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PARTE QUINTA

LE PROCEDURE CONCORSUALI

CAPITOLO QUARANTAQUATTRESIMO
LA CRISI DELL’IMPRESA COMMERCIALE

1. Crisi dell’impresa e procedure concorsuali.

La crisi economica dell’impresa ed il conseguente dissesto patrimoniale dell’imprenditore sono eventi che:

- Coinvolgono una gran massa di creditori, impossibilitati a realizzare quanto loro dovuto;
- Possono innescare una serie di dissesti a catena che turbano lo svolgimento della vita economia;
- Coinvolgono interessi collettivi ulteriori e spesso confliggenti con quelli dei creditori.

Di fronte alla crisi economica i mezzi di tutela individuali dei creditori previsti dall’ordinamento si rivelano
inadeguati ed insufficienti.
Il legislatore del 1942 ritenne preferibile operare una distinzione fra dissesto dell’imprenditore commerciale e
degli imprenditori agricoli e piccoli imprenditori commerciali. Per il primo caso furono istituite le procedure
concorsuali, per il secondo invece ci si rifece agli strumenti di diritto comune (azione esecutiva individuale).

Nel 2012 sono state introdotte specifiche procedure concorsuali utilizzabili dai debitori diversi
dall’imprenditore commerciale non piccolo: piccoli imprenditori, imprenditori agricoli, ma anche
professionisti e consumatori.

La legge attualmente regola:

- 6 procedure concorsuali per l’imprenditore commerciale non piccolo: previste dal r.d.267/1942 (l.
fall.) e sono: fallimento, concordato preventivo, accordo di ristrutturazione dei debiti e liquidazione
coatta amministrativa. Una quinta procedura, l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in
stato di insolvenza, è stata introdotta dalla l. 95/1979 e riformata nel 1999. L’ultima, una speciale
amministrazione straordinaria accelerata per le grandi imprese, è stata introdotta dalla l. 347/2003.
- 3 riservate agli altri debitori: regolate dalla l. 3/2012: procedura di liquidazione, accordo di
composizione della crisi e piano del consumatore.

Pur presentando significativi profili di diversità, le singole procedure concorsuali condividono alcuni caratteri
costanti e comuni. Sono tutte procedure generali e collettive: generali perché coinvolgono tutto il patrimonio e
non solo i singoli beni dell’imprenditore, collettive perché coinvolgono tutti i creditori dell’imprenditore alla data
in cui il dissesto è accertato e mirano ad assicurare la parità di trattamento degli stessi. Per questo motivo le
forme ordinarie di tutela dei creditori sono sostituite da forme diverse di tutela collettiva.

2. Le singole procedure concorsuali.

Risulta necessario, vista la grande diversità di casi e situazioni in cui ci si può abbattere, predisporre modelli
articolati di composizione del dissesto dell’imprenditore commerciale e quindi differenziare le procedure
concorsuali, le quali si distinguono sotto più profili: presupposti soggettivi ed oggettivi, finalità perseguita e
strumenti giuridici utilizzati, autorità investita della procedura.

Il fallimento è il prototipo delle procedure concorsuali. Ad esso sono assoggettati, generalmente, tutti gli
imprenditori commerciali insolventi.
Il fallimento è una procedura giudiziaria che mira a liquidare il patrimonio dell’imprenditore insolvente e a
ripartirne il ricavato fra i creditori secondo i criteri ispirati dal principio della par condicio creditorum.

In passato tale procedura portava alla disgregazione del complesso aziendale, secondo un’ottica che ignorava
l’esigenza di dissociare la sorte dell’imprenditore insolvente da quella del complesso produttivo in crisi, e
tutelava poco e male le stesse ragioni dei creditori.

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Dopo vari tentativi di riforma si è arrivati ad una profonda revisione della legge fallimentare attraverso una
serie di interventi legislativi succedutisi fra il 2005 ed il 2012, i quali hanno introdotto le seguenti novità :

a. Maggiore autonomia al curatore nel determinare le modalità di liquidazione del patrimonio.


b. Rafforzamento del ruolo del comitato dei creditori nel valutare la convenienza degli atti del curatore.
c. Riduzione della funzione del giudice delegato ad organo di sorveglianza, non più direzione della
procedura.
d. Adeguamento della disciplina ai principi giurisprudenziali espressi dalla Corte Costituzionale.
e. Depotenziamento delle azioni revocatorie fallimentari.
f. Agevolazione della proposta di concordato fallimentare.

Allo stesso tempo, la nuova disciplina mira a evitare che la crisi di impresa sfoci in fallimento.
E’ in questo disegno che si inserisce il nuovo concordato preventivo, che non presuppone più per forza
l’insolvenza, ma solo una situazione di crisi dell’impresa. Né è più richiesto il possesso di requisiti di
meritevolezza da parte dell’imprenditore che lo propone per evitare il fallimento.

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CAPITOLO QUARANTACINQUESIMO
IL FALLIMENTO

1. I presupposti del fallimento.

I presupposti per la dichiarazione di fallimento sono:

a)La qualità di imprenditore commerciale del debitore (presupposto soggettivo): l’ambito di applicazione del
fallimento subisce alcune limitazioni, in quanto:

 Fallimento è sostituito dalla liquidazione coatta amministrativa per alcune categorie di imprenditori
commerciali individuate da leggi speciali (imprese bancarie ed assicurative, società di intermediazione
mobiliare);
 Fallimento cede il passo all’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza
quando ricorrono i presupposti per l’applicazione di tale procedura;
 Gli enti pubblici sono esonerati dal fallimento, restando soggetti alla liquidazione coatta amministrative
in base alle leggi speciali;
 Le c.d. start-up innovative sono soggette solo alle procedure disciplinate dalla l. 3/2012 con esclusione
del fallimento e delle altre procedure concorsuali.

b)Lo stato di insolvenza de debitore (presupposto oggettivo): imprenditore versa in stato di insolvenza quando,
ex art. 5 l.fall., “non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”. Si tratta di una situazione
patologica ed irreversibile che coinvolge l’intero patrimonio dell’imprenditore. L’insolvenza può però
manifestarsi anche a prescindere dagli inadempimenti, tramite fatti esteriori rivelatori del dissesto: pagamenti
con mezzi anormali, fuga o latitanza dell’imprenditore, chiusura dei locali dell’impresa, trafugamento dell’attivo
(art. 7 l.fall.).

Un imprenditore può essere insolvente anche dopo aver soddisfatto tutti i suoi debiti e, viceversa, può essere
inadempiente senza essere insolvente. Stato di insolvenza e temporanea difficoltà sono infatti situazioni
non coincidenti: il primo comporta il fallimento, mentre la seconda può integrare il presupposto del concordato
preventivo.

c)Il superamento di almeno uno dei limiti dimensionali fissati dall’art. 1, 2° comma l.fall.; il debitore, per poter
essere dichiarato fallito, deve aver superato anche uno dei limiti patrimoniali, reddituali e di indebitamento
fissati dalla legge:

 Aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall'inizio
dell'attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non
superiore ad euro trecentomila;
 Aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di
fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo
annuo non superiore ad euro duecentomila;
 Avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila.

d)La presenza di inadempimenti complessivamente superiori all’importo fissato dalla legge. Ferma restando la
differenza tra stato di insolvenza e il verificarsi di inadempimenti, in base all’attuale disciplina per aprire il
fallimento devono verificarsi entrambe le circostanze. Non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento se
l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell’istruttoria fallimentare è
complessivamente inferiore a 30.000 euro. Tale importo è aggiornabile con cadenza triennale dal Ministro
della giustizia.

La cessazione dell’attività di impresa o la morte dell’imprenditore non impediscono la dichiarazione di


fallimento. Questo può però essere dichiarato solo se non è trascorso più di un anno dalla cancellazione
dell’imprenditore dal registro delle imprese. Per gli imprenditori individuali e per il caso di cancellazione
d’ufficio degli imprenditori collettivi, è fatta salva la possibilità per il creditore o per il PM di dimostrare che
l’attività di impresa è effettivamente cessata in un momento diverso dalla cancellazione.
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2. La dichiarazione di fallimento.

Il fallimento può essere dichiarato, ex art. 6 l.fall.:

Su ricorso di uno o più creditori: ipotesi più frequente in pratica. Non è necessario che il credito vantato
riguardi l’attività di impresa del debitore. Il processo di fallimento è un processo speciale a carattere
inquisitorio, quindi il giudice non incontra limitazioni processuali nell’acquisizione delle relative prove.

Su richiesta del debitore: facoltà del debitore stesso, che può avere interesse a provocare il proprio
fallimento per sottrarsi ad una serie di azioni esecutive individuali in atto. Tale richiesta diventa però
obbligo, penalmente sanzionato, quando l’inerzia provoca l’aggravamento del dissesto (art. 217, n.4).

L’imprenditore – ma non i suoi eredi – che chiede il proprio fallimento deve depositare presso la cancellerie una
serie di documenti, per agevolare l’accertamento del tribunale dei presupposti per l’apertura della procedura:

- Le scritture contabili e fiscali obbligatorie dei tre esercizi precedenti, o dall’inizio dell’impresa se questa
ha avuto minore durata.
- Stato estimativo delle sue attività .
- Indicazione dei ricavi lordi degli ultimi tre esercizi;
- Elenco nominativo dei creditori e dei rispettivi crediti, nonché di coloro che vantano diritti reali o
personali su cose in suo possesso, con l’indicazione di tali cose e del titolo da cui sorge il diritto.

Su istanza del pubblico ministero. Ha il potere/dovere di chiedere il fallimento quando l’insolvenza risulti
da fatti che configurano reati fallimentari, al fine di promuovere l’azione anche prima che il fallimento sia
dichiarato (art. 238 l.fall.). La relativa condanna è però pronunciabile solo dopo che è stato accertato lo stato di
insolvenza.

La riforma del 2006 ha soppresso il potere del tribunale di dichiarare d’ufficio il fallimento. Nel contempo però è
stato attribuito al PM il potere/dovere di chiedere il fallimento quando l’insolvenza risulta dalla segnalazione
proveniente da un giudice che l’abbia rilevata nel corso di un procedimento civile.

Competente per la dichiarazione di fallimento è il tribunale del luogo dove l’imprenditore ha la sede
principale dell’impresa (art. 9), nella quale si trova il centro di direzione e di amministrazione della stessa.
Non rileva, ai fini della competenza, il trasferimento della sede intervenuto nell’anno precedente alla domanda di
fallimento. Ciò ai fini di impedire che il trasferimento della sede serva da espediente all’imprenditore in crisi per
ostacolare o ritardare la dichiarazione di fallimento o per scegliere un tribunale gradito.

Le nuove regole limitano fortemente le conseguenze derivanti dall’incompetenza del tribunale adito. Per effetto
della dichiarazione di incompetenza, la procedura è immediatamente trasferita d’ufficio al tribunale
competente e tutti gli atti precedentemente compiuti restano validi, salva la necessità di nominare nuovi organi
per il prosieguo. La dichiarazione di fallimento conserva efficacia ancorché pronunciata da un giudice
incompetente.

La riforma del 2006 ha introdotto una più dettagliata disciplina (art. 15) dell’istruttoria prefallimentare.
Resta fermo rispetto al passato che il tribunale decide sulla richiesta di fallimento con uno speciale procedimento
in camera di consiglio, formalmente più semplice rispetto al rito ordinario. Il debitore ed i creditori istanti
devono essere sentiti in udienza e possono presentare memorie, depositare documenti e proporre l’ammissione
di prove e consulenti tecnici.
Il tribunale, ad istanza di parte, può anche emettere provvedimenti cautelari o conservativi volti a tutelare il
patrimonio o l’impresa del debitore per la durata dell’istruttoria. Tali provvedimenti cadono quando la
domanda di fallimento viene rigettata, mentre in caso di apertura della procedura, la sentenza dichiarativa di
fallimento decide se conservarli o revocarli.

Se il tribunale decide di non dover accogliere la domanda di fallimento, provvede con decreto motivato di
rigetto. Contro questo il creditore istante, il PM e lo stesso debitore possono proporre reclamo alla corte di
appello. Se tale ricorso è accolto, la corte d’appello non può subito pronunciare la dichiarazione di fallimento,
dovendo rimettere di ufficio gli atti al tribunale per la relativa dichiarazione (art. 22).

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Il fallimento è dichiarato con sentenza.
Oltre la pronuncia di fallimento, la sentenza, ex art. 16, 1° comma, contiene alcuni provvedimenti necessari per lo
svolgimento della procedura:

- Nomina il giudice delegato ed il curatore preposti;


- Ordina al fallito il deposito del bilancio, delle scritture contabili e fiscali obbligatorie, e dell’elenco dei
creditori entro 3 giorni;
- Fissa i termini relativi al procedimento di accertamento dello stato passivo.

