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COMPENDIO INTEGRATO
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CAPITOLO I
L’imprenditore in generale
1. L’ATTIVITÀ ECONOMICA
Questo elemento costituisce la vera novità del codice civile del 1942 rispetto al
codice di commercio del 1882, che prendeva in considerazione gli atti di commercio
isolatamente considerati, e singolarmente indicati nell’art.3. Nel codice civile,
invece, l’impresa viene in evidenza, appunto, quale attività e, quindi, quale serie di
atti finalizzati a un medesimo scopo ultimo: ogni atto che l’imprenditore compie
serve all’esercizio dell’impresa e, più in particolare, a realizzare la produzione o lo
scambio di uno o più beni o servizi determinati: in questo si sostanzia il carattere
«economico» dell’attività, pleonasticamente ribadito con la locuzione «al fine della
produzione o dello scambio di beni o di servizi», contenuta nella parte finale
dell’articolo. Il passaggio dal sistema degli atti di commercio al sistema dell’attività
comporta due immediate conseguenze:
A) In primo luogo, occorre affermare il principio in base al quale l’attività
deve farsi risalire alla volontà del soggetto. Infatti, alla fattispecie
imprenditoriale è essenziale, se non la volontà degli effetti, la
volontarietà del comportamento, perché da questo punto di vista
3
l’impresa è certamente manifestazione di iniziativa la cui «libertà» è
consacrata nell’art. 41 Cost. Conseguenza importante: l’impresa non
può essere “imposta”, se non violando la norma costituzionale ora
invocata;
B) La seconda conseguenza rende ancora più netta la giustapposizione tra
vecchio e nuovo sistema, ove si consideri che nell’ambito di un’attività
assolutamente lecita l’imprenditore può porre in essere singoli atti
illeciti e che, per converso, nell’ambito di un’attività illecita (es.
esercizio di una casa di meretricio), è plausibile il compimento di atti
perfettamente leciti (es. stipulazione contratto di locazione). E da qui si
diparte il discorso sull’impresa illecita: nella disputa tra coloro i quali
escludono la plausibilità di un’impresa illecita e coloro i quali
l’ammettono, si inseriscono quegli autori che, preliminarmente,
distinguono tra l’ipotesi in cui illecita è l’attività in quanto tale (in
questo caso, non potendosi invocare le sanzioni dell’inesistenza o della
nullità che sono riservate agli atti negoziali, la sanzione può consistere
nella non invocabilità della disciplina dell’impresa da chi è autore e
partecipe dell’illecito) e l’ipotesi in cui l’illiceità riguarda solo le
modalità di svolgimento di un’attività lecita – come, per esempio,
l’attività svolta in situazione di incompatibilità, come l’impiegato statale
che svolge attività di impresa (in questo caso, si tratterà di valutare di
volta in volta, attesa la liceità intrinseca dell’attività, se l’atto debba o
meno essere colpito dalla sanzione della nullità).
2. L’ORGANIZZAZIONE
L’attività deve essere organizzata. Infatti, per produrre o scambiare beni e servizi,
occorrono mezzi patrimoniali da impiegare e uomini che lavorano, e l’imprenditore
coordina appunto – organizza – quelli che sono i fattori della produzione: capitale e
lavoro. L’elemento dell’organizzazione consente di distinguere tra le attività
produttive che assumono carattere di impresa e quelle attività che, pur essendo
dirette alla produzione di beni o servizi, non assumono carattere di impresa proprio
perché non sono organizzate, come per esempio il lavoro autonomo → Anche il
libero professionista produce un servizio, ma nessuno si sognerebbe di dire che è
imprenditore, a meno che non eserciti la professione con un’organizzazione di messi
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e personale tipica dell’attività imprenditoriale. Ma bisogna precisare una cosa: è
necessario che questa organizzazione sia rivolta all’esterno (eterorganizzazione),
ossia che l’attività sia rivolta al mercato; non potrà perciò considerarsi imprenditore
agricolo il contadino che produce solo il necessario per sé e la propria famiglia. Ma
su questo punto, occorre precisare, non tutta la dottrina è concorde: vi è una corrente
che sostiene che un livello minimo di organizzazione, nella norma ex art. 2082, non
è precisato. Ergo, il fatto che l’organizzazione debba essere rivolta all’esterno non è
strettamente necessario: anche il lavoratore autonomo organizza il proprio lavoro e
la propria attività (autorganizzazione); quindi, secondo questa corrente, si organizza
anche chi si aut organizza, ragion per cui la presenza di un’organizzazione
intermediatrice non costituirebbe più carattere esclusivo della fattispecie
imprenditoriale.
3. LA PROFESSIONALITÀ
Il terzo requisito dell’impresa è la professionalità: perché si abbia impresa, infatti,
non occorre solo che vi sia un’attività economica e che questa sia organizzata, ma è
necessario che l’imprenditore la eserciti professionalmente. Questo avverbio sta a
indicare abitualità, ma non vuol significare permanenza né esclusività. Per esempio,
in quanto implicano un esercizio sistematico, per quanto periodico, dell’attività,
sono imprese quelle stagionali, come per esempio gli stabilimenti balneari. Per
converso, non può parlarsi di impresa in relazione a un’attività svolta soltanto
occasionalmente → Non va fatta rientrare, infatti, nel paradigma dell’art. 2082
l’impresa occasionale che si concreta in un’attività cui difetta il requisito della
professionalità, per essere la stessa non destinata a protrarsi nel tempo. Ora, la
professionalità di un’attività di impresa deve essere rilevabile oggettivamente, e non
dalle intenzioni soggettive dell’imprenditore: tra gli elementi più importanti da
valutare per enucleare il dato della professionalità e della stabilità dell’attività
d’impresa, v’è senz’altro l’elemento della organizzazione → La valutazione degli
elementi relativi alla professionalità non va mai disgiunta da quella relativa agli
elementi dell’organizzazione.
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Ci si chiede se, ai fini della qualificazione dell’impresa in quanto tale, sia necessario
uno scopo di lucro. Il quesito, come vedremo, si pone essenzialmente per l’imprenditore
individuale, dal momento che nel contratto che dà vita alle società (lucrative) lo scopo
di lucro è espressamente menzionato dall’articolo capofila (il 2247, lo vedremo).
A questo proposito, nessuno nega che chi avvia un’impresa voglia ragionevolmente
trarne un guadagno, ma ci si chiede se il lucro rientri o meno tra gli elementi costitutivi
dell’attività imprenditoriale.
Poniamoci una domanda esemplificativa: è imprenditore il ristoratore che vende i pasti a
prezzo di costo? Ed è imprenditore il ristoratore che vende i pasti a un prezzo più basso
del costo o, addirittura, gratis? Nel primo caso non può essere messa in dubbio una
risposta positiva, così come nel secondo non può essere messa in dubbio una risposta
negativa. Perché? Perché, più che nel lucro vero e proprio, il discorso dovrebbe
concentrarsi sulla economicità dell’impresa → L’attività imprenditoriale dovrebbe
essere, più che astrattamente lucrativa, effettivamente remunerativa, ossia in grado di
recuperare i costi, dunque i fattori della produzione. Copertura dei costi con i ricavi,
quindi, e autosufficienza economica: il che, come è evidente, non significa lucratività.
Accanto alla economicità, altro carattere dell’attività è quello della produttività,
ricavabile dall’espressione finale dell’art. 2082. Per qualificare un’attività come
produttiva sono irrilevanti sia il tipo che la natura dei beni e dei servizi prodotti e forniti,
sia il tipo di bisogni soddisfatti: produzione di beni e servizi come elemento qualificante
dell’impresa, purché ricorrano, come rilevato poc’anzi, gli elementi della professionalità
e dell’organizzazione.
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coincidenza tra l’effettivo portatore degli interessi connessi all’impresa (che resta dietro
le quinte) e chi invece calca la scena come imprenditore.
Applicando il criterio della spendita del nome, la risposta obbligatoria è nel senso
dell’attribuzione della qualità di imprenditore esclusivamente a chi appare all’esterno
come tale. Perciò, se può dirsi che la responsabilità giuridica tendenzialmente riflette il
rischio economico assunto dall’imprenditore, non può affermarsi che basti il rischio
economico a identificare l’imprenditore, né che esso si converta senz’altro in
responsabilità giuridica. A questo proposito, abbiamo tre correnti di pensiero, la terza
delle quali ci introduce al discorso dell’imprenditore occulto:
A. Una prima corrente di opinione rileva che la spendita del nome non costituisce
l’unico criterio di imputazione dell’attività di impresa. L’attribuzione della
paternità dell’agire postula l’identificazione dell’effettivo autore dell’atto, con la
conseguenza che se un terzo presti all’interessato il proprio nome, e non anche la
propria attività, imprenditore sarà chi agisce usando il nome altrui, e non colui
che si limiti a consentirne l’uso.
B. Un secondo filone di pensiero coglie nella correlazione tra poteri di direzione
dell’impresa e responsabilità patrimoniale in tema di società personali (dall’art.
2257 in poi…) l’espressione di un principio generale che consente di chiamare a
rispondere delle obbligazioni assunte nell’esercizio dell’attività non soltanto il
soggetto il cui nome è speso, ma anche il soggetto nel cui interesse l’attività è
svolta: e ciò, fermo restando che la qualifica di imprenditore spetta solo al
primo.
C. Infine, terzo orientamento è quello di Walter Bigiavi. Prima di esaminarlo nel
dettaglio, richiamiamo l’ultima versione dell’art. 147 della Legge Fallimentare:
Art. 147
Società con soci a responsabilità illimitata
_____________________________
Bigiavi parte da questo articolo per dedurne la qualifica di imprenditore anche a chi,
padrone effettivo dell’impresa, si occulta dietro il paravento di un altro soggetto.
Partendo infatti dal 1° comma dell’articolo, il fallimento di una società con soci
illimitatamente responsabili si estende anche al “socio occulto” scoperto dopo l’apertura
della procedura concorsuale. Questa norma, intesa a prevedere il fallimento di socio
occulto di società palese, dovrebbe trovare applicazione – secondo questa tesi – anche
nell’ipotesi di società celata dietro lo schermo di un’impresa individuale, portando al
fallimento della stessa e dei suoi soci (fallimento di socio occulto di società occulta). Da
qui, ulteriore conseguenza sarebbe che dovrebbe rispondere delle obbligazioni assunte
nel corso dell’attività, ed essere esposto al fallimento, chiunque di fatto eserciti, in
modo occulto o palese, un’impresa di cui non è formalmente titolare (imprenditore
occulto).
Tuttavia, questa tesi ha prestato il fianco a numerose obiezioni. Si è sostenuto, anzitutto,
che difficilmente la disciplina societaria e quella fallimentare possano legittimare
l’attribuzione della qualifica di imprenditore in capo al dominus di un’impresa della
quale sia formalmente titolare un altro soggetto; in secondo luogo, nel particolare, la
disciplina societaria in tema di società personali non legittimerebbe le conclusioni del
Bigiavi, in quanto la titolarità dell’amministrazione dell’impresa ben può essere
disgiunta dalla responsabilità per le obbligazioni sociali (es. i soci di una SNC che non
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siano amministratori della società, rispondono comunque illimitatamente); in ultimo
luogo, s’è obiettato che possano giustificare tali conclusioni le osservazioni contenute
nell’art. 147 l. Fallimentare perché la previsione del fallimento del socio occulto di una
società palese risponde essenzialmente all’esigenza di riservare al primo la stessa sorte
cui vanno incontro i soci palesi, all’insegna di un omogeneo trattamento di quanti siano
titolari di partecipazioni sociali.
Detto questo, occorre dire che, come è evidente, il paradigma dell’art. 2082 si riferisce
all’impresa senza ulteriori attribuzioni, e che tutti gli elementi desumibili da questo
articolo possono qualificare l’uno o l’altro tipo di impresa. Le distinzioni che vanno
affrontate a questo proposito, però, sono almeno tre:
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III. Con riguardo al soggetto esercente l’impresa, avremo due differenze: a)
Impresa pubblica e impresa privata; b) Imprenditore individuale e
imprenditore collettivo.
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CAPITOLO II
DISTINZIONE DELL’IMPRENDITRE RELATIVA
ALL’ATTIVITÀ ESERCITATA
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1) La coltivazione del fondo consiste in un’attività umana che non può risolversi
nella mera raccolta di frutti dal suolo, ma deve assumere i caratteri di un’attività
di produzione di beni, rispetto alla quale il fondo assume il ruolo di fattore
produttivo, indifferenti essendo le modalità tecnico-organizzative attraverso le
quali essa si esplica;
2) La selvicoltura costituisce sostanzialmente una species della coltivazione del
fondo e, alla stregue della nuova legge, non dovrebbe rientrare in questa nozione
l’attività meramente estrattiva del legname, se disgiunta dalla coltivazione del
bosco;
3) La locuzione allevamento di animali è comparsa nell’art. 2135 a seguito del
d.lgs. 228/2001, in sostituzione della locuzione allevamento di bestiame. Si
tratta di un’innovazione normativa che sembra aver ampliato lo spettro delle
attività di allevamento rientranti nella nozione di impresa agricola. Infatti,
interpretata letteralmente, la parola «bestiame» ha sempre contraddistinto le sole
specie di animali legate al fondo per essere adibite alla sua lavorazione o essere
alimentate con i prodotti della terra. Non v’è dubbio, quindi, che l’aver adottato
il termine «animali» sta a indicare la chiara volontà del legislatore di non porre
limiti all’inquadramento nelle attività agricole principali di ogni tipo di
allevamento, ivi compreso quello degli animali selvatici. Per il concomitante
effetto delle modificazioni apportate al comma 1° - «animali» al posto di
«bestiame» - e al comma 2° - «utilizzano o possono utilizzare» il fondo – ai fini
dell’art. 2135 non c’è più luogo ad alcuna distinzione delle specie animali, e
quindi sarà impresa agricola, per esempio, anche l’allevamento di animali
esotici.
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«attività connesse tipiche», individuate nel 2° comma, quali attività dirette «alla
trasformazione e all’alienazione di prodotti agricoli» e rientranti nell’esercizio
«normale dell’agricoltura».
Con riferimento alle prime se ne rimarcava, in sostanza, il tratto di dipendenza
economica dalle attività agricole principali. Ma questa categoria costituisce, oggi,
una sorta di relitto normativo, dal momento che è nata soprattutto in funzione
dell’inquadramento di alcune attività zootecniche difficilmente riconducibili
all’allevamento del bestiame (come la pollicoltura, l’apicoltura) e che le altre ipotesi
di attività connesse si risolvono di solito nelle attività di bonifica (da farsi più
correttamente rientrare tra quelle principali).
Il discorso è diverso per le attività connesse tipiche, nel senso che niente del 3°
comma dell’art. 2135 è rimasto in piedi. E infatti, fermo il criterio soggettivo
dell’identità, il nuovo 3° comma dell’art. 2135 delinea due ipotesi di connessione
nuove: 1) la prima, parzialmente nuova, riguardante le attività consistenti nella
«manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e
valorizzazione» aventi a oggetto «prodotti ottenuti prevalentemente dalla
coltivazione del fondo o del bosco o dell’allevamento del bestiame»; 2) La seconda
– la vera novità – comprendente le attività dirette alla «fornitura di beni e servizi
mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature… definite dalla legge». (vedi
articolo)
Ne discende una sensibile dilatazione dell’area delle attività connesse, rispetto al
passato, non soltanto in ragione dell’ampliamento della gamma cui fa riferimento il
3° comma dell’art. 2135, ma anche in ragione del fatto che la disposizione
normativa fa oggi registrare la scomparsa del criterio della «normalità», sostituito da
quello della «prevalenza».
(Nota → Il 3° comma dell’art. 2135, nella formulazione derivante dal d.lgs.
228/2001, pone una presunzione “iuris et de iure” di imprese agricole per
connessione, stabilendo che le attività elencate si intendono “comunque connesse”.
Invero, le attività elencate sono già oggettivamente commerciali – per esempio, è
industriale, e non agricoltore, chi produce olio e formaggi – tuttavia queste attività
sono considerate dalla legge attività agricole quando sono esercitate in connessione
con una delle 3 attività agricole essenziali. La presenza di tale legame neutralizza la
qualifica oggettiva commerciale dell’attività: come rileva il Campobasso, è
importante stabilire quando un’attività intrinsecamente commerciale possa
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qualificarsi come agricola per connessione. Le condizioni necessarie sono due, e le
abbiamo già viste: la connessione soggettiva e la connessione oggettiva).
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tacitamente abrogata, mentre il 2137 afferma un principio del tutto
ovvio;
B) Nessuna impresa agricola è soggetta, qualunque sia la sua veste
esteriore, alle procedure concorsuali;
C) Dopo l’entrata in vigore della L. 580/1993, non può più scriversi che
l’impresa agricola non è obbligata all’iscrizione nel registro delle
imprese, perché questa legge ha istituito le sezioni speciali del registro
delle imprese, prevedendo l’iscrizione di molti soggetti, in passato
esonerati da oneri pubblicitari (ivi compreso l’imprenditore agricolo).
Questa iscrizione, secondo la legge del 1993, avrebbe solo efficacia di
certificazione anagrafica e pubblicità notizia (significa efficacia
meramente informativa, non dichiarativa né costitutiva), ma la
situazione è cambiata a seguito di quanto sancito dal d.lgs. 228/2001
che, in riferimento all’iscrizione nelle sezioni speciali del registro,
previste per imprenditori agricoli, coltivatori diretti del fondo e società
semplici che esercitano attività agricola, ha affermato, oltre all’efficacia
di cui sopra, anche e soprattutto un’altra efficacia, quella dichiarativa,
prevista dall’art. 2193 con riferimento all’imprenditore commerciale.
- Ovvero coloro che esercitano una delle attività indicate dall’art. 2195 (criterio
positivo):
1. Le attività industriali, cioè le attività dirette alla produzione di beni o servizi:
sono tutte quelle che si propongono, attraverso la trasformazione di materie prime,
la creazione di nuovi prodotti ovvero, attraverso la organizzazione di capitale e
lavoro, la predisposizione dei servizi (le imprese manifatturiere, meccaniche,
minerarie, editoriali, ecc);
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2. Le attività commerciali, cioè le attività intermediarie nella circolazione dei beni
(non solo quindi le imprese di somministrazione, ma anche quelle in cui all’attività
di intermediazione si aggiunge quella di manipolazione);
3. Le attività di trasporto, e cioè quelle che realizzano il trasferimento di persone
e/o di cose da un luogo a un altro, per terra, per acqua o per aria;
4. Le attività bancarie, e cioè l’attività riservata alle banche, che si concreta nella
«raccolta di risparmio tra il pubblico e nell’esercizio del credito»;
5. Le attività assicurative e cioè quelle attività che consistono nell’esercizio delle
assicurazioni private, le quali raccolgono i premi corrisposti dagli assicurati e si
obbligano a rivalere questi entro i limiti convenuti;
6. Le attività ausiliarie delle precedenti, e cioè quelle attività che agevolano
l’esercizio delle attività specificamente indicate e comunque sono legate a queste
ultime da un rapporto di complementarietà.
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A) È obbligato a iscriversi nel registro delle imprese, anche quando si tratta
di ente pubblico che esercita un’attività commerciale;
B) È obbligato a tenere le scritture contabili;
C) È soggetto al fallimento e alle altre procedure concorsuali;
D) Può servirsi di ausiliari, specificamente individuati e disciplinati dall’art.
2203 all’art. 2213 c.c.
Nel delineare la disciplina della contabilità che l’imprenditore deve osservare (artt.
2214-2220), il legislatore ha adottato un sistema misto, stabilendo che, accanto
all’obbligo di tenuta di scritture nominativamente individuate (libro giornale e
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libro degli inventari, ex art. 2214, comma 1°), l’imprenditore debba
necessariamente tenere «le altre scritture contabili che siano richieste dalla natura e
dalle dimensioni dell’impresa» (art. 2214, comma 2°).
Il minimo indispensabile è quindi costituito dal libro giornale, dal libro degli
inventari e dalla conservazione della corrispondenza secondo le modalità indicate:
- Nel libro giornale le «operazioni relative all’esercizio dell’impresa» devono
essere annotate secondo l’ordine cronologico in cui sono compiute, con l’osservanza
altresì del cd. criterio dell’immediatezza (art. 2216);
- Nel libro degli inventari devono essere indicate e valutate le attività e le passività
relative all’impresa, nonché le attività e le passività dell’imprenditore estranee alla
medesima. L’inventario, che deve essere redatto all’inizio dell’esercizio
dell’impresa e, successivamente, ogni anno e che ha la funzione di consentire la
ricostruzione della storia dell’impresa, si chiude con il bilancio e con il conto dei
profitti e delle perdite, il quale deve dimostrare gli utili conseguiti e le perdite subite
(art. 2117);
- L’imprenditore deve conservare ordinatamente per ciascun affare gli originali
delle lettere, dei telegrammi e delle fatture ricevute, nonché le copie delle
lettere, dei telegrammi e delle fatture spedite (art. 2214, comma 2°, in fine).
La legge, però, prevede anche un nucleo per così dire mobile, all’art. 2214 comma
2°, prima parte: non vi è alcuna indicazione nominativa di scrittura, ma la scienza
aziendalistica non ha mancato di individuare i libri resi necessari dalle «dimensioni
dell’impresa» e dal «ramo merceologico in cui l’impresa opera»: per esempio, il
libro magazzino, che ha la funzione di registrare l’entrata e l’uscita delle merci.
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3) La contabilità deve essere conservata per dieci anni (art. 2220, commi 1 e 2);
4) Le scritture contabili obbligatorie possono essere formate e tenute con strumenti
informatici (art. 2215 bis).
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CAPITOLO III
DISTINZIONE DELL’IMPRENDITORE
RELATIVA ALLA DIMENSIONE
Il piccolo imprenditore
Il criterio dimensionale è di importanza cruciale, dal momento che nel cc del 1942 lo
statuto dell’imprenditore commerciale non opera con riferimento ai piccoli imprenditori,
investendo le sole imprese medio-grandi.
L’art. 2083 cc stabilisce che «Sono piccoli imprenditori i diretti coltivatori del fondo, gli
artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale
organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia»,
identificando così una categoria di operatori economici esonerabili dall’obbligo di
iscrizione nel registro delle imprese (art. 2202), di tenuta delle scritture contabili (art.
2214) nonché immuni dal fallimento (art. 2221).
C’è da dire che la disciplina relativa al piccolo imprenditore, così come emerge dall’art.
2083, è stata profondamente mutata dall’evoluzione del quadro normativo relativo agli
ultimi anni. In tal senso, se permane ancora oggi l’esonero dei piccoli imprenditori
dall’obbligo di tenuta della contabilità, con l’entrata in vigore della l. 580/1993 e del
d.p.r. 581/1995 gli stessi piccoli imprenditori non possono più dirsi, invece, esonerati
dall’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese, dovendosi aggiungere che tale
adempimento assolve in generale una funzione di pubblicità notizia, salva l’efficacia
dichiarativa attribuita dal d.lgs. 228/2001 alle iscrizioni effettuate dai coltivatori diretti.
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fallimento), individuava una categoria di soggetti esclusi dalle procedure
concorsuali (comma 1). Il comma 2, invece, nell’identificare i piccoli
imprenditori, si affidava: a) in prima battuta, a un criterio di ordine fiscale:
erano considerati piccoli gli imprenditori esercenti un’attività commerciale, che
fossero stati riconosciuti titolari di un reddito inferiore al minimo imponibile in
sede di accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile; b) in subordine, a
un valore facente riferimento al valore del capitale investito nell’azienda, che
avrebbe dovuto essere contenuto entro lire novecentomila.
2. In seguito all’abolizione dell’imposta di ricchezza mobile, e alla intervenuta
declaratoria di illegittimità costituzionale, nella parte in cui faceva riferimento a
un parametro dimensionale, quello relativo al valore del capitale, ancorato a un
valore nel tempo divenuto inaffidabile, dovette tornarsi a tener conto del criterio
codicistico della “prevalenza”;
3. Proprio per le incertezze legate al criterio della prevalenza, tuttavia, si legò la
reintroduzione nell’art. 1 l. fall. (per effetto del d.lgs. 5/2006) di criteri più rigidi
nella selezione del piccolo imprenditore. La nuova versione della norma
stabiliva, in negativo, che non potessero considerarsi piccoli imprenditori «gli
esercenti un’attività commerciale in forma individuale o collettiva che, anche
alternativamente: a) hanno effettuato investimenti nell’azienda per un capitale
superiore a 300.000 euro; b) hanno realizzato ricavi lordi calcolati sulla media
degli ultimi tre anni o dall’inizio dell’attività, se di durata inferiore, per un
ammontare complessivo di euro 200.000».
4. I perduranti dubbi relativi alla compatibilità tra il riformato art. 1 l. fall e l’art.
2083 cc hanno indotto il legislatore a intervenire nuovamente sul punto e a
modificare ancora la disposizione di apertura della legge fallimentare, attraverso
il d.lgs. 169/2007 (cd. decreto correttivo). Dal testo dell’art. 1 è stato espunto
ogni riferimento al piccolo imprenditore: la norma attuale indica essenzialmente
i requisiti che l’imprenditore commerciale tout court deve congiuntamente
possedere al fine di sottrarsi al fallimento. Essi attengono, da un lato, al valore
dell’attivo patrimoniale e al volume dei ricavi lordi riferiti ai 3 esercizi
antecedenti il deposito dell’istanza di fallimento, che non possono,
rispettivamente, superare la soglia di 300.000 e 200.000 euro complessivi annui;
dall’altro, all’ammontare dei debiti, anche non scaduti, contratti
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dall’imprenditore, che non può superare il limite di 500.000 euro (art. 1, comma
1, lett c).
5. Di qui, tende a ritenersi che l’art. 2083 non assuma più rilievo ai fini della
individuazione degli imprenditori soggetti al fallimento, e che l’art. 2221 cc
nella parte in cui escluda la fallibilità dei piccoli imprenditori, debba ritenersi
abrogato.
Venendo all’analisi dell’art. 2083, possiamo dire che esso è idealmente diviso in due
parti. Una prima, nella quale vengono elencate 3 diverse figure di piccoli
imprenditori – il coltivatore diretto, l’artigiano e il piccolo commerciante – e una
seconda, nella quale si riconosce la qualifica di piccolo imprenditore a quanti
esercitino un’attività di impresa incentrata sul tratto della «prevalenza» del lavoro
proprio e dei loro familiari rispetto agli altri fattori della produzione impiegati (altrui
lavoro e capitale investito).
