai creditori, mentre la transazione produce effetto
anche nei loro confronti.

E’ poco frequente però che l’azione di responsabilità venga promossa da parte della società o della
minoranza, ma è anche raro che essa venga promossa dai creditori dal momento in cui il pregiudizio
patrimoniale tipicamente emerge quando l’insolvenza della società è conclamata nell’ambito di procedura
concorsuale. E’ proprio in questa sede che le azioni di responsabilità sono frequenti e, al riguardo, la riforma
del 2003 ha introdotto un nuovo art. 2393-bis. Con questo articolo, è stata accolta la tesi secondo cui, in
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caso di fallimento della società, l’azione del curatore costituisce la sintesi delle azioni di cui agli artt. 2393 e
2394. Quindi al curatore è consentito avvalersi della disciplina più favorevole per la curatela, e la
prescrizione dell’azione decorrerà dal momento della conoscibilità per i creditori dell’insufficienza
patrimoniale.
Secondo i principi dell’onere della prova, il curatore ha gli stessi oneri di allegazione e prova dei fatti su cui
si fonda la responsabilità degli amministratori, il nesso causale e il danno risarcibile.

Infine, l’ordinamento attribuisce al singolo azionista o a terzi che siano stati direttamente danneggiati dagli
amministratori, la legittimazione a promuovere contro di essi un’azione diretta di responsabilità. Quindi
non può avere ad oggetto i danni “riflessi”, che l’azionista può subire per la perdita di valore delle sue azioni
a seguito di atti di mala gestio degli amministratori che hanno impoverito il patrimonio sociale. In questo
caso, infatti, l’ordinamento sottrae a questi ultimi l’azione che finirebbe per esporre gli amministratori alla
duplice riparazione dello stesso danno.
Il comportamento doloso o colposo dell’amministratore che ha causato pregiudizio al terzo, è di solito la
comunicazione di informazioni false. Altri fatti produttivi di danno risarcibile possono essere eventuali
azioni discriminatorie compiute dagli amministratori a danno di un singolo azionista.
Nell’azione individuale di responsabilità, è a carico dell’attore fornire la prova specifica del fatto colposo o
doloso dell’amministratore, e del nesso di causalità con il danno direttamente subito dal terzo.

Il codice, inoltre, considera la figura del direttore generale, al fine di estenderle il regime speciale di
responsabilità civile dettato per gli amministratori, sempre che questi sia nominato dall’assemblea o
dall’organo di amministrazione sulla base di autorizzazione statutaria (art. 2396).
Per essere assoggettati a tale regime, occorre che ricorrano i connotati tipologici propri della figura: per
direttore generale si intende un funzionario dirigente, posto al vertice della struttura aziendale, che opera in
relazione diretta con l’organo amministrativo. Tale figura non è obbligatoria ma è sempre presente nelle
imprese di dimensioni medio-grandi, che possono averne anche più di uno, con mansioni sia di “alta
gestione” che più limitate alla gestione esecutiva quotidiana.

§56. Il controllo sulla gestione e contabile

La funzione di controllo interno è propria di ogni organizzazione imprenditoriale che mira all’efficienza e,
nelle s.p.a., il legislatore assegna tale funzione sia ad organi o uffici interni all’organizzazione della società,
sia a soggetti esterni.
Nel modello di amministrazione tradizionale, la funzione di controllo è suddivisa tra un organo sociale,
ossia il collegio sindacale, e un soggetto esterno, ossia il revisore legale dei conti.
Il collegio sindacale però è sempre l’organo al vertice dei sistemi di controllo, il quale, a norma dell’art. 2403,
anzitutto “vigila sull’osservanza della legge e dello statuto”.
Il controllo di legalità è sostanziale, in quanto il collegio deve vigilare anche “sul rispetto dei principi di
corretta amministrazione”, e comprende la vigilanza sull’ “adeguatezza dell’assetto amministrativo,
organizzativo e contabile adottato dalle società e nel suo funzionamento” (art. 2403, co.1).
Si tratta di un controllo non censorio su atti, ma di una vigilanza complessiva sull’attività, che si estende fino
alla valutazione dell’adeguatezza tecnico-produttiva, finanziaria, del personale e che può implicare la
creazione di uffici idonei al controllo interno. Il controllo non riguarda, infatti, solo l’attività degli
amministratori, ma tutta l’attività sociale e quindi si richiedono sistemi formalizzati di controlli interni su cui
il collegio sindacale è chiamato a vigilare, anche in relazione alla verifica della corretta attuazione di
eventuali regolamenti interni.
L’attività di vigilanza dei sindaci sulla correttezza dell’amministrazione non può però riguardare anche un
controllo di merito, quindi è estranea dal controllo del collegio sindacale ogni valutazione circa la
convenienza, l’opportunità e sul livello di rischio delle decisioni di gestione; rispetto a tali decisioni i sindaci
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devono solo rilevare se la scelta gestionale non presenti una violazione delle regole di comportamento.
La funzione di controllo dei sindaci deve essere, inoltre, continuativa ed essendo un controllo sull’attività,
non necessita la verifica di ogni singolo atto.
Al collegio sindacale è quindi assegnata una posizione di alta sorveglianza rispetto al sistema di controlli
interni, la cui cura è di volta in volta demandata o all’organo di amministrazione o al revisore legale esterno.
Al collegio sindacale della società quotata è intestato il potere di vigilanza sia sull’adeguatezza organizzativa
dei sistemi di controllo interno, sia sull’attività di revisione legale dei conti.
Ai sindaci però non spettano funzioni dirette di controllo contabile che è rimesso ai revisori legali dei conti,
pur restando in capo al collegio sindacale compiti di supervisione sulla regolarità della loro funzione.
Tuttavia, solo gli statuti delle s.p.a. “chiuse” che non sono tenute alla redazione del bilancio, possono
operare una scelta diversa, assegnando al collegio sindacale anche la funzione di controllo contabile; ma in
tal caso i sindaci dovranno tutti possedere la qualifica di revisori legali dei conti.
Oltre all’attività di controllo, il collegio sindacale ha compiti di informazione dell’assemblea e consultivi
obbligatori, soprattutto con riguardo alla relazione che deve essere depositata ai sensi dell’art. 2429 in
occasione della redazione del bilancio.
Tale relazione è centrale per l’informazione dei soci, in quanto il collegio sindacale deve riferire: a) l’attività
svota nell’adempimento dei propri doveri; b) sulla valutazione dei risultati dell’esercizio sociale; c) su
osservazioni e proposte in ordine al bilancio e alla sua approvazione.
Fermo il dovere di segnalare eventuali irregolarità o criticità riscontrate nell’esercizio delle proprie funzioni
di controllo sull’attività sociale, il collegio sindacale nella relazione non esprime però un “giudizio tecnico-
professionale” in quanto esso è riservato al revisore legale esterno.
Tutti gli altri poteri sono tipizzati dalla legge. Rimangono eccezionali quelli di amministrazione attiva, di
approvazione di atti degli amministratori e la legge tipizza i casi in cui il collegio sindacale deve rendere
pareri obbligatori; non è però escluso che questi possano esprimere pareri facoltativi, riguardo all’esigenza
di una leale cooperazione tra organi societari.

L’organo di controllo ha composizione numerica rigida, infatti lo statuto può scegliere solo fra due
alternative: 3 o 5 membri effettivi. Devono essere comunque nominati due supplenti. Solo nelle società
quotate è consentita una deroga verso l’alto.
I sindaci devono godere di determinati requisiti di professionalità: almeno uno di essi deve essere revisore
legale dei conti, mentre occorre che gli altri siano iscritti in appositi albi professionali individuati da
regolamento o scelti fra professori universitari in materie economiche o giuridiche.
Tali requisiti sono a pena di nullità della nomina, o di successiva decadenza in caso di perdita sopravvenuta
(art. 2399, ult.co).
Solo nelle società che abbiano potuto scegliere di attribuire, per statuto, le funzioni di controllo contabile al
collegio sindacale, l’organo deve essere composto esclusivamente da revisori legali dei conti.
La nomina del collegio sindacale è di competenza inderogabile dell’assemblea ordinaria, secondo la regola
di maggioranza: l’omissione della nomina comporterà lo scioglimento della società per impossibilità di
regolare funzionamento dell’assemblea della società.
Le cause di cessazione del rapporto, oltre al decesso, sono: a) scadenza del termine; b) decadenza; c)
rinuncia; d) revoca per giusta causa.

a) Quanto al termine, i sindaci restano in carica per tre esercizi, e scadono alla data dell’assemblea
convocata per l’approvazione del bilancio relativo al terzo esercizio della carica. La scadenza è
simultanea per l’intero collegio, anche là dove uno o più dei suoi componenti sia stato sostituito
durante il mandato. Fino alla nomina del nuovo collegio, i precedenti sindaci rimangono in carica in
regime di prorogatio, senza limitazioni di potere (art. 2400, co.1).
b) Le cause di decadenza si suddividono a seconda che riguardino la sopravvenuta perdita del
requisito di eleggibilità, o all’inadempimento di un dovere dei sindaci.

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Queste ultime cause di decadenza necessitano di un accertamento circa la carenza di giustificazione


dell’assenza e vanno dichiarate con un provvedimento di accertamento costitutivo.
c) La rinuncia è sempre ammissibile in ogni momento, senza che la società possa avanzare pretese
risarcitorie verso il sindaco dimissionario: per integrarsi è sufficiente che sia comunicata al
presidente del collegio sindacale, e il supplente subentrerà automaticamente.
In caso di venir meno di un componente, a salvaguardia dell’integrità dell’organo sociale, è previsto
per i sindaci il sistema appunto della supplenza, ferma però la regola per la quale, nella prima
assemblea possibile, deve provvedersi a ricomporre l’organo collegiale, con la nomina dei sindaci
effettivi e dei supplenti necessari.

L’effettività della funzione di controllo è affidata a due caratteristiche dell’organo sociale: l’indipendenza e
l’inamovibilità dei componenti.
Il principio dell’indipendenza ricade sia sul piano dei requisiti di eleggibilità alla carica, sia sul piano
dell’eventuale rimozione dalla carica stessa.
Quanto ai primi, l’art. 2399 fissa ipotesi che fanno presumere la carenza del requisito di indipendenza, con
conseguente nullità della delibera di nomina; o, in caso di loro sopravvenienza, di decadenza dalle funzioni.
Sono cause legali di ineleggibilità e decadenza, non derogabili dallo statuto:

a) quelle previste per gli amministratori (incapacità legale, fallimento, pene accessorie);
b) il coniugio, la parentela o l’affinità entro il quarto grado con amministratori della società o di altre
società del gruppo;
c) i rapporti di lavoro di carattere continuativo con la società o con altre società del gruppo;
d) gli “altri rapporti di natura patrimoniale che ne compromettano l’indipendenza”.

Altra regola a salvaguardia dell’indipendenza del sindaco è quella sull’invariabilità dei compensi: essi
devono essere fissati contestualmente alla nomina da parte dell’assemblea, in misura equa nel quantum, e
a scadenza periodica annuale, senza che possano essere modificati nel corso del mandato. Il diritto al
compenso è irrinunciabile.
A salvaguardia dell’indipendenza del sindaco, vi è la regola che egli sia revocabile solo per giusta causa con
deliberazione dell’assemblea ordinaria, la quale, per avere efficacia, deve poi essere approvata con decreto
del Tribunale.

L’organo sindacale è pienamente collegiale, quindi le proprie deliberazioni contemplano le fasi basilari di un
collegio (convocazione, riunione, discussione, votazione, proclamazione e verbalizzazione). Deve riunirsi
ogni 90 giorni, salvo che la diligenza professionale imponga riunioni più ravvicinate.
Non si tratta di un collegio perfetto (che funziona solo con la presenza di tutti i suoi componenti), ma è
regolarmente costituito con la maggioranza dei sindaci (quorum costitutivo) e delibera a maggioranza
assoluta dei presenti (quorum deliberativo).
Nell’esercizio delle proprie funzioni, l’attività dei sindaci si articola in tre fasi: istruttoria, valutativa e
reattiva.
In ciascuna di queste fasi, i poteri dell’organo possono essere individuali o collegiali; inoltre essi sono
poteri/doveri, il cui mancato esercizio dà luogo a responsabilità dei sindaci.
Nella fase istruttoria, i sindaci godono di poteri ispettivi individuali (esame dei documenti sociali, ispezione
degli stabilimenti, interrogazione dei dipendenti), laddove la richiesta di informazioni agli amministratori è
di competenza del collegio. Nelle società quotate, però, i sindaci hanno anche poteri di informazione
individuali. Gli amministratori sono tenuti a fornire tutte le informazioni richieste, a pena di reato di
“impedito controllo” (art. 2625).
La fase valutativa deve essere esercitata collegialmente, ma al sindaco dissenziente resta la possibilità di far
uso di strumenti residuali di reazione individuali.
La fase reattiva può concretizzarsi in diverse iniziative.

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Per quanto riguarda i poteri da esercitarsi collegialmente, i sindaci possono e devono direttamente
convocare l’assemblea in caso di omissione o di ingiustificato ritardo degli amministratori nella
convocazione obbligatoria dell’assemblea.
Il collegio sindacale convocherà l’assemblea pure per l’adozione di provvedimenti urgenti, in caso di “fatti
censurabili di rilevante gravità”, commessi dagli amministratori o rilevati all’interno di uffici della società in
violazione dei rispettivi doveri.
In caso di “gravi irregolarità nella gestione”, i sindaci possono presentare denuncia al Tribunale e alla
Consob per le quotate.
Il collegio sindacale è anche legittimato ad impugnare le deliberazioni assembleari o consiliari illegittime,
dove ritenga che esse siano da eliminare. Quindi ha il potere/dovere di promuovere l’esercizio dell’azione
sociale di responsabilità nei confronti degli amministratori, con la maggioranza dei due terzi dei
componenti.
Al singolo sindaco è dato comunque di reagire individualmente rispetto ad accertate irregolarità.
L’intervento dei sindaci può essere poi sollecitato dagli azionisti, tramite apposita denuncia.
Ad ogni socio è dato, infatti, la possibilità di spingere il collegio sindacare ad indagare su fatti censurabili,
che il collegio avrebbe dovuto già rilevare nell’esercizio delle funzioni di controllo (c.d. denuncia semplice).
In tal caso, il collegio stesso dovrà tener conto di tale denuncia nella relazione annuale all’assemblea.
Se la denunzia proviene da una minoranza qualificata, il collegio sindacale, dopo aver indagato senza
ritardo, dovrà riferirne alla prima assemblea utile.
In ogni caso, i sindaci dovranno convocare l’assemblea là dove, a seguito dell’indagine, hanno rilevato fatti
censurabili di gravità e vi sia urgenza di provvedere.

I sindaci devono adempiere ai propri doveri con lo standard della diligenza professionale. Un punto di
riferimento di tale standard di comportamento dovuto dai sindaci si ritrova nei Principi di comportamento.
I sindaci sono solidalmente responsabili con gli amministratori colpevoli di mala gestio, se il danno non si
sarebbe prodotto se avessero vigilato in conformità dei propri doveri (art. 2407, co.2).
All’azione di responsabilità nei confronti dei sindaci si applica la disciplina sull’azione contro gli
amministratori.
Si tratta di una responsabilità per fatto proprio, in modo che il sindaco non risponde automaticamente in
caso di accertata responsabilità degli amministratori, ma solo là dove gli possa essere imputata la violazione
degli obblighi di vigilanza della carica, e sempre che si dia prova del nesso di causalità fra il comportamento
del sindaco in violazione dei suoi doveri, e la produzione dell’evento dannoso a seguito del comportamento
di mala gestio degli amministratori.

La funzione di controllo contabile, è stata sottratta dal collegio sindacale e attribuita ad un revisore esterno.
Essa trova la propria regolamentazione nel d.lgs. 39/2010 della direttiva CE. Il decreto istituisce un Registro
dei revisori legali in cui sono iscritti, sotto la vigilanza del Ministero dell’Economia, i soggetti abilitati alla
revisione legale dei conti.
La funzione di controllo contabile ha come contenuto tipico il compito di verificare la “regolare tenuta della
contabilità sociale e la corretta rilevazione nelle scritture contabili dei fatti di gestione”.
Ulteriore compito del revisore è il giudizio sul bilancio d’esercizio e, dove presente, del bilancio consolidato.
Ovviamente il revisore non deve garantire che il bilancio sia “vero”, ma ha l’obbligo di “ricercare” l’esistenza
di possibili frodi contabili.
Il revisore deve quindi formulare un giudizio sul bilancio che presenta quattro forme a seconda dell’esito:
positivo, positivo con rilievi, negativo, o con impossibilità di emettere giudizio.
Se il giudizio è positivo, il revisore attesta non solo la conformità del bilancio alle norme che ne disciplinano
la redazione, ma anche se il bilancio rappresenta in modo veritiero e corretto, sia la situazione patrimoniale
e finanziaria della società, sia il risultato economico d’esercizio.
Il controllo contabile deve esercitarsi “nel corso dell’esercizio” e quindi con continuità.

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Al fine di ottimizzare i controlli, sia il revisore sia il collegio sindacale hanno obblighi di tempestiva e
reciproca informazione riguardo informazioni rilevanti per lo svolgimento delle relative funzioni. Quindi il
revisore dovrà segnalare al collegio sindacale eventuali fatti censurabili e sulla regolarità contabile.

La vigente disciplina sulla revisione legale dei conti mira a rimuovere le principali criticità per un efficienza
dei revisori, puntando su regole che dovrebbero accentuare l’indipendenza.
In punto di nomina del revisore, si tenta di non lasciare al gruppo di maggioranza una completa autonomia
sulla scelta del revisore, infatti essa è su proposta motivata dell’organo di controllo; l’assemblea, però,
rimarrà libera di non nominare il soggetto designato dall’organo di controllo, ma non può comunque
procedere alla nomina di un revisore diverso da quello proposto.
La durata dell’incarico è di tre esercizi.
Sotto il profilo del corrispettivo, esso deve essere adeguato all’incarico, previsto in sede di nomina e non è
variabile.
La revoca del revisore, invece, può essere deliberata dall’assemblea solo per giusta causa, ma è soggetta a
parere dell’organo di controllo.
L’art. 10, d.lgs. 39/2010 introduce una clausola generale sull’indipendenza del revisore, il quale non deve
essere coinvolto in alcun modo nei processi decisionali della società revisionata (c.d. obiettività del revisore).

Il legislatore punta sull’autoresponsabilità del revisore, il quale deve adottare tutte le misure atte ad ovviare
ai fatti che possono minare l’indipendenza e a non effettuare la revisione legale dove ricorrono circostanza
per le quali l’indipendenza può apparire compromessa.
Tuttavia, il legislatore non richiama per il revisore la disciplina delle cause di ineleggibilità e decadenza come
per i sindaci, e rinvia all’autodisciplina dettata dalle associazioni professionali.
Per adempiere alle funzioni di controllo contabile, il revisore esterno gode di poteri informativi, avendo il
diritto ad ottenere dagli amministratori documenti e notizie utili all’attività di revisione legale, ma anche
poteri ispettivi, potendo procedere ad accertamenti, controlli ed esame di atti e documentazione.
La responsabilità del revisore è solidale con gli amministratori verso la società, i soci e i terzi per i danni
cagionati in violazione dei propri doveri, secondo i criteri di diligenza professionale.
Nel caso in cui il revisore legale sia una società di revisione, responsabili in solido sono anche il responsabile
della revisione e i dipendenti che hanno collaborato all’attività di revisione.

§58. Il controllo giudiziario sulla gestione

Per le società per azioni l’ordinamento prevede, oltre a strumenti di controllo interno, anche strumenti di
controllo esterno, di natura giudiziaria. Si consente così di attuare un controllo giudiziario sulla gestione, in
caso di gravi irregolarità commesse dagli amministratori in violazione dei propri doveri.
I presupposti per la denuncia al Tribunale sono definiti come “fondato sospetto di gravi irregolarità”.
Siccome non tutti i legittimati alla denuncia possono disporre della documentazione sociale, il legislatore
pone come rimedio la presenza di indizi, che non devono quindi necessariamente essere definite come
prova piena.
Le “gravi irregolarità” devono riguardare la gestione, ma non devono essere di tipo organizzativo, ma
devono consistere nella violazione di “doveri” degli amministratori che si traducono in atti idonei a
danneggiare la società o le società controllate.
La legittimazione alla denunzia è in capo agli azionisti che rappresentano almeno il 10% del capitale sociale,
o il 5% per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio.
La legittimazione è anche propria dell’organo di controllo e i soci che non raggiungo la soglia di
partecipazione per la legittimazione potranno quindi rivolgere la denunzia all’organo di controllo per
sollecitare il ricorso.

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La procedura prende avvio dalla denuncia presentata da uno dei legittimati presso il Tribunale civile nella
cui circoscrizione ha sede la società. Il Tribunale convoca innanzitutto in camera di consiglio gli
amministratori e i sindaci, per verificare la fondatezza della denuncia stessa, fissando un termine per la
notifica.
Il Tribunale potrà decidere, quindi, l’archiviazione per infondatezza della denuncia, o di sospendere la
procedura per un tempo determinato, a seguito di un “ravvedimento operoso” della società che ha
sostituito gli amministratori e i sindaci con altri soggetti di “adeguata professionalità” che si impegnano a
procedere in autotutela in base a un dettagliato programma di risanamento.
In mancanza di tale ravvedimento, e sempre che la denuncia abbia fondatezza, il Tribunale può ordinare
l’ispezione giudiziale della società, nominando un ispettore.
Al termine di tale ispezione, se sussistono le irregolarità denunciate, il Tribunale adotta gli opportuni
provvedimenti provvisori e la convocazione dell’assemblea per le conseguenti deliberazioni.
Nei casi più gravi, verrà nominato un amministratore giudiziario, in sostituzione degli amministratori e dei
sindaci, che verranno così revocati giudizialmente.

§59. La documentazione dell’attività sociale

L’attività della società deve essere documentata in un complesso di scritture, chiamate a dare evidenza
storica ed una rappresentazione costante dei diversi aspetti della vita dell’ente. Esse possono essere
suddivise in diversi gruppi, a seconda del loro oggetto.

1) Conti dell’iniziativa economica. Innanzitutto la società deve tenere i libri e le altre scritture
contabili indicati nell’art. 2214 a prescindere dalla natura dell’attività esercitate. Si applicano senza
eccezioni gli artt. 2214 ss. per quanto riguarda la forma, il contenuto e le modalità di conservazione
della documentazione.
Al bilancio di esercizio, documento periodico chiamato a dare una rappresentazione della
situazione patrimoniale e finanziaria della società al termine di ciascun esercizio e del risultato
economico, il codice dedica una vasta disciplina e assume anche un ruolo centrale nell’informazione
societaria.
2) Libri sociali (art. 2421). Si tratta di ulteriori scritture la cui tenuta è obbligatoria. Possono essere
raggruppati in due categorie:
a) i libri in cui va documentata l’attività degli organi, che contengono i verbali delle relative
riunioni. Ogni organo ha il proprio libro e a questi si aggiungono i documenti e le carte di
lavoro relativi alla revisione legale dei conti, conservati dal soggetto incaricato della stessa;
b) i libri che contengono le informazioni relative ai rapporti di investimento e finanziamento
di natura societaria, come il libro dei soci, il libro delle obbligazioni e degli strumenti
finanziari, con l’indicazione dei proprietari dei titoli, dei trasferimenti e dei vincoli.

Le scritture contabili e i libri sociali sono documenti interni, che i soci non possono consultare, se non in
minima parte, avendo diritto di esaminare e trarre estratti solo del libro soci e di quello delle adunanze
assembleari.
La funzione informativa del mercato è svolta invece dal bilancio, il quale va depositato presso il registro
delle imprese. Esso, infatti, è l’unico strumento attraverso cui i soci e i terzi possono raccogliere dati e
formare giudizi sulla situazione patrimoniale e finanziaria della società e sull’andamento economico della
gestione.

Il bilancio è l’insieme dei documenti, redatti con periodicità annuale dall’organo amministrativo ed
approvati dall’assemblea. Si definisce bilancio d’esercizio perché va redatto dopo la chiusura di ciascun
periodo in cui, per legge, viene scandita l’attività e che deve avere durata inderogabilmente annuale.

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Esso si articola in stato patrimoniale, conto economico e nota integrativa: i primi due sono documenti
contabili, cioè sequenze di voci e dei relativi valori numerici; il terzo invece è un documento descrittivo e
illustrativo. Lo stato patrimoniale (art. 2424) rappresenta una situazione statica, in quanto illustra le attività
e le passività che compongono il patrimonio della società alla chiusura dell’esercizio e ne indica il valore;
non si tratta però di un inventario in quanto gli elementi non vengono elencati singolarmente, ma
raggruppati per voci e sottovoci, distinte in base alla natura e alla destinazione dei beni all’interno della
società. Il conto economico (art. 2425), invece, è la sintesi di un processo dinamico, i quanto riepiloga i costi
e i ricavi sostenuti e realizzati nel corso dell’esercizio, ed evidenzia per sottrazione il risultato, positivo o
negativo, dello stesso. La nota integrativa (art. 2427), infine, contiene dati numerici e notizie in forma
narrativa che completano o illustrano le informazioni ricavabili dai primi due documenti.
Il legislatore regola con dettaglio la struttura del bilancio, i principi di redazione e valutazione delle poste
contabili e il procedimento di formazione approvazione e pubblicità.
Le ragioni di tale attenzione riguardano le due funzioni fondamentali assolte dal bilancio: essenziale è la
funzione informativa, accessibile a chiunque in quanto esso è depositato presso il registro delle imprese, e
si rivolge a tutti gli attori del mercato.
Non meno importante è la funzione estimativa dei risultati dell’attività e ad essa si affianca la funzione
organizzativa, in quanto i suoi dati fungono da parametro di riferimento e limite per la legittimità di certe
operazioni.
La natura degli interessi che il bilancio deve soddisfare spiega l’inderogabilità della relativa disciplina.
Questa ha un’articolazione di tipo piramidale: a) al vertice vi sono le clausole generali, o principi
fondamentali, che rappresentano i pilastri su cui poggia il bilancio: verità, chiarezza e correttezza (art. 2423,
co.2); b) i principi di redazione (art. 2423-bis) che contiene i criteri generali di iscrivibilità e valutazione degli
elementi patrimoniali; c) disposizioni attuative che delineano la struttura e la composizione del bilancio
(artt. 2424, 2425, 2427) e dettano le regole di valutazione dei singoli tipi di beni (art. 2426).

I canoni fondamentali a cui il bilancio deve ispirarsi sono indicati nell’art. 2423 co.2: esso va redatto con
chiarezza e la rappresentazione fornita deve essere veritiera e corretta.
Il principio di verità è correlato alla funzione informativa del bilancio: poiché questo fornisce i dati
attraverso la cui lettura ogni interessato formula le proprie valutazioni ed orienta le proprie scelte di
investimento, finanziamento e di conduzione di propri rapporti con la società, la situazione patrimoniale e
finanziaria rappresentata deve essere vera e deve essere vero il risultato dell’esercizio.
Perché ciò si realizzi, è necessario: a) che gli elementi patrimoniali, i proventi e i costi iscritti siano reali e
completi; b) che ciascun elemento sia iscritto secondo il suo valore reale.
Sul piano valutativo va però fatta una precisazione: se alcuni cespiti hanno un valore sicuro e univoco (come
il denaro in cassa, i debiti pecuniari ecc.), la valutazione di ogni altro elemento dell’attivo e del passivo è
meno certa, come l’utilizzabilità residua degli impianti, l’entità del rischio d’insolvenza del debitore ecc., così
come i beni immateriali.
Per ciascun bene quindi si può definire un range di valori tutti realistici. Il principio di verità quindi
rispecchia il dovere non di cercare un valore assolutamente certo, ma di esprimere una valutazione
discrezionale, ma oggettiva, tecnicamente corretta, ragionevole e realistica, in definitiva veritiera.
Il principio di chiarezza impone un’esposizione ordinata, trasparente e dettagliata dei dati forniti. E’ di
rango pari a quello di verità poiché la funzione del bilancio non è solo quella di determinare un dato
numerico, ma principalmente quella di fornire un certo tipo di informazioni con un certo grado di
approfondimento; quindi un bilancio vero, se non è chiaro, è viziato.
La chiarezza è garantita innanzitutto dalla struttura delineata dalla legge per le diverse parti del bilancio. La
sua articolazione rappresenta il grado di dettaglio minimo, poiché nessun raggruppamento di voci e
nessuna compensazione tra voci di segno opposto sono legittimi. Deve però essere fornita ogni
informazione complementare che risulti rilevante ai fini della chiarezza: attraverso una ulteriore
sottodistinzione delle voci o una specifica indicazione su ulteriori aspetti rispetto a quello di legge, nella
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nota integrativa.
Il principio della chiarezza impone anche di rispettare l’ordine delle voci e la collocazione delle informazioni
previsti dalla legge, per favorirne la lettura e la comparazione tra bilanci diversi.
La chiarezza esigibile è circoscritta alle funzioni cui il bilancio deve assolvere, perciò non impone di fornire
prospetti contabili aggiuntivi ad altre esigenze. Infine, essendo un documento contabile, la chiarezza va
misurata sulla base della sua leggibilità tecnica, non in base alla sua comprensibilità da parte di un lettore
ignaro del linguaggio in cui è formulato.
Terzo è il principio di correttezza che funge da corollario agli altri. Un bilancio è vero quando adotta i
corretti criteri contabili e le corrette regole, quindi in questo caso correttezza equivale ad adeguatezza
tecnica. Inoltre un bilancio è chiaro quando i dati siano forniti in modo trasparente, quindi in questo caso
correttezza equivale a buona fede oggettiva.
I tre principi sono strumento di interpretazione e sono sovraordinati rispetto alle disposizioni attuative, al
punto che quando “in casi eccezionali, l’applicazione di una di esse è incompatibile con la rappresentazione
veritiera e corretta, la disposizione non viene applicata”.
Idonei a garantire la verità e la correttezza del bilancio sono i criteri valutativi ed è a questi che si riferisce il
principio della disapplicazione, che presuppone il configurarsi di un “caso eccezionale”: si deve trattare di
circostanze straordinarie riguardanti uno specifico elemento del patrimonio sociale (ad es. un anonimo
dipinto acquistato per pochi soldi e che successivamente si scopre essere di Van Gogh, dovrà essere iscritto
non al costo di acquisto, ma al valore di stima). L’incremento di valore deve discendere dalle caratteristiche
fisiche o giuridiche del bene.