La sentenza viene notificata d’ufficio al debitore, e comunicata per estratto al PM, al curatore ed al
creditore richiedente il fallimento. Inoltre, è resa pubblica mediante annotazione nel registro delle imprese.
La sentenza è immediatamente esecutiva fra le parti del processo dalla data del deposito in cancelleria.
Gli effetti nei confronti dei terzi invece si producono solo dalla data di iscrizione del provvedimento nel registro.

3. (Segue): Reclamo. La revoca del fallimento.

Contro la dichiarazione di fallimento possono proporre reclamo il fallito e qualsiasi interessato (art. 18),
anche se portatore di un semplice interesse morale.

Il ricorso deve essere depositato presso la corte d’appello entro 30 giorni, che per il fallito decorrono dalla data
di notificazione della sentenza che dichiara il fallimento, e per tutti gli altri interessati dalla data dell’iscrizione
della sentenza nel registro. In nessun caso può essere proposto decorso un anno dalla pubblicazione della
sentenza.

L’impugnazione NON SOSPENDE gli effetti della dichiarazione di fallimento, ma la corte d’appello può disporre la
temporanea sospensione della liquidazione dell’attivo, quando sussistono gravi motivi e gliene faccia richiesta
una parte o il curatore.

Anche per il reclamo la legge delinea un procedimento speciale molto semplificato al fine di accelerare i
tempi della decisione (art. 18). Contro la sentenza che decide il reclamo si può proporre per ricorso per
Cassazione nel termine abbreviato di 30 giorni dalla notificazione d’ufficio del provvedimento.
Con la sentenza che accoglie il reclamo il fallimento è revocato; questa è pubblicata quindi nel registro delle
imprese. Restano salvi gli effetti degli atti legalmente compiuti dagli organi fallimentari (art.18, 15° comma).
All’ex fallito non resta che rivolgersi nei confronti del creditore istante per ottenerne la condanna al risarcimento
dei danni, possibile se vi sia stata colpa dello stesso creditore nella richiesta della dichiarazione di fallimento. Se
così è, a carico del creditore istante sono anche le spese di procedure ed il compenso al curatore.
Altrimenti, spese e compenso gravano sull’ex fallito, se all’origine della dichiarazione di fallimento vi è stato
un suo comportamento colposo. In caso contrario, le spese della procedura ed il compenso al curatore sono a
carico dello Stato.

4. Gli organi del fallimento.

Allo svolgimento della complessa attività , giudiziaria ed amministrativa, sottostante alla procedura concorsuale
sono preposti 4 organi, ciascuno dei quali investito di proprie specifiche funzioni.

Il tribunale fallimentare: ex art. 23 è “investito dell’intera procedura fallimentare” e sovraintende al corretto
svolgimento della stessa. In particolare:

a. Nomina il giudice delegato ed il curatore, sorvegliandone l’operato e potendoli sostituire.


b. Sostituisce i componenti del comitato dei creditori nel caso previsto dall’art. 37-bis.
c. Decide le controversie relative alla procedura che non sono di competenza del giudice delegato, nonché i
reclami contro i provvedimenti dello stesso giudice delegato.
d. Può sempre chiedere chiarimenti ed informazioni al curatore, al fallito e al comitato dei creditori.

Questi provvedimenti sono adottati dal tribunale con decreto, salvo che non sia diversamente disposto. Contro il
decreto è possibile presentare reclamo alla corte d’appello con le modalità previste all’art. 26.
Il tribunale fallimentare è inoltre competente a decidere su tutte le controversi derivanti dal fallimento.

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Il giudice delegato: ex art. 25, vigila sulle operazioni del fallimento e controlla la regolarità della procedura;
come detto, con la riforma del 2006, ha perduto la funzione di dirigere le operazioni del fallimento, essendosi
riconosciute al curatore maggiore autonomia di gestione. In particolare:

a. Nomina e revoca i componenti del comitato dei creditori e, nel caso di inerzia, pone in essere gli atti che
rientrano nella competenza di tale organo.
b. Forma lo stato passivo del fallimento, rendendolo esecutivo con proprio decreto.
c. Autorizza il curatore a stare in giudizio.
d. Decide sui reclami proposti contro gli atti del curatore e del comitato dei creditori.
e. Emette o provoca dalle competenti autorità i provvedimenti urgenti per la conservazione del
patrimonio.

Anche i provvedimenti di tale organo sono adottati con decreto motivato, impugnabile con reclamo dinanzi
al tribunale fallimentare.

Il curatore: organo preposto alla amministrazione del patrimonio fallimentare, e compie tutte le operazioni
della procedura nell’ambito delle funzioni ad esso attribuite. È investito della qualità di pubblico ufficiale per
quanto attiene all’esercizio delle sue funzioni.

Viene nominato dal tribunale con la sentenza che dichiara il fallimento; i creditori rappresentanti la maggioranza
dei crediti ammessi, conclusa l’adunanza per l’esame dello stato passivo e prima della dichiarazione di
esecutività dello stesso, possono chiederne la sostituzione, indicando al tribunale le ragioni della richiesta
e un nuovo nominativo. In tal caso il tribunale, valutate le ragioni della richiesta, provvede alla nomina del
soggetto designato dai creditori, sempre che possegga i requisiti di legge.

Il curatore può essere in ogni tempo revocato dal tribunale anche d’ufficio. Entro 60 giorni dalla dichiarazione
di fallimento, il curatore deve presentare al giudice delegato una relazione particolareggiata sulle cause del
dissesto e sulle eventuali responsabilità del fallito, indicando gli atti dello stesso che intende impugnare.

Numerosi sono i compiti specifici assegnati al curatore, ma la funzione centrale è quella di conservare,
gestire e realizzare il patrimonio fallimentare sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei
creditori. È necessaria in particolare l’autorizzazione del comitato dei creditori per gli atti eccedenti l’ordinaria
amministrazione, e quella del giudice delegato perché il curatore stia in giudizio come attore o convenuto.

Il comitato dei creditori: composto da 3 o 5 membri scelti fra i creditori in modo da rappresentare in misura
equilibrata quantità e qualità dei crediti.
E’ nominato dal giudice delegato entro 30 giorni dalla sentenza di fallimento. Al pari di quanto già visto per il
curatore, i creditori possono effettuare nuove designazioni. In tal caso il tribunale provvede alla nomina dei
soggetti designati, purché sia mantenuto il requisito della equilibrata rappresentatività dell’organo (art. 37-bis).

La riforma del 2006 ha rafforzato il ruolo di tale organo, che in origine era prevalentemente consultivo. Il
comitato infatti:

a. Vigila sull’operato del curatore;


b. Autorizza gli atti del curatore;
c. Esprime pareri nei casi previsti dalla legge, o su richiesta del tribunale o del giudice delegato. Il parere
del comitato è obbligatorio ma non vincolante, salvo in alcuni casi.
d. Autorizza il curatore a compiere tutti gli atti di straordinaria amministrazione, il subentro del curatore
nei rapporti contrattuali pendenti.
e. Approva il programma di liquidazione predisposto dal curatore.

Il comitato ed ogni suo membro hanno diritto di ispezionare tutti i documenti del fallimento, di chiedere
notizie e chiarimenti al curatore ed al fallito. Inoltre deve essere informato dal curatore nei casi previsti dalla
legge.

Può presentare istanza al tribunale per la revoca del curatore, e può esercitare l’azione di responsabilità
contro il curatore revocato. I suoi componenti, a loro volta, sono soggetti a responsabilità secondo le regole
previste per i sindaci di spa (non vale la regola culpa in vigilando).

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Contro gli atti del curatore e del comitato dei creditori il fallito ed ogni interessato può proporre reclamo al
giudice delegato entro 8 giorni dalla conoscenza dell'atto. L’attuale disciplina precisa però che il reclamo è
concesso solamente per “violazioni di legge”, escludendo che il giudice delegato possa valutare nel merito la
convenienza degli atti impugnati. Contro il decreto del giudice delegato è ammesso ricorso al tribunale, sempre
entro il termine abbreviato di 8 giorni (art. 36).

5. Effetti del fallimento per il fallito: effetti patrimoniali.

Con la dichiarazione di fallimento il fallito perde l’amministrazione e la disponibilità dei suoi beni, ex art. 42, che
passano al curatore. Lo spossessamento colpisce tutti i beni ed i diritti esistenti nel patrimonio del fallito alla
data della dichiarazione, eccezion fatta per quelli elencati dall’art. 46, sottratti all’esecuzione fallimentare:

a. Beni e diritti di natura strettamente personale.


b. Assegni a carattere alimentare, stipendi, pensioni, salari e ciò che il fallito guadagna con la propria
attività , nei limiti, fissati dal giudice delegato, di quanto occorre per il mantenimento suo e della sua
famiglia.
c. Frutti derivanti dall’usufrutto legale sui beni dei figli e su quelli costituiti in fondo patrimoniale con i loro
frutti.
d. Le cose che non sono pignorabili per disposizione di legge.

Se il proprietario della propria abitazione, il fallito ha diritto di continuare ad abitarla fino alla vendita, nei limiti
in cui è necessario a lui ed alla sua famiglia. Se privo di mezzi di sussistenza, il fallito può ottenere dal giudice
delegato la concessione di un sussidio a titolo di alimenti per sé e per la famiglia.

Lo spossessamento si estende ai beni che pervengono al fallito durante il fallimento, a titolo gratuito od
oneroso. Per i beni sopravvenuti vanno dedotte le passività incontrate per l’acquisto e la conservazione degli
stessi, le quali vanno soddisfatte in prededuzione. Il curatore fallimentare, previa autorizzazione del comitato,
può decidere quindi di non acquistare i beni sopravvenuti quando ritenga che il loro valore sia inferiore alle
passività da soddisfare ed ai costi per la loro conservazione.

Allo stesso tempo il curatore, previa autorizzazione del comitato, può decidere di non acquisire all’attivo un bene
esistente nel patrimonio del fallito alla data di dichiarazione del fallimento, o rinunciare a liquidarlo dopo che è
stato appreso alla massa fallimentare, se l’attività di liquidazione appia manifestamente antieconomica
(derelizione). In questo caso il bene ritorna nella disponibilità del fallito, e su tale bene i creditori possono
esercitare su di esso azioni esecutive individuali.

Con la dichiarazione di fallimento il fallito non perde la capacità di agire né la proprietà dei beni oggetti
dello spossessamento fino a che gli stessi non siano stati trasferiti a terzi con atti di disposizione
dell’amministrazione fallimentare. Tuti gli atti compiuti dal fallito quindi dopo la dichiarazione di fallimento sono
validi e lo vincolano. Nulla impedisce che il fallito inizi una nuova attività di impresa.

Gli atti posti in essere dal fallito sono inefficaci rispetto alla massa dei creditori se hanno per oggetto beni e
diritti ricompresi nello spossessamento, dal momento che degli stessi il fallito non può disporre durante il
fallimento. Inefficacia è relativa non assoluta.
Parimenti inefficaci sono i pagamenti eseguiti dal fallito e quelli da lui ricevuti dopo la dichiarazione di
fallimento, fermo restando che tutte le utilità conseguite dal fallito per effetti di tali atti sono acquisite al
fallimento.

La perdita dell’amministrazione e della disponibilità del patrimonio comporta che il fallito non può stare in
giudizio, né come attore né come convenuto, nelle cause relative a rapporti patrimoniali compresi nel
fallimento. In suo luogo starà in giudizio il curatore.

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6. (Segue): Effetti personali e penali.

Il fallimento produce anche effetti che colpiscono la persona del fallito, a loro volta distinti in due gruppi:

Con la dichiarazione di fallimento il fallito vede limitati alcuni diritti civili garantiti dalla Costituzione:

- Diritto al segreto epistolare: corrispondenza indirizzata al fallito che non sia persona fisica viene
consegnata direttamente al curatore. Se a fallire è una persona fisica, la corrispondenza continua ad
essere recapitata al fallito, il quale ha però l’obbligo di consegnare al curatore quella riguardante i
rapporti compresi nel fallimento (art. 48).
- Diritto alla libertà di movimento: fallito deve comunicare al curatore ogni cambiamento di residenza o
domicilio, e deve presentarsi presso gli organi della procedura ogni qualvolta è chiamato per fornire
informazioni o chiarimenti.

Un secondo gruppo di limitazioni – previste dal codice e da legge speciali - riguarda le capacità civili del
fallito. Quest’ultimo non può essere:

- Amministratore, sindaco, revisore o liquidatore di società ;


- Iscritto nell’albo degli avvocati o dei dottori commercialisti;
- Svolgere la funzione di tutore, arbitro, notaio.