In definitiva, può dirsi che la piccola impresa si differenzia dall’impresa medio-
grande sotto il profilo delle dimensioni e dell’organizzazione interna: dal primo
punto di vista, perché la necessità della «prevalenza» del lavoro familiare limita il
ricorso a manodopera estranea e l’impiego di capitali; e dal punto di vista
organizzativo, perché il fulcro della piccola impresa è costituito dalla persona del
titolare, al punto che l’attività negoziale e prenegoziale posta in essere nell’esercizio
della prima risentono delle vicende – morte, sopravvenuta incapacità – che
interessano la seconda, a differenza di quanto accade per l’imprenditore medio-
grande (arg. ex art. 1330 cc).
L’IMPRESA ARTIGIANA
L’artigiano, anche dal punto di vista economico, è la più rilevante figura tipica di
piccolo imprenditore. Le difficoltà interpretative e di coordinamento di questa figura
sono state superate grazie all’emanazione della legge quadro sull’artigianato (l.
443/1985) che ha abrogato la normativa precedente, fornendo una nuova nozione di
impresa artigiana. Essa è contraddistinta dai seguenti elementi:
1) Il ruolo preponderante dell’artigiano, che deve prestare in misura prevalente il
proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo;
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2) Un processo produttivo non del tutto meccanizzato, potendo peraltro avere a
oggetto una qualsiasi attività di produzione di beni o prestazione di servizi,
eccetto intermediazione nella circolazione dei beni, somministrazione al
pubblico di bevande o alimenti non strumentali all’esercizio dell’impresa, le
prestazioni di servizi commerciali e le attività agricole;
3) È ammesso, inoltre, l’impiego di personale dipendente nei limiti fissati per i vari
settori produttivi, e a condizione che questo operi sotto la direzione personale
dell’imprenditore artigiano;
4) L’impresa artigiana può tranquillamente assumere forma societaria. Dopo le
recenti riforme, le uniche ipotesi escluse sono quelle della SPA e della SAPA;
5) Dobbiamo notare, infine, che la nozione di impresa artigiana desumibile dalla
l.443/1985 non è perfettamente compatibile con quella derivante dal piccolo
imprenditore ex art. 2083: infatti l’impresa artigiana può anche assumere
dimensioni notevoli e, in verità, nessuna norma della legge quadro
sull’artigianato dice che debba necessariamente ricorrere il carattere della
prevalenza del lavoro proprio e dei componenti della famiglia sul lavoro altrui e
sul capitale investito, come invece emergerebbe dall’art. 2083 per la qualifica di
piccolo imprenditore;
6) Ultima cosa da dire riguarda il fallimento: la nuova formulazione della legge
fallimentare, come derivante dal decreto correttivo del 2007, ha espunto ogni
riferimento al piccolo imprenditore, introducendo invece i 3 famosi requisiti di
non fallibilità. → Quindi ne deriva che l’artigiano sarà fallibile, come
qualunque altro imprenditore commerciale, a meno che non risulti che egli
rientri nei requisiti di non fallibilità sanciti dall’art.1 della legge fallimentare.
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CAPITOLO IV
DISTINZIONE DELL’IMPRENDITORE RELATIVA AL
SOGGETTO ESERCENTE L’IMPRESA
L’ultima classificazione che occorre affrontare è quella relativa alla natura del soggetto
imprenditore: ci si riferisce, in particolare, alla distinzione tra imprenditore
individuale e imprenditore collettivo e a quella tra imprenditore privato e
imprenditore pubblico.
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a) Non possono, a rigore, ricondursi a essa le cc.dd. società a partecipazione
pubblica, che restano imprese costituite secondo modelli privatistici anche
quando l’ente pubblico che ne è socio ha una partecipazione di maggioranza,
ovvero, in virtù di altri patti, è in grado di influire sulle scelte gestionali (società
in mano pubblica);
b) Né l’impresa pubblica va confusa con quelle società in cui allo Stato o ad altro
ente pubblico sia riservato il potere di nominare amministratori o sindaci (art.
2449);
c) Così come istituto diverso dall’impresa pubblica è la società di interesse
nazionale disciplinata dall’art. 2451 cc.
26
Più complessa è, invece, la questione relativa all’applicazione dello statuto
dell’imprenditore con riguardo agli enti titolari delle cc.dd. imprese organo.
A mente dell’art. 2093, comma 2, in effetti, le disposizioni del Libro V
tornano applicabili nei confronti di tali soggetti soltanto limitatamente alle
imprese da essi esercitate, salve, peraltro,espresse previsioni di legge (art.
2093, comma 3°). Dunque, non troveranno spazio nella fattispecie in esame
né le disposizioni inerenti all’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese
che, come si è visto, l’art. 2201 riferisce agli enti pubblici che hanno per
oggetto esclusivo o principale un’attività commerciale; né, ai sensi dell’art.
2221, la disciplina delle procedure concorsuali.
L’IMPRESA SOCIALE
L’impresa sociale è stata introdotta nel nostro ordinamento dal d.lgs.
155/2006, il cui art. 1, comma 1, stabilisce, con espressione di singolare
ampiezza, che «possono assumere la qualifica di impresa sociale tutte le
organizzazioni private, ivi compresi gli enti di cui al libro V del codice
civile, che esercitano, in via stabile e principale, un’attività economica
organizzata al fine della produzione dello scambio di beni o servizi di utilità
sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale, e che hanno i
requisiti di cui agli artt. 2, 3 e 4».
Il primo comma usa espressioni molto ampie, che hanno suscitato parecchi
interrogativi (es. cosa debba intendersi per organizzazioni private), cosa che
si riflette anche nell’art. 2, il quale indica quali «beni e servizi» debbano
essere considerati di utilità sociale: si tratta di ben undici specie di attività
che, schematicamente, includono : 1) l’assistenza sociale e sanitaria, 2)
educazione, istruzione e formazione, 3) la tutela dell’ambiente e
dell’ecosistema, 4) la valorizzazione del patrimonio culturale, 5) il turismo
sociale, 6) la formazione universitaria e post-universitaria, 7) la
ricerca/erogazione di servizi culturali, 8) la formazione extrascolastica, 9) i
servizi strumentali ai servizi sociali. Indipendentemente dall’esercizio
dell’attività di impresa nei settori indicati, possono comunque acquisire la
qualifica di impresa sociale le organizzazioni che esercitano attività di
impresa per l’inserimento di lavoratori svantaggiati e disabili.
27
Ecco, qui di seguito, alcuni caratteri salienti della figura giuridica in
questione:
i) l’organizzazione che esercita l’impresa sociale deve essere costituita
per atto pubblico e l’atto costitutivo deve essere depositato entro 30
gg a cura del notaio e degli amministratori presso l’ufficio del
registro delle imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede
sociale;
ii) l’organizzazione che esercita l’impresa sociale deve destinare gli utili
e gli avanzi di gestione allo svolgimento dell’attività statutaria o a
incremento del patrimonio. È quindi vietata la distribuzione di utili,
fondi e riserve ad amministratori, soci, partecipanti;
iii) delle obbligazioni dell’impresa sociale con patrimonio superiore a
20.000 euro, sempre che sia iscritta nell’apposita sezione del registro
delle imprese, risponde solo l’organizzazione con il suo patrimonio;
iv) negli enti associativi la nomina della maggioranza degli
amministratori non può essere riservata a soggetti esterni
all’organizzazione che esercita l’impresa sociale;
v) le modalità di ammissione ed esclusione dei soci sono «regolate
secondo il principi di non discriminazione»;
vi) le imprese sociali devono tenere almeno il libro sociale e il libro
degli inventari e devono redigere e depositare presso il registro delle
imprese il bilancio sociale;
vii) gli atti costitutivi devono prevedere la nomina di uno o più sindaci
con il compito di vigilare sull’osservanza della legge, dello statuto e
dei principi della corretta amministrazione;
viii) nel caso in cui l’impresa sociale superi per 2 esercizi consecutivi due
dei limiti indicati dall’art. 2435bis il controllo contabile è esercitato
da uno o più revisori contabili iscritti nel registro nazionale;
ix) in caso di insolvenza, le imprese sociali sono sottoposte alla
procedura di liquidazione coatta amministrativa e alla fine della
procedura il patrimonio residuo è devoluto a organizzazioni non
lucrative di utilità sociale;
28
x) trasformazione, fusione e scissione devono essere realizzate in modo
da preservare l’assenza di scopo di lucro di soggetti risultanti dagli
atti posti in essere.
Il 24 gennaio del 2008 sono stati firmati dal Ministro dello Sviluppo
Economico e della solidarietà sociale quattro decreti che concludono l’iter
normativo per l’attuazione del d.lgs. 155/2006, disciplinando, tra l’altro, gli
adempimenti pubblicitari del Registro delle Imprese cui sono tenute le
imprese sociali.
I PATTI DI FAMIGLIA
L’istituto del patto di famiglia è regolato nel nuovo capo – il V bis –
introdotto nell’ambito del Titolo IV del Libro II, comprendente gli articoli
dal 768bis al 768octies.
Ciò posto, a norma dell’art. 768-bis il patto di famiglia si concreta nel patto
in virtù del quale, «compatibilmente con le disposizioni in materia di
impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie»,
l’imprenditore, da un lato, e il titolare di partecipazioni societarie, dall’altro,
trasferiscono, in tutto o in parte, a uno o più discendenti, rispettivamente,
l’azienda e le proprie quote.
Alla stipulazione di tale contratto, che richiede la forma dell’atto pubblico a
pena di nullità, devono partecipare il coniuge e i legittimari in quel momento
esistenti. I soggetti che, per effetto del patto di famiglia, risultino assegnatari
dell’azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli altri
partecipanti al contratto con una somma di denaro corrispondente al valore
delle quote previste dagli artt. 536 ss. o con beni in natura. E i beni così
29
assegnati sono imputati alle quote di legittima loro spettanti senza che tali
assegnazioni siano sottoposte a collazione o riduzione.
Il patto di famiglia, poi, può essere sciolto «mediante diverso contratto con
le medesime caratteristiche e i medesimi presupposti», o, se espressamente
previsto dalle parti, «mediante recesso».
30
Questa disquisizione, lungi dall’avere conseguenze solo teoriche, ha vere
conseguenze pratiche, perché dall’individuazione del momento inizia
dell’attività di impresa derivano conseguenze rilevanti, come l’obbligo di
iscrizione nel registro delle imprese, l’applicazione della disciplina relativa ai
segni distintivi e la soggezione alle procedure concorsuali.
31
Premesso che anche per l’imprenditore valgono le norme comuni regolanti la
capacità al compimento di atti giuridici, può dirsi che chi ha la capacità di
agire (= compiere atti giuridicamente rilevanti) ha anche la capacità di
esercitare un’impresa; una forte deroga rispetto alle norme di diritto comune
si ha, invece, in merito alla legittimazione del rappresentante dell’incapace
legale e dell’inabilitato e del suo curatore all’esercizio di un’impresa
commerciale: mentre i rappresentanti degli incapaci, in virtù
dell’autorizzazione giudiziale, possono essere legittimati al compimento di
qualsiasi atto di straordinaria amministrazione (di cui l’esercizio dell’impresa
dovrebbe esserne chiaro esempio), la medesima autorizzazione giudiziale può
riguardare solo la continuazione, ma non l’inizio dell’attività.
Facciamo una premessa: queste deroghe riguardano, come accennato, solo le
imprese commerciali, e non anche quelle agricole, per le quali valgono le
norme di diritto comune (disparità di trattamento che troverebbe ragion
d’essere nella maggiore sicurezza dei risultati produttivi di un’impresa agricola
rispetto a un’impresa commerciale).
Premesso questo, ribadiamo che sia l’incapace (minore e interdetto) che
l’inabilitato possono essere autorizzati solo a continuare, ma non a iniziare,
l’esercizio dell’attività commerciale. Fa eccezione a questa regola il minore
emancipato, dal momento che la legge parla di «autorizzazione all’esercizio»
e non di «autorizzazione alla continuazione dell’esercizio».
In ogni caso, non va dimenticato che l’esercizio-continuazione o inizio di
un’impresa commerciale, sia nel caso di incapacità assoluta (minore e
interdetto), sia nel caso di inabilitati e minori emancipati, deve essere sempre
autorizzato dal tribunale su parere del giudice tutelare.
32
nacque come riservato ai soli imprenditori commerciali: in esso dovevano
iscriversi tutti gli imprenditori commerciali entro 30 giorni dal momento
dell’acquisto della qualità di imprenditore. L’iscrizione doveva contemplare
tutta una serie di elementi (è sufficiente leggere l’elencazione fatta dall’art.
2196, proprio successivo al 2195 dedicato all’impresa commerciale) e inoltre,
sempre alla luce del codice del 1942, si prevedeva altresì l’obbligo di iscrizione
per: imprenditori individuali esercenti attività commerciali + società lucrative
(a eccezione della società semplice) e società cooperative, anche non esercenti
attività commerciale (si legga art. 2200) + gli enti pubblici aventi a oggetto
l’esercizio esclusivo o prevalente di un’attività commerciale.
Si prevedeva, inoltre, per questa iscrizione una efficacia dichiarativa (ex art.
2193, finalizzata all’opponibilità dei fatti iscritti nei confronti dei terzi), salvo
che per le società di capitali e le società cooperative, per le quali si prevedeva
invece una efficacia costitutiva dell’iscrizione (ossia adempimento formale al
quale l’ordinamento subordina l’acquisto della personalità giuridica, e quindi la
venuta a esistenza della società medesima).
La situazione, come accennato poc’anzi, è cambiata a seguito della L.
580/1993, che ha istituito le sezioni speciali del registro, nelle quali si prevede
l’iscrizione di tutte quelle categorie di soggetti che, in passato, erano esonerati
da adempimenti pubblicitari, ossia: gli imprenditori agricoli (art. 2135), i
piccoli imprenditori (art. 2083), le società semplici e le imprese artigiane.
Questa iscrizione ha un’efficacia già spiegata in precedenza, ossia quella di
certificazione anagrafica e pubblicità notizia, quindi un’efficacia meramente
informativa, che non è né dichiarativa né costitutiva.
La situazione, come detto, ha subito un’ulteriore variazione a seguito del d.lgs.
228/2001, che, in riferimento all’iscrizione nelle sezioni speciali del registro,
previste per imprenditori agricoli, coltivatori diretti del fondo e società
semplici che esercitano attività agricola, ha sancito un’altra efficacia, quella
dichiarativa.
33
CAPITOLO V
GLI ELEMENTI DI IDENTIFICAZIONE DELL’IMPRESA
Allo scopo di disciplinare la concorrenza tra gli imprenditori, e di garantire la loro
riconoscibilità sul mercato, il legislatore ha predisposto un’apposita disciplina sui segni
distintivi (artt. 2563-2574): vi sono direttamente menzionati la ditta, il marchio e
l’insegna (cd. segni distintivi tipici), ma le norme si applicano anche a eventuali
ulteriori simboli impiegati dall’imprenditore, come pannelli pubblicitari e nomi di
dominio internet (cd. segni distintivi atipici).
1. La ditta
La ditta è il nome usato dall’imprenditore nei rapporti inerenti l’esercizio
dell’impresa: essa è un segno distintivo necessario, nel senso che ogni imprenditore
ne è dotato e, in mancanza di una diversa scelta, esso viene a coincidere con il nome
civile (prenome e cognome).
Tuttavia anche in tal caso resta netta la differenza tra nome civile e ditta perché
mentre il nome civile distingue l’imprenditore nei rapporti extra aziendali, la ditta lo
distingue nei rapporti afferenti l’esercizio dell’impresa. E parimenti netta è la
differenza sul piano della disciplina, perché mentre nei rapporti extra aziendali può
verificarsi la identità del nome civile (omonimia), nei rapporti imprenditoriali
l’interferenza della funzione concorrenziale della ditta esclude l’esistenza di ditte
identiche. Inoltre, il nome civile è intrasmissibile, non così la ditta, seppure nei
limiti dell’art. 2565 c.c.
34
LA FORMAZIONE DELLA DITTA
Il principio di verità
L’art. 2563, comma 2, impone, nella formazione della ditta, l’adozione del cognome
o della sigla (unione sillabica prenome + cognome) dell’imprenditore. Peraltro, la
salvezza della regola sulla trasferibilità della ditta, in realtà circoscrive la vigenza
del principio della verità, inteso come coincidenza tra il soggetto cui la
denominazione usata consente di risalire e il titolare dell’impresa, al momento della
creazione della ditta, riducendolo, in caso di trasferimento del segno distintivo ad
altro imprenditore, a un principio di verità storica.
La norma non contempla un’esplicita sanzione in caso di sua inosservanza, se non
quella della non iscrivibilità della ditta nel registro delle imprese, come si desume
dal disposto dell’art. 2566 c.c., a tenor del quale l’ufficio deve rifiutare l’iscrizione
se la ditta «non è conforme a quanto prescritto dal secondo comma dell’art. 2563»,
lasciando all’interprete di stabilire se e in che misura sia tutelabile anche la ditta
irregolare.
L’indicazione del cognome o della sigla dell’imprenditore non esaurisce il contenuto
della ditta, ma costituisce soltanto un limite all’autonomia privata che, scontata
l’osservanza della norma citata, può poi esplicarsi con ogni libertà, aggiungendo a
quella indicazione ogni altra di fantasia purché dotata di capacità distintiva o di
originalità, oltre che essere rispettosa delle regole fondamentali dell’ordine
pubblico e del buon costume, e tale da non indurre in inganno il pubblico circa la
natura dell’attività svolta (applicazione analogica art. 18, lett a) ed e) l. marchi).
Il principio di novità
L’art. 2564 stabilisce che quando la ditta risulti eguale o simile a quella usata da
un altro imprenditore e possa creare confusione in relazione all’oggetto
dell’impresa e al luogo in cui la stessa è esercitata, incombe a carico del suo
creatore l’obbligo di introdurre nella stessa elementi idonei a differenziarla.
Il riferimento all’ “impresa” mostra chiaramente come la disposizione risponda alla
funzione concorrenziale della ditta come segno differenziatore dell’attività e,
coerentemente con questa funzione, la norma prescrive il riferimento congiunto sia
all’oggetto dell’attività delle ditte eguali o simili che alla zona di operatività delle
rispettive imprese.
35
Il conflitto tra ditte confondibili viene risolto il base al principio della priorità
dell’uso: tanto si desume dall’art. 2564 (comma 1) che, facendo riferimento alla
identità o somiglianza con la ditta usata da altro imprenditore, impone
all’utilizzatore successivo di provvedere alla differenziazione. Tale principio non
può dirsi supplito, per le imprese commerciali, da quello della priorità
dell’iscrizione nel registro delle imprese, come potrebbe suggerire il tenore del
secondo comma: «L’obbligo della integrazione o modificazione spetta a chi ha
iscritto la propria ditta nel registro delle imprese in epoca posteriore»: tale norma,
invero, va coordinata con la disposizione di cui all’art. 2193 relativa alla cd.
efficacia negativa dell’iscrizione nel registro (secondo la quale la mancata
ottemperanza all’obbligo di registrazione non preclude totalmente l’opponibilità del
fatto soggetto a pubblicità), ma la subordina all’onere della effettiva conoscenza da
parte del terzo cui si vuole opporre il fatto non iscritto. Ne consegue che colui che
ha usato per primo la ditta confondibile può opporre tale priorità all’utilizzatore
successivo sia quando abbia preceduto quest’ultimo anche nella registrazione, sia
nel caso contrario, purché in tale seconda ipotesi, provi che nel momento della
registrazione più tempestiva l’altro imprenditore fosse consapevole dell’esistenza
della ditta uguale/simile registrata.
Nonostante che l’art. 2564 si esprima in termini di doverosità dell’integrazione o
modifica, in realtà si tratta non di un obbligo, ma di un onere, essendo il
soccombente nel conflitto tenuto a tanto solo se interessato a conservare la
possibilità di utilizzare la propria ditta.
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Il diritto all’uso esclusivo della ditta nasce con l’adozione di una certa
denominazione come segno distintivo, indipendentemente dalla sua registrazione:
l’interpretazione sopra illustrata ex art. 2564 co. 2 esclude che la registrazione abbia
valore costitutivo, e non di semplice opponibilità a terzi. Ne consegue che la
registrazione, non accompagnata dall’uso effettivo, è inidonea ad attribuire
un’esclusiva sul segno distintivo e che, nel conflitto tra ditta registrata (ditta
ufficiale) e ditta effettivamente usata (ditta ufficiosa) è solo alla seconda che può
essere riconosciuta tutela giuridica.
Infine, il diritto all’uso della ditta si estingue per una vicenda eguale e contraria a
quella che è alla base del suo sorgere: ossia con la cessazione dell’uso. Tale
cessazione deve assumere carattere di definitività, come avviene nell’ipotesi di
trasferimento dell’azienda non accompagnato dal trasferimento della ditta.
2. L’insegna
All’insegna il codice civile dedica un’unica disposizione, l’art. 2568 (contenente il
richiamo alla regola dell’art. 2564 comma 1°, sul divieto di uso di una ditta
confondibile.
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L’insegna identifica un segno (emblematico o denominativo) apposto
all’ingresso del locale (o dei locali) dove l’imprenditore offre al pubblico i beni
o i servizi da lui prodotti o commercializzati. Essa risponde sia alla funzione di
distinguere l’esercizio dagli altri facenti capo alla concorrenza, sia di facilitarne
la fisica reperibilità.
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abbia un semplice diritto all’uso. Ne consegue che, laddove trasferisca ad altri locali
l’esercizio dell’impresa, avrà diritto ad applicare a questi ultimi l’insegna.
Non figurando l’insegna tra le indicazioni attinenti alle imprese commerciali
soggette alla pubblicità nel registro delle imprese consegue, per la tassatività della
elencazione contenuta nell’art. 2196, la non iscrivibilità dell’insegna: pertanto, il
conflitto tra insegne confondibili ai sensi dell’art. 2564 andrà risolto unicamente in
base alla priorità dell’uso.
IL TRASFERIMENTO DELL’INSEGNA
Nonostante il mancato richiamo dell’art. 2565 comma 1° si deve ritenere che
l’insegna non sia trasferibile separatamente dall’azienda, né che la stessa possa
formare oggetto di concessione in uso (licenza) attesa la funzione di tale segno come
distintivo della localizzazione di un certo complesso organizzato a fini
imprenditoriali.
L’inapplicabilità all’insegna del principio di verità esclude l’applicazione dell’art.
2565 comma 2°, che condiziona l’uso della ditta derivata al consenso del cedente
l’azienda: laddove l’insegna includa il nome dell’imprenditore, l’interesse a non
vedere utilizzato il proprio nome per identificare un’attività svolta da altri potrà
trovare tutela mediante apposita clausola pattizia che escluda, dai beni costituenti il
complesso aziendale ceduto, l’insegna.
3. Il marchio
Il sistema giuridico dei segni distintivi considera, accanto all’interesse dell’imprenditore
a differenziare la sua attività mediante l’uso della ditta, e a quello di identificarne il
luogo di esercizio mediante l’uso dell’insegna, anche quello di differenziare i prodotti
o i servizi offerti mediante l’uso del marchio → Si intende per marchio il segno con il
quale l’imprenditore presenta i prodotti o i servizi sul mercato.
Esso, già disciplinato dal r.d. 929/1942 nonché dagli artt. 2569-2574, ha formato
oggetto della regolamentazione generale contenuta nel Codice della Proprietà
industriale (d.lgs. 30/2005) con il quale si è inteso dare una disciplina organica a una
materia oggetto di varie normative.
L’evoluzione normativa ha radicalmente inciso sulla funzione distintiva del marchio: la
precedente disciplina, che vincolava la circolazione del marchio a quella dell’azienda, il
segno assicurava la provenienza del prodotto dalla medesima organizzazione aziendale,
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garantendone, quindi, indirettamente il livello qualitativo. Tale funzione, definita
funzione di indicazione di provenienza, è completamente tramontata con la modifica
apportata dal d.lgs. 480/1992, che ammette la circolazione della titolarità o del diritto
all’uso del marchio separatamente dall’azienda, di talché in nessun modo è garantito che
il prodotto o il servizio provengano da una costante fonte produttiva → La funzione
distintiva del marchio afferisce, quindi, solo alla presenza nel prodotto o nel servizio di
determinate caratteristiche particolari, che, collocandosi accanto a quelle costanti della
classe merceologica di riferimento, consentono di differenziarlo da beni o servizi
analoghi.
È la presenza costante di queste caratteristiche tipologiche, e non la provenienza né lo
standard qualitativo che il marchio assicura: tanto si evince dal divieto di uso decettivo
del marchio, sancito dalla norma secondo la quale non possono essere utilizzate come
marchio «i segni idonei a ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza
geografica, sulla natura o sulla qualità di prodotti o servizi». (Art. 14, comma 1°,
lett b) del codice).
40
contraddistingue un bene prodotto e commercializzato, il marchio di servizio
contraddistingue un servizio reso al pubblico dall’imprenditore;
3. Il marchio è speciale quando è destinato a contraddistinguere un solo prodotto, è
generale quando è destinato a contraddistinguere più prodotti che il fabbricante
produce;
4. In merito al requisito della originalità, vale la distinzione tra marchi deboli e
marchi forti. I marchi forti sono particolarmente originali e fantasiosi, hanno
grande capacità distintiva e sono dotati di tutela giuridica più forte, dato che né
vietata ogni qualsiasi emulazione. I marchi deboli, invece, sono costituiti da
parole d’uso convenzionale, hanno minore capacità distintiva e efficacia
individualizzante e, pertanto, ricevono una tutela giuridica meno potente. Tale
distinzione, nella pratica, non è così infatti → Infatti può accadere che un
marchio debole, usato in un particolare modo o divenuto particolarmente noto
tra il pubblico, diventi marchio forte (cd. secondary meaning).
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per la tutela degli interessi di una categoria di imprenditori cui viene concesso
l’uso del segno per contraddistinguere i loro prodotti. La peculiarità della
fattispecie consiste nella funzione del marchio che, a differenza di quello
individuale, è destinato a offrire ai consumatori una garanzia qualitativa: tale
funzione è assicurata dalla subordinazione della concessione in uso del marchio
all’adesione, da parte delle imprese utenti, a un ordinamento regolamentare
comune che preveda precise norme atte ad assicurare la rispondenza alla realtà
della garanzia offerta. Il mancato controllo sull’uso del marchio da parte del
titolare concedente ne comporta la decadenza. (Nota: In definitiva, i marchi
collettivi (art. 2570) appartengono a un soggetto, per esempio una società
consortile, che non svolge alcuna attività di impresa, limitandosi a garantire la
qualità, la natura e l’origine delle merci prodotte dagli imprenditori cui è
concesso l’uso del marchio stesso – es. “Pura lana vergine”.