L’art. 2423-bis enuncia i c.d. principi di redazione del bilancio, ossia i criteri tecnici generali cui ci si deve
attenere nella sua elaborazione. Essi rispettano per definizione le clausole generali e sono sovraordinati
rispetto alle disposizioni attuative che li seguono: hanno anche valenza percettiva autonoma e fungono da
criterio interpretativo.

a) Il principio di prudenza incide sull’iscrivibilità degli elementi dell’attivo e del passivo e sulla loro
valutazione, dovendosi procedere evitando di far risultare il patrimonio non certo. Esso è alla base
di importanti disposizioni e di altri principi fondamentali di redazione.
 Il principio di realizzazione, per cui “si possono indicare solo gli utili realizzati alla data di
chiusura dell’esercizio; gli incrementi patrimoniali sono iscrivibili solo se giuridicamente
conseguiti dalla società, non se sono meramente attesi o sperati, per quanto alte siano le
probabilità della loro futura effettiva realizzazione.
 Il principio di dissimmetria, per cui le diminuzioni patrimoniali devono essere iscritte non
solo al momento della loro concretizzazione, ma anche quando sono solo temute e
probabili.

Il principio di prudenza impone infine di scegliere, quando due valutazioni sono di pari grado di
attendibilità, quella inferiore.

b) Il principio di continuità dell’attività incide sui criteri di valutazione degli elementi patrimoniali,
orientandola non tanto verso la determinazione del loro valore corrente, quanto verso quello che
essi hanno per la società “nella prospettiva della continuazione dell’attività”.
Tale principio va rispettato comunque, anche quando la società ha in progetto di cedere in futuro un
determinato cespite o di liquidare l’intero patrimonio.
c) Il principio di competenza costituisce il criterio temporale di selezione degli elementi patrimoniali
da iscrivere. Il bilancio d’esercizio è un bilancio per competenza e non per cassa, cioè che le poste
attive e passive vanno iscritte nel bilancio relativo all’esercizio a cui sono giuridicamente ed
economicamente imputabili, indipendentemente dalla data dell’effettivo incasso o pagamento (ad
es. il corrispettivo della vendita di un bene va iscritto nel bilancio d’esercizio in cui si è prodotto il

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trasferimento della proprietà del bene della società all’acquirente, anche se il pagamento avverrà
nell’esercizio successivo). Tale principio non è in contrasto con quello di realizzazione, poiché per
incremento realizzato non si intende quello incassato, ma quello giuridicamente certo.

Il bilancio è composto, come si è detto, da stato patrimoniale, conto economico e nota integrativa (art.
2423, co.1).
Lo schema dello stato patrimoniale (art. 2424) è articolato in due blocchi: attivo e passivo.
All’attivo vanno iscritti gli elementi patrimoniali positivi, ripartiti per macrovoci e sottovoci. Esso distingue le
immobilizzazioni dall’attivo circolante. Le immobilizzazioni sono i beni utilizzati durevolmente dalla società
(immobili, macchinari, beni immateriali, beni finanziari); mentre l’attivo circolante è formato da rimanenze,
crediti, liquidità e disponibilità finanziarie non immobilizzate.
Al passivo invece vanno iscritti gli elementi patrimoniali negativi, sempre per voci, vale a dire i debiti e i
fondi per rischi e oneri.
Al passivo va anche iscritto il patrimonio netto della società. Questo è costituito dalla differenza tra il valore
dell’attivo e gli elementi negativi. Di per sé esso non costituisce una componente negativa del patrimonio,
ma la sua iscrizione al passivo è puramente convenzionale e consente la chiusura contabile del bilancio con
un pareggio tra attivo e passivo.

Importante però è la valutazione del patrimonio netto. Il netto è un numero che non rappresenta il valore
di singoli beni, ma è il risultato di una sottrazione tra attivo e passivo; esso viene ripartito tra una pluralità di
voci.
Il capitale è la porzione del netto soggetta al vincolo di indisponibilità. Se il netto è inferiore, la sottovoce
“capitale” sarà bilanciata da un’iscrizione con segno meno, alla voce “perdite d’esercizio” e/o “perdite
portate a nuovo”. Se il netto è maggiore del capitale, a questo si affiancano iscrizioni a riserva o a utili.
Le riserve rappresentano ricchezza superiore al capitale, che la società conserva nel proprio patrimonio.
Esse possono essere diverse:

a) La riserva legale viene formata obbligatoriamente prelevando annualmente il 5% degli utili


d’esercizio finché non raggiunge un valore pari al quinto del capitale.
b) Sono previste altre riserve dalla legge come quella in cui vanno imputati i proventi che derivano da
rivalutazioni e che non sono distribuibili finché non siano effettivamente realizzati, o come la riserva
diretta a riequilibrare il valore delle azioni proprie possedute dalla società.
c) Le riserve statutarie sono previste dallo statuto, che sono indistribuibili.
d) Le riserve facoltative deliberate dall’assemblea che approva il bilancio, la quale può decidere sulla
distribuzione degli utili, può stabilire di non distribuirli, e di reinvestirli nell’attività sociale.

Anche gli utili di bilancio rappresentano ricchezza superiore al capitale, ossia incrementi del patrimonio non
apportati a riserva: tale voce può risultare dalla non imputazione a riserva di risultati positivi degli esercizi
precedenti (utili portati a nuovo), a cui può aggiungersi il risultato positivo dell’esercizio attuale (utile
d’esercizio). Quest’ultimo è semplicemente il risultato positivo del conto economico dell’esercizio e
rappresenta una ricchezza superiore al capitale solo se il patrimonio netto di partenza era almeno pari al
capitale; qualora invece vi fosse stata una perdita iniziale, l’utile d’esercizio reintegrerà il capitale.
Le perdite gravano prima di tutto sugli utili di bilancio e successivamente sulle riserve facoltative, statutarie
e legale, e solo alla fine sul capitale.
Il conto economico (art.2425) è un conto a scalare il cui risultato si forma attraverso la somma progressiva
dei ricavi, dei costi, degli altri proventi ed oneri, e determina il risultato economico dell’esercizio.
Le prime due macrovoci riguardano il valore della produzione e i costi della stessa. Anche questo
documento è elaborato con il criterio della competenza, per cui i ricavi e i costi d’esercizio non
necessariamente coincidono con gli incassi e gli esborsi. Inoltre, il conto rappresenta il valore integrale della
produzione del periodo e non solo della produzione venduta, perciò ai ricavi va aggiunto l’eventuale

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incremento delle rimanenze di magazzino. Allo stesso modo, i costi da iscrivere sono quelli riferibili alla
produzione del periodo.
Le altre macrovoci riguardano i proventi e gli oneri diversi da quelli nascenti dall’esercizio dell’attività. Al
risultato della somma algebrica delle diverse voci vanno detratte le imposte, per ottenere l’utile netto
dell’esercizio.
L’art.2426 detta i criteri di valutazione dei beni, suddivisi per tipi.

a) Le immobilizzazioni sono iscritte al costo di acquisto o di produzione. Questo criterio deriva dal
principio di continuità dell’attività, in quanto consente di rilevare il valore d’uso del bene, mentre ne
trascura il valore corrente; discende pure dal principio della prudenza, perché, anche se il bene si
fosse nel tempo rivalutato nel mercato, solo se lo si cedesse si realizzerebbe e si potrebbe iscrivere
la plusvalenza. Se invece il bene si è durevolmente svalutato, va iscritto il minor valore e se il bene a
natura limitata nel tempo dal valore di costo deve essere detratta anno per anno una quota di
ammortamento fino all’azzeramento quando l’utilità cessa.
b) Gli incrementi di produttività derivanti da ricerche, pubblicità ecc. sono iscrivibili al costo; ma,
prudenza, dal momento che non è misurabile l’utilità effettivamente ricavata della società, devono
essere in essa mantenute riserve tali da coprire il loro valore. Anche l’avviamento è iscrivibile solo se
acquisito a titolo oneroso; ma se la società vende l’azienda realizzando una plusvalenza, questa
verrà iscritta.
c) I crediti devono essere iscritti al valore di presumibile realizzo, tenendo conto cioè delle eventuali
contestazioni riguardo al suo ammontare e della possibile incapienza del patrimonio del debitore.
d) Le rimanenze e le attività finanziarie circolanti vanno iscritte al costo o al presumibile valore di
realizzo, desunto dall’andamento del mercato.

Il terzo documento componente il bilancio è la nota integrativa (art.2427), che raccoglie una serie di
informazioni illustrative dei dati contabili, utili per una più completa conoscenza della situazione societaria.
Le informazioni contenute nella nota sono in parte numeriche e in parte narrative, e sono prescritte dalla
legge senza escludere che il principio di chiarezza esige l’inserimento di ulteriori notizie. Si tratta di dati
relativi alla composizione delle voci contabili, alle loro variazioni, ai criteri di valutazione applicati e ad alcuni
aspetti riguardanti la struttura finanziaria della società.
Non appartiene al bilancio invece la relazione degli amministratori (art.2428). Si tratta di un resoconto,
narrativo e numerico, che contiene un’analisi della situazione della società e dell’andamento e del risultato
della gestione nel suo complesso e nei vari settori in cui ha operato. Ad essa segue l’elencazione di una serie
di informazioni che la relazione deve fornire e tra le quali rilevano l’evoluzione della gestione e i fatti di
rilievo avvenuti dopo la chiusura dell’esercizio. Anche qui la relazione deve offrire un’analisi “fedele,
equilibrata ed esauriente, coerente con l’entità e la complessità degli affari della società”. Essa rimane
esterna al bilancio in modo che la violazione di questi precetti o l’omissione delle informazioni non lo rende
falso, e non è neanche soggetta ad approvazione assembleare.

Il progetto di bilancio è redatto dall’organo gestorio in forma collegiale. Esso è poi sottoposto all’organo di
controllo e al soggetto incaricato della revisione legale, il primo deve redigere una propria relazione con la
descrizione dell’attività svolta e le osservazioni relative al progetto; il secondo invece deve formulare il
proprio giudizio sulla verità e sul rispetto della disciplina che presiede la sua relazione.
Successivamente l’assemblea ordinaria approva il bilancio.
L’assemblea può modificare il progetto e solo con l’approvazione il bilancio acquista rilevanza giuridica e
deve essere depositato presso il registro delle imprese, con le relazioni che lo accompagnano.
Il bilancio è inoltre oggetto della delibera assembleare, e come ogni altra, anche questa può essere invalida
e quindi può essere impugnata.
I vizi procedimentali ne determinano l’annullabilità o la nullità. Se il bilancio non è conforme alla disciplina
che presiede alla sua redazione, la delibera è nulla per contrarietà a norme imperative, e quindi per illiceità
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dell’oggetto. Il bilancio è nullo anche se non è conforme a verità e questo accade quando si omettono
elementi patrimoniali esistenti o se ne indicano di fittizi o si procede a valutazioni contrarie ai criteri legali.
Nullo è anche il bilancio vero ma non conforme al principio di chiarezza.
La nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse (art.2379). Con la riforma del 2003, il
legislatore ha apposto dei limiti alla possibilità di impugnazione. Innanzitutto un termine di decadenza
flessibile: l’impugnazione, cioè, non può essere proposta contro un bilancio dopo l’approvazione di quello
successivo. In sostanza non è più utile impugnare bilanci precedenti, o perché quello più recente ha
eliminato il vizio, o perché lo riproduce e quindi si agirà contro di esso.
In secondo luogo, un requisito di legittimazione: se il revisore non ha formulato rilievi sul bilancio,
l’impugnazione può essere proposta dai soci che rappresentano almeno il 5% del capitale.

SEZIONE QUARTA

LA SOCIETÀ A RESPONSABILITÀ LIMITATA. LA SOCIETÀ IN ACCOMANDITA PER AZIONI.

§60. La s.r.l. Caratteristiche tipologiche e struttura formale

La società a responsabilità limitata risulta uno dei tipi societari più diffusi nella prassi. Tale circostanza
dipende dalla sua adattabilità e dalla sua utilizzabilità sia in contesti molto ristretti, come le società familiari,
sia in contesti più ampi, come le società. Lo stesso vale per quanto riguarda le sue dimensioni, in quanto le
s.r.l. possono essere sia piccole imprese, che medio-grandi e questo è reso possibile dalla stessa normativa
che non prevede una soglia massima di capitale sociale o altri parametri che possano delimitare l’area di
applicazione di tale modello.
L’attuale disciplina è volta soprattutto ad enfatizzare la figura dei singoli soci e ad attribuire ad essi ampi
poteri. Infatti i soci delle s.r.l. sono di norma un numero limitato e soprattutto sono interessati a partecipare
attivamente alla vita della società (c.d. soci imprenditori) e ad interloquire in relazione ad aspetti riguardanti
la gestione, differenziandosi quindi dalla s.p.a. in cui la compagine sociale può essere anche molto ampia e
la gestione spetta esclusivamente agli amministratori. Si comprendono così quelle norme che da un lato
impediscono che le partecipazioni dei soci siano rappresentate da azioni e possano costituire oggetto di
offerta al pubblico di prodotti finanziari, e contestualmente attribuiscono ai soci ampi poteri di controllo e di
intervento nella gestione societaria.
Inoltre, le regole introdotte nel 2003 accentuano il ruolo dell’autonomia negoziale e dei rapporti
contrattuali tra i soci. L’ampia autonomia riconosciuta alle parti trova solo dei limiti in alcune norme
imperative poste a tutela dei terzi, in considerazione del fatto che la s.r.l. è dotata di autonomia
patrimoniale perfetta, e in specifiche disposizioni che possono fissare gli elementi distintivi della s.r.l.
rispetto ad altri tipi societari, così che pur restando una società di capitali e mantenendo un regime di
autonomia patrimoniale perfetta, può presentare, in diversi casi, diversi elementi che la distinguono ed
avvicinarsi alla società di persone: come ad es. la facoltà di adottare i sistemi di amministrazione disgiuntivi
o congiuntivi, o la possibilità di introdurre nell’atto costitutivo delle clausole di esclusione per giusta causa, o
conferimenti di prestazioni d’opera o servizi.
Proprio tale vicinanza con la società di persone, talvolta, può rendere difficile accertare la disciplina
applicabile in caso di lacune nella medesima normativa. Se da un lato la mancanza di un’apposita normativa
in relazione ad uno specifico tema non sempre viene interpretata come una lacuna, in quanto può essere
che il legislatore abbia deciso autonomamente di non disciplinarlo, dall’altro, in presenza di un’accertata
lacuna, non appare corretto rinviare alle norme della s.p.a. essendo in alcuni casi più opportuno rivolgersi
alla disciplina posta in essere per le società di persone.

La s.r.l. può essere costituita unicamente mediante costituzione simultanea, a differenza della s.p.a. per la
quale è possibile anche una costituzione attraverso pubblica sottoscrizione.

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Essa può essere costituita, ai sensi dell’art. 2463, con un contratto o con atto unilaterale; infatti è permessa
la costituzione di una s.r.l. unipersonale. Data però la possibilità che l’unicità del socio possa rappresentare
un aspetto “negativo” soprattutto per i terzi, il legislatore prevede alcune disposizioni volte appunto a
tutelare i creditori.
Si tratta di principi che coincidono con quelli delle s.p.a.

1. Ai sensi dell’art. 2470, quando l’intera partecipazione appartiene ad un unico socio o muta la
persona dell’unico socio, gli amministratori (o il socio stesso) devono depositare per l’iscrizione nel
registro delle imprese entro trenta giorni dall’avvenuta variazione della compagine sociale, una
dichiarazione che contiene tutte le generalità del socio.
2. In base all’art. 2464, allo scopo di tutelare l’integrità del capitale sociale, si richiede che, in presenza
di un unico socio fondatore, sia versato immediatamente l’intero ammontare del capitale
sottoscritto, mentre, se la pluralità dei soci viene meno successivamente, i versamenti ancora
dovuti devono essere effettuati entro novanta giorni da tale evento.

In caso di violazione di tali obblighi, il socio risponde personalmente ed illimitatamente delle obbligazioni
sociali sorte nel periodo in cui è stato unico socio, sempre se la società risulti insolvente. Questa è l’unica
deroga prevista alla regola generale della responsabilità limitata, in forza della quale per le obbligazioni
sociali risponde solo la società con il suo patrimonio.

Per dare vita ad una s.r.l. occorre, innanzitutto, redigere l’atto costitutivo in forma di atto pubblico. L’atto
costitutivo deve necessariamente contenere, secondo l’art. 2463, tali aspetti, oltre ad altre previsioni che le
parti possono decidere di inserire:

i. Gli elementi identificativi di ciascun socio fondatore;


ii. Gli elementi essenziali e identificativi della società cioè la denominazione (contenente l’indicazione
s.r.l.), il comune dove è posta la sede (e le eventuali sedi secondarie), l’attività che costituisce
l’oggetto sociale;
iii. Gli elementi identificativi delle risorse destinate alla società e delle corrispondenti partecipazioni
assunte dai soci fondatori, e cioè l’ammontare del capitale sottoscritto e di quello versato, i
conferimenti di ciascun socio e il valore attribuito ai crediti e ai beni conferiti in natura, la quota di
partecipazione di ogni socio;
iv. Le norme relative al funzionamento della società, le persone a cui è affidata l’amministrazione, il
sindaco o il soggetto incaricato di effettuare la revisione legale dei conti.

Non è dedicata nessuna norma ai patti parasociali posti in essere dai soci: tale mancanza può dipendere dal
fatto che il legislatore confida che i soci preferiscono introdurre già nell’atto costitutivo ogni previsione circa
le loro negoziazioni, dando così ad esse efficacia reale e rendendole così opponibili ai terzi. Questo però non
toglie che pure nella s.r.l. i soci stipulino un patto parasociale; in questo caso è difficile capire quale sia la
normativa applicabile e quindi se sia possibile ricorrere alle regole previste per la s.p.a. o la disciplina
generale in tema di contratti.
Ai sensi dell’art. 2329 è necessario che il capitale sociale sia sottoscritto per intero, che siano rispettate le
previsioni relative ai conferimenti e sussistano le autorizzazioni e le altre condizioni richieste dalle leggi
speciali per la costituzione della società in base al suo particolare oggetto.
Il notaio, una volta predisposto ‘atto costitutivo ed effettuato un controllo di legalità, deve depositarlo entro
venti giorni presso l’ufficio del registro delle imprese, allegando i vari documenti e contestualmente
richiedere l’iscrizione della società nel medesimo registro. L’ufficio del registro, verificata la regolarità
formale della documentazione, iscrive la società e con essa questa acquista personalità giuridica.
Per le operazioni compiute in nome della società prima dell’iscrizione sono illimitatamente e solidalmente
responsabili verso i terzi coloro che hanno agito e anche l’unico socio fondatore e quelli tra i soci che
nell’atto costitutivo o con atto separato hanno deciso, autorizzato o consentito il compimento
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dell’operazione; se successivamente all’iscrizione la società approvi l’operazione, essa sarà allora


responsabile in sostituzione dei soci.
Come nella s.p.a. anche in questo caso il legislatore limita i casi che possono dare luogo a nullità della
società, una volta avvenuta l’iscrizione nel registro delle imprese.
In forza dell’art. 2463, la nullità della società può essere pronunciata solo in caso: a) di mancata stipulazione
dell’atto costitutivo nella forma di atto pubblico; b) illiceità dell’oggetto sociale; c) mancanza nell’atto
costitutivo di ogni indicazione che riguarda la denominazione della società, i conferimenti, l’ammontare del
capitale sociale o l’oggetto sociale.
Si applica poi la disciplina prevista per regolare gli effetti della nullità, dettata dall’art. 2332 volta a garantire
la tutela dei terzi e la stabilità degli atti posti in essere dalla società.

Le modificazioni dell’atto costitutivo sono riservate generalmente alla competenza dei soci che devono
necessariamente esprimersi in assemblea, con voto favorevole di tanti soci in grado di rappresentare
almeno la metà del capitale sociale.
Alcune modifiche dell’atto costitutivo, in considerazione degli effetti che producono sull’organizzazione,
danno luogo al diritto di recesso per il socio non consenziente.
Il verbale trascritto nel libro delle decisioni dei soci, deve essere redatto da un notaio il quale deve, previo
controllo di legalità, depositarlo e richiedere l’iscrizione nel registro delle imprese.
L’ufficio del registro, verificata la regolarità formale della documentazione, iscrive la delibera nel registro. E
solo con l’iscrizione che la delibera modificativa dell’atto costitutivo acquista efficacia.

Nel 2012 il legislatore ha introdotto nel nostro ordinamento la società a responsabilità limitata semplificata
(art. 2463-bis) che può avere un capitale minimo addirittura pari a un euro. Questo è uno strumento volto
ad incentivare la nascita di nuove iniziative imprenditoriali che non necessitano di un capitale sociale
minimo elevato e con costi di costituzione ridotti.
La scelta di tale sub-modello non è irreversibile in quanto la società può evolvere verso la s.r.l. ordinaria, o
trasformarsi in qualsiasi altro tipo di società, o partecipare ad operazioni di fusione e scissione con società
diverse.
La s.r.l. semplificata, in origine, era stata pensata solo per i soggetti persone fisiche non aventi 35 anni d’età;
oggi invece può essere costituita da chiunque, purché persona fisica.
La costituzione della società semplificata avviene mediante contratto o atto unilaterale redatto dal notaio a
titolo gratuito, in conformità ad un modello standard, non modificabile dalle parti, introducendo quindi un
forte limite all’autonomia patrimoniale.
Per permettere ai terzi di conoscere lo status di questa società, nell’atto costitutivo occorre indicare che la
società è una s.r.l. semplificata e tale indicazione deve anche apparire negli atti e nella corrispondenza della
società e nello spazio elettronico destinato alla comunicazione, assieme all’ammontare del capitale
sottoscritto e versato, la sede della società e l’ufficio del registro presso cui è iscritta.
Essa, come si è detto, deve avere un capitale sociale sottoscritto e interamente versato pari a un euro ed
inferiore a 10.000€. Il conferimento deve farsi in denaro ed essere versato all’organo amministrativo.
Sotto il profilo finanziario essa non è una società senza capitale, quindi deve provvedere, per sopravvivere,
all’aumento del capitale o alla trasformazione in una società di persone.
Proprio la possibilità di costituire una società dotata di un’autonomia patrimoniale perfetta e con un
capitale “irrisorio” ha posto delle critiche. In particolare si segnala come questo possa rendere difficoltoso
per la società il ricorso al credito e soprattutto può creare problemi per i creditori sociali.

§61. La s.r.l.: la struttura finanziaria

Con riferimento al capitale sociale e i conferimenti, il legislatore introduce per la s.r.l. una disciplina apposita
volta a garantire che la società operi in una situazione di equilibrio economico-finanziario.
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Il capitale sociale minimo (art. 2463) non può essere inferiore a 10.000€, a differenza della s.p.a. dove esso
non può essere inferiore a 50.000€.
Altre differenze possono riscontrarsi per quanto riguarda le entità conferibili. Innanzitutto il legislatore
prevede (art. 2464) che possono essere conferiti tutti gli elementi dell’attivo suscettibili di valutazione
economica. Questo permette di ritenere che i conferimenti effettuabili sono molteplici purché dotati di un
valore misurabile secondo parametri oggettivi.
Inoltre, a differenza della s.p.a. sono ammesse anche le prestazioni d’opera o di servizi. In questo caso,
però, il legislatore prevede, a tutela dei terzi e al fine di garantire l’effettiva formazione del capitale sociale,
che il soggetto conferente debba fornire alla società una polizza di assicurazione o una fideiussione bancaria
con cui devono essere garantiti gli obblighi assunti, per l’intero valore assegnatogli.
Per quanto riguarda i conferimenti in denaro, devono essere versati agli amministratori nominati nell’atto
costitutivo già al momento della sottoscrizione, almeno il 25% e l’intero sovrapprezzo, salvo il caso
dell’unico socio per il quale il versamento deve avvenire per intero. Però è previsto, e qui sta la principale
differenza rispetto alla s.p.a., che il versamento possa essere sostituito dalla stipula, per un importo
analogo, di una polizza assicurativa o di fideiussione bancaria. Il socio, inoltre, può cambiare in ogni
momento la polizza o la fideiussione con il versamento dell’importo in denaro.
Riguardo, invece, al conferimento di beni in natura e di crediti, il legislatore, dopo aver chiarito che le
partecipazioni corrispondenti a tali conferimenti devono essere integralmente liberate al momento della
sottoscrizione, si limita a richiedere una relazione giurata predisposta da un revisore legale o da una società
di revisione legale iscritti nell’apposito registro e scelti dal socio stesso e on nominati, come nelle s.p.a., al
tribunale (art. 2465). Nella relazione deve essere contenuta una descrizione dei beni o crediti conferiti,
nonché l’indicazione dei criteri di valutazione adottati e l’attestazione che il loro valore è almeno pari a
quello ad essi attribuito ai fini della determinazione del capitale sociale e dell’eventuale sovrapprezzo.
Inoltre non è richiesto un controllo da parte degli amministratori in relazione alle valutazioni contenute
nella relazione e non sono, quindi, indicate le conseguenze che derivano da un’eventuale differenza tra
valore accertato e valore effettivo. Questo non ha impedito però di ritenere comunque necessario un
controllo di merito da parte degli amministratori e, anche, di ipotizzare, in presenza di una differenza di
valore accertato ed effettivo, l’applicabilità della disciplina in tema di socio moroso o dell’applicabilità della
disciplina prevista dalla s.p.a.
Il valore complessivo dei conferimenti effettuati non può essere inferiore all’ammontare globale del capitale
sociale. Può però avvenire che esso risulti superiore, data la presenza di eventuali sovrapprezzi versati dai
soci che non vengono imputati a capitale ma iscritti in riserva.
Qualora il socio risulti inadempiente rispetto all’obbligo di effettuare i conferimenti promessi, si applica la
disciplina relativa al socio moroso (art. 2466) che dispone che nel caso in cui il socio non esegua il
conferimento nel termine prescritto, gli amministratori devono diffidarlo ad adempiere entro trenta giorni.
Decorso inutilmente tale termine, gli amministratori possono vendere la partecipazione agli altri soci, in
proporzione alla loro partecipazione, per il valore risultante dall’ultimo bilancio approvato. Se la vendita non
avviene per mancanza di compratori, gli amministratori escludono il socio, trattenendo le somme riscosse e
il capitale sociale deve essere ridotto in misura corrispondente.

Una volta costituita la società, il capitale sociale nominale può subire delle modifiche nel corso del tempo
Possono, infatti, verificarsi degli aumenti o delle riduzioni dello stesso.

A. Iniziando dei primi, è possibile distinguere due tipi di aumento del capitale: un aumento nominale
e gratuito ed uno reale o oneroso.
i. L’aumento nominale consiste nel semplice passaggio delle riserve e/o altri fondi iscritti in
bilancio a capitale, dando così alla società maggiore solidità patrimoniale. In questo caso la
quota di partecipazione di ciascun socio deve restare immutata.