Queste restrizioni colpiscono l’imprenditore per il solo fatto di essere esposto a fallimento, e cessano
automaticamente con la chiusura della procedura, dato che la riforma del 2006 ha soppresso il registro dei falliti
e con esso la necessità di un provvedimento di riabilitazione del fallito.

La dichiarazione di fallimento infine espone il fallito a sanzioni penali per fatti compiuti prima o dopo del
fallimento, che la legge configura come reati in quanto diretti a recare pregiudizio ai creditori. Le
principali figure di reati fallimentari sono:

a. Bancarotta fraudolenta: serie di fatti (art. 216) caratterizzati dal dolo dell’imprenditore (es. distruzione
o falsificazione delle scritture contabili).
b. Bancarotta semplice reato punti con pene più lievi; riguarda fatti (art. 217) commessi dall’imprenditore
solo con colpa (es. omessa o irregolare tenuta delle scritture contabili).
Non configurano il reato di bancarotta gli atti compiuti in esecuzione di un concordato preventivo, di un
accordo di ristrutturazione dei debiti omologato o di un piano di risanamento, ecc.
c. Ricorso abusivo al credito: reato di chi ricorre o continua a ricorrere al credito dissimulando il proprio
dissesto (art. 218).

La condanna per tali reati comporta, come pena accessoria, il divieto di esercitare una impresa commerciale
propria e di ricoprire uffici direttivi presso qualsiasi impresa rispettivamente per 10, 2 e 3 anni.

7. Effetti del fallimento per i creditori.

Secondo il principio della parità di trattamento, il fallimento è diretto a soddisfare tutti coloro che sono creditori
del fallito al momento della dichiarazione di fallimento. L’art. 52 dispone che “il fallimento apre il concorso dei
creditori sul patrimonio del fallito”. Una volta diventati creditori concorsuali, possono realizzare l loro credito
solo tramite la procedura fallimentare.

I creditori concorsuali acquistano il diritto di partecipare alla ripartizione dell’attivo solo in seguito
all’accertamento giudiziale del loro credito, nelle forme stabilite dalla legge, diventando in questo modo
creditori concorrenti.
Questi ultimi non sono tutti sullo stesso piano, visto che il fallimento non fa venir meno le cause legittime di
prelazione precedentemente acquisite. Da qui la distinzione fra creditori chirografari e creditori privilegiati
(garantiti da pegno, ipoteca o privilegio). Gli ultimi hanno diritto di prelazione sul ricavato della vendita del bene
oggetto della loro garanzia, per il capitale, gli interessi e le spese. Se in tal modo non sono soddisfatti
integralmente, per il residuo concorrono alla pari con i chirografari nella ripartizione di ciò che resta dell’attivo
fallimentare.

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I chirografari partecipano invece solo alla ripartizione dell’attivo non gravato da vincoli, in proporzione del loro
credito e sono quindi soddisfatti tutti nella stessa percentuale.

Dai creditori concorrenti vanno tenuti distinti i creditori della massa, coloro i cui crediti devono essere
soddisfatti in prededuzione, prima cioè dei creditori concorrenti, per intero. Per i titolari dei crediti
prededucibili non opera la parità di trattamento nei confronti dei creditori concorsuali.
I crediti prededucibili non contestati sono inoltre esonerati dal procedimento di accertamento dei crediti; se i
primi sono anche liquidi ed esigibili, possono essere pagati al di fuori del procedimento di riparto.
Sono crediti prededucibili quelli così qualificati da una specifica disposizione di legge, le obbligazioni sorte in
occasione o in funzione delle procedure concorsuali. Rientrano in questa categoria anche le spese della
procedura, le obbligazioni contratte dal curatore per amministrazione e continuazione.

L’apertura del fallimento incide sulle modalità processuali di realizzazione del credito. All’esecuzione
individuale sui beni del debitore si sostituisce l’esecuzione collettiva fallimentare. Al riguardo, sono posti dalla
l.fall. due principi cardine:

a. Ogni credito, salvo quelli prededucibili non contestati, deve essere accertato giudizialmente nell’ambito
del fallimento, secondo le norme per la formazione dello stato passivo. Lo stesso vale per i diritti reali o
personali vantati da terzi sui beni della massa fallimentare.
b. Dal giorno della dichiarazione di fallimento nessuna azione esecutiva individuale può essere iniziata o
proseguita sui beni compresi nel fallimento.

Resta preclusa ogni altra azione cautelare dei creditori diretta a sottrarre beni all’esecuzione concorsuale,
mentre il creditore si sostituisce ai creditori nelle azioni volte a ricostruire il patrimonio del fallito.

Il divieto di azioni esecutive individuali subisce alcune eccezioni:

a. I creditori garantiti da pegno o assistiti da privilegio speciale su mobili con diritto di ritenzione possono,
su autorizzazione del giudice delegato, vendere i beni vincolati, una volta ammessi al passivo con
prelazione.
b. Le banche possono iniziare o proseguire l’azione esecutiva individuale sugli immobili ipotecati a
garanzia di operazioni di credito fondiario, di credito alle opere pubblico e di credito agrario, nonché sul
pegno avente ad oggetto attività finanziarie ottenuto a garanzia di obbligazioni finanziarie.

L’apertura del concorso comporta anche modifiche della posizione sostanziale dei creditori per la necessità
di fissare l’intera situazione debitoria del fallito al momento della dichiarazione di fallimento.
A tal fine, tutti i debiti pecuniari del fallito si considerano scaduti alla data di dichiarazione.
Altra regola generale è che i creditori partecipano al concorso per l’importo che il loro credito ha al momento
della dichiarazione di fallimento. Questa infatti sospende il corso degli interessi, convenzionali e legali, fino alla
chiusura del fallimento. Tale regola subisce eccezione per i crediti privilegiati e per quelli prededucibili.

Regole particolari sono dettati per crediti fruttiferi ed infruttiferi, pecuniari e non pecuniari e per crediti
derivanti da titoli obbligazionari.

La scadenza anticipata dei crediti verso il fallito si riflette sulla disciplina della compensazione in sede
fallimentare (art. 56). Non solo resta fermo il diritto dei creditori del fallito di far valere la compensazione con i
loro debiti verso lo stesso, ma la possibilità di compensazione è ampliata. È infatti ammesa anche se il credito
verso il fallito non è scaduto prima della dichiarazione di fallimento. Entrambi i crediti devono però essere
anteriori alla dichiarazione.

Per evitare possibili abusi, la compensazione non ha luogo se il credito non scaduto verso il fallito è stato
acquisito per atto fra vivi dopo la dichiarazione di fallimento o nell’anno anteriore. Vi è in tal caso la presunzione
assoluta che l’acquisto sia avvenuto per sottrarsi al pagamento del proprio debito.

8. Effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori.

Nel periodo intercorrente fra manifestazione dello stato di insolvenza e dichiarazione di fallimento,
l’imprenditore può compiere una serie di atti di disposizione che alterano l’integrità del proprio patrimonio ed
arrecano pregiudizio ai creditori.
Tale problema non è esclusivo del fallimento, ma sorge ogni qualvolta il debitore sottrae beni al suo patrimonio
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con pregiudizio dei propri creditori. Il problema è stato risolto dal legislatore, in via generale, con le disposizioni
che regolano l’azione revocatoria (art. 2901 e ss.).

La azione revocatoria ordinaria è esercitabile anche in caso di fallimento di un imprenditore ed è esercitata dal
curatore nell’interesse di tutti i creditori, ex art. 6 l.fall.
In caso di fallimento però con la disciplina generale concorre anche quella specifica della revocatoria
fallimentare (artt. 64, 65 e 67 l.fall). Tale disciplina si fonda su presupposti parzialmente diversi e consente
una più ampia ed agevole ricostruzione del patrimonio da sottoporre all’esecuzione concorsuale.

Il principio ispiratore della revocatoria fallimentare è che tutti gli atti posti in essere dall’imprenditore in
stato di insolvenza si presumono pregiudizievoli per i creditori, perché almeno idonei ad alterare la par
condicio creditorum. Il curatore che agisce in revocatoria è quindi dispensato dall’onere di provare l’eventus
damni ed il consilium fraudis.
Presupposti della revocatoria fallimentare sono:

a. Stato di insolvenza dell’imprenditore (presupposto oggettivo);


b. Conoscenza dello stato di insolvenza da parte del terzo (presupposto soggettivo). Sarà quest’ultimo a
dover provare che l’atto non ha arrecato alcun danno alla massa dei creditori per sottrarsi alla
revocatoria fallimentare.

La posizione del curatore, nella revocatoria fallimentare, è agevolata sotto un duplice profilo:

- Gli atti posti in essere dall’imprenditore in un certo periodo anteriore alla dichiarazione di fallimento
(sei mesi o un anno a seconda dei casi) si presumono compiuti in stato di insolvenza (retrodatazione
dell’insolvenza), in modo che sarà il terzo a dover provare che in concreto non era già insolvente.
- Per alcuni atti, particolarmente sintomatici dello stato di insolvenza, è posta anche una presunzione
relativa di conoscenza dello stato di insolvenza da parte del terzo.

Se diversi sono i presupposti della revocatoria ordinaria e della fallimentare, identici sono gli effetti. L’atto di
disposizione revocato resta valido, ma è inefficace nei confronti della massa dei creditori. Il terzo che ha subito la
revocatoria dovrà restituire al fallimento quanto in precedenza ricevuto dal fallito, oppure l’equivalente in
denaro se la restituzione in natura è impossibile. Sarà ammesso al passivo per il suo eventuale credito verso il
fallito, partecipando alla ripartizione dell’attivo in concorso con gli altri creditori.

Identico è anche il termine entro cui le due azioni revocatorie devono esercitarsi. L’attuale disciplina
prevede che tutte le azioni revocatorie esercitate dal curatore debbano essere promosse, a pena di decadenza,
entro tre anni dalla dichiarazione di fallimento, e comunque non oltre 5 anni dal compimento dell’atto (art. 69-
bis).

Revocatoria fallimentare

Vi è una categoria di atti che è senz’altro priva di effetti nei confronti dei creditori, per il solo fatto della
sopravvenuta dichiarazione di fallimento:

a. Atti a titolo gratuito compiuti nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento (es. donazioni).
Esclusi i regali d’uso e gli atti compiuti in adempimento ad un dovere morale o a scopo di pubblica
utilità, purché proporzionati al patrimonio del donante.
b. I pagamenti di debiti che scadono nel giorno della dichiarazione di fallimento o successivamente, se
compiuti nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento.

Per questi atti il curatore non deve agire in giudizio per accertare la loro inefficacia. Il terzo è tenuto a restituire
al fallimento quanto ricevuto, e non rileva al sua ignoranza dello stato di insolvenza.

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Tutti gli altri atti sono revocabili in seguito ad azione giudiziaria promossa dal curatore. La disciplina di tale
azione è stata modificata dalla riforma del 2005, ma sono rimaste comunque immutate le linee generali; in base
ad esse, gli atti soggetti a revocatoria sono distinti in due categorie:

a)Atti per i quali è la conoscenza dello stato di insolvenza si presume, quindi spetterà al terzo di provare la sua
ignoranza.

Questa categoria comprende gli atti anormali di gestione, compiuti nell’anno o nei sei mesi anteriori alla
dichiarazione di fallimento:

 Atti a titolo oneroso, compiuti nell’anno anteriore, caratterizzati da una notevole sproporzione fra la
prestazione a carico del fallito e quella a carico della controparte. L’attuale disciplina precisa che la
sproporzione è rilevante quando le prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano
di oltre ¼ cioè che a lui è stato dato o promesso.
 Pagamenti di debiti pecuniari, scaduti ed esigibili, effettuati con mezzi anomali di pagamento,
sempre se compiuti nell’anno anteriore al fallimento. Tipico esempio è la datio in solutum.
 I pegni, le anticresi e le ipoteche volontarie create per debiti preesistenti no scaduti, sempre
nell’anno anteriore.
 Le garanzie indicate al punto precedente più le ipoteche giudiziarie per debiti preesistenti ma
scaduti, poste in essere nei sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento.

Per tutti questi atti, spetterà al terzo convenuto in revocatoria dare la prova che ignorava lo stato di insolvenza.

b)Atti per i quali è il curatore a dover provare che il terzo conosceva lo stato di insolvenza, trattandosi di atti che
rientrano nel normale svolgimento dell’attività imprenditoriale. In tale categoria rientrano, purché compiuti nei
sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento:

 I pagamenti di debiti liquidi ed esigibili effettuati con mezzi informali.


 Gli atti costitutivi di diritti di prelazione per debiti sorti contestualmente.
 Ogni altro atto a titolo oneroso.