REQUISITI DI VALIDITÀ
Ai sensi dell’art. 7 cod. pr. Ind. Possono costituire oggetto di registrazione come
marchio «tutti i nuovi segni suscettibili di essere rappresentati graficamente…
purché siano atti a contraddistinguere prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di
altre imprese». A sua volta, l’art. 13 co 1° esclude che possano costituire oggetto di
valido marchio i segni costituiti esclusivamente dalle denominazione generiche di
prodotti o servizi o dalle indicazioni descrittive che a essi si riferiscono; l’art. 14
esclude invece segni idonei a ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza
geografica, sulla natura o sulle qualità dei prodotti o servizi (lett b), e quelli contrari
alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume (lett a).
Da queste norme si traggono i requisiti di validità del marchio:
1) La novità → Questo requisito, in base al quale il marchio non deve essere
confondibile con il marchio, ditta o insegna utilizzati da altri imprenditori
operanti in settori di mercato identici o affini, manca ovviamente laddove il
segno del quale si chiede la registrazione sia già noto come marchio distintivo di
prodotti o servizi identici o affini a quelli fabbricati o messi in commercio da
altri (art. 12 lett b Cod.), ovvero come ditta, denominazione o ragione sociale o
insegna adottati da altri, se ciò può comportare un rischio di confusione per il
pubblico (art. 12 lett c);
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2) L’originalità (o capacità distintiva) → L’interesse dell’imprenditore a rendere
percepibile, attraverso il marchio, le caratteristiche o la denominazione del
prodotto, viene conciliato con il requisito della originalità mediante l’uso dei
cc.dd. marchi espressivi, formati da segni dotati di valenza descrittiva del
prodotto accompagnati dall’aggiunta di modifiche (prefissi o suffissi se si tratta
di marchi denominativi, particolari stilizzazioni se si tratta di marchi figurativi).
Quindi, in base a questo principio, il marchio non deve essere formato da nomi
convenzionali o generici privi di capacità distintiva e di efficacia
individualizzante (es. la parola «calzature»). Consacrando una soluzione già
sostenuta in dottrina, la legge (art. 13 comma 2° Cod) ammette che la nullità del
marchio per contrarietà al disposto degli artt. 12 comma 1° (uso generale del
segno) e 13 comma 1° (coincidenza con la denominazione generica del
prodotto/servizio) possa essere sanata se il segno ha assunto carattere distintivo
del prodotto «a seguito dell’uso che ne è stato fatto» (cd. secondary meaning)
in modo da riscattare l’originaria carenza di potere individuante: (Nota: questo
succede quando, in riferimento alla distinzione sopra fatta, un marchio debole
usato in un particolare modo o divenuto particolarmente noto tra il pubblico,
assuma il carattere di marchio forte);
3) La liceità → Non possono costituire oggetto di marchio «i segni contrari alla
legge, all’ordine pubblico e al buon costume» (art. 14 comma 1° lett a), ovvero
configgenti con altrui diritto esclusivo (art. 14 comma 1° lett c). Qui va
inquadrato il problema della utilizzabilità, come marchio, di ritratti altrui (per i
quali, l’art. 8 comma 1°, ne condiziona la registrazione al consenso del soggetto
ritratto/coniuge/affini), o del nome altrui (per il quale l’art. 8 comma 2° ne
sancisce la libera appropriabilità purché non ne vengano pregiudicati la fama, il
credito e il decoro del soggetto);
4) La veridicità → Qui rileva l’art. 14, che esclude l’utilizzabilità dei segni idonei
a ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura
o sulle qualità dei prodotti/servizi (lett b).
43
e Marchi (UIBM), il quale verificherà la presenza dei requisiti di validità sopra
elencati. Avverso l’eventuale rigetto della domanda può proporsi reclamo innanzi ad
apposita Commissione, la quale decide con sentenza motivata ricorribile in
Cassazione. Laddove la domanda sia accolta, l’Ufficio iscrive il marchio nel
Registro e rilascia il relativo brevetto, i cui effetti retroagiscono alla data di
presentazione della domanda.
L’art. 11 del d.lgs. 33/2010 (Regolamento di attuazione del Codice della proprietà
industriale) ha stabilito che ogni domanda deve contenere, oltre alla richiesta di
registrazione di un solo marchio e a un esemplare del marchio stesso, anche le
generalità della persona fisica o la denominazione, la sede e la nazionalità della
persona giuridica o dell’ente, il tipo di marchio (verbale, figurativo, ecc). È previsto
che il deposito possa avvenire anche per via telematica.
Nonostante la formula adottata dall’art. 2569 (vd. articolo), l’art. 2571 stabilisce che
«chi ha fatto uso di un marchio non registrato ha la facoltà di continuare a usarne,
nonostante la registrazione da altri ottenuta, nei limiti in cui anteriormente se ne è
avvalso».
(Nota: di solito si parla, a questo proposito, di marchio di fatto, ossia quel marchio
non registrato che abbia, tuttavia, raggiunto notorietà nazionale o anche soltanto
locale. Dal momento che il titolare di questo marchio, ex art. 2571, può continuare
ad avvalersene nei limiti del preuso, si può capire che se il marchio ha acquisito
notorietà nazionale, il titolare potrà rivendicare la nullità (per difetto di novità) del
marchio confondibile successivamente registrato da altri; se invece il marchio di
fatto ha notorietà meramente locale, il titolare non potrà impedire che altri si
avvalgano di un marchio confondibile – registrato – in una qualsiasi altra zona del
territorio nazionale. Egli avrà diritto a proseguirne l’uso nei limiti, appunto, del
preuso).
La portata di tale norma, che sembra ammettere la coesistenza di un marchio
registrato e di un marchio non registrato, è ridimensionata dall’art. 12 lett b), il quale
stabilisce che l’uso precedente del segno, quando non importi notorietà di esso o
importi notorietà puramente locale, non esclude il requisito della validità.
Considerato, però, che con l’estensione nazionale della maggior parte dei mezzi di
comunicazione di massa, la notorietà meramente locale dei marchi diviene
fenomeno marginale, si può dire che l’efficacia preclusiva dell’adozione dello stesso
44
marchio da parte di terzi è identica per il marchio registrato e per quello non
registrato.
L’esclusiva riconosciuta al titolare del marchio registrato non è tuttavia assoluta: sia
l’art. 2569 cc, che parla di diritto di «valersene in modo esclusivo per le cose per le
quali è stato registrato», sia l’art. 15 comma 3° Cod., il quale dispone che «la
registrazione esplica effetto limitatamente ai prodotti e ai servizi indicati nella
registrazione stessa» esprimono il principio della cd. relatività della tutela del
marchio o principio di specialità (a tale scopo la domanda di registrazione deve
contenere l’indicazione del genere di prodotti cui si riferisce il marchio), anche se
poi la stessa norma riconosce che la tutela si estende anche ai prodotti affini a quelli
indicati: tale caratteristica viene stabilita secondo un criterio fattuale, fondato sulla
idoneità del prodotto a soddisfare, rispetto alla medesima clientela, gli stessi bisogni
cui risponde il prodotto indicato nel brevetto.
L’esistenza di marchi che, per la particolare notorietà del prodotto, hanno acquistato
un potere di richiamo sulla clientela particolarmente intenso, ha indotto la dottrina
ad ampliare la tutela al di là dei limiti di specialità, sia pure sforzando il concetto di
affinità del prodotto al limite di una (supposta) provenienza dalla stessa impresa:
questo indirizzo ha trovato consacrazione legislativa (art. 20, comma 1°, lett c)
Cod), che ha espressamente distinto tra marchi ordinari – la cui tutela è limitata ai
prodotti indicati nel brevetto e a quelli affini – e marchi di rinomanza – per i quali
si realizza un totale distacco del segno dal prodotto, esaltandone la funzione
pubblicitaria. La tutela del marchio celebre è, quindi, svincolata dal principio di
specialità, estendendosi a prodotti totalmente diversi da quelli per i quali il marchio
è stato registrato.
45
1. Le azioni cautelari si articolano nella descrizione, nel sequestro e nella
inibitoria (artt. 128, 129 e 131 Cod. pr. Ind.): le prime due sono misure cautelari
reali (perché colpiscono le cose), mentre la terza è una misura cautelare personale
(perché colpisce una persona impedendole la continuazione di un facere). Queste
sono misure cautelari tipiche e hanno a oggetto, rispettivamente:
1) La descrizione mira a «fotografare» storicamente la situazione, che viene dedotta
come integrante la violazione del diritto di esclusiva: essa ha a oggetto i prodotti, gli
involucri, ecc (essa ha finalità ricognitiva);
2) Il sequestro, invece, si realizza con lo spossessamento: esso, a differenza della
descrizione che ha una funzione probatoria, svolge una funzione preclusiva della
perpetuazione dell’illecito;
3) L’inibitoria svolge una funzione preclusiva con ancora maggiore incisività:
essendo un ordine di non facere, ha una portata generale relativa al divieto di
procedere all’uso del marchio contraffatto, mentre il sequestro è limitato agli oggi
sui quali si realizza lo spossessamento materiale.
Oltre alle misure cautelari, il titolare del marchio registrato può esercitare le
seguenti azioni per il reintegro dei suoi diritti:
a) Azione di contraffazione → Mira a far dichiarare l’illecito e a far interrompere
un uso indebito del segno distintivo su cui l’attore vanta l’esclusiva. Legittimati
attivamente sono sia il titolare del marchio sia il licenziatario con esclusiva;
legittimato passivo è chiunque violi l’esclusiva. Accanto alla situazione di
merito, si pongono poi una serie di misure accessorie, come la rimozione del
segno contraffatto dal prodotto, dagli involucri e dal materiale inerente la
produzione;
b) Azione di risarcimento del danno → Danno che si è eventualmente prodotto
nel patrimonio del titolare dell’esclusiva in conseguenza della sua violazione:
deve essere in rapporto di causalità con l’illecito e assume la configurazione sia
del “danno emergente” che del “lucro cessante” (Nota: l’azione vale in caso di
dolo o colpa);
46
all’azienda o a un ramo particolare di essa (funzione di indicazione di provenienza
del prodotto), con la legge del 1992 tale finalità non è più perseguita: il marchio può
essere «trasferito per la totalità o per una parte dei prodotti o servizi per i quali è
stato registrato» - l’art. 2573 ammette la cessione definitiva o temporanea (sotto
forma di licenza) del marchio indipendentemente dagli altri beni aziendali, con
l’unico limite che in ogni caso, dal trasferimento o dalla licenza, non derivi inganno
in quei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali nell’apprezzamento del
pubblico.
IL MERCHANDISING
Il merchandising è il contratto con il quale il titolare di un marchio ne concede la
facoltà in uso a un altro imprenditore per apporlo su prodotti i natura diversa da
quelli per i quali è stato realizzato e registrato in precedenza.
I beni offerti in merchandising possono essere costituiti da marchi registrati che
abbiano acquistato una certa notorietà (corporate merchandising), ma anche da
nomi, espressioni e figure facenti parte di un’opera letteraria, cinematografica
(character merchandising).
L’operazione si caratterizza per una duplice utilizzazione dello stesso segno:
l’utilizzazione primaria che ha fatto acquisire valore attrattivo al segno, e
l’utilizzazione secondaria con cui tale valore viene sfruttato da altro soggetto.
47
Per quanto attiene al merchandising di marchi, si ritiene che lo strumento
contrattuale impiegato sia da ricondurre a una licenza di marchio, dal momento che
il licenziante conserva la titolarità del diritto: la figura si differenzia tuttavia dalle
licenze d’uso di tipo tradizionale nelle quali al licenziatario viene concesso di usare
il marchio per prodotti già fabbricati dal licenziante.
48
- la terza (lettera c) infine contempla l’ipotesi, specifica del marchio collettivo, di
omissione di controlli previsti dalle disposizioni regolamentari. Alla base di
quest’ipotesi di decadenza, vi è l’esigenza di evitare una pura e semplice
«occupazione» monopolistica del marchio, e quindi di rimettere nella libera
disponibilità degli imprenditori concorrenti quello non utilizzato, mediante il
richiamo all’art. 24 co 1°, che impone al titolare l’uso effettivo del marchio entro 5
anni dalla registrazione. Al mancato uso è equiparata la sua sospensione per eguale
periodo. L’espressione «uso effettivo» sta a indicare una qualsiasi utilizzazione non
puramente simbolica nelle forme correnti che vanno dall’apposizione sul prodotto
alla pubblicità. La norma eccettua l’ipotesi che il mancato uso sia dovuto a «motivi
legittimi», da intendersi come oggettive circostanze che sconsigliano l’uso del
marchio (esempio: ripetute contraffazioni).
Dalla decadenza per non uso sono esclusi i cc.dd. marchi difensivi: quei marchi che
presentano somiglianza con il marchio usato e che vengono registrati, per gli stessi
prodotti o servizi, a evitare che altri si avvicinino al marchio difeso.
L’art. 28 del Codice prevede un’ipotesi di eccezionale sanatoria del marchio nullo
per difetto di novità, stabilendo che la confondibilità di un marchio registrato con un
precedente marchio registrato o con un marchio non registrato di notorietà nazionale
non può legittimare la dichiarazione di nullità dopo che per 5 anni consecutivi se ne
sia fatto pubblico uso, salvo che la registrazione del marchio sia stata ottenuta in
mala fede, e fermo restando che il titolare del marchio posteriore registrato non
potrà opporsi alla continuazione dell’uso di quello anteriore. Di talché, si avrà, per
uno stesso settore merceologico, la coesistenza di due segni distintivi confondibili:
49
l’anomalia si spiega con la circostanza che il titolare del segno anteriore non ha
sentito il bisogno di opporsi tempestivamente all’uso del successivo.
A norma dell’art. 118 comma 3° della legge, in ipotesi di registrazione del marchio
da parte «di persona diversa dall’avente diritto» quest’ultimo può optare tra la
declaratoria di nullità del segno distintivo e il trasferimento a suo nome
dell’attestato di registrazione (cd. azione di rivendicazione): la fattispecie si
riferisce all’ipotesi in cui oggetto della registrazione sia un segno distintivo
preesistente avente effetto invalidante della novità del marchio a norma dell’art. 14
comma 1° c) Cod, ovvero un ritratto o un nome notorio in difetto del consenso da
parte del loro titolare (art. 8).
50
Capitolo VI
I DIRITTI DI PRIVATIVA
(Le invenzioni)
Definiamo INVENZIONE l’ideazione o l’idea di un particolare modo pratico per
risolvere un problema, e da questo punto di vista possiamo distinguere:
1) INVENZIONE DI PROCEDIMENTO. Scoperta di un particolare procedimento
per giungere alla realizzazione di un prodotto già noto, ma migliorandone lo
standard e riducendone i costi:
2) INVENZIONE DI PRODOTTO. Realizzazione di nuovi oggetti dotati di
particolari caratteristiche.
3) INVENZIONE D’USO. Nuova/diversa utilizzazione di prodotto già esistenti,
migliorandone il rendimento.
La disciplina delle invenzioni è contenuta negli artt. 2584-2590 e nel Codice della
Proprietà Industriale (d. lgs. 30/2005).
REQUISITI
Poiché l’esclusiva brevettuale costituisce un privilegio concesso dall’ordinamento, è
quest’ultimo a fissare i requisiti che l’idea inventiva deve avere per essere
precettabile.
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1.Materialità
L’invenzione deve avere l’attitudine a realizzarsi in un risultato fisicamente
percepibile che possa essere prodotta dall’inventore e immesso sul mercato.
Tale requisito si ricava da una serie di norme del Codice della Proprietà
Industriale. L’art. 45 sancisce, infatti, che non possono formare oggetto di
brevetto le scoperte, le teorie scientifiche, i piani e i principi intellettuali,
quindi deve trattarsi di prodotti materiali.
In merito alla tripartizione delle invenzioni, va rilevato che se il requisito
della materialità è di tutta evidenza nella invenzione di prodotto, non è da
meno presente anche nelle invenzioni di procedimento (che pure sfociano in
un prodotto, noto, ma ottenuto mediante procedimento nuovo) così come
nelle invenzioni d’uso (nuova utilizzazione di un oggetto materiale noto).
Conclusione: in ogni invenzione brevettabile vi è un collegamento con un
quid materiale, sia quando è quest’ultimo direttamente a formare oggetto del
brevetto, sia quando l’esclusiva cade sul procedimento per ottenerlo, ovvero
sul modo di utilizzarlo.
2.Industrialità
Significa che l’invenzione, per essere brevettabile, deve concernere un
oggetto materiale suscettibile di produzione in serie. Principio, questo,
sancito dall’art. 2585 («Possono costituire oggetto di brevetto le nuove
invenzioni atte ad avere un’applicazione industriale»). Significa che
l’esclusiva brevettuale non può mai concernere un prodotto di produzione
artigianale.
3.Novità
L’art. 46 Cod. Prop. Ind. qualifica come NUOVA l’invenzione “non
compresa nello stato della tecnica”, intendendosi con tale locuzione tutto ciò
che è stato reso accessibile al pubblico prima del deposito della domanda di
brevetto mediante descrizione scritta/orale o una qualsiasi altra utilizzazione
(invenzione già divulgata). Il requisito della novità è detto anche
dell’originalità estrinseca.
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4.Originalità
Originalità (intrinseca) è considerata come implicante un’attività inventiva
se, per una persona esperta del ramo, essa non risulta in modo evidente dallo
stato della tecnica. Questo requisito costituisce, in effetti, una
quantificazione della novità, nel senso che, a rendere l’invenzione
brevettabile non è sufficiente che essa rappresenti qualcosa di diverso a
livello di cognizioni tecniche diffuse tra il pubblico (novità estrinseca), ma
che questa diversità rappresenti un contributo creativo al patrimonio di
cognizioni dell’epoca (novità intrinseca).
INVENZIONI PARTICOLARI
● Nelle INVENZIONI DI PERFEZIONAMENTO appare attenuato il
carattere della originalità, perché esse nascono da una modifica a una
precedente invenzione di prodotto, consentendo la risoluzione del medesimo
problema tecnico in modo più conveniente:
● Con l’INVENZIONE DI TRASLAZIONE si trasferisce un’invenzione
preesistente in un altro campo di applicazione, conseguendo un risultato
finale diverso;
● Con l’INVENZIONE DI COMBINAZIONE si raggiunge un risultato
tecnico nuovo mettendo insieme elementi già conosciuti.
53
allo stesso risultato inventivo: la legge tempera questo rischio riconoscendo
all’autore dell’invenzione non brevettata il diritto a continuare a sfruttare
l’invenzione, nei limiti del preuso.
Il titolare del brevetto può concedere ad altri licenza d’uso dello stesso in via
esclusiva o meno, contro un corrispettivo che può essere anche rappresentato da
royalties sui prodotti venduti. Una particolare forma di licenza (LICENZA
OBBLIGATORIA) è prevista per il caso di mancata attuazione dell’invenzione nel
termine triennale dal rilascio del brevetto o quadriennale dal deposito della domanda
→ l’inerzia del titolare del brevetto non viene più sanzionata con la decadenza
dall’esclusiva, ma con il diritto riconosciuto a ogni interessato a ottenere licenza per
«l’uso non esclusivo dell’invenzione medesima», sempre che dia sufficienti garanzie
«in ordine a una soddisfacente attuazione dell’invenzione».
54
Capitolo VII
GLI AUSILIARI DELL’IMPRENDITORE
Nel concreto svolgimento dell’attività di impresa, di regola, l’imprenditore si serve
delle prestazioni lavorative di soggetti che possono configurarsi come:
● Ausiliari autonomi (agenti di commercio, mandatari, ecc) legati all’imprenditore
da un rapporto di prestazione d’opera (art. 2222 ss) ed esterni all’organizzazione
dell’impresa;
● Ausiliari subordinati (quadri, impiegati, ecc) legati all’imprenditore da un
rapporto di subordinazione gerarchica (art. 2086) e inseriti stabilmente
nell’organizzazione dell’impresa.
Tra gli ausiliari subordinati, particolare rilievo assumono la figura dell’institore, del
procuratore e del commesso.
L’INSTITORE
Secondo la definizione contenuta nell’art. 2203, «È institore chi è preposto dal
titolare all’esercizio di un’impresa commerciale» ovvero di una sede secondaria o di
un ramo particolare di essa. Si tratta di un soggetto che si caratterizza per la
particolare posizione assunta nell’impresa (si suole parlare di alter ego
dell’imprenditore), non essendo sottoposto ad alcun superiore gerarchico.
Quindi, più che per specifiche mansioni, l’institore (spesso detto anche “preposto”),
si caratterizza per un potere piuttosto ampio, che comprende tanto una
rappresentanza sostanziale che processuale.
Dalla lettura del primo comma, emerge che l’institore possa compiere tutti gli atti
pertinenti l’esercizio dell’impresa, senza alcuna distinzione tra atti di ordinaria e di
straordinaria amministrazione. Il giudizio di pertinenza va effettuato con riferimento
alle concrete dimensioni dell’impresa e sono solo eccettuate, in base alla tradizionale
concezione che attribuisce particolare importanza al patrimonio immobiliare
55
dell’imprenditore, gli atti di alienazione e costituzione di ipoteche su beni immobili,
salva autorizzazione del preponente. Fermo restando che, in realtà, un atto di
autorizzazione espressa del preponente potrà ampliare i poteri generali dell’institore, a
tal punto da consentirgli di alienare/affittare l’azienda, attribuzioni normalmente
precluse all’institore.
A questo potere di rappresentanza sul piano sostanziale, se ne accompagna un altro sul
piano processuale (art. 2204 co.2), per cui i terzi possono sia convenire in giudizio
l’institore in luogo del titolare dell’impresa sia essere da lui convenuti per «le
obbligazioni dipendenti da atti compiuti nell’esercizio dell’impresa cui è preposto».
Anche la rappresentanza processuale può ritenersi suscettibile di limitazione volontaria.
56
IL PROCURATORE
Di tale figura ci parla l’art. 2209, che estende ai procuratori la normativa sulla pubblicità
degli institori, definendo i primi come coloro che «in base a un rapporto continuativo,
abbiano il potere di compiere per l’imprenditore gli atti pertinenti all’esercizio
dell’impresa, senza essere preposti a essa». Questa espressione comprende, in realtà,
non solo un potere rappresentativo esterno, ma anche un potere decisionale interno,
connesso all’attribuzione di funzioni direttive di un autonomo settore operativo.
Occorre sempre ricordare, però, che il potere decisionale del procuratore non può mai
abbracciare la globalità dell’attività di impresa: egli, contrariamente all’institore, non è
posto al vertice dell’organizzazione aziendale, e non ha un potere direttivo generale, ma
solo autonomia gestionale relativa al settore operativo che dirige. Ergo, il suo operato si
svolge sempre sotto il controllo di un superiore gerarchico intermedio.
Particolare importanza riveste, per il procuratore, l’art. 2208: la prima parte, come per
l’institore, è senz’altro applicabile (si fa riferimento all’omessa contemplatio domini),
mentre la seconda parte della norma no: per gli atti compiuti dal procuratore, senza
spendita del nome dell’imprenditore, gli effetti ricadono unicamente nella sfera del
procuratore, e mai potrà essere chiamato l’imprenditore a rispondere, contrariamente a
quanto accade nel rapporto tra institore e imprenditore, ex art. 2208 (seconda parte).
Alla rappresentanza sostanziale del procuratore non si accompagna, come effetto
naturaliter, quella processuale, che a differenza di quanto avviene per l’institore, deve
essere conferita espressamente per iscritto.
IL COMMESSO
Il commesso è un ausliario subordinato che svolge mansioni prevalentemente esecutive,
che però comportano un’attività rilevante nei rapporti esterni. I commessi sono dotati di
un potere di rappresentanza molto ridotto: possono sì agire in nome e per conto
dell’imprenditore anche senza un formale atto di preposizione, ma limitatamente agli
atti che sono ordinari per la qualifica che essi rivestono (art. 2210).
Si tratta, in buona sostanza, di una svariata gamma di lavoratori sia di livello
impiegatizio che operaio, quali gli addetti alla vendita o al banco o alla cassa, i
bigliettai, i camerieri, ecc. Nel lavoro dei commessi, il legislatore ha inserito alcuni
limiti. È sufficiente leggere, per i commessi incaricati di concludere contratti, l’art. 2211
e, per i commessi preposti alle vendite, l’art. 2213.
57
Capitolo VIII
L’AZIENDA
L’art. 2555 definisce l’azienda come «il complesso dei beni organizzato
dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa»: essa è, pertanto, lo strumento per lo
svolgimento di quell’attività economica organizzata rivolta alla produzione e allo
scambio di beni o servizi cui l’art. 2082 connette la qualifica di imprenditore.
Quindi l’azienda è un “complesso di beni” che si pone in rapporto di strumentalità
all’impresa, concepita, invece, come “un’attività.
Questo rapporto di strumentalità non deve essere necessariamente attuale, ma anche
semplicemente prospettico: si ha quindi azienda anche se il complesso organizzato
non è ancora “in esercizio”, ossia non si sono instaurati rapporti con la clientela.
Esiste un vincolo funzionale che unisce i vari elementi dell’azienda e consente,
mediante il loro coordinato utilizzo, di venire incontro ai bisogni del mercato:
questo vincolo funzionale unisce i vari elementi tra di loro, consentendo di superare
la loro eterogeneità sia sotto il profilo della diversa natura e consistenza
(dell’azienda possono far parte tanto beni materiali che beni immateriali), sia sotto il
profilo del diverso titolo giuridico in base al quale colui che organizza l’azienda ha
diritto di utilizzarli (proprietà, diritto reale o personale di godimento, ecc).
L’idoneità del complesso a creare, attraverso la produzione e lo scambio di beni e
servizi, nuova ricchezza, fa sì che l’insieme abbia una valenza economica
differenziale rispetto alla somma dei singoli componenti, valenza misurabile in
termini monetari e definita valore di avviamento. (Nota: Galgano definisce
l’avviamento come l’attitudine del complesso aziendale a produrre un risultato
economico positivo).
Questa valenza è determinata dalla sola formazione del complesso organizzato,
indipendentemente dall’esistenza di un flusso di domanda (clientela), anche se
aumenta con l’incrementarsi di quest’ultima: questo spiega perché si possa parlare
di avviamento anche per un’azienda non ancora in esercizio.
58
contrapposizione tra la concezione unitaria – secondo la quale l’organizzazione
impressa dall’imprenditore ai beni aziendali conferirebbe loro non solo unitarietà
economica, ma anche unità giuridica: l’azienda si prospetterebbe come nuova e
distinta rispetto ai beni che la compongono – e la concezione atomistica
dell’azienda – in base alla quale l’unitarietà rileverebbe solo sotto il profilo
economico, mentre i beni aziendali non perderebbero, giuridicamente, la loro
specificità.