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ii. L’aumento di capitale reale consiste, invece, in un effettivo incremento dell’attivo


patrimoniale, dato che il capitale viene aumentato mediante nuovi conferimenti dai soci o
da soggetti terzi. La decisione di aumentare il capitale non può essere attuata, però, fino a
quando i precedenti conferimenti dovuti non siano stati eseguiti integralmente, così da
evitare che la società possa ottenere nuovo capitale di rischio fino a quando non ha
interamente ricevuto quello già promesso. I conferimenti devono essere effettuati con le
modalità previste per la costituzione, e l’aumento deve essere interamente sottoscritto, a
meno che la decisione abbia consentito un aumento scindibile: in questo caso, il capitale è
innalzato di un importo pari alle sottoscrizioni raccolte.
Ai soci spetta il diritto di sottoscrivere il capitale in proporzione alle partecipazioni
possedute, così da poter mantenere invariata la propria posizione all’interno della
compagine sociale.
L’atto costitutivo può tuttavia prevedere che l’aumento possa essere attuato anche
mediante offerta di partecipazioni di nuova emissione a terzi e senza che sia necessario
introdurre un sovrapprezzo. Date le conseguenze che l’esclusione del diritto di
sottoscrizione può determinare per i soci, i quali possono vedere modificati i precedenti
equilibri partecipativi, è riconosciuto il diritto di recesso per coloro che non hanno
consentito alla decisione.
B. Per quanto riguarda invece la riduzione del capitale sociale, si può distinguere tra riduzione reale e
riduzione nominale.
i. La riduzione reale comporta un’effettiva riduzione del patrimonio sociale e può aversi
mediante rimborso ai soci delle quote pagate o mediante liberazione dall’obbligo dei
versamenti ancora dovuti.
Il legislatore prevede che tale decisione può essere eseguita solo dopo novanta giorni
dall’iscrizione nel registro delle imprese della stessa, purché entro tale termine nessun
creditore sociale anteriore all’iscrizione abbia fatto opposizione. In caso di opposizione il
tribunale può comunque disporre che la riduzione abbia luogo quando ritiene infondato il
pericolo di pregiudizio per i creditori o la società abbia prestato un’idonea garanzia.
ii. Per quanto riguarda, invece, la riduzione nominale, essa consiste in una semplice
operazione contabile attraverso la quale si procede ad un adeguamento del capitale sociale
a fronte di una perdita che si è già verificata.
Vi possono essere dei casi di riduzione del capitale per perdite facoltativi e altri obbligatori.
Per quelle obbligatorie, il legislatore prevede due ipotesi di riduzione caratterizzate da una
gravità e una conseguente disciplina differente.
La prima si ha quando si verifica una perdita superiore ad un terzo del capitale sociale: in
questo caso gli amministratori devono convocare l’assemblea dei soci e sottoporli ad una
relazione sulla situazione patrimoniale della società. L’assemblea assume poi gli opportuni
provvedimenti, anche se non è tenuta per forza a ridurre immediatamente il capitale
sociale. Se però, entro l’esercizio successivo, la perdita non risulta diminuita a meno di un
terzo, l’assemblea deve essere nuovamente convocata per l’approvazione del bilancio e per
la riduzione del capitale in proporzione alle perdite accertate. In mancanza, gli
amministratori ed, eventualmente nominati, il sindaco o il soggetto incaricato della
revisione legale, devono chiedere al tribunale che venga disposta la riduzione del capitale a
seguito delle perdite risultanti dal bilancio. Il tribunale provvede con decreto da iscriversi
nel registro delle imprese a cura degli amministratori.
Nella seconda ipotesi di riduzione obbligatoria prevista dal legislatore, invece, la perdita
deve averlo ridotto al di sotto del minimo legale. In questo caso gli amministratori devono
senza indugio convocare l’assemblea per deliberare la riduzione del capitale e il

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contemporaneo aumento dello stesso ad una cifra non inferiore al minimo, o la riduzione
del capitale e la trasformazione, o ancora la nomina dei liquidatori e ogni altro
provvedimento relativo allo scioglimento della fase di liquidazione.
In tutti i casi di riduzione del capitale per perdite, è esclusa ogni modifica delle quote di
partecipazione e dei diritti spettanti ai soci: le perdite devono, pertanto, incidere
proporzionalmente su tutti i soci in modo tale che ognuno possa conservare l’originario
valore della quota di partecipazione e i diritti connessi.

Con la l.99/2013 il legislatore ha riconosciuto che pure la s.r.l. ordinaria può essere costituita con un capitale
sociale inferiore a diecimila euro, purché pari almeno ad un euro. In questa ipotesi i conferimenti devono
essere effettuati esclusivamente in denaro ed essere versati per intero alle persone cui è affidata
l’amministrazione. Tale disciplina trova applicazione sia in sede di costituzione che in sede di aumento di
capitale.
Viene anche prevista una disciplina più rigorosa rispetto a quella generale riguardo la riserva legale. In base
all’art. 2430 è richiesto che dagli utili netti annuali sia dedotta una somma corrispondente almeno alla
ventesima parte di essi, così da costituire una riserva legale, fino a che questa non abbia raggiunto il quinto
del capitale sociale.
La normativa del 2013 impone, invece, di dedurre dagli utili netti risultanti in bilancio una somma pari
almeno ad un quinto degli stessi, fino a che tale riserva e il capitale sociale non abbiano raggiunto
l’ammontare di diecimila euro. Una volta raggiunto tale ammontare, all’accantonamento si applicherà la
disciplina generale dell’art. 2430 c.c. La riserva può poi essere utilizzata solo per impugnazione a capitale e
per copertura di eventuali perdite con obbligo di reintegrazione laddove essa sia diminuita. Non sono invece
stati introdotti un termine di scadenza entro il quale la società è obbligata a raggiungere tale soglia della
riserva legale, né l’obbligo di imputare a capitale quanto accantonato.

In base all’art. 2468, co.1, le partecipazione dei soci nella s.r.l. non possono essere rappresentate da azioni:
da questo deriva che esse non possono essere suddivise in frazioni omogenee di capitale, né incorporate in
titoli. Ciascun socio, quindi, deve considerarsi titolare di una sola partecipazione, rappresentativa di un
complesso di situazioni giuridiche, qualunque sia l’ammontare, il cui “peso” all’interno della società si
determina o in percentuali (ad es. una partecipazione del 10%), o in termini assoluti (ad es. una
partecipazione di mille euro). In caso di comproprietà della partecipazione, i diritti sociali devono essere
esercitati da un rappresentante comune.
Le partecipazioni dei soci non possono costituire oggetto di offerta al pubblico di prodotti finanziari, in
questo modo impedendo alla s.r.l. di ricorrere al mercato dei capitali di rischio.
Le partecipazioni dei soci sono determinate in misura proporzionale al conferimento effettuato, anche se è
possibile introdurre una diversa disposizione nell’atto costitutivo: così è lecito che i soci si accordino e
introducano nell’atto costitutivo una previsione in base alla quale, ad es., due soci conferiscono entrambi la
stessa somma, ma ad uno di essi è attribuita una partecipazione maggiore in ragione del suo ruolo
privilegiato e, soprattutto, dai suoi intensi rapporti con i possibili clienti e fornitori.
La regola della proporzionalità vale anche in relazione ai diritti sociali: più precisamente, nell’art. 2468, co.2,
si riconosce che i diritti sociali spettano ai soci in misura proporzionale alla partecipazione posseduta da
ciascuno, fermo restando che vi possono essere dei diritti sociali che competono ai soci indipendentemente
dall’entità della partecipazione detenuta (ad. es. il diritto di impugnativa delle decisioni dei soci spetta a
ciascun socio).

L’atto costitutivo può anche prevedere l’attribuzione ai singoli soci di diritti particolari. L’assegnazione di
tali diritti può servire a “premiare” alcuna caratteristiche del socio, necessarie o opportune alla luce delle
esigenze societarie. Si pensa ad esempio ad un diritto particolare attribuito ad un socio finanziatore o ad un
socio in grado di apportare alla società competenze e conoscenze specifiche in un determinato settore.
Il legislatore specifica che i diritti particolari possono riguardare l’amministrazione della società o la
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distribuzione degli utili.


In relazione all’amministrazione, possono essere attribuiti particolari privilegi per quanto riguarda: i) la
facoltà di scelta di alcuni amministratori o di esprimere il proprio gradimento in base alle persone indicate
dagli altri soci; ii) la riserva a favore del socio stesso della funzione di amministratore; iii) il diritto di veto o
anche di decisione su determinati atti gestori.
Per quanto riguarda i privilegi riguardanti la distribuzione degli utili, è possibile prevedere clausole che
riservano ad uno o più soci percentuali qualificate, non legate alla misura della partecipazione.
Il privilegio sulla distribuzione degli utili può consistere in una priorità nel prelievo del dividendo.
Il legislatore ha voluto assegnare direttamente al socio i diritti particolari. L’assegnazione di tali diritti al socio
e non alla partecipazione comporta che, in caso di trasferimento di quest’ultima, i diritti particolari non
circolano con essa, ma si estinguono.
La dottrina inoltre esclude la possibilità di creare nella s.r.l. delle categorie di quote e quindi delle serie di
partecipazioni, dotate di diritti diversi da quelli spettanti ad altre partecipazioni e attributive di questi diritti
in modo indifferenziato a chiunque venga ad acquistarle. Nell’ambito dell’art. 2468, co.4, si prevede che tali
diritti possano essere direttamente modificati solo con il consenso unanime dei soci. La stessa regola deve
applicarsi anche al caso di introduzione degli stessi nell’atto costitutivo, fatta salva diversa disposizione in
quest’ultimo. In questo modo i soci possono reintrodurre per le modifiche dirette la regola maggioritaria.
E’ poi riconosciuto che, in presenza di una modifica indiretta, cioè attuata non attraverso una formale
variazione dell’atto costitutivo, ma mediante il compimento di un’operazione gestoria approvata dai soci a
maggioranza, capace di incidere indirettamente sul diritto particolare (si pensi al caso in cui venga costituita
una joint venture con altre imprese, con cui si programma un coordinamento o una combinazione delle
azioni amministrative, da ridurre così in modo significativo il diritto di veto riconosciuto ad un socio), spetti
al socio non consenziente il diritto di recesso.

Le partecipazioni nella s.r.l. sono liberamente trasferibili per atto tra vivi e per successione a causa di morte,
salvo contraria disposizione dell’atto costitutivo. Quest’ultimo può limitare il trasferimento delle
partecipazioni introducendo clausole di gradimento o di prelazione, o escludendo del tutto la loro
trasferibilità. Questo fa sì che la s.r.l. possa caratterizzarsi come società chiusa nell’ambito del quale le
partecipazioni non risultano liberamente trasferibili.
Per quanto riguarda gli altri tipi di clausola, nella s.r.l. il potere di pronunciarsi sul gradimento può essere
concesso non solo ai singoli soci, ma anche a terzi estranei.
Il legislatore, a tutela dell’interesse del socio a non restare “prigioniero” nella società, prevede che qualora
l’atto costitutivo introduca l’intrasferibilità della partecipazione o ne subordini il trasferimento al gradimento
di organi sociali, di soci o di terzi, o ponga condizioni o limiti che ne impediscono il trasferimento a causa di
morte, il socio o i suoi eredi possono esercitare il diritto di recesso. L’atto costitutivo può solo stabilire un
termine non superiore a due anni dalla costituzione della società o dalla sottoscrizione della partecipazione
prima del quale il recesso non può essere esercitato.
La disciplina relativa al trasferimento della partecipazione è contenuta nell’art. 2470. Innanzitutto occorre
stipulare l’atto di trasferimento per iscritto con sottoscrizione autenticata da parte di un notaio. Esso, per
essere efficace nei confronti della società, deve essere depositato a cura del notaio autenticante presso
l’ufficio del registro delle imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede della società.
Dal momento del deposito il trasferimento della partecipazione ha effetto di fronte alla società, quindi essa
rende possibile l’acquisto della qualità di socio ancor prima che si sia completato il processo di iscrizione. E’
stata invece abolita la precedente disposizione contenuta nello stesso art. 2470 la quale dava rilevanza
all’iscrizione nel libro dei soci.
L’atto di trasferimento deve poi essere iscritto nel registro delle imprese e in caso di contrasto tra più
acquirenti a fronte della doppia alienazione della stessa, è preferito colui che per primo ha effettuato in
buona fede la suddetta iscrizione nel registro delle imprese, anche se il suo titolo è di data posteriore.

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In forza dell’art. 2474, la s.r.l. non può in alcun caso acquistare o accettare in garanzia partecipazioni
proprie, o accordare prestiti o fornire garanzia per il loro acquisto o la loro sottoscrizione.
Per quanto riguarda le conseguenze derivanti dalla violazione di tali divieti, la dottrina considera nullo l’atto
contrario alla norma 2474.
La partecipazione può formare oggetto di espropriazione (art.2471). Il pignoramento si esegue mediante la
notifica al debitore e alla società e successiva iscrizione nel registro delle imprese. L’ordinanza del giudice
dell’esecuzione che dispone la vendita della partecipazione deve essere notificata alla società a cura del
creditore.
Nel caso di partecipazione non liberamente trasferibile, si applica una disciplina particolare volta a tutelare
sia l’interesse della società ad evitare l’ingresso nella compagine sociale di estranei non graditi, sia
l’interesse dei creditori a soddisfarsi sulla partecipazione. Tuttavia, per impedire che la partecipazione possa
essere trasferita a soggetti “non graditi”, si riconosce la possibilità per la società di rendere la vendite priva
di effetto qualora, entro dieci giorni dall’aggiudicazione, presenti un altro acquirente in grado di offrire lo
stesso prezzo.
Infine, la partecipazione può formare oggetto di pegno, usufrutto e sequestro. In questo caso il legislatore,
all’art. 2471-bis, richiama le disposizione previste nell’art. 2352, in relazione alla s.p.a., volte a determinare i
diritti che spettano al socio e/o al titolare del diritto frazionato.

Anche nella s.r.l. i soci possono procedere spontaneamente ai versamenti erogando alla società somme che,
pur non venendo imputate a capitale, incrementano il patrimonio netto, e alla loro effettuazione non si
accompagna un obbligo di restituzione, se non per quello che residua una volta pagati i creditori sociali, al
termine della vita stessa della società. Questi versamenti rappresentano, quindi, per i soci operazioni di
investimento nell’attività a titolo di capitale di rischio.
I finanziamenti rappresentano, invece, operazioni effettuate a titolo di capitale di credito, con diritto al
rimborso pieno, a favore del socio finanziatore, alla scadenza pattuita. In questo modo il socio assume la
veste di puro creditore della società.
Nelle s.r.l. era prassi costituire la società con un capitale sociale pari al minimo legale, anche se inadeguato
rispetto all’oggetto sociale, e dotarla così di risorse finanziarie attraverso finanziamenti rimborsabili elargiti
dai soci stessi, i quali, in questo modo, fornivano alla società capitale di credito, piuttosto che capitale di
rischio. In questo modo la società veniva a trovarsi in una situazione di sottocapitalizzazione nominale.
Questo fenomeno, però, poteva determinare dei pregiudizi per i creditori sociali che si trovavano a
concorrere con i soci per quanto riguardava i finanziamenti da questi ultimi effettuati, vedendosi ridotte così
le prospettive di soddisfacimento nei confronti della società stessa.
Per arginare tale situazione, il legislatore del 2003 ha previsto, con una norma imperativa a tutela degli
interessi delle parti, che il rimborso dei finanziamenti effettuati dai soci a favore della società, sono
postergati rispetto alla soddisfazione degli altri creditori.
Tale postergazione opera solo quando i finanziamenti sono stati elargiti dal socio in un momento in cui
risultava un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto o in una situazione
finanziaria nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento piuttosto che un finanziamento.
Viene infine previsto che, se la società fallisce e il finanziamento è stato già rimborsato ai soci nell’anno
precedente alla dichiarazione di fallimento, esso deve essere restituito.
Tale disciplina si applica ai finanziamenti “in qualsiasi forma effettuati” e può essere applicata alle altre
società di capitali con base azionaria ristretta e con soci partecipi all’attività economica.

L’art. 2483 consente alla s.r.l. di emettere titoli di debito e quindi titoli di massa rappresentativi di un debito
pecuniario. In questo modo la s.r.l. può ricorrere, indirettamente e con dei limiti, al mercato del capitale di
credito. Per poter procedere all’emissione (art. 2483) è necessaria la presenza di un’apposita previsione
nell’atto costitutivo, il quale deve individuare a chi spetta decidere sull’emissione e con che modalità e
maggioranze necessarie, oltre che a determinare eventuali limiti all’emissione, che a differenza di quanto

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accade nelle s.p.a. non sono indicati dalla legge ma rimessi all’autonomia delle parti.
Spetta poi al soggetto individuato nell’atto costitutivo stabilire le condizioni del prestito e le modalità del
rimorso. La stessa decisione di emissione deve essere iscritta a cura degli amministratori presso il registro
delle imprese. Per la modifica delle condizioni del prestito e delle modalità di rimborso, la società deve
ottenere il consenso di tutti i possessori dei titoli, a meno che la stessa decisione di emissione non preveda
come sufficiente il consenso della maggioranza.
In questo tipo societario, il legislatore prevede che i titoli di debito devono essere sottoscritti unicamente da
investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale a norma delle leggi speciali (SIM; SGR; SICAV;
banche), i quali però, possono una volta sottoscritti i titoli, immetterli nel mercato secondario, vendendoli
ad altri soggetti. Al fine di tutelare i successivi acquirenti dei titoli contro il rischio che la società risulti
insolvente e non sia in grado di rimborsare il debito contratto, si riconosce che, in caso di successiva
circolazione, chi li trasferisce debba rispondere della solvenza della società. Tale garanzia opera purché
l’acquirente non sia anch’esso un investitore professionale o un socio della società stessa.

L’uscita del socio di s.r.l. dalla società può radicarsi nelle cause di estinzione del rapporto tipiche dei sistemi
societari, ossia il recesso e l’esclusione.

Il recesso è regolato dall’art. 2473. Esso svolge soprattutto la funzione di bilanciare il potere della
maggioranza e gli interessi della minoranza dissenziente, di fronte alle scelte più radicale assunte dalla
prima. A questo si deve la presenza di cause inderogabili di recesso. L’atto costitutivo, però può ampliare le
ipotesi in cui al socio è consentito porre fine alla sua permanenza in società; l’introduzione di cause
statutarie di recesso consente di dare rilevo così a circostanze che i soci reputano fondamentali per il
mantenimento del vincolo con la società.
Le cause legali e inderogabili di recesso sono indicate nella prima parte dell’art. 2473. Il recesso è permesso
ai soci che non hanno acconsentito a:

a) cambiamento significativo dell’oggetto sociale, cioè tale da determinare un’alterazione del rischio
dell’investimento;
b) cambiamento del tipo di società;
c) fusione o scissione;
d) revoca dello stato di liquidazione;
e) trasferimento della sede all’estero;
f) eliminazione di una o più cause di recesso statutarie;
g) compimento di operazioni gestorie che comportano una sostanziale modifica dell’oggetto sociale
statutario o una rilevante modifica dei diritti particolari dei soci (ad es. conversione della società da
ente operativo a holding, mediante cessione dell’azione a società controllate);
h) se la società è costituita a tempo indeterminato, ciascun socio può recedere in qualsiasi momento
con un preavviso di 180 giorni.

La legittimazione all’esercizio del diritto spetta, quando la causa consiste in una decisione dei soci, a quelli
non consenzienti e a qualunque socio per il recesso dalla società a tempo indeterminato o le cui quote
siano intrasferibili. Non è escluso però che, rispetto a determinate fattispecie, l’atto costitutivo la attribuisca
solo ad alcuni soci, come diritto particolare.
Anche in relazione alle modalità di esercizio del diritto, l’art. 2473 rimanda all’atto costitutivo. Questo
quindi è libero di definire i termini e le forme entro cui la dichiarazione di recesso deve essere comunicata
alla società. Nel silenzio dell’atto costitutivo, si rimanda all’art. 2473-bis (dichiarazione mediante
raccomandata spedita alla società entro 15 giorni dall’iscrizione nel registro delle imprese della delibera
legittimante, o dalla sua trascrizione nel libro delle decisione dei soci, se non è prevista iscrizione; entro 30
giorni dalla conoscenza del fatto legittimante diverso da una decisione dei soci).

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Anche le modalità di attuazione del disinvestimento e di rimborso del recedente sono affidate all’atto
costitutivo. Si procede in primis attraverso la cessione della quota ad altri soggetti che possono essere gli
altri soci in proporzione alle rispettive partecipazioni, o anche uno o più terzi, individuati dai soci. In
mancanza di interessati, la quota è liquidata ricorrendo alle riserve disponibili della società. Solo qualora
esse non siano sufficienti, si riduce il capitale, estinguendo la partecipazione; ma poiché si tratta di una
riduzione reale i creditori possono opporsi; se per effetto dell’opposizione, la riduzione e il rimborso
vengono impediti, la società viene posta in liquidazione. Questa però è l’ipotesi estrema per conciliare
l’interesse del recedente con la tutela dei creditori: il primo partecipa con gli altri alla liquidazione, e viene
rimborsato solo al termine di questa, non più secondo il valore che la sua quota aveva nel momento in cui il
recesso è divenuto efficace, ma secondo il valore che essa ha al termine della procedura di liquidazione.
Il termine entro cui si deve procedere al rimborso è 180 giorni dalla comunicazione del recesso.
Il valore della somma che spetta al recedente deve essere determinato proporzionalmente al patrimonio
sociale, applicando criteri di valutazione non contabili, ma tali da riflettere il valore reale del patrimonio
stesso nel momento in cui il recesso diviene efficace.

Ai sensi dell’art. 2473-bis “l’atto costitutivo può prevedere specifiche ipotesi di esclusione per giusta causa
del socio”. A differenza delle società di persone quindi lo strumento espulsivo qui è previsto come
eventuale e rimesso all’autonomia statutaria: in assenza di un’apposita disposizione dell’atto costitutivo,
nessun socio può essere escluso, neanche in presenza di gravi motivi.
Quindi compete all’autonomia negoziale l’individuazione delle cause di esclusione e in questo non c’è limite
se non quello della giusta causa. Infatti l’esclusione è legittima solo al verificarsi di fatti relativi alla persona
di uno dei soci, che rendono oggettivamente non più opportuna la sua permanenza in società.
La giusta causa può consistere:

a) nella violazione, da parte del socio, degli obblighi nascenti dal rapporto sociale, diversi da quello di
conferimento (ad es. abuso del diritto di voto in assemblea, della divulgazione di notizie riservate);
b) in comportamenti del socio, reputati incompatibili con l’attività sociale (ad es. l’esercizio di
un’impresa concorrente, stipulazione di contratti con soggetti o categorie di soggetti sgraditi alla
società);
c) nella perdita, da parte del socio, di alcuni requisiti soggettivi (iscrizione a un albo);
d) nel sopravvenire di altri fatti relativi alla sua persona (fallimento personale, interdizione, condanne
penali ecc).

il requisito della giusta causa è condizione di legittimità della clausola dell’atto costitutivo: occorre che
l’espulsione del socio persegui un interesse obiettivamente meritevole dei soci. Inoltre quando la fattispecie
prevista non si riferisca ad una vicenda di cui basti verificare se si è o no verificata, ma richiede una
valutazione discrezionale, la giusta causa opera anche come criterio di valutazione della gravità e rilevanza
del fatto in concreto verificatosi.
L’art. 2473-bis pone inoltre un secondo requisito di validità, in quanto esige che le ipotesi di esclusione siano
“specifiche”, cioè enunciate nell’atto costitutivo in modo preciso e non generico: il requisito di specificità
tutela l’interesse di ciascun socio a poter conoscere ex ante le conseguenze del proprio comportamento o
dei fatti che lo riguardano. Proprio la presenza di questo requisito fa sì che l’elencazione statutaria sia da
considerarsi tassativa.
E’ rimessa all’autonomia statutaria anche la determinazione della procedura di esclusione. L’atto costitutivo
potrà prevedere così ipotesi di esclusione automatica o facoltativa, attribuendo alla collettività dei soci o
agli amministratori, il potere di decidere se escludere o no il socio in relazione a cui si sia realizzato l’evento
che legittima l’estromissione.
In ogni caso, l’escluso ha diritto di opporsi davanti al Tribunale, potendo anche richiedere la sospensione
dell’esecuzione.
In ordine all’attuazione dell’esclusione, cioè alle forma attraverso cui l’escluso viene privato della titolarità
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della quota e riceve la liquidazione del suo valore, l’art. 2473-bis rinvia alla disciplina del recesso. Il valore
della quota di liquidazione è determinato secondo il valore reale della partecipazione.

§62. La s.r.l.: la struttura organizzativa

La disciplina riguardante la struttura organizzativa della s.r.l. si sviluppa, negli artt. 2475 ss., secondo due
direttrici: a) l’estrema flessibilità del sistema di governo dell’impresa; b) l’attribuzione ai soci di un ruolo
attivo e centrale nella vita della società.
Il modello legale, cioè quello che opera se l’atto costitutivo non dispone diversamente, si sviluppa secondo
uno schema che pare analogo al sistema di governance tradizionale delle s.p.a., con soci chiamati a decidere
sulle modifiche dell’atto costitutivo e a nominare gli amministratori; con un organo amministrativo,
unipersonale o collegiale, cui è affidata la gestione dell’impresa; e un organo per il controllo contabile e
amministrativo. Ma nella s.p.a. la struttura organizzativa è caratterizzata da una forte rigidità in quanto
l’azionista non ha poteri gestori, né di controllo diretto ed aderisce o disapprova le strategie imprenditoriali
adottate dall’organo amministrativo.
Invece, nelle s.r.l., i soci sono parte attiva dell’organismo e questo rispecchia l’autonomia negoziale, che può
avvenire sia attraverso una diversa distribuzione delle competenze e dei poteri, sia introducendo forme e
procedure decisionali più agili. Sotto il primo aspetto, l’atto costitutivo può arricchire le competenze gestorie
della collettività dei soci o anche dei singoli. Sotto il secondo aspetto, invece, l’autonomia statutaria può
snellire le procedure collegiali e perfino adottare i regimi di amministrazione, disgiuntiva o congiuntiva, tipici
delle società di persone.

Il ruolo della collettività dei soci è centrale all’interno della struttura organizzativa della s.r.l. Essi infatti
hanno competenze in ogni campo della gestione imprenditoriale che l’autonomia statutaria può rafforzare
ma non ridurre, se non a favore di prerogative riconosciute a singoli soci. Le competenze della collettività
dei soci si distinguono in:

A. Competenze necessarie (art. 2479) affidate inderogabilmente alla decisione del gruppo dei soci e
consistono o nella rilevanza delle materie stesse, in quanto riguardano l’assetto fondamentale
dell’ente, o nella necessità di rispettare il normale equilibrio di poteri e funzioni tra gli organi.
B. Competenze normali, ma derogabili. Si tratta della nomina degli amministratori e della
distribuzione degli utili. Riguardo la prima, l’atto costitutivo può attribuire ai singoli soci un diritto
particolare che, investendoli individualmente della carica di amministratore o del potere di nomina,
esclude la competenza del gruppo, in parte o totalmente, a seconda che l’organo gestorio così
formato debba o meno essere integrato da componenti designati da gruppo stesso. Quanto alla
distribuzione degli utili, l’atto costitutivo può assegnare a singoli soci un diritto di percepire gli utili
che risultano dal bilancio, o parte di essi. Anche la revoca degli amministratori spetta alla
collettività.
C. Competenze legali eventuali. Si tratta di una competenza gestoria illimitata, concorrente con quella
degli amministratori, ma eventuale in quanto si attiva solo su richiesta dei soggetti indicati.
D. Competenze esclusive statutarie. L’atto costitutivo può attribuire ai soci ulteriori e rafforzate
competenze in ambito gestorio. L’art. 2483 prevede che ad essi possa spettare il potere di emissione
dei titoli di debito. Nella s.r.l. l’autonomia statutaria non incontra alcun limite di materia: la clausola
può assegnare ai soci il potere decisionale, vincolate per gli amministratori, su qualsiasi argomento.

