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1)

Art. 2082 c.c. Il codice civile distingue diversi tipi di imprese e di imprenditori in base a tre criteri:
a) L’oggetto dell’impresa  distinzione fra imprenditore agricolo (art.2135) e imprenditore
commerciale (art. 2195)
b) La dimensione dell’impresa  piccolo imprenditore (art. 2082) e imprenditore medio-
grande
c) La natura del soggetto che esercita l’impresa  impresa individuale e impresa sotto forma
di società ed impresa pubblica.
Tutti gli imprenditori sono assoggettati allo statuto generale dell’imprenditore, che comprende
parte della disciplina dell’azienda (artt. 2555-2562) e dei segni distintivi (artt. 2563-2574), la
disciplina della concorrenza e dei consorzi (artt. 2595-2620). Applicabile a tutti gli imprenditori è
anche la disciplina a tutela della concorrenza e del mercato introdotta dalla legge 287/1990.
Chi è imprenditore commerciale non piccolo è poi assoggettato allo statuto tipico dell’imprenditore
commerciale. Rientrano in questo statuto: l’iscrizione nel registro delle imprese (artt.2188-2202),
con effetti di pubblicità legale; la disciplina della rappresentanza commerciale (artt. 2203-2213); le
scritture contabili dalla legge fallimentare (r.d. 16-3-1942, n.267) e l’amministrazione straordinaria
delle grandi imprese insolventi (d.lgs. 8-7-1999, n.270 e d.l. 23-12-2003).

“E’ imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della
produzione o dello scambio di beni o di servizi”.
Dall’art. 2082 si ricava che l’impresa è attività (serie coordinata di atti); ed attività caratterizzata sia
da uno specifico scopo (produzione o scambio di beni o servizi), sia da specifiche modalità di
svolgimento (organizzazione, economicità, professionalità).
E’ controverso se siano altresì indispensabili:
a) La liceità dell’attività svolta;
b) L’intento dell’imprenditore di ricavare un profitto (c.d. scopo di lucro);
c) La destinazione al mercato dei beni o servizi prodotti

L’impresa è attività (serie di atti) finalizzata alla produzione o allo scambio di beni o servizi. È, in
breve, attività produttiva (in senso lato) di nuova ricchezza.

Un’attività può costituire allo stesso tempo godimento di beni preesistenti e produzione di nuovi
beni o servizi. Ed in tal caso, in presenza degli altri requisiti richiesti dall’art. 2082, fa acquistare la
qualità di imprenditore.
Così, è attività di godimento e produttiva (di servizi) l’attività del proprietario di un immobile che
adibisca lo stesso ad albergo, pensione o residence. In tal caso le prestazioni locative sono
accompagnate dall’erogazione di servizi collaterali (pulizia locali, cambio biancheria, ecc.) che
eccedono il mero godimento del bene.

Gli atti di investimento, di speculazione e di finanziamento, quando siano coordinati in modo da


configurare un’attività, possono dar vita ad impresa (commerciale) se ricorrono gli ulteriori
requisiti dell’organizzazione e della professionalità.
Sono certamente imprese commerciali le società finanziarie.

È opinione ormai decisamente prevalente che la qualità di imprenditore deve essere riconosciuta
anche quando l’attività produttiva svolta è illecita, cioè contraria a norme imperative, all’ordine
pubblico o al buon costume.
Chi svolge attività di impresa violando la legge non potrà avvalersi delle norme che tutelano
l’imprenditore nei confronti dei terzi (disciplina dell’azienda, dei segni distintivi, della concorrenza
sleale).
E ciò in applicazione di un principio generale dell’ordinamento: da un comportamento illecito non
possono mai derivare effetti favorevoli per il suo autore.

Non è concepibile attività di impresa senza l’impiego coordinato di fattori produttivi: senza
l’impiego cioè di capitale e lavoro propri e/o altrui.

L’impresa è “attività economica”. E nell’art.2082 l’economicità è richiesta in aggiunta allo scopo


produttivo dell’attività.
Non è imprenditore chi produce beni o servizi che vengono erogati gratuitamente o a “prezzo
politico”, tale cioè da far oggettivamente escludere la possibilità di coprire i costi con i ricavi.
Perché l’attività possa dirsi economica non è però essenziale che esse sia caratterizzata anche
dall’intento dell’imprenditore di conseguire un guadagno o profitto personale; dallo scopo di lucro.
Quest’ultimo non può essere perciò elevato a requisito essenziale dell’attività di impresa.

L’ultimo dei requisiti espressamente richiesti dall’art. 2082 è il carattere professionale dell’attività.
Professionalità significa esercizio abituale e non occasionale di una data attività produttiva.
La professionalità non richiede però che l’attività imprenditoriale sia svolta in modo continuato e
senza interruzioni. Per le attività stagionali è sufficiente il costante ripetersi di atti di impresa
secondo le cadenze proprie di quel dato tipo di attività.
La professionalità non richiede neppure che quella di impresa sia l’attività unica o principale.
È quindi possibile anche il contemporaneo esercizio di più attività di impresa da parte dello stesso
soggetto.