Nel corso del tempo, specie con la riforma del 2005, si sono accumulate previsioni che escludono la revocatoria
di alcuni atti, o ne limitano gli effetti. Non sono infatti revocabili:

a. I pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività di impresa nei termini d’uso. Si vuole
evitare che all’imprenditore in odore di crisi vengano subito interrotte le forniture.
b. I pagamenti dei corrispettivi per prestazioni di lavoro a dipendenti e collaboratori anche non
subordinati del fallito.
c. Le vendite a giusto prezzo di immobili ad uso abitativo, destinati a costituire l’abitazione principale
dell’acquirente o di suoi parenti e affini entro il terzo grado. Lo stesso vale per i preliminari di tali
contratti, purché debitamente trascritti.
d. Le vendite a giusto prezzo e di preliminari di vendita di immobili destinati a costituire la sede principale
dell’attività d’impresa dell’acquirente. Per ottenere l’esonero da revocatoria è necessario che, alla data di
dichiarazione di fallimento dell’alienante, l’acquirente abbia almeno già compiuto investimenti per
avviare l’attività di impresa.

Quando la revoca ha ad oggetto che estinguono posizioni passive derivanti da rapporti continuativi o reiterati
(es. conto corrente bancario ed ordinario), il creditore deve restituire al fallimento solo l’importo di cui si è
complessivamente ridotta l’esposizione debitoria del fallito nel periodo rilevante per la revocatoria (regola del
massimo scoperto). Deve cioè restituire una somma pari alla differenza fra l’ammontare massimo raggiunto
delle sue pretese e l’ammontare residuo delle stesse alla data in cui si è aperto il concorso.
Altre esenzioni mirano a favorire tentativi di soluzione della crisi mediante strumenti alternativi al fallimento,
accordando un trattamento vantaggioso ai creditori nell’evenienza che la crisi non sia superata, e sopraggiunga
quindi il fallimento.

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In particolare, non sono revocabili i pagamenti e le garanzie concesse su beni del fallito, posti in essere in
esecuzione di un piano di risanamento finanziario dell’impresa.

9. (Segue): Rapporti fra coniugi.

La legge fallimentare, all’art. 69, detta una disciplina particolarmente rigorosa per gli atti di disposizione
intercorsi fra il fallito ed il coniuge. La disciplina della revocatoria fallimentare è più drastica quando i relativi atti
di disposizione sono posti in essere fra i coniugi, e ciò sotto un duplice aspetto:

a. È eliminato il limite temporale (1 anno o 6 mesi) e possono essere revocati tutti gli atti di disposizione
fra coniugi a partire dal momento in cui il fallito aveva iniziato l’esercizio di una impresa commerciale.
b. La conoscenza dello stato di insolvenza da parte del coniuge è sempre presunta. Opera quindi sia per
gli atti anormali che per quelli normali. Graverà sul coniuge del fallito quindi in ogni caso l’onere di
provare che ignorava lo stato di insolvenza dello stesso.

Questa disciplina è applicabile, oltre che agli atti a titolo oneroso, anche a quelli a titolo gratuito fra coniugi.
Questi ultimi non sono soggetti alla revocatoria di diritto, per essere stati compiuti più di due anni prima della
dichiarazione di fallimento.

Con la riforma del 2005 è stata soppressa la cd. Presunzione muciana (ex art. 70); si trattava cioè della regola
per la quale i beni acquistati a titolo oneroso dal coniuge del fallito nei 5 anni anteriori alla dichiarazione di
fallimento si presumevano acquistati con danaro del fallito. Il curatore poteva apprenderli per sottoporli
all’esecuzione fallimentare.
In seguito all’abrogazione, intervenuto il fallimento di uno dei due coniugi si applicherà la disciplina del codice:

- Si scioglie la comunione legale fra i coniugi.


- Le attività e le passività della comunione si dividono in parti uguali; nella massa attiva del fallito
resteranno la metà dei beni della comunione ed i beni personali, mentre nella massa passiva sarà
ricompresa anche la metà dei debiti gravanti sui beni della comunione.

10. Effetti del fallimento sui contratti in corso di esecuzione.

Risulta necessario conciliare gli interessi del contraente in bonis con quelli della massa dei creditori, ed inoltre
bisogna tener conto delle peculiarità dei singoli contratti e dell’incidenza sugli stessi del mutamento oggettivo
determinato dal fallimento di una delle parti.
Le soluzioni prescelte dalla legge in questa situazioni sono raggruppabili in 3 categorie:

Gruppo di contratti che si scioglie di diritto dopo la dichiarazione di fallimento, con conseguente definizione
delle posizioni reciproche a tale momento. Vi rientrano:

a. Contratti di borsa a termine su merci o titoli, contratti aventi ad oggetto strumenti finanziari derivati ed
il riporto. Il carattere speculativo di questi contratti potrebbe comportare situazioni pregiudizievoli.
b. Associazione in partecipazione, in caso di fallimento dell’associante.
c. Contratti di conto corrente ordinario e bancario, commissione e mandato nel caso di fallimento del
mandatario. La finalità liquidativa del fallimento è incompatibile con la reciprocità delle rimesse propria
del conto corrente, ed anche con lo svolgimento dell’attività gestoria da parte del fallito/mandatario per
conto di terzi.
d. Appalto (art. 81), caso particolare; entro 60 giorni dal fallimento il curatore, previa autorizzazione del
comitato dei creditori, può dichiarare di volere subentrare nel contratto offrendo idonee garanzie. Il
committente in bonis può opporsi alla prosecuzione quando la considerazione della qualità soggettiva
dell’appaltatore è stato un motivo determinante del contratto.

Gruppo di contratti che continua nonostante il fallimento di una delle parti, dato che per legge tali
contratti sono ritenuti vantaggiosi per la massa dei creditori. Il curatore subentra ex lege nel contratto e dovrà
adempiere le relative obbligazioni. Vi rientrano:

a. Il contratto di locazione di immobili. In caso di fallimento del conduttore il curatore può comunque
recedere in ogni momento, corrispondendo al locatore un giusto indennizzo per l’anticipato recesso. Nel

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dissenso delle parti, l’indennizzo è determinato dal giudice delegato.
IL curatore può recedere anticipatamente anche in caso di fallimento del locatore, ma a tutela del
conduttore in bonis si prevede che il recesso deve essere dichiarato entro 1 anno dal fallimento ed
ha effetto solo dopo 4 anni dalla apertura della procedura, salvo che la scadenza naturale del
contratto sia più breve. Resta fermo il diritto del contraente in bonis ad un equo indennizzo.
b. Affitto in azienda. entrambe le parti possono recedere entro 60 giorni previo equo indennizzo.
c. Contratto di assicurazione contro i danni in caso di fallimento dell’assicurato. L’assicuratore può
recedere adducendo che dal fallimento deriva un aggravamento del rischio.
d. Contratto di edizione, che si risolve se entro 1 anno il curatore non continua l’esercizio dell’impresa
editoriale o non la cede ad altro editore.
e. Contratto di factoring, in caso di fallimento del cedente. Il curatore può recedere dal contratto, ma il
recesso opera solamente per i crediti non ancora sorti alla data della dichiarazione di fallimento. In
caso di recesso, il curatore dovrà restituire al cessionario quanto da questi già pagato per tali crediti.
f. Il leasing finanziario, in caso di fallimento del concedente.

Gruppo di contratti la cui sorte non è prefissata dalla legge. Restano sospesi in seguito al fallimento di una
delle parti, e sarà il curatore, con autorizzazione del comitato, a decidere se sciogliere o continuare il
contratto. Nel secondo caso, le relative obbligazioni saranno adempiute dal curatore.

Il contraente in bonis può chiedere al giudice delegato di fissare un termine, non superiore a 60 giorni, decorso il
quale il contratto si intende sciolto se il curatore non opta per la continuazione. Non è consentito pattuire fin
dall’inizio che, in caso di fallimento, il contratto si risolve di diritto, violando così il diritto di scelta del curatore.

In caso di scioglimento, il contraente ha diritto di far valere nel passivo il credito conseguente al mancato
adempimento, diventando semplice creditore concorsuale. Non gli è dovuto alcun risarcimento del danno.
La riforma del 2006 ha stabilito che questa più elastica soluzione sia regola residuale e si applichi a tutti i
contratti, anche preliminari, pendenti, per i quali la legge non preveda diversamente.

Rientrano in questa terza categoria:

a. La vendita a termine o a rate con riserva di proprietà (art. 73). Il fallimento del venditore non comporta
lo scioglimento del contratto. Al curatore non è consentita alcuna scelta, il contratto prosegue ed il
compratore in bonis diventa proprietario col pagamento dell’ultima rata.
b. I contratti ad esecuzione continuata o periodica.
c. Il preliminare di vendita di immobili (compromesso); per essere opponibile al fallimento, deve essere
stato trascritto e la trascrizione deve essere efficace alla data di apertura della procedura.
d. Leasing finanziario in caso di fallimento dell’utilizzatore.
e. Mandato in caso di fallimento del mandante; se il curatore subentra nel contratto, i crediti del
mandatario sono da soddisfare in prededuzione, ma solo per l’attività compiuta dopo il fallimento.
f. La regola della sospensione è da ritenere applicabile anche al mandato in rem propriam, cioè quello
conferito anche nell’interesse del mandatario o di terzi.
g. Associazione in partecipazione in caso di fallimento dell’associato, contratto di agenzia in caso di
fallimento del preponente.

11. L’esercizio provvisorio dell’impresa.

Con la dichiarazione di fallimento, l’attività di impresa si arresta ed i beni aziendali sono destinati ad essere
liquidati per soddisfare i creditori. Può aversi però una continuazione, sia pure provvisoria, dell’attività
quando ciò porta ad una migliore liquidazione del complesso aziendale, oppure si spera di venderlo in blocco.

Due sono le ipotesi previste dall’art. 104 l.fall.:

a. Il tribunale, nella sentenza che dichiara fallimento, può disporre l’esercizio provvisorio dell’impresa,
anche se limitatamente a specifici rami dell’azienda, “se dalla interruzione può derivare un danno
grave, purché non arrechi pregiudizio ai creditori”.

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b. Seconda ipotesi interviene dopo che è stato nominato il comitato dei creditori. Questo deve pronunciarsi
sull’opportunità di continuare o di riprendere, in tutto o in parte, l’esercizio dell’impresa, fissandone
anche la durata. Solo se il parere è favorevole il giudice delegato, su proposta del curatore, può disporre
la continuazione o la ripresa dell’attività .

La continuazione è provvedimento che richiede particolare cautela, date le conseguenze che la stessa produce
per i creditori concorsuali e per l’imprenditore fallito. Durante l’esercizio provvisorio tutti i contratti pendenti
proseguono salvo che il curatore non intenda sospenderne l’esecuzione o scioglierli. Le obbligazioni
assunte dal curatore per la continuazione dell’esercizio dell’impresa costituiscono debiti della massa da
soddisfare in prededuzione. La continuazione dell’attività quindi può comportare l’assorbimento di larga parte
dell’attivo da parte dei nuovi creditori, con grave pregiudizio per quelli concorsuali.

La conservazione del complesso aziendale in vista di una vendita in blocco è realizzabile anche tramite
l’affitto dell’azienda (art. 104-bis). L’attività è in tale caso imputabile all’affittuario, che la gestisce ed assume
le relative obbligazioni, mentre dovrà corrispondere al fallimento il canone pattuito.
La riforme del 2006 ha introdotto una disciplina speciale dell’affitto d’azienda, o di specifici rami di essa, nel
fallimento; è autorizzato dal giudice delegato, su proposta del curatore e previo parere favorevole del comitato
dei creditori “quando appaia utile al fine della più proficua vendita dell’azienda o di parti di essa”.
L’affittuario è prescelto dal curatore, tenuto conto del canone e delle garanzie offerte sulla prosecuzione delle
attività imprenditoriali e sulla conservazione dei livelli occupazionali.

Per non ostacolare la liquidazione, il contratto deve prevedere il diritto del curatore di recedere, corrispondendo
all’affittuario un giusto indennizzo, da soddisfare in prededuzione.
Alla fine dell’affitto, il complesso aziendale viene retrocesso al fallimento. Questo non assume alcuna
responsabilità per i debiti sorti durante l’affitto, nemmeno per quelli di lavoro. L’affittuario dunque rimane unico
debitore per le obbligazioni che assume e i creditori concorsuali sono posti al riparo dalle conseguenze di una
cattiva gestione da parte di quest’ultimo.

12. L’accertamento del passivo.

Fase centrale e più delicata della procedura fallimentare, diretta ad accertare quali creditori hanno diritto di
partecipare alle ripartizioni dell’attivo, l’ammontare dei loro crediti e le eventuali cause di prelazione. Con
l’ammissione al passivo i creditori diventano da concorsuali a concorrenti.