Il coinvolgimento dei soci nella gestione nella s.r.l. è istituzionalizzato. Questo ruolo si rispecchia nella
disciplina della responsabilità per gli atti di mala gestio, per i quali rispondono in solido con gli
amministratori, i soci che li hanno decisi e autorizzati.
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Il procedimento attraverso cui la collettività dei soci assume le proprie decisioni non ha necessariamente
natura assembleare. L’art. 2479, co.3, consente infatti all’atto costitutivo di “prevedere che le decisioni dei
soci siano adottate mediante consultazione scritta o sulla base del consenso espresso per iscritto”.
La decisione indica ogni atto del gruppo dei soci, mentre la deliberazione costituisce solo una specie della
categoria delle decisioni, identificando quelle adottate dall’assemblea; accanto ad esse, quindi, possono
affiancarsi le decisioni non assembleari.
Il metodo assembleare resta il modello principale in quanto è il più adatto, attraverso il dibattito e il
confronto tra i soci, all’assunzione di scelte ponderate ed equilibrate. Per questo motivo le materie di
maggiore importanza devono essere inderogabilmente trattate in assemblea.
I procedimenti non assembleari perseguono obiettivi di efficienza da un punto di vista diverso: consentono
di assumere decisioni con maggiore agilità e ne semplificano l’iter di formazione. La norma li identifica come
“consultazione scritta” e con “consenso espresso per iscritto”; le tecniche consentite sono molteplici, dalla
sottoposizione ai soci di una proposta, inviata loro con qualsiasi mezzo, sollecitandoli ad una dichiarazione
di voto inviata con un mezzo analogo, fino alla circolazione tra i soci stessi di un documento che contiene la
proposta di decisione, che viene sottoscritto da coloro che vi aderiscono.
Tuttavia anche quando sono previsti dall’atto costitutivo, questi metodi soccombono davanti alla richiesta,
avanzata da uno o più amministratori o dai soci che rappresentano almeno un terzo del capitale, di
sottoporre l’argomento alla discussione in assemblea.

L’art. 2479-bis si dedica all’assemblea sei soci. Il procedimento si articola secondo il modello comune alle
s.p.a. Tuttavia l’applicazione in via analoga di quella disciplina non può essere automatica in quanto la s.r.l.
ha le proprie caratteristiche sia per il maggiore spazio concesso all’autonomia statutaria, sia per la centralità
che le persone dei soci hanno all’interno della struttura organizzativa. Quindi ogni fase del procedimento
deliberativo richiede una ricostruzione specifica.

i. La convocazione avviene nelle forme indicate nell’atto costitutivo, tali da assicurare la tempestiva
informazione di tutti i soci sugli argomenti da trattare. Nel silenzio dell’atto costitutivo, si procede
mediante la lettera raccomandata spedita almeno otto giorni prima della riunione. Queste è svolta
presso la sede della società. La norma non indica chi sia legittimato a procedere alla convocazione.
Si ritiene che lo siano gli amministratori ed eventualmente l’organo di controllo, se nominato. E’
invece dubbio se spetta anche ai soci che rappresentano il terzo del capitale, o se invece, quando
intendano sottoporre all’assemblea un argomento, debbano richiederne la convocazione agli
amministratori.
ii. Hanno diritto di intervenire tutti i soci. Il principio è inderogabile, pertanto non è ammessa nelle
s.r.l. la creazione di quote senza diritto di voto o con diritto di voto condizionato o limitato a
particolari argomenti.
iii. L’assemblea, presieduta dalla persona indicata nell’atto costitutivo o designata dagli intervenuti, è
validamente costituita se sono presenti tanti soci che rappresentino almeno la metà del capitale
(quorum costitutivo). Essa delibera con voto favorevole della maggioranza del capitale presente o,
nelle materie indicate nei nn. 4 e 5 dell’art. 2479 (modifiche dell’atto costitutivo e operazioni
gestorie fondamentali) con una maggioranza rafforzata, che rappresenti almeno la metà del
capitale sociale (quorum deliberativo). Il voto espresso da ciascun socio ha un peso proporzionale
alla sua partecipazione.
Non è dunque prevista nelle s.r.l., un’articolazione dell’assemblea in ordinaria e straordinaria, ma,
come nella s.p.a., le deliberazioni più importanti richiedono maggioranze più elevate e sono
soggette a regole più rigide. Non è neanche prevista una divisione in prima e seconda
convocazione. Infatti se non si raggiunge il quorum costitutivo nella prima e unica riunione prevista,
è necessario avviare ex novo l’iter procedimentale con una nuova convocazione. L’atto costitutivo

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può però introdurre un’assemblea di seconda convocazione, riducendo l’aliquota di capitale


prevista dalla norma.
iv. Anche per le assemblee della s.r.l. deve essere redatto il verbale, da trascrivere nel libro dei soci. Il
contenuto e i tempi della sua redazione sono disciplinati dall’art. 2375: esso quindi deve essere
formato senza ritardo e deve indicare, in allegato, l’identità dei partecipanti e il voto espresso da
ciascuno di essi.
v. Una volta adottate, le delibere sono immediatamente efficaci, tranne quelle modificative dell’atto
costitutivo che acquistano efficacia con l’iscrizione nel registro delle imprese.

Non è dedicata nessuna norma alle tecniche non collegiali. Si tratta quindi di formule generiche che lasciano
ampia libertà nella determinazione dell’iter procedimentale. Ciò che caratterizza questi meccanismi
decisori, è l’assenza di collegialità.
La procedura può comunque essere scandita da fasi prestabilite e regolamentate nelle forme e nei tempi,
come nel caso in cui si preveda l’invio ai soci, da parte degli amministratori e con un mezzo specifico, della
sollecitazione a pronunciarsi su una determinata proposta, ed un termine entro il quale i soci devono far
prevenire presso la sede della società il proprio voto scritto o copia di esso.
Sono però anche previste forme destrutturate, come nel caso in cui si preveda che chiunque possa
assumere l’iniziativa di redigere un documento scritto contenente la decisione, da sottoporre poi
all’approvazione scritta e separata da parte di ciascuno dei soci. L’atto costitutivo è libero di decidere per
l’una o l’altra forma.
Alcuni principi risultano tuttavia inderogabili. Tutti i soci devono essere informati in tempo utile dell’avvio
del procedimento e tutti devono poter prendervi parte, non basterebbe quindi raccogliere i soli consensi
della maggioranza, senza interpellare la minoranza. Infatti ogni voto resta revocabile fino alla chiusura del
procedimento e fino a questo momento può chiedersi l’interruzione della procedura e della convocazione
dell’assemblea, da parte di ciascun amministratore o del terzo del capitale.
E’ anche previsto un quorum distinto rispetto a quello per l’assunzione delle delibere assembleari: la
decisione è presa con il voto favorevole della maggioranza che rappresenta almeno la metà del capitale, ma
lo statuto può disporre diversamente, sia innalzandolo che riducendolo.

L’art. 2479-ter disciplina l’invalidità delle decisioni, senza distinzione tra quelle assembleari e quelle non
collegiali. Vale lo stesso sistema delle s.p.a. per cui risulta totalmente autonomi rispetto allo schema di
nullità/annullabilità, in quanto si ricorre all’impugnazione. Infatti, mentre la disciplina del contratto si
focalizza esclusivamente sul rispetto delle norme e sulla libera determinazione della volontà nella
conclusione del contratto, l’ordinamento societario, pur presidiando la conformità dell’azione alla legge e
all’atto costitutivo, deve assicurare la stabilità delle operazioni economiche, nel predisporre i rimedi in
presenza di vizi.
Come nella s.p.a. i vizi invalidanti si dividono in due categorie: quella della non conformità alla legge o
all’atto costitutivo e quella che comprende l’assenza assoluta di informazione e l’illiceità o l’impossibilità
dell’oggetto. Inoltre, l’art. 2479-ter non ricorre alle nozioni di annullabilità e nullità, ma in entrambi i casi la
decisione è impugnabile, e diversi sono i soggetti legittimati e i termini.

a) L’assenza assoluta di informazione consiste nella mancata comunicazione ad uno o più soci
dell’avvio del procedimento decisionale e corrisponde al vizio di “mancata convocazione”. L’illiceità
o impossibilità dell’oggetto discendono dalla contrarietà a norme imperative, all’ordine pubblico e
al buon costume, o dall’impossibilità materiale o giuridica del contenuto della decisione.
b) Ogni altro vizio rientra nel difetto di conformità alla legge o all’atto costitutivo come: ogni
irregolarità procedimentale compresa la mancata verbalizzazione della delibera assembleare; il
conflitto di interessi del socio il cui voto sia stato determinante per l’assunzione di una decisione
dannosa per la società e l’abuso del diritto di voto a danno degli altri soci.

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Legittimato all’impugnazione è ciascun socio che non ha consentito alla decisione, ciascun amministratore
e l’organo di controllo. Proprio perché la legittimazione del socio non dipende dalle dimensioni della sua
partecipazione, non è prevista la tutela risarcitoria.
La decisione va impugnata negli stretti termini di novanta giorni e di tre anni, decorrenti dalla trascrizione
della decisione nel libro delle decisioni dei soci. E’ impugnabile senza limiti di tempo, invece, la delibera che
introduce un oggetto sociale impossibile o illecito.

Ai sensi dell’art. 2475, “l’amministrazione della società è affidata a uno o più soci nominati con decisione dei
soci” se l’atto costitutivo non dispone diversamente.
Gli amministratori hanno una competenza gestoria generale in quanto il loro compito è quello di elaborare
piani strategici imprenditoriali e di darvi attuazione.
Tuttavia la competenza degli amministratori di s.r.l. non è esclusiva, infatti la collettività dei soci conserva
una competenza legale concorrente sull’intera gestione e che l’atto costitutivo può sottrarre alcune
prerogative agli amministratori per affidarle ai soci. Clausole di questo tipo introducono limiti ai poteri degli
amministratori e li vincolano a dare esecuzione alle decisioni prese dai soci.
La nomina avviene con decisione presa dai soci stessi, ma anche sotto questo aspetto l’autonomia negoziale
può disporre diversamente. Ad es. si può, infatti, attribuire ad uno o più soci individualmente il potere di
designare gli amministratori, o il potere di indicare una rosa di nomi tra cui la collettività dovrà poi scegliere,
o la carica di amministratore anche a tempo indeterminato. La nomina va iscritta nel registro delle imprese
e l’eventuale invalidità dell’atto non è opponibile ai terzi che non ne fossero a conoscenza.
La legge non indica la durata della carica, quindi è l’atto costitutivo o quello di nomina a determinare la
durata e può procedersi anche ad una nomina a tempo indeterminato; inoltre gli amministratori sono
rieleggibili.
Non è neanche disciplinata l’ipotesi di revoca, il che non significa che quindi essa non sia legittima. Occorre
però fare delle distinzioni. Gli amministratori che sono tali in forza di un atto di nomina della collettività dei
soci o di uno di essi sono revocabili in qualunque momento dai soggetti titolari del potere di nomina; in
assenza di giusta causa, però, la società è tenuta al risarcimento del danno. Se però la carica era a tempo
indeterminato, il risarcimento è dovuto solo se non viene dato un congruo preavviso. Ogni socio, inoltre,
può richiedere la revoca in caso di gravi irregolarità compiute dall’amministratore. Al contrario, coloro a cui
la carica è attribuita come diritto particolare, non sono revocabili se non in caso di gravi irregolarità, dal
momento che il loro diritto è immodificabile senza il consenso unanime dei soci.

Per quanto riguarda le forme di esercizio del potere gestorio, possiamo dire che questo può essere affidato
ad un amministratore unico o ad una pluralità di soggetti, secondo la previsione statutaria o la decisione
dei soci al momento della nomina. In caso di pluralità di amministratori, il modello legale prevede che
l’esercizio delle funzioni avvenga mediante costituzione di un consiglio di amministrazione, come nelle
s.p.a. Tuttavia l’atto costitutivo può anche optare per sistemi propri alle società di persone come
l’amministrazione disgiuntiva o congiuntiva, o per un sistema misto. L’unico limite è imposto dall’art. 2475,
ult.co. riguardo la redazione del progetto di bilancio, di quelli di fusione e scissione, e per l’aumento di
capitale delegato che devono essere decisi in forma collegiale.
Il passaggio dall’uno all’altro sistema è possibile in ogni momento ma richiede una modifica dell’atto
costitutivo.
La rappresentanza legale è attribuita agli amministratori secondo i criteri indicati nell’atto costitutivo ma
anche qui, come nelle s.p.a., tale rappresentanza è generale e i relativi limiti, anche se risultano dall’atto
costitutivo iscritto nel registro delle imprese, non sono opponibili ai terzi, a meno che non si provi che essi
hanno agito intenzionalmente a danno della società.

Gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza dei
loro doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo (art. 2476, co.1).
Il principio consacra l’obbligo degli amministratori di gestire diligentemente l’impresa per l’attuazione
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dell’oggetto sociale. Nell’ambito della discrezionalità tecnica che ogni attività imprenditoriale presenta, gli
amministratori sono liberi di determinare i tempi, le strategie e le modalità del suo esercizio, definendo e
realizzando tutte le operazioni in cui essa si articola: richiede che la gestione si svolga secondo il criterio
della diligenza professionale richiesta dalla natura dell’incarico.
La responsabilità degli amministratori è solidale, in quanto ciascuno risponde dell’intero danno nei
confronti della società, salvo il diritto di regresso nei confronti degli altri nella misura e secondo il grado
della rispettiva colpa. Tuttavia la responsabilità non si estende a chi sia immune da colpa e, conoscendo il
fatto dannoso, abbia fatto constatare il proprio dissenso.
Quindi per chi intenda sottrarsi all’obbligo risarcitorio, vi è l’onere di segnalare la propria contrarietà
all’operazione di cui sia a conoscenza. Il dissenso non richiedere il rispetto di precise formalità, ma nei
diversi sistemi di governo adottabili da una s.r.l., variano le modalità della sua comunicazione e le funzioni
che esso deve assolvere: per il consiglio di amministrazione è sufficiente il voto negativo, mentre, in caso di
amministrazione disgiuntiva, è necessaria l’opposizione al compimento dell’atto, e nell’amministrazione
congiuntiva si richiede all’unanimità l’esercizio del potere di veto. Tuttavia la legge richiede che
l’amministratore sia anche immune da colpa ed gravano su di esso l’obbligo di agire in modo informato e
l’obbligo di intervento; pertanto, risponde dei danni anche chi non ha avuto conoscenza dell’atto lesivo per
aver violato il dovere di vigilanza e chi, conosciutolo, non si sia attivato per impedirne il compimento o
attenuarne gli effetti.
La responsabilità, inoltre, grava senza distinzioni a prescindere dal titolo e quindi anche sul socio il cui
potere gestorio sia accordato come diritto particolare, in quanto tale diritto è anche dovere di amministrare
con la diligenza professionale e nell’interesse della società.
L’azione di responsabilità è proponibile individualmente da qualunque socio, a prescindere dall’entità della
sua partecipazione; essa però non esclude che anche la società possa promuovere l’azione.
Il singolo socio può anche richiedere la revoca cautelare dell’amministratore in caso di gravi irregolarità, sia
unitamente alla proposizione della domanda di risarcimento, sia anticipatamente o indipendentemente da
questa.
Inoltre, la responsabilità non coinvolge solo gli amministratori, ma l’art. 2476, co.7, sancisce la
responsabilità solidale dei soci che abbiano intenzionalmente deciso o autorizzato il fatto dannoso.
Tale disposizione trova applicazione nei confronti di tutti i soci che consentono il compimento di
un’operazione dannosa (per la società, i creditori e i terzi) nell’esercizio, anche occasionale, del potere
gestorio di cui essi dispongono.

L’esistenza di un organo di vigilanza nelle s.r.l. è meramente casuale e diviene obbligatoria solo se si
verificano le condizioni fissate nell’art. 2477.
Il controllo è affidato a ciascuno dei soci non amministratori, anche quando sia presente il sindaco, che
hanno il “diritto di avere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare,
anche tramite professionisti di loro fiducia, i libri sociali e i documenti relativi all’amministrazione”. Si
determina così una sorta di internazionalizzazione del controllo.
Il loro contenuto è ampio in quanto riguarda le informazioni e i dati relativi alle singole operazioni, alle linee
strategiche o all’andamento generali dell’impressa; i documenti consultabili sono tutti quelli che riguardano
le vicende della gestione, senza eccezione e senza che gli amministratori possano respingere la richiesta del
socio per ragioni di riservatezza e segreto aziendale, essendo l’unico limite quello dell’esercizio del diritto
secondo buona fede e in modo da non intralciare la conduzione dell’impresa.
Si tratta di un diritto non eliminabile né comprimibile dall’atto costitutivo, perché appartiene a quegli
elementi che caratterizzano la s.r.l. e come tratto che coinvolge i soci alla vita dell’impresa. L’atto costitutivo
resta però libero di accrescere i diritti di controllo, come di regolarne le modalità di esercizio.

Solo al superamento di determinate soglie si rende obbligatoria l’attivazione di una funzione di controllo
svolta da un soggetto indipendente e professionalmente qualificato.

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Le condizioni necessarie alla nomina sono: a) l’essere la società obbligata a redigere il bilancio consolidato e
l’essere al vertice di un gruppo; b) l’essere controllante di un’altra società obbligata alla revisione legale dei
conti; c) il superare, per due esercizi consecutivi, due limiti (relativi all’ammontare dell’attivo e dei ricavi e al
numero dei dipendenti) fissati nell’art. 2435-bis.
Al verificarsi di queste circostanze l’interesse alla corretta gestione dell’impresa non è più solo una
questione interna all’impresa ma deve essere esternalizzata.
Per quanto riguarda il tipo di controllo obbligatorio, l’art. 2477, co.3, richiede la nomina di un organo di
controllo o di un revisore: esso deve riguardare irrevocabilmente sia il profilo gestorio che quello contabile.
L’organo di cui è richiesta la nomina è monocratico, se l’atto costitutivo non dispone diversamente e ad esso
si applica la disciplina sui sindaci di s.p.a. Pertanto poteri e doveri del soggetto a cui è affidato il controllo
sono quelli stabiliti dagli art. 2403 ss. e dall’art. 14 d.lgs. 39/2010 ma essa va coordinata con l’art. 2476,
poiché deve ritenersi che ogni socio sia legittimato ad agire nei suoi confronti.
Il rinvio alla disciplina della s.p.a. consente di sancire automaticamente anche per la s.r.l. l’immodificabilità
delle funzioni e dei poteri attribuiti al titolare del controllo. Tale soggetto ha il compito di vigilare
“sull’osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione e
sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società”. Inoltre ha il
compito di verificare costantemente “la regolare tenuta della contabilità sociale e la corretta rilevazione dei
fatti di gestione nelle scritture contabili”, nonché di esprimere in un’apposita relazione il giudizio sul
bilancio.
Al di fuori delle ipotesi di nomina obbligatoria, l’atto costitutivo può comunque prevedere la presenza di un
“organo di controllo” monocratico o pluripersonale, e/o di un revisore, potendone determinare anche le
competenze con una certa libertà (controllo facoltativo).
L’affidamento dei poteri di vigilanza a soggetti esterni, indipendenti e qualificati, svolge sia la funzione di
incrementare le garanzie per i soci non amministratori che di favorire l’immagine della società sul mercato,
in quanto la presenza di un ufficio deputato al controllo suscita nei terzi un affidamento che limita
parzialmente l’autonomia dei soci per quanto riguarda le sorti ed ai poteri di tale ufficio. La legge affida
all’atto costitutivo il compito di definirne i poteri, ma la libertà negoziale deve rispettare il criterio della
coerenza rispetto alle funzioni tipiche dell’ufficio stesso: cioè al sindaco potranno essere attribuiti solo i
poteri di controllo sulla gestione e contabile ma non funzione di revisione dei conti, mentre al revisore potrà
essere affidata quest’ultima funzione ma non altre.
L’autonomia statutaria non può intervenire sulla competenza alla nomina, né sui requisiti necessari per
assumere la carica, e non è lecita neanche la revoca delle presone già designate, in assenza di giusta causa
(in questo caso se l’assemblea vorrà rimuovere il sindaco o il revisore, potrà farlo cancellando l’ufficio).

SEZIONE QUINTA

LO SCIOGLIMENTO E LA LIQUIDAZIONE DELLE SOCIETÀ DI CAPITALI

§64. Lo scioglimento

Il codice civile, dagli art. 2484 al 2496, disciplina unitariamente, per tutte e tre le società di capitali, quella
fase della vita della società che, dal verificarsi di una causa di scioglimento e passando attraverso la
liquidazione del patrimonio sociale, conduce alla sua estinzione.
Con lo scioglimento, la società prosegue e mantiene la propria personalità giuridica, infatti lo scioglimento
in sé non incide sui rapporti giuridici in essere che fanno capo alla società e ciò vale anche per quei rapporti
che presuppongono l’esercizio di un’attività d’impresa (ad es. consorzi, associazione, agenzia ecc.)

Cause di scioglimento

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Le cause di scioglimento delle società di capitali sono elencate nell’art. 2484 anche se non si tratta di
un’elencazione completa in quanto il co.2 rinvia ad “altre cause previste dalla legge”. Inoltre alle cause di
scioglimento “legali” si possono affiancare anche quelle “convenzionali” previste dallo statuto.

Le cause legali sono:

a) Il decorso del termine. Questa causa di scioglimento oggi, per effetto della possibilità di costituire
anche una società a tempo indeterminato, è divenuta una causa destinata ad operare solo per
quelle società il cui atto costitutivo prevede una scadenza.
Ovviamente, anche quando è prevista una scadenza, prima che questa subentri, è possibile
prorogare il termine per mezzo di una modifica statutaria. Per la s.p.a. e la s.a.p.a., la deliberazione
dell’assemblea straordinaria di proroga del termine deve essere assunta con il quorum deliberativo
rafforzato, mentre non è prevista alcuna eccezione ai quorum stabiliti per le s.r.l. Inoltre va
sottolineato che nella s.p.a. e nella s.a.p.a., il socio che non ha concorso all’approvazione della
delibera di proroga del termine ha diritto di recedere dalla società. Nella s.r.l., invece, visto che la
proroga del termine non rientra tra le cause per cui viene attribuito il diritto di recesso, questo
spetta solo se previsto nell’atto costitutivo. La proroga del termine deve comunque essere
deliberata.
b) Il conseguimento dell’oggetto sociale o la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo. Il suo
conseguimento può avvenire solo là dove esso consiste in un’attività destinata a concludersi (ad es.
la realizzazione di un’opera).
Quanto all’impossibilità, questa può essere sia materiale che giuridica, come nel caso in cui lo
svolgimento di una determinata attività economica, prima consentito, sia successivamente vietato ai
privati per effetto di un intervento legislativo. Essa inoltre deve essere assoluta e definitiva e avere
carattere oggettivo, quindi senza dipendere da una mera impossibilità soggettiva della società.
In questa ipotesi gli amministratori sono obbligati a convocare l’assemblea per eventuali modifiche
statutarie, prima di procedere all’accertamento del verificarsi della causa di scioglimento. Nella
normalità dei casi, l’assemblea per evitare lo scioglimento, dovrà modificare l’oggetto sociale, anche
se generalmente si fa riferimento alle “opportune modifiche statutarie” perché, a fronte di
un’impossibilità sopravvenuta, il rimedio potrebbe anche consistere per es. in una delibera di
trasformazione o in un aumento di capitale.
c) L’impossibilità di funzionamento o la continuata inattività dell’assemblea. Le due fattispecie sono
accomunate in quanto si riferiscono entrambe a una situazione patologica dell’organo assembleare,
ma mentre la prima comporta una definitiva e irreversibile paralisi, la seconda prevede che sia
sufficiente una prolungata inerzia. La paralisi dell’organo deve, per essere considerata causa di
scioglimento, impedire l’adozione di delibere necessarie ed essenziali per il funzionamento della
società, come l’approvazione del bilancio d’esercizio e il rinnovo degli organi sociali.
d) La riduzione del capitale al di sotto del minimo legale. Non tutte le riduzioni al di sotto del minimo
legale costituiscono causa di scioglimento, ma solo quella che si realizza per effetto di una perdita
di oltre un terzo del capitale, cioè una perdita che rende obbligatoria la riduzione del capitale.
e) Il recesso del socio può determinare causa di scioglimento quando per il rimborso della
partecipazione è necessaria la riduzione del capitale, ma questa operazione risulta impedita
dall’opposizione di uno o più creditori sociali.
f) La deliberazione dell’assemblea. La possibilità di deliberare lo scioglimento della società prima
della scadenza del termine consiste nell’apportare una modifica all’atto costitutivo. La decisione
deve essere assunta dall’assemblea straordinaria nella s.p.a. e dall’assemblea nella s.r.l.

Tra le cause legali di scioglimento previste in norme diverse dall’art. 2484, va ricordata soprattutto quella
che si determina per effetto della dichiarazione di nullità della società già iscritta nel registro delle imprese.

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Il n.7 dell’art. 2484 prevede che sia lasciata all’autonomia privata la possibilità inserire nei documenti
costitutivi della società cause di scioglimento ulteriori (convenzionali) rispetto a quelle legali (ad es. per
mancato superamento di certe soglie di fatturato ad una certa data). Qualora ciò si verifichi è necessario
effettuare gli adempimenti pubblicitari richiesti.

L’art. 2484, co.3, definisce che gli effetti dello scioglimento di producono solo con l’iscrizione nel registro
delle imprese della deliberazione assembleare o della dichiarazione con cui l’organo di gestione ha
accertato il verificarsi di una delle altre cause previste.
In vista degli adempimenti pubblicitari previsti in tale articolo, l’organo di gestione deve procedere “senza
indugio” all’accertamento della causa di scioglimento e convocare, dove necessario, l’assemblea per le
deliberazioni relative alla liquidazione.
In caso di omissione da parte degli amministratori, spetta al tribunale, su istanza dei singoli soci, sindaci o
amministratori, di provvedere con decreto da iscriversi nel registro delle imprese, all’accertamento del
verificarsi di una causa di scioglimento.
Al di là degli obblighi loro imposti, al verificarsi di una causa di scioglimento gli amministratori subiscono un
ridimensionamento del loro potere di gestione. Infatti, l’art. 2486 stabilisce che essi conservano il potere di
gestire ma solo ai fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale.
Se eccedano nella gestione o omettano di compiere atti di gestione finalizzati alla conservazione del
patrimonio sociale, gli amministratori assumono responsabilità per gli eventuali danni arrecati alla società,
ai soci, ai creditori sociali e ai terzi.

§65. Il procedimento di liquidazione

Il procedimento di liquidazione delle società di capitali è complesso, che si apre con la nomina dei
liquidatori, ed inderogabile anche quando manchino le attività e le passività da liquidare.

Ai sensi dell’art. 2487, co.1, la nomina dei liquidatori spetta all’assemblea che delibera con le maggioranze
previste per le modificazioni dello statuto o dell’atto costitutivo. Non è sempre necessaria però una
deliberazione ad hoc in quando la legge prevede l’eventualità che le disposizioni in tema di liquidazione
siano contenute già nello statuto o nell’atto costitutivo (che potrebbero anche indicare nominativamente i
liquidatori).
Anche se nella s.p.a. spetta all’assemblea straordinaria provvedere alla nomina, l’articolo si riferisce in modo
generale a tutti i tipi di società di capitali in modo indifferente.
La deliberazione ha un contenuto complesso perché alla nomina dei liquidatori si accompagna: l’indicazione
dei criteri in base ai quali deve svolgersi la liquidazione; la definizione dei poteri dei liquidatori con riguardo
alla cessione dell’azienda e dei beni sociali; la liquidazione degli atti necessari per la conservazione del
valore dell’impresa, compreso l’eventuale esercizio provvisorio della stessa.
L’assenza nella deliberazione di nomina di ulteriori indicazioni può però porre una serie di problemi
applicativi e con riferimento al funzionamento dell’organo e ai poteri esercitabili dai liquidatori.
Dove vi siano più liquidatori, in assenza di indicazioni da parte dell’assemblea, questi devono operare
secondo il metodo collegiale, mentre, sempre in assenza di indicazioni assembleari, la rappresentanza
dovrebbe spettare disgiuntamente a ciascuno dei liquidatori. Inoltre, non essendo previsto dalla legge un
termine per la durata in carica di questi, essi, in assenza di indicazioni contrare nella deliberazione di
nomina o nei documenti costitutivi, rimangono in carica per tutto il corso della liquidazione.

Dopo aver previsto l’intervento sostitutivo del tribunale in caso di inerzia degli amministratori
nell’accertamento del verificarsi una causa di scioglimento, nell’art. 2487, co.2, sono disciplinati anche altri
due interventi dell’autorità giudiziaria: per il caso di mancata convocazione dell’assemblea per la nomina
dei liquidatori e per il caso di mancata costituzione o di mancata deliberazione dell’assemblea.

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L’ult. comma dell’art. 2487 nel disciplinare la revoca dei liquidatori, non riserva tale potere alla maggioranza
assembleare, anche se ricorra solo una giusta causa.
Quanto alla revoca assembleare è da ritenere che, in assenza di una giusta causa, spetta ai liquidatori il
risarcimento del danno.
Quanto alla revoca giudiziale, invece, la legittimazione è attribuita al pubblico ministero.