I liberi professionisti non sono mai in quanto tali imprenditori. L’art. 2238 c.c. stabilisce infatti che
le disposizioni in tema di impresa si applicano alle professioni intellettuali solo se “l’esercizio della
professione costituisce elemento di una attività organizzata in forma di impresa”.
2)
Imprenditore agricolo (art.2135) ed imprenditore commerciale (art. 2195) sono le due categorie di
imprenditori che il codice distingue in base all’oggetto dell’attività.
Chi è imprenditore agricolo è sottoposto solo alla disciplina prevista per l’imprenditore in generale.
È invece esonerato dall’applicazione della disciplina propria dell’imprenditore commerciale: tenuta
delle scritture contabili; assoggettamento al fallimento ed alle altre procedure concorsuali
dell’imprenditore commerciale, con l’unica eccezione degli accordi di ristrutturazione dei debiti.
Può invece accadere alle procedure concorsuali da sovraindebitamento, recentemente introdotta
dalla legge 27-1-2012, n.3 per i soggetti non fallibili.
Il trattamento di favore è accentuato dalla legislazione speciale (nazionale e comunitaria).

Il testo originario dell’art.2135 c.c. stabiliva che “è imprenditore agricolo chi esercita un’attività
diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all’allevamento del bestiame e attività
connesse” (1° comma); e specificava poi il 2° comma dello stesso art. 2135 che “si reputano
connesse le attività dirette alla trasformazione o all’alienazione dei prodotti agricoli, quando
rientrano nell’esercizio normale dell’agricoltura”.
Le attività agricole possono perciò essere distinte in due grandi categorie:
a) Attività agricole essenziali;
b) Attività agricole per connessione.
_d.lgs. 228/2001.

Che l’imprenditore agricolo sia sempre e comunque esonerato da tale disciplina, sia sempre e
comunque sottratto al fallimento è perciò scelta legislativa che lascia insoddisfatti molti interpreti.
Vi era chi riteneva che impresa agricola fosse ogni impresa che produce specie vegetali o animali;
ogni forma di produzione fondata sullo svolgimento di un ciclo biologico naturale.
Vi era all’opposto chi riteneva che doveva essere dato rilievo anche al modo di produzione tipico
dell’agricoltore e, quindi, che doveva essere qualificato imprenditore commerciale chi produce
specie vegetali o animali in modo del tutto svincolato dal fondo agricolo e dallo sfruttamento della
terra.
Con la riforma del 2001 il legislatore ha invece decisamente optato per la prima impostazione.
L’attuale formulazione dell’art. 2135 ribadisce infatti che “è imprenditore agricolo chi esercita una
delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività
connesse”.
Subito specifica però che “per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di
animali si intendono le attività dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase
necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il
fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine” (art. 2135, 2° comma, nuovo testo).

In base alla nuova nozione, danno vita ad impresa agricola anche le coltivazioni “fuori terra” di
ortaggi e frutta, così generalizzandosi la soluzione in passato legislativamente accolta solo per la
coltivazione di funghi (legge 5-4-1985, n.126).

Inoltre, per allevamento di animali si deve intendere non solo l’allevamento diretto ad ottenere
prodotti tipicamente agricoli (carne, latte, lana, animali da lavoro), potendosi oggi far rientrare
nella nozione di allevamento di animali anche l’allevamento di cavalli da corsa o di animali da
pelliccia, nonché, come già previsto dalla legge 23-8-1993, n.349, l’attività cinotecnica: volta cioè
all’allevamento alla selezione e all’addestramento delle razze canine. Ed ovviamente anche
l’allevamento di gatti.
Infine, all’imprenditore agricolo (essenziale) è stato equiparato l’imprenditore ittico. Vale a dire
l’imprenditore che esercita l’attività di pesca professionale, nonché le attività a queste connesse
(art. 4, d.lgs. 9-1-2012, n.4, che sostituisce il d.lgs. 226/2001).

La seconda categoria di attività agricole è costituita dalle attività agricole per connessione. Ed
anche sotto tale profilo l’attuale nozione di imprenditore agricolo realizza un significativo
ampliamento rispetto a quella previgente che le individuava:
a) In quelle diretta alla trasformazione o all’alienazione di prodotti agricoli che rientravano
nell’esercizio normale dell’agricoltura
b) In tutte le altre attività esercitate in connessione con la coltivazione del fondo, la
silvicoltura e l’allevamento del bestiame (ad esempio: agriturismo, trebbiatura e
motoaratura per conto terzi), per le quali, in mancanza di specificazione legislativa, si
riteneva che le stesse dovessero rivestire carattere accessorio.
Questa distinzione oggi scompare in quanto in base al 3° comma dell’art. 2135, con formula ben
più ampia, si intendono comunque connesse:
a) Le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione
e valorizzazione di prodotti ottenuti prevalentemente da un’attività agricola essenziale;
b) Le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di
attrezzature o risorse normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, comprese
quelle di valorizzazione del territorio o del patrimonio rurale e forestale e le attività
agrituristiche (a loro volta definite dalla legge 20-2-2006, n.96).
Le une e le altre sono attività oggettivamente commerciali.
Queste attività sono considerate per legge attività agricole quando sono esercitate in connessione
con una delle tre attività agricole essenziali. Da qui l’importanza di precisare quando un’attività
intrinsecamente commerciale possa qualificarsi come africola per connessione.
Due sono le condizioni al riguardo necessarie.
È necessario, innanzitutto, che il soggetto che la esercita sia già imprenditore agricolo in quanto
svolge in forma di impresa una delle tre attività agricole tipiche e inoltre attività coerente con
quella connessa.
È necessario che ricorra anche una connessione oggettiva fra le due attività.
Non si richiede più che le attività di trasformazione e alienazione dei prodotti agricoli rientrino
nell’esercizio normale dell’agricoltura, né che le attività connesse diverse da queste ultime abbiano
carattere accessorio.
Entrambi questi criteri sono infatti sostituiti da quello della prevalenza.
Necessario e sufficiente è solo che si tratti di attività aventi ad oggetto prodotti ottenuti
prevalentemente dall’esercizio dell’attività agricola essenziale, ovvero di beni o servizi forniti
mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda agricola. In breve, è
sufficiente che le attività connesse non prevalgano, per rilievo economico, sull’attività agricola
essenziale.
È imprenditore commerciale l’imprenditore che esercita una o più delle seguenti categorie di
attività elencate dall’art. 2195, 1° comma.
1) “attività industriale diretta alla produzione di beni o servizi”. È questo il vasto ed articolato
settore delle imprese industriali (automobilistiche, chimiche, edili, tessili, ecc.).
2) “attività intermediaria nella circolazione dei beni”. È questo l’altrettanto vasto settore del
commercio
3) “attività di trasporto” per terra, per acqua o per aria, sia di persone che di cose
4) “attività bancaria o assicurativa”. l’impresa bancaria, in particolare, ha per oggetto la
raccolta del risparmio fra il pubblico e l’esercizio del credito
5) “altre attività ausiliarie delle precedente”. Rientrano in questa categoria tutte le attività
strumentali a quelle sinora indicate: imprese di agenzia (art. 1742), di mediazione
(art.1754), di deposito (art.1787), di commissione (art.1731), di spedizione (art. 1737), di
pubblicità.
Dovrà essere considerata commerciale ogni impresa che non sia qualificabile come agricola.
Nel caso concreto si dovrà perciò verificare solo se si è in presenza di impresa giuridicamente
agricola (art. 2135). Se così non è, l’impresa è senz’altro commerciale. E imprese commerciali sono
perciò anche quelle da ultimo indicate, dato che certamente non possono essere considerate
imprese agricole.