La procedura di accertamento si apre con la domanda di ammissione dei creditori, sollecitati a tal fine con
apposito avviso. Anche i titolari di crediti prededucibili devono presentare la domanda, salvo che la loro pretesa
non sia contestata né per ammontare né per collocazione.
La domanda si presenta con ricorso, da trasmettere all’indirizzo PEC del curatore almeno 30 giorni prima
della data dell’udienza per l’esame dello stato passivo, fissata dalla sentenza di fallimento. La domanda deve
specificare le eventuali ragioni di prelazione e deve essere accompagnata dai documenti giustificativi del credito
vantato.
I creditori devono indicare l’indirizzo di posta elettronica presso il quale ricevere tutte le comunicazioni utili; in
mancanza, queste si effettuano tramite deposito in cancelleria.

Analoga domanda deve essere presentata per la restituzione o rivendicazione dei beni di proprietà di terzi
che sono stati appresi alla massa fallimentare in quanto si trovavano presso il fallito al momento dello
spossessamento.

Sulla base delle domande presentate, il curatore predispone un progetto di stato passivo (art. 95) nel quale
deve indicare:

a. I crediti ammessi, distinti in chirografari e privilegiati.


b. I crediti non ammessi, in tutto o in parte, per i quali non si intende riconoscere la natura privilegiata.
c. I crediti ammessi con riserva, come quelli sottoposti a condizione.

In un separato elenco sono inclusi i titolari di diritti su beni di proprietà o in possesso del fallito. Per ciascun
diritto riconosciuto o non riconosciuto, il curatore deve motivare le proprie conclusioni.
Il progetto di stato passivo è depositato in cancelleria, almeno 15 giorni prima dell’udienza d’esame, ed è
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trasmesso nello steso termine a creditori e titolari di diritti sui beni della massa; questi ed il fallito possono
presentare al curatore eventuali osservazioni scritte e documenti integrativi fino a 5 giorni prima dell’udienza.

Si apre così la fase di esame dello stato passivo (art. 96), che coinvolge curatore e tutti i creditori interessati.
Nell’udienza di esame, che può durare più sedute, il giudice delegato esamina le posizioni dei singoli creditori
quali risultano dal progetto di stato passivo del curatore.
Ogni decisione spetta al giudice delegato, il quale può anche procedere agli atti di istruzione richiesti dalle
parti, compatibilmente con la speditezza del procedimento.
Esaurite le operazioni di esame, il giudice delegato forma lo stato passivo definitivo, dichiarandolo esecutivo
con proprio decreto e depositandolo in cancelleria.
In mancanza di opposizioni o di impugnazioni dinanzi al tribunale, il decreto di esecutività preclude ogni
ulteriore questione in merito ai crediti verificati, sia pure solo nell’ambito della procedura fallimentare.

Resta sempre la possibilità di proporre istanza di revocazione, se si scopre che l’accoglimento o il rigetto di
una domanda è stato determinato da falsità, dolo, errore essenziale di fatto o da mancata conoscenza di
documenti decisivi, che non sono stati prodotti tempestivamente per causa non imputabile.

Il decreto di esecutività dello stato passivo non preclude la possibilità di presentare nuove domande di
ammissione (domande tardive), esaminate con lo stesso procedimento previsto per le domande tempestive.
Sono considerate tardive le domande trasmesse al curatore oltre il termine di 30 giorni prima dell’udienza
di verificazione dei crediti. In base all’attuale disciplina, tali domande sono presentabili senza preclusioni
entro 12 mesi dal deposito del decreto che rende esecutivo lo stato passivo, prorogabili fino a 18 mesi per
procedure particolarmente complesse.
Il creditore tardivo sarà ammesso solo se prova che il ritardo è dipeso da causa a lui non imputabile, e sempre
che l’attivo fallimentare non sia già stato ripartito.

Il trattamento dei crediti ammessi tardivamente non è uniforme; se il ritardo è imputabile al creditore,
questi ha diritto di partecipare solo alle ripartizioni dell’attivo successive all’ammissione, salvi i diritti di
prelazione. In caso contrario, il creditore è ammesso a prelevare sull’attivo ancora non ripartito anche la parte
che gli sarebbe spettata nelle ripartizioni precedenti.

Contro lo stato passivo, reso esecutivo dal giudice delegato, possono essere proposte:

a. Opposizioni: dai creditori esclusi contro il curatore, per ottenere l’ammissione del loro credito o il
riconoscimento di una causa di prelazione disconosciuta dal giudice delegato.
Possono essere proposte dai creditori che contestano la loro ammissione con riserva, per ottenere quella
definitiva, nonché dai titolari di diritti su beni della massa per ottenere l’accoglimento delle domande di
restituzione e rivendica.
b. Impugnazioni: proponibili dai creditori ammessi, dai titolari di diritti su beni della massa e dallo stesso
curatore. Sono dirette ad ottenere l’eliminazione della massa passiva di uno o più creditori o della
relativa causa di prelazione.

Identica è la procedura: devono essere proposte con ricorso al tribunale fallimentare entro 30 giorni dalla
comunicazione del deposito dello stato passivo, o dalla scoperta del fatto o del documento su cui si fonda la
domanda di revocazione. Il tribunale decide in camera di consiglio, sentite le parti, con decreto contro cui le parti
possono ricorrere entro 30 giorni in Cassazione.

13. (Segue): Liquidazione e ripartizione dell’attivo.

Rivolta a convertire in danaro i beni del fallito per soddisfare i creditori. Ad essa provvede il curatore che,
entro 60 gironi dalla redazione dell’inventario, predispone un programma di liquidazione, ove si pianificano le
modalità ed i termini previsti per la realizzazione dell’attivo. Il programma è sottoposto dal curatore
all’approvazione del comitato dei creditori, e deve indicare:

- Le azioni che il curatore intende proporre.


- Le modalità di vendita dei singoli cespiti.
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- L’opportunità di disporre l’esercizio provvisorio dell’impresa o di autorizzare l’affitto dell’azienda.
- Le possibilità di cessione della azienda o di rami di essa.
- Se sussistono proposte di concordato fallimentare, ne riporta il contenuto.

Il programma di liquidazione approvato è comunicato al giudice delegato che autorizza l’esecuzione degli
atti ad esso conformi. Il curatore può a questo punto procedere alla liquidazione dei beni, mentre prima
dell’approvazione può compiere atti di liquidazione solo quando dal ritardo può derivare un pregiudizio
all’interesse dei creditori, e previa autorizzazione del giudice delegato. C

La vendita dei beni mobili e immobili avviene secondo le modalità indicate nel programma. Si richiede che
siano prescelte procedure competitive e che ne sia data massima informazione, per consentire la
partecipazione di tutti gli interessati. A tal fine il curatore deve operare sulla base di stime effettuate da operatori
esperti. Resta ferma comunque la possibilità di avvalersi del procedimento di vendita disciplinato dal codice di
procedura civile.

Ulteriore obiettivo dell’attuale disciplina è evitare la disgregazione del complesso aziendale. La vendita dei
singoli beni è disposta solo quando risulta prevedibile che la vendita dell’intera azienda o di suoi rami non
consenta un maggiore soddisfacimento dei creditori (art. 105). Per favorire ulteriormente la vendita dell’azienda
si prevede che:

a. In deroga all’art. 2560, l’acquirente non risponde delle obbligazioni pregresse. Tale regola è però
derogabile, e in tal caso è necessario rispettare la graduazione dei crediti.
b. In deroga all’art. 2112, si può convenire con le rappresentanze sindacali che solo una parte dei lavoratori
si trasferisca alle dipendenze dell’acquirente.
c. I crediti ceduti insieme con l’azienda conservano tutti i privilegi e le garanzie con il relativo grado.

Le somme che si rendono via via disponibili sono ripartite fra i creditori, acquistando qui rilievo la distinzione
fra: crediti prededucibili, privilegiati e chirografari.

I crediti prededucibili sono i primi ad essere pagati. Le somme necessarie per soddisfarli sono prelevate dalle
disponibilità liquide, con esclusione di quanto ricavato dalla liquidazione dei beni oggetto di pegno ed ipoteca
per la parte destinata ai creditori garantiti.
I crediti prededucibili liquidi e non contestati vengono soddisfatti man mano che diventano esigibili, con
l’autorizzazione del comitato dei creditori o del giudice delegato. Se l’attivo non è sufficiente a soddisfarli
tutti, gli stessi sono soddisfatti nell’ambito del procedimento di riparto.
Il ricavato della vendita dei beni oggetto di pegno ed ipoteca è devoluto per il pagamento dei creditori a cui
spetta la relativa garanzia. Quanto residua dopo il pagamento dei crediti prededucibili o assistiti da garanzia
reale è destinato al pagamento degli altri creditori privilegiati.
Quanto residua ulteriormente è infine destinato al pagamento proporzionale dei creditori chirografari e dei
creditori privilegiati per la parte del loro credito eventualmente rimasta insoddisfatta.

Le somme che spettano ai creditori sono assegnate loro con periodiche ripartizioni parziali, cui segue una
ripartizione finale. Le parziali non possono superare l’80% delle somme disponibili, ex art. 113, ed il 20& deve
essere accantonato per eventuali imprevisti, pagare le spese della procedura, crediti incerti e ogni altro credito
prededucibile.

14. La cessazione del fallimento.

Il fallimento si chiude, oltre che per concordato fallimentare, per una delle cause elencate dall’art. 118:

a. Mancata presentazione di domande di ammissione allo stato passivo nel termine stabilito dalla sentenza
dichiarativa di fallimento. Ciò si verifica quando fra fallito e tutti i suoi creditori è raggiunto un accordo
per il pagamento di quanto dovuto (concordato stragiudiziale).
b. Pagamento integrale dei creditori ammessi al passivo e di tutti i debiti e le spese da soddisfare in
prededuzione, prima che sia compiuta la ripartizione integrale dell’attivo. Ipotesi rara.
c. Ripartizione integrale dell’attivo. Ipotesi più frequente, che lascia i creditori concorrenti parzialmente
insoddisfatti.

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d. Impossibilità di continuare utilmente la procedura per insufficienza dell’attivo. Quando le attività
rinvenute nel patrimonio del fallito sono talmente scarse da far prevedere che il tutto non consentirà di
soddisfare, neanche in parte, i creditori concorsuali, né i crediti prededucibili e le spese di procedura.

La chiusura del fallimento è dichiarata con decreto motivato del tribunale, su istanza del curatore, del
fallito o di ufficio. Il decreto è pubblicato nelle forme previste per la sentenza dichiarativa di fallimento, ed è
impugnabile con reclamo dinnanzi alla corte di appello, e successivamente in Cassazione. Gli stessi rimedi
sono esperibili contro il decreto che respinge la richiesta di chiusura del fallimento.

Il decreto di chiusura ha effetto quando non è più impugnabile per scadenza dei termini, o quando il reclamo è
stato definitivamente rigettato.

Con la chiusura della procedura cadono gli organi preposti e cessano gli effetti del fallimento, per il fallito e per i
creditori.
Le azioni esperite dal curatore per l’esercizio di diritti derivanti dal fallimento non sono proseguibili, salvo che
siano state cedute a terzi durante la liquidazione o per effetto del concordato fallimentare.
Di regola, il debitore rimane obbligato verso i creditori concorsuali non interamente soddisfatti
attraverso il fallimento. Questi riacquistano la possibilità di proporre azioni esecutive individuali contro l’ex
fallito. La liberazione del fallito dai debiti residui può aversi solo in due casi: fallimento chiuso per concordato,
debitore ottiene esdebitazione dal tribunale fallimentare.

L’esdebitazione è un beneficio concesso al fallito persona fisica in presenza di particolari condizioni


soggettive ed oggettive.
Ex art. 142 (requisiti di meritevolezza) è ammesso al beneficio solo l’imprenditore che:

a. Ha cooperato con gli organi della procedura, fornendo info e documentazione utile. È escluso invece il
debitore che ha tenuto comportamenti ostruzionistici o che ha ritardato lo svolgimento della procedura.
b. Nei dieci anni precedenti non ha beneficiato di altra esdebitazione.
c. Non ha distratto l’attivo, cagionato o aggravato il dissesto rendendo difficoltosa la ricostruzione del
patrimonio o del movimento degli affari. Si tratta di condotte sanzionate anche penalmente.
d. Non è stato condannato per bancarotta fraudolenta o per delitti contro l’economia pubblica industria ed
il commercio, ed altri delitti compiuti in connessione con l’esercizio dell’attività di impresa.

In presenza di queste condizioni il tribunale, con lo stesso decreto di chiusura di fallimento, dichiara inesigibili
nei confronti del debitore i debiti concorsuali non soddisfatti integralmente. Se non disposta con il decreto
di chiusura, il debitore può presentare istanza di esdebitazione con ricorso al tribunale entro l’anno successivo.

Contro il decreto che concede o nega l’esdebitazione qualunque interessato può presentare reclamo alla corte
d’appello.