Ai sensi dell’art. 2487-bis, co.1, la pubblicità di nomina dei liquidatori e l’eventuale determinazione dei loro
poteri si realizza mediante iscrizione nel registro delle imprese.
Sempre con l’intento di fornire un’adeguata informazione ai terzi, la legge prescrive anche l’obbligo di
aggiungere alla denominazione sociale l’indicazione che si tratta di una società in liquidazione. Questa
aggiunta, non essendo considerata come una modifica della denominazione, non necessita di essere
realizzata mediante modifica dell’atto costitutivo o dello statuto, e va effettuata solo al seguito dell’avvenuta
pubblicità.
L’iscrizione della nomina dei liquidatori nel registro delle imprese non è importante solo ai fini pubblicitari,
ma anche perché segna il momento in cui cessano dalla carica gli amministratori e avviene il passaggio dei
poteri in capo ai liquidatori. A questo fine gli amministratori consegnano ai liquidatori i libri sociali e “una
situazione dei conti alla data effettiva dello scioglimento, insieme ad un rendiconto sulla loro gestione
relativo al periodo successivo all’ultimo bilancio approvato”.

L’art. 2489 si dedica alla disciplina dei poteri e degli obblighi dei liquidatori, ma è necessario considerare
anche l’art. 2491 che disciplina alcuni poteri e doveri particolari e le norme in tema di bilanci in fase di
liquidazione e quella relativa alla cancellazione della società dal registro delle imprese di cui all’art. 2495.
A differenza di quanto previsto per la società di persone, qui non è previsto per i liquidatori il divieto di
compiere nuove operazioni, anzi è loro riconosciuto il potere di “compiere tutti gli atti utili per la
liquidazione della società” salvo i limiti emergenti dall’atto costitutivo o dallo statuto o dalla deliberazione di
nomina.
Il tema più delicato è quello della continuazione dell’attività d’impresa in quanto si richiede se la decisione
di proseguire l’attività può essere frutto di un’autonoma scelta dei liquidatori. Questa è consentita solo se
determina un’utilità per la liquidazione e può essere limitata solo se previsto dallo statuto o dell’atto di
nomina.
Per quanto riguarda gli obblighi dei liquidatori, l’art. 2489 co.2, afferma che essi devono agire
nell’adempimento dei loro obblighi con la professionalità e la diligenza richieste dalla natura dell’incarico.
Infatti, nell’art. 2491 si prevedono: il potere dei liquidatori di chiedere ai soci i versamenti ancora dovuti
circa i conferimenti promessi; il divieto di ripartire tra i soci acconti sul risultato della liquidazione e una
responsabilità dei liquidatori per illecita ripartizione di tali acconti.
Riguardo la possibilità di chiedere ai soci di completare i versamenti, i liquidatori hanno il potere di
richiederli solo se i fondi disponibili risultano insufficienti per soddisfare i creditori.
Riguardo il divieto di distribuzione ai soci di acconti sul risultato della liquidazione, va sottolineato che i
liquidatori hanno la possibilità di derogare il divieto ogni volta che “dai bilanci risulti che la ripartizione non
incide sulla disponibilità di somme idonee all’integrale e tempestiva soddisfazione dei creditori sociali”.

Secondo quanto previsto dall’art. 2489, la responsabilità dei liquidatori per i danni derivanti
dall’inosservanza dei loro doveri è disciplinata secondo le norme riguardanti la responsabilità degli
amministratori, a cui si aggiungono due previsioni di responsabilità per il caso di illecita ripartizione tra i soci
di acconti sul risultato della liquidazione e per il caso di cancellazione della società dal registro delle imprese
senza aver provveduto al pagamento dei creditori sociali.

L’art. 2488 conferma la continuità della struttura organizzativa della società anche nel corso della fase di
liquidazione, mentre meno evidenti sono, da un lato, individuare quali sono in concreto le decisioni dei soci
o le deliberazioni assembleari da ritenere compatibili con la liquidazione e assumibili quindi anche in

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questa fase, e dall’altro, il significato da attribuire al riferimento alla continuità delle disposizioni sugli organi
amministrativi, nella previsione della loro cessazione all’atto dell’iscrizione nel registro delle imprese della
nomina dei liquidatori.
Riguardo l’individuazione delle decisioni sociali compatibili con la liquidazione, la disciplina non incontra
molti ostacoli, infatti durante la liquidazione è possibile deliberare una fusione, una scissione o una
trasformazione. Vi è maggiore libertà anche riguardo alle deliberazioni delle operazioni sul capitale.

Anche nella fase di liquidazione vi è la regola della redazione periodica del bilancio d’esercizio, cui sono
tenuti i liquidatori e che deve essere presentato per l’approvazione “all’assemblea o ai soci”.
Esso, nella liquidazione, ha la stessa struttura di quello “di funzionamento” e quindi si compone di stato
patrimoniale, conto economico e nota integrativa.
Soprattutto con riferimento ai criteri di valutazione delle diverse poste, il bilancio nella fase di liquidazione
si fonda su un sistema contabile flessibile, che può subire modifiche nel progredire della liquidazione e che
deve trovare adeguata motivazione nella nota integrativa. Assume particolare rilievo informativo la
relazione che accompagna il bilancio, nella quale, ai sensi del co.2, art. 2490, i liquidatori devono “illustrare
l’andamento, le prospettive della liquidazione e i principi e i criteri adottati per realizzarla”.
Ai liquidatori compete poi di dare continuità ai bilanci e quindi è posta particolare attenzione al primo
bilancio di competenza dei liquidatori, nel quale questi, allegandovi i due documenti contabili (situazione
dei conti alla data dello scioglimento e rendiconto sulla gestione relativo al periodo successivo all’ultimo
bilancio approvato), devono dare conto delle variazioni nei criteri di valutazione adottati rispetto all’ultimo
bilancio predisposto dagli amministratori e delle ragioni e conseguenze di tali variazioni.

“La società può revocare in ogni momento lo stato di liquidazione con deliberazione dell’assemblea presa
con le maggioranze richieste per le modificazioni dell’atto costitutivo” (art. 2487-ter. co.1).
Il ritorno della società all’ordinaria operatività è comunque condizionato dalla rimozione della causa di
scioglimento che aveva determinato l’apertura della liquidazione delle eventuali altre cause insorte nel
corso di questa. In questo contesto occorre verificare la sussistenza di un capitale minimo richiesto per il
tipo di società e quindi si impone la redazione di un bilancio straordinario.
La decisione di revoca attribuisce inderogabilmente al socio non consenziente il diritto di recedere dalla
società ed è garantita l’opposizione a tutela dei creditori sociali.

Una volta che è stato approvato il bilancio finale, i liquidatori devono chiedere la cancellazione della società
dal registro delle imprese. Disposta la cancellazione, dove permangono creditori sociali non ancora
compiutamente soddisfatti, questi avranno azione esclusivamente nei confronti dei soci o anche nei
confronti dei liquidatori se il mancato pagamento sia dipeso da loro colpa.
Questo è disposto dall’art. 2495, co.2, “ferma restando l’estinzione della società” conseguente alla sua
cancellazione. L’aggiunta di tale inciso è imposta dal legislatore della Riforma per contrastare l’orientamento
della giurisprudenza, formatosi prima del 2003, che negava l’effetto estintivo alla cancellazione ogni qual
volta fossero residuati rapporti giuridici non estinti.
Per effetto dell’intervento del riformatore oggi prevale la tesi dell’efficacia costitutiva della cancellazione.
Tuttavia gli interpreti si dividono sull’irreversibilità o meno della cancellazione, in relazione non tanto
all’esistenza di passività insoddisfatte, quanto in relazione alla sussistenza di attività non distribuite ai soci.
Al riguardo, mentre una parte della dottrina rimane ferma nel sostenere l’effetto estintivo della
cancellazione affermando che le eventuali sopravveniente attive andranno regolate secondo la disciplina
della comunione tra ex soci, l’altra parte ritiene utilizzabile lo strumento della cancellazione d’ufficio dal
registro delle imprese, per mezzo del quale potrebbe ottenersi “la cancellazione della cancellazione della
società”, rimuovendo così i suoi effetti.

SEZIONE SESTA

L’ARTICOLAZIONE DEL RISCHIO D’IMPRESA


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Articolare il rischio d’impresa significa adottare strumenti giuridici che, nell’esercizio di una pluralità di
attività produttive o nello svolgimento di una pluralità di affari, consentono di esporre al rischio di un loro
insuccesso solo una parte del patrimonio.
A questo proposito è noto il principio generale definito nell’art. 2740 in forza del quale “il debitore risponde
dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri”.
Lo stesso principio opera anche con riferimento alle società, il che significa che il rischio d’impresa è esteso
a tutto il patrimonio. E’ però possibile delimitare questo rischio e il legislatore ritiene questo interesse
meritevole di tutela, fornendo degli strumenti giuridici atti a consentire l’articolazione del rischio
d’impresa.
Alla realizzazione di questo obiettivo vi è innanzitutto la creazione di un gruppo di società. S.p.a. e s.r.l.
possono essere partecipate anche da un unico socio, perciò è consentito ad un soggetto dare vita ad una
pluralità di società unipersonali che a loro volta potrebbero essere socie di altre società, in modo da
esercitare una pluralità di attività che sono riferibili a soggetti distinti l’uno dall’altro, ma che
economicamente hanno un unico centro di riferimento. Così è possibile svolgere un’attività complessa
articolandola in più attività settoriali. Il legislatore regola questo fenomeno per assicurare che l’integrazione
tra le diverse società del gruppo non comporti un’unione di interessi tale da pregiudicare la sana gestione
delle diverse attività, determinando così danni ai creditori e ai soci di minoranza.
Altro strumento giuridico per realizzare effetti simile è la creazione di patrimoni destinati ad uno specifico
affare. Le società azionarie possono cioè individuare e destinare determinate risorse allo svolgimento di
un’operazione economica, isolandole dal resto del patrimonio. Questo destinato è un patrimonio separato
a cui viene limitato il rischio d’impresa relativo all’affare.

§66. I gruppi di società

A differenza di altri paesi dove sono diffuse le c.d. public companies (cioè quelle società nelle quali le azioni
sono di titolarità di molteplici soggetti e manca un socio che detiene una percentuale rilevante), in Italia la
proprietà è spesso concentrata in capo a pochi soggetti ed è possibile individuare un socio di controllo.
Il soggetto che si trova in una posizione di controllo è spesso contraddistinto da un interesse “partecipativo”
nei confronti della società, cioè spesso esercita un’influenza dominante che può sfociare in un’attività di
direzione e coordinamento nei confronti delle società controllate. Questo fenomeno caratterizza i gruppi di
società, cioè quelle strutture organizzative cui il legislatore, con la riforma del 2003, ha dedicato apposite
norme contenute negli art. 2497 ss. che sono suddivise in norme fisiologiche, tese a garantire trasparenza
sull’esistenza del gruppo e alle operazioni poste in essere da questo, e le norme patologiche, che invece si
occupano degli abusi della capogruppo e dei finanziamenti elargiti a società sottocapitalizzate.
Complessivamente le norme sono volte a tutelare i soci di minoranza e i creditori sociali delle società
soggette ad attività di direzione e coordinamento, mentre risultano del tutto trascurati i creditori sociali e gli
eventuali soci di minoranza della capogruppo.

L’art. 2359 individua tre distinte forme di controllo: i) il controllo di diritto; ii) il controllo di fatto; iii) il
controllo contrattuale.
Si ha controllo di diritto quando una società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea
ordinaria di un’altra società; mentre si ha controllo di fatto quando una società detiene, non la maggioranza
dei voti, ma voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria.
Infine si ha controllo contrattuale quando una società risulta sotto l’influenza dominante di un’altra in virtù
di particolari vincoli contrattuali (ad es. è il caso di una società A che ha come unico cliente la società B e si
trova ad essere in una situazione di dipendenza economica rispetto ad essa dato che il venir meno
dell’accordo contrattuale potrebbe compromettere la prosecuzione dell’attività imprenditoriale della prima).

La posizione di controllo esprime una possibilità di esercitare l’influenza dominante. La possibilità che una
società possa esercitare tale influenza su un’altra dà luogo all’applicazione di un’apposita e complessa

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disciplina vota a tutelare una molteplicità di esigenze ed interessi.


Le finalità a cui è volta questa disciplina sono: a) accentuare gli obblighi di vigilanza da parte degli organi
amministrativi e di controllo della controllante sull’attività della società controllata; b) fornire a tutti gli
interessati una corretta ed adeguata informazione in merito alla sussistenza del controllo e all’andamento
generale della controllante e delle controllate; c) garantire la conservazione del capitale sociale delle
società controllante e controllata ed evitare delle alterazioni nei meccanismi di formazione delle
maggioranze assembleari.

a) La prima esigenza (doveri di vigilanza) trova riscontro nell’art. 2381, co.5, che stabilisce che gli
organi delegati devono riferire al consiglio di amministrazione e al collegio sindacale sul generale
andamento della gestione e sulle operazioni di maggior rilievo effettuate dalla società e dalle sue
controllate; l’art. 2403-bis, co.2, prevede poi in capo al collegio sindacale il potere di richiedere agli
amministratori notizie sull’andamento delle operazioni sociali o su determinati affari e di scambiare
informazioni con gli organi delle società controllate in merito ai sistemi di amministrazione e
controllo e sull’andamento generale dell’attività sociale.
b) La seconda esigenza (informazione al mercato) è tutelate mediate diverse disposizioni volte a far
emergere dalle scritture contabili una serie di dati ed informazioni. In forza degli art. 2424, 2428 e
2429, occorre: i) indicare nello stato patrimoniale le partecipazioni detenute in altre società e i
rapporti finanziari tra società controllante e controllata; ii) effettuare, nella relazione sulla gestione,
un’analisi dei vari settori in cui la società ha operato; iii) depositare, nella sede della controllante,
una copia integrale dell’ultimo bilancio delle controllate insieme al bilancio della prima. Va disposto
un bilancio consolidato cioè da cui è possibile evincere la situazione patrimoniale, finanziaria ed
economica di tutte le società nel loro insieme.
c) La terza esigenza (effettività del capitale) trova riscontro nelle norme degli art. 2359-bis e 2359-
quinquies secondo cui la società controllata non può sottoscrivere azioni o quote della
controllante, mentre può acquistare azioni o quote dalla stessa, solo nei limiti degli utili
distribuibili e delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio approvato.
Nel caso tali limiti non vengano rispettati, sorge l’obbligo di alienare entro un anno dal loro acquisto
le partecipazioni, e qualora questo non sia possibile, la controllante deve procedere al loro
annullamento e alla corrispondente riduzione del capitale.
Possono essere acquistate solo le azioni interamente liberate e l’acquisto deve essere autorizzato
dall’assemblea ordinaria della controllata. Una volta acquistate azioni o quote della controllante, la
società controllata non può esercitare, nell’assemblea della prima, il diritto di voto inerente alle
partecipazioni. Tale previsioni sono volte sia a tutelare il capitale sociale e la sua effettività, sia a
prevenire distorsioni nella formazione della volontà assembleare, che si produrrebbe se il voto fosse
esercitato dalla controllata.

I gruppi di società sono delle forme organizzative nell’ambito delle quali vi è un soggetto (capogruppo) che
esercita un’attività di direzione e coordinamento nei confronti di altre società, che mantengono comunque
la loro autonomia giuridica e patrimoniale.
L’elemento che caratterizza tale fenomeno, quindi, è l’attività di direzione e coordinamento: qui si passa da
una situazione di possibilità di influenza dominante, ad una situazione di effettività dell’esercizio di
un’attività di direzione e coordinamento.
I benefici derivanti dall’appartenenza ad un gruppo per le singole società sono molteplici (ad es. la
possibilità di usare un marchio di gruppo assai noto, di ricorrere a prestiti intragruppo a condizioni più
favorevoli rispetto a quelle di mercato, di disporre di maggior potere contrattuale), anche se non possono
essere trascurati i rischi (ad es. l’eventualità che la capogruppo, del dare attuazione ad una politica di
gruppo, impartisca direttive pregiudizievoli nei confronti di alcune società a vantaggio di altre). In questi
casi, i soggetti più esposti al verificarsi di eventi patologici sono i soci di minoranza e i creditori sociali delle

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società sottoposte ad attività di direzione e coordinamento.


Precedentemente alla riforma del 2003 non era presente nell’ordinamento italiano una normativa specifica
per i gruppi di società, ora invece vi è un’apposita disciplina che affronta questi temi, negli art. 2497 ss. Non
è specificato a quali tipi devono appartenere la società coinvolte nella direzione e nel coordinamento, così
nel silenzio della legge si ritiene che la disciplina si applica a tutti i tipi di società.

Presupposto per l’applicabilità della disciplina è l’esercizio da parte della capogruppo di un’attività di
direzione e coordinamento. Essa consiste nel fatto che la capogruppo svolge un’attività di pianificazione
delle principali scelte imprenditoriali attinenti alle società del gruppo e una conseguente attività di
coordinamento e di indirizzo mediante direttive impartite alle diverse società.
Prima della riforma del diritto societario del 2003, la dottrina e la giurisprudenza si erano più volte
interrogate sulla liceità o meno dell’esercizio di tale attività, in considerazione dell’autonomia che dovrebbe
caratterizzare l’operato delle società. Il gruppo però, nel dare vita ad un’organizzazione complessa, non fa
venire meno la distinta soggettività delle singole società coinvolte, quindi questo determina, con le norme
fissate negli art. 2497 ss., un generalizzato accoglimento della liceità dell’attività purché non leda i principi
generali fissati dalle norme stesse.
Il legislatore al fine di agevolare l’onere della prova, introduce una presunzione relativa, in merito
all’esistenza e all’esercizio di un’attività di direzione e coordinamento. L’art. 2497-sexies afferma, infatti, che
si presume, salvo prova contraria, che l’attività sia esercitata dalla società o dall’ente tenuto al
consolidamento dei bilanci o dal soggetto in posizione di controllo.

Le norme fisiologiche hanno come obiettivo quello di garantire la massima trasparenza ed informazione in
ordine:

i. Esistenza del gruppo. Il legislatore impone, innanzitutto, la creazione di un’apposita sezione nel
registro delle imprese e l’iscrizione da parte delle diverse società coinvolte nella sezione.
L’iscrizione deve avvenire nel più breve tempo possibile a cura degli amministratori della società
controllata, i quali incorrono in responsabilità se non adempiono a tale obbligo, o se non
provvedono alla cancellazione dal registro nel caso in cui venga meno l’esercizio dell’attività di
coordinamento e di direzione. In questi casi gli amministratori rispondono dei danni che la mancata
conoscenza dei fatti ha recato ai soci o ai terzi. All’iscrizione nel registro delle imprese viene
generalmente riconosciuto valore di pubblicità notizia.
ii. Operazioni poste in essere nell’ambito del gruppo e agli effetti derivanti dal compimento di
queste. Vi sono quindi anche altre disposizioni che hanno come obiettivo quello di rendere
trasparente l’operatività stessa del gruppo. Il co.5 dell’art. 2497-bis prevede che gli amministratori
debbano indicare nella relazione sulla gestione i rapporti intercorsi con chi esercita attività di
direzione e coordinamento e con le altre società soggette a tale esercizio.
Deve inoltre essere indicato l’effetto che l’attività ha avuto sull’esercizio dell’impresa sociale e sui
suoi risultati. Sempre gli amministratori della società controllata devono poi esporre, in un’apposita
sezione della nota integrativa, un prospetto riepilogativo dei dati essenziali dell’ultimo bilancio della
capogruppo.
iii. Motivazioni sottese all’assunzione di determinate decisioni adottate sotto l’influenza della
capogruppo. Il legislatore vuole quindi garantire una trasparenza anche delle motivazioni che
hanno spinto ad assumente una particolare decisione. L’art. 2497-ter prevede così che le decisioni
adottate dalla società soggette ad attività di direzione e coordinamento, debbano essere
analiticamente motivate e recare indicazione delle ragioni e degli interessi che hanno inciso sulla
decisione.
Per garantire poi anche ai terzi l’accesso a tali informazioni, si prevede che debba essere data
un’adeguata informazione delle decisioni e delle motivazioni nella relazione sulla gestione, soggetto
a pubblicità.
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Le norme patologiche, invece, sono dirette ad arginare le possibili distorsioni nell’esercizio dell’attività di
direzione e coordinamento. In forza dell’art. 2497, è possibile per i soci e i creditori di una società
eterodiretta esercitare un’azione di responsabilità nei confronti della capogruppo.

a) La legittimazione attiva è attribuita ai soci e ai creditori della società soggetta all’attività di direzione
e coordinamento, ai quali spetta il risarcimento eventualmente riconosciuto. La responsabilità nei
confronti dei soci sussiste se si è verificato un pregiudizio alla redditività ed al valore della
partecipazione sociale; invece quella nei confronti dei creditori sociali sussiste nel caso di lesione
cagionata all’integrità del patrimonio della società eterodiretta.
b) Per poter configurare una responsabilità ai sensi dell’art. 2497, co.1, è necessario che ricorrano i
seguenti presupposti: i) sia stata posta in essere un’attività di direzione e coordinamento da parte di
una società o di un ente, limitando l’ambito applicativo della norma ai soli soggetti diversi dalle
persone fisiche; ii) la capogruppo abbia agito nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui e in
violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale; iii) la violazione dei
suddetti principi abbia determinato un pregiudizio.
i. Per quanto riguarda il primo requisito, il legislatore, per agevolare l’onere della prova, ha
introdotto le presunzioni e la pubblicità che però non rappresenta una condizione
necessaria per l’esercizio dell’azione di responsabilità.
ii. Il legislatore richiede poi che la società o l’ente abbiano agito nell’interesse imprenditoriale
proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria o imprenditoriale.
iii. Il pregiudizio, invece, consiste in un danno patito dalla società eterodiretta e dall’attore. La
responsabilità per abusivo esercizio dell’attività di direzione e coordinamento non sussiste
quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di
direzione e coordinamento o sia integralmente eliminato. Infatti nell’ambito dei gruppi di
società è necessario utilizzare un criterio valutativo che non si fermi al singolo atto ma che
guardi all’attività esercitata e che tenga conto dei molteplici rapporti in essere nel gruppo e
dei possibili vantaggi che una società può trarre dall’appartenenza al gruppo o da altre
operazioni in grado di compensare un pregiudizio precedentemente subito (c.d. vantaggi
compensativi).
c) Al co. 3 dell’art. 2497 si prevede che il socio e il creditore sociale possano agire contro la società o
l’ente capogruppo, solo se non sono stati soddisfatti. Se infatti il danno per cui il socio richiede il
risarcimento è quello subito in primis dalla società eterodiretta, questa non solo subisce un
pregiudizio da un’altra, ma è tenuta a risarcire di tale pregiudizio i propri soci.
d) Ai sensi del co.2 dello stesso art. sono responsabili, in solido con la capogruppo, coloro che abbiano
preso parte al fatto lesivo e quanti ne abbiano tratto beneficio consapevolmente. Grazie a tale
previsione è possibile estendere la responsabilità a una molteplicità di soggetti, anche non
appartenenti al gruppo di società e sarà possibile configurare una responsabilità in capo: i) agli
amministratori e/o i sindaci della capogruppo e della società soggetta all’attività di direzione e
coordinamento; ii) ai soci della società capogruppo; iii) alle società sorelle; iv) a soggetti terzi che
hanno preso parte al fatto lesivo o ne hanno tratto beneficio.
Per quanto riguarda coloro che non hanno partecipato al fatto lesivo, ma ne hanno tratto
consapevolmente beneficio, la responsabilità è limitata dalla legge al vantaggio conseguito.
e) Discussa infine è la natura della responsabilità dalla quale possono derivare importanti
conseguenze relative, ad es. all’onere della prova, al termine di prescrizione applicabile e al danno
risarcibile.

E’ frequente che nell’ambito dei gruppi vengono effettuati, da parte della capogruppo o da parte di una
società appositamente dedicata, dei finanziamenti a favore di altre entità. Molto spesso questi flussi
finanziari servono per porre riparo ad una situazione di sottocapitalizzazione presente in alcune unità del

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gruppo.
Per evitare che una determinata forma di finanziamento pregiudichi gli altri creditori, il legislatore ha
introdotto nelle s.r.l. un’apposita norma richiamata anche nei gruppi di società. Per effetto di questo
richiamo, il rimborso dei finanziamenti effettuati a favore di una società appartenente ad un gruppo deve
essere postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori e, se già avvenuto nell’anno precedente la
dichiarazione di fallimento, deve essere restituito.
Tale regola si applica ai finanziamenti effettuati dal soggetto che esercita attività di direzione e
coordinamento, e dalle altre società sottoposte a tale attività. Non risultano, invece, sottoposti a tale
disciplina i finanziamenti posti in essere dalle società eterodirette a favore della capogruppo.
Affinché operi la postergazione e la restituzione, è necessario che il finanziamento sia stato effettuato in un
momento in cui la società beneficiaria dello stesso risultasse avere un eccessivo squilibrio
dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto.
L’art. 2467 fa riferimento ai finanziamenti in qualsiasi forma effettuati, così che possono rientrarvi anche
quelli in natura (ad es. concessione di beni in godimento), le fideiussioni e le garanzie.

Al fine di tutelare i soci di minoranza delle società soggette ad attività di direzione e coordinamento davanti
ad eventi in grado di modificare le condizioni di rischio dell’investimento, il legislatore introduce, nell’art.
2497-quarter, alcuni casi di recesso che si sommano a quelli previsti con riferimento ai diversi tipi societari.

i. Innanzitutto l’art. 2497-quarter prevede che il socio della società eterodiretta possa recedere
quando la capogruppo abbia deliberato una trasformazione che implica un mutamento del suo
scopo sociale (ad es. il caso in cui la capogruppo – società lucrativa – si trasformi in società
cooperativa). Questa circostanza, pur riguardando la capogruppo è considerata dal legislatore
ipotesi rilevante e legittimante il diritto di recesso per il socio della società soggetta ad attività di
direzione e coordinamento.
ii. Il recesso spetta anche nel caso in cui venga modificato l’oggetto sociale della capogruppo. Il
recesso è anche in questa ipotesi, collegato ad una circostanza che coinvolge la società che esercita
l’attività di direzione e coordinamento. In questo caso però il socio che intende recedere deve
dimostrare che tale circostanza produca delle conseguenze anche nell’ambito della società soggetta
a tale attività di direzione.
iii. Il socio può inoltre recedere quando sia stata pronunciata una condanna a suo favore da chi
esercita attività di direzione e coordinamento. Al socio della società eterodiretta, in presenza di
abusi da parte della capogruppo, è concesso non solo uno strumento di tutela risarcitoria ma quindi
anche un diritto di recesso. La condanna, per dare luogo alla possibilità di recesso, deve essere
adottata con decisione esecutiva.
iv. Infine, è riconosciuta al socio la possibilità di recedere all’inizio ed alla cessazione dell’attività di
direzione e coordinamento.

La facoltà di recedere è però legata in quest’ultimo caso alla sussistenza di diverse condizioni. Innanzitutto
non si deve trattare di una società con azioni quotate nei mercati regolamentati. In secondo luogo, non deve
essere stata promossa un’offerta pubblica di acquisto. In altre parole il recesso è accordato solo quando
non sussistono altre forme di exit in capo al socio.
Infine, affinché il recesso possa essere esercitato, è necessario che si verifichi un’alterazione delle
condizioni di rischio dell’investimento. In definitiva, il socio che intende recedere deve dimostrare che
l’inizio o la cessazione dell’attività di direzione e coordinamento abbia determinato un mutamento del
livello di rischio dell’investimento.