La dimensione dell’impresa è il secondo criterio di differenziazione della disciplina degli


imprenditori. Al riguardo il codice civile individua la figura del piccolo imprenditore,
contrapponendola a quella dell’imprenditore medio-grande.
Il piccolo imprenditore è sottoposto allo statuto generale dell’imprenditore. È invece esonerato,
anche se esercita attività commerciale, dalla tenuta delle scritture contabili (art. 2214, 3° comma);
è altresì esonerato dal fallimento e dalle altre procedure concorsuali dell’imprenditore
commerciale (Art.2221), potendo usufruire solo delle procedure concorsuali da
sovraindebitamento. Inoltre, l’iscrizione nel registro delle imprese, solo di recente prevista (legge
29-12-1993, n.580), non ha funzione di pubblicità legale.
Individuare chi sia piccolo imprenditore (commerciale) ai fini del codice civile (esonero dallo
statuto dell’imprenditore commerciale) non è stato però fino a qualche anno fa problema di
agevole soluzione per la coesistenza di due diverse nozioni: quella dettata dal codice civile (Art.
2083 c.c.) e quella dettata dalla legge fallimentare (art.1, 2° comma). Oggi però la situazione si è
notevolmente semplificata e chiarita.
Procediamo tuttavia con ordine iniziando dalla nozione data dal codice civile.
“Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e
coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro
proprio e dei componenti della famiglia”.
L’ultima parte della norma consente di ricomprendere nella categoria figure di piccoli imprenditori
diverse da quelle espressamente menzionate.
Enuncia però al tempo stesso il criterio generale di individuazione della categoria, destinato a
valere anche per le tre figure tipiche: coltivatori diretti del fondo, artigiani e piccoli commercianti.
In altri termini l’art. 2083 va letto come se dicesse: la prevalenza del lavoro proprio e familiare
costituisce il carattere distintivo di tutti i piccoli imprenditori.
Per aversi piccola impresa è perciò necessario che:
a) L’imprenditore presti il proprio lavoro nell’impresa
b) Il suo lavoro e quello degli eventuali familiari che collaborano nell’impresa prevalgano sia
rispetto al lavoro altrui sia rispetto al capitale proprio o altrui investito nell’impresa.
Non è perciò mai piccolo imprenditore chi investa ingenti capitali anche se non si avvale di alcun
collaboratore.

Anche la legge fallimentare fissava una definizione di piccolo imprenditore (dell’art.1, 2°comma,
legge fall.) ed il coordinamento fra le due disposizioni ha costituito a lungo un vero rompicapo per
gli interpreti. Anche perché la nozione della legge fallimentare individuava il piccolo imprenditore
sulla base di criteri completamente diversi dal codice civile: non il principio di prevalenza, bensì un
sistema di soglie quantitative rapportate al reddito e al capitale investito nell’impresa.
Era poi accaduto che, col tempo, i parametri quantitativi indicati della legge fallimentare erano
stati implicitamente abrogati (soglia del reddito) o dichiarati incostituzionali (capitale investito),
lasciando un vuoto normativo e grande incertezza in sede di dichiarazione di fallimento. Per
rimediare a questo stato di cose, l’art.1, 2°comma, legge fall. è stato riformulato per due volte:
dapprima con il d.lgs 9-1-2006, n.5, ed ulteriormente con il d.lgs. 12-9-2007, n.169.
Oggi la disposizione fallimentare non definisce più chi è “piccolo imprenditore”, ma
semplicemente individua alcuni parametri dimensionali dell’impresa, al di sotto dei quali
l’imprenditore commerciale non fallisce.
Secondo l’attuale disciplina, dunque, non è soggetto al fallimento l’imprenditore che dimostri il
possesso congiunto dei seguenti requisiti:
a) Attivo patrimoniale complessivo annuo < 300.000 euro nei tre esercizi antecedenti la data
di deposito dell’istanza di fallimento
b) Ammontare annui ricavi lordi < 200.000 euro nei tre esercizi antecedenti la data di
deposito dell’istanza di fallimento
c) Debiti (anche non scaduti) < 500.000 euro