L’esdebitazione opera di regola per tutti i debiti anteriori all’apertura del fallimento, anche quelli per i quali non
è stata presentata domanda di insinuazione al passivo. Rispetto ai creditori che non hanno partecipato al
fallimento, l’effetto liberatorio si produce solo per l’eccedenza rispetto alla % attribuita dal fallimento ai
creditori concorrenti di pari grado.
L’esdebitazione invece NON OPERA per particolari categorie di debiti:

- Obbligazioni derivanti da rapporti estranei all’esercizio dell’impresa (es. alimenti).


- Responsabilità extracontrattuale.
- Sanzioni penali ed amministrative che non siano accessorie a debiti estinti.

Il fallimento chiuso per ripartizione integrale o per insufficienza dell’attivo può essere, ex art. 121,
successivamente riaperto. È necessario però che ricorrano le seguenti condizioni:

a. Non devono essere trascorsi 5 anni dal decreto di chiusura.


b. Nel patrimonio del fallito si rinvengono nuove attività che rendono utile la riapertura, o in alternativa, il
fallito offre garanzie di pagare almeno il 10% ai creditori vecchi e nuovi.

La riapertura può essere richiesta dal debitore o da qualsiasi creditore, anche nuovo, ed è in ogni caso rimessa
alla valutazione discrezionale del tribunale, che potrebbe ritenerla non conveniente. Al fallimento riaperto
concorrono anche i nuovi creditori.
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15. (Segue): Il concordato fallimentare.

Istituto che consente al fallito di chiudere definitivamente i rapporti pregressi tramite il pagamento parziale dei
creditori o altra forma di ristrutturazione dei debiti, ottenendo al contempo la liberazione dei beni soggetti alla
procedura.
Questo istituto avvantaggia sia il fallito, che si libera dei propri obblighi per la parte che eccede la percentuale
concordataria, sia i creditori, che possono ottenere più rapidamente quanto gli spetta.

La conclusione del concordato è una fattispecie complessa a formazione progressiva, che vede 3 fasi
essenziali:

1)Proposta di concordato: può essere presentata da:

 O da uno o più creditori o da un terzo: possono proporre il concordato in qualsiasi momento, purché sia
stata tenuta la contabilità in modo tale da consentire al curatore di predisporre un provvisorio elenco
dei creditori da sottoporre all’approvazione del giudice delegato.
 O dal fallito: non può proporre il concordato prima che sia trascorso un anno dalla dichiarazione di
fallimento e dopo che siano trascorsi due anni dal decreto che rende esecutivo lo stato passivo.

Il contenuto della proposta di concordato può essere variamente articolato; l’ipotesi più frequente è l’offerta di
un pagamento in percentuale e dilazionato (concordato misto).
Si può prevedere che i creditori siano soddisfatti con forme diverse dall’adempimento (cessione di beni,
attribuzione di partecipazioni sociali).
Si può proporre la suddivisione dei creditori in classi, secondo posizione giuridica ed interessi economici
omogenei, offrendo trattamenti differenziati fra i creditori appartenenti a classi diverse. In base all’attuale
disciplina, è possibile prevedere che anche i creditori privilegiati siano soddisfatti parzialmente, purché in
misura non inferiore a quanto gli stessi potrebbero conseguire sul ricavato in caso di liquidazione.

La proposta presentata da creditori o da un terzo può ulteriormente prevedere che persone diverse dal fallito
assumano la veste di obbligato principale per l’adempimento del concordato. In questo caso si ha la figura
dell’assuntore del concordato, il quale può obbligarsi in solido col fallito (accollo cumulativo) oppure può restare
il solo obbligato, se si prevede liberazione immediata del fallito (accollo liberatorio).
L’attuale disciplina puntualizza che l’assuntore può limitare il proprio impegno ai soli creditori ammessi al
passivo o il cui credito è in corso di accertamento al tempo della proposta.
Come corrispettivo dell’accollo, all’assuntore viene generalmente ceduto tutto l’attivo fallimentare, gravando su
di lui però il rischio della realizzazione dello stesso. All’assuntore possono essere cedute anche le azioni di
pertinenza del fallimento la cui proposizione è stata già autorizzata dal giudice delegato (es. az. Revocatoria).

2)Approvazione della maggioranza dei creditori: la proposta di concordato è soggetta al preventivo esame del
giudice delegato, che deve richiedere il parere vincolante del comitato dei creditori e quello non vincolante
del curatore, il quale riferisce sui presumibili risultati della liquidazione.
La proposta, che prevede la suddivisione in classi dei creditori, richiede un controllo più penetrante da parte
del tribunale, che verifica il corretto utilizzo dei criteri di formazione e trattamento delle classi.

Espletati tali adempimenti preliminari, il giudice delegato ordina la comunicazione della proposta e dei
relativi pareri ai creditori e fissa il termine, non inferiore a 20 ma non superiore a 30 giorni, entro il quale gli
stessi creditori devono far pervenire presso la cancelleria del tribunale la loro dichiarazione di dissenso.
Se sono state presentate più proposte viene sottoposta alla approvazione dei creditori solo quella prescelta dal
comitato dei creditori, salvo che il giudice delegato, su richiesta del curatore, disponga che ne vengano
comunicate anche altre. In tal caso, si considera approvata la proposta che ha conseguito il maggior numero di
consensi, e in caso di parità , quella presentata per prima.

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Hanno diritto di voto:

- I creditori chirografari ammessi al passivo anche con riserva;


- I creditori chirografari risultanti dall’elenco provvisorio approvato dal giudice delegato, se la votazione
ha luogo prima che sia stato reso esecutivo lo stato passivo.

Non possono votare i creditori privilegiati, se ad essi si offre l’integrale pagamento, a meno che non rinuncino
al privilegio. I privilegiati di cui la proposta di concordato prevede la soddisfazione non integrale, invece, sono
equiparati ai chirografari per la parte residua del debito.

Per l’approvazione della proposta di concordato è richiesto il consenso, anche tacito, dei creditori che
rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi al voto.
Se sono previste diverse classi di creditori, è necessario che il concordato sia approvato dalla maggioranza delle
classi, con il consenso di tanti creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti inclusi in ciascuna classe.

3)Omologazione del concordato: se il concordato è approvato, su istanza del proponente si apre la fase del
giudizio di omologazione, del quale è investito il tribunale fallimentare, che procede ad un controllo di
legalità e non di merito. Valuta cioè la regolarità della procedura e l’esito della votazione; se però sulla
convenienza del concordato è stata sollevata contestazione da parte di un creditore appartenente ad una delle
classi dissenzienti, il tribunale può omologare la proposta, ove ritenga che il credito dell’opponente possa
risultare soddisfatto dal concordato in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili.

Il concordato omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori al fallimento, compresi quelli che non
hanno presentato domanda di ammissione al passivo. A questi ultimi però non si estendono le garanzie date
nel concordato da terzi.
Nonostante il concordato, restano in vita le azioni dei creditori per l’intero contro i coobbligati, i fideiussori del
fallito e gli obbligati in via di regresso. È preclusa invece ogni azione dei creditori verso il fallito (o l’assuntore)
per la parte non soddisfatta del loro credito.

Il concordato è eseguito dal fallito sotto la sorveglianza del giudice delegato, del curatore e del comitato dei
creditori, che sopravvivono a tal fine pur dopo la chiusura del fallimento conseguente al decreto di
omologazione. Gli effetti del concordato possono cessare per

- Risoluzione: si fonda sull’inadempimento del concordato. Essa è pronunciata dal tribunale con
sentenza, su richiesta di ciascun creditore, quando:
a) non vengono costituite le garanzie promesse;
b) il proponente non adempie regolarmente agli obblighi derivanti dal concordato.
- Annullamento: disposta dal tribunale, su istanza del curatore o di qualsiasi creditore, quando si scopre
che il passivo era stato dolosamente esagerato o che una parte rilevante dell’attivo era stata sottratta o
dissimulata.

Annullato o risolto il concordato, si riapre automaticamente, ex art. 140, il fallimento. Tuttavia i creditori
anteriori non devono restituire quanto già riscosso in base al concordato e conservano le garanzie per le somme
ad essi tuttora dovute in base al concordato.

16. Il fallimento delle società.

Al fallimento delle società è in via di principio applicabile la disciplina generale, sia pure con degli adattamenti.
La disciplina specifica dettata dalla l.fall. è assai scarna (art. 145-146).
La legge fallimentare non specifica a chi compete l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento su richiesta del
debitore. È preferibile l’opinione che ritiene legittimati gli amministratori di persone che in quelle di capitali.
In queste ultime gli amministratori sono legittimati a proporre appello contro la dichiarazione di fallimento.

Vediamo ora il discorso relativo agli effetti.


Ogni qualvolta la legge richiede che sia sentito il fallito, dovranno essere sentiti gli amministratori o i
liquidatori della società fallita. Sugli stessi grava l’obbligo di comunicare ogni cambiamento della propria

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residenza o domicilio e di presentarsi agli organi fallimentari quando richiesti. Nei confronti di amministratori,
sindaci, direttori generali e liquidatori sono applicabili le sanzioni penali per i reati di bancarotta semplice e
fraudolenta.

È inoltre espressamente stabilito che, salva diversa disposizione di atto o statuto, la proposta e le condizioni del
concordato fallimentare devono essere approvate:

- Nelle società di persone dai soci rappresentanti la maggioranza del capitale.


- Nelle società di capitali e nelle cooperative dagli amministratori con decisione verbalizzata da notaio o
dallo stesso iscritta nel registro delle imprese dopo averne verificato la legittimità .

In caso di chiusura del fallimento per l’integrale ripartizione dell’attivo o insufficienza della massa, il curatore
deve chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese.
Il fallimento della società non è senza effetti per i soci. Nelle lucrative tali effetti sono diversi a seconda del tipo di
società e del regime di responsabilità dei soci:

- Per i soci a responsabilità limitata, il fallimento della società ha come unica conseguenza che il giudice
delegato può ingiungere loro di eseguire i conferimenti ancora dovuti, anche se non è ancora scaduto il
termine fissato dall’atto costitutivo per il relativo versamento (art. 150 l.fall.).
- Nelle snc, sas e sapa, il fallimento della società produce invece anche il fallimento dei soci a
responsabilità illimitata.

Il fallimento dei soci consegue automaticamente al fallimento della società , senza che sia necessario accertare la
loro personale insolvenza. I soci possono sottrarsi al fallimento solo contestando l’esistenza della società o
la sua insolvenza, o la qualità di soci a responsabilità illimitata della stessa. A tal fine sono sentiti dal
tribunale in camera di consiglio, prima della dichiarazione di fallimento per esercitare il loro diritto di difesa.

Altro principio cardine è che il fallimento di società determina il fallimento anche dei soci occulti. Tale
estensione può essere richiesta dai soci già dichiarati falliti, dai creditori della società o dal curatore. Il socio
occulto deve essere preventivamente sentito in camera di consiglio.
L’estensione del fallimento ai soci occulti si produce anche se, dopo il fallimento di un imprenditore individuale,
risulti che l’impresa è riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile.

In base al dettato dell’art. 147 l.fall., è fuori dubbio che la norma opera solo nei tre tipi societari
espressamente indicati. Falliscono perciò : i soci, palesi od occulti, della snc, gli accomandatari della sas e dalla
sapa, l’accomandante della società semplice che ha violato il divieto di immistione.
Non falliscono invece l’unico socio di srl e l’unico azionista, anche quando ricorre una responsabilità illimitata
degli stessi per le obbligazioni sociali.

L’art. 147, al 2° comma, estende al fallimento dei soci i principi dettati in tema di fallimento dell’imprenditore che
ha cessato l’attività .
I soci illimitatamente responsabili dunque falliscono anche se hanno cessato di far parte della società per morte,
recesso od esclusione, dal momento che in tal caso persiste la responsabilità illimitata per le obbligazioni
anteriori. È possibile dichiarare fallimento però solo se non è trascorso più di un anno da quando sono state
realizzate le formalità necessarie per rendere noti ai terzi tali fatti: iscrizione nel registro della cessazione
del singolo rapporto sociale per le società registrate e la pubblicità con mezzi idonei per le società irregolari.
E’ inoltre necessario che lo stato di insolvenza della società attenga a debiti esistenti alla data della cessazione
della responsabilità illimitata.

La medesima regola (fallimento entro 1 anno dalla pubblicazione) si applica quando i soci hanno perso la
qualità di soci illimitatamente responsabili anche in conseguenza di trasformazione, fusione o scissione della
società; tuttavia, è da ritenere che i soci possano fallire solamente nel caso che non abbiano ottenuto la
liberazione dalla responsabilità per le obbligazioni anteriori alla trasformazione o alla fusione.
La contestuale dichiarazione di fallimento e dei soci illimitatamente responsabili comporta il necessario
coordinamento delle relative procedure, che restano comunque distinte ed autonome.
Il tribunale nomina un solo giudice delegato ed un solo curatore per i diversi fallimenti, ma possono essere
nominati distinti comitati dei creditori.