Introdotta dall’attuale codice una disciplina positiva dell’azienda, i termini del
problema sono mutati: non si tratta più di stabilire se l’azienda sia o meno un bene
unico dal punto di vista tipologico, bensì dal punto di vista «normativo». La risposta
a tale quesito è articolata, essendovi aspetti della disciplina ancorati ora all’una ora
all’altra teoria. Le lacune del sistema andranno poi colmate caso per caso, a seconda
se gli interessi coinvolti troveranno migliore protezione nell’applicazione della
disciplina dettata per i singoli beni o, viceversa, nell’applicazione di una disciplina
unitaria (che sarà quella della universalità di beni mobili definita dall’art. 816 cc
come «pluralità di cose che appartengono a una stessa persona e hanno una
destinazione unitaria»).
Altro aspetto sotto il quale può prospettarsi una divergenza tra il concetto
economico e il concetto giuridico attiene alla individuazione degli elementi: sotto
l’aspetto economico concorre a costituire l’azienda ogni elemento idoneo a garantire
la realizzazione del programma imprenditoriale – non solo beni materiali e
immateriali de quali si abbia la disponibilità in virtù di un diritto reale ma anche
quelli la cui disponibilità sia assicurata dall’adempimento di un contratto a
prestazioni corrispettive, e ciò sia che si tratti di beni attuali (che entrano a far parte
immediatamente del complesso aziendale) sia dei cc.dd. beni prospettici (che
entrano a farne parte successivamente) – ma può altrettanto dirsi per il concetto
giuridico di azienda? La risposta è negativa per gli apporti collaborativi (cd. servizi)
i quali fuoriescono dal concetto di «bene» secondo il codice civile, mentre non
sembra possano accogliersi interpretazioni restrittive della categoria di «beni»
limitandola a quelli attualmente esistenti, in quanto anche rispetto ai beni futuri può
esplicarsi l’idea organizzativa dell’imprenditore attraverso l’instaurarsi dei rapporti
che ne garantiscano la futura disponibilità (es. appalto).
LA CIRCOLAZIONE DELL’AZIENDA
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Gran parte della disciplina specifica dedicata dal codice all’azienda concerne il
fenomeno della sua circolazione o, più precisamente, da quella forma di circolazione
rappresentata dal trasferimento inter vivos. Anche se l’art. 2556 parla di
«trasferimento della proprietà», in realtà l’oggetto del trasferimento è quella
particolare posizione soggettiva che meglio si definisce come “titolarità
dell’azienda”.
(NOTA: La disciplina di cui agli artt. 2556 ss. deve ritenersi applicabile al
trasferimento dei cc.dd. rami di azienda, cioè di quelle parti della struttura dotate di
autonoma organicità operativa in grado di riprodurre, su scala ridotta, il progetto
aziendale. Il ramo di azienda viene in considerazione, in particolare, nella disciplina
del mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di azienda (art.
2112), in cui esso è definito come l’articolazione autonoma di un’attività economica
organizzata, identificata come tale dal cedente o dal cessionario al momento del
trasferimento: in pratica le parti possono, al momento della cessione, individuare
singole fasi o unità del processo produttivo solo ai fini del contratto di cessione,
anche modificando la propria organizzazione aziendale).
Il vincolo funzionale che lega i vari elementi costituenti l’azienda, così come non
preclude la possibilità di fare dei singoli beni oggetto di separati atti di alienazione,
così non preclude alle parti di escludere dal trasferimento uno o più beni facenti
parte dell’azienda. Si pone allora il problema di stabilire quando l’insieme residuo
costituisca ancora un’unità aziendale funzionale all’impresa oppure un semplice
coacervo di beni. Occorre risolvere questo problema facendo capo a un criterio
oggettivo rappresentato dalla permanenza, nel complesso trasferito, di beni
essenziali per l’attuazione del progetto aziendale.
60
Quando a tale dato obiettivo si accompagna un reale intento delle parti la disciplina
del trasferimento dell’azienda andrà applicata in toto; quando invece risulta che le
parti abbiano voluto fare oggetto del trasferimento una semplice pluralità di beni
aziendali allora resterà applicabile solo quella parte della disciplina che coinvolge
interessi di terzi (accollo dei debiti, successione nei contratti) mentre non si
applicherà quella parte della disciplina che coinvolge solo interessi delle parti
(divieto di concorrenza, ecc). In difetto di espressa clausola che esclude uno o più
beni aziendali non essenziali dal trasferimento, questo deve ritenersi abbracci tutti
gli elementi costitutivi dell’azienda x art. 2555 così come normalmente individuata
mediante indicazione di attività, ditta, ubicazione locali, ecc.
61
acquirenti della stessa azienda o tra acquirenti dell’azienda e acquirente dei singoli
beni aziendali, offrendo sicurezza all’acquirente che, una volta assicuratosi,
mediante il riscontro dell’inventario, che tutti i beni mobili fossero ancora nel
possesso dell’alienante, si affretti a pubblicare l’atto di acquisto, non essendo
sufficiente il mero possesso di buona fede, perché l’art. 1156 esclude le universalità
di mobili dalla regola possesso vale titolo (ex art. 1153).
Per i beni aziendali diversi dai mobili, per i quali il conflitto tra più acquirenti è
risolto con criteri pubblicitari speciali che prescindono dalla buona o mala fede
(trascrizione nei RR.II. per gli immobili, trascrizione nell’apposito registro per
marchi e brevetti), occorrerà, invece, procedere a integrare la pubblicità
commerciale prevista dall’art. 2256 comma 2° con la pubblicità speciale prevista per
i singoli beni.
IL DIVIETO DI CONCORRENZA
L’Art. 2557 sancisce, a carico dell’alienante l’azienda, l’obbligo di astenersi, per il
periodo di 5 anni dal trasferimento, «dall’iniziare una nuova impresa che per
l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dall’azienda
ceduta». La ragione della disposizione è da individuarsi nel carattere
particolarmente insidioso della concorrenza svolta da chi quella clientela ha
contribuito a creare ed è in grado di attirarla a sé (concorrenza differenziale).
La norma si riferisce all’inizio di attività concorrente, e quindi non include il
compimento di atti concorrenziali isolati e occasionali così come la continuazione di
una impresa concorrente già esistente con altra azienda. Per quanto riguarda
l’oggetto, il divieto concerne non solo la produzione o lo scambio degli stessi beni o
servizi dell’azienda ceduta, ma anche beni o servizi succedanei purché destinati alla
medesima clientela, mentre il riferimento all’ubicazione comprende sia la zona di
operatività effettiva dell’azienda ceduta, sia la zona di operatività di imminente
espansione.
(Nota 1: le parti possono restringere e ampliare la portata dell’obbligo,purché non
sia impedita ogni attività professionale all’alienante; è vietato, però, prolungare oltre
i 5 anni la durata del divieto – tempo nel quale si presume si consolidi la clientela).
(Nota 2: il divieto di concorrenza, dettato per il trasferimento di aziende
commerciali, si applica anche al trasferimento delle aziende agricole limitatamente
62
alle attività connesse, e sempre che rispetto alle stesse vi sia pericolo di sviamento
della clientela – art. 2557, comma 4°).
La norma, ispirata al principio della conservazione della cd. unità aziendale, tiene
conto, da un lato, della mancanza di interesse dell’alienante e del corrispettivo
interesse dell’acquirente ad acquisire beni o servizi funzionali all’azienda (per i
contratti di azienda) e, dall’altro, della difficoltà per l’alienante, privatosi del
complesso organizzato, di adempiere e, per converso, dell’interesse dell’acquirente
ad acquisire i rapporti in corso con la clientela (per i contratti di impresa). La
disposizione si presenta come doppiamente eccezionale, rispetto alla tutela prevista
dal diritto comune per il terzo contraente: da un lato, in quanto prescinde dal suo
consenso (richiesto dall’art. 1406 per il trasferimento del rapporto contrattuale) e,
dall’altro, in quanto comporta la liberazione dell’alienante per le obbligazioni
63
assunte, normalmente esclusa in caso di successione nel debito (come confermato
dall’art. 2560 per la successione nei debiti aziendali) → la deroga trova spiegazione
nel fatto che l’interesse del terzo alla puntuale esecuzione del contratto è garantita
normalmente dalla titolarità del complesso aziendale, mentre la corrispettiva
posizione debitoria gli offre, con le varie azioni previste dal diritto comune, una
tutela altrimenti inesistente rispetto alle semplici posizioni creditorie.
L’ordinamento tiene conto, peraltro, dell’ipotesi in cui il cambiamento della
controparte contraente non è indifferente per il terzo: laddove la vicenda comporti
un obiettivo sacrificio del suo interesse (giusta causa) consente al terzo di recedere
dal contratto entro 3 mesi dalla notizia del trasferimento dell’azienda (risultante
dalla pubblicità legale o da quella di fatto): tale giusta causa può essere costituita da
carenze nelle qualità personali dell’acquirente o nella consistenza del suo patrimonio
extra aziendale rispetto a quello dell’alienante. La norma (ex art. 2558 comma 2°) fa
salva la «responsabilità dell’alienante»: ciò significa che il recesso non comporta lo
scioglimento ex nunc del contratto, vicenda che non tutela l’interesse del terzo a
conservare la posizione contrattuale che aveva prima del trasferimento dell’azienda,
ma semplicemente esclude la vicenda traslativa verificatasi senza il suo consenso.
64
L’applicazione di queste norme presuppone che il contratto non abbia avuto
esecuzione da ambedue le parti: in caso contrario, residuando solo un debito o un
credito a favore dell’alienante, si applicherà la disciplina seguente.
L’USUFRUTTO DI AZIENDA
La disciplina dell’usufrutto considera l’azienda non come un bene statico, ma come
un bene dinamico, di talché il dovere dell’usufruttuario non è quello relativo al mero
mantenimento dell’identità fisica del bene, bensì quello relativo al mantenimento
65
della funzionalità dell’azienda, mantenendo intatto il suo potenziale di avviamento
(donde una serie di doveri che affronteremo meglio). Ne deriva che il classico
dovere dell’usufruttuario, relativo al mantenimento del bene nella sua identità fisica,
in questo caso si tradurrebbe in un illecito, perché taglierebbe fuori l’azienda dal
mercato. Affrontiamo meglio i compiti dell’usufruttuario:
66
diminuzione di valore registrato dall’azienda per effetto di tali variazioni: questo è il
significato da attribuire all’ultimo comma dell’art. 2561.
67
68
Capitolo IX
LA CONCORRENZA
69
Queste limitazioni possono rispondere alla tutela di interessi generali (e in tal caso
esse sono contenute in norme inderogabili) ovvero alla tutela di interessi privati (e
in tal caso sono sancite da norme dispositive, derogabili dell’autonomia dei privati).
Solo le limitazioni del primo tipo sottostanno a entrambi i limiti, formale e
sostanziale, ricavabili dall’art. 41 co 3° Cost («La legge determina i programmi e i
controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere
indirizzata e coordinata a fini sociali») e dell’art. 2595 cc. («La concorrenza deve
svolgersi in modo da non ledere gli interessi dell’economia nazionale e nei limiti
stabiliti dalla legge») → Devono quindi essere contemplati in una norma primaria e
rispondere a finalità di ordine generale. Esse sono di vario tipo e possono consistere
in:
A) Condizionamenti all’intrapresa di una certa iniziativa imprenditoriale
(ossia alla cd. libertà d’impresa) rappresentati dalla necessità di
premunirsi di permessi dall’autorità amministrativa, i quali possono
assumere: A1) La forma giuridica della concessione, se l’attività è in
linea di principio riservata allo Stato o agli enti pubblici – esempio
rivendita tabacchi; A2) La forma giuridica dell’autorizzazione, se si
tratta di un segmento di mercato aperto ai privati, ma il cui accesso è
filtrato, in modo più o meno discrezionale, dalla P.A – esempio:
imprese bancarie o assicurative;
B) Condizionamenti all’organizzazione di una certa attività (ossia alla
libertà nell’impresa) come avviene per i controlli in itinere sulla
gestione delle imprese bancarie o assicurative.
Il potere dello Stato di limitare per legge la concorrenza può arrivare fino al
punto di escludere in toto l’accesso a determinati settori di attività,
riservandone allo Stato stesso l’esercizio: esso trova fondamento e limite
nell’art. 43 Cost, a tenor del quale «Al fine di utilità generale la legge può…
(…) e abbiano carattere di preminente interesse generale». Tuttavia, i
pericoli che, per gli utenti del bene o del servizio, possono derivare dalla
situazione di esclusiva legale sono scongiurati dal disposto dell’art. 2597
che, in deroga al principio generale della libertà di contrattare e di
determinare liberamente le condizioni di contratto, impone a carico del
monopolista legale: a) Un obbligo di contrattare con chiunque faccia
70
richiesta del bene o servizio offerto; b) Un obbligo di osservare la parità di
trattamento tra tutti gli utenti.
La portata di tale norma, in verità lacunosa, può essere meglio definita
integrandola con l’art. 1697, il quale disciplina la posizione dell’esercente in
concessione di pubblici servizi di linea (figura non in toto coincidente con
quella del monopolista legale, ma che nei limiti dell’analogia, può essere
richiamata). Da tale norma si ricava:
- che l’obbligo di contrarre incontra un limite naturale nelle ordinarie risorse
dell’impresa;
- che la parità di trattamento si realizza in base a condizioni generali di
contratto rese note al pubblico e autorizzate o stabilite dall’autorità
concedente;
- che tale parità non esclude trattamenti differenziati, purché ciò avvenga in
base a condizioni oggettive preventivamente stabilite nelle predette
condizioni negoziali;
- che le richieste devono essere soddisfatte nell’ordine cronologico della loro
formulazione.
È controverso se la norma di cui all’art. 2597 possa essere invocata nei
confronti di chi, per la posizione di fatto conquistata sul mercato, abbia
l’esclusiva dell’offerta di un determinato bene o servizio (monopolista di
fatto): prevale la tesi negativa alla luce dell’eccezionalità delle limitazioni
legali all’autonomia imprenditoriale;
1. I patti autonomi di non concorrenza sono quegli accordi che hanno come
funzione esclusiva quella della limitazione della concorrenza. Essi possono
contemplare sia restrizioni a carico di una sola delle parti (patti unilaterali) con o
senza corrispettivo, sia reciproche (cd. cartelli o intese, le quali, se hanno la
finalità di un consorzio, rientrano nella sfera di applicazione della relativa
disciplina – art. 2602 ss. – e non dell’art. 2596, anche se su questo punto non
71
tutta la dottrina è d’accordo). I patti del primo tipo sono disciplinati dall’art.
2596, il quale dispone che esso: deve essere provato per iscritto a pena di nullità
+ essere circoscritto a una determinata zona o a una determinata attività + avere
durata massima di cinque anni.
2. I patti accessori di non concorrenza sono costituiti da accordi inseriti quale
clausola di altri contratti aventi un diverso oggetto. Essi possono intercorrere tra
imprenditori in diretta concorrenza tra loro (restrizioni orizzontali) o tra
imprenditori che svolgono attività diverse, ma in rapporto di integrazione nella
catena del processo produttivo e distributivo (restrizioni verticali). Ancora: A) i
patti accessori nominati sono espressamente previsti e disciplinati dal
legislatore (esempio, patto di esclusiva o di preferenza nel contratto di
somministrazione – artt. 1566-1567): essi ricevono una tutela specifica per
quanto concerne la forma (scritta) e la durata massima (fissa o parametrata alla
durata del rapporto base); B) Per i patti accessori innominati si ritiene di far
capo, in difetto di una disciplina apposita, a quella contenuta nell’art. 2596 che,
contemplando il «patto di non concorrenza», abbraccia anche questo tipo di
accordi.
LA DISCIPLINA ANTITRUST
La disciplina delle limitazioni convenzionali della concorrenza contenuta nel codice
civile trascura completamente i riflessi che accordi e comportamenti, incidenti sulla
libertà di concorrenza, possono avere sulla funzionalità del mercato. Tale lacuna è
stata colmata con la normativa contenuta nella l. 287/1990 (Legge antitrust),
intitolata «Norme per la tutela della concorrenza e del mercato», che ha dotato
finalmente l’Italia di una disciplina antimonopolistica. Essa sacrifica la libertà di
iniziativa economica dei singoli (libertà di concorrenza in senso soggettivo), laddove
questa si ponga in contraddizione con la libertà di iniziativa economica degli altri
operatori, pregiudicandone l’accesso o la permanenza sul mercato (libertà di
concorrenza in senso oggettivo).
Essa presenta una stretta derivazione dalla disciplina volta alla tutela della libertà di
concorrenza nell’ambito del mercato europeo, di cui agli artt. 85 e 86 del Trattato
CEE, come risulta dal fatto che le fattispecie vietate, in quanto ritenute lesive della
72
libertà di concorrenza nell’ambito del mercato nazionale, sono esattamente quelle
vietate dal Trattato, in quanto ritenute lesive della libertà di concorrenza nel mercato
europeo. Attesa l’identità delle fattispecie regolate, ciascuna di essere avrebbe
potuto essere soggetta a una doppia giurisdizione: quella comunitaria e quella
nazionale. Il legislatore italiano ha scelto, invece, la strada della reciproca
esclusione stabilendo (art. 1) che la legge non si applica alle fattispecie che ricadono
nell’ambito del Trattato, di regolamenti CEE e atti equiparati: si è così optato per il
criterio della barriera unica, che è tuttavia una barriera mobile, essendo possibile
che fattispecie oggi ricomprese nell’ambito della legge antitrust ne vengono in
seguito escluse per effetto di atti comunitari.
Allo stato attuale, la linea di frontiera tra le 2 giurisdizione è così tracciata:
1) Per le intese e gli abusi di posizione dominante la
disciplina comunitaria si applica a tutte le ipotesi in cui
sia ravvisabile un pregiudizio al commercio tra gli Stati
membri della Comunità;
2) Per le concentrazioni la disciplina comunitaria si applica
ogniqualvolta, oltre a creare o rafforzare una posizione
dominante, coinvolga imprese il cui fatturato superi una
soglia quantitativa indicata in 5 miliardi di ECU, purché il
fatturato di almeno 2 imprese interessate sia superiore a
250 milioni di ECU e sempre che più di 2/3 del medesimo
non sia realizzato nello stesso Stato membro.
L’AUTORITÀ GARANTE
Il controllo sull’osservanza dei divieti contenuti nella legge è stato affidato a un
organismo amministrativo collocato in posizione di assoluta indipendenza dal potere
esecutivo, come comprovato dal procedimento scelta dei suoi componenti, affidato a
una determinazione comune dei Presidenti del Senato e della Camera.
Tuttavia la legge non ha attribuito all’Autorità garante della concorrenza e del
mercato una competenza esclusiva, indipendentemente dai settori di mercato in cui
operano le imprese coinvolte: per il settore dei mezzi di comunicazione l’osservanza
della legge è affidata al Garante della radio diffusione e dell’editoria, e per quello
del credito alla Banca d’Italia: con il paradosso di affidare a organismi diversi il
controllo sull’osservanza di una identica disciplina.
73
LE FATTISPECIE VIETATE
1. Le intese
La prima delle fattispecie vietate dalla L. 287/1990 è costituita dalle intese «che
abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere e falsare in maniera
consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o di una sua
parte rilevante». [È quindi rilevante la distinzione tra intese con oggetto
anticoncorrenziale – represse come tali per la loro astratta idoneità
anticoncorrenziale – e intese con effetto anticoncorrenziale – qui l’effetto
anticoncorrenziale non è desumibile dal loro contenuto, quindi la repressione è
subordinata al suo effettivo verificarsi].
La stessa legge (art. 2 comma 1°), con elencazione esemplificativa, chiarisce cosa
sono considerate «intese»:
a) Gli accordi, ossia gli incontri di volontà di due o più soggetti,
indipendentemente dalla forma adoperata;
b) Le pratiche concordate, ossia qualsiasi forma di collaborazione tra
imprese, avvenga essa in maniera spontanea o in attuazione di un
precedente accordo;
c) Le deliberazioni di associazioni, consorzi o organismi similari,
espressione molto vasta e usata in senso atecnico.
L’individuazione del mercato sul quale incide o può incidere l’intesa anticoncorrenziale
è uno dei punti più delicati dell’interpretazione della norma: a tale scopo occorre
distinguere tra mercato di prodotto e mercato geografico.
- Il primo comprende tutti i prodotti e/o servizi che, agli occhi del consumatore si
presentano, in ragione delle loro caratteristiche, dell’uso e del prezzo, più o meno
intercambiabili, sicché la scelta dell’uno e dell’altro si risolve in una scelta di marchio e
di immagine.
- Il secondo è quello nazionale, a meno che non venga in rilievo una parte più limitata
del territorio.
Anche sul terreno delle intese si opera la distinzione tra intese orizzontali (che
intercorrono tra soggetti operanti allo stesso livello del processo produttivo) e intese
verticali (che intercorrono tra soggetti operanti a diversi livelli tra loro complementari.
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Le principali forme di intese orizzontali ritenute lesive della concorrenza sono:
b) Gli accordi di fissazione del prezzo (art. 2, lett a): essi sono
vietati in sé e per sé, indipendentemente dalla verifica dei loro
effetti sulle quote di mercato dei partecipanti o dal carattere
vincolante o meno, essendo ricomprese nell’ambito del divieto
anche le semplici raccomandazioni diffuse da associazioni di
categoria;
c) Gli accordi di limitazione della produzione (art. 2, lett b),
individuati nelle intese volte a «impedire o limitare la
produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, gli
investimenti, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico»
(esempio comune: i consorzi di contingentamento);
d) Gli accordi di ripartizione del mercato, ossia delle zone di
operatività: tali accordi di regola si intrecciano con quelli di
fissazione del prezzo o di limitazione della produzione;
e) Gli accordi volti a creare una rete distributiva comune, ad
esempio attraverso la creazione di un’unica commissionaria di
vendita;
f) Gli accordi di cooperazione industriale, sempre che le imprese
siano in rapporto di concorrenza orizzontale, a meno che
l’integrazione sia necessaria per le dimensioni dell’impegno
richiesto;
g) Gli accordi di specializzazione, con le quali ciascuna delle
imprese partecipanti rinuncia a una o più attività,
concentrandosi su una sola: tali intese possono nascondere una
ripartizione dei mercati.
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2. L’abuso di posizione dominante
Questa è la seconda fattispecie vietata, e consente all’impresa di ricavare profitti
sovracompetitivi grazie a una posizione sul mercato che la pone al riparo dai rischi
della concorrenza. Per posizione dominante si intende una situazione di potenza
economica tale da consentire all’impresa che le detiene di vanificare una posizione
di effettiva concorrenza sul mercato di riferimento e di assumere decisioni afferenti
i rapporti con la clientela assolutamente indipendenti sia dai comportamenti dei
concorrenti che dalle aspettative dei consumatori. Gli indici per identificare tale
situazione di predominio economico non sono solo quantitativi, ossia relativi alle
quote percentuali di mercato controllate (in genere tra il 55% e il 70%), ma anche
indici qualitativi, quali l’esistenza di «barriere» di tipo amministrativo per l’ingresso
nel mercato di riferimento non facilmente superabili.
L’ulteriore presupposto per la realizzazione della fattispecie vietata, ossia l’abuso di
tale posizione, va inteso in senso puramente oggettivo, ossia indipendentemente sia
dalle intenzioni dell’impresa dominante di procurarsi un indebito vantaggio, sia
dalla effettiva realizzazione di quest’ultimo.
Le ipotesi tipiche più frequenti sono:
a) L’applicazione di prezzi o condizioni contrattuali ingiustificatamente
gravose (art. 3 lett a): per condizioni ingiustificatamente gravose si intendono
tutte quelle condizioni accessorie cui viene subordinata la prestazione del
prodotto e del servizio e che non sono rispetto alla stessa funzionalmente
necessarie (esempio: imposizione di particolari condizioni di pagamento);
b) Il rifiuto di contrarre con chi ne faccia richiesta (art. 3 lett c): sia che ciò
avvenga apertamente sia che ciò avvenga in forma coperta, a meno che non
ricorrano giustificazioni oggettive;
c) L’applicazione di condizioni diverse per prestazioni equivalenti: si tratta
soprattutto della pratica di prezzi differenziati non basati su una diversità
qualitativa, ma integranti una discriminazione soggettiva;
d) Gli accordi leganti, con i quali si subordina la conclusione di un contratto
alla fruizione obbligatoria di un’altra prestazione, che non ha nulla a che
vedere con quella dell’accordo principale (tale prassi si risolve
nell’imposizione di un prezzo-extra).
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3. Le concentrazioni
La terza fattispecie vietata dalla L. 287/1990 è costituita dalle concentrazioni di
imprese laddove presentino carattere lesivo della libera concorrenza, come si
esprime l’art. 6: «che comportino la costituzione o il rafforzamento di una posizione
dominante sul mercato nazionale in modo da eliminare o ridurre in modo sostanziale
e durevole la concorrenza».
A differenza del controllo esercitato sulle intese e singoli abusi, che è di carattere
successivo e repressivo, quello sulle concentrazioni è preventivo e valutativo,
dovendo qualsiasi accordo del genere, ancorché non lesivo della concorrenza, essere
preventivamente notificato all’Autorità garante.
La l. 287/1990 indica le fattispecie attraverso le quali si può realizzare la fattispecie
della concentrazione (art. 5):
a) Le fusioni (art. 5 lett a): è l’ipotesi più evidente, atteso che la riduzione di
soggetti operanti sul mercato, implica già di per sé una riduzione della
competizione concorrenziale;
b) La cessione del controllo (art. 5 lett b): tale ipotesi si verifica «uno o più
soggetti in posizione di controllo di almeno un’impresa ovvero una o più
imprese» acquistino direttamente il «controllo dell’insieme o di parti di una o
più imprese»;
c) La formazione di un’impresa comune (art. 5 lett c): ottenuta mediante la
costituzione di una nuova società da parte di due o più imprese preesistenti che
ne detengono il controllo congiunto.
77
1) Il primo inizia con una verifica preliminare attivata a
seguito di notizia, comunque pervenuta all’autorità, circa
l’esistenza di una intesa vietata e dell’abuso di posizione
dominante. Laddove da questa indagine sommaria risulti
una probabile infrazione del disposto degli artt. 2 e 3 della
legge, si apre una vera e propria istruttoria, caratterizzata
dalla garanzia del contraddittorio e dal potere
dell’Autorità di chiedere, sia alle imprese interessate che
ai terzi, informazioni e documenti. Il procedimento si
chiude con una decisione che, laddove accerti l’infrazione
contestata, diffida l’impresa alla sua eliminazione, oltre a
disporre, nei casi più gravi, sanzioni pecuniarie
parametrite a una percentuale (dall’1% al 10%) del
fatturato realizzato da ciascuna impresa nell’ultimo
esercizio;
2) Il procedimento relativo alle concentrazioni si caratterizza
rispetto al precedente per l’inevitabilità della verifica
preliminare, atteso che tutte le concentrazioni sono
soggette all’obbligo della notificazione preventiva
all’Autorità. Altra differenza è costituita dalla fissazione
di un termine di durata (30 giorni) alla verifica
preliminare, scaduto il quale, ove l’Autorità ritenga
l’operazione «suscettibile di essere vietata», si apre
l’istruttoria, anch’essa soggetta a una scadenza (di 45
giorni). All’esito, se l’Autorità accerta che la
concentrazione ha carattere lesivo della concorrenza a
norma dell’art. 6, assume le seguenti decisioni: A) Se
l’operazione non è stata realizzata, ne vieta l’esecuzione;
B) Se l’operazione è stata eseguita, considerato che il
divieto potrebbe incontrare serie difficoltà applicative,
l’Autorità si può limitare a prescrivere le «misure
necessarie a ripristinare condizioni di concorrenza
effettiva, eliminando gli effetti discorsivi» (cd. misure di
deconcentrazione).