Tali valori possono essere aggiornati con cadenza triennale con decreto del Ministro della giustizia
sulla base delle variazioni degli indici Istat dei prezzi al consumo, per adeguarli alla svalutazione
monetaria (art.1, 3° comma).
Basta aver superato anche solo uno degli indicati limiti dimensionali per essere esposto a
fallimento. E la prova del loro rispetto è a carico del debitore.
A differenza che in passato, inoltre, anche le società commerciali possono essere esonerate dal
fallimento, se rispettano i limiti dimensionali sopra indicati.
Chi può essere dichiarato fallito si determina esclusivamente in base ai criteri dimensionali stabiliti
dall’art.1, 2° comma, legge fall. La definizione di piccolo imprenditore che dà il codice civile rileva
invece solo per l’applicazione della restante parte dello statuto dell’imprenditore commerciale
(iscrizione nel registro delle imprese, obbligo di tenuta delle scritture contabili).

3)
L’individuazione del soggetto cui è applicabile la disciplina dell’attività di impresa non solleva
problemi quando gli atti di impresa sono compiuti direttamente dall’interessato o da un terzo che
agisce come suo rappresentante e quindi in nome dello stesso.
Gli effetti degli atti giuridici ricadono sul soggetto e solo sul soggetto il cui nome è stato
validamente speso nel traffico giuridico solo questi, in particolare, è obbligato nei confronti del
terzo contraente.
Nel mandato con rappresentanza, tutti gli effetti degli atti posti in essere dal mandatario in nome
del mandante si producono direttamente nella sfera giuridica di quest’ultimo (art.138). quando il
mandato è senza rappresentanza il mandatario che agisce in proprio nome “acquista i diritti e
assume gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi, anche se questi hanno avuto
conoscenza del mandato. I terzi non hanno alcun rapporto col mandante” (art.1705)
È quindi il principio formale della spendita del nome che domina nel nostro ordinamento
l’imputazione dei singoli atti giuridici e dei loro effetti.
Perciò, quando gli atti di impresa sono compiuti tramite rappresentante, imprenditore diventa il
rappresentato e non il rappresentante.

La qualità di imprenditore si acquista con l’effettivo inizio dell’esercizio dell’attività di imrpesa.


La stessa iscrizione nel registro delle imprese non è condizione né necessaria né sufficiente per
l’attribuzione della qualità di imprenditore commerciale.
Questo principio è pacifico per le persone fisiche. È invece convincimento diffuso che le società
acquisterebbero la qualità di imprenditori fin dal momento della loro costituzione e, quindi, prima
ed indipendentemente dall’effettivo inizio dell’attività produttiva.
È da tener presente poi che l’effettivo inizio dell’attività di impresa è spesso preceduto da una fase
preliminare di organizzazione più o meno lunga e complessa.
Da qui il problema se si diventa imprenditori già durante la fase preliminare di organizzazione e
prima del compimento del primo atto di gestione.
La risposta affermativa è preferibile dato che anche l’attività di organizzazione di una data impresa
è attività indirizzata ad un fine produttivo. Anche gli atti di organizzazione faranno perciò
acquistare la qualità di imprenditore quando manifestano in modo non equivoco lo stabile
orientamento dell’attività verso un determinato fine produttivo (professionalità).
Perciò, un singolo atto di organizzazione non sarà di regola sufficiente perché una persona fisica
diventi imprenditore. Ed anche più atti potrebbero non bastare, se inespressivi o non coordinati
funzionalmente.
La valutazione in fatto può essere invece diversa quando gli stessi atti vengono compiuti da una
società, organismo di durata programmato per lo svolgimento di una determinata attività di
impresa. Anche un solo atto di organizzazione imprenditoriale, soprattutto se particolarmente
qualificato, potrà essere sufficiente per affermare che l’attività di impresa è iniziata. Si pensi, ad
esempio, ad una società alberghiera che acquista un’area fabbricabile.

È da tenere presente che la fine dell’impresa è di regola preceduta da una fase di liquidazione più
o meno lunga, durante la quale l’imprenditore completa i cicli produttivi iniziati, vende le giacenze
di magazzino e gli impianti, licenzia i dipendenti, definisce i rapporti pendenti.
Nessuno dubitava che la fase di liquidazione costituisse ancora esercizio dell’impresa e che perciò
la qualità di imprenditore si perdesse solo con la chiusura della liquidazione. Chiusura che non si
verifica fin quando vengono compiute operazioni intrinsecamente identiche a quelle normalmente
poste in essere durante l’esercizio dell’impresa. La fase liquidativa può ritenersi chiusa solo con la
definitiva disgregazione del complesso aziendale, che rende definitiva ed irrevocabile la
cessazione.
Se l’impresa avesse dovuto ritenersi ancora in vita fin quando sopravvivono passività, l’art.10 legge
fall. Sarebbe stata norma pressoché priva di significato: l’anno per la dichiarazione di fallimento
avrebbe cominciato a decorrere da quando l’insolvenza in pratica non era più possibile essendo
stati soddisfatti quanto meno tutti i creditori di impresa. Risultato questo evidentemente
inaccettabile o meglio, inaccettabile fin quando si trattava di un imprenditore individuale. Per oltre
cinquanta anni le cose sono invece andate in modo del tutto diverso per le imprese societarie.
Per le società, la giurisprudenza era infatti irremovibile nell’affermare che non rilevasse il
momento di effettiva cessazione dell’attività d’impresa, bensì fosse necessaria la cancellazione dal
registro delle imprese ed anche la completa definizione dei rapporti pendenti. In altri termini, la
società, benché cancellata dal registro delle imprese, doveva ritenersi ancora esistente ed esposta
al fallimento, fin quando non fosse stato pagato l’ultimo debito. Una società poteva essere perciò
dichiarata fallita anche a distanza di anni dalla definitiva cessazione di ogni attività di impresa e
dalla cancellazione dal registro delle imprese.
L’art.10 legge fall. Era così di fatto cancellato per le società.
La consulta dapprima dichiarò incostituzionale l’art.10 legge fall. Perché non prevedeva che il
termine annuale decorresse per le società dal momento della cancellazione dal registro;
successivamente, la Corte manifestò l’orientamento che analogo principio dovesse valere anche
per l’imprenditore individuale, facendo però salva in questo caso la possibilità per i creditori di
dimostrare la prosecuzione dell’attività d’impresa anche dopo la cancellazione. Tali interventi sono
stati il preludio alla riforma della norma contestata, che è stata interamente riscritta con il d.lgs. 9-
1-2006, n.5, ed ulteriormente corretta con il d.lgs. 12-9-2007, n.169.
Il nuovo art.10 legge fall. dispone ora che “gli imprenditori individuali e collettivi possono essere
dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l’insolvenza si è
manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo” (1° comma). In caso di
impresa individuale o di cancellazione d’ufficio degli imprenditori collettivi è però fatta salva “la
facoltà per il creditore o per il pubblico ministero di dimostrare il momento dell’effettiva cessazione
dell’attività da cui decorre il termine del primo comma” (2° comma).
A seguito dell’intervento correttivo del 2007, il debitore non piò dimostrare d’aver cessato
l’attività d’impresa prima della cancellazione per anticipare il decorso di tale termine, nemmeno se
si tratti di persona fisica.
Per ragioni di certezza del diritto, si presume infatti che al momento della cancellazione l’attività
d’impresa sia già terminata, ma il creditore o il pubblico ministero sono ammessi a provare il
contrario per ottenere la dichiarazione di fallimento del debitore dopo l’anno dalla cancellazione.

La capacità all’esercizio di attività di impresa si acquista con la piena capacità di agire e quindi al
compimento del diciottesimo anno di età. Si perde in seguito ad interdizione o inabilitazione.
Non costituiscono limitazioni della capacità di agire, ma semplici incompatibilità, i divieti di
esercizio di impresa commerciale posti a carico di coloro che esercitano determinati uffici o
professioni. la violazione di tali divieti non impedisce l’acquisto della qualità di imprenditore
commerciale, ma espone solo a sanzioni amministrative e ad un aggravamento delle sanzioni
penali per bancarotta in caso di fallimento (art.219 legge fall.).

È possibile l’esercizio di attività di impresa per conto di un incapace (minore o interdetto) da parte
dei rispettivi rappresentanti legali, ovvero da parte di soggetti limitatamente capaci di agire, con
l’osservanza delle disposizioni al riguardo dettate.
L’attività commerciale è per sua natura attività rischiosa. Il legislatore considera perciò con sfavore
l’impiego del patrimonio degli incapaci in attività commerciali e stabilisce che in nessun caso è
consentito l’inizio di una nuova impresa commerciale in nome e nell’interesse del minore. Identica
regola è poi dettata per l’interdetto e l’inabilitato.
Salvo che per il minore emancipato, è pertanto consentita solo la continuazione dell’esercizio di
una impresa commerciale preesistente, quando ciò sia utile per l’incapace e purchè la
continuazione sia autorizzata dal tribunale. Infatti in presenza di una impresa già operante è più
agevole valutare i rischi cui l’incapace è esposto e, d’altro canto, la cessazione dell’attività e la
conseguente vendita o affitto dell’azienda potrebbero rappresentare un sicuro e grave danno per
l’incapace stesso.
Intervenuta l’autorizzazione del tribunale alla continuazione dell’esercizio dell’impresa, chi ha la
rappresentanza legale del minore o dell’interdetto può compiere tutti gli atti che rientrano
nell’esercizio dell’impresa, siano essi di ordinaria o di straordinaria amministrazione. La richiesta di
specifica autorizzazione sarà necessaria solo per quegli atti che non sono in rapporto di mezzo a
fine per la gestione dell’impresa.
Quanto all’inabilitato, intervenuta l’autorizzazione alla continuazione, potrà esercitare
personalmente l’impresa, sia pure con l’assistenza del curatore e con il consenso di questi per gli
atti che esulano dall’esercizio dell’impresa.
Diversamente che per gli altri incapaci, il minore emancipato può essere autorizzato dal tribunale
anche ad iniziare una nuova impresa commerciale (art.397).
Con l’autorizzazione il minore emancipato acquista la piena capacità di agire. Può esercitare
l’impresa senza l’assistenza del curatore e può “compiere da solo gli atti che eccedono l’ordinaria
amministrazione anche se estranei all’esercizio dell’impresa” (art.397, 3°comma).
I provvedimenti autorizzativi del tribunale e i provvedimenti di revoca dell’autorizzazione sono
soggetti ad iscrizione nel registro delle imprese (art.2198).
Il beneficiario dell’amministrazione di sostegno conserva invece capacità di agire per tutti gli atti
che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza dell’amministratore di sostegno
(art.409). di conseguenza, egli potrà liberamente iniziare o proseguire un’attività d’impresa senza
assistenza, salvo che il giudice tutelare disponga diversamente nel decreto di nomina
dell’amministratore di sostegno o con successivo decreto motivato (artt. 405 e 410).

4)
L’imprenditore commerciale è destinatario di una peculiare disciplina dell’attività in parte comune
agli altri imprenditori (c.d. statuto generale dell’imprenditore), in parte propria e specifica (c.d.
statuto speciale dell’imprenditore commerciale).

Quanti operano sul mercato ed in primo luogo gli stessi imprenditori avvertono da sempre la
necessità di poter disporre con facilità di informazioni veritiere e non contestabili su fatti e
situazioni delle imprese con cui entrano in contatto.
Per le imprese commerciali e, più in generale, per le imprese societarie questa esigenza è
soddisfatta dallo stesso legislatore con l’introduzione di un sistema di pubblicità legale. È cioè
previsto l’obbligo di rendere di pubblico dominio, secondo forme e modalità predeterminate,
determinati atti o fatti relativi alla vita dell’impresa. In tal modo le relative informazioni non solo
sono rese accessibili ai terzi interessati, ma diventano opponibili a chiunque indipendentemente
dall’effettiva conoscenza.
Il registro delle imprese è lo strumento di pubblicità legale delle imprese commerciali non piccole e
delle società commerciali previsto dal cod. civ. del 1942.
Per oltre cinquant’anni l’istituto è però restato inoperante. L’entrata in funzione del registro delle
imprese era infatti subordinata all’emanazione del relativo regolamento di attuazione, che a lungo
si è fatto attendere.
Durante i lunghi anni dell’attesa un sistema di pubblicità legale operava perciò solo per le società
commerciali.
Sempre in attesa del registro delle imprese, la situazione si era ulteriormente complicata per
l’introduzione di nuove ed ulteriori forme di pubblicità per le società di capitali e per le società
cooperative. Per le prime fu prevista nel 1969 la pubblicazione nel Bollettino ufficiale delle società
per azioni e a responsabilità limitata (Busarl), in aggiunta all’iscrizione nel registro delle imprese.
Per le seconde fu introdotta nel 1973 la pubblicazione nel Bollettino ufficiale delle società
cooperative (Busc), sempre in aggiunta all’iscrizione nel registro delle imprese.
A tutto ciò si aggiunga che ulteriori adempimenti pubblicitari, con valore di pubblicità-notizia,
erano poi previsti da leggi speciali, quali l’iscrizione nel Registro delle ditte, tenuto dalle camere di
commercio.
Dopo numerosi tentativi falliti, la situazione finalmente si sblocca con la legge 29-12-1993, n.580,
contenente norme per il riordino delle camere di commercio. L’art.8 di tale legge ed il relativo
regolamento di attuazione (d.p.r. 7-12-1995, n.581) hanno finalmente istituito il registro delle
imprese, che è divenuto pienamente operante agli inizi del 1997 ponendo così fine al lungo regime
transitorio. Nel contempo ha cessato di esistere il Registro delle ditte e, a partire dal 1° ottobre
1997, sono stati soppressi anche il Busarl ed il Busc.
L’unico strumento di pubblicità legale delle imprese commerciali è perciò oggi costituito dal
registro delle imprese.
La nuova disciplina del registro delle imprese ha tuttavia introdotto alcune novità rispetto al
sistema previsto dal codice del 1942, che possono essere così sintetizzate:
a) L’attuale registro delle imprese. Con la riforma del 1993 è diventato anche strumento di
informazione sui dati organizzativi di tutte le altre imprese. Infatti, l’iscrizione nel registro
delle imprese è stata estesa agli imprenditori agricoli, ai piccoli imprenditori ed alle società
semplici.
b) La tenuta del registro delle imprese è affidata alle camere di commercio
c) Il registro delle imprese è tenuto con tecniche informatiche (e non più in forma cartacea),
in modo da garantire la tempestività dell’informazione su tutto il territorio nazionale.

Il registro delle imprese è istituito in ciascuna provincia presso la camera di commercio.


Il registro è articolato in una sezione ordinaria e varie sezioni speciali.
Nella sezione ordinaria sono iscritti gli imprenditori per i quali l’iscrizione nel registro delle imprese
produce gli effetti di pubblicità legale previsti dal codice civile.
Sono infatti tenuti all’iscrizione nella sezione ordinaria:
1) Gli imprenditori individuali commerciali non piccoli
2) Tutte le società tranne la società semplice, anche se non svolgono attività commerciale
3) I consorzi fra imprenditori con attività esterna
4) I gruppi europei di interesse economico con sede in Italia
5) Gli enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo o principale un’attività commerciale
6) Le società estere che hanno in Italia la sede dell’amministrazione, ovvero l’oggetto
principale della loro attività
Oltre alla sezione ordinaria, il registro delle imprese presenta varie sezioni speciali, il cui numero è
andato via via crescendo in base alle previsioni di leggi speciali:
1) Sezione speciale degli imprenditori agricoli e dei piccoli imprenditori.
2) Sezione speciale delle società tra professionisti.
3) Sezione speciale dei soggetti che esercitano attività di direzione e coordinamento
4) Sezione speciale delle imprese sociali
5) Sezione speciale degli atti di società di capitali in lingua straniera
6) Sezione speciale delle start-up innovative e degli incubatori certificati
7) Sezioni speciale delle piccole e medie imprese innovative (PMI innovative).
I fatti e gli atti da registrare sono specificati da una serie di norme (in particolare gli
artt.2196,2197,2198,2200 e l’art. 18 d.p.r. 581/1995) e sono diversi a seconda della struttura
soggettiva dell’impresa. Rigurdano, essenzialmente, gli elementi di individuazione
dell’imprenditore e dell’impresa nonché la struttura e l’organizzazione delle società.
Sono poi soggette in via di principio a registrazione tutte le modificazioni di elementi già iscritti.
Non è invece consentita l’iscrizione di atti non previsti dalla legge.
Le iscrizioni devono essere fatte nel registro delle imprese della provincia in cui l’impresa ha la
sede e, per agevolare le ricerche da parte dei terzi, negli atti e nella corrispondenza deve essere
indicato il registro presso il quale l’iscrizione è avvenuta (artt.2199 e 2250)
L’iscrizione è eseguita su domanda dell’interessato, ma può avvenire anche di ufficio se l’iscrizione
è obbligatoria e l’interessato non vi provvede (artt. 2190 e 16 d.p.r. 581/1995). E di ufficio può
anche essere disposta la cancellazione di un’iscrizione avvenuta senza che esistano le condizioni
richieste dalla legge (artt. 2192 e 17 d.p.r. 581/1995).
Di ufficio può infine essere disposta la cancellazione di un’impresa che ha definitivamente cessato
l’attività e ciò risulti da una serie di circostanze indicate dalla legge, sia pure con elencazione non
identica per gli imprenditori individuali, le società di persone e le società di capitali (d.p.r. 23-7-
2004, n.247, e art. 2490, 6° comma, cod.civ.).
Prima di procedere all’iscrizione, l’ufficio del registro deve controllare che la documentazione è
formalmente regolare (regolarità formale), nonché l’esistenza e la veridicità dell’atto o del fatto
(regolarità sostanziale).
L’iscrizione è eseguita mediante inserimento dei dati nella memoria dell’elaboratore elettronico e i
dati sono messi a disposizione del pubblico sui terminali per la visione diretta.
L’inosservanza dell’obbligo di registrazione è punita con sanzioni pecuniarie amministrative
(artt.2194, 2626 e 2635), ma non è più motivo di esclusione dal beneficio del concordato
preventivo (art. 160 legge fall.).
L’iscrizione nella sezione ordinaria ha funzione di pubblicità legale; serve cioè non solo a rendere
conoscibili i dati pubblicati, ma ha anche, a seconda dei casi, efficacia dichiarativa, costitutiva o
normativa.
Di regola, l’iscrizione nella sezione ordinaria ha efficacia semplicemente dichiarativa. Rileva cioè
solo sul piano della conoscenza e dell’opponibilità dell’atto o del fatto.
Vale a dire: i fatti e gli atti soggetti ad iscrizione ed iscritti sono opponibili a chiunque e lo sono dal
momento stesso della loro registrazione (c.d. efficacia positiva immediata). Intervenuta la
registrazione, i terzi non potranno eccepire l’ignoranza del fatto o dell’atto iscritto (art.2193, 2°
comma) e qualsiasi prova al riguardo daranno, sarà inutilmente data.
Per le società di capitali l’opponibilità diventa pieno solo dopo quindici giorni dall’iscrizione nel
registro delle imprese e durante tale periodo i terzi sono ammessi a provare di essere stati
nell’impossibilità di aver conoscenza dell’atto iscritto (Art.2448, 2° comma).
L’omessa iscrizione invece impedisce che il fatto possa essere opposto ai terzi (c.d. efficacia
negativa). L’imprenditore che ha omesso la registrazione non è tuttavia senza difesa in quanto gli è
consentito di provare che, nonostante l’omessa registrazione, i terzi hanno avuto ugualmente
conoscenza effettiva del fatto o dell’atto.
Ha efficacia costitutiva totale l’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto costitutivo delle
società di capitali (artt. 2331 e 2463, ult. Comma) e delle società cooperative (art.2523, 2°
comma). Prima della registrazione, la società per azioni non esiste giuridicamente come tale né
per gli aspiranti soci né per i terzi. E lo stesso vale per le altre società di capitali e per le
cooperative.
Ha invece efficacia costitutiva parziale la registrazione della deliberazione di riduzione reale del
capitale sociale di una società in nome collettivo (art.2306). l’omissione impedisce il decorso del
termine di tre mesi entro il quale i creditori possono proporre opposizione e perciò la riduzione del
capitale, anche se attuata, è per loro improduttiva di effetti.
S.n.c. e s.a.s. vengono ad esistenza anche se non registrate, ma la mancata registrazione impedisce
che operi il regime di autonomia patrimoniale proprio di tali società e comporta l’applicazione del
più gravoso (per i soci) regime al riguardo dettato per la s.s. (art.2297 e 2317). La società in tal caso
si definisce irregolare.
L’iscrizione nella sezione speciale del registro non produce invece alcuno degli effetti fin qui
esposti, in quanto ha di regola solo funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia
(art.8, 5° comma, legge 580/1993).
Vale a dire: l’iscrizione consente di prendere conoscenza dell’atto o del fatto iscritto, ma non lo
rende di per sé opponibile ai terzi dovendosi al tal fine sempre provare l’effettiva conoscenza da
parte degli stessi.
Nel sistema della legge 580/1993 era perciò netta la differenza fra imprese soggetto allo statuto
dell’imprenditore commerciale ed altre imprese.
Questa disciplina è stata però di recente modificata per gli imprenditori agricoli anche piccoli e per
le società semplici esercenti attività agricola.
Viene perciò meno la distinzione fra le sezioni introdotte dalla riforma del 1993. Si ritorna al
disordine!