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SEZIONE SETTIMA

LE SOCIETÀ CON SCOPO MUTUALISTICO

§68. Le società cooperative

Le società cooperative nascono nella metà dell’‘800 per reagire alle profonde disuguaglianze generate dalla
rivoluzione industriale. In quel periodo storico si avvertiva l’esigenza di un modello d’impresa
“democratico”, idoneo ad incrementare il benessere dei ceti meno privilegiati, offrendo loro beni primari e
soprattutto occasioni di lavoro in un mercato caratterizzato da forte disoccupazione.
Questa funzione sociale dell’impresa cooperativa “a carattere di mutualità senza fini di speculazione
privata” consiste nel rendere possibile ai soci cooperatori la realizzazione dei loro bisogni ed economie
individuali attraverso la riduzione dei costi ed il miglioramento dei servizi. La funzione sociale è
salvaguardata dalla Costituzione (art.45) che invita il legislatore a favorire l’incremento della cooperazione a
carattere mutualistico e non speculativo, con i mezzi più idonei ad assicurarne le finalità, anche mediante gli
opportuni controlli. Quindi alle società cooperative viene dedicato un trattamento riservato che si
concretizza in rilevanti benefici ed agevolazioni tributarie, previdenziali e finanziarie.
La disciplina delle società cooperative è molto articolata e consiste in un nucleo di norme generali collocate
nel codice civile (art. 2511-2545), modificate dalla riforma del 2003, e di numerose disposizioni contenute
nelle leggi speciali: alcune applicabili a tutte le società cooperative, altre invece relative a cooperative che
operano in determinati settori produttivi (agricole, di credito ecc.).
Le eventuali lacune della disciplina delle società cooperative vanno colmata con il richiamo al regime
residuale delle disposizioni delle società per azioni (art. 2519, co.1). Tuttavia l’atto costitutivo può prevedere
che trovino applicazioni, in quanto compatibili, anche le norme sulle società a responsabilità limitata, a
condizione che il numero di soci cooperatori sia inferiore a venti o che l’attivo patrimoniale non sia
superiore ad un milione di euro (art.2519, co.2).
Qualunque sia il modello adottato dalla cooperativa, per le obbligazioni sociali risponde esclusivamente la
società con il suo patrimonio (art. 2518).

Il codice civile qualifica le società cooperativa in base a due requisiti fondamentali: lo scopo mutualistico ed
il capitale variabile (art. 2511).
Tuttavia il codice non prevede alcuna definizione di scopo mutualistico, ma per determinarne i tratti
caratteristici si fa riferimento all’originaria relazione del c.c. secondo cui l’attività di impresa prevalente delle
società cooperative consiste, a seconda del settore d’attività, “nel fornire beni o servizi o occasioni di lavoro
direttamente ai membri dell’organizzazione a condizioni più vantaggiose di quelle che otterrebbero sul
mercato”.
Questo obiettivo viene raggiunto in quanto la cooperativa rinuncia al proprio profitto imprenditoriale a
beneficio dei soci fruitori dei suoi servizi: in questo modo essi riescono a conseguire un determinato bene o
servizio (nelle cooperative di consumo) ad un prezzo inferiore a quello di mercato, in quanto la società si
accontenta di coprire i costi di produzione. Allo stesso modo nelle cooperative di lavoro, i soci lavoratori
riescono a conseguire un salario maggiore rispetto a quello di mercato in quanto la società distribuisce loro
l’intero ricavo tratto dalla vendita a terzi dei suoi prodotti, anche qui rinunciando a trattenere il proprio
profitto.
Quindi, diversamente dalle società lucrative, lo scopo-fine perseguito dai soci di una società cooperativa
consiste nel soddisfacimento di un particolare bisogno economico e non dalla più elevata remunerazione
del capitale investito in società.
Dal punto di vista dell’impresa lo scopo mutualistico non incide sugli elementi tipici del contratto di società,
come l’esercizio in comune dell’attività economica; né vieta che i criteri di gestione della società tendano a
massimizzare la produzione di utili (lucro oggettivo): l’assenza di speculazione privata, infatti, comporta solo
l’assenza di lucro soggettivo. Infatti, a beneficio dei soci ciò che conta non è che la società ceda loro

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direttamente beni o servizi a prezzo di costo, potendo cederli a prezzo di mercato e conseguendone un
profitto, purché poi questo non venga distribuito ai soci in ragione del capitale posseduto e quindi come
remunerazione dell’investimento (lucro soggettivo), ma venga loro restituito in ragione della natura e della
quantità di beni e servizi mutualistici acquistati da ciascun socio.
L’art. 2521, co.2, consente all’atto costitutivo di una cooperativa di prevedere che la società svolga la propria
attività anche con terzi. Questa attività può essere fonte di utili consistenti che, reinvestiti nell’impresa,
possono assicurarle mezzi finanziari idonei a garantire ai soci l’effettivo soddisfacimento del loro bisogno
economico.
Dal punto di vista dei soci, la mutualità comporta che il rapporto associativo sia qualificato dalla c.d.
gestione di servizio, cioè dalla tendenziale destinazione ai soci dei beni e servizi prodotti dalla cooperativa. I
soci, pertanto, devono essere i fruitori delle prestazioni mutualistiche. La realizzazione della gestione di
servizio rende necessaria la previsione, nell’atto costitutivo della società cooperativa, di requisiti soggettivi
per l’ammissione di nuovi soci (art. 2527). Quindi l’accesso alla cooperativa non è aperto a chiunque, ma
solo a coloro che sono potenzialmente idonei ad intrattenere il rapporto mutualistico con la società o che
nutrono effettivo interesse ad ottenere quella prestazione.
La gestione di servizio però non implica l’esistenza di un diritto soggettivo del socio alle prestazioni
mutualistiche, infatti il socio dispone solo di una “legittima pretesa” di essere preferito a terzi
nell’erogazione della prestazione mutualistica che si traduce in un potere di controllo indiretto sull’attività
mutualistica svolta dalla società.
Inoltre, le prestazioni mutualistiche conseguite dai soci non discendono direttamente dal rapporto sociale,
ma nascono da autonomi contratti di scambio stipulati tra la cooperativa ed i suoi soci. Quindi è dalla
stipulazioni degli scambi mutualistici e in proporzione all’entità di questi che il socio trae il suo vantaggio.
Va anche sottolineato che il socio è libero di scegliere se e in che quantità avvalersi delle prestazioni
mutualistiche: ciò è vero nelle cooperative di consumo ma non in quelle di lavoro o in quelle che si
avvalgono, per la propria attività, dei prodotti dei soci, nelle quali vi è l’esistenza di un obbligo del socio a
giovarsi degli scambi mutualistici.
La mutualità comporta anche una reciprocità di prestazioni tra la cooperativa ed i suoi soci, poiché
condizione essenziale per la realizzazione dell’esercizio mutualistico dell’impresa è la sussistenza di una
pluralità di scambi: da qui la previsione di un numero minimo di soci.
I rapporti economici alla base delle prestazioni mutualistiche devono però rispettare la disciplina contenuta
nei regolamenti che determinano criteri e regole di svolgimento dell’attività mutualistica tra la società e i
soci. Essi quando non costituiscono parte integrante dell’atto costitutivo, sono predisposti dagli
amministratori ed approvati dall’assemblea (art. 2521, co.5).
Lo scopo mutualistico ha notevole incidenza anche sulla struttura della società cooperativa. Sono infatti
previste regole specifiche che valorizzano la partecipazione personale del socio il quale, con il suo apporto,
rende possibile la realizzazione della gestione di servizio. Viene quindi a considerarsi la struttura aperta
della cooperativa, basata sul principio della porta aperta, secondo cui coloro che possiedono i requisiti
soggettivi di partecipazione sanciti dall’atto costitutivo della cooperativa, meritano una specifica tutela
nell’ammissione alla società e deve essere incentivato l’accesso; allo stesso modo occorre agevolare l’uscita
dalla società dei soci non più interessati alla fruizione della prestazione mutualistica.
Questo principio è connesso all’altra fondamentale caratteristica strutturale, cioè la variabilità del capitale.
Ciò in quanto l’uscita e l’entrata dei soci dalla cooperativa comporta un automatico mutamento del capitale
senza la necessità di una formale modifica dell’atto costitutivo. Questa caratteristica del capitale si traduce
anche nell’assenza di limiti minimi alla sua entità, sia che la società adotti il regime della s.p.a., sia della s.r.l.

Fra i principi fondamentali dell’impresa cooperativa va ricordato il suo carattere democratico, contenuto nel
voto capitario: cioè ad ogni socio spetta un solo voto qualunque sia il valore della quota o il numero delle

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azioni possedute. Al fine di evitare che alcuni soci acquisiscano comunque situazioni di predominio, è anche
stabilito un limite massimo al possesso di quote e azioni.

La disciplina codicistica introduce una distinzione tra cooperative a mutualità prevalente e cooperative
“diverse”, finalizzate a limitare i benefici fiscali alle prime. Anche queste però, come quelle a mutualità
prevalente, possono godere di agevolazioni finanziarie, creditizie, previdenziali e di privilegi sui crediti.
La distinzione tra le due categorie, in sostanza, assume rilevanza esclusivamente fiscale.
Sono cooperative a mutualità prevalente quelle che, in ragione del tipo di scambio mutualistico praticato,
svolgono prevalentemente la loro attività in favore dei soci, consumatori o utenti di beni e servizi, o si
avvalgono prevalentemente delle prestazioni lavorative dei soci, o degli apporti di beni o servizi da parte dei
soci.
Al fine di godere di benefici fiscali devono essere iscritte in una specifica sezione dell’Albo delle
cooperative, tenuto presso il Ministero dello sviluppo economico, nel quale depositano annualmente i
propri bilanci.
Il codice civile prevede dei criteri legali per la definizione della prevalenza e requisiti statutari di prevalenza
(art. 2514).
I criteri legali sono legati a parametri basati sul tipo di scambio mutualistico praticato dalla cooperativa e
devono essere documentanti dagli amministratori e dai sindaci nella nota integrativa al bilancio della
società.
Le cooperative a mutualità prevalente devono inoltre prevedere nei propri atti costitutivi quattro clausole
statutarie antilucrative: a) il divieto di distribuire dividendi in misura superiore all’interesse massimo dei
buoni fruttiferi postali aumentato di due punti e mezzo rispetto al capitale effettivamente versato; b) il
divieto di remunerare gli strumenti finanziari offerti in sottoscrizione ai soci cooperatori in misura superiore
al due percento rispetto al limite massimo previsto per i dividendi; c) il divieto di distribuire riserve tra i soci
cooperatori; d) l’obbligo di devoluzione, in caso di scioglimento della società, dell’intero patrimonio sociale.
Il mancato rispetto, per due esercizi consecutivi, dei criteri legali di prevalenza o la modifica, con delibera
adottata con le maggioranze dell’assemblea straordinaria, delle clausole statutarie antilucrative comportano
la perdita della qualifica di cooperativa a mutualità prevalente.

Il procedimento di costituzione delle società cooperative richiama quello previsto per le s.p.a. e le s.r.l.,
anche se il contenuto dell’atto costitutivo e il controllo notarile presentano alcune peculiarità connesse agli
specifici caratteri della cooperativa.
L’atto costitutivo, redatto per atto pubblico a pena di nullità, deve stabilire la disciplina dei rapporti
mutualistici e definire le regole per lo svolgimento dell’attività, il cui contenuto può essere specificato nei
regolamenti mutualistici. Esso deve contenere: i) le generalità dei soci, il cui numero non può essere
inferiore a nove se la cooperativa ha forma di s.p.a. o a tre se adotta lo schema delle s.r.l.; ii) la
denominazione sociale che deve contenere l’indicazione di società cooperativa; iii) la quota di capitale
sottoscritta da ciascun socio deve essere contenuta nei limiti legali.
Le particolarità più significative però riguardano:

a) “l’indicazione specifica dell’oggetto sociale con riferimento ai requisiti e agli interessi dei soci”.
L’oggetto sociale assume un ruolo centrale poiché consente di individuare lo scopo mutualistico
programmato e di selezionare i soggetti effettivamente interessati a quel bisogno economico che la
cooperativa si prefigge di soddisfare;
b) l’indicazione nell’atto costitutivo dei requisiti, condizioni e procedura per l’ammissione dei soci, e
del modo e del tempo in cui devono essere eseguiti i conferimenti. I criteri di ammissione devono
risultare non discriminatori e coerenti con lo scopo mutualistico.

Ulteriori indicazioni tipiche dell’atto costitutivo delle cooperative sono le condizioni per l’eventuale recesso
o per l’esclusione dei soci, le regole per la ripartizione degli utili e i criteri per la distribuzione dei ristorni.

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Il notaio che ha ricevuto l’atto costitutivo deve depositarlo entro venti giorni presso l’ufficio del registro
delle imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede della società a norma dell’art. 2330.
Al momento del deposito il notaio deve allegare i documenti attestanti l’esistenza delle condizioni per la
costituzione: i soci quindi sono tenuti a versare il 25% dei conferimenti in denaro presso una banca ed
occorre una relazione giurata di stima per i conferimenti in natura.
L’iscrizione presso il registro delle imprese ha efficacia costitutiva in quanto è grazie ad essa che la società
acquista personalità giuridica e viene ad esistenza come soggetto di diritto distinto dai soci.
Alle società cooperative si applicano le cause tassative e gli effetti della nullità della s.p.a., con la
conseguenza che la dichiarazione di nullità non ha carattere retroattivo ma opera come causa di
scioglimento ed è sanabile.

Anche le modifiche dell’atto costitutivo devono essere deliberate dall’assemblea, sottoposte al controllo
notarile ed iscritte nel registro delle imprese.
Le cooperative, tuttavia, sono società a capitale variabile, in quanto l’aumento e la riduzione di capitale non
comportano modifiche dell’atto costitutivo. Resta però la facoltà della società di deliberare aumenti di
capitale a pagamento con conseguente riconoscimento ai soci del diritto di opzione sulle azioni di nuova
emissione; in questo caso, l’ingresso di nuovi soci implica un’esclusione o una limitazione di tale diritto, che
può essere autorizzata dall’assemblea solo su proposta motivata degli amministratori.

Come già detto le società cooperative sono regolate dalle disposizioni sulla s.p.a. in quanto compatibili e
dalle norme sulla s.r.l., ma tale facoltà è delimitata da due limiti legali: a) essa si trasforma in un obbligo
quando il numero dei soci è inferiore a nove; b) al contrario, le norme sulla s.r.l. non possono applicarsi se la
cooperativa ha un numero di soci superiori a venti e l’attivo patrimoniale supera un milione di euro.
Si deduce quindi che solo se la cooperativa, per legge o per statuto, abbia adottato lo schema della s.r.l., la
partecipazione sociale deve essere necessariamente rappresentata da quote; al contrario se la cooperativa
è modellata secondo le norme della s.p.a., le partecipazioni devono essere rappresentate da azioni.
Al fine di rispettare il principio della porta aperta e di evitare deviazioni allo scopo mutualistico, la legge
prevede limiti massimi al valore delle azioni e delle quote detenibili da un socio: in assenza di diversa
disposizione normativa, nessun socio può avere una quota superiore a centomila euro, né azioni il cui valore
superi tale ammontare. L’atto costitutivo delle cooperative con più di cinquecento soci può elevare tale
limite fino alla soglia del due per cento del capitale.
Inoltre è possibile creare categorie di azioni fornite di diritti diversi in base all’oggetto della prestazione
mutualistica o, in caso di cooperativa modellata sulla s.r.l., attribuire ad alcuni soci diritti particolari.

La rappresentazione della partecipazione sociale in quote o in azioni non ha alcuna incidenza sul
trasferimento della partecipazione sociale. Questo è inefficace nei confronti della società se la cessione non
è autorizzata dagli amministratori.
E’ anche possibile prevedere nell’atto costitutivo un divieto di circolazione della quota o delle azioni. In
questo caso il socio può esercitare, dopo il decorso di due anni dal suo ingresso in società, il diritto di
recesso con un preavviso di novanta giorni.

Come già detto, uno degli elementi fondamentali della società cooperativa consiste nel principio della porta
aperta, secondo cui l’ingresso di nuovi soci avviene secondo una procedura semplificata che non implica
alcuna modifica dell’atto costitutivo.
Questa procedura oggi è molto articolata, allo scopo di limitare la discrezionalità dell’organo amministrativo
e garantire trasparenza sulle modalità di accesso praticate dalle singole cooperative.
L’ammissione di un nuovo socio è deliberata dagli amministratori su domanda dell’interessato. La delibera
di ammissione deve essere comunicata all’interessato e annotata nel libro dei soci a cura degli
amministratori. Il consiglio di amministrazione, entro sessanta giorni, deve motivare l’eventuale
deliberazione di rigetto della domanda di ammissione e comunicarla agli interessati, i quali, entro sessanta

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giorni da tale comunicazione del diniego, possono chiedere che si pronunci l’assemblea nella prossima
riunione. La decisione dell’assemblea è vincolante per gli amministratori.

Il singolo rapporto sociale si sciogli per recesso, esclusione e morte del socio.

a) Il recesso del socio cooperatore è stato visto con sfavore dal legislatore per timore che un’eccessiva
libertà lasciata al socio potesse incentivare l’uscita dalla società in caso di squilibri economici,
generando così una crisi di liquidità tale da mettere in pericolo la sopravvivenza stessa dell’impresa.
Nell’attuale disciplina vi sono delle disposizioni volte a comprimere intenti speculativi dei soci, come
il divieto di recesso parziale che mira appunto a scongiurare comportamenti opportunistici dei soci.

Il socio cooperatore può recedere nei casi previsti dalla legge e dall’atto costitutivo. L’unica ipotesi
di recesso legale è la presenza nell’atto costitutivo di un divieto di cessione della quota; altre
fattispecie legali di recesso si ricavano dalla disciplina della s.p.a. o della s.r.l. a seconda del modello
adottato.
E’ previsto un procedimento articolato per la dichiarazione di recesso. Essa deve essere comunicata
alla società con raccomandata che deve poi essere esaminata dagli amministratori entro sessanta
giorni dalla ricezione: la loro valutazione si limita ad accertare i presupposti del recesso; se questi
non sono ritenuti sussistenti, gli amministratori ne devono dare immediata comunicazione al socio
che, entro sessanta giorni, può proporre opposizione al tribunale.
Per quanto riguarda gli effetti del recesso, quelli che incidono sul rapporto sociale (diritto di voto,
agli utili ecc.) si producono dal giorno della comunicazione del provvedimento di accoglimento della
domanda; per contro, quelli sui rapporti mutualistici tra socio e società vengono differiti alla
chiusura dell’esercizio in corso, se comunicato tre mesi prima o, in caso contrario, alla chiusura
dell’esercizio successivo.
b) L’esclusione del socio dalla cooperativa può essere disposta per cause legali e convenzionali
previste dallo statuto.
Le fattispecie legali di esclusione sono: a) l’inadempimento totale o parziale, dei conferimenti
relativi alle azioni o quote sottoscritte. Il socio può essere escluso solo in seguito all’intimazione
degli amministratori ad adempiere e ad una successiva delibera dell’organo amministrativo o
dell’assemblea; b) per gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge, dal contratto
sociale, dal regolamento o dal rapporto mutualistico; c) la mancanza o perdita dei requisiti
soggettivi di partecipazione alla società; d) interdizione, inabilitazione o condanna ad una pena del
socio che porta all’interdizione dai pubblici uffici; e) sopravvenuta inidoneità ad eseguire il
conferimento per cause non imputabili ad esso; f) fallimento del socio.
L’atto costitutivo può prevedere anche ulteriori casi di esclusione (fattispecie convenzionali) che
possono sempre riguardare l’inadempimento degli obblighi previsti dal contratto sociale o dal
rapporto mutualistico, più specifiche di quelli previsti dalla legge.
L’esclusione deve essere deliberata dagli amministratori e può essere decisa dall’assemblea solo
quando è previsto espressamente in una clausola statutaria. Il provvedimento di esclusione
comporta obbligatoriamente una motivazione congrua e specifica e deve essere comunicato al
socio, il quale entro sessanta giorni può proporre opposizione al tribunale.
L’esclusione del socio determina lo scioglimento immediato anche dei rapporti mutualistici
pendenti, salva diversa disposizione dello statuto.
c) Per la morte del socio è previsto che il rapporto sociale si scioglie e gli eredi hanno diritto alla
liquidazione della quota o al rimborso delle azioni. Tuttavia è consentita una previsione statutaria
che consenta agli eredi provvisti dei requisiti soggettivi, di subentrare nella partecipazione del socio
deceduto, nominando un rappresentante comune, se la quota non è divisibile.

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Il carattere democratico della cooperativa influenza la disciplina dell’assemblea, manifestando anzitutto


nella regola del voto per teste; esso incide anche sulle modalità di calcolo delle maggioranze per la
costituzione e per la validità delle deliberazioni, che sono calcolate secondo il numero dei voti spettanti ai
soci.
La legittimazione al voto spetta esclusivamente ai soci iscritti da almeno novanta giorni nel libro dei soci, al
fine di impedire che gli amministratori decidano l’ammissione di un consistente numero di soci in vista di
una certa assemblea per influenzarne gli esiti.
Un altro aspetto del carattere democratico della cooperativa è l’istituto delle assemblee separate, previsto
per agevolare l’attiva partecipazione dei soci alla vita sociale, soprattutto nelle cooperative di grandi
dimensioni. Per effetto di questo sistema applicabile alle sole società con azioni non quotate nei mercati
regolamentati, la formazione della volontà sociale avviene per gradi: le assemblee separate vengono
convocate nei luoghi, indicati dallo statuto, in cui risiede un certo numero di soci per deliberare su tutte le
materie oggetto dell’ordine del giorno dell’assemblea generale e per eleggere i soci delegati. L’assemblea
generale è costituita dai soci delegati designati nelle assemblee separate e delibera sugli argomenti indicati
nell’ordine del giorno.

Le particolarità dell’organo amministrativo riguardano soprattutto i requisiti soggettivi. Infatti è previsto


che la maggioranza degli amministratori debba essere scelta tra i soci cooperatori o tra le persone indicate
dai soci cooperatori persone giuridiche. L’atto costitutivo può anche prevedere che uno o più amministratori
siano scelti tra gli appartenenti alle diverse categorie di soci in proporzione all’interesse che ciascuna
categoria nutre nell’attività sociale. Ai possessori di strumenti finanziari può essere attribuito dallo statuto il
diritto alla nomina degli amministratori ed è anche possibile che la designazione di alcuni amministratori sia
riservata allo Stato o ad enti pubblici.
Il collegio sindacale, invece, è necessario nelle società cooperative nei casi in cui sia obbligatoria la nomina
del sindaco nella s.r.l., e quando la società ha emesso “strumenti finanziari non partecipativi” (titoli di
debito, obbligazioni).

Le agevolazioni tributarie e di altra natura concesse alle cooperative giustificano la loro sottoposizione a
vigilanza amministrativa, finalizzata a verificare l’effettivo e corretto perseguimento dello scopo
mutualistico e la tutela della funzione sociale della cooperativa.
Oggi è poi esteso a tutte le società cooperative il controllo giudiziario sulla gestione in quanto assicura una
vigilanza più incisiva e una tutela dei soci di minoranza, così maggiormente incentivati all’investimento in
cooperativa.
In particolare, se vi è il fondato sospetto che gli amministratori abbiano compiuto gravi irregolarità nella
gestione che possono arrecare danno alla società, i soci titolari di almeno un decimo del capitale possono
farne denunzia al tribunale.

Lo scopo mutualistico delle società cooperative non determina alterazioni nel procedimento di formazione
del bilancio, che richiama quello già visto per le società per azioni; impone solo quale informazione
supplementare, da fornire ai soci, circa le modalità di gestione praticate, negli allegati di bilancio da parte
dei sindaci e degli amministratori.

Un tratto caratteristico dello scopo mutualistico è la presenza di limiti legali e statutari alla distribuzione dei
dividendi nelle società cooperative.
Tali società possono perseguire uno scopo di lucro oggettivo, ma quanto allo scopo di lucro soggettivo, ossia
alla distribuzione del profitto conseguito in proporzione alla quote posseduta, è limitato dall’ordinamento,
allo scopo di preservare la funzione tipica della cooperativa.
La variabilità del capitale comporta anzitutto, a tutela dei creditori sociali, che le cooperative non quotate
possono distribuire dividendi ai soci cooperatori solo a condizione che il rapporto tra il patrimonio netto e il
complessivo indebitamento della società sia superiore a un quarto. Questo vincolo impone quindi alle

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cooperative eccessivamente indebitate di destinare gli utili generati ad autofinanziamento.


L’atto costitutivo poi indica le regole, le modalità e la percentuale massima di ripartizione dei dividendi tra i
soci cooperatori. La nuova disciplina non prevede una soglia massima per la ripartizione degli utili per le
cooperative a mutualità non prevalente, mentre quelle a mutualità prevalente, al fine di comprimere il lucro
soggettivo, devono osservare il divieto di distribuire i dividendi in misura superiore all’interesse massimo dei
buoni fruttiferi postali, aumentato di due punti e mezzo rispetto al capitale versato.
La tecnica con la quale i soci della cooperativa conseguono a determinate scadenze il vantaggio mutualistico
è il ristorno. I ristorni, anche se sono pur sempre una componente dell’avanzo di gestione in quanto
possono essere distribuiti ai soci se il bilancio si è chiuso in perdita, devono distinguersi dagli utili per i
criteri di loro ripartizione che sono proporzionali alla quantità e alla qualità degli scambi mutualistici e
non al capitale conferito da ciascun socio.
Ai fini di una loro corretta determinazione, le cooperative devono riportare separatamente in bilancio i dati
relativi all’attività svolta con i soci, distinguendo le diverse gestioni mutualistiche.
Non si applicano ai ristorni i limiti previsti per la distribuzione degli utili in quando non vi è l’esigenza qui di
limitare un lucro soggettivo, ma si tratta di consentire ai soci di trarre il beneficio tipico relativo agli scambi
mutualistici posti in essere.

La società cooperativa si scioglie, oltre che per le cause previste per le società di capitali, per l’integrale
perdita del capitale sociale e per mancata reintegrazione del numero minimo dei soci entro un anno da
quando è sceso al di sotto del limite legale.
Nel caso di insolvenza della società, l’autorità governativa cui compete il controllo sulla società dispone la
liquidazione coatta amministrativa. Se la società svolge attività commerciale può anche essere soggetta a
fallimento, ma la determinazione della procedura concorsuale da applicare segue il criterio della
prevenzione, nel senso che la dichiarazione di fallimento preclude la possibilità di applicare la liquidazione
coatta amministrativa e viceversa.
La differenza più grande tra società cooperativa e società lucrativa risiede nella quota di liquidazione. Infatti
mentre nelle società lucrative l’esito finale della liquidazione è la ripartizione tra i soci dell’eventuale residuo
attivo, le società cooperative sono obbligate per legge a destinare il residuo attivo di liquidazione ai fondi
mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione (c.d. devoluzione disinteressata) per evitare
che le risorse finanziarie accumulate dalla società grazie alle agevolazioni fiscali vengano sottratte alle
cooperazioni (c.d. proprietà cooperativa).

§69. Le mutue assicuratrici

Le mutue assicuratrici costituiscono un tipo di società cooperative poco diffuso nel quale l’acquisto e la
permanenza della qualità di socio è subordinato alla stipulazione di un contratto di assicurazione con la
società, con la conseguenza che il singolo rapporto sociale si scioglie con l’estinguersi dell’assicurazione.
L’interdipendenza tra rapporto sociale e rapporto assicurativo serve a distinguere le mutue assicuratrici
dalle cooperative di assicurazione in cui, i soci cooperatori, non hanno alcun diritto di ottenere le
prestazioni assicurative, a meno che non stipulino con la società un eventuale contratto di assicurazione che
però resta totalmente autonomo e distinto dal rapporto sociale. Per contro, i soci delle mutue assicuratrici
devono necessariamente essere assicurati.
Queste società sono per un verso regolate dalla disciplina generale delle cooperative, dall’altro sono
soggette ai controlli stabiliti dalle leggi speciali sull’esercizio dell’assicurazione e dal codice delle
assicurazioni.

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SEZIONE OTTAVA

LE OPERAZIONI STRAORDINARIE

§70. Le trasformazioni

Nel sistema originario del codice civile del 1942 la trasformazione era definita come la modifica dell’atto
costitutivo avente ad oggetto il cambiamento del tipo di società. Caratteristica di tale mutamento è il suo
realizzarsi a prescindere dall’estinzione della società e dalla successiva costituzione nel nuovo tipi, quindi è
la stessa società che assume la nuova veste giuridica, conservando i diritti e gli obblighi anteriori alla
trasformazione. Questa opportunità di realizzare una continuità dell’attività di impresa in un assetto
giuridico diverso presenta vantaggi economici e fiscali, evitando così la dispersione di risorse economiche
connessa allo svolgimento della fase di liquidazione.
L’attuale disciplina affianca alle tradizionali operazioni di modifica statutaria riguardanti il cambiamento del
tipo di società, anche nuove fattispecie di trasformazione, definite eterogenee, caratterizzate da una
modifica più radicale che consiste nel cambiamento della forma giuridica dell’impresa (ad es. passaggio
dalla forma di associazione o comunione d’azienda, ad una società di capitali), che può coinvolgere
l’autonomia patrimoniale o lo scopo-fine dell’ente che esercita l’attività.
Non è prevista una nozione generale di trasformazione ma essa è qualificata giuridicamente in virtù della
continuità dei rapporti giuridici che tale operazione assicura: infatti, con la trasformazione l’ente
trasformato conserva tutti i diritti e gli obblighi e prosegue in tutti i rapporti, anche processuali (art. 2498).

I vantaggi comprendono anche l’assenza di limiti espliciti all’operazione, infatti l’art. 2499 consente la
trasformazione anche in pendenza di procedura concorsuale, purché non vi siano incompatibilità con le
finalità della stessa.
Nella disciplina sono presenti alcune regole generali ed altre disposizioni differenziate a seconda della
specifica tipologia di trasformazione attuata.
In primo luogo, la regola generale di tutte le trasformazioni che abbiano come destinazione un tipo di
società di capitali, è quella per cui tale operazione deve rispettare alcune regole formali. Infatti è necessario
che la trasformazione risulti da atto pubblico, contenente le indicazioni richieste dalla legge per l’atto
costitutivo di queste società. Inoltre, l’atto di trasformazione deve osservare sia la disciplina del tipo
adottato e le forme di pubblicità, sia le regole di pubblicità previste per la cancellazione dell’ente che ha
effettuato la trasformazione. L’efficacia della trasformazione decorre dall’ultimo degli adempimenti
pubblicitari compiuti (art. 2500).
Norma comune a tutte le fattispecie di trasformazione è l’art. 2500-bis che dispone la disciplina
dell’invalidità della trasformazione. Per assicurare una completa stabilità dei rapporti giuridici, si prevede
che l’invalidità della trasformazione non può essere pronunciata una volta eseguita la sua iscrizione nel
registro delle imprese. Resta salvo solo il diritto al risarcimento del danno eventualmente spettante ai
partecipanti dell’ente trasformato ed ai terzi danneggiati dalla trasformazione.

L’attuale disciplina utilizza la formula “trasformazioni eterogenee” per definire sia il passaggio da società di
capitali ad altri enti (consorzi, società cooperative, comunioni d’azienda, associazioni e fondazioni), sia il
passaggio dagli altri enti a società di capitali. Alla trasformazione eterogenea consegue l’applicazione di una
specifica disciplina a protezione dei creditori.
Si può quindi definire “trasformazione omogenea” il cambiamento del tipo di società che non implica
anche la modifica dello scopo-fine.
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Questo principio trova però una eccezione, ossia la trasformazione di società cooperative a mutualità non
prevalente in società di capitali.
Poiché la trasformazione rientra tra le modifiche dello statuto, è necessario rispettare delle regole
procedimentali. In particolare la trasformazione di società di persone in altra società di persone deve
essere decisa all’unanimità. La trasformazione di s.p.a. in altra società di capitali deve essere deliberata
dall’assemblea straordinaria con conseguente verbalizzazione notarile e relativo deposito per l’iscrizione nel
registro delle imprese. Se poi a società deliberante non fa ricorso al mercato del capitale di rischio, occorre il
voto favorevole di più di un terzo del capitale sociale, anche in seconda convocazione. La trasformazione di
s.r.l. in altra società di capitali deve essere decisa dall’assemblea dei soci e il verbale redatto da un notaio.
Per contro, la presenza di alcune regole speciali rende necessario isolare, all’interno della trasformazioni
omogenee, il passaggio da società di persone a società di capitali (trasformazione progressiva) e
l’operazione inversa (trasformazione regressiva).

La disciplina della trasformazione di società di persone in società di capitali consiste: a) nella decisione di
trasformazione: b) formazione del capitale sociale risultante dalla trasformazione; c) assegnazione di quote
e azioni ai soci della società risultante dalla trasformazione; d) la responsabilità dei soci per le obbligazioni
sociali sorte anteriormente all’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto di trasformazione.

a) Cominciando dalla decisione di trasformazione è decisa con il consenso della maggioranza dei soci
determinata secondo la arte attribuita a ciascuno negli utili, salvo diversa disposizione del contratto
sociale. L’adozione della maggioranza è temperata dal diritto di recesso del socio che non ha
concorso alla decisione.
b) Il capitale sociale della società risultante dalla trasformazione deve essere determinato sulla base di
valori attuali degli elementi dell’attivo e del passivo, in particolare, di fissarlo in una cifra non
eccedente il patrimonio netto risultante da una relazione giurata di stima di un esperto designato
dal tribunale (per le s.p.a.) o scelto dai soci tra gli iscritti nel registro dei revisori (nelle s.r.l.). Quindi
il patrimonio della società di persone che si trasforma è l’unico conferimento in natura sottoposto a
valutazione di un terzo imparziale dotato di adeguati requisiti di professionalità, a tutela dei terzi e
dei creditori sociali. Se la società di persone si trasforma in s.p.a. è anche applicabile la disciplina di
revisione della stima nel termine di 180 giorni dall’iscrizione dell’atto di trasformazione nel registro
delle imprese. Nel caso in cui la consistenza del patrimonio netto della società risultante dalla stima
sia inferiore al minimo legale stabilità per la costituzione della società, è necessario che i soci
effettuino nuovi conferimenti.
c) Per quanto riguarda la tutela dei soci nella trasformazione è sancito il diritto di ciascun socio
all’assegnazione di un numero di azioni o di una quota proporzionale alla partecipazione detenuta
nella società personale.
d) Infine, riguardo la responsabilità dei soci, l’esigenza di tutela dei creditori sociali anteriori alla
trasformazione impone che essa non liberi i soci a responsabilità illimitata dalla responsabilità per le
obbligazioni sociali sorte prima dell’iscrizione dell’atto di trasformazione nel registro delle imprese.
Tuttavia si prevede un procedimento volto ad agevolare la liberazione dei soci dalla responsabilità
illimitata. Il consenso dei creditori sociali alla liberazione dei soci si presume solo se questi non lo
neghino entro sessanta giorni dalla ricezione dalla comunicazione.

La trasformazione di società di capitali in società di persone è sottoposta a regole più gravose.


La deliberazione di trasformazione deve essere adottata con le maggioranze previste per le modifiche
statutarie, ma è richiesto il consenso dei soci che con la trasformazione assumono responsabilità
illimitata. Questi necessitano di una tutela più incisiva del solo diritto di recesso in quanto rispondono
personalmente e illimitatamente anche per le obbligazioni sorte anteriormente all’iscrizione dell’atto di
trasformazione nel registro delle imprese.
Tuttavia si prescrive un obbligo degli amministratori di predisporre una relazione che illustri e giustifichi le
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motivazioni e gli effetti della trasformazione, che deve restare depositata in copia presso la sede sociale
durante i trenta giorni che precedono la deliberazione e di cui i soci possono prendere visione ed estrarre
una copia.

Al fine di evitare che i soci cooperatori potessero, dopo aver goduto dei privilegi ed agevolazioni,
riappropriarsi delle risorse accumulate sottraendole al movimento cooperativo, è vietata solo la
trasformazione delle società cooperativa a mutualità prevalente, in società lucrative.
E’ invece lecita la trasformazione sia delle altre società cooperative in società lucrative o consorzi, sia della
trasformazione della società di capitali in cooperative.
Le società cooperative diverse da quelle a mutualità prevalente possono deliberare la trasformazione in
qualsiasi società lucrativa con il voto favorevole di una maggioranza che rappresenti almeno la metà dei
soci.
Questa operazione è tuttavia particolarmente onerosa in quanto la società cooperativa che intende
trasformarsi deve devolvere il valore effettivo del suo patrimonio ai fondi mutualistici.

Per “trasformazione eterogenea” deve intendersi un cambiamento dell’assetto organizzativo dell’impresa


nella prosecuzione di diritti, obblighi e rapporti giuridici dell’entità che ha effettuato l’operazione. L’attuale
disciplina consente di realizzare continuità dell’attività d’impresa nel passaggio sia da società di capitali a
società con diverso scopo-fine, ad enti collettivi non societari o a comunioni d’azienda; sia da enti collettivi
non societari, da comunione d’azienda o da società consortili a società di capitali.
La trasformazione eterogenea non implica alcun trasferimento di beni e consente quindi di modificare
l’assetto organizzativo dell’impresa a prescindere dai numerosi e costosi adempimenti di circolazione dei
beni per quanto riguarda la trasformazione da comunione d’azienda a società di capitali.
Il procedimento di trasformazione prevede una serie di presidi a tutela dei soci e dei creditori dell’ente che
si trasforma.
In particolare, nella trasformazione di società di capitali in altri enti, la tutela dei soci si sostanzia nella
previsione di un quorum rafforzato dei due terzi degli aventi diritto al voto, fermo restando il consenso dei
soci che nell’ente trasformato assumono responsabilità illimitata. Inoltre gli amministratori sono tenuti a
predisporre una relazione che illustri le motivazioni e gli effetti della trasformazione che deve restare
depositata presso la sede della società durante i trenta giorni che precedono l’assemblea convocata per
deliberare la trasformazione.
La trasformazione eterogenea in società di capitali è più agevole in quanto la deliberazione di
trasformazione può essere assunta a maggioranza: unica eccezione è la trasformazione di comunione
d’azienda in società di capitali, per la quale la deliberazione deve essere assunta all’unanimità. Il patrimonio
dell’ente che si trasforma è sottoposto a relazione di stima e l’atto di trasformazione deve risultare da atto
pubblico e contenere tutte le indicazioni del tipo di società prescelto.
La tutela dei creditori invece è affidata al diritto di opposizione. La trasformazione eterogenea non ha
effetto con l’iscrizione dell’atto nel registro delle imprese, ma dopo sessanta giorni, salvo che comporti il
consenso dei creditori o il pagamento dei creditori non consenzienti. Entro tale termine, i creditori possono
fare opposizione al tribunale il quale, qualora ritenga infondato il pericolo di pregiudizio per i creditori o la
società abbia prestato garanzia, può disporre che l’operazione abbia luogo nonostante l’opposizione.

§71. Le fusioni

La fusione è uno strumento di concentrazione tra imprese societarie. Si tratta di una concentrazione
giuridica in quanto consente l’unificazione in una sola società di due o più società preesistenti.
Possiamo individuare: a) una disciplina generale della fusione tra società però azioni; b) regole speciali per

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le fusioni tra società non azionarie che consistono in semplificazioni rispetto al procedimento e ai limiti
imposti per le società azionarie; c) disposizioni speciali applicabili alla fusione a seguito di acquisizione con
indebitamento.
Infine, una specifica disciplina è stata prevista per le fusioni transfrontaliere intracomunitarie, ossia fra
società aventi la propria sede in diversi Stati membri dell’Unione europea.

L’art. 2501 prevede due forme di fusione: la fusione in senso stretto, eseguita mediante la costituzione di
una nuova società in cui vengono unificate le società preesistenti; la fusione per incorporazione nella quale
una società già operante incorpora una o più società: in entrambe le forme di fusione, le società incorporate
o fuse si estinguono per effetto della fusione.
La società risultante dalla fusione o l’incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti
alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione (art. 2504-bis,
co.1). La fusione costituisce una vicenda modificativa degli atti costitutivi delle società coinvolte; tale
continuazione dei rapporti investe anche i soci, ai quali vengono attribuite, in cambio delle partecipazioni
originariamente detenute, azioni o quote dell’incorporante o della società che risulta dalla fusione.
Se la fusione coinvolge società dello stesso tipo, è omogenea; se invece partecipano alla fusione società di
tipo diverso, la fusione è detta eterogenea, per evidenziare che vi è la trasformazione di almeno una delle
società coinvolte.
Sono anche possibili fusioni trasformative eterogenee, ossia fusioni tra società con diverso scopo-fine o tra
enti diversi dalle società: si pensi all’incorporazione di una fondazione in una s.r.l. o viceversa.

La partecipazione alla fusione non è consentita alle società per azioni in liquidazione che abbiano iniziato la
distribuzione dell’attivo (art. 2501, co.2). Il limite non sussiste invece per le fusioni cui non partecipano
società con capitale rappresentato da azioni, cioè tra fusioni di s.r.l. o tra cooperative basate sul modello
della s.r.l.
Tale limite esclude che l’attuazione della fusione tra società azionarie sia compatibile con la permanenza
dello stato di liquidazione, nel senso che la società incorporante anche se in liquidazione prima
dell’esecuzione dell’operazione, eserciti un’attività economica all’esito della fusione.
Al contrario, la fusione tra s.r.l. o società di persone può essere attuata a prescindere dallo stato di
avanzamento della liquidazione ed anche al fine di concentrare in un unico procedimento la dissoluzione di
più entità, con un risparmio di costi.
La preclusione alla fusione tra s.p.a. in liquidazione che abbiano già iniziato la distribuzione dell’attivo non è
però assoluta: infatti, la sua esecuzione implica solo una deliberazione di revoca della liquidazione con
l’osservanza di tutte le cautele previste in favore dei soci e dei creditori.
L’attuale disciplina non prevede nessun divieto di partecipazione alla fusione per le società sottoposta a
procedure concorsuali.

L’unificazione di più società assume importanza sul piano della tutela dei soci e dei creditori. Il legislatore
quindi per assicurare la trasparenza dell’operazione, ha previsto un procedimento inderogabile scandito da
tre fasi: il progetto, la delibera e l’atto di fusione.

a) Il progetto di fusione, redatto dagli amministratori ed unico per tutte le società coinvolte, indica le
caratteristiche dell’operazione da proporre ai soci, che successivamente decideranno se approvarle
o meno in assemblea. Il progetto costituisce l’esito di una precedente attività di programmazione ed
analisi strategica condotta dagli amministratori delle società coinvolte nella fusione.
Il contenuto informativo del progetto di fusione è rilevante non solo per i soci, ma anche per i terzi:
l’art. 2503 riserva la legittimazione all’opposizione alla decisione di fusione solo ai creditori anteriori
all’iscrizione del progetto nel registro delle imprese, mentre l’art. 2502 consente alla decisione di
fusione la modifica dei soli elementi del progetto “che non incidono sui diritti dei soci e dei terzi”.
L’art. 2501-ter, co.1, esplicita il contenuto del progetto di fusione, dal quale devono risultare i dati

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più rilevanti delle società coinvolte nell’operazione (tipo, denominazione o ragione sociale, sede) e
l’atto costitutivo della nuova società risultante dall’operazione o dell’incorporante, con le eventuali
modifiche derivanti dalla fusione. Occorre poi indicare le regole di assegnazione delle
partecipazioni, il momento di decorrenza degli effetti contabili della fusione, l’eventuale
trattamento riservato a particolari categorie di soci o possessori di titoli diversi dalle azioni e gli
eventuali vantaggi particolari proposti agli amministratori.
Importante è poi l’indicazione del rapporto di cambio delle azioni o quote (c.d. concambio), ossia
l’indice numerico in base al quale verranno poi assegnate le azioni o quote della società sorta dalla
fusione ai soci delle società incorporate o fuse. L’indicazione della motivazione del rapporto di
cambio, consente ai soci di valutare l’effettiva convenienza alla fusione.
Occorre anche indicare l’eventuale conguaglio in denaro da attribuire ai soci per compensare i resti
che possono risultare dall’applicazione del concambio: nelle società azionarie esso non può essere
superiore al 10% del valore nominale delle azioni o delle quote assegnate.
b) Il progetto di fusione deve essere sottoposto a pubblicità legale mediante due modalità: il deposito
per l’iscrizione nel registro delle imprese del luogo in cui hanno sede le società partecipanti alla
fusione, o la pubblicazione nel sito Internet della società, con modalità atte a garantire la sicurezza
del sito stesso, l’autenticità dei documenti e la certezza della data di pubblicazione (art. 2501-ter,
co.3). Al fine di rendere possibile ai soci un esame accurato del suo contenuto è previsto un termine
minimo di trenta giorni, che deve intercorrere tra l’iscrizione del progetto e la data fissata per la
decisione di fusione. I soci possono però richiedere che il procedimento sia più rapido e quindi
rinunciare a questo termine con il consenso unanime.
c) Il contenuto del progetto deve essere completato dai relativi allegati: la situazione patrimoniale, la
relazione degli amministratori e la relazione degli esperti, finalizzati ad offrire ai soci ed ai possessori
di strumenti finanziari con diritto di voto in assemblea un’informativa più completa e dettagliata sui
contenuti dell’operazione rispetto a quella ricavabile dai dati esposti sinteticamente nel progetto.
i. In particolare, l’organo amministrativo delle società partecipanti alla fusione deve redigere
la situazione patrimoniale delle società stesse. Si tratta di un bilancio infraannuale (detto
bilancio di fusione), volto ad offrire un quadro contabile aggiornato ai soci e ai possessori di
strumenti finanziari di tutte le società partecipanti alla fusione, affinché possano esprimere
il proprio voto in assemblea.
Questo bilancio di fusione deve essere riferito ad una data non anteriore a 120 giorni
rispetto a quello del deposito del progetto di fusione presso la sede della società o della
pubblicazione nel suo sito Internet. Nel caso in cui il bilancio d’esercizio sia stato chiuso non
oltre sei mesi prima da questa data, la legge consente di allegarlo al progetto, evitando così
l’onere della redazione del bilancio infraannuale.
ii. Ulteriore allegato è la relazione degli amministratori, deputata ad illustrare e giustificare,
sotto il profilo economico e giuridico, il progetto di fusione e il rapporto di cambio,
esplicitando i criteri di determinazione e segnalando le eventuali difficoltà di valutazione.
Inoltre, al fine di assicurare un’informativa aggiornata e attendibile, gli amministratori
devono segnalare ai soci in assemblea e agli altri organi amministrativi delle altre società
partecipanti alla fusione, le modifiche rilevanti agli elementi dell’attivo e del passivo
avvenute tra la data di deposito o pubblicazione del progetto e la data di decisione della
fusione.
iii. Infine, sempre a salvaguardia dei soci e dei possessori di strumenti finanziari con diritto di
voto in assemblea delle società partecipanti alla fusione, l’art. 2501-sexis prevede che uno o
più esperti redigano, per ciascuna di esse, una relazione sulla congruità del rapporto di
cambio che indichi il metodo seguito per la determinazione del concambio e i valori che
risultano dalla sua applicazione. Agli esperti si richiede in particolare un parere

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sull’adeguatezza di teli metodi seguiti dagli amministratori e per l’espletamento di questo,


ciascun esperto ha diritto di ottenere dalle società coinvolte nella fusione tutte le
informazioni e i documenti utili e di procedere ad ogni verifica necessaria.
Nelle fusioni trasformative tra società di persone e di capitali, gli esperti devono redigere la
relazione di stima del patrimonio della società di persone secondo gli stessi criteri della
valutazione dei conferimenti in natura.
d) Al fine di assicurare ai soci un voto consapevole sulla decisione di fusione mediante una completa
informazione, è previsto il deposito in copia nella sede di queste ultime o la pubblicazione nel sito
Internet delle stesse società, durante i trenta giorni che precedono la decisione di fusione, di una
serie di documenti, ossia il progetto di fusione, delle relazioni degli amministratori e degli esperti,
dei bilanci degli ultimi tre esercizi con le relazioni dei soggetti a cui compete l’amministrazione e la
revisione legale delle situazioni patrimoniali delle società fondende. I soci hanno diritto di prendere
visione di questi documenti e di ottenerne gratuitamente una copia, che però la società non è
tenuta a fornire se li ha pubblicati sul sito Internet e quindi sia possibile effettuarne liberamente la
copia o la stampa.

La fusione deve essere decisa da ciascuna delle società che vi partecipano mediante approvazione del
relativo progetto. Questa approvazione avviene, nelle società di persone, con il consenso della
maggioranza dei soci, salvo diritto di recesso per il socio che non abbia consentito alla fusione.
Nelle s.p.a. la delibera di fusione deve essere approvata con le normali maggioranze dall’assemblea
straordinaria, in quanto consiste in una vicenda modificativa dell’atto costitutivo delle società che vi
partecipano. Al socio non consenziente non è riconosciuto il diritto di recesso, a meno che la fusione sia
eterogenea (implichi una trasformazione) o comunque implichi una modifica statutaria per la quale è
previsto tale diritto (ad es. modifica dell’oggetto sociale cui consegue un significativo mutamento
dell’attività della società).
Nelle s.r.l. la delibera di fusione è sempre assunta a maggioranza e richiede l’osservanza del metodo
assembleare. Al socio che non ha consentito alla fusione spetta il diritto di recesso.
La decisione di fusione può apportare modifiche al progetto di fusione “che non incidono sui diritti dei soci
o dei terzi”.
Le delibere di fusione delle società di capitali devono essere sottoposte a controllo notarile, all’esito
positivo del quale vengono depositate per l’iscrizione nel registro delle imprese. Stesso procedimento si
applica alle decisioni di fusione di società di persone, nei casi in cui dall’operazione risulta una società di
capitali; fuori da queste ipotesi è sufficiente invece il deposito delle decisioni per l’iscrizione nel registro
delle imprese.

I creditori di alcune società partecipanti alla fusione possono risultare pregiudicati dall’unificazione dei
patrimoni se ad essa partecipano società meno solide o in difficoltà finanziarie. È così disposto che la
fusione può essere attuata solo dopo il decorso di sessanta giorni dalla data di iscrizione dell’ultima
decisione di fusione.
Entro questo termine, i creditori anteriori all’iscrizione o alla pubblicazione del progetto di fusione possono
presentare opposizione alla fusione. Questa opposizione ha l’effetto di sospendere l’attuazione
dell’operazione finché il tribunale non abbia valutato l’effettiva sussistenza del pregiudizio. Tuttavia, il
tribunale, se ritiene infondato il pericolo di pregiudizio per i creditori o la società abbia prestato idonea
garanzia, dispone che la fusione sia attuata nonostante l’opposizione.
E’ però possibile che le società coinvolte nella fusione abbiano esigenza di un’immediata esecuzione
dell’operazione. Poiché possa realizzarsi una fusione anticipata è necessaria la sussistenza di: a) consenso di
tutti i creditori delle società partecipanti anteriori all’iscrizione o alla pubblicazione dei progetti di fusione;
b) pagamento dei creditori non consenzienti; c) deposito delle somme corrispondenti presso una banca. A
queste, l’attuale disciplina aggiunge anche l’opportunità dell’affidare la relazione degli esperti ad un’unica

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società di revisione.
La fusione attuata mediante costituzione di una nuova società di capitali o tramite incorporazione in una
società di capitali non libera automaticamente i soci dalla responsabilità illimitata. Affinché tale liberazione
sia possibile, deve risultare che i creditori abbiano dato il proprio consenso alla fusione che si presume se
essi, ai quali la deliberazione sia stata comunicata con la lettera raccomandata o con altri mezzi che
garantiscano la prova dell’avvenuto ricevimento, non lo abbiano negato espressamente entro il termine di
sessanta giorni dal ricevimento della comunicazione.

L’ultima fase del procedimento consiste nella stipula dell’atto di fusione. Si tratta di un documento con il
quale i legali rappresentanti delle società partecipanti alla fusione eseguono le modifiche statutarie decise
dai rispettivi soci.
La fusione deve in ogni caso risultare dall’atto pubblico, anche se l’incorporante (o la società che rinviene
dalla fusione) sia una società di persone. Entro trenta giorni da tale stipulazione, il notaio deve depositare
l’atto di fusione per l’iscrizione presso l’ufficio del registro delle imprese dei luoghi della sede delle società
incorporate o fuse, e dell’incorporante.
L’ultima di queste iscrizioni dell’atto ha efficacia costitutiva della fusione.

Il legislatore italiano ha introdotto una specifica regola sull’invalidità della fusione secondo cui, una volta
eseguite le iscrizioni dell’atto di fusione, la sua invalidità può essere pronunciata. Resta salvo il diritto al
risarcimento del danno eventualmente spettante ai soci o ai terzi danneggiati dalla fusione.
Questa preclusione di pronunce di invalidità trova giustificazione nell’esigenza di stabilizzare la nuova
organizzazione societaria generata dalla fusione ed infatti una sopravvenuta invalidità della fusione
comporterebbe la necessità di scomporre il patrimonio della società risultante dalla fusione e di riassegnare
alcuni elementi attivi e passivi che vi sono confluiti alle società incorporate o fuse, con grave pregiudizio alla
certezza dei traffici.
Queste considerazioni inducono quindi a comprendere nell’ambito di applicazione di tale preclusione della
tutela reale, anche i vizi più gravi del procedimento di fusione, come la totale assenza di una delle sue tre
fasi, l’incongruità del rapporto di cambio o l’iscrizione dell’atto di fusione in pendenza dell’opposizione dei
creditori.
Ai terzi danneggiati dalla fusione restano, anche in questi casi più gravi, i soli rimedi risarcitori (tutela
obbligatoria).

§72. Le scissioni

La scissione è una particolare tecnica di riorganizzazione dei complessi patrimoniali destinati all’esercizio
dell’imprese e la sua disciplina è contenuta negli art. 2506 ss.
Essa può assumere varie forme.
Si ha scissione totale se la società che si scinde assegna tutto il proprio patrimonio a più società beneficiarie.
Questa operazione determina l’estinzione senza liquidazione della società scissa, dato che la sua attività
prosegue nelle società beneficiarie, a cui vengono imputati diritti ed obblighi della scissa in proporzione alla
quota di patrimonio loro trasferita.
Con la scissione parziale, invece, la società scissa assegna solo parte del proprio patrimonio ad una o più
società beneficiarie. Ne consegue che la società scissa non si estingue, ma continua ad operare con un
patrimonio ridotto; i suoi soci acquistano anche partecipazioni della società beneficiaria.
La configurazione della scissione e la sua disciplina cambiano a seconda che a beneficiare dell’assegnazione
patrimoniale siano società di nuova costituzione o già preesistenti.
La prima fattispecie è nota come scissione in senso stretto: in questo caso l’atto di scissione funge da atto
costitutivo delle nuove società i cui soci, almeno inizialmente, corrispondono a quelli della società estinta.
L’assegnazione di tutto o parte del patrimonio della società scissa a società già preesistenti, dà luogo invece
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ad una scissione per incorporazione: questa operazione è caratterizzata dall’aumento di capitale delle
società beneficiarie a servizio dell’attribuzione delle loro azioni o quote ai soci della società scissa.
Per la scissione valgono gli stessi limiti visti per la fusione.
Anzitutto, la scissione è omogenea se il patrimonio della scissa è assegnato a società beneficiarie dello
stesso tipo; è invece eterogenea se tutte le società beneficiarie o anche una sola di esse è di tipo diverso
dalla società scissa.
Non è poi consentita la scissione di società azionarie in liquidazione che abbiano iniziato la ripartizione
dell’attivo, mentre, al pari della fusione, sono consentite scissioni di società sottoposte a procedure
concorsuali.

a) Gli amministratori di tutte le società coinvolte nella scissione devono redigere un progetto di
scissione, corredato degli stessi allegati, obblighi pubblicitari e deroghe previsti per la fusione.
Il contenuto del progetto di scissione però risulta più articolato in quanto i dati vanno integrati con
indicazioni rese necessarie dalla pluralità di società che risultano dalla scissione. Questa circostanza
quindi rende necessario specificare: l’esatta descrizione degli elementi del patrimonio da
assegnare a ciascuna delle società beneficiarie e i criteri di distribuzione delle azioni o quote delle
società beneficiarie. Riguardo quest’ultimo aspetto l’indicazione del rapporto di cambio non è
sufficiente in quanto occorre anche definire la misura in cui i soci partecipano in ciascuna delle
società beneficiarie.
La disciplina della scissione, quindi, è composta da regole suppletive che vanno incontro ad
eventuali lacune del progetto. Si prevede così la sorte degli elementi dell’attivo i quali sono ripartiti,
in caso di scissione totale, tra le società beneficiarie in proporzione alla quota del patrimonio netto
assegnato a ciascuna di esse; nel caso di scissione parziale, invece, l’elemento dell’attivo non
indicato nel progetto resta in capo alla società scissa, se questa non si estingue per effetto della
scissione.
Diverso è la regola che disciplina gli elementi del passivo, ispirata alla finalità di garantire maggiore
protezione dei creditori sociali. In particolare è prevista una responsabilità solidale delle società
beneficiarie, nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto attribuito a ciascuna di esse.
b) Vi sono alcune peculiarità anche con la relazione dell’organo amministrativo allegata al progetto di
scissione, che deve fornire una specifica illustrazione dei criteri di distribuzione delle azioni o quote
e le indicazioni circa il valore effettivo del patrimonio netto assegnato alle società beneficiarie e di
quello eventualmente rimasto nella società scissa.

Dal progetto di scissione devono risultare anche i criteri di distribuzione delle azioni o quote delle società
beneficiarie. È quindi consentito decidere a maggioranza una scissione che preveda un’attribuzione delle
partecipazioni ai soci non proporzionale alla loro partecipazione originaria; in questo caso però viene
assicurata ai soci che non approvano la scissione, una tutela particolare consistente nel riconoscimento di
un loro diritto di far acquistare le proprie partecipazioni per un corrispettivo determinato con i criteri
previsti per il recesso. Questo obbligo di acquisto e coloro che ne sono soggetti devono risultare dal
progetto di scissione. Ma la scissione può costituire anche uno strumento di rimodellamento e di
separazione di compagini sociali non più coese. L’attuale disciplina consente così “una scissione in senso
soggettivo”: con il consenso unanime dei soci della società scissa, ad alcuni di essi non vengono assegnate
azioni o quote di una delle società beneficiarie della scissione, ma azioni o quote della società scissa (c.d.
scissione asimmetrica).