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LA REPRESSIONE DELLA CONCORRENZA SLEALE
Finalità e fonti
La disciplina della concorrenza sleale, dal momento che tende a garantire che essa si
svolga senza ricorrere a sistemi giudicati dall’ordinamento, appunto, «sleali», non è
limitante della concorrenza, bensì è un suo rafforzamento, in quanto inibisce il ricorso a
strumenti ritenuti scorretti. Si tratta di un sistema di regole mirante a tutelare l’interesse
della categoria imprenditoriale a vedere assicurata la prevalenza, nella conquista delle
zone di mercato, all’impresa più efficiente. La disciplina della concorrenza sleale è
contenuta nell’art. 2598 che indica, ai numeri 1 e 2, due categorie di atti tipici, alle quali
fa seguire al n. 3 una clausola generale volta a reprimere ogni altro comportamento
contrario alla correttezza professionale.
79
N.1) Atti di concorrenza sleale per confusione.
«Atti di confusione con i prodotti o l’attività del concorrente». Si fa riferimento a
comportamenti idonei a suscitare nella clientela l’erronea convinzione che il
prodotto o il servizio provenga da un’impresa concorrente, sfruttandone così
l’accreditamento verso il pubblico. L’art. 2598 n.1 introduce, nell’ambito di questa
categoria tipica, una distinzione tra atti di confusione tipici e atti di confusione
atipici.
Tra i primi figura anzitutto a) L’uso di nomi o segni distintivi legittimamente usati
da altri → L’ipotesi comprende sia i segni distintivi che trovano una specifica
protezione in altre norme dell’ordinamento (marchio, ditta, insegna), sia quelli che
non ricevano, al di fuori della disciplina della concorrenza sleale, specifiche
protezioni (es. etichette, involucri); b) L’imitazione servile dei prodotti di un
concorrente: con tale espressione si intende alludere alla riproduzione pedissequa
delle forme del prodotto, che abbiano funzione individuante nella sua provenienza
da una determinata impresa. Restano quindi escluse da questa fattispecie sia, da un
lato, le forme prive di originalità, ossia che rispondono all’aspetto comune con il
quale un certo prodotto si presenta sul mercato, sia le forme che rispondono a
un’esigenza tecnica o ornamentale (come avviene frequentemente nel campo della
moda o del design industriale).
Tra i secondi (atti di confusione atipici, indicati dalla formula del compimento, con
qualsiasi mezzo di atti idonei a creare confusione con i prodotti o con l’attività di
un concorrente), vi è una folta serie di comportamenti che, diversi dall’imitazione
delle forme e dei segni distintivi, sono parimenti idonei a confondere i consumatori
sulla reciproca autonomia delle imprese concorrenti (esempio: imitazione del
materiale pubblicitario).
N. 2) Atti di denigrazione o vanteria.
L’art. 2598 n. 2 comprende due atti diversi, quelli di denigrazione e quelli di
vanteria.
Gli atti di denigrazione → Sono individuati nell’art. 2598 n.2 nel comportamento
di chi «diffonde notizie o apprezzamenti sui prodotti o sull’attività di un concorrente
idonei a determinarne il discredito». Secondo l’opinione comune, il divieto
prescinde dalla rispondenza o meno al vero delle notizie o degli apprezzamenti
80
negativi: anche se l’interesse alla trasparenza del mercato dovrebbero consentir la
diffusione di giudizi negativi rispondenti al vero, tuttavia la poca obiettività in sé del
concorrente rende non imparziale includere tra le fonti di informazioni dei
consumatori gli operatori dello stesso mercato. Tra gli atti di denigrazione, può
essere ricompresa anche la cd. pubblicità superlativa, ossia quella che mira a
esaltare una pretesa posizione di supremazia assoluta della propria attività e del
proprio prodotto: infatti quando tale pubblicità contiene riferimenti specifici verso
gli altri concorrenti, assume implicitamente anche un valore denigratorio.
Gli atti di vanteria → Gli atti di vanteria consistono nella appropriazione (non in
senso materiale, ma in senso di attribuzione pubblicitaria) dei pregi dei prodotti o
dell’attività di un concorrente. Anche la vanteria si può realizzare sia in forma
esplicita sia, più spesso, in forma implicita, come avviene per esempio nell’uso di
false denominazioni d’origine, laddove l’assicurazione della provenienza di un
prodotto da una determinata zona implica l’attribuzione allo stesso di pregi
particolari, ovvero nell’uso del nome dell’altrui prodotto seguito dalla formula
«tipo» (réclame per agganciamento).
GLI ATTI ATIPICI (ART. 2598 N.3) → Atti contrari ai principi della
correttezza professionale
Non inquadrabili nelle fattispecie tipiche precedentemente descritte, sono quelli
contemplati dall’art. 2598 n. 3: atti contrari ai principi della correttezza
professionale. Non è facile inquadrare una tale categoria, ma va ravvisato che la tesi
prevalente sostiene di mescolare i due criteri, quello puramente etico e quello
puramente fenomenologico, per distillare nella correttezza professionale la «morale
corrente» del ceto imprenditoriale, soggetta, come tale, a continui mutamenti
secondo l’evoluzione del costume.
Non è possibile fare un’elencazione esaustiva di questi comportamenti, tuttavia la
giurisprudenza ha individuato alcune ipotesi più frequenti.
1) Lo storno dei dipendenti: sostanziantesi non nella semplice assunzione
di un collaboratore dell’impresa concorrente, ma nella sottrazione di
forza-lavoro, finalizzata alla disgregazione dell’impresa concorrente.
2) Il boicottaggio: ossia il sistematico rifiuto di contrarre con un
determinato imprenditore, che è lecito laddove avvenga in forma
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individuale e diretta e illecito quando avvenga in maniera collettiva
(concordata con altri imprenditori);
3) Il ribasso irregolare dei prezzi, che non sia giustificato da esigenze
dell’impresa, ma sia solo finalizzato a eliminare dal mercato gli operatori
concorrenti con minori risorse finanziarie;
4) La concorrenza parassitaria, costituita dalla sistematica imitazione di
ogni iniziativa o idea dell’imprenditore concorrente, compromettendo la
individualità da questi conquistata sul mercato;
5) La violazione di norme di diritto pubblico, sempre che tale violazione
si ponga in rapporto di causalità con l’acquisizione di un vantaggio
concorrenziale;
6) La sottrazione di segreti imprenditoriali, riferito a qualsiasi dato che
l’imprenditore ritenga di non dover divulgare al pubblico, certamente
illecita quando si attui in forma diretta (spionaggio industriale), mentre
quando si attua in forma indiretta, attraverso l’assunzione di un ex
collaboratore, lo è nella misura in cui attenga a notizie destinate a
rimanere segrete;
7) La pubblicità menzognera, da intendersi come riferita a ogni
messaggio pubblicitario, non rispondente al vero, idoneo a sviare la
clientela;
8) La réclame iperbolica (o superlativa), basata, a differenza della
precedente, su affermazioni generiche di eccellenza del prodotto;
9) La pubblicità suggestiva, che influenza le scelte del consumatore
associando all’uso di un prodotto vantaggi e prospettive che non hanno
alcuna relazione con esso.
82
Colui che si ritiene leso dal comportamento di un concorrente, qualificabile come atto di
concorrenza sleale, ha diritto di ottenere, previo accertamento della slealtà del
comportamento denunciato, sia un provvedimento che inibisca la continuazione dello
stesso (rimedio inibitorio) sia un provvedimento che, nei limiti del possibile, ne
cancelli le conseguenze (rimedio restitutorio) (l’art. 2559 stabilisce infatti che «la
sentenza che accerta gli atti di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione e adotta
gli opportuni provvedimenti affinché ne vengano eliminati gli effetti»). Mentre in
rimedio inibitorio ha una struttura semplice – consistendo in un ordine del giudice
avente a oggetto il divieto di continuare a reiterare il comportamento censurato – il
rimedio restitutorio si presenta più articolato, perché può consistere tanto nella
eliminazione delle cose che hanno costituito il veicolo materiale dell’atto di concorrenza
sleale (esempio: etichette o confezioni confondibili), quanto nell’imposizione all’autore
dell’illecito di un messaggio correttivo (corrective advertising).
L’art. 2600 contempla anche il diritto al risarcimento dei danni «se gli atti di
concorrenza sleale sono compiuti con dolo o colpa»: la formula, che comporterebbe
l’onere a carico del soggetto leso di provare l’esistenza di questo elemento psicologico,
è però corretta dal 3° comma della disposizione, che stabilisce una presunzione
(relativa) di colpa nell’atto di concorrenza sleale: a carico dell’attore resta quindi solo
l’onere della prova di un danno effettivo.
83
84
CAPITOLO X
I CONSORZI E LE ALTRE FORME DI
INTEGRAZIONE TRA IMPRESE
I CONSORZI
L’art. 2602 definisce il CONSORZIO come il contratto con il quale «più
imprenditori istituiscono un’organizzazione comune per la disciplina e lo
svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese».
Le imprese partecipanti al consorzio mantengono ciascuna la propria individualità e
autonomia giuridica, ma vincolano la propria attività economica a una disciplina
convenzionalmente stabilita attraverso il contratto di consorzio.
85
Le norme del codice civile in tema di consorzi, stante l’importanza della distinzione
appena affrontata, si distinguono in: A) Norme unitarie, valevoli per tutti i tipi di
consorzi (artt. 2603-2611); B) Disposizioni particolari relative ai soli consorzi con
attività esterna (artt. 2612-2615bis).
LA DISCIPLINA COMUNE
Anzitutto, il contratto deve essere stipulato per iscritto sotto pena di nullità, e così
pure le modificazioni (art. 2607). Il contratto, poi, deve prevedere una serie di cose:
la durata del consorzio (può essere liberamente stabilita dalle parti ma, in mancanza,
il contratto resta valido per 10 anni), gli obblighi assunti e i contributi dovuti dai
consorziati, le attribuzioni e i poteri degli organi preposti al consorzio, le condizioni
di ammissione dei nuovi consorziati, i casi di recesso ed esclusione, le sanzioni per
inadempimento degli obblighi dei consorziati, ecc… Il contratto, se non
diversamente stabilito, può essere modificato solo con il consenso di tutti i
partecipanti (art. 2607 co.1).
Per quanto riguarda gli organi consortili, essi di solito consistono in UN ORGANO
DIRETTIVO (che dispone di poteri di controllo e ispezione) e un ORGANO
DELIBERATIVO (assemblea), che sull’oggetto del contratto si pronuncia a
maggioranza dei partecipanti, mentre per le modificazioni contrattuali si richiede,
salvo patto contratrio, l’unanimità. La responsabilità degli organi consortili verso i
consorziati è disciplinata dalle regole sul mandato.
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Passando ai consorzi con attività esterna, deve rilevarsi che lo svolgimento di
un’attività esterna implica, anzitutto, la presenza di un ufficio destinato a svolgere
attività con i terzi, ossia un organo che si occupi delle relazioni tra il consorzio e i
terzi; in secondo luogo, la presenza di un fondo consortile, costituito dai contributi
dei consorziati e dai beni acquisiti con questi contributi.
Per il fondo consortile, vige un’autonomia patrimoniale perfetta → Su di esso non
possono agire i creditori particolari dei consorziati, né questi ultimi hanno
possibilità di richiederne la divisione. Per converso, i diritti dei creditori del
consorzio trovano tutela nel fondo consortile, che di regola costituisce l’unico
patrimonio sul quale gli stessi possono soddisfarsi (art. 2615 co.1), né sussiste la
responsabilità illimitata e solidale delle persone che hanno agito in nome del
consorzio. Inoltre, ove gli organi del consorzio assumano obbligazioni per conto dei
singoli consorziati, vi sarà responsabilità solidale del fondo consortile e dei
consorziati per i quali le obbligazioni sono state assunte (art. 2615 co.2).
L’ordinamento prevede che il contratto di consorzio sia depositato, per estratto, per
l’iscrizione nel registro delle imprese del luogo ove ha sede l’ufficio destinato a
svolgere l’attività con i terzi (art. 2612, co.1).
Inoltre, l’art. 2615bis dispone la pubblicità del bilancio del consorzio: entro due
mesi dalla chiusura dell’esercizio annuale, le persone che hanno la direzione del
consorzio redigono la situazione patrimoniale osservando le norme relative al
bilancio di esercizio delle SPA e lo depositano presso il registro delle imprese. Ne
discende che, preventivamente, gli organi del consorzio debbano tenere le scritture
contabili previste, in via generale, per ogni imprenditore (art. 2214 ss.), non
potendo, in difetto, essere redatta la situazione patrimoniale annuale.
LE SOCIETÀ CONSORTILI
La l.377/1976 ha stabilito che i consorzi possono assumere anche forma societaria,
mantenendo lo scopo consortile, inserendo nel codice l’art. 2615-ter, il quale recita:
«Le società previste nei capi III e seguenti del Titolo V possono assumere come
oggetto sociale gli scopi indicati nell’art. 2602». L’ordinamento offre così agli
operatori la possibilità di adottare una forma societaria per il perseguimento delle
finalità tipiche del consorzio.
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A seconda del modello societario di riferimento, ne possono derivare vantaggi e/o
svantaggi. Per esempio, l’adozione del modello della SNC comporta, come indubbio
vantaggio, un potere di gestione in capo a qualsiasi consorziato-amministratore
(riferimento all’art. 2257), ma come svantaggio la responsabilità illimitata dei soci.
Responsabilità illimitata che non vi sarebbe, di contro, nel modello della società per
azioni, la quale però richiederebbe un’articolazione interne ben più complessa (la
cd. Organizzazione corporativa).
L’art. 2615-ter non esclude la possibilità della società in accomandita, sia semplice
che per azioni, comportando tale scelta la differenza tra responsabilità limitata o
illimitata a seconda che si tratti di soci accomandanti o accomandatari. Nonostante
non sia specificamente menzionato all’interno dell’articolo di riferimento, non è da
escludersi il possibile riferimento alla società semplice, fermo restando che un
consorzio che assuma questa veste dovrà svolgere esclusivamente attività non
commercial (es. attività agricola).
E, ancora, benché non ne faccia specifica menzione, nell’art. 2615-ter può farsi
rientrare anche un altro tipo di società: la società cooperativa. Notevoli essendo le
affinità tra finalità mutualistica e finalità consortile, avremmo una sorta di
«mutualità consortile», ossia il perseguimento dello scopo del consorzio ex art.
2602, all’interno di una struttura che non persegua la finalità lucrativa (caratteristica
delle società lucrative), bensì quella mutualistica delle cooperative: migliorare i
ricavi o ridurre i costi delle imprese (vantaggio consortile).
Infine, in merito alla disciplina applicabile, ci si chiede se debba applicarsi la
disciplina integrale prevista per il modello societario o, piuttosto, non sia più
corretto fare riferimento a una disciplina mista: in particolare, il problema riguarda
l’art. 2615 co.2, norma tipica del consorzio. L’orientamento prevalente ritiene che
alle società consortili si debba applicare una disciplina in parte mista, comprensiva
delle norme tipiche del modello consortile, come appunto l’art. 2615 co.2 sulla
responsabilità.
IL GEIE
L’istituzione del Gruppo Europeo di Interesse Economico (GEIE) discende da un
regolamento comunitario del 1985, finalizzato a favorire la collaborazione tra
imprese nell’ambito dell’UE.
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Il GEIE ricalca sostanzialmente i consorzi con attività esterna, rivestendo l’attività
del Gruppo carattere ausiliario rispetto alle attività proprie dei suoi componenti.
L’Italia, allo scopo di integrare il regolamento comunitario, ha emanato la l.
240/1991, che prevede una serie di cose: la forma scritta del contratto a pena di
nullità, l’iscrizione dello stesso nel registro delle imprese (efficacia costitutiva),
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica e comunicazione di questa
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee; obbligo di tenuta di
libri e scritture contabili, la redazione del bilancio d’esercizio, ecc.
Riprendendo l’esame del GEIE come emergono dal regolamento comunitario, va
sottolineata, da un lato, la necessità che i soggetti partecipanti, pur dovendo svolgere
un’attività economica, non debbano necessariamente essere imprenditori; dall’altro,
che almeno due membri abbiano l’amministrazione centrale e/o esercitino la loro
attività economica in Stati differenti della Comunità: il GEIE pertanto non può
riguardare sole imprese nazionali.
Il GEIE, al pari del consorzio con attività esterna, è un soggetti giuridico distinto dai
suoi membri, idoneo a essere titolare di diritti e obbligazioni, e dotato anche di
capacità processuale. La denominazione del gruppo, inoltre, deve essere preceduta o
seguita dall’espressione Geie; la durata può essere anche a tempo indeterminato.
L’organizzazione interna è grossomodo rimessa all’autonomia privata,.
Ultima cosa: la responsabilità. Con una disciplina rigorosa, che si allontana da
quella dei consorzi con attività esterna, si dispone che delle obbligazioni del GEIE
rispondono solidalmente e illimitatamente tutti i membri del gruppo, ma la
responsabilità dei membri è sussidiaria rispetto a quella del gruppo: i creditori
possono infatti agire nei confronti dei membri «soltanto dopo aver chiesto al gruppo
di pagare, e qualora il pagamento non sia stato effettuato entro un congruo termine».
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L’associazione temporanea di imprese (ATI) riceve ora una coordinata
regolamentazione nel recente Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 163/2006). Nello
stabilire i requisiti dei partecipanti alle procedure di affidamento dei lavori pubblici,
l’art. 34 annovera, alla lettera d), i raggruppamenti temporanei di concorrenti,
costituiti da imprese che, prima della presentazione dell’offerta, abbiano conferito
mandato collettivo speciale con rappresentanza a una di esse, qualificata mandataria,
la quale esprime l’offerta in nome e per conto proprio e delle mandanti. L’art. 37, a
conferma dell’esigenza del committente pubblico di confrontarsi con un unico
interlocutore, stabilisce che «l’offerta dei contraenti raggruppati determina la loro
responsabilità solidale nei confronti della stazione appaltante».
Venendo alla costituzione del raggruppamento temporaneo, può osservarsi che:
● Gli operatori devono conferire, con un unico atto, mandato collettivo speciale con
rappresentanza a uno di essi, detto mandatario o capogruppo;
● Il mandato deve risultare da scrittura privata autenticata; inoltre esso è gratuito e
irrevocabile;
● Al mandatario spetta la rappresentanza esclusiva, anche processuale, dei mandati
nei confronti della stazione appaltante, per tutte le operazioni e gli atti di qualsiasi
natura, dipendenti dall’appalto.
● Il legislatore ha stabilito che i concorrenti riuniti in associazione temporanea
devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di
partecipazione al raggruppamento.
Passando alla disciplina interna dell’istituto, possiamo rilevare che, non solo il
vincolo associativo che caratterizza l’ATI ha carattere temporaneo ed è privo di
rilevanza esterna, ma deve aggiungersi che il rapporto di mandato che lega le
imprese partecipanti al raggruppamento non determina, di per sé, patrimonio
comune, organizzazione o unicità di impresa fra gli operatori riuniti, ognuno dei
quali conserva la propria autonomia ai fini della gestione, degli adempimenti fiscali
e degli oneri → Dunque abbiamo un vincolo soltanto interno. L’associazione
temporanea, che non costituisce un soggetto di diritto, si presenta così come uno
strumento agile sia nella formazione che nello scioglimento del rapporto, che deriva
dalla volontà dei partecipanti di creare una collaborazione tra imprese senza vincoli
di stabilità e di durata, bensì limitata all’intrapresa d un affare comune.
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L’esame dell’ATI può concludersi con il richiamo alle regole particolari in materia
di fallimento.
1) Nel caso di fallimento dal MANDATARIO, è rimesso all’autonomia della
stazione appaltante recedere dall’appalto oppure proseguire il rapporto con altro
operatore economico, che abbia i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori
ancora da eseguire, il quale assume così il ruolo di mandatario;
2) Nel caso di fallimento del MANDANTE, il mandatario che non indichi altro
operatore subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità, è
tenuto direttamente all’esecuzione dell’appalto.
LE JOINT VENTURES
L’espressione JOINT VENTURE trova le sue origini nel mondo anglosassone, ove sin
dal primo medioevo le compagnie di merchant ventures partivano dalle principali città
inglesi per i commerci d’oltremare. In senso traslato, ha finito poi per indicare qualsiasi
tipo di raggruppamento temporaneo di imprese, largamente diffuso nella prassi
statunitense.
Nel commercio internazionale, anzi, questo termine ha assunto una connotazione più
precisa, andando a significare lo strumento contrattuale attraverso il quale imprenditori
appartenenti a paesi diversi pongono in essere un rapporto di collaborazione, al fine,
l’uno, di penetrare in un nuovo mercato, l’altro di acquisire tecnologia e know-how.
Molteplici sono le finalità e le esigenze che spingono a utilizzare questo schema, come
la ripartizione del rischio in merito a un affare rilevante, oppure la diversificazione
dell’investimento finanziario; ma una distinzione è fondamentale, e riguarda:
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CAPITOLO XI
LE SOCIETÀ
PARAGRAFO I. L’IMPRENDITORE
COLLETTIVO
IL PROBLEMA DELL’IMPRESA COLLETTIVA
Si è precisato in precedenza cosa debba intendersi per imprenditore individuale. Ora
passiamo al versante dell’imprenditore collettivo. Per impresa collettiva può intendersi
l’impresa esercitata in comune da più soggetti (dunque titolarità sostanziale di più
soggetti) ovvero, secondo altra definizione, l’impresa esercitata nell’interesse di più
persone.
Ciò posto, tema controverso da risolvere è relativo all’individuazione delle possibili
forme attraverso le quali l’impresa collettiva può manifestarsi. Ossia, si tratta di stabilire
se la società rappresenti o meno l’unica forma di impresa collettiva contemplata dal
nostro ordinamento giuridico. È opinione oggi condivisa che, in realtà, la società
rappresenti solo una delle possibili forme di esercizio collettivo dell’impresa, della
quale sono appunto rivenibili ulteriori manifestazioni. Ed è proprio a questo proposito
che occorre fare alcune distinzioni preliminari.
→ L’associazione in partecipazione
Con l’associazione in partecipazione, un soggetto (associante), titolare di un’impresa o
di un affare, riceve un apporto (somma di denaro o beni) da un altro soggetto
(associato), cui viene attribuito un diritto di partecipazione agli utili dell’impresa o
dell’affare (art. 2549).
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La finalità del contratto è quella di creare una collaborazione tra più soggetti per
l’esercizio di un’attività economica a scopo di lucro, senza la creazione di un nuovo
soggetto giuridico o la costituzione di un patrimonio autonomo.
La gestione dell’impresa o dell’affare spetta all’associante, ma l’associato può esercitare
i poteri di controllo concretamente determinati dal contratto: in ogni caso gli è dovuto il
rendiconto dell’affare o della gestione relativa all’impresa (art. 2552).
L’associazione in partecipazione, in quanto tale, non può fallire, ma possono fallire i
partecipanti. In caso di fallimento dell’associante, il contratto si scioglie
automaticamente con effetto dal momento del fallimento. In caso di fallimento
dell’associato, si distinguono due ipotesi: se l’associato abbia già versato l’intero
apporto dovuto, il contratto prosegue con il curatore; se l’intero apporto non è stato
integralmente versato, viene rimessa al curatore la facoltà di scelta tra il subentro e lo
scioglimento.
→ La cointeressenza
Il contratto di cointeressenza prevede due distinte tipologie: la cointeressenza impropria
e la cointeressenza propria. La cointeressenza impropria si caratterizza per il fatto di
prevedere una partecipazione solo agli utili di impresa mediante un apporto iniziale, con
esclusione della partecipazione alle perdite. La cointeressenza propria si caratterizza,
invece, per il fatto di prevedere una partecipazione agli utili e alle perdite di impresa,
senza alcun apporto.
■ ASSOCIAZIONI E FONDAZIONI
Soffermiamoci ora sul problema relativo alla possibilità di esercizio dell’impresa da
parte di soggetti diversi da persone fisiche e società, soggetti collettivi codificati dal
codice civile. Si fa riferimento alle:
→ Associazioni
Sui caratteri distintivi tra associazioni e società si è molto discusso. Un tempo, il
principale argomento per distinguere le due fattispecie consisteva nello svolgimento
dell’attività economica. Attività propria della società (ex art. 2247) ma non appartenente
all’associazione. Questo criterio, tuttavia, lascia oggi il tempo che trova, dal momento
che oggi anche le associazioni, similmente alle società, possono svolgere o svolgono
attività economica. La differenza tra le due ipotesi risiede, semmai, nello scopo di
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questa attività economica: nella società, lo scopo è quello relativo alla divisione degli
utili tra i soci (lucro soggettivo), mentre questo scopo esula dall’associazione: sicché
quest’ultima, pur potendo conseguire un utile attraverso l’esercizio di un’attività
economica (lucro oggettivo) non potrà mai distribuirlo agli associati (altrimenti sarebbe
una società), ma dovrà devolverlo alla realizzazione del proprio scopo istituzionale.
→ Fondazioni
Nel caso delle fondazioni, viene acclarata la possibilità che le stesse esercitino
un’attività imprenditoriale, fermo restando che lo svolgimento di quest’attività deve
porsi in rapporto strumentale con il perseguimento del proprio scopo istituzionale.
Questa strumentalità potrà essere A) DIRETTA, quando cioè esista una coerenza di
base tra scopi ideali della fondazione e oggetto sociale dell’attività imprenditoriale –
basti pensare a una fondazione culturale che gestisce un’impresa editoriale; B)
INDIRETTA, nel caso della fondazione che gestisce una qualsiasi impresa idonea a
procurare mezzi per il perseguimento degli scopi ideali.
→ Impresa familiare
L’art. 230-bis, introdotto dalla riforma del diritto di famiglia del 1975, delinea un nuovo
modello di attività imprenditoriale: l’impresa familiare. Vale a dire l’impresa, agricola
o commerciale, in cui collaborano in modo continuativo il coniuge, i parenti entro il
terzo grado e gli affini entro il secondo.