Le scritture contabili sono i documenti che contengono la rappresentazione, in termini quantitativi


e/o monetari, dei singoli atti di impresa, della situazione del patrimonio dell’imprenditore e del
risultato economico dell’attività svolta.
Le scritture contabili contribuiscono a rendere razionale ed efficiente l’organizzazione e la gestione
dell’impresa e perciò sono di regola spontaneamente tenute da qualsiasi imprenditore.
La tenuta delle scritture contabili è tuttavia elevata ad obbligo ed è legislativamente disciplinata
per gli imprenditori che esercitano attività commerciale (art.2214), con esclusione dei piccoli
imprenditori.
Inoltre, le società commerciali (tutte tranne la società semplice) sono obbligate alla tenuta delle
scritture contabili anche se non esercitano attività commerciale. E così pure le “imprese sociali”.
Nella legislazione tributaria l’obbligo di tenuta delle scritture contabili è esteso anche a soggetti
che non sono imprenditori, quali i liberi professionisti.

Le scritture necessarie per un’ordinata contabilità variano a seconda del tipo di attività, delle
dimensioni e dell’articolazione territoriale dell’impresa. Il legislatore ha fatto tesoro di tale
insegnamento ed ha optato per una soluzione di tipo misto fissata dall’art.2214.
La norma pone il principio generale che l’imprenditore deve tenere tutte le scritture contabili “che
siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa”. Stabilisce inoltre che in ogni caso
devono essere tenuti determinati libri contabili: libro giornale e libro degli inventari. Infine, devono
essere ordinatamente conservati, per ciascun affare, gli originali della corrispondenza commerciale
ricevuta e le copie di quella spedita.
Il libro giornale è un registro cronologico-analitico. In esso devono essere indicate “giorno per
giorno le operazioni relative all’esercizio dell’impresa” (art.2216).
Il libro giornale può essere anche articolato in libri parziali in relazione alle articolazioni
dell’impresa.
Il libro degli inventari è invece un registro periodico-sistematico. Deve essere redatto all’inizio
dell’esercizio dell’impresa e successivamente ogni anno.
L’inventario ha la funzione di fornire il quadro della situazione patrimoniale dell’imprenditore.
Deve perciò coontenere l’indicazione e la valutazione delle attività e delle passività
dell’imprenditore, anche estranee all’impresa (art.2217, 1° comma).
L’inventario si chiude “con il bilancio e con il conto dei profitti e delle perdite” (art.2217, 2°
comma); meglio: col bilancio comprensivo dello stato patrimoniale e del conto economico.
Il bilancio è un prospetto contabile riassuntivo dal quale devono risultare “con evidenza e verità” la
situazione complessiva del patrimonio alla fine di ciascun anno, nonché gli utili conseguiti o le
perdite sofferte nel medesimo arco di tempo.
La redazione del bilancio è analiticamente disciplinata in tema di società per azioni (artt.2423-
2425-bis) e l’art.2217, 2° comma, rinvia a questa disciplina. Perciò tutti gli imprenditori debbono
osservare, in quanto compatibili, le disposizioni che disciplinano il bilancio della s.p.a.

Per garantire la veridicità delle scritture contabili ed in particolare per impedire che le stesse siano
successivamente alterate, è imposta l’osservanza di determinate regole formali e sostanziali nella
loro tenuta.
In base all’attuale disciplina, il libro giornale e il libro degli inventari devono essere solo numerati
progressivamente pagina per pagine prima di essere messi in uso. Sono invece state soppresse
dapprima la vidimazione annuale (legge 489/1994) e successivamente anche l’obbligo della
bollatura, foglio per foglio, da parte dell’ufficio del registro delle imprese o di un notaio (art.2215,
nel testo introdotto dalla legge 383/2001).
Tutte le scritture contabili devono essere poi tenute “secondo le norme di una ordinata
contabilità” (art.2219).
È tuttavia consentita la formazione e la conservazione delle scritture contabili con sistemi
informatici (artt.2215-bis e 2220, 3° comma).
L’inosservanza di tali regole rende le scritture irregolari e quindi giuridicamente irrilevanti.
Le scritture contabili e la corrispondenza commerciale devono essere conservate per dieci anni
(art.2220); e la conservazione può avvenire anche su supporti informatici (art.13 d.p.r. 445/2000).
L’imprenditore che non tiene regolarmente le scritture contabili non può utilizzarle come mezzo di
prova a suo favore (art.2720). è inoltre assoggettato alle sanzioni penali per i reati di bancarotta
semplice o fraudolenta in caso di fallimento (artt.216 e 217 legge fall.). L’ordinata tenuta della
contabilità non è più invece requisito di ammissione al concordato preventivo (art.160 legge fall.).
Le scritture contabili, siano o meno regolarmente tenute, possono sempre essere utilizzate dai
terzi come mezzo processuale di prova contro l’imprenditore che le tiene.
Perché l’imprenditore possa utilizzare le proprie scritture contabili come mezzo processuale di
prova contro i terzi è necessario che ricorrano tre condizioni: si deve innanzitutto trattare di
scritture regolarmente tenute; inoltre è ulteriormente necessario che la controparte sia a sua volta
un imprenditore e che la controversia sia relativa a rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa.

Nello svolgimento della propria attività l’imprenditore può avvalersi e di regola si avvale della
collaborazione di altri soggetti.
Il fenomeno della rappresentanza è regolato in via generale dagli artt.1387 ss. Del codice civile. È
però regolato con norme speciali, quando si tratti di atti inerenti all’esercizio di impresa
commerciale posti in essere da alcune figure tipiche di ausiliari interni (institori, procuratori e
commessi), che, per la posizione loro assegnata nell’impresa, sono destinati ad entrare
stabilmente in contatto con i terzi ed a concludere affari per l’imprenditore. Vale al riguardo un
sistema speciale di rappresentanza fissato dagli artt.2203-2213, i cui princìpi ispiratori possono
essere così fissati.

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