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CAPITOLO 1 - L’IMPRENDITORE
Il sistema legislativo
Il legislatore dà una definizione generale dell’imprenditore nell’ art. 2082 cod. civ. Il codice civile distingue
però diversi tipi di imprese e di imprenditori in base a tre criteri:
• Oggetto dell’impresa: determina la distinzione tra imprenditore agricolo e imprenditore commerciale
• Dimensione dell’impresa: in base alla quale è individuato il piccolo imprenditore e l’imprenditore medio-
grande
• Natura del soggetto che esercita l’impresa: determina la tripartizione legislativa tra impresa individuale,
impresa costituita in forma di società ed impresa pubblica.
Tutti gli imprenditori sono assoggettati ad una disciplina base comune, che è lo statuto generale
dell’imprenditore: esso comprende parte della disciplina dell’azienda e dei segni distintivi, la disciplina della
concorrenza e dei consorzi. Applicabile a tutti gli imprenditori è anche la disciplina a tutela della
concorrenza e del mercato introdotta dalla legge 287/1990.
L’attività produttiva
L’impresa è attività produttiva di nuova ricchezza.
Irrilevante è la natura dei beni o servizi prodotti o scambiati ed il tipo di bisogno che essi sono destinati a
soddisfare. È irrilevante inoltre che l’attività produttiva costituisca anche godimento di beni preesistenti;
non è però impresa l’attività di mero godimento, l’attività cioè che non dà luogo alla produzione di nuovi
beni o servizi. È godimento del proprio patrimonio e attività di produzione, l’impiego del proprio danaro
nella compravendita di strumenti finanziari con scopo di investimento e di speculazione, o nella
concessione di finanziamenti a terzi; perciò, gli atti di investimento, di speculazione e di finanziamento,
quando siano coordinati in modo da configurare un’attività, possono dar vita ad impresa se ricorrono gli
ulteriori requisiti dell’organizzazione e della professionalità.
È infine opinione prevalente che la qualità di imprenditore deve essere riconosciuta anche quando l’attività
produttiva svolta è illecita. Ferma restando l’applicazione delle previste sanzioni amministrative e/o penali,
non vi è alcun motivo per sottrarre chi viola la legge alle norme che tutelano i creditori di un imprenditore
commerciale. Vero è soltanto che chi svolge un’attività di impresa violando la legge non potrà avvalersi
delle norme che tutelano l’imprenditore nei confronti dei terzi.
La professionalità
L’ultimo dei requisiti espressamente richiesti dall’art. 2082 è il carattere professionale dell’attività.
Professionalità significa esercizio abituale e non occasionale di una data attività produttiva.
La professionalità non richiede però che l’attività imprenditoriale sia svolta in modo continuato e senza
interruzione. Per le attività stagionali è sufficiente il costante ripetersi di atti di impresa secondo le cadenze
proprie di quel dato tipo di attività.
La professionalità non richiede neppure che quella di impresa sia l’attività unica o principale. È quindi
possibile anche il contemporaneo esercizio di più attività di impresa da parte dello stesso soggetto.
Impresa si può, infine, avere anche quando si opera per il compimento di un “unico affare”, se questo
comporta il compimento di operazioni molteplici e l’utilizzo di un apparato produttivo complesso.
Se è vero che di regola le imprese operano per il mercato (destinano cioè allo scambio i beni o servizi
prodotti), non può senz’altro escludersi che imprenditore può essere qualificato anche chi produce beni o
servizi destinati ad uso o consumo personale (c.d. impresa per conto proprio). La destinazione al mercato
della produzione non è infatti richiesta da alcun dato legislativo.
Il codice civile individua la figura del piccolo imprenditore, contrapponendola a quella dell’imprenditore
medio-grande.
Il piccolo imprenditore è sottoposto allo statuto generale dell’imprenditore. È invece esonerato, anche se
esercita attività commerciale, dalla tenuta delle scritture contabili e dall’assoggettamento al fallimento e
alle altre procedure concorsuali. Inoltre, l’iscrizione nel registro delle imprese non ha funzione di pubblicità
legale.
Nel contempo, la piccola impresa o determinate figure di piccole imprese sono destinatarie di una ricca
legislazione speciale ispirata dalla finalità di favorirne la sopravvivenza e lo sviluppo attraverso molteplici
agevolazioni finanziarie, lavoristiche e tributarie.
parametri dimensionali dell’impresa, al di sotto dei quali l’imprenditore commerciale non fallisce.
L’intervento correttivo del 2007 ha inoltre cercato di definire meglio le soglie dimensionali rilevanti.
In base all’attuale disciplina, dunque, non è soggetto a fallimento l’imprenditore commerciale che dimostri
il possesso congiunto dei seguenti requisiti:
• Aver avuto nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento, un attivo
patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore a trecentomila euro
• Aver realizzato nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento, ricavi lordi per
un ammontare complessivo annuo non superiore a duecentomila euro
• Avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore a cinquecentomila euro.
Tali valori possono essere aggiornati con cadenza triennale con decreto del Ministro della giustizia sulla
base delle variazioni degli indici Istat dei prezzi al consumo, per adeguarli alla svalutazione monetaria.
Basta aver superato anche solo uno degli indicati limiti dimensionali per essere esposto al fallimento.
Inoltre, anche le società commerciali possono essere esonerate dal fallimento, se rispettano i limiti
dimensionali sopra indicati.
L’impresa societaria
Le società sono le forme associative tipiche previste dall’ordinamento per l’esercizio collettivo di attività
d’impresa. Esistono diversi tipi di società: la società semplice è utilizzabile solo per l’esercizio di attività non
commerciale, mentre la società commerciale può svolgere sia attività agricola sia attività commerciale (art.
2249).
Parte della disciplina propria dell’imprenditore commerciale si applica alle società commerciali qualunque
sia l’attività svolta. Il principio è espressamente enunciato per l’obbligo di iscrizione nel registro delle
imprese, ma deve ritenersi valido anche per la tenuta delle scritture contabili. Resta fermo l’esonero delle
società commerciali che gestiscono un’impresa agricola dal fallimento e dalle altre procedure concorsuali.
Le società commerciali che esercitano impresa commerciale sono esonerate dal fallimento se non superano
le soglie dimensionali di fallibilità fissate dall’art. 1, 2° comma, legge fall.
Nelle società in nome collettivo e in accomandita semplice parte della disciplina dell’imprenditore
commerciale trova applicazione solo o anche nei confronti dei soci a responsabilità illimitata: tutti i soci
nella società in nome collettivo; i soci accomandatari nella società in accomandita semplice.
Trova applicazione anche nei confronti dei soci la sanzione del fallimento, in quanto il fallimento della
società comporta automaticamente il fallimento dei singoli soci a responsabilità illimitata. Tale regola opera
anche per il socio accomandatario di società in accomandita per azioni.
Le imprese pubbliche
Attività di impresa può essere svolta anche dallo Stato e dagli altri enti pubblici.
È rilevante distinguere fra tre possibili forme di intervento dei pubblici poteri nel settore dell’economia:
• Lo Stato e gli altri enti pubblici possono innanzitutto svolgere attività di impresa servendosi di strutture
di diritto privato, attraverso la costituzione o la partecipazione in società, generalmente per azioni. La
partecipazione può essere totalitaria, di maggioranza o di minoranza. Quando un soggetto pubblico
esercita attività di impresa in forma societaria, l’impresa si presente formalmente come un’impresa
societaria
• La pubblica amministrazione può altresì dar vita ad enti di diritto pubblico il cui compito istituzionale
esclusivo o principale è l’esercizio di attività di impresa: questi sono i cosiddetti enti pubblici economici.
Gli enti pubblici economici sono sottoposti allo statuto dell’imprenditore e, se l’attività è commerciale,
allo statuto proprio dell’imprenditore commerciale, con la sola eccezione dell’esonero dal fallimento e
dalle procedure concorsuali minori (sostituiti però dalla liquidazione coatta amministrativa o da altre
procedure previste in leggi speciali)
• Lo Stato o altro ente pubblico territoriale possono infine svolgere direttamente attività di impresa
avvalendosi di proprie strutture organizzative prive di distinta soggettività, ma dotate di una più o
meno ampia autonomia decisionale e contabile. In questi casi l’attività di impresa è per definizione
secondaria ed accessoria rispetto ai fini istituzionali dell’ente pubblico: si parla perciò di imprese-
organo. L’art. 2093 dispone che nei confronti degli enti titolari di imprese-organo si applica la disciplina
generale dell’impresa e quella propria dell’imprenditore commerciale, stabilendo però che “sono salve
le diverse disposizioni di legge”: gli enti titolari di imprese-organo sono esonerati dall’iscrizione nel
registro delle imprese e dalle procedure concorsuali. Ne consegue che gli enti pubblici che svolgono
attività commerciale accessoria sono sottoposti allo statuto generale dell’imprenditore, nonché a tutte
le restanti norme previste per gli imprenditori commerciali, e all’obbligo di tenuta delle scritture
contabili.
A partire dal 1990, con una serie di interventi legislativi, quasi tutti gli enti pubblici economici sono stati
trasformati in società per azioni a partecipazione statale (c.d. privatizzazione formale). Inoltre, in tempi più
recenti è stata avviata la dismissione delle partecipazioni pubbliche di controllo (c.d. privatizzazione
sostanziale).
L’inizio dell’impresa
La qualità di imprenditore di acquista con l’effettivo inizio dell’esercizio dell’attività di impresa. Non è
invece sufficiente l’intenzione di dare inizio all’attività, anche se manifestata con la richiesta delle eventuali
autorizzazioni amministrative necessarie o con l’iscrizione in albi o registri.
È invece convincimento diffuso che le società acquisterebbero la qualità di imprenditori fin dal momento
della loro costituzione e, quindi, prima ed indipendentemente dall’effettivo inizio dell’attività produttiva. Se
è vero che lo scopo tipico di una società è l’esercizio di attività di impresa, e può essere anche vero che le
per le società non è necessario uno specifico accertamento dei requisiti dell’organizzazione e della
professionalità richiesti dall’art. 2082, è altrettanto vero che la costituzione di una società vale come
semplice manifestazione dell’intenzione di dar vita ad attività di impresa, e tale resta fin quando non si dia
inizio all’effettivo esercizio. Il principio dell’effettività, perciò, può e deve trovare applicazione anche per le
società.
L’effettivo inizio dell’attività di impresa è spesso preceduto da una fase preliminare di organizzazione più o
meno lunga e complessa: si diventa imprenditori già durante la fase preliminare di organizzazione, dato che
anche l’attività di organizzazione di una data impresa è attività indirizzata ad un fine produttivo. Anche gli
atti di organizzazione faranno perciò acquistare la qualità di imprenditore quando, per il loro numero e/o
per la loro significatività, manifestano in modo non equivoco lo stabile orientamento dell’attività verso un
determinato fine produttivo (professionalità).
La valutazione in fatto può essere invece diversa quando gli stessi atti vengano compiuti da una società:
anche un solo atto di organizzazione imprenditoriale potrà essere sufficiente per affermare che l’attività di
impresa è iniziata.
La fine dell’impresa
In passato l’esatta determinazione del giorno di cessazione dell’attività di impresa aveva particolare rilievo
per l’imprenditore commerciale ai fini dell’applicazione dell’art. 10 legge fall., che, nella versione originaria,
disponeva che l’imprenditore commerciale poteva essere dichiarato fallito “entro un anno dalla cessazione
dell’impresa”.
Per quanto riguarda l’imprenditore individuale, la giurisprudenza affermava che la fine dell’impresa era
dominata dal principio di effettività: la qualità di imprenditore si perdeva solo con l’effettiva cessazione
dell’attività. La fine dell’impresa è di regola preceduta da una fase di liquidazione più o meno lunga, che
può ritenersi chiusa solo con la definitiva disgregazione del complesso aziendale, che rende definitiva e
irrevocabile la cessazione. Ma per l’imprenditore individuale la giurisprudenza riconosceva che non era
necessaria la completa definizione dei rapporti sorti durante l’esercizio dell’impresa; non era necessario,
cioè, che fossero stati riscossi tutti i crediti e pagati tutti i debiti relativi. Se l’impresa dovesse ritenersi
ancora in vita fin quando sopravvivono passività, l’art. 10 legge fall. sarebbe stata norma pressoché priva di
significato: l’anno per la dichiarazione di fallimento avrebbe cominciato a decorrere da quando l’insolvenza
in pratica non era più possibile, essendo stati soddisfatti quanto meno tutti i creditori di impresa; risultato,
questo, inaccettabile fin quando si trattava di un imprenditore individuale.
Per le società, la giurisprudenza affermava che non rilevasse il momento di effettiva cessazione dell’attività
di impresa, bensì fosse necessaria la cancellazione dal registro delle imprese ed anche la completa
definizione dei rapporti pendenti. Una società poteva perciò essere dichiarata fallita anche a distanza di
anni dalla definitiva cessazione di ogni attività di impresa e dalla cancellazione dal registro delle imprese:
l’art. 10 legge fall. era così di fatto cancellato per le società.
La Corte Costituzionale ha dapprima dichiarato incostituzionale l’art. 10 legge fall. perché non prevedeva
che il termine annuale decorresse per le società dal momento della cancellazione dal registro;
successivamente, ha manifestato l’orientamento che analogo principio dovesse valere anche per
l’imprenditore individuale, facendo però salva in questo caso la possibilità per i creditori di dimostrare la
prosecuzione dell’attività di impresa anche dopo la cancellazione.
Il nuovo art. 10 legge fall. dispone ora che “gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati
falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l’insolvenza si è manifestata
anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo”. In caso di impresa individuale o di cancellazione
d’ufficio degli imprenditori collettivi è però fatta salva “la facoltà per il creditore o per il pubblico ministero
di dimostrare il momento dell’effettiva cessazione dell’attività da cui decorre il termine del primo comma”.
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Oggi la cancellazione dal registro delle imprese è condizione necessaria affinché l’imprenditore individuale
o collettivo benefici del termine annuale per la dichiarazione di fallimento: a seguito dell’intervento
correttivo del 2007, il debitore non può dimostrare d’aver cessato l’attività di impresa prima della
cancellazione per anticipare il decorso di tale termine.
Per gli imprenditori persone fisiche e per le società cancellate d’ufficio, la cancellazione dal registro delle
imprese si deve accompagnare anche all’effettiva cessazione dell’attività d’impresa, mediante la
disgregazione del complesso aziendale, altrimenti il termine annuale non decorre. Per ragioni di certezza
del diritto, si presume che al momento della cancellazione l’attività di impresa sia già terminata, ma il
creditore o il pubblico ministero sono ammessi a provare il contrario per ottenere la dichiarazione di
fallimento del debitore dopo l’anno dalla cancellazione stessa.
A. LA PUBBLICITÀ LEGALE
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regime transitorio. Nel contempo ha cessato di esistere il Registro delle ditte e, a partire dal 1° ottobre
1997, sono stati soppressi anche il Busarl ed il Busc.
L’unico strumento di pubblicità legale delle imprese commerciali è perciò oggi costituito dal registro delle
imprese. La nuova disciplina ha tuttavia introdotto alcune novità rispetto al sistema previsto dal codice del
1942:
• L’attuale registro delle imprese non è solo strumento di pubblicità legale delle imprese commerciali,
ma, con la riforma del 1993, è diventato anche strumento di informazione sui dati organizzativi di tutte
le altre imprese
• La tenuta del registro delle imprese è affidata alle camere di commercio
• Il registro delle imprese è tenuto con tecniche informatiche, in modo da garantire la tempestività
dell’informazione su tutto il territorio nazionale.
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disposta la cancellazione di un’impresa che ha definitivamente cessato l’attività e ciò risulti da una serie di
circostanze indicate dalla legge.
Prima di procedere all’iscrizione, l’ufficio del registro delle imprese deve controllare che la documentazione
sia formalmente regolare (regolarità formale), nonché l’esistenza e la veridicità dell’atto o del fatto
(regolarità sostanziale). L’ufficio non può invece rilevare eventuali cause di nullità o annullabilità dell’atto.
L’inosservanza dell’obbligo di registrazione è punita con sanzioni pecuniarie amministrative.
Per quanto riguarda gli effetti dell’iscrizione, è necessario distinguere fra l’iscrizione nella sezione ordinaria
e quella nella sezione speciale.
Di regola, l’iscrizione nella sezione ordinaria ha efficacia semplicemente dichiarativa: i fatti e gli atti soggetti
ad iscrizione ed iscritti sono opponibili a chiunque e lo sono dal momento stesso della loro registrazione
(c.d. efficacia positiva immediata); per le società di capitali, l’opponibilità diventa piena solo dopo quindici
giorni dall’iscrizione nel registro delle imprese e durante tale periodo i terzi sono ammessi a provare di
essere stati nell’impossibilità di avere conoscenza dell’atto iscritto. L’omessa iscrizione invece impedisce
che il fatto possa essere opposto ai terzi (c.d. efficacia negativa), ma l’imprenditore che ha omesso la
registrazione può provare che i terzi hanno avuto ugualmente conoscenza effettiva del fatto o dell’atto.
In alcune ipotesi, tassativamente previste, l’iscrizione produce effetti ulteriori e più rilevanti.
Ha efficacia costitutiva totale l’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto costitutivo delle società di
capitali e delle società cooperative.
Ha invece efficacia costitutiva parziale la registrazione della deliberazione di riduzione reale del capitale
sociale di una società in nome collettivo.
In altri casi, infine, l’iscrizione è presupposto per la piena applicazione di un determinato regime giuridico; è
questo il caso della società in nome collettivo e della società in accomandita semplice: tali società vengono
a esistenza anche se non sono registrate, ma la mancata registrazione impedisce che operi il regime di
autonomia patrimoniale proprio di tali società e comporta l’applicazione del più gravoso regime previsto
per la società semplice. La società in tal caso si definisce irregolare.
L’iscrizione nella sezione speciale del registro ha di regola solo funzione di certificazione anagrafica e di
pubblicità notizia.
Questa disciplina è stata però di recente modificata per gli imprenditori agricoli anche piccoli e per le
società semplici esercenti attività agricola: per tali categorie di imprenditori l’iscrizione nella sezione
speciale ha anche efficacia di pubblicità legale.
B. LE SCRITTURE CONTABILI
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Le scritture contabili, siano o meno regolarmente tenute, possono sempre essere utilizzate dai terzi come
mezzo processuale di prova contro l’imprenditore che le tiene. Il terzo che vuole trarre vantaggio dalle
scritture contabili di un imprenditore non può però scinderne il contenuto. L’imprenditore potrà inoltre
dimostrare con qualsiasi mezzo che le proprie scritture non rispondono a verità.
Perché l’imprenditore possa utilizzare le proprie scritture contabili come mezzo processuale di prova contro
i terzi è necessario che ricorrano tre condizioni:
o Si deve innanzitutto trattare di scritture regolarmente tenute
o È ulteriormente necessario che la controparte sia a sua volta imprenditore
o È necessario che la controversia sia relativa a rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa
In ogni caso è rimesso all’apprezzamento del giudice riconoscere valore probatorio alle scritture contabili.
C. LA RAPPRESENTANZA COMMERCIALE
L’institore
È institore colui che è preposto dal titolare all’esercizio dell’impresa o di una sede secondaria o di un ramo
particolare della stessa (art. 2203).
L’institore è di regola un lavoratore subordinato con la qualifica di dirigente, posto al vertice (assoluto o
relativo) della gerarchia del personale.
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È possibile che più institori siano preposti contemporaneamente all’esercizio dell’impresa: in tal caso essi
agiranno disgiuntamente se nella “procura” non è diversamente previsto.
Tale posizione comporta innanzitutto che l’institore è tenuto, congiuntamente con l’imprenditore,
all’adempimento degli obblighi di iscrizione nel registro delle imprese e di tenuta delle scritture contabili
dell’impresa o della sede cui è preposto. In caso di fallimento dell’imprenditore troveranno applicazione nei
confronti dell’institore le sanzioni penali a carico del fallito.
All’institore è attribuito un generale potere di rappresentanza, sia sostanziale che processuale.
Per quanto riguarda la rappresentanza sostanziale, l’institore può compiere in nome dell’imprenditore
“tutti gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa” o della sede o del ramo cui è preposto. L’institore non può
invece compiere atti che esorbitano dall’esercizio dell’impresa e gli è espressamente vietato di alienare o
ipotecare i beni immobili del preponente, se non è stato a ciò specificatamente autorizzato.
Per quanto riguarda la rappresentanza processuale, l’institore può stare in giudizio, sia come attore
(rappresentanza processuale attiva), sia come convenuto (rappresentanza processuale passiva) per “le
obbligazioni dipendenti da atti compiuti nell’esercizio dell’impresa a cui è preposto”.
I poteri rappresentativi dell’institore determinati in via legislativa possono essere ampliati o limitati
dall’imprenditore, sia all’atto della preposizione sia in un momento successivo; le limitazioni saranno però
opponibili ai terzi solo se siano state pubblicate nel registro delle imprese, salva la prova da parte
dell’imprenditore che i terzi effettivamente conoscevano l’esistenza di limitazioni al momento della
conclusione dell’affare. Allo stesso modo, la revoca della procura è opponibile ai terzi solo se pubblicata o
se l’imprenditore prova la loro effettiva conoscenza.
L’institore deve rendere palese, al terzo con cui contratta, la sua veste, spendendo il nome del
rappresentato. L’institore è personalmente obbligato se omette di far conoscere al terzo che egli tratta per
il preponente; tuttavia, personalmente obbligato è anche il preponente, quando gli atti compiuti
dall’institore “siano pertinenti all’esercizio dell’impresa a cui è preposto”.
I procuratori
I procuratori sono coloro che “in base ad un rapporto continuativo, abbiano il potere di compiere per
l’imprenditore gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa, pur non essendo preposti ad esso” (art. 2209).
I procuratori sono quindi degli ausiliari subordinati di grado inferiore all’institore, in quanto, a differenza di
questo:
o Non sono posti in capo all’impresa o di un ramo o di una sede secondaria
o Il loro potere decisionale è circoscritto ad un determinato settore operativo dell’impresa.
In mancanza di specifiche limitazioni iscritte nel registro delle imprese, i procuratori sono ex lege investiti di
un potere di rappresentanza generale dell’imprenditore, limitato però alla specie di operazioni per le quali
essi sono stati investiti di autonomo potere decisionale.
Inoltre il procuratore:
o Non ha la rappresentanza processuale dell’imprenditore, neppure per gli atti da lui posti in essere
o Non è soggetto agli obblighi di iscrizione nel registro delle imprese o di tenuta delle scritture contabili.
Infine, l’imprenditore non risponde per gli atti, pur pertinenti all’esercizio dell’impresa, compiuti da un
procuratore senza spendita del nome dell’imprenditore stesso.
I commessi
I commessi sono ausiliari subordinati cui sono affidate mansioni esecutive o materiali che li pongono in
contatto con i terzi.
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CAPITOLO 5 - L’AZIENDA
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Per aversi trasferimento di azienda non è necessario che l’atto di disposizione comprenda l’intero
complesso aziendale. In particolare, la disciplina del trasferimento di azienda è applicabile anche quando
l’imprenditore trasferisca un ramo particolare della sua azienda, purché dotato di organicità operativa.
Infatti, è necessario, ma al tempo stesso sufficiente, che sia trasferito un insieme di beni potenzialmente
idoneo ad essere utilizzato per l’esercizio di una determinata attività di impresa, e ciò anche quando il
nuovo titolare debba integrare il complesso con ulteriori fattori produttivi per farlo funzionare. È però
necessario che i veni esclusi dal trasferimento non alterino l’unità economica e funzionale di quella data
azienda.
Le forme da osservare nel trasferimento dell’azienda sono fissate dall’art. 2556: al riguardo è operata una
netta distinzione tra:
o Forma necessaria per la validità del trasferimento: i contratti che hanno per oggetto il trasferimento
della proprietà o la concessione in godimento dell’azienda sono validi solo se stipulati con l’osservanza
“delle forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda o per la
particolare natura del contratto”. Manca quindi un’autonoma ed unitaria legge di circolazione
dell’azienda e il trasferimento di ciascun bene aziendale segue il regime dettato in via generale.
o Forma richiesta ai fini probatori: solo per le imprese soggette a registrazione con effetti di pubblicità
legale è previsto che ogni atto di disposizione dell’azienda deve essere provato per iscritto
o Forma richiesta per l’opponibilità ai terzi: per tutte le imprese soggette a registrazione è oggi prescritto
che i relativi contratti di trasferimento devono essere iscritti nel registro delle imprese nel termine di
trenta giorni; per ottenere l’iscrizione è necessario che il contratto sia redatto per atto pubblico o
scrittura privata autenticata. Solo l’iscrizione nella sezione ordinaria produce gli effetti di pubblicità
legale.
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• Vendita dell’intera partecipazione sociale o di una partecipazione sociale di controllo in una società di
persone o di capitali.
È indubbio che in sede di divisione ereditaria o nello stabilire la quota di liquidazione spettante a ciascun
socio si tiene di regola conto anche del valore di avviamento dovuto alla clientela; non è perciò senza
fondamento l’applicazione del divieto di concorrenza favore dell’erede o del socio che subentra
nell’azienda ed a carico degli altri eredi o degli altri soci.
È indubbio altresì che la vendita dell’intero pacchetto azionario o di una partecipazione di controllo
permettono di raggiungere un risultato economico sostanzialmente coincidente con la vendita dell’azienda,
sicché non appare infondato assoggettare al divieto di concorrenza il socio alienante quando, per la
posizione rivestita nell’impresa sociale, possa dar inizio ad attività idonea a determinare uno sviamento
della clientela.
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Limitata è la deroga introdotta per i crediti aziendali dall’art. 2559: la notifica al debitore ceduto o
l’accettazione da parte di questi è sostituita dall’iscrizione del trasferimento dell’azienda nel registro delle
imprese; da tale momento la cessione dei crediti relativi all’azienda ceduta ha effetto nei confronti dei terzi,
anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione. Tuttavia, “il debitore ceduto è liberato se
paga in buona fede all’alienante”. Questa disciplina è circoscritta alle imprese soggette a registrazione con
effetti di pubblicità legale; negli altri casi trova invece applicazione la disciplina generale della cessione dei
crediti.
Per quanto riguarda i debiti inerenti all’azienda ceduta sorti prima del trasferimento, è mantenuto fermo il
principio per cui non è ammesso il mutamento del debitore senza il consenso del creditore; ed infatti
l’alienante non è liberato da tali debiti se non risulta che i creditori vi hanno consentito (art. 2560). È invece
derogato, per le sole aziende commerciali, l’altro principio secondo cui ciascuno risponde solo delle
obbligazioni da lui assunte; è infatti previsto che “nel trasferimento di un’azienda commerciale risponde dei
debiti suddetti anche l’acquirente dell’azienda, se essi risultano dai libri contabili obbligatori”. Perciò
l’acquirente di un’azienda commerciale risponde in solido con l’alienante nei confronti dei creditori che non
abbiano consentito alla liberazione di quest’ultimo.
Disciplina diversa e più favorevole per i lavoratori è invece prevista per i debiti di lavoro: di questi
l’acquirente dell’azienda risponde, in solido con l’alienante, anche se non risultano dalle scritture contabili e
anche se l’acquirente non ne ha avuto conoscenza all’atto del trasferimento. La responsabilità grava anche
sull’acquirente di un’azienda o di un ramo di azienda non commerciale.
concorrenti: il titolare di un segno distintivo non può perciò impedire che altri adotti il medesimo segno
distintivo quando, per la diversità delle attività di impresa o per la diversità dei mercati serviti, non vi è
pericolo di confusione e di sviamento della clientela
• L’imprenditore può trasferire ad altri i propri segni distintivi; ma l’ordinamento tende ad evitare che la
circolazione dei segni distintivi possa trarre in inganno il pubblico.
A. LA DITTA
B. IL MARCHIO
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Il marchio nazionale è regolato dagli artt. 2569-2574 c.c. e dal codice della proprietà industriale. La
disciplina dei marchi è stata più volte modificata in attuazione di direttive comunitarie di armonizzazione e
di accordi internazionali in materia.
Al marchio nazionale si è di recente affiancato il marchio comunitario: la relativa disciplina consente di
ottenere un marchio che produce gli stessi effetti in tutta l’Unione europea.
La tutela internazionale del marchio è infine disciplinata da due convenzioni, che consentono di
semplificare le procedure per accedere alla tutela del marchio nei singoli Stati aderenti secondo le
rispettive discipline nazionali.
Tali normative, imperniate sull’istituto della registrazione (nazionale, comunitaria o internazionale) del
marchio, riconoscono al titolare del marchio, rispondente a determinati requisiti di validità, il diritto all’uso
esclusivo dello stesso, così permettendo che il marchio assolva la sua funzione di identificazione e
differenziazione dei prodotti similari esistenti sul mercato.
Il marchio non è un segno distintivo essenziale, ma è certamente il più importante dei segni distintivi per il
ruolo che assolve nella moderna economia industriale. Al marchio gli imprenditori affidano infatti la
funzione di differenziare i propri prodotti da quelli dei concorrenti; il pubblico è così messo in grado di
riconoscere con facilità i prodotti provenienti da una determinata fonte di produzione, orientando
consapevolmente le proprie scelte. Il marchio costituisce perciò il principale simbolo di collegamento fra
produttori e consumatori e svolge un ruolo centrale nella formazione e mantenimento della clientela.
I tipi di marchio
I marchi possono essere classificati e raggruppati secondo diversi criteri.
Una prima distinzione si basa sulla natura dell’attività svolta dal titolare del marchio. Del marchio può
servirsi innanzitutto il fabbricatore del prodotto. I beni che subiscono successive fasi di lavorazione o
risultano dall’assemblaggio di parti distintamente prodotte possono presentare anche più marchi di
fabbrica. Inoltre il marchio può essere apposto anche dal commerciante, sia esso un distributore
intermedio o il rivenditore finale. Su uno stesso prodotto possono perciò coesistere più marchi; il
rivenditore non può però sopprimere il marchio del produttore.
Il marchio può essere utilizzato anche da imprese che producono servizi: la forma tipica di uso di tali marchi
è quella pubblicitaria.
L’imprenditore può utilizzare un solo marchio per tutti i propri prodotti (marchio generale), ma può anche
servirsi di più marchi, quando vuole differenziare diversi prodotti della propria impresa o anche tipi diversi
dello stesso prodotto per sottolineare ai consumatori le relative diversità qualitative (marchi speciali). È
altresì possibile l’uso contemporaneo di un marchio generale e di più marchi speciali, quando si vuole
evidenziare al tempo stesso l’unità della fonte di produzione e la diversità dei prodotti.
Il marchio può essere costituito solo da parole (marchio denominativo) e può coincidere con la stessa ditta
o il nome civile dell’imprenditore. Inoltre può essere costituito, anche o esclusivamente, da figure, lettere,
cifre, disegni o colori (marchio figurativo) ed anche da suoni.
Il marchio può essere costituito anche dalla forma del prodotto o dalla confezione dello stesso (marchio di
forma o tridimensionale); si deve trattare però di una forma “arbitraria” o “capricciosa”, la cui funzione
esclusiva sia cioè quella di consentire l’individuazione del prodotto. Non possono perciò essere registrate
come marchi le forme imposte dalla natura stessa del prodotto e quelle che danno un valore sostanziale al
prodotto.
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Un tipo particolare di marchio è, infine, il marchio collettivo: titolare del marchio collettivo è un soggetto
che svolge “la funzione di garantire l’origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi”. Tale
marchio non viene utilizzato dall’ente che ne ha ottenuto la registrazione, ma concesso in uso a produttori
o commercianti consociati, che si impegnano, a loro volta, a rispettare nella loro attività le norme statutarie
fissate dall’ente e a consentire i relativi controlli.
Il marchio registrato
Il titolare di un marchio, rispondente ai requisiti di validità, ha diritto all’uso esclusivo del marchio prescelto.
Il contenuto del diritto sul marchio e la relativa tutela sono però sensibilmente diversi a seconda che il
marchio sia stato o meno registrato presso l’ufficio italiano brevetti e marchi. Inoltre, per gli stessi marchi
registrati la disciplina è oggi parzialmente diversa a seconda che si tratti di marchi ordinari o di marchi
celebri.
La registrazione del marchio attribuisce al titolare del marchio il diritto all’uso esclusivo dello stesso su tutto
il territorio nazionale, quale che sia l’effettiva diffusione territoriale dei suoi prodotti. Il diritto di esclusiva
sul marchio registrato copre poi non solo i prodotti identici, ma anche quelli affini qualora possa
determinarsi un rischio di confusione per il pubblico; vale a dire, tutti i prodotti in fatto destinati alla stessa
clientela o al soddisfacimento di bisogni identici o complementari. La tutela del marchio registrato non
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impedisce però, di regola, che altro imprenditore registri o usi lo stesso marchio per prodotti del tutto
diversi.
I marchi celebri sono marchi dotati di forte capacità attrattiva e suggestiva. L’uso di tali marchi da parte di
altri imprenditori, anche per merci del tutto diverse, oltre a costituire “usurpazione” dell’altrui fama, può
facilmente determinare equivoci sulla reale fonte di produzione. Con la riforma del 1992 la tutela dei
marchi celebri è stata svincolata dal criterio dell’affinità merceologica: oggi, il titolare di un marchio
registrato che gode dello Stato di rinomanza può vietare a terzi di usare un marchio identico o simile al
proprio anche per prodotti o servizi non affini, quando tale uso “consente di trarre indebitamente vantaggio
dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi”.
Il diritto di esclusiva sul marchio registrato decorre dalla data di presentazione della relativa domanda
all’Ufficio brevetti.
La registrazione nazionale è poi presupposto per poter estendere la tutela del marchio in ambito
internazionale, attraverso la successiva registrazione presso l’Organizzazione Mondiale per la Proprietà
Industriale di Ginevra (OMPI).
Per il marchio comunitario la registrazione è invece effettuata presso l’Ufficio per l’armonizzazione del
Mercato interno (UAMI) di Alicante.
La registrazione nazionale dura dieci anni ed è rinnovabile per un numero illimitato di volte, sempre con
efficacia decennale. La registrazione assicura perciò una tutela pressoché perpetua, salvo che non sia
successivamente dichiarata la nullità del marchio, o non sopravvenga una causa di decadenza, come il
mancato utilizzo del marchio per cinque anni.
In particolare, costituisce causa di decadenza la volgarizzazione del marchio: il fatto cioè che lo stesso è
divenuto nel commercio denominazione generica di quel dato prodotti, così perdendo la propria capacità
distintiva.
Il marchio registrato è tutelato civilmente e penalmente; in particolare, il titolare del marchio, il cui diritto
di esclusiva sia stato leso da un concorrente, può promuovere contro questi l’azione di contraffazione, volta
ad ottenere l’inibitoria alla continuazione degli atti lesivi del proprio diritto e la rimozione degli effetti degli
stessi, attraverso la distruzione delle cose materiali per mezzo delle quali è stata attuata la contraffazione.
Resta fermo il diritto del titolare del marchio al risarcimento dei danni se sussiste dolo o colpa del
contraffattore.
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concesso in licenza, per tutti o per parte dei prodotti per i quali è stato registrato, senza che sia necessario il
contemporaneo trasferimento dell’azienda o del corrispondente ramo produttivo.
La novità più significativa è però costituita dall’espresso riconoscimento dell’ammissibilità della licenza di
marchio non esclusiva: è cioè consentito che lo stesso marchio sia contemporaneamente utilizzato del
titolare originario e da uno o più concessionari, sia per la totalità sia per una parte dei prodotti per i quali il
marchio è stato registrato. Il legislatore si preoccupa però do prevenire e reprimere i pericoli di inganno per
il pubblico cui può dar luogo la libera circolazione del marchio e soprattutto la licenza non esclusiva,
utilizzata in particolare per lo sfruttamento economico dei marchi celebri attraverso i contratti di
franchising e di merchandising: è al riguardo fissato il principio cardine che dal trasferimento o dalla licenza
del marchio non deve derivare inganno nei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali
nell’apprezzamento al pubblico. La licenza non esclusiva è inoltre subordinata all’ulteriore condizione che il
licenziatario di obblighi ad utilizzare il marchio per prodotti con caratteristiche qualitative uguali a quelle
dei corrispondenti prodotti messi in commercio dal concedente o dagli altri licenziatari.
La violazione di tali regole espone alla sanzione della decadenza del marchio.
C. L’INSEGNA
Nozione e disciplina
L’insegna contraddistingue i locali dell’impresa o, secondo una più ampia concezione, l’intero complesso
aziendale.
L’insegna, disciplinata dall’art. 2568 c.c., non può essere uguale o simile a quella già utilizzata da altro
imprenditore concorrente, con conseguente obbligo di differenziazione qualora possa ingenerare
confusione nel pubblico.
L’insegna dovrà poi essere lecita; non dovrà contenere indicazioni idonee a trarre in inganno il pubblico
circa l’attività o i prodotti; dovrà avere sufficiente capacità distintiva. Non è quindi tutelato contro l’altrui
imitazione chi adotti come insegna indicazioni generiche, salvo che non derivi dalla composizione grafica
e/o dai colori utilizzati; in tal caso si potrà ottenere solo la modificazione di tali elementi.
È pacifico che il diritto sull’insegna può essere trasferito. Deve ritenersi senz’altro lecita anche la licenza
non esclusiva ed il conseguente couso della stessa insegna da parte di più imprenditori collegati.
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Riduzione numerica ed accrescimento delle dimensioni delle imprese possono costituire talvolta strumento
indispensabile per ridurre i costi e per evitare eccessi di produzione che il mercato non è in grado di
assorbire: in questa prospettiva possono e debbono essere favoriti dall’ordinamento; parimenti, anche fra
le intese limitative della concorrenza una visione realistica induce a distinguere le “buone” dalle “cattive”.
Ne consegue che la salvaguardia del regime di concorrenza non può essere perseguita attraverso una rigida
ed aprioristica preclusione delle situazioni e delle pratiche limitative della concorrenza, che vanno tuttavia
tenute sotto controllo per evitare che degenerino in situazioni monopolistiche palesemente in contrasto
con l’interesse generale.
Fissato il principio guida della libertà di concorrenza (art. 41 Cost.), il legislatore italiano:
• Consente limitazioni legali della stessa per fini di “utilità sociale” ed anche la creazione di monopoli
legali in specifici settori di interesse generale
• Consente limitazioni negoziali della concorrenza, ma ne subordina nel contempo la validità al rispetto di
condizioni che non comportino un radicale sacrificio della libertà di iniziativa economica attuale e
futura
• Assicura l’ordinato e corretto svolgimento della concorrenza attraverso la repressione degli atti di
concorrenza sleale.
Per lungo tempo il sistema italiano della concorrenza si era contraddistinto per la mancanza di una
normativa antimonopolistica; a partire dalla metà degli anni cinquanta la lacuna era stata parzialmente
colmata dalla diretta applicazione nel nostro ordinamento della disciplina antitrust dettata dai Trattati
istitutivi della Comunità economica europea. Tale normativa però consentiva e consente di colpire solo le
pratiche che possono pregiudicare il regime concorrenziale del mercato comune europeo, non quelle che
incidono esclusivamente sul mercato italiano. Da qui l’esigenza di comare tale vuoto, affiancando alla
normativa comunitaria una normativa antimonopolistica nazionale: il vuoto è stato colmato dalla legge
10-10-1990, n. 287, recante norme per la tutela della concorrenza e del mercato.
A. LA LEGISLAZIONE ANTIMONOPOLISTICA
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Le singole fattispecie
Tre sono i fenomeni rilevanti per la disciplina antimonopolistica nazionale e comunitaria:
− Intese restrittive della concorrenza: le intese sono comportamenti concordati fra imprese, volti a
limitare la propria libertà di azione sul mercato. Vietate sono solo le intese che “abbiano per oggetto o
per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza”
all’interno del mercato o in una sua parte rilevante. Sono quindi lecite le cosiddette intese minori:
quelle intese cioè che per la struttura del mercato interessato, le caratteristiche delle imprese operanti
e gli effetti sull’andamento dell’offerta non incidono in modo rilevante sull’assetto concorrenziale del
mercato.
Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto; chiunque può agire in giudizio per farne accertare la nullità.
L’Autorità, a sua volta, adotta i provvedimenti per la rimozione degli effetti anticoncorrenziali già
prodottisi ed irroga le relative sanzioni pecuniarie.
Il divieto di intese anticoncorrenziali rilevanti non ha però carattere assoluto: l’Autorità può infatti
concedere esenzioni temporanee, purché si tratti di intese che migliorano le condizioni di offerta del
mercato e producono un sostanziale beneficio per i consumatori.
− Abuso di posizione dominante: vietato non è il fatto in sé dell’acquisizione di una posizione di
dominante sul mercato o in una parte rilevante dello stesso; vietato è solo lo sfruttamento abusivo di
tale posizione con comportamenti capaci di pregiudicare la concorrenza effettiva. Ad un’impresa in
posizione dominante è in particolare vietato di:
• Imporre prezzi o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravosi
• Impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato
• Applicare condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti.
Il divieto di abuso di posizione dominante non ammette eccezioni. Accertata l’infrazione, l’Autorità
competente ne ordina la cessazione prendendo le misure necessarie. Infligge inoltre sanzioni
pecuniarie e, in caso di reiterata inottemperanza, può anche disporre la sospensione dell’attività
dell’impresa fino a trenta giorni.
Nel contempo oggi è vietato nell’ordinamento nazionale anche l’abuso dello stato di dipendenza
economica nel quale si trova un’impresa cliente o fornitrice rispetto ad una o più altre imprese anche in
posizione non dominante sul mercato. Si intende per dipendenza economica “la situazione in cui una
impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo
squilibrio di diritti e obblighi”. Il patto attraverso il quale si realizza l’abuso di dipendenza economica è
nullo ed espone al risarcimento dei danni nei confronti dell’impresa che ha subito l’abuso.
− Concentrazioni: si ha concentrazione quando:
• Due o più imprese si fondono dando così luogo ad un’unica impresa (concentrazione giuridica)
• Due o più imprese, pur restando giuridicamente distinte, diventano un’unica entità economica
(concentrazione economica): sono cioè sottoposte ad un controllo unitario che consente di
esercitare, anche congiuntamente, un’influenza determinante sull’attività produttiva delle imprese
controllate
• Due o più imprese indipendenti costituiscono un’impresa societaria comune
Diversi sono quindi gli strumenti giuridici che possono dar luogo ad un’operazione di concentrazione,
ma identico è il risultato economico ultimo: l’ampliamento della quota di mercato detenuta da
un’impresa, realizzato attraverso operazioni che comportano la riduzione del numero delle imprese
indipendenti operanti nel settore.
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Le clausole limitative della concorrenza devono ritenersi vietate quando ricadono nel divieto di intese
anticoncorrenziali o di abuso di posizione dominante.
Costituiscono esempi classici di patti limitativi della concorrenza i cartelli ed i consorzi anticoncorrenziali:
contratti con i quali più imprenditori possono prevedere impegni reciproci di vario tipo.
Frequenti sono anche le pattuizioni limitative della concorrenza inserite in contratti fra produttori e
rivenditori.
C. LA CONCORRENZA SLEALE
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Nozione e tipi
“Con il contratto di consorzio più imprenditori istituiscono un’organizzazione comune per la disciplina o per
lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese” (art. 2602).
L’attuale definizione legislativa comporta che il consorzio è oggi schema associativo tra imprenditori idoneo
a ricomprendere due distinti fenomeni della realtà:
o Consorzio con funzione anticoncorrenziale: un consorzio può essere costituito al fine prevalente o
esclusivo di disciplinare, limitandola, la reciproca concorrenza fra imprenditori che svolgono la stessa
attività o attività similari. Esempio classico di consorzio anticoncorrenziale è quello costituito per il
contingentamento della produzione o degli scambi tra imprenditori concorrenti.
o Consorzio con funzione di coordinamento: più imprenditori possono dar vita ad un consorzio anche
“per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese”. In tal caso il consorzio rappresenta
anche o solo uno strumento di cooperazione interaziendale, finalizzato alla riduzione dei costi di
gestione delle singole imprese consorziate.
I consorzi anticoncorrenziali sollecitano controlli volti ad impedire che per loro tramite si instaurino
situazioni di monopolio di fatto contrastanti con l’interesse generale.
I consorzi di cooperazione interaziendale rispondono invece all’esigenza di accrescere la competitività delle
imprese e concorrono a preservare la struttura concorrenziale del mercato, in quanto favoriscono la
sopravvivenza delle piccole e medie imprese; sono perciò guardati con favore dal legislatore.
Sul piano della disciplina di diritto privato, consorzi anticoncorrenziali e consorzi di cooperazione aziendale
sono tuttavia regolati in modo tendenzialmente uniforme: infatti la distinzione rilevante sul piano civilistico
è quella fra consorzi con sola attività interna e consorzi destinati a svolgere anche attività esterna. In
entrambi si crea un’organizzazione comune, ma nei consorzi con sola attività interna il compito di tale
organizzazione si esaurisce nel regolare i rapporti reciproci fra i consorziati e nel controllare il rispetto di
quanto convenuto; nei consorzi con attività esterna, invece, le parti prevedono l’istituzione di un ufficio
comune, destinato a svolgere attività con i terzi nell’interesse delle imprese consorziate.
Tenendo presente questa duplice articolazione, il codice prevede innanzitutto una disciplina comune, volta
a regolare la costituzione del consorzio ed i rapporti fra consorziati (artt. 2603-2611); detta poi disposizioni
relative ai soli consorzi con attività esterna (artt. 2612-2615-ter), che regolano i rapporti fra il consorzio ed i
terzi che con lo stesso entrano in contatto.
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o Obbligazioni assunte dagli organi del consorzio per conto dei singoli consorziati: rispondono
solidalmente sia il consorzio o i consorziati interessati, sia il fondo consortile; inoltre, in caso di
insolvenza del consorziato interessato, il debito dell’insolvente si ripartisce fra tutti gli altri consorziati
in proporzione delle loro quote.
Le società consortili
Consorzi e società sono istituti diversi. La diversità è netta quando il consorzio svolge attività
esclusivamente interna: manca in tal caso l’esercizio in comune di un’attività economica (attività di impresa)
da parte dei consorziati, che invece costituisce elemento essenziale delle società.
Società è consorzi con attività esterna presentano in comune sia il normale carattere imprenditoriale
dell’attività esercitata, sia il fine di realizzare attraverso tale attività un interesse economico dei
partecipanti (scopo egoistico); diverso però è lo scopo egoistico tipicamente perseguito.
Funzione tipica di un consorzio è quella di produrre beni o servizi necessari alle imprese consorziate e
destinati ad essere assorbiti dalle stesse senza il conseguimento di utili da parte del consorzio. Lo scopo
tipico perseguito dai singoli consorziati è quindi quello di conseguire un vantaggio patrimoniale diretto
nelle rispettive economia, sotto forma di minori costi o di maggiori ricavi conseguiti nella gestione delle
proprie imprese.
La finalità tipica delle società lucrative è invece quella di produrre utili da distribuire fra i soci: esse perciò
svolgono tipicamente attività di scambio con i terzi.
Al consorzio non è fatto divieto di svolgere anche attività lucrativa con terzi; la distribuzione fra i soci degli
utili conseguiti dall’eventuale attività con i terzi è però sottoposta agli stessi limiti stabiliti dalla legge per le
società cooperative. Lo scopo consortile presenta infatti accentuate affinità con lo scopo tipicamente
perseguito dalle società cooperative: lo scopo mutualistico; la “mutualità consortile” si differenzia però
dalla generica mutualità delle cooperative, in quanto specifico e tipico è il vantaggio “mutualistico”
perseguito dai partecipanti ad un consorzio: riduzione dei costi di produzione o aumento dei ricavi delle
rispettive imprese. L’interesse economico dei consorziati è, in altre parole, un interesse tipicamente
imprenditoriale: migliorare l’efficienza e la capacità di profitto delle rispettive preesistenti imprese.
Con la modifica della disciplina dei consorzi del 1976 è stato espressamente consentito di perseguire gli
obiettivi propri del contratto di consorzio attraverso la costituzione di una società. L’art. 2615-ter dispone
infatti che tutte le società lucrative, ad eccezione della società semplice, “possono assumere come oggetto
sociale gli scopi indicati dall’art. 2602”, cioè gli scopi di un consorzio. È quindi lecito costituire una società
per azioni nel cui atto costitutivo si dichiari espressamente l’esclusiva finalità consortile perseguita e
altrettanto espressamente si dichiari che la società non persegue lo scopo di conseguire utili da dividere tra
i soci. Gli imprenditori che danno vita ad una società consortile possono inoltre inserire nell’atto costitutivo
specifiche pattuizioni volta ad adattare la struttura societaria prescelta alla finalità consortile perseguita.
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