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Al fallimento della società partecipano solo i creditori sociali, mentre in quello dei singoli soci partecipano sia i
creditori sociali che i rispettivi creditori particolari. Vengono contestualmente formate distinte masse passive.
Per semplificare la procedura, la domanda di ammissione allo stato passivo delle società vale anche come
domanda di ammissione al passivo del fallimento personale dei soci. I crediti verso la società assistiti da
privilegio generale conservano inoltre tale privilegio anche nel fallimento dei soci.

Distinte restano pure le masse attive, formate dai beni della società e dai beni di ciascun soci. I creditori sociali
partecipano alle ripartizioni dell’attivo di tutti i fallimenti fino all’integrale pagamento, salvo il regresso fra i
fallimenti dei soci per la parte eccedente la quota rispettiva.

Il concordato fallimentare della società ha efficacia per i soci e fa chiudere anche i loro fallimenti. Ciascuno dei
soci falliti può concludere un concordato particolare con i creditori sociali e quelli personali del proprio
fallimento, facendo cessare solamente però il fallimento di quel socio.
Anche la chiusura del fallimento della società per mancata presentazione di domande di insinuazione al passivo,
o per integrale soddisfacimento dei creditori e delle spese di procedura, determina la chiusura del fallimento del
socio, salvo che sia stato dichiarato fallito perché riconosciuto titolare di un’autonoma impresa individuale.

17. (Segue): Fallimento e patrimoni destinati.

Disciplina detta alcune regole applicabili alle spa che hanno costituito patrimoni destinati. Le conseguenze sono
diverse a seconda del tipo di patrimonio destinato e a seconda che sia diventato incapiente quest’ultimo oppure
sia quello generale a cadere in stato di insolvenza.

Qualora il patrimonio destinato non consenta di soddisfare integralmente le relative obbligazioni ma


quello generale è in bonis, NON viene dichiarato fallimento e non è prevista alcuna procedura concorsuale a
tutela dei creditori separatisti. I creditori insoddisfatti possono chiedere la liquidazione del patrimonio destinato,
ma ciò avverò osservando esclusivamente le disposizioni sulla liquidazione delle società di capitali.

Nell’ipotesi inversa, viene invece dichiarato il fallimento e la gestione del patrimonio destinato compete al
curatore. Non viene meno però la separazione patrimoniale fra patrimonio generale e destinato. I creditori del
patrimonio destinato operativo non possono insinuarsi al passivo del fallimento, se non nei limiti in cui la società
fallita ha prestato garanzia con il suo patrimonio generale a loro favore.
Ne consegue che il curatore può esercitare l’azione revocatoria contro gli atti pregiudizievoli per i creditori del
patrimonio generale che hanno avvantaggiato il patrimonio destinato.

Il curatore deve vagliare la possibilità di cedere a terzi il patrimonio separato, al fine di conservarne la
destinazione produttiva. Nel caso la cessione non sia possibile, il destinato viene posto in liquidazione applicando
le regole in tema di liquidazione della società.

Se durante il fallimento della società risulta che il patrimonio separato è incapiente, il curatore lo pone in
liquidazione dopo l’autorizzazione del giudice delegato. Senza osservare la par condicio creditorum e senza la
possibilità di esercitare azioni revocatorie fallimentari sugli atti pregiudizievoli per il patrimonio destinato.

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CAPITOLO QUARANTASEIESIMO
IL CONCORDATO PREVENTIVO.
GLI ACCORDI DI RESTRUTTURAZIONE DEI DEBITI.

1. Il concordato preventivo. Caratteri generali. Presupposti.

L’imprenditore che si trovi in stato di difficoltà economica può evitare che la crisi sfoci in fallimento, regolando
i propri rapporti con i creditori mediante un concordato preventivo.

La procedura è disciplinata dalla legge fallimentare, artt. 160-186, ed è stata ripetutamente riformata negli
ultimi anni. In particolare dal 2005 presupposto del concordato preventivo non è più solamente lo stato
d’insolvenza, bensì più in generale lo stato di crisi economica dell’imprenditore.

Al concordato preventivo può quindi essere riconosciuta una duplice finalità :


 Se la crisi è temporanea e reversibile, il concordato mira a superare tale situazione attraverso il
risanamento economico e finanziario dell’impresa.
 Se la crisi è definitiva e irreversibile, il concordato preventivo può essere attuato prima che sia dichiarato
il fallimento e serve a evitare lo stesso.

2. L’ammissione al concordato.

La procedura di concordato preventivo inizia con la domanda d’ammissione del debitore, presentata con
ricorso al tribunale competente per la dichiarazione di fallimento. La domanda è pubblicata d’ufficio nel registro
delle imprese entro il giorno seguente, e da quella data si producono effetti per i creditori.

La domanda può essere presentata già completa della proposta concordataria rivolta ai creditori, oppure con
riserva. La domanda completa di proposta deve essere corredata da una serie di allegati:
- Un’aggiornata relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa.
- Uno stato analitico dell’attività con i relativi valori.
- L’elenco nominativo dei creditori e dei titolari di diritti reali o personali su beni di proprietà o in
possesso del debitore.
- Un piano contenente la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta.
- Quando la proposta prevede la prosecuzione dell’attività d’impresa (c.d. concordato con continuità
aziendale), la domanda deve inoltre contenere un’analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla
prosecuzione dell’attività d’impresa delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di
copertura.
La proposta deve inoltre essere accompagnata dalla relazione di un professionista indipendente, scelto dal
debitore. Il professionista deve attestare la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano. In caso di
concordato con continuità aziendale, deve anche attestare che la prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal
piano sia funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori.

Dopo la riforma del 2012, il debitore può anche presentare una domanda di concordato con riserva, cioè
incompleta, e con la possibilità di presentare successivamente il piano, la proposta e gli altri allegati, mettendosi
intanto al riparto dalle azioni esecutive dei creditori. Insieme alla domanda vanno depositati anche i bilanci dei
tre esercizi precedenti.
Presentata la domanda incompleta, il giudice fissa un termine per la formulazione completa (da 60 a 120 gg).
Entro tale termine il debitore deve presentare la proposta, o la richiesta per un accordo di ristrutturazione dei
debiti, altrimenti la domanda di ammissione al concordato viene rigettata, e il debitore perde la facoltà di
presentare una nuova domanda di concordato con riserva per i due anni successivi.

Ricevuta la domanda completa, il tribunale verifica la presenza dei presupposti per l’ammissione alla
procedura. Se è prevista una divisione dei creditori in classi, il tribunale verifica anche la correttezza dei criteri di
formazioni e del trattamento delle classi stesse.

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Se l’accertamento ha esito negativo, il tribunale dichiara inammissibile la proposta di concordato, e potrebbe,
su istanza dei creditori o del pubblico ministero, verificare l’esistenza dei presupposti per dichiarare il fallimento
del debitore.
Se l’accertamento ha esito positivo, il tribunale con decreto dichiara aperta la procedura di concordato
preventivo. Con lo stesso provvedimento il tribunale nomina gli organi della procedura:
- il giudice delegato, cui è devoluta la direzione della procedura.
- Il commissario giudiziale, con funzioni di vigilanza e controllo.
Il decreto è pubblicato nel registro delle imprese.

 Effetti per il debitore

A differenza del fallimento il debitore conserva l’amministrazione dei suoi beni, e SE previsto nella
proposta, continua l’esercizio dell’impresa.
Subisce però una limitazione del potere di gestione, in quanto può compiere solamente gli atti di ordinaria
amministrazione (per gestione straordinaria, necessaria autorizzazione dal giudice delegato). Gli atti eccedenti
l’ordinaria amministrazione compiuti senza autorizzazione sono inefficaci nei confronti dei creditori anteriori al
concordato, ed espongono alla revoca dell’ammissione del concordato (ed eventualmente alla contestuale
dichiarazione di fallimento).

In caso di concordato preventivo con continuità aziendale, il tribunale può autorizzare il debitore ha pagare i
crediti per prestazioni di beni e servizi anteriori alla presentazione della domanda. Questi pagamenti sono
una vistosa deroga al principio della par condicio creditorum, sono quindi consentiti solo a queste condizioni:
a) Un professionista che attesti che le tali prestazioni sono essenziali per la prosecuzione dell’attività
d’impresa e funzionali ad assicurare una miglior soddisfazione degli altri creditori.
b) I pagamenti siano effettuati con nuove risorse finanziarie, apportate al debitore senza obbligo di
restituzione o con obbligo di restituzione postergata alla soddisfazione dei creditori concordatari.

 Effetti per i creditori

Effetti simili al fallimento, dato che anche in questo caso opera il principio della par condicio creditorum.
Infatti, dalla data di pubblicazione nel registro della domanda di ammissione da parte del debitore:
 I creditori anteriori non possono, a pena di nullità , iniziare o proseguire azioni esecutive individuali sul
patrimonio del debitore fino al momento in cui il decreto di omologazione del concordato diventa
definitivo (art. 168, 1 comma).
 Non possono gli stessi acquistare diritto di prelazione con efficacia rispetto ai creditori concorrenti,
salvo autorizzazione del giudice delegato (art. 168, 3 comma).
 Per lo stesso periodo restano sospese le prescrizioni e non si verificano decadenze.
 Resta sospeso il corso degli interessi
 Si producono in generale gli altri effetti del fallimento, esclusa la revocatoria fallimentare.

 Effetti sui contratti in corso di esecuzione

Il concordato preventivo NON incide sui rapporti contrattuali in corso di esecuzione, dato che l’imprenditore
conserva il potere di amministrare il suo patrimonio.
Il debitore può però chiedere l’autorizzazione a sciogliere tali contratti, oppure a sospenderli per un periodo
massimo di 60 giorni. Le relative ammissioni sono rilasciate dal tribunale in fase di apertura, o dal giudice
delegato dopo il decreto di ammissione.
La controparte del contratto sospeso o sciolto ha diritto ad un indennizzo, pari al risarcimento del danno per il
mancato adempimento. La richiesta di sospensione o scioglimento non può comunque avere ad oggetto rapporti
di lavoro subordinato, né gli altri contratti indicati all’art. 169-bis, l. fall.

3. Lo svolgimento della procedura.

Dopo l’ammissione alla procedura di concordato preventivo, questa di articola in due fasi:

 Approvazione della proposta da parte dei creditori.

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Mancando il preventivo accertamento giudiziale dello stato passivo, il commissario giudiziale provvede a
convocare i creditori sulla base dell’elenco nominativo prestato dal debitore in sede di domanda, e vi apporta le
necessarie rettifiche. Nel contempo, sempre il commissario, redige l’inventario del patrimonio del debitore ed
una relazione sulle cause del dissesto, sulla condotta del debitore e sulla proposta di concordato.

Diversamente dal fallimento, è necessaria un’adunanza dei creditori per l’approvazione del concordato.
All’adunanza possono intervenire anche i creditori non convocati, provando in tale sede il loro credito.
Per quanto riguarda il diritto di voto valgono le stesse regole esposte per il concordato fallimentare: sono
esclusi creditori privilegiati, coniugi e parenti, nonché dei cessionari dei crediti di costoro. Sono inoltre esclusi i
crediti derivanti da finanziamenti concessi per la presentazione del concordato (diventerebbero crediti della
massa in caso di fallimento, il che potrebbe disinteressare il creditore dal buon esito del concordato).
Identiche al concordato fallimentare sono anche le maggioranze richieste per l’approvazione: maggioranza dei
crediti e, in caso di divisione in classi, anche maggioranza delle classi.
 Se la maggioranza non è raggiunta, questa si può formare successivamente con un meccanismo di
silenzio-assenso, introdotto con riforma del 2012: i creditori che non hanno votato possono far pervenire il loro
dissenso entro 20 giorni dalla chiusura dell’adunanza; in mancanza si ritengono consenzienti e sono considerati
al fine del computo della maggioranza dei crediti.

Se la proposta è respinta, il tribunale dichiara l’inammissibilità della proposta di concordato (e eventualmente


il fallimento, con separata sentenza).
Se la maggioranza è invece raggiunta, si apre il giudizio di omologazione.

 Giudizio di omologazione da parte del tribunale.

In sede di omologazione, il tribunale si limita a controllare la regolarità della procedura e della votazione.
Si spinge ad un controllo di merito sulla convenienza del concordato, solo in caso ne venga fatta richiesta da 20%
dei crediti (dissenzienti) ammessi al voto o, in caso di classi, da appartenenti ad una classe dissenziente.

Se i risultati del controllo sono positivi, il tribunale omologa con decreto il concordato. Altrimenti lo respinge
e può dichiarare contestualmente il fallimento (sempre su istanza di creditori o pm). Contro il decreto (che
omologa o respinge) è possibile proporre reclamo in corte d’appello.

Il concordato preventivo omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori alla pubblicazione della
domanda nel registro delle imprese. Non vengono però intaccati i diritti dei creditori nei confronti dei
coobbligati, fideiussori e obbligati in via di regresso,
Nel caso di società con soci a responsabilità illimitata, il concordato ha efficacia anche per tali soci, che restano
perciò liberati nei confronti dei creditori sociali per la parte eccedente la percentuale concordataria.

4. Esecuzione. Risoluzione ed annullamento del concordato.

Il concordato viene eseguito sotto la sorveglianza del commissario giudiziale, secondo le modalità stabilite
nel decreto di omologazione.

Il concordato può consistere nella cessione dei beni ai creditori. In tal caso, i tribunale nomina uno o più
liquidatori ed un comitato di tre o cinque creditori per assistere alla liquidazione; determina inoltre le modalità
della stessa. Il concordato con cessione NON comporta di regola il trasferimento della proprietà dei beni ai
creditori, ma solamente il conferimento ai creditori di un mandato irrevocabile in rem propria a liquidare i beni
e ripartirne il ricavato fra di loro.

Il concordato può essere risolto o annullato negli stessi casi previsti per il concordato fallimentare.
L’eventuale apertura del fallimento in seguito alla chiusura del concordato preventivo solleva due problemi:

1. I termini a ritroso per l’esercizio dell’azione revocatoria decorrono dalla data di ammissione al
concordato preventivo, o da quella della dichiarazione di fallimento?
 Con la riforma del 2012 è stabilito che, nel caso in cui alla domanda di concordato preventivo segua la
dichiarazione di fallimento, i termini delle revocatorie decorrono sempre dalla data di pubblicazione della
domanda di concordato nel registro delle imprese.

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2. Coloro che sono diventati creditori durante la procedura di concordato, devono essere considerati nel
successivo fallimento creditori della massa (soddisfatti in prededuzione) o semplici creditori concorsuali
(soddisfatti in percentuale)?
 Prevale dopo la riforma l’orientamento che ammette la prededucibilità : i debiti sorti in occasione o in funzione
delle procedure concorsuali regolate dalla legge fallimentare devono essere soddisfatti con preferenza rispetto
agli altri (art. 111, 2 comma).

Per sgombrare il campo da dubbi, il legislatore ha inoltre stabilito espressamente taluni crediti, sorti in
funzione o in esecuzione del concordato preventivo, che diventano prededucibili in caso di fallimento
successivo:
1) I crediti derivanti da atti legalmente compiuti dal debitore nella fase di apertura della procedura, nel
tempo che intercorre dalla presentazione della domanda al decreto di ammissione.
 Finanziamenti
2) I crediti derivanti da finanziamenti erogati in funzione della presentazione della domanda di
ammissione, purché siano indicati dal piano concordatario e la prededuzione sia espressamente disposta
nel decreto di ammissione alla procedura.
3) I crediti derivanti da finanziamenti contratti in pendenza della procedura concordataria, con
autorizzazione del tribunale e dichiarazione di un professionista che tali finanziamenti sono funzionali
ad un miglior soddisfacimenti dei creditori.
4) I crediti derivanti da finanziamenti in esecuzione del concordato preventivo.
La prededucibilità di tali finanziamenti è riconosciuta anche quando il finanziamento viene concesso alla
società dai suoi soci, in deroga alle disposizioni del codice civile, secondo le quali invece i prestiti erogati dai
soci verso la società in stato di crisi dovrebbero essere postergati in caso di fallimento. Onde impedire che i soci
riversino per intero il rischio del salvataggio sui creditori, i finanziamenti effettuati dagli stesso sono però
prededucibili solo nella misura dell’80% (escluso il caso del finanziatore che abbia acquisito la qualità di
socio in esecuzione del concordato preventivo, che viene prededotto integralmente).

5. Gli accordi di ristrutturazione dei debiti.

Introdotti nella legge fallimentare nel 2005, sono accordi stipulati fra imprenditore e una maggioranza
qualificata di creditori; una volta pubblicati sul registro e ottenuta l’omologazione del tribunale, essi
consentono di porre gli atti compiuti in esecuzione degli stessi al riparo dall’azione revocatoria, qualora la crisi
non sia superata e sopraggiunga il fallimento.
Dopo il 2010 consentono inoltre di rendere prededucibili, in caso di fallimento, i crediti derivanti da nuovi
finanziamenti, secondo le regole appena viste per il concordato preventivo.

Gli accordi di ristrutturazione vanno distinti dal concordato preventivo, perché:


 Non sono concordati giudiziali, perché non sono raggiuti tramite organi giudiziali, bensì mediante
trattative dirette fra il debitore e i creditori; il tribunale interviene solo dopo la stipulazione in funzione
di controllo
 Non sono concordati di massa, perché parte dell’accordo sono esclusivamente i creditori che lo
accettano e che, proprio per questo, possono acconsentire a ricevere trattamenti non conformi alla par
condicio creditorum; gli altri sono qualificati dalla legge come creditori “estranei” e devono essere
soddisfatti per intero entro i termini massimi stabiliti dalla legge.
 Le categorie di imprenditori che possono accedere agli accordi di ristrutturazione sono più ampie di
quelle ammissibili al concordato preventivo (ammessi anche gli imprenditori agricoli).

Gli accordi di ristrutturazione vanno inoltre distinti dai piani di risanamento. Anche questi hanno l’effetto di
esentare da revocatoria (in caso di successivo fallimento) gli atti, i pagamenti e le garanzie poste in essere in
esecuzione degli stessi, ma tale risultato è conseguito senza preventivo accordo con i creditori e senza controllo
omologatorio dal tribunale: è sufficiente che un esperto ne attesti la ragionevolezza. I piani di risanamento
presentano però un elemento di grave incertezza: sono esibiti al giudice solo a fallimento aperto, per contrastare
l’azione revocatoria del curatore. Forte è quindi il timore che il giudice, davanti all’insuccesso del tentativo di
salvataggio, si convinca che il piano era fin dall’inizio idoneo a superare la crisi, e conseguentemente non
riconosca l’esenzione della revocatoria degli atti esecutivi.
Gli accordi di ristrutturazione, invece, proprio perché soggetti a controllo giudiziale preventivo, conferiscono
certezza riguardai ai loro effetti protettivi nei confronti di un’eventuale successiva azione revocatoria. (??)

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 Disciplina

Nulla stabilisce l’art. 182-bis riguardo al contenuto dell’accordo: l’imprenditore è libero di pattuire con i
creditori aderenti le modalità più opportune di ristrutturazione dei debiti, e non è vincolato all’integrale
pagamento dei creditori privilegiati, né a rispettare l’ordine dei privilegi.
Ai creditori che non aderiscono all’accordo deve invece essere assicurati l’integrale pagamento. Oggi la legge
consente però una dilazione di tali pagamenti (max 120 gg dall’omologazione se scaduti, sennò dalla scadenza).
All’accordo devono aderire i creditori che rappresentano almeno il 60% dei crediti. Non si computano
però i crediti che sono esclusi dalle maggioranze del concordato preventivo, in ragione della loro prededucibilità.
Durante la fase degli accordi con i creditori, l’imprenditore può chiedere al tribunale di essere posto al riparo
dalle azioni cautelari o esecutive individuali dei creditori. Il tribunale, se riscontra la sussistenza dei presupposti
per pervenire ad un accordo con i creditori, con lo stesso provvedimento accoglie l’istanza di protezione dai
creditori, assicura l’integrale pagamento ai creditori non aderenti e fissa un termine non superiore a 60 giorni
per il deposito dell’accordo raggiunto e della relativa documentazione.

Dopo la stipulazione dell’accordo, il debitore ne deve chiedere l’omologazione al tribunale, corredando il


ricorso con la stessa documentazione richiesta per l’ammissione al concordato preventivo. Necessaria è in
particolare la verifica del professionista sull’idoneità ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori estranei.

L’accordo è poi pubblicato nel registro delle imprese prima dell’omologazione del tribunale, ma comunque
acquista efficacia, anche se precaria perché potrebbe venir respinta l’omologazione.
Dalla pubblicazione dell’accordo scatta anche il divieto per i creditori anteriori di intraprendere azioni cautelari
o esecutive individuali per un periodo di 60 giorni. Per lo stesso periodo sono sospese le prescrizioni e non si
verificano decadenze.

I creditori ed ogni altor interessato possono presentare opposizione contro l’omologazione entro trenta giorni
dalla pubblicazione dell’accordo. Trascorso questo termine, il tribunale decide sull’omologazione con decreto
motivato, contro il quale è possibile proporre reclamo davanti alla corte d’appello. Il decreto d’omologazione è
poi pubblicato nel registro delle imprese.

Anche per l’accordo di ristrutturazione dei debiti si pone il problema di stabilire se le obbligazioni assunte dal
debitore in funzione dell’accordo diano origine a crediti prededucibili. La risposta dovrebbe essere affermativa in
base all’art. 111, 2 comma (come per il concordato preventivo).
Il legislatore anche in questo caso è intervenuto esplicitando che sono espressamente prededucibili, a condizione
che l’accordo sia omologato, i finanziamenti erogati in funzione della domanda di omologazione, o concessi in
esecuzione dell’accordo; nonché quello contratti in pendenza della procedura previa autorizzazione del
tribunale. Inoltre, se tali finanziamenti sono prestati da soci, la prededucibilità è ridotta all’80%.

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Approvata definitivamente in data 6 agosto 2015, approda finalmente in Gazzetta , la conversione del
decreto-legge n. 83 del 27 giugno 2015, G.U. n. 147 .
La legge detta una serie di misure in materia fallimentare, civile e processuale civile  nonché di natura
organizzativa.
Alle procedure concorsuali è dedicato il Titolo I artt. 1-11.
La legge modifica la legge fallimentare Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267 con lo scopo di:
-  facilitare il reperimento di risorse finanziarie da parte dell'imprenditore in crisi
-  favorire la presentazione di offerte alternative rispetto al piano di concordato per l'acquisto
dell'azienda o di un suo ramo o di specifici beni.
-  rendere possibile ai creditori, a determinate condizioni, la presentazione di proposte di
concordato alternative a quella presentata dall'imprenditore.
Sono stati  modificati i requisiti per la proposta di concordato preventivo e gli obblighi in capo al
commissario giudiziale, nonchè le modalità di adesione alla proposta. In particolare: la proposta di
concordato deve soddisfare - se non si tratta di concordato con continuità aziendale - almeno il 20%
dei crediti chirografari.
 Con la  finalità di accelerazione delle procedure e di garanzia della terzietà non puo' essere
nominato curatore chi ha, in qualsiasi tempo,  concorso al dissesto dell'impresa.
 Viene inoltre prevista l'istituzione presso il Ministero della Giustizia di un registro nazionale dove
confluiscono, oltre ai provvedimenti di nomina dei curatori fallimentari, anche quelli dei commissari
e liquidatori giudiziali e sono annotate le sorti delle procedure concorsuali. Per l'istituzione del
registro è autorizzata la spesa di 100.000 euro per il 2015.
 Il curatore, per la liquidazione dell'attivo, puo' appoggiarsi a società specializzate nella vendita e sono
stati previsti termini procedurali più stringenti (programma di liquidazione entro 180 gg. dalla
sentenza che dichiara il fallimento; liquidazione dell'attivo del fallimento entro 2 anni), il cui mancato
rispetto può determinare la revoca del curatore.
 E' stata prevista la revocatoria per la dismissione di  beni oggetto di eventuali atti a titolo gratuito
compiuti dal debitore nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento che pertanto tornano a far
parte del patrimonio del fallimento.
 La procedura del fallimento puo' essere chiusa e l'attivo puo' essere ripartito anche quando vi siano
giudizi pendenti;  sarà cura del curatore accantonare le somme necessarie a coprire le spese di
giudizio.
Anche i magistrati devono dare priorità dalla definizione delle cause in cui è parte un fallimento e il
giudice non puo' liquidare acconti a favore del curatore se non dopo almeno un riparto parziale.
 Viene anche introdotta una norma in riferimento all'accordo di ristrutturazione dei debiti finalizzita a
togliere a banche che vantino crediti di modesta entità il potere di interdizione in relazione ad accordi
di ristrutturazione che vedano l'adesione delle banche creditrici maggiormente esposte. La nuova
disposizione prevede che l'accordo di ristrutturazione del debito possa essere concluso se vi

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aderiscono creditori finanziari che rappresentano il 75% del credito della categoria, fermo restando
l'integrale pagamento dei creditori non finanziari.

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