Come la fusione, la decisione di scissione non può essere eseguita immediatamente.


La stipula dell’atto di scissione può essere effettuata solo dopo sessanta giorni dall’iscrizione nel registro
delle imprese dell’ultima decisione di scissione. Entro questo termine, ciascun creditore anteriore alla
pubblicazione del progetto di scissione può proporre opposizione alla scissione. È anche possibile una
stipula anticipata dell’atto di scissione, purché vi sia il consenso di tutti i creditori anteriori alla
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pubblicazione del progetto, il pagamento dei creditori non consenzienti o il deposito presso un istituto di
credito delle somme necessarie per pagarli.
Nella scissione, la valutazione dell’eventuale pregiudizio dei creditori deve tener conto della sussistenza di
un altro presidio a loro tutela, costituto dalla permanenza della responsabilità solidale di ciascuna società
coinvolta nell’operazione, sia pure nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto.
L’atto di scissione deve risultare da atto pubblico. Nell’ipotesi di scissione, l’atto di scissione vale anche come
atto costitutivo delle società risultanti dalla scissione: perciò deve indicare anche tutti i loro soci, le azioni e
le quote spettanti ad ognuno, e deve sempre essere sottoscritto e stipulato dai soli amministratori della
società scissa in esecuzione della decisione di scissione.
La scissione acquista efficacia costitutiva nel momento in cui avviene l’ultima iscrizione dell’atto di scissione
nel registro delle imprese dove sono iscritte le beneficiarie; tale adempimento comporta che queste ultime
assumano i diritti e gli obblighi della società scissa a ciascuna assegnati nell’atto di scissione.
Dal momento in cui la scissione acquista efficacia, essa diviene inattaccabile, non essendo più consentito
dichiararne l’invalidità. I soci e i creditori danneggiati dalla scissione possono solo richiedere il risarcimento.

SEZIONE DECIMA

IL DIRITTO DEL SISTEMA FINANZIARIO

§78. Principali tipi di contratti finanziari

I contratti (atti) in cui si svolge l’attività creditizia sono quelli con cui si concede al cliente una facilitazione
finanziaria, cioè con cui si soddisfa un bisogno di liquidità del cliente con conseguente esposizione
dell’intermediario al rischio di credito, vale a dire il rischio di non riottenere dal cliente quanto prestato per
soddisfare il bisogno.
Parte di questi contratti trovano disciplina nel codice civile o nel TUB (Testo Unico Bancario), altri invece
trovano qualche regola apposita in fonti normative differenti. Altri ancora, invece, sono del tutto innominati
o frutto della prassi negoziale finanziaria.
In generale, a prescindere dalla natura dei contraenti, non pochi contrati di finanziamento sono disciplinati
come contratti “bancari, cioè nel senso che la legge prevede solo l’ipotesi che il finanziatore sia una banca.

Il mutuo è il contratto con cui il mutuante “consegna” al mutuatario denaro (o altre cose fungibili) ed il
mutuatario promette di restituire la somma ricevuta (art. 1813). Perché il mutuo si perfezioni, non è
sufficiente che mutuante e mutuatario si scambino la promessa di dare e ricevere a mutuo, ma è necessario
che il denaro sia consegnato. Quindi, il mutuo è tipizzato in un contratto reale e non consensuale, la cui
stipula e la relativa erogazione non avvengono contestualmente, ma a distanza di alcuni giorni l’uno
dall’altro.
Essenziale nel mutuo è poi che l’obbligo di restituzione della somma scada in un momento successivo a
quello in cui il denaro è stato consegnato e l’obbligo è sorto: solo così il mutuatario potrà godere del
denaro. Pertanto, se il contratto non prevede il termine, questo è fissato dal giudice secondo le circostanze.
Di regola tale termine non è solo a favore del mutuatario, ma anche del mutuante in quando ha interesse a
far lucrare gli interessi che maturano ex lege a fronte del differimento della scadenza dell’obbligo di
restituzione, al tasso previsto dall’art. 1284: secondo la disciplina generale è necessario un apposito patto
per escludere gli interessi e di un patto scritto per aumentarne il saggio.

Dal mutuo si distingue l’apertura di credito bancario (artt. 1842 ss.), ossia un contratto consensuale e non
reale. La banca non consegna il denaro al cliente, ma lo mette a sua disposizione; il cliente acquista così la
facoltà di utilizzare il denaro (per es. prelevando o ordinando un bonifico). Se lo utilizzerà, nascerà
immediatamente l’obbligo di restituire la somma utilizzata.
Se non è disposto diversamente, l’apertura di credito è “in conto” o “rotativa” o “revolving” (art. 1843). In
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questa forma di apertura, il cliente, utilizzata la disponibilità, può ripristinarla con successivi versamenti. Il
rapporto non cessa, come nel mutuo, a seguito dell’intera restituzione di quanto utilizzato; infatti, la
disponibilità può essere utilizzata anche in modo frazionato e i versamenti possono essere effettuati per
qualunque importo e in qualsiasi momento, ripristinando la disponibilità per un importo corrispondente a
quello versato.
Diversamente dal mutuo, poi, l’apertura di credito può essere anche a tempo indeterminato. In questa
ipotesi, il rapporto di apertura di credito termina per effetto del recesso di una delle due parti. Cessato il
rapporto, il cliente non potrà più utilizzare la disponibilità e dovrà restituire quanto utilizzato. La cessazione
della facoltà di utilizzo e/o scadenza dell’obbligo di restituzione sono differiti secondo il termine di preavviso
stabilito dalla legge o dal contratto.

Uno dei contratti innominati fra i più diffusi nella prassi è il leasing, che si divide in due forme: leasing
operativo, che corrisponde ad una semplice locazione sfornita di causa finanziaria e che ha la finalità di
consentire al conduttore di utilizzare il bene locato; e il leasing finanziario che costituisce una facilitazione
finanziaria per il cliente utilizzatore, avendo lo scopo di soddisfare il bisogno di liquidità del cliente per
l’acquisto o il godimento del bene oggetto del leasing.
Con riguardo alla struttura del contratto di leasing finanziario, possiamo dire che su incarico
dell’utilizzatore, l’intermediario acquista da un terzo un bene immobile o mobile, strumentale all’attività
professionale dell’utilizzatore o per un bisogno estraneo a tale attività. L’intermediario anticipa il capitale
necessario all’acquisto del bene da locare, pagandone il prezzo al fornitore. Quindi concede il bene in
godimento all’utilizzatore verso il corrispettivo di un canone calcolato sulla base di un piano di
ammortamento di quanto erogato dal concedente all’atto del pagamento del prezzo del bene locato, in
modo che, al termine del periodo di locazione, il concedente ottenga l’integrale rimborso del capitale
finanziato e il pagamento dei relativi interessi. Inoltre, all’utilizzatore è concessa un’opzione per l’acquisto
del bene verso corrispettivo, al termine del periodo stabilito per il godimento.
Una variante del leasing finanziario è il lease-back (o sale and lease back) che si differenzia perché
l’operazione non è trilaterale, ma bilaterale e l’utilizzatore è un imprenditore già proprietario del bene, che
vende all’intermediario, il quale concede il bene in godimento all’utilizzatore verso il corrispettivo di canoni
e al termine di tale periodo di godimento, l’utilizzatore potrà esercitare l’opzione di acquisto.

Con l’anticipazione bancaria, invece, la banca anticipa al finanziato, in tutto o in parte, il valore di titoli e
merci concessi in pegno (art. 1846). Il finanziato può rimborsare anche prima della scadenza la somma
anticipata e anche solo in parte. Man mano che rimborsa la somma anticipata in proporzione del rimborso,
può ritirare i titoli e le merci dati in pegno. Se il valore dei titoli e delle merci diminuisce di un decimo, la
banca può chiedere il reintegro della garanzia. Se il debitore non si attiene alla richiesta, la banca può
procedere alla vendita dei beni dati in pegno.

Figura particolare di mutuo è lo sconto bancario, con cui la banca anticipa, a titolo di mutuo, l’importo del
credito non ancora scaduto che il cliente vanta nei confronti di un terzo. L’importo del credito che viene
anticipato, è scontato degli interessi che verranno calcolati sulla somma anticipata fino alla scadenza del
credito scontato, che corrisponde anche al momento in cui la somma anticipata e gli interessi dovranno
restituirsi.
A fronte dell’anticipazione, il cliente cede alla banca il credito che vanta verso terzi. La cessione serve non ad
estinguere il debito del cliente verso la banca del capitale anticipato e dei relativi interessi, ma a garantirne il
pagamento.
La cessione è salvo buon fine, in quanto il debito del cliente sarà estinto solo con la riscossione del credito
ceduto; qualora il debitore ceduto non paghi, la banca potrà rivolgersi al cliente per ottenere il rimborso di
quanto le è dovuto, oltre il risarcimento del danno.
Qualora sia anticipato l’intero credito ceduto, si fuoriesce dalla figura dello sconto. Questo è quanto avviene
nel contratto di “anticipo fatture” o in quello di “anticipo effetti”.
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Anche il contratto di factoring prevede una cessione dei crediti da parte del cliente al factor. Si differenzia
perché prevede una cessione in massa dei crediti, anche futuri, versati dal cedente nei confronti dei suoi
clienti o alcuni di essi.
Nel factoring può mancare l’anticipo perché il factor si riserva la facoltà di anticipare in tutto o in parte il
credito ceduto. In ogni caso l’anticipo può avvenire nei limiti concessi dal factor al cliente-cedente, che
fissano l’ammontare massimo dei crediti da anticipare sia nel loro complesso che con riferimento a ciascun
debitore ceduto. Se non vi è un anticipo, il factor, incassato il credito, sarà tenuto a riversare il relativo
importo al cliente. Se vi è anticipo, invece, il factor potrà trattenere quanto incassato. Nel caso di anticipo,
sulla somma anticipata verranno calcolati gli interessi. Comunque è dovuta una commissione per il servizio
di gestione del credito ceduto. Insieme a tale servizio, il contratto di factoring può prevedere un servizio di
consulenza.

I finanziamenti bancari sono spesso assistiti oltre che da garanzie reali (pegno, ipoteca, garanzie finanziarie),
anche da garanzie personali. Così, oltre al contratto di fideiussione specifica, cioè a garanzia di uno specifico
credito, la prassi bancaria prevede la fideiussione omnibus, prestata a garanzia di tutti i crediti, presenti e
futuri, che la banca può vantare nei confronti del soggetto garantito.
La fideiussione omnibus si caratterizza per diverse deroghe alla disciplina comune che allentano il rapporto
tra la garanzia e il credito garantito (ad es. la clausola “a prima richiesta” la quale prevede che il garante
debba pagare quanto dovuto a fronte della semplice richiesta della banca e dopo aver pagato potrà far
valere eventuali eccezioni; o la clausola di reviviscenza, per cui la fideiussione per quanto cessata, tornerà
in vita qualora tornasse in vita l’obbligazione garantita, ad es. a seguito di revoca del pagamento).
La legge prevede limiti all’autonomia privata di tale modello. In primo luogo il contratto di fideiussione
omnibus deve prevedere l’importo massimo garantito; inoltre, la banca non può concedere ulteriore
credito al debitore garantito sapendo che le condizioni patrimoniali di questo sono peggiorate al punto di
mettere in pericolo il pagamento, a meno che il fideiussore non la autorizzi a farlo.
Si parla di contratto autonomo di garanzia quando il contratto di garanzia non prevede solo che il terzo
garante non possa opporre eccezioni al creditore prima di aver pagato, ma che non possa opporle neppure
dopo (c.d. clausola di pagamento senza eccezioni).
Il garante potrà comunque rifarsi sul debitore garantito, il quale, se il pagamento al creditore non era
dovuto, potrà chiedere a costui il rimborso di quanto pagato. Inoltre, si ammette che se il garante dispone di
prova liquida dell’infondatezza della richiesta del creditore, potrà rifiutare di soddisfare la pretesa abusiva,
opponendo al creditore l’exceptio doli.
Sia la fideiussione che la garanzia autonoma possono essere oltre che “passive”, cioè ricevute dalle banche a
garanzia dei propri crediti, anche “attive” cioè prestate dalle banche a garanzia di debiti di propri clienti nei
confronti dei terzi.
Il contratto con cui la banca si obbliga nei confronti del cliente a prestare fideiussione a favore di un suo
creditore, prende il nome di “credito di firma”.

La raccolta del risparmio tra il pubblico, si attua principalmente tramite depositi bancari di denaro e
obbligazioni bancarie.

I depositi bancari di denaro (art. 1834) sono la principale figura di depositi irregolari. Con la conclusione del
contratto, tramite la consegna del denaro, la banca ne acquista la proprietà e può disporne; allo stesso
tempo essa si obbliga a restituire la somma ricevuta alla scadenza del termine convenuto (deposito a
termine) o a richiesta del cliente (a vista). Tipicamente, nel deposito bancario, il cliente può incrementare la
somma depositata e può pretendere restituzioni parziali.
Il deposito a vista può essere regolato in conto corrente (art. 1852); in questo modo il deposito viene a
costituire la disponibilità che il cliente può movimentare, in ogni momento, ordinando alla banca di eseguire
pagamenti nei modi stabiliti dal contratto di conto corrente e la documentazione dello svolgimento del
rapporto è quella dei rapporti regolati in conto corrente.
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Un secondo strumento utilizzato per raccogliere risparmio fra il pubblico da parte delle banche è quello
delle obbligazioni bancarie. Tali obbligazioni sono contratti di finanziamento, incorporati in titoli di credito,
e offerti in serie al pubblico.

La nozione di servizi di investimento è oggi contenuta nell’art. 1, co.5, TUF e di tali servizi non viene fornita
una definizione in generale, ma un’elencazione di singole tipologie, tutte dotate di una definizione, con la
precisazione che esse devono avere per oggetto strumenti finanziari. Fra i servizi di investimento rientrano:

a) Il contratto di negoziazione per conto proprio, ossia un mandato con cui l’intermediario si obbliga
ad eseguire specifici ordini di acquisto o di trasferimento di strumenti finanziari, impartiti dal
cliente, stipulando i contratti “per conto proprio” ma comunque nell’interesse del cliente.
b) Invece il contratto di esecuzione di ordini per conto del cliente obbliga l’intermediario a stipulare i
contratti esecutivi dello specifico ordine a nome del cliente.
c) Il contratto di gestione di portafogli è un mandato a gestire strumenti finanziari, con uno o più atti
di trasferimento e/o di acquisto, secondo una valutazione di convenienza affidata all’intermediario,
ma sempre su base individualizzata.
d) Nel servizio di collocamento, l’intermediario si impegna ad offrire al pubblico, in sottoscrizione o in
vendita, strumenti finanziari emessi o di cui è titolare il cliente. Se il collocamento è a fermo o con
garanzia, il collocatore si assume il rischio che l’operazione non vada a buon fine: nel collocamento a
fermo, infatti, il collocatore sottoscrive o compra egli stesso gli strumenti finanziari, con l’obbligo di
rioffrirli al pubblico; nel collocamento con garanzia, invece, il collocatore si obbliga a sottoscrivere o
a comprare gli strumenti finanziari non collocati.
e) Nel contratto di ricezione e trasmissione di ordini, l’intermediario deve solo trasmettere/ricevere
gli ordini impartiti dal cliente a un altro intermediario.
f) La consulenza finanziaria è il contratto con cui l’intermediario si obbliga a fornire, o fornisce,
raccomandazioni ad un cliente sull’opportunità di una data operazione di investimento.

A tali servizi può assimilarsi la gestione collettiva del risparmio. Questa è definita come la promozione,
istituzione e organizzazione di fondi comuni d’investimento e la gestione del patrimonio di OICR di propria o
di altrui istituzione. Gli OICR (organismi di investimento collettivo) sono a loro volta definiti come fondi
comuni e le SICAV. In particolare, il fondo comune d’investimento è “il patrimonio autonomo raccolto,
mediante una o più emissioni di quote, tra una pluralità di investitori con la finalità di investire lo stesso
sulla base di una politica d’investimento; suddiviso in quote di una pluralità di partecipanti; gestito
nell’interesse dei partecipanti e in autonomia dai medesimi”.

§79. La tutela del cliente finanziario

La tutela del cliente nei rapporti bancari è contenuta principalmente nel Titolo VI del TUB e nel d.lgs.
11/2010 sui servizi di pagamento; poi nelle Disposizioni attuative di Banca d’Italia sulla “trasparenza delle
operazioni e dei servizi bancari e finanziari”. La disciplina a protezione del cliente nei rapporti
d’investimento, invece, è collocata nel Titolo II del TUF e nel Regolamento Intermediari Consob e nel
Regolamento congiunto Banca d’Italia e Consob.
Sia con riguardo ai rapporti bancari che a quell’investimento la tutela del cliente si compone di due serie di
regole di base: una serie è volta ad assicurare la “trasparenza” dei rapporti contrattuali; l’altra serie è diretta
a realizzare l’ “equilibrio” del contenuto dei contratti.
Le regole di trasparenza servono a rendere agevolmente conoscibile e comprensibile al cliente il contenuto
dei contratti, sia nella fase precontrattuale, sia in quella di formazione del contratto, sia in quella di
svolgimento del rapporto. In tutte e tre le fasi dell’operazione negoziale, sono imposti soprattutto doveri
informativi a carico dell’intermediario che si riferiscono alla regola generale di correttezza.

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Il principio di trasparenza non è diretto solo alla tutela del cliente ma anche ad accrescere la concorrenza tra
gli intermediari e quindi l’efficienza dei “servizi”: il cliente, messo in grado di valutare la convenienza del
contratto, si orienterà verso l’intermediario che gli offre il contratto più conveniente.
Le norme per l’ “equilibrio” dei contratti, invece, conformano il contenuto: sia quello “economico” (che
prevede crediti/debiti pecuniari), sia quello “disciplinare”. Si tratta di norme che hanno vario scopo: talvolta
sono dirette a rendere meno “iniquo” il rapporto, altre volte a conformare la regola di diligenza
nell’esecuzione del contratto. In tutti i casi l’obiettivo è quello di accrescere l’efficienza dei servizi e l’integrità
dei mercati. Alle norme di trasparenza e di equilibrio fanno da contorno anche regole organizzative delle
imprese. Le regole, infine, sono presediate da sanzioni di varia natura: cioè invalidità dei contratti, la loro
risoluzione, obblighi risarcitori a carico degli intermediari e sanzioni amministrative.

Sia nell’ambito dei rapporti bancari che in quello dei contratti d’investimento, le regole si differenziano per
tipi di clienti e per tipi di operazioni.
La disciplina a tutela del cliente bancario è articolata per tipi di operazione e secondo che si tratti di credito
ai consumatori, di servizi di pagamento o di operazioni bancarie in genere.
La disciplina per le operazioni bancarie in genere è diversificata secondo il tipo di cliente. Più precisamente
le Disposizioni di Trasparenza dettano una disciplina per tutti i clienti e poi due ulteriori serie di regole per il
“cliente al dettaglio” e per il “consumatore”.
Anche la disciplina dei servizi di pagamento è organizzata secondo il tipo di cliente. Con riguardo a tali
servizi, in funzione del tipo di cliente non varia tanto il contenuto delle regole di legge, ma la loro natura.
Precisamente le fonti dettano un’unica disciplina che prevede l’inderogabilità in danno del cliente solo se
questo è un consumatore; è consentita la deroga, invece, se il cliente è una microimpresa e se il cliente non
è né un consumatore né una microimpresa.
La disciplina per il credito ai consumatori, invece, è unica in quanto vi è un unico tipo di cliente a cui questa
operazione si riferisce.
Anche nel settore dei rapporti d’investimento la normativa a tutela del cliente è diversificata secondo il tipo
di controparte dell’intermediario. Nel settore dei servizi d’investimento, la normativa che vale per ogni
cliente è estremamente ridotta e il “cliente” è ogni persona fisica o giuridica alla quale vengono prestati
servizi di investimento o accessori, inclusi anche i soggetti autorizzati ad operare nei mercati finanziari
(SIM).
Vi sono tre tipi particolari della fattispecie cliente: i “clienti professionali”; le “controparti qualificate”; i
“clienti al dettaglio”.
La tutela del cliente finanziario è diversificata non solo in funzione della natura del cliente, come accade nel
settore bancario, ma anche in base al tipo di servizio.

La tutela del cliente bancario è articolata soprattutto che si tratti, come abbiamo detto, di credito al
consumo, servizi di pagamento o altre operazioni bancarie, sia con riguardo alle regole di trasparenza, sia a
quelle per l’equilibrio che organizzative.

Regola base della trasparenza è che i testi utilizzati dall’intermediario siano facilmente leggibili, nel senso
che i loro contenuti possono essere compresi agevolmente dalla clientela e i termini tecnici impiegati
devono essere spiegati ed illustrati. La disciplina della trasparenza precontrattuale è alquanto diversificata a
seconda della tipologia di informazione.
Quasi omogenea per tutti i tipi di operazioni è invece la disciplina della trasparenza contrattuale. Per tutte
le operazioni è prescritta la forma scritta per la conclusione del contratto.
Diversa a seconda della tipologia di operazioni è invece la trasparenza post-contrattuale.
Per tutte le operazioni, comunque, l’informativa “minima” prevista dalla legge sullo svolgimento del
rapporto è gratuita, mentre quella supplementare, richiesta dal cliente, prevede il diritto dell’intermediario
al rimborso dei relativi costi.
Alle tutele informative relative ai servizi di pagamento, il cliente può rinunciare se non è né un consumatore
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né una microimpresa; invece, tutta la disciplina di trasparenza per le altre operazioni bancarie è
indisponibile dall’autonomia privata in danno del cliente.

La normativa cardine in funzione dell’equilibrio del contenuto economico dei contratti bancari è la disciplina
antiusura. Tale disposizione estensibile ad ogni finanziamento, vieta la pattuizione di interessi usurari,
prevedendo la nullità della clausola che li prevede e la gratuità del finanziamento.
Significativa è anche la disciplina recente in tema di “data valuta” riguardante la prassi negoziale bancaria
(ad es. di postergare la data da cui iniziano a prodursi gli interessi a favore del cliente rispetto al momento in
cui l’intermediario riceve la relativa somma). Alla normativa in tema di data valuta si lega anche quella di
“data di disponibilità” cioè il tempo in cui la banca deve rendere disponibile al cliente somme da questo
versate o ricevute da terzi per conto del cliente.
Di un certo rilievo è anche la disciplina delle “spese”.

Il Tit. VI del TUB interviene in merito a diversi aspetti del contenuto disciplinare dei contratti bancari. Tra
questi di particolare importanza sono quello della possibilità, per l’intermediario, di variare unilateralmente
il contratto e quello della chiusura del rapporto per iniziativa del cliente. Si tratta di disposizioni dirette ad
agevolare l’exit del cliente dai contratti bancari, in misura diversa nei vari casi e secondo un disegno
finalizzato ad accrescere la concorrenza tra gli intermediari.
Sempre per quanto riguarda il contenuto disciplinare, va indicato inoltre che il d.lgs. 11/2010 si occupa di
vari profili regolamentari dei servizi di pagamento nella prospettiva di tutela del cliente.

L’osservanza delle regola a tutela del cliente bancario esige che l’intermediario sia dotato di una struttura
organizzativa adeguata. Le Disposizioni di Trasparenza puntualizzano alcuni doveri organizzativi in funzione
del rispetto delle norme in discorso. L’applicazione di queste norme è circoscritta alla “sola attività svolta nei
confronti della clientela al dettaglio”.

Vi sono conseguenze civilistiche per l’inosservanza delle regola a tutela del cliente di cui si occupano: gli
artt. 117 e 118 TUB per i contratti bancari in genere; l’art. 126 TUB per i servizi di pagamento; l’art. 125 TUB
per il credito ai consumatori e l’art. 127 TUB per tutti i contratti. Essi prevedono le nullità relative, cioè che
non possono essere fatte valere da chiunque vi abbia interesse, ma solo dal cliente, in quanto la nullità è a
protezione di quest’ultimo.
Vi sono anche sanzioni amministrative (pecuniarie o inibitorie) per l’inosservanza di tutte le regole a tutela
del cliente, quando sono di rilevante gravità.

A garanzia dell’effettività delle regole di protezione del cliente è stato istituito l’Arbitro bancario finanziario,
diretto a superare i difetti della giustizia ordinaria, permettendo l’emersione anche di small claims (pretese
creditorie di modesto ammontare).

Nei rapporti d’investimento, a tutela del cliente il TUF fa riferimento a regole “elastiche” e “generali”, come
quelle di correttezza e diligenza, o generali del settore come quella di trasparenza. Detta poche regole di
contenuto più dettagliato.
La più puntuale definizione delle regole è svolta dalle fonti secondarie, distinguendo secondo il tipo di
cliente.
Il quadro normativo che ne risulta si concentra sui doveri informativi, equilibrio disciplinare e
organizzazione dell’impresa.

Il Regolamento Intermediari fornisce una definizione più dettagliate della regola di trasparenza in senso
stretto, articolandola in doveri informativi precontrattuali, contrattuali e post-contrattuali. Questi doveri
sono posti quasi esclusivamente a favore dei clienti al dettaglio.

Alcune regole volte ad assicurare l’equilibrio del contenuto dei contratti si conforma alla regola di diligenza,
come quella della best execution. Tale regola consiste essenzialmente nel dovere dell’intermediario di
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“ottenere nell’esecuzione degli ordini, il miglior risultato possibile per i clienti avendo riguardo al prezzo, ai
costi, alla rapidità e probabilità di esecuzione e di regolamento, alle dimensioni, alla natura dell’ordine o a
qualsiasi altra considerazione riguardo i fini della sua esecuzione”. Essa si applica a favore di tutti i clienti che
non siano controparti qualificate.

Il dovere di adeguatezza riguarda il contratto di consulenza finanziaria e quello di gestione del portafoglio,
qualunque sia il cliente. L’intermediario ha il dovere di valutare l’adeguatezza dell’operazione per il cliente e
di astenersi dal consigliare o eseguire operazioni inadeguate per lo stesso.
Per gli altri servizi finanziari è prescritta la regola dell’appropriatezza, di contenuto più blando rispetto a
quello dell’adeguatezza e non applicabile alle controparti qualificate.
L’osservanza delle regole di adeguatezza e appropriatezza implicano l’adempimento dell’obbligo di acquisire
informazioni necessarie dai clienti.

Tra le regole a tutela del cliente, vi sono quelle relative al conflitto di interessi in cui l’intermediario può
venire a trovarsi nell’offrire un contratto o nell’eseguirlo.
L’art. 21, co.1, TUF non vieta all’intermediario di agire in conflitto di interessi partendo dal presupposto che
questo è fenomeno non evitabile. Quindi pone regole volte ad evitare che il conflitto di interessi possa
tradursi in un danno per il cliente, cioè che l’intermediario possa privilegiare, nella propria attività,
l’interesse “proprio” a danno di quello del cliente.
Queste regole sono anzitutto organizzative dell’attività d’impresa dell’intermediario. Questo quindi deve
adottare “ogni misura ragionevole per identificare i conflitti d’interesse” e “misure per gestirli in modo da
evitare che incidano negativamente sugli interessi del cliente”.

Ancora più disorganica è la disciplina in ordine alle conseguenze civilistiche dell’inosservanza delle regola a
tutela del cliente finanziario. Il legislatore stabilisce, come per i contratti bancari, la nullità relativa del
contratto “per inosservanza della forma prescritta” e delle clausole di rinvio agli usi.
Sul piano delle sanzioni amministrative sono previste nello specifico sanzioni pecuniarie per l’inosservanza
di tutte le regola a tutela del cliente, a carico non solo dei soggetti che svolgono funzioni amministrative o di
direzione, ma anche dei dipendenti. Nel caso di gravi irregolarità o di irregolarità di eccezionale gravità, si
possono richiamare rispettivamente, l’amministrazione straordinaria e la liquidazione coatta amministrativa
dell’intermediario.

LEGGE 11 agosto 2014, n. 116


Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 91, recante disposizioni
urgenti per il settore agricolo, la tutela ambientale e l'efficientamento energetico dell'edilizia scolastica e
universitaria, il rilancio e lo sviluppo delle imprese, il contenimento dei costi gravanti sulle tariffe elettriche,
nonche' per la definizione immediata di adempimenti derivanti dalla normativa europea.

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