Domanda: l’impresa familiare identifica una forma di esercizio collettivo dell’impresa?
La dottrina risponde, per la maggiore, di no. L’impresa familiare avrebbe natura di
impresa individuale (il titolare sarà l’unico responsabile per le obbligazioni assunte con
i terzi). Questo perché i diritti e i poteri dei familiari non toccherebbero la titolarità
dell’esercizio; in conclusione, l’impresa familiare non sarebbe impresa collettiva, non
competendo in particolare ai familiari prestatori di lavoro la titolarità della stessa, dal
momento che essi non hanno, come tali, diritti, poteri o responsabilità di coimprenditori
o soci.
→ Azienda coniugale
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Istituto diverso è quello dell’azienda coniugale. Alla luce della riforma del diritto di
famiglia, e in speciale modo alla luce dell’art. 177, le aziende coniugali sono
distinguibili in tre tipologie:
1) Aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio →
L’azienda coniugale coincide con un’impresa coniugale poiché entrambi i
coniugi assumono qualità di imprenditori (e si noti che impresa coniugale è
fattispecie del tutto diversa da impresa familiare, essendo quest’ultima
caratterizzata dalla presenza di un unico imprenditore e dalla partecipazione
lavorativa di più parenti);
2) Aziende costituite da uno solo dei coniugi anteriormente al matrimonio e
successivamente gestite da entrambi → Si ha evidentemente impresa
coniugale ma non azienda coniugale. Entrambi i coniugi sono considerati
imprenditori ma la disciplina della comunione legale trova applicazione
limitatamente agli utili e agli incrementi dell’impresa che vengono acquisiti “in
comunione”;
3) Azienda di cui sia titolare uno solo dei coniugi, costituite prima del
matrimonio, e gestite da uno solo di essi → Non si ha, in tal caso, impresa
coniugale, venendo considerato imprenditore esclusivamente il coniuge titolare
e gestore.
■ COMUNIONE D’IMPRESA
Valutiamo, ora, un ultimo problema. Ossia, se l’esercizio collettivo dell’impresa possa
trovare espressione anche attraverso modelli e schemi giuridici non «codificati».
Pensiamo alla fattispecie di più persone che comprano in comune un’azienda
commerciale per l’esercizio di un’impresa, oppure a tre fratelli che ereditano l’azienda
paterna, continuando in comune l’esercizio dell’impresa. In questi casi, lo schema
societario è obbligatorio o è prospettabile una comunione/contitolarità di impresa?
La risposta più immediata sarebbe la prima affermativa, dal momento che la
stipulazione del contratto di società non richiede alcuna forma determinata. Ma sarebbe
una risposta criticabile, dal momento che la stipulazione di un contratto di società
implicherebbe, anzitutto, una specifica volontà dei soci in tal senso e, in secondo luogo,
non tiene conto del conferimento dei soci, che implica la destinazione dei beni al
patrimonio della società, sulla base di una volontà specifica. E allora si ripete
l’interrogativo: nelle ipotesi menzionate i soggetti sono obbligati a scegliere la forma
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della società, oppure esiste un’altra forma, non codificata, di esercizio collettivo
dell’impresa? Una forma che non crea un patrimonio sociale autonomo e imputa i
rapporti giuridici direttamente ai contraenti?
Il rilievo della questione non è teorico, ma pratico, in quanto può trovare soluzione e
compiutezza nella diversa condizione giuridica dei beni utilizzati per l’esercizio
dell’impresa → I fautori dell’ammissibilità della comunione d’impresa assumono che,
se per aversi società è indispensabile che vi sia un’esplicita manifestazione di volontà
diretta a trasformare la comunione di beni in patrimonio sociale autonomo, mancando
tale manifestazione i beni utilizzati per l’esercizio dell’impresa restano beni in
comunione, soggetti alle norme del libro III del Codice. Conseguenza è che, se troverà
applicazione lo statuto dell’imprenditore in generale, non troveranno applicazione le
norme dettate in tema di società.
Ulteriore conseguenza è che, ove si ammetta la comunione di impresa, sarà permesso ai
comunisti di chiedere, in qualsiasi momento, la divisione dei beni, e sarà consentito al
creditore personale del singolo comproprietario di pignorare i beni di quest’ultimo.
Iniziative che, per contro, la normazione in tema di società non consente.
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PARAGRAFO II – L’IMPRENDITORE SOCIETÀ
L’IDENTIFICAZIONE DELL’IMPRESA-SOCIETÀ
Prima ancora di esaminare la natura e i caratteri del contratto di società, occorre
rispondere a una domanda di grande importanza: se il contratto definito nell’art. 2247,
oltre a far nascere la società, faccia sorgere anche l’impresa-società. Si tratta di stabilire
se esista o no un’equazione società-impresa, al duplice scopo di accertare il momento in
cui la società acquista la qualità di imprenditore e stabilire se le società siano o no
sempre imprenditori.
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differenze: a) anzitutto, l’art. 2247 non reca alcun esplicito riferimento al concetto di
impresa reso dall’art. 2082; b) in secondo luogo, mentre nell’art. 2247 manca ogni
accenno alla professionalità (che è requisito dell’attività imprenditoriale), nell’art. 2082
manca ogni riferimento alle attività specifiche perseguite dall’imprenditore (in
particolare, lo scopo di lucro).
A questo punto abbiamo due scuole di pensiero:
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1) Esercizio comune dell’attività economica→ Di esso si è già parlato, e occorre
aggiungere che rappresenta lo scopo-mezzo attraverso il quale i contraenti si
propongono di raggiungere la finalità ultima;
2) Comunanza di mezzi patrimoniali → Non preesistendo, come per le persone
fisiche, un patrimonio di pertinenza del soggetto, è attraverso apporti dei soci
che deve essere creato un fondo sociale indispensabile per l’esercizio
dell’attività;
3) Comunanza di poteri → Non riconducendosi la titolarità dell’impresa a una sola
persona fisica, occorre che a tutti i partecipanti risalga il potere di determinare
l’attività sociale;
4) Coerenza tra scopo istituzionale e risultati → Ossia, conseguimento di un
risultato coerente con lo scopo istituzionale scelto – lucrativo, mutualistico,
consortile – e nella conseguente ricaduta dei risultati della gestione sociale –
buoni o cattivi che siano – su tutti i partecipanti alla società.
LA DISCIPLINA APPLICABILE
Esposti i criteri di identificazione dell’impresa-società, occorre illustrarne
brevemente la disciplina positiva: quella specifica è contenuta nel Titolo V («Delle
società») e nel Titolo VI del codice civile («Delle imprese cooperative e delle mutue
assicuratrici»).
IL TIPO
Se unitaria è la nozione di società – quello societario è un contratto tipico – diversi
sono i tipi di società che con il contratto di società possono essere creati.
La materia è regolata dall’art. 2249, il quale stabilisce che «Le società che hanno per
oggetto l’esercizio di un’attività commerciale devono costituirsi secondo uno dei
tipi regolati nei capi III e seguenti di questo titolo.
Le società che hanno per oggetto l’esercizio di un’attività diversa sono regolate dalle
disposizioni sulla società semplice, a meno che i soci abbiano voluto costituire la
società secondo uno degli altri tipi regolati nei capi III e seguenti di questo titolo.
Sono salve le disposizioni riguardanti le società cooperative e quelle delle leggi
speciali, che per l’esercizio di particolari categorie di imprese prescrivono la
costituzione della società secondo un determinato tipo».
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Premettiamo che i tipi di società disciplinati dalla legge nei capi II-VII del Libro V
sono i seguenti:
- Società semplice
- Società in nome collettivo
- Società in accomandita semplice
- Società per azioni
- Società in accomandita per azioni
- Società a responsabilità limitata
- Società cooperativa
- Società di mutua assicurazione
- Non costituisce un tipo in senso tecnico, invece, la società consortile, che può
costituirsi secondo i modelli societari sopra indicati, esclusa la società semplice (a
meno che non si tratti di società consortile che non svolge attività commerciale), per
il conseguimento dello scopo consortile (art. 2615 ter).
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L’art. 2249 pone un dubbio alla dottrina: se sia dato o meno ai privati, alla luce
dell’art. 1322 co. 2°, il potere di creare società non espressamente previste dal
legislatore. Dottrina e giurisprudenza rispondo di solito negativamente, ponendo in
luce il carattere tassativo dell’art. 2249: si è affermato che fin quando il contratto
deve esplicare la sua efficacia unicamente tra le parti contraenti, la piena libertà
delle stesse si giustifica, mentre è giusto che l’ordinamento imponga forme
determinate (ed escluda quindi possibili società atipiche) quando l’efficacia dei
negozi va ben oltre le parti contraenti.
[Quindi in questa materia esiste il principio del numerus clausus: il legislatore ha
escluso tanto la configurabilità di società atipiche, quanto la possibilità che gli
associati, in via autonoma, possano personalizzare la disciplina delle società che
intendono costituire. Discorso diverso, invece, vale per le possibili clausole atipiche
volte ad arricchire il contenuto di un contratto: la dottrina le ammette
esclusivamente con riguardo agli elementi passibili di variazioni della cd.
fattispecie-società, e quindi non con riguardo agli effetti essenziali che il legislatore
fa discendere da un determinato schema tipico]
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3. Società consortili (che perseguono uno scopo consortile)
si propongono di creare, mediante il combinato disposto
degli artt. 2602 e 2615-ter, un’organizzazione comune per
la disciplina e lo svolgimento di «determinate fasi» delle
rispettive imprese. Lo scopo consortile può essere definito
attraverso uno qualsiasi dei tipi disciplinati.
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PARAGRAFO III – L’ART. 2247 E LE
PECULIARITÀ DEL CONTRATTO SOCIALE
Passiamo ora a un’esegesi più dettagliata dell’art. 2247.
1. I SOGGETTI
Vanno fatte alcune premesse.
Anzitutto, a prescindere da cosa disponga l’art. 2247, la pluralità di persone non
costituisce una condicio sine qua non per la costituzione della società, dal momento
che è possibile la costituzione per atto unilaterale (sia pure per le sole società per
azioni e a responsabilità limitata); in secondo luogo, quando la società si costituisce
per atto scritto – scrittura privata o atto pubblico – occorre sempre che i contraenti
siano individuati con nome e cognome, luogo e data di nascita, domicilio e
cittadinanza.
In generale, possono sottoscrivere il contratto di società sia le persone fisiche, sia le
persone giuridiche, sia gli enti non riconosciuti. Ciò posto, è necessario dedicare
attenzione al fenomeno molto complesso delle partecipazioni di società ad altre
società.
In riferimento a questo fenomeno, le ipotesi prospettabili sono grossomodo 6:
1) Partecipazione di società di capitali e società di persone → È di gran lunga
l’ipotesi più studiata nella pratica. Il quesito se possano diventare soci di società
di persone altre società di capitali, ha ricevuto risposta positiva dalla dottrina e
da una parte minoritaria della giurisprudenza; mentre ha ricevuto risposta
negativa dalla Cassazione e dai tribunali. Il problema sembra oggi essere risolto
dal legislatore, il quale ha aggiunto il secondo comma all’art. 2361 cc., nel quale
ha stabilito che «l’assunzione di partecipazioni in altre imprese comportante una
responsabilità illimitata per le obbligazioni delle medesime deve essere
deliberata dall’assemblea; di tali partecipazioni gli amministratori danno
specifica informazione nella nota integrativa del bilancio». A sua volta l’art.
111-duodecies dispo. att. cc. dispone che le società in nome collettivo e in
accomandita semplice devono redigere il bilancio secondo le norme previste per
le società per azioni e devono osservare, sussistendone i presupposti, la
disciplina in tema di bilancio consolidato (d.lgs. 127/1991), qualora tutti i loro
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soci illimitatamente responsabili di cui all’art. 2361 2° comma, siano società per
azioni, in accomandita per azioni o società a responsabilità limitata;
2) Partecipazione di società di persone a società di persone → Meno rilevante è
il problema relativo alla partecipazione di società in nome collettivo ad altra
società in nome collettivo o in accomandita semplice. Al quesito si dà una
unanime risposta positiva, e l’ipotesi principale sarebbe divisibile in due sub-
ipotesi: quella della costituzione di una società personale cui partecipino accanto
a soci persone fisiche una o più società personali, e quella della costituzione di
una società personale tra sole società personali;
3) Partecipazione di società di persone a società di capitali → Ipotesi sempre
considerata ammissibile;
4) Partecipazione di società cooperative a società di capitali e a società di
persone → Il problema qui è stato risolto dall’art. 18 della L. 72/1983 (Visentini
bis): «le società cooperative e loro consorzi possono costituire ed essere soci di
società per azioni e a responsabilità limitata»;
5) Partecipazione di società di capitali a società cooperative → Se è vero che
alcune norme dettate in tema di cooperativa prevedono la possibilità che soci
siano anche le persone giuridiche, è anche vero che la partecipazione di società
di capitali a società cooperative può ammettersi in quanto non dia adito alla
frustrazione dello scopo mutualistico proprio delle seconde;
6) Partecipazione della comunione legale coniugale a una società in nome
collettivo → Ipotesi molto dottrinaria, nella quale, la soluzione positiva è
comunque condizionata alla preventiva sottrazione delle quote di partecipazione
al patrimonio coniugale, attraverso una convenzione adottata dai coniugi ai sensi
dell’art. 210 comma 1° c.c.
2. I CONFERIMENTI
La più significativa tra le peculiarità del contratto sociale, individuata dall’art. 2247,
è costituita dal conferimento di beni e di servizi: non esiste società senza
conferimenti, né può darsi socio senza obbligo di conferimenti.
Il conferimento è il contributo di ciascuno dei soci alla formazione dei mezzi
necessari per il raggiungimento dello scopo sociale: ciascun contraente si obbliga a
contribuire alla formazione di un fondo sociale mediante una prestazione di dare o
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di fare. Esso costituisce, da un punto di vista tecnico-giuridico, l’unico obbligo
gravante su chi intenda divenire socio di una società, di qualunque tipo essa sia.
Venendo alla specie di conferimenti, le distinzioni più importanti sembrano essere
tre:
1. Con riguardo all’oggetto della prestazione, vi sono i conferimenti
aventi a oggetto una prestazione di dare (denaro, beni in natura, ecc) e i
conferimenti aventi a oggetto una prestazione di fare (possibili nelle
società personali e nelle srl, nelle quali il socio può impegnarsi a
conferire la propria attività – ipotesi non ammessa nella SPA);
2. Con riguardo alla fonte, potremmo distinguere i tipi di conferimenti
espressamente previsti dalla legge (come i conferimenti in denaro o beni
in natura) e quelli consistenti in entità che giurisprudenza e dottrina
ritengono possibili di essere conferiti in società (come entità consistenti
in partecipazioni ad altre società, emissione di cambiali all’ordine della
società, ecc);
3. La terza distinzione, molto discussa, è quella tra conferimenti di
capitale e conferimenti non di capitale. I primi avrebbero a oggetto
quelle entità iscrivibili in bilancio, sono costituiti da beni idonei a
garantire i creditori sociali e quindi suscettibili di esecuzione forzata, e
sono rimborsabili al socio in caso di scioglimento: vi apparterrebbero i
conferimenti in denaro e quelli di beni in natura a titolo di proprietà. I
conferimenti non di capitale non avrebbero, viceversa, alcune delle
caratteristiche indicate, pur essendo idonei al raggiungimento dello scopo
sociale e quindi conferiscono al socio il solo diritti di partecipare agli
utili: sono inquadrabili in questa categoria i conferimenti di servizi.
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concreta nella diversità della condizione giuridica del fondo sociale e del
patrimonio sociale costituito con i conferimenti dei soci.
Orbene, l’art. 2248 stabilisce che «La comunione costituita o mantenuta al solo
scopo del godimento di una o più cose è regolata dalle norme del titolo VII del
libro Terzo» (del libro della prorietà).
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riconoscono al socio medesimo non il diritto alla restituzione del bene
conferito, ma a ottenere, rispettivamente, «una somma di denaro che
rappresenti il valore della quota» o «il rimborso delle proprie azioni in
proporzione al patrimonio sociale risultante dal bilancio dell’ultimo
esercizio»;
4) La destinazione esclusiva del patrimonio sociale alla soddisfazione dei
creditori sociali, anche nelle società prive di personalità giuridica.
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Ciò significa che i conferimenti diversi dal denaro devono essere valutati all’atto
del conferimento e «convertiti» in una espressione numerica, proprio perché, date
le funzioni del capitale sociale, la cifra di questo corrisponda alla realtà e
costituisca un’entità effettiva.
Dal fondo sociale e dal capitale sociale, va tenuto distinto il patrimonio sociale, il
quale rappresenta il complesso dei rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo
alla società (ossia, il complesso dei beni effettivamente esistenti, calcolati al netto
o al lordo, a seconda che siano state o no dedotte le passività).
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aver infruttuosamente esperito le azioni giudiziarie contro il patrimonio della
società (art. 2304).
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3. SINALLAGMATICO (a questo proposito, però, vi sono contrasti dottrinali,
perché alcuni ritengono che il rapporto sinallagmatico si instauri tra il
conferimento e il diritto agli utili, altri sostengono che si instauri tra il
conferimento e l’acquisto della qualità di socio; altri, infine, tra le prestazioni di
ciascun contraente e la realizzazione dello scopo comune mediante l’unione
delle singole prestazioni);
4. PLURILATERALE (o, meglio, potenzialmente plurilaterale, dal momento che,
quand’anche le parti originarie siano due, il rapporto resta aperto all’adesione di
altri soggetti senza che ciò implichi la stipulazione di un nuovo contratto);
5. CON COMUNIONE DI SCOPO (A questo proposito vi è la storica
contrapposizione tra i contratti con comunione di scopo e i contratti di scambio.
Mentre nei primi l’avvenimento che soddisfa l’interesse di tutti è contraenti è
unico (esercizio in comune dell’attività economica), le prestazioni dei contraenti
possono essere di valore diverso, purché idonee al raggiungimento dello scopo
sociale e, infine, ogni contraente compie la propria prestazione per la
soddisfazione dell’interesse altrui, ma anche proprio; nei contratti di scambio si
ragiona diversamente: l’avvenimento che soddisfa l’interesse di una delle parti è
sempre diverso da quello che realizza l’interesse dell’altra, le prestazioni
debbono essere tendenzialmente equivalenti, con contenuti tipico e, infine, ogni
contraente compie la propria prestazione unicamente per la soddisfazione
dell’altro).
La regola della libertà di forma per le società personali si ricava dalla norma ex art.
2251 (dettato per la società semplice ma applicabile a tutte le società personali), a tenore
del quale «Nella società semplice, il contratto non è soggetto a forme speciali, salve
112
quelle richieste dalla natura dei beni conferiti». Significa, in pratica, che nelle società
personali, la forma scritta è indispensabile solo quando vengano conferiti dai soci, in
proprietà (art. 1350 n.1) o in godimento ultranovennale (art. 1350 n.9), beni immobili o
altri diritti reali immobiliari.
Resta inteso, comunque, che per le società di persone soggette a oneri pubblicitari, come
ad esempio l’iscrizione nel registro delle imprese, la forma scritta è ovviamente
necessaria per l’adempimento degli stessi (art. 2296, comma 1°).
Di conseguenza, nelle società personali non solo la volontà di far nascere una società
può concretarsi in un accordo verbale, ma può ricavarsi anche da un comportamento
concludente delle parti: si ha, in questo caso, la società di fatto – che può definirsi
come quella società in cui due o più persone esercitano in comune un’attività
economica, comportandosi di fatto come soci e realizzando nei contenuti la fattispecie
descritta nell’art. 2247, senza aver stipulato alcun accordo espresso, scritto o orale che
sia. In altri termini, in questo caso la semplicità sostanziale si concreta nella sufficienza
dei requisiti stabiliti per ogni tipo di contratto: i soggetti (che devono essere almeno 2),
un oggetto (che abbia i requisiti innanzi indicati) e la causa tipica definita dallo stesso
art. 2247 per le società lucrative, che si concreta nell’alea comune dei guadagni e delle
perdite.
(Ricorda: società di fatto possono essere le sole società personali, quindi non società di
capitali né mutualistiche)
Ciò posto, le situazioni che, con maggiore frequenza, hanno dato luogo a contenziosi,
soprattutto per stabilire se deve essere o no dichiarato il fallimento di una società di
fatto anziché di un imprenditore individuale, originano quasi sempre: 1) Dai rapporto di
coniugio o di parentela: si pensi all’ipotesi della moglie che collabora nella conduzione
dell’impresa di cui è titolare il marito, ponendosi il problema se fra i due intercorra o
meno un rapporto di natura societaria; 2) Dalla comunione ereditaria, che si costituisce
tra gli eredi in conseguenza della morte di un imprenditore: si pensi al caso in cui solo
alcuni fra gli eredi abbiano continuato l’attività imprenditoriale già esercitata dal loro
dante causa e che gli altri si siano limitati a percepirne i frutti, senza preoccuparsi di far
registrare il loro dissenso e farsi liquidare la quota dagli eredi «continuatori».
Per una serie di cause, la società di fatto è stata spesso confusa con altri tipi di società
(società irregolare, società occulta, società apparente).
113
Premessa: mentre di società di fatto, di società occulta e di società apparente si può
parlare con riferimento a ogni tipo di società personale, alle sole società personali
soggette a iscrizione può riferirsi il concetto di irregolarità.
1. È infatti irregolare quella società – necessariamente commerciale personale
(società in nome collettivo e società in accomandita semplice) – per la quale
non siano state osservate le prescrizioni relative agli adempimenti
pubblicitari contenute negli artt. 2296 (società in nome collettivo) e, per rinvio,
nell’art. 2315 (società in accomandita semplice). Orbene, poiché l’iscrizione
dell’atto costitutivo nel registro delle imprese non è adempimento cui
l’ordinamento subordini per le società di persone il riconoscimento formale
della personalità giuridica (come avviene invece per le società di capitali e le
società mutualistiche), la mancata iscrizione non impedisce che la società venga
a esistenza per effetto della stipulazione del contratto, ma produce solo una
parziale modifica della disciplina applicabile al tipo di società in nome collettivo
e in accomandita semplice;
2. È occulta quella società nel cui contratto vi è l’espressa e concordata volontà
dei soci che ogni rapporto con i terzi venga posto in essere per conto della
società, ma non in suo nome, e quindi o nel nome di uno dei soci o addirittura
da chi socio non sia. L’impresa è sociale e il suo esercizio compete a tutti i soci,
ma all’esterno, le operazioni sono compiute, quale imprenditore individuale,
da una persona i cui soci restano occulti ai terzi. Lo scopo è lo stesso
dell’imprenditore occulto: quello di evitare che la società sia chiamata a
rispondere nei confronti dei terzi, ma ai terzi stessi è cmq dato provare
l’esistenza del vincolo sociale tra il prestanome e i soci occulti. Infatti, nella
rinnovata versione della legge fallimentare (art. 147 L.F.), il legislatore ha
previsto al 5° comma la estensione del fallimento dell’imprenditore individuale
alla società occulta che si scopra esistere successivamente alla dichiarazione di
fallimento, e di cui l’imprenditore fallito sia socio illimitatamente responsabile.
3. È apparente quella società in cui più persone operano nel mondo esterno in
modo da ingenerare nei terzi la convinzione dell’esistenza fra loro di un
vincolo sociale, ancorché inesistente nei rapporti interni.
Facciamo 3 precisazioni:
114
A) Società di fatto non è sinonimo di società irregolare: il primo concetto
attiene a un modo di manifestarsi della volontà di costituire la società
(può riguardare quindi tutti i tipi di società personali), il secondo attiene
a un modo d essere della società ricollegabile all’inosservanza di
prescrizioni legislative (è situazione peculiare delle sole società
commerciali soggette a iscrizione, ossia SNC e SAS);
B) Nessuna equivalenza sussiste poi tra società di fatto e società occulta;
C) Molti dubbi sussistono sull’esistenza della società apparente, soprattutto
perché si è negata la cittadinanza al principio dell’apparenza come
principio generale dell’ordinamento giuridico italiano. La conclusione
dovrebbe essere la negazione dell’apparenza come fatto costitutivo del
vincolo sociale, ma ciò non toglie che i terzi che abbiano fatto
affidamento sull’esistenza della società, poi rivelatasi inesistente,
potranno agire sulla base delle norme ordinarie: infatti la
giurisprudenza, in forza del principio della tutela dell’affidamento,
ritiene responsabili, illimitatamente e solidalmente, per le obbligazioni
assunte, i soci apparenti che colpevolmente hanno posto in essere una
situazione difforme dalla realtà.
115
● Le società legali
La locuzione «società legale» equivale a indicare le società volute dalla legge e più in
particolare quelle società che non hanno la loro fonte in un contratto o in atto
unilaterale, ma direttamente nella legge. In tale ottica, la dottrina distingue da un lato, le
società con riguardo alle quali il vincolo fra i soci designati trae immediatamente titolo
dalla legge (società coattive), da quelle la cui costituzione è soltanto imposta (società
obbligatorie), consentita (società autorizzate) o favorita (società promosse) dalla
legge.
Quanto alla disciplina applicabile alle società legali, ecco i punti in cui la normativa di
discosta da quella generale applicabile alle società per azioni: a) Le società legali sono
caratterizzate dalla partecipazione pubblica; b) Sono predeterminati i soci e le rispettive
quote di partecipazione, l’ammontare del capitale sociale, il numero degli
amministratori, l’oggetto sociale; c) Le modificazioni dell’atto costitutivo devono essere
disposte con legge; d) di solito, viene inibito lo scioglimento anticipato data
l’essenzialità del raggiungimento dell’oggetto sociale.
Occorre, infine, registrare alcune categorie di società, categorie create dalla dottrina, e
in particolare:
1. Le società legificate → Quelle società di fonte contrattuale, per le quali sia stato
predisposto, successivamente alla loro costituzione, uno statuto legale ad hoc
(basti pensare alla privatizzazione di enti pubblici economici, quali ENEL, ENI,
ecc);
2. Le società speciali → Sono fattispecie societarie che, fermi i requisiti indicati
nella fattispecie generale, presentano alcuni requisiti specifici che non
escludono, ma qualificano i primi. La «specialità» può riguardare le parti
contraenti, l’oggetto sociale (in ragione della particolare rilevanza pubblico di
esso; si pensi alle società assicuratrici), ecc…
3. Le società anomale → Chiamate anche «società di diritto speciale», sono
società la cui fattispecie manca di un elemento della fattispecie generale, non
decisivo ai fini della qualificazione societaria, come, ad esempio, lo scopo di
lucro (società cooperative, consortili) ovvero la pluralità dei soci (unico
azionista e unico quotista).
116
7. LA SIMULAZIONE
Passiamo alla simulazione del contratto di società.
Quello dell’ammissibilità dell’azione simulatoria è questione molto controversa, che
sembra riguardare le sole società di persone. Questo dal momento che la prevalente
dottrina lo risolve negativamente per la SPA, per due motivi: 1)Da un lato, basandosi
sull’art. 2332 (cause di nullità SPA), che non annovera la simulazione tra i casi tassativi
di nullità della SPA; 2) dall’altro, facendo leva sulla difficoltà di trasferire un istituto
come quello della simulazione, pensato per i contratti di scambio, ai contratti associativi
e in particolare a quelli, fra questi, che danno vita a una vera e propria persona giuridica.
Ciò posto, ci sono alcuni problemi da affrontare.
I) Distinzione tra la società simulata e la società apparente → La
società simulata presuppone sempre e comunque la volontà e la
consapevolezza dei contraenti di far apparire all’esterno una
situazione che non ha riscontro nella realtà dei fatti; invece la società
apparente si lega semplicemente a una situazione che, al di là del
reale intento delle parti, all’esterno appare come societaria;
II) Distinzione tra simulazione assoluta e simulazione relativa → Il tema
è contorto, ma sembrerebbe plausibile in questo caso ravvisare la
simulazione assoluta quando si faccia figurare all’esterno come
sociale un’impresa individuale e coloro che si prestano ad apparire
come soci non vogliono in realtà stipulare alcun contratto di società;
e la simulazione relativa quando l’apparente rapporto sociale
sottintenda un rapporto diverso – lavoro subordinato, associazione in
partecipazione – che le parti hanno interesse a far valere come
sociale.
117
● Nelle Società di persone la disciplina richiama quella generale dei contratti, nel senso
che, di norma, la modifica deve ricevere il consenso di tutte le parti contraenti. Infatti,
l’art. 2552 stabilisce che «il contratto sociale può essere modificato soltanto con il
consenso di tutti i soci se non è convenuto diversamente». La regola è quindi che la
modificazione, in assenza di regolamento diverso, deve avvenire all’unanimità (meglio
sarebbe dire, però, “con il consenso di tutti i soci”), dal momento che, non esistendo
nelle società personali un’organizzazione collegiale, le manifestazioni del consenso e
del dissenso non devono avvenire necessariamente in modo contestuale, e cioè nel corso
di una riunione.
118
singoli soci, anche se poi il grado di autonomia patrimoniale cambia a seconda
che si tratti di SS, SNC o SAS;
4. Per le società cooperative, la riforma del 2003 ha sostituto il previgente sistema
che prevedeva la coesistenza di 3 diversi tipi di responsabilità (limitata,
illimitata, limitata a un multiplo della quota) con un unico sistema, quello della
responsabilità limitata.
119
società cooperative sono dotate di personalità giuridica. Il fatto che le società di persone
non abbiano personalità giuridica, ancorché non ancorato al dato strettamente
codicistico, è orientamento condiviso dalla unanime dottrina.
Detto questo, possiamo passare a tracciare le prime fondamentali differenze tra le
società di persone (SS + SNC + SAS) e le società di capitali (SPA + SRL + SAPA) →
Ricorda che tutte e 6 appartengono al genus delle società lucrative.
120
12. ATTIVIT À E SCOPI PARTICOLARI: CLASSIFICAZIONE
DI SOCIETÀ
1.Società artigiane
Si è già parlato del progressivo distacco tra la definizione di piccola impresa contenuta
nel codice civile e la concreta regolamentazione di questo istituto da parte della
legislazione speciale. È soprattutto nella regolamentazione delle imprese collettive che
questo distacco si accentua, in particolar modo nella regolamentazione della società
artigiana.
Orbene, sulla base della normativa vigente (l.433/1985), l’impresa artigiana può, in
linea di principio, essere esercitata in forma societaria (a condizione che la maggioranza
dei soci, ovvero uno nel caso di due soci, svolga in prevalenza lavoro personale, anche
manuale e che nell’impresa il lavoro abbia funzione preminente sul capitale), ferma la
preclusione al ricorso dei tipi della società per azioni e in accomandita per azioni.
Tuttavia la legislazione un problema lo lascia irrisolto: se, cioè, la società artigiana
possa o no assumere la forma della società semplice. A chi ha risposto in senso positivo,
argomentando che tale eventualità non è esclusa dalla legge, si è obiettato che la
soluzione negativa si impone ove si reputi quella artigiana attività intrinsecamente
commerciale.
121
essere considerata un’impresa agricola per connessione o debba, invece, essere
considerata come un’impresa (società) esercente un’attività commerciale.
All’uopo deve ricordarsi che l’art. 2135 comma 3° stabilisce che la qualificazione di
un’attività agricola come connessa implica che essa sia esercitata dallo stesso soggetto
cui è riferibile l’attività principale (connessione soggettiva).
L’art. 1, comma 2°, del d.lgs. 228/2001, peraltro, prevede che si considerino
imprenditori agricoli le cooperative di imprenditori agricoli e i loro consorzi quando
utilizzano, per lo svolgimento dell’attività di cui all’art. 2135 c.c., prevalentemente
prodotti dei soci, ovvero forniscono prevalentemente ai soci beni e servizi diretti alla
cura e allo sviluppo del ciclo biologico.
La norma testé richiamata, a ben vedere, deroga in maniera vistosa al principio di
connessione soggettiva posto dall’art. 2135, comma 3°: 1) In primo luogo, consentendo
che resti agricola la cooperativa che trasforma prodotti provenienti non dai propri fondi,
ma dai fondi dei soci; 2) In secondo luogo, permettendo che il conferimento dei prodotti
da trasformare e da vendere da parte dei soci sia soltanto «prevalente» rispetto a quello
conferito da estranei o acquistato sul mercato.
3.Società finanziarie
In linea di premessa generale, possiamo dire che sono finanziarie quelle società che
hanno come oggetto sociale una qualsiasi delle attività normalmente definite
finanziarie, o comunque caratterizzanti il mercato finanziario, a prescindere dalla
intensità del grado di strumentalità che caratterizza sempre ogni attività
finanziaria.
La storia normativa delle società finanziarie ha inizio con l’art. 154 d.p.r. 645/1958, che
qualificava come finanziarie le società aventi a oggetto l’assunzione di partecipazioni in
altre società o enti, e il finanziamento, coordinamento tecnico e finanziario di tali
società, nonché la compravendita, il possesso o gestione dei titoli pubblici e privati.
Ha poi inizio una lunga serie di provvedimenti tra loro spesso non coordinati, il cui
denominatore comune è la dilatazione della fattispecie:
a) Prima una legge del 1986, poi la legge Amato del 1990
ampliano la nozione di società finanziaria;
b) L’estensione raggiunge il suo acme con il d.lgs. 356/1990, che
regola i gruppi creditizi, il cui art. 27, oltre a considerare come
possibile oggetto di società finanziarie le attività contenute
122
nell’elenco allegato alla II direttiva CEE, vi ricomprende ben
altre 24 attività;
c) L’anno magico è il 1991: la legge antiriciclaggio stabilisce che
possono considerarsi società finanziarie le società che hanno
per oggetto prevalente o che comunque svolgono in via
prevalente attività di concessione di finanziamenti sotto
qualsiasi forma, compresa la locazione finanziaria; assunzioni
di partecipazioni; intermediazione di cambi; servizi di incasso,
pagamento e trasferimento fondi, anche mediante emanazione e
gestione di carte di credito;
d) La nuova legge bancaria – d.lgs. 385/1993 – riprende
sostanzialmente la disposizione di cui sopra, disponendo che
«l’esercizio nei confronti del pubblico della attività di
assunzione di partecipazione, di concessione finanziamenti
sotto qualsiasi forma, di prestazione di servizi di pagamento e
di intermediazione in cambi è riservato a intermediari finanziari
iscritti in un apposito elenco tenuto dall’Ufficio Italiano Cambi;
e) La vicenda si chiude, almeno temporaneamente, con il d.l.
297/2006, il quale stabilisce che «per ‘società finanziarie’ si
intendono le società che esercitano, in via esclusiva o
prevalente, l’attività di assunzione di partecipazioni aventi le
caratteristiche indicate dalla Banca d’Italia; una o più attività
previste all’art. 1 + altre attività finanziarie previste dal d.lgs.
58/1998.
4. Società fiduciarie
Le società fiduciarie sono disciplinate dalla legge n. 1966 del 1939 e dal r.d. del
1940, modificati solo in parte dal d.p.r. 361/1994.
L’art. 1 della legge del 1939 definisce fiduciarie le società che «comunque
denominate, si propongono, sotto forma di impresa, di assumere l’amministrazione
dei beni per conto terzi, l’organizzazione (…) di aziende e la rappresentanza dei
portatori di azioni e di obbligazioni». Occorre precisare che il d.p.r. 136/1975 ha
sottratto l’attività di revisione e certificazione contabile attribuendola alle società di
revisione.
123
Occorre distinguere due categorie di società fiduciarie:
a) quelle che svolgono «attività di gestione dei patrimoni mediante operazioni
aventi per oggetto valori mobiliari, in nome proprio e per conto di terzi»;
b) quelle che svolgono attività latu sensu di amministrazione, che sono regolate
ancora dalla legge del 1939.
124
CAPITOLO XII
LE SOCIETÀ DI PERSONE
Prima di passare all’esame delle singole società personali, occorre premettere che
esse sono caratterizzate da una normazione in gran parte comune: per la
precisione, il legislatore ha dettato una serie di disposizioni per la società
semplice (artt. 2251-2290), rendendole applicabili con una norma di rinvio –
l’art. 2293 – alle società in nome collettivo; mentre, poi, tutte le norme peculiari
dettate per le società in nome collettivo (artt. 2291-2312) – ivi comprese le
norme dettate per la società semplice ed estese alla snc – sono dichiarate
applicabili alla società in accomandita semplice, in quanto compatibili con le
norme specifiche dettate per questo tipo di società (artt. 2313-2324).
Qui di seguito affronteremo, in ordine:
I. LA SOCIETÀ SEMPLICE
125
126
I. LA SOCIETÀ SEMPLICE
NOZIONE E FUNZIONI
La società semplice è un tipo di società definibile in termini negativi: e può
esercitare solo attività non commerciale (art. 2249, comma 1°), e ricorre quando le
parti non abbiano adottato le forme di una delle società commerciali (art. 2249
comma 2°). Essa costituisce la forma più elementare di organizzazione societaria. È
semplice, nel sistema del codice, la società che non presenta elementi di
identificazione ulteriori rispetto a quelli contenuti nella norma che definisce la
società come contratto, e cioè l’art. 2247.
Essa fruisce di una disciplina molto articolata (artt. 2251-2290), che risulta
applicabile, sulla base di specifici richiami, anche alle altre figure di società di
persone che non esercitano attività commerciale (art. 2249, comma 2°) → essa
rappresenta quindi una sorta di prototipo normativo, dal momento che la disciplina
per essa prevista dal codice è applicabile anche alle società in nome collettivo e a
quelle in accomandita semplice.
LA COSTITUZIONE
Qui ripetiamo quanto già detto grossomodo in precedenza. La massima semplicità
formale e sostanziale si esprime nell’art. 2251: «Il contratto non è soggetto a forme
speciali, salve quelle richieste dalla natura dei beni conferiti». Quindi, si ribadisce,
la forma scritta è indispensabile solo quando vengano conferiti dai soci in proprietà
(art. 1350 n.1) o in godimento ultranovennale (art. 1350 n.9) beni immobili o altri
diritti reali immobiliari. È opportuno chiarire che i beni conferiti dai soci, a onta
della mancanza di personalità giuridica della società semplice e della perdurante
responsabilità dei soci stessi per le obbligazioni sociali, entrano a far parte del
patrimonio della società.
Come già accennato, per il contenuto dell’atto costitutivo sono sufficienti i requisiti
generalmente stabiliti per ogni tipo di contratto:
- I soggetti devono essere almeno 2 (art. 2247) e i problemi aperti, a questo
proposito, sono essenzialmente: Un problema è relativo al se sia applicabile anche
alla società semplice l’art. 2294, che disciplina la partecipazione degli incapaci a
società in nome collettivo. Il dibattito si è svolto tra chi, ravvisando la ratio
dell’articolo nell’esigenza di sottrarre l’incapace ai rischi della responsabilità
illimitata, ritiene la norma in esame applicabile e chi, al contrario, argomentando dal
fatto che le norme degli artt. 320 ecc… (cui l’art. 2294 rinvia) non si estendono agli
imprenditori individuali non commerciali, conclude per l’inapplicabilità;
- Nulla v’è da aggiungere con riguardo all’oggetto, che deve aver i requisiti richiesti
dall’art. 1346, e non può contemplare attività di natura commerciale;
- Altrettanto dicasi per la causa (o scopo istituzionale), definita dall’art. 2247 per
tutte le società lucrative, di cui abbiamo già parlato;
- Completa l’elenco degli elementi essenziali il fondo sociale: in sede di disciplina
di società semplice si trova la norma dell’art. 2253, il cui comma 2° stabilisce che
«se i conferimenti non sono determinati, si presume che i soci siano obbligati a
128
conferire, in parti uguali fra loro, quanto è necessario per il conseguimento
dell’oggetto sociale».
LA PUBBLICITÀ
La L. 580/1993 stabilisce che sono iscritte in sezione speciali del registro delle
imprese le società semplici e aggiunge, peraltro, che questa iscrizione ha efficacia di
certificazione anagrafica e pubblicità notizia, oltre agli effetti previsti da leggi
speciali.
L’efficacia di questa iscrizione comporta, come già detto in precedenza, che la
mancata ottemperanza a questa formalità non determina quella situazione di
«irregolarità» che invece si determina nelle altre società personali (società in nome
collettivo e società in accomandita semplice), in cui l’iscrizione ha un’efficacia
dichiarativa.
Per completezza di esposizione, va ripetuto quanto già detto in precedenza: a norma
del d.lgs. 228/2001, l’iscrizione nel registro delle imprese delle società semplici
esercenti attività agricola, oltre alle funzioni suddette, produce gli effetti di cui
all’art. 2193 (efficacia dichiarativa).
129
L’ORGANIZZAZIONE INTERNA E LA GESTIONE
In merito all’organizzazione interna, la disciplina comune consta di sole due norme:
gli artt. 2257 e 2258, relativi all’amministrazione congiuntiva e disgiuntiva. Da
questa situazione normativa si desume che il legislatore, nel disciplinare le società
personali, ha privilegiato il momento della gestione rispetto a quello della
formazione della volontà collettiva: non esistono, cioè, organi sociali in senso
proprio, come invece esistono nelle società di capitali, ma esistono solo i soci, ai
quali la legge stessa attribuisce naturalmente il potere di decidere amministrando.
1. Amministrazione e gestione
I modi di amministrare le società personali, previste dall’ordinamento l’uno in
subordine all’altro, sono due, e cioè:
130
a) Quello in cui tutti i soci, disgiuntamente o congiuntamente, siano
amministratori. Questa ipotesi può verificarsi: quando il contratto
sociale nulla disponga in ordine alle indicazioni nominative, per cui è
d’obbligo l’adozione del sistema disgiuntivo affidato a tutti i soci, ovvero
quando il contratto sociale prescriva tout court il sistema congiuntivo
senza ulteriori specificazioni, lasciando perciò presumere che tutti i soci
vogliano amministrare, congiuntamente, la società;
b) Quello in cui, invece, l’amministrazione sia affidata solo ad alcuni
soci, avendovi già altri espressamente rinunciato. Ciò avviene quando
esista un regolamento contrattuale che preveda l’affidamento
dell’amministrazione, disgiuntivamente o con giuntivamente, solo ad
alcuni soci.
131
regola pattizia della maggioranza, che viene anche in questo caso calcolata per quote di
interessi (art. 2257 comma 3°). Anche in questo caso, come nel precedente, vi è una
norma di chiusura (valvola di sicurezza) del sistema: a ciascun amministratore, infatti, è
riconosciuto il potere di compiere atti quando vi sia l’urgenza di evitare un danno alla
società (2258, comma 3°).
In alternativa a questi schemi, una parte della dottrina ritiene possibile l’affidamento
dell’amministrazione a non soci (amministratori estranei), nonostante la legge
prescriva che, tra gli elementi dell’atto costitutivo, siano indicati gli amministratori
usando la locuzione «i soci che hanno l’amministrazione e la rappresentanza delle
società» (art. 2295, n 3).
In realtà la soluzione positiva o negativa dipende dall’opinione che si ha in tema di
rapporto di amministrazione: per chi ritiene che la qualità di amministratore non sia un
connotato naturale della qualità di socio di società personale e che la fonte del rapporto
di amministrazione sia diversa da quella del rapporto di società, appare naturale
abbracciare la tesi dell’ammissibilità. Così come appare naturale abbracciare la tesi
opposta per chi ritiene che il socio possa sì rinunciare al suo diritto di amministrare, ma
solo a favore di altri soci.
132
1) Per quanto concerne i diritti spettanti agli amministratori, l’unica questione a
porsi è sostanzialmente quella del diritto col «compenso»: parte della
giurisprudenza, muovendo dalla onerosità del mandato (art. 1709) è incline a
ritenere che al socio amministratore spetti un compenso, mentre la dottrina è
divisa;
2) Per quanto concerne gli obblighi, occorre ricordare che la funzione
amministrativa costituisce sempre per l’investito un dovere connesso
all’esercizio di speciali poteri propri di quell’attività giuridica destinata a
incidere su interessi estranei a quelli dell’agente; e che, in secondo luogo, l’art.
2260 comma 2° stabilisce che «Gli amministratori sono solidalmente
responsabili verso la società per l’adempimento degli obblighi a essi imposti
dalla legge e dal contratto sociale. Tuttavia, la responsabilità non si estende a
coloro che dimostrino di essere esenti da colpa». [La responsabilità degli
amministratori ha carattere solidale, anche nell’ipotesi di gestione disgiunta
della società; infatti è configurabile, in capo a ciascuno di essi, un vero obbligo
di controllo dell’operato degli altri, esercitabile anche mediante il citato potere
di veto]; altri obblighi sono: a) quello di fornire il rendiconto ai soci non
amministratori in forza dell’art. 2261 che non sussiste, però, se tutti i soci sono
amministratori; b) quello di fornire ai soci non amministratori notizia dello
svolgimento degli affari sociali e di consentire la consultazione dei documenti
relativi all’amministrazione; c) quello di ottemperare agli obblighi di iscrizione
della società nell’Albo speciale del registro delle imprese – l. 580/1993; d)
quello di tenere le scritture contabili imposte dalla legge.
3) Più articolato è il discorso sui poteri, che può utilmente affrontarsi con
riferimento al tema della rappresentanza: è infatti l’art. 2266 (“Rappresentanza
della società”) ad affrontare da vicino il tema. Esso dispone che «La società
acquista diritti e assume obbligazioni per mezzo dei soci che ne hanno la
rappresentanza e sta in giudizio nella persona dei medesimi». Quindi, in assenza
di diverse pattuizioni nel contratto sociale, il modello legale stabilisce una
precisa corrispondenza tra potere di amministrazione e potere di
rappresentanza. (Occorre premettere che l’art. 2266 sta a significare che nei
rapporti esterni, pur non avendo la personalità giuridica, la società semplice e,
più in generale, la società di persone, si presentano come un gruppo unitario,
portatore di una propria volontà e titolare di un proprio patrimonio, capace come
133
tale di acquisire diritti, assumere obbligazioni e stare in giudizio). Da questa
norma si ricavano alcuni punti di riferimento, sulla base dei quali i terzi possono
determinare la loro condotta verso la società:
La distinzione tra rappresentanza cd. sostanziale e rappresentanza cd.
processuale;
La possibilità di indicare quale, tra i soci amministratori, abbiano la
rappresentanza, se non si vuole che questa spetta a tutti i soci amministratori, come
si desume dalla prima parte dell’art. 2266, comma 2°;
L’individuazione dell’oggetto sociale come limite ai poteri degli amministratori,
secondo quanto stabilisce la parte finale della norma richiamata;
La possibilità di determinare il contenuto dei poteri rappresentativi, come risulta
chiaro dall’espressione di esordio dell’art. 2266, comma 2° (infatti, mediante l’atto
costitutivo, è possibile prevedere una diversa regolamentazione: anche in questo
caso è decisiva la volontà dei soci manifestata nel contratto sociale. La disciplina
legale ha solo un valore suppletivo); con riguardo a tale ultimo punto, appare
opportuno distinguere le ipotesi possibili:
134
Per vincolare quindi la società, l’amministratore-rappresentante deve spendere
necessariamente il nome della società, e deve aver compiuto un atto – lecito o
illecito che sia – che rientri nell’oggetto sociale.
135
rapporto di amministrazione, potendo il socio che se ne è temporaneamente
spogliato riappropriarsi del diritto stesso;
136
secondo le norme sul mandato), deve ribadirsi la necessità del consenso unanime dei
soci, così come è necessario per la nomina;
■ Per quanto concerne, infine, la revoca giudiziaria, va detto che con il termine
«giusta causa» si fa riferimento, in generale, a ogni evento – anche non imputabile
all’amministratore – che renda impossibile il naturale svolgimento del rapporto di
gestione, fermo restando che la valutazione relativa alla sussistenza di questo
spetterò all’autorità giudiziaria (alla quale si è rivolta il socio), e che non sussiste
mai giusta causa ove risulti rispettato l’obbligo di diligenza da parte
dell’amministratore. Inoltre, il giudizio per la revoca si instaura solo tra il/o
soggetto/i richiedente/i e il destinatario della domanda di revoca, senza necessità di
integrare il contraddittorio con altri soci.
LA QUALITÀ DI SOCIO
Affrontiamo i problemi relativi alla posizione del socio all’interno della società.
Premettiamo che con “socio” assumeremo l’accezione più lata possibile, ossia
posizione di un membro della società, produttiva di una serie di interessi,
variamente tutelati dall’ordinamento giuridico.
1. I MODI DI ACQUISTO
L’acquisto della qualità di socio può avvenire:
a) o per effetto dell’adesione originaria al contratto di società e in virtù
dell’assunzione dell’obbligo del conferimento;
137
b) ovvero, successivamente a tale momento, per effetto dell’acquisto inter vivos di
una quota di partecipazione. Anche se il principio ispiratore della materia è
quello della non libera trasferibilità della quota, la pratica insegna che la quota
viene considerata cedibile, ma l’efficacia della cessione è subordinata al
consenso di tutti gli altri soci, e questo consenso può essere non solo tacito, ma
prestato dopo che sia intervenuto tra le parti il contratto di cessione;
c) O ancora, pur non essendo questa la regola prevista dall’art. 2284, per effetto
della successione mortis causa sempre che, come vedremo, esista una clausola
di continuazione della società con gli eredi del socio defunto ovvero
l’accoglimento da parte degli eredi medesimi di subentrare in società in società
in luogo del de cuius.
138
diritto di opporsi alla propria esclusione + i poteri di controllo ex art. 2261 spettanti
ai soci non amministratori;
● Diritti patrimoniali o economici → I diritti di natura patrimoniale o economica
sono fondamentalmente 3: a) Il diritto agli utili (che nel prossimo paragrafo
spiegheremo nel dettaglio); b) il diritto alla liquidazione della quota, nell’ipotesi di
scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio (art. 2289); c) il diritto
alla quota di liquidazione, all’atto dell’estinzione della società, secondo i criteri
previsti dagli artt. 2281, 2282, 2283.
4. GLI UTILI
Appartenendo la società semplice al novero delle società lucrative, centrale importanza
assume la disciplina relativa agli utili. Premesso che con utile deve intendersi
l’incremento patrimoniale derivante dall’attività economica esercitata dalla società, e
che solo i guadagni effettivamente così realizzati possono essere destinati alla
ripartizione periodica tra i soci, la materia è regolata dagli artt. 2262-2265.
Partiamo dal primo e dall’ultimo.
Anzitutto, viene in rilievo quanto stabilito dall’art. 2262 → Il quale prevede il diritto
del socio di società personale di partecipare alla divisione periodica degli utili.
Diritto che sorge automaticamente ed è immediatamente esigibile per effetto
dell’approvazione del rendiconto annuale, allorquando dallo stesso emerga che
l’esercizio ha fatto registrare conseguimento di utili.
L’art. 2265, invece, stabilisce il divieto del patto leonino → Non sono ammissibili,
perché nulli, i patti, diretti o indiretti, con i quali uno o più soci vengono esclusi da ogni
partecipazione agli utili o alle perdite.
Premesso questo, e prima di passare agli artt. 2263-2264, dobbiamo premettere che la
disciplina legale ha sempre carattere suppletivo, in quanto l’applicazione di queste
norme è subordinata all’assenza di diverse pattuizioni contrattuali. Detto questo, entra in
gioco l’art. 2263, che pone talune presunzioni: a) Se il valore dei conferimento è
determinato nel contratto, vige il principio della proporzionalità, nel senso che le parti
spettanti ai soci nei guadagni e nelle perdite si presumono proporzionali ai conferimenti
(comma 1, inizio); b) Se manca ogni determinazione contrattuale del valore dei
conferimenti, scatta la presunzione di uguaglianza, nel senso che in tal caso la
139
partecipazione a utili e perdite si presume uguale per tutti i soci (comma 1, fine); c) Ove
il contratto determini solo la parte spettante a ciascuno nei guadagni, vi è la presunzione
di uguaglianza tra partecipazione ai guadagni e partecipazione alle perdite (comma 3);
d) come deroga a questo articolo, il successivo (art. 2264) prevede che la
partecipazione di ciascun socio ai guadagni e alle perdite possa essere rimessa alla
determinazione di un terzo.
140
persona dei medesimi. – In mancanza di diversa disposizione del contratto,
la rappresentanza spetta a ciascun socio amministratore e si estende a tutti gli
atti che rientrano nell’oggetto sociale. – Le modificazioni e l’estinzione dei
poteri di rappresentanza sono regolate dall’art. 1396».
Bisogna fare una distinzione preliminare:
A) Le situazioni che sulla base della norma appena richiamata possono in
concreto verificarsi con stretto riguardo alla persona dell’investito:
a1)Se il contratto sociale nulla dispone in ordine alla rappresentanza, questa
spetterà a ciascun socio amministratore, con ciò dimostrandosi che essa si
presenta come attributo inerente alla qualità di socio amministratore e non
richiede alcuno specifico conferimento di poteri;
a2)Quando il contratto contiene disposizioni esplicite in ordine alla
rappresentanza, si tratterà di valutarne l’ammissibilità, soprattutto con
riguardo alla persona dell’investito, in particolar modo per quando concerne
il discorso relativo alla rappresentanza da parte di estranei.
141
In conclusione, nonostante l’interrelazione che specialmente nelle società di
persone esiste tra i 2 istituti, dobbiamo tenere concettualmente distinta la
rappresentanza dall’amministrazione: mentre la prima ha il suo ambito di
applicazione all’esterno della società – rappresentante è colui che ha il
potere di manifestare ai terzi la volontà della società e questa acquista
diritti e assume obbligazioni per mezzo dei soci che rivestono tale
qualità – l’amministrazione ha il suo ambito di elezione all’interno della
società, nel senso che amministratore è colui che, nei limiti delle
competenze legali e statutarie, gestisce gli affari della società, non
potendo impegnare nei confronti dei terzi il nome della società se non
munito di relativi poteri rappresentativi.
II. Di questo secondo profilo abbiamo parlato trattando soprattutto
dell’autonomia patrimoniale della società. Abbiamo già detto che il termine
autonomia patrimoniale indica una insensibilità reciproca tra il patrimonio
della società e il patrimonio dei singoli soci, nel senso che i creditori sociali
possono far valere le loro pretese solo sul patrimonio sociale e mai su quello
dei soci. L’autonomia patrimoniale perfetta, come detto, si raggiunge solo
nelle società di capitali e nelle società cooperative. Di converso, la forma più
attenuata di autonomia patrimoniale si ha proprio nella società semplice, e
non solo perché esiste la responsabilità sussidiaria dei soci per le
obbligazioni sociali, ma anche, e forse soprattutto, perché lo stesso
patrimonio sociale è esposto agli attacchi dei creditori particolari dei soci, i
quali, sia pure subordinatamente al fatto che gli altri beni del socio debitore
siano insufficienti a soddisfare i loro crediti, possono chiedere «in ogni
tempo la liquidazione della quota» del socio debitore.
142
obbligazioni sociali rispondono inoltre personalmente e illimitatamente i
soci che hanno agito in nome e per conto della società e, salvo patto
contrario, gli altri soci».
Facciamo alcune precisazioni:
- Per le obbligazioni sociali devono intendersi le obbligazioni assunte dalla
società per mezzo dei soci che ne hanno la rappresentanza e quindi le
obbligazioni nascenti da contratto o da «ogni altro fatto idoneo a produrle in
conformità dell’ordinamento giuridico» (art. 1173);
- Responsabilità illimitata dei soci significa che questi rispondono oltre i
limiti della quota conferita e quindi con tutti i propri beni;
- La solidarietà (art. 1292) si pone tra i soci, e non tra i soci e la società.
Quindi i creditori sociali possono far valere le loro pretese innanzi tutto sul
patrimonio sociale, che è destinato principalmente, se non esclusivamente,
alla soddisfazione delle loro pretese. Qualora, tuttavia, non sia agevole
soddisfarsi sul patrimonio sociale, i creditori possono rivolgersi anche nei
confronti dei soci, i quali rispondono illimitatamente e solidalmente per le
obbligazioni sociali, ex art. 2267 comma 1°.
A questo punto, la legge opera una distinzione tra i soci che hanno agito in
nome e per conto della società – soci agenti – e gli altri soci, disponendo
per i primi la inderogabilità della responsabilità illimitata e solidale
(significa che, impregiudicata l’opponibilità dei patti di limitazione della
responsabilità nei rapporti interni, essi non potranno mai far valere gli effetti
dei patti medesimi nei confronti dei terzi) e per i secondi la derogabilità (gli
altri soci, infatti, potranno opporre ai terzi ogni tipo di patto limitativo della
responsabilità, a condizione di averli resi edotti con mezzi idonei – la
limitazione della responsabilità o l’esclusione della solidarietà è in
opponibile a coloro che non ne hanno avuto conoscenza, ex art. 2267 comma
2°).
143
alcuna azione contro il patrimonio sociale, ma al socio è riconosciuto il
beneficio dell’escussione preventiva del patrimonio sociale: egli può
paralizzare l’azione creditoria dimostrando che esistono ancora beni sociali
sui quali il creditore può «agevolmente soddisfarsi»: il socio potrà, mediante
questa sorta di eccezione, indicare al creditore i beni della società di agevole
escutibilità (come denaro, beni mobili, ecc). [Come vedremo, il beneficio di
escussione nella società in nome collettivo (regolare) opera
automaticamente, senza imporre ai soci un obbligo di cooperazione con il
creditore per evitare l’aggressione diretta del proprio patrimonio – sarà
applicabile, infatti, l’art. 2304. E l’automatico funzionamento del beneficio
di escussione troverà applicazione anche nelle s.a.s. (società in accomandita
semplice), con riferimento alla sola categoria dei soci accomandatari].
Riassunto conclusivo: se per nessuno dei soci esiste patto limitativo della
responsabilità personale e solidale, il regime sarà in tutto analogo a quello
delle società in nome collettivo; ove per alcuni soci viga il patto di
esclusione della responsabilità e l’amministrazione e la rappresentanza
siano conferite a tutti gli altri soci per cui tale patto non vige, il regime della
responsabilità sarà analogo a quello delle società in accomandita semplice.
In tutti gli altri casi vige un regime di responsabilità originario. Punti fermi
(due): il patrimonio sociale costituisce la garanzia esclusiva per i
creditori sociali e non subisce, se non limitatamente, il concorso dei
creditori particolari dei soci + in nessun caso può restare esclusa la
responsabilità personale di tutti i soci.
144
conservativi sulla quota spettante al socio nella liquidazione; c)- Questo è il
potere più importante – Egli può ottenere la liquidazione della quota del suo
debitore «se gli altri beni di questo sono insufficienti a soddisfare i suoi
crediti». Questa disposizione attenua in un certo senso i principi affermati
nel 1° comma e rende meno intensa, nella società semplice, rispetto alle altre
società personali – ove ciò non è consentito – l’autonomia patrimoniale.
L’art. 2270 si applica anche alle società irregolari (lo vedremo) e, per
concorde opinione, anche a quelle di fatto.
145
successionis, ma per effetto dell’accettazione di una proposta loro
rivolta dai soci superstiti, quindi in seguito alla stipulazione di un atto
inter vivos;
B) In relazione alla possibilità di prevedere nel contratto patti in deroga alla
disciplina legale, si sono ipotizzato vari tipi di clausole limitative del
potere di scelta, perché statuenti o un’unica strada da percorrere
obbligatoriamente (es. liquidazione di quota agli eredi), ovvero solo
alcune delle alternative possibili. Le clausole maggiormente interessanti
sono quelle che prevedono la continuazione della società con gli eredi
del socio defunto, raggruppabili in 3 categorie:
1) Le clausole di continuazione facoltativa → che obbligano i soci
a continuare la società con gli eredi i quali hanno, a loro volta,
il diritto ma non l’obbligo di aderire al contratto sociale;
2) Le clausole di continuazione obbligatoria → con le quali si
prevede l’obbligo degli eredi di entrare in società;
3) Le clausole di continuazione automatica → il forza delle quali,
il chiamato all’eredità consegue, per il solo fatto
dell’accettazione dell’eredità, la qualità di socio.
Nei primi due casi si parlerà di recesso legale, mentre nel terzo si parla di
recesso convenzionale.
146
A) La fattispecie legale di «società contratta a tempo indeterminato» si verifica
se nel contratto sociale è stata espressamente prevista una durata indeterminata
o non è stato inserito alcun termine di durata;
B) La fattispecie legale di «società commisurata alla vita di uno dei soci» è
quella per la quale è prevista una durata coincidente con la vita di uno qualsiasi
dei soci;
C) Se la società è stata contratta a tempo determinato, il recesso è possibile
solo se sussiste una «giusta causa». Anche questa è un’ipotesi di recesso legale,
e la giurisprudenza ha individuato due criteri generali per poter ritenere
«giustificato» il recesso: a)quando esso costituisca la reazione a un illegittimo
comportamento degli altri soci, tale da incrinare la reciproca fiducia; b)ovvero
quando si ricolleghi all’altrui violazione di obblighi contrattuali e di doveri di
fedeltà, lealtà, correttezza e diligenza che incida anch’essa sulla natura
fiduciaria del rapporto.
147
effetti immediatamente nei confronti delle persone dei soci, essa può essere
FACOLTATIVA o DI DIRITTO.
L’esclusione facoltativa, che avviene per deliberazione della maggioranza dei soci o, in
caso di due soci, per pronuncia del tribunale, è una facoltà e non un obbligo (appunto,
facoltativa) e l’art. 2286 ne prevede tre ipotesi:
1) Gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano al socio dalla legge o
dal contratto sociale » es. il mancato adempimento dell’obbligo di
conferimento. L’inadempimento deve essere «grave» e deve porsi in relazione
con gli obblighi di conferimento e di collaborazione che i soci si sono assunti
mediante il contratto (artt. 1374 e 1375);
2) Il secondo motivo riguarda la persona del socio, nel senso che questo può essere
escluso ove sia colpito dal provvedimento di interdizione o inabilitazione;
3) Una terza categoria (commi 2° e 3°) comprende le cause di esclusione che si
riconnettono alla impossibilità sopravvenuta della prestazione (artt. 1463 ss.)
e precisamente: a)la sopravvenuta inidoneità del socio a svolgere l’opera
conferita; b)il perimento della cosa conferita in godimento dovuto a cause non
imputabili agli amministratori; c)il perimento della cosa conferita in proprietà, se
questo è avvenuto prima che la proprietà sia acquisita dalla società.
IL PROCEDIMENTO DI ESCLUSIONE
Il procedimento che conduce all’estromissione del socio è regolato con riguardo alla
sola ipotesi dell’esclusione facoltativa e, quando la società è costituita da due o più soci,
si snoda attraverso le seguenti fasi:
1) Deliberazione della maggioranza dei soci, non computandosi il socio da
escludere. A onta della locuzione usata, non occorre una deliberazione in senso
tecnico, essendo necessario il consenso della maggioranza dei soci calcolata per
teste e non per quote. La decisione deve essere motivata e deve contenere
l’esposizione dei fatti che hanno giustificato il provvedimento;
2) Comunicazione al socio escluso: è sufficiente qualsiasi atto o fatto idoneo a
comunicare l’esclusione all’interessato.
L’esclusione ha effetto che siano decorsi 30 gg dalla comunicazione e, da tale
momento, il socio perde tale qualità e decorrono altresì i 6 mesi per la liquidazione
della quota da parte della società.
148
A norma dell’art. 2287 comma 2°, entro 30 gg dalla data della comunicazione, il
socio escluso può fare opposizione al tribunale: il giudice dovrà preliminarmente
controllare la sussistenza di una causa di esclusione e la sua inclusione fra quelle
previste dalla legge o dal contratto, e poi la «gravità» delle inadempienze. Quando
l’esclusione risulti palesemente illegittima e deliberata in modo discriminatorio, il
tribunale può disporre la sospensione dei relativi effetti.
4. L’ESCLUSIONE DI DIRITTO
L’esclusione di diritto si caratterizza, rispetto all’esclusione facoltativa, perché
consegue quasi automaticamente al verificarsi del fatto che la legge indica come
generatore, indipendentemente da ogni valutazione discrezionale dei soci. A norma
dell’art. 2288, il socio è escluso di diritto in 2 casi: (comma 1°) se è dichiarato
fallito + (comma 2°) il socio nei cui confronti il creditore particolare abbia ottenuto
liquidazione della quota – ex art. 2270 co.2
149
4) Il comma 4° stabilisce che «la quota deve essere liquidata entro
sei mesi dal giorno in cui si verifica lo scioglimento del
rapporto».
I. Scioglimento
In relazione alla prima fase, l’art. 2272 stabilisce che la società di scioglie per una
serie di cause (decorso del termine, conseguimento oggetto sociale o sopravvenuta
impossibilità di conseguirlo, volontà dei soci – scioglimento anticipato, venir meno
della pluralità dei soci se questa non si ricostituisce entro 6 mesi, altre cause previste
nel contratto sociale). Tutte le cause di scioglimento operano di diritto, quindi non è
necessario alcun accertamento costitutivo. Tuttavia, è bene ricordarlo, una causa di
scioglimento non determina, ex se, la morte della società, ma solo il verificarsi di
una serie di effetti preliminari alla procedura di estinzione. Anzitutto, ne deriva un
150
mutamento dello scopo della società (da lucrativo a liquidativo) e, in secondo luogo,
il divieto per gli amministratori di intraprendere nuovi affari. La società entra in
stato di liquidazione
↓
II. Liquidazione
Questo procedimento comporta, anzitutto, la nomina dei liquidatori, che
sostituiscono gli amministratori nella gestione liquidativa del patrimonio della
società. La procedura si compone di 4 fasi
- Redazione dell’inventario
- Monetizzazione dell’attivo
- Pagamento delle passività sociali
- Redazione del bilancio finale di liquidazione e del piano di riparto
Tutto ciò, fermo restando che l’art. 2275 assegna alla disciplina legislativa della
liquidazione (liquidazione lagel) un ruolo meramente formale, giacché su di essa
può tranquillamente prevalere il «modo di liquidare il patrimonio sociale» previsto
dal contratto sociale (liquidazione pattizia), fermo restando l’obbligo del previo
pagamento dei debiti sociali. In ogni caso, i liquidatori devono compiere tutte le
operazioni necessarie alla realizzazione della procedura di liquidazione, e ai loro
poteri sostanziali si accompagnano anche poteri di rappresentanza processuale della
società. Estinti i debito sociali, occorre ripartire l’eventuale residuo attivo tra i soci
(alla luce del piano di riaprto); dopo di che abbiamo l’approvazione del rendiconto
finale, cosa che libera i liquidatori di fronte ai soci e segna la fine della procedura di
liquidazione.
151
152
II. LA SOCIETÀ IN NOME COLLETTIVO
NOZIONE E CARATTERI
La disciplina della società in nome collettivo – il tipo più diffuso di società
personale – è contenuta negli artt. 2291-2312 e, in quanto questi non dispongano,
nelle forme dettate per la società semplice (rinvio effettuato dall’art. 2293).
Dalla circostanza che la normativa del Capo III “Della società in nome collettivo”
abbia come capofila l’art. 2291, si può desumere che è la responsabilità illimitata e
solidale dei soci a costituire il tratto che più di ogni altro caratterizza tale tipo
di società.
L’art. 2291 introduce a tre considerazioni:
A) I SOGGETTI PARTECIPANTI
L’art. 2295 n.1 prescrive che l’atto costitutivo deve indicare il «cognome e il nome,
il luogo e la data di nascita, il domicilio e la cittadinanza dei soci». L’essenzialità
dell’elemento è in re ipsa, dal momento che non esisterebbe un contratto che non
contenesse l’indicazione delle parti contraenti. Ma i problemi che la norma suscita
sono fondamentalmente due: la partecipazione di soggetti diversi dalle persone
fisiche (di cui si è già parlato) e la partecipazione degli incapaci: qui deve porsi a
mente l’art. 2294, a tenore del quale «la partecipazione di un incapace alla società in
nome collettivo è subordinata in ogni caso all’osservanza delle disposizioni degli
artt. 320, 371, 397, 424 e 425» (e queste norme dispongono che il minore,
l’interdetto e l’inabilitato, per continuare l’esercizio di un’impresa commerciale,
devono ottenere l’autorizzazione del tribunale e che il minore emancipato – art. 397
– può esercitare un’impresa commerciale senza l’assistenza del curatore se è
autorizzato dal tribunale previo parere del giudice tutelare e sentito il curatore».
154
B) LA RAGIONE SOCIALE
L’art. 2295 n.2 indica quale elemento da includere nell’atto costitutivo la ragione
sociale, autonomamente disciplinata dall’art. 2292: definibile come la ditta sotto la
quale agiscono le società in nome collettivo e le società in accomandita semplice, la
ragione sociale assolve, il primo luogo, a una funzione di identificazione del
soggetto, donde il carattere di necessità che a essa è attribuito.
L’art. 2292 fissa due regole: 1) Il comma 1°, quando prescrive che accanto al nome
di uno o più soci venga indicato il rapporto sociale, sembra rafforzare il principio
della verità che già vige per la formazione della ditta dell’imprenditore individuale
(art. 2563); 2) Il comma 2°, disponendo che «la società può conservare nella ragione
sociale il nome del socio receduto o defunto, se il socio receduto o gli eredi del
socio ceduto vi consentono» (si parla di ragione sociale derivata) sembra contenere
apparentemente un’attenuazione del principio appena affermato, mentre così non è,
ove si pensi che la norma è preordinata alla conservazione dell’avviamento
aziendale.
Vanno precisate tre cose: a) L’inosservanza della prescrizione contenuta nell’art.
2292 determina la irregolarità della ragione sociale, che può dar luogo anche al
rifiuto di iscrizione dell’atto costitutivo nel registro delle imprese; b) La ragione
sociale è liberamente trasferibile, alle condizioni stabilite per la ditta individuale
dagli artt. 2565 2 2566; c) In forza del rinvio operato dall’art. 2564 che lo contiene,
disposto dall’art. 2567, alla ragione sociale si applica il cd. principio della novità,
a tenore del quale quando la ditta è uguale o simile a quella usata da altro
imprenditore e può creare confusione, deve essere integrata o modificata con
indicazioni idonee a differenziarla.
155
È l’indicazione richiesta dall’art. 2295 n. 4.
Per sede della società si intende, sul piano formale, quella risultante dall’atto
costitutivo e dallo statuto e nella quale si trovano di norma gli organi che hanno la
rappresentanza dell’ente e la capacità di obbligarlo.
L’indicazione della sede assolve a tre ragioni:
a) per la determinazione del giudice territorialmente competente per le controversie
giudiziarie che interessano la società;
b) per l’individuazione del registro delle imprese in cui la società deve essere
iscritta;
c) ai fini dell’applicazione della disciplina fallimentare.
Può darsi il caso che la sede legale non coincida con la sede reale, che è quella dove
si colloca il “centro effettivo di direzione e svolgimento dell’attività sociale”: tale
discrasia riveste maggiore rilevanza per le questioni relative al processo civile e
quello fallimentare in particolare, essendo pacifico, invece, che l’iscrizione nel
registro delle imprese debba effettuarsi nel luogo della sede sociale quale risulta
indicata dallo statuto. Ebbene, con riguardo al foro generale e alla procedura
fallimentare, quando non c’è coincidenza tra sede legale e sede effettiva,
giurisprudenza e dottrina, quasi un animante, propendono per la prevalenza della
seconda.
Alla sede secondaria è dedicata un’apposita norma, e cioè l’art. 2299, la quale si
limita a stabilire prescrizioni formali relative all’obbligo di iscrizione di tale sede
presso l’ufficio del registro delle imprese del luogo in cui essa è istituita: ciò posto,
la norma non definisce il concetto di sede secondaria, ma dalle scarne statuizione dei
commi 1° e 3°, che fanno rispettivamente riferimento ai concetti di «rappresentanza
stabile» e di «rappresentante preposto all’esercizio della sede medesima», può
evincersi che, per aversi sede secondaria, occorre: a) un rapporto di dipendenza
economica e organizzativa con la sede principale; b) uno stabile apprestamento di
mezzi destinati allo svolgimento dell’attività sociale e un rappresentante stabile della
società; c) un autonomo ambito di affari, sulla base del quale viene determinata la
legittimazione sostanziale e processuale del soggetto preposto alla sede.
E) L’OGGETTO SOCIALE
Di questo argomento, di cui parla l’art. 2295 n. 5, si è già ampiamente parlato.
156
F) I CONFERIMENTI DEI SOCI E IL CAPITALE SOCIALE
L’art. 2295 n. 6 prescrive che l’atto costitutivo indichi i «conferimenti dei soci, il
valore a essi attribuito e il modo di valutazione». Dei conferimenti si è già
ampiamente parlato.
Appare opportuno, invece, riprendere il discorso relativo al fondo sociale, per
rispondere alla domanda se nelle società personali, e in particolare s.n.c, sia corretto
o meno parlare di capitale sociale. Orbene, se per la società semplice la disciplina
appare neutra (nel senso che non v’è alcuna norma che contempli espressamente
l’istituto), per la s.n.c., invece, parlare di capitale sociale appare certamente
plausibile, dal momento che la legge, esplicitamente, vi allude in due norme – gli
artt. 2303 co 2° e il 2306 – pur non menzionandolo tra gli atti da includere
necessariamente nell’atto costitutivo.
Ripetuto che il capitale sociale rappresenta il valore in denaro dei conferimenti
dei soci, quale risulta dalle valutazioni compiute nel contratto sociale, si dovrà
aggiungere che questo è il concetto di capitale nominale fissato in una cifra
contrattualmente determinata: considerato in tale accezione, il capitale resta fisso nel
corso della vita sociale (finché con una modifica dell’atto costitutivo non se ne
decide la variazione).
Il patrimonio sociale rappresenta, invece, il complesso dei rapporti giuridici
facenti capo dall’imprenditore (lo abbiamo ripetuto).
157
Anche nella società in nome collettivo si deve sottolineare l’esigenza che la
determinazione convenzionale non si risolva danno dei soci e dei terzi. E alla
soddisfazione di questa esigenza, che può condensarsi nella formula integrità del
capitale sociale come moderatore legale e contabile della vita sociale, sono
preordinate le norme di cui agli artt. 2303 e 2306, rispettivamente dedicate alla
perdita e alla riduzione del capitale.
- La prima di queste norme (art. 2303), che nel primo comma dispone che possano
essere distribuiti solo gli utili realmente conseguiti, dispone nel comma 2° che «se si
verifica una perdita del capitale sociale non si può far luogo a ripartizione degli utili
fino a che il capitale non sia reintegrati o ridotto in misura corrispondente». Tale
disposizione costituisce l’espressione del canone dell’intangibilità e della integrità
del capitale sociale e in secondo luogo della funzione di garanzia dei terzi che il
capitale assolve. Può affermarsi che la riduzione prevista dall’art. 2303 co. 2° è una
riduzione per perdite, comunque implicante una modificazione dell’atto costitutivo,
ma a differenza di quanto accade nella società di capitali, dove si hanno casi di
riduzione obbligatoria, essa è sempre facoltativa e implica anche il divieto di
distribuire gli utili ove il capitale non venga reintegrato;
- La seconda norma, art. 2306, che prevede che la deliberazione di riduzione del
capitale può essere eseguita solo dopo 3 mesi dall’iscrizione nel registro delle
imprese, sempre che entro questo termine nessun creditore sociale anteriore
all’iscrizione abbia fatto opposizione, è anch’essa tesa ad assicurare l’integrità del
capitale sociale. La delibera di riduzione può essere attuata: a) Quando nessun
creditore sociale abbia fatto opposizione; b) Quando le opposizioni eventualmente
proposte siano state successivamente ritirate; c) Quando il tribunale, su richiesta
della società, abbia autorizzato l’esecuzione della delibera, previa presentazione di
idonea garanzia; d) Quanto i creditori sociali siano stati soddisfatti, dal momento
che solo a essi è inopponibile l’esecuzione della delibera.
158
conferimento: l’art. 2263 co.2 (che demanda al giudice la determinazione della parte
spettante al socio d’opera quando questa non è determinata dal contratto) + l’art.
2286 (quando, nel disciplinare l’esclusione, prevede che per il socio d’opera una
delle cause possa essere l’inidoneità a svolgere la propria opera).
Scontata la negazione dell’assimilazione della prestazione del socio d’opera a quella
del lavoratore subordinato, e l’inquadramento del conferimento d’opera nel
conferimento non di capitale, possiamo dire che il legislatore ha richiesto
l’indicazione delle prestazioni cui il socio d’opera è obbligato per due motivi: non
essendo possibile valutare in termini monetari, a differenza dei conferimenti,
l’apporto di chi conferisce il proprio lavoro, il legislatore si è preoccupato di
richiedere che venga contrattualmente consacrato l’obbligo del conferimento della
propria opera e, in secondo luogo, che sia precisato nel contratto in cosa consista
l’apporto medesimo.
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è lasciata all’autonomia delle parti (vd. art. 2328 comma 2° n.13). D’altro canto,
anche prima della riforma, l’apparentamento con le società di capitali poteva
considerarsi neutralizzato dalla presenza di una norma come l’art. 2307 che,
consentendo la proroga tacita, rende ammissibile una società in nome collettivo di
durata indeterminata, così avvicinando sotto tale profilo, la società in nome
collettivo alla società semplice. Ne deriva la convinzione che la durata non vada
inclusa tra quelle indicazioni la cui mancanza implica il rifiuto di iscrizione della
società nel registro delle imprese.
Per concludere, un accenno alla proroga della durata della società. Orbene, la
proroga può essere:
1) Espressa → allorquando i soci, di comune accordo, decidono di fissare, prima
della scadenza del termine originariamente stabilito, un nuovo termine di durata;
2) Tacita → allorquando, secondo il disposto dell’art. 2273 (richiamato dall’art.
2307), «decorso il tempo per cui fu contratta, i soci continuano a compiere le
operazioni sociali».
Non esiste pertanto alcun diritto individuale del socio al rispetto dell’originaria
scadenza.
160
privata autenticata ovvero di copia autentica dell’atto pubblico. L’iscrizione sarà
effettuata dall’ufficio del registro delle imprese, subordinatamente a verifica dei
requisiti di regolarità della documentazione.
↓
LA SNC IRREGOLARE
È irregolare quella società in nome collettivo per la quale non siano state osservate
le prescrizioni relative agli adempimenti pubblicitari contenute nell’art. 2296: in una
parola, quella SNC che non sia stata iscritta nel registro delle imprese.
Dalla norma dell’art. 2297 possono ricavarsi le linee-guida per la disciplina della
SNC irregolare.
1) La disciplina dei RAPPORTI INTERNI fra soci è la medesima dettata per la
società collettiva regolare, della quale, in linea generale, si applicheranno tutte le
norme, a eccezione di quelle che presuppongono o implichino adempimenti
pubblicitari;
2) Soluzione opposta il legislatore ha adottato per i RAPPORTI ESTERNI (rapporti
tra società e terzi creditori), cui si attaglia la omologa disciplina della società
semplice, la quale prescinde da oneri pubblicitari (o, meglio, è sottoposta a un
diverso regime pubblicitario). Mentre si applicheranno, quindi, tutte le norme che
vanno dagli artt. 2266 al 2271, diverranno in particolar modo inapplicabili due
norme che nella SNC regolare sono centrali, ossia l’art. 2304 (in luogo del quale si
applicherà il 2268) e l’art. 2305 (in luogo del quale si applicherà il 2270).
Quindi:
Si applica il “pacchetto normativo” artt. (2266-2271) ← SS. In particolare:
Art. 2304 (NO) → Art. 2268 (Sì)
Art. 2305 (NO) → Art. 2270 (Sì)
3) La regola in base alla quale ai rapporti fra SNC irregolare e i terzi si applicano le
disposizioni dettate in tema di società semplice subisce, però, due importanti
eccezioni: I) Resta ferma, ai sensi dell’art. 2297 co.1, la responsabilità illimitata e
solidale dei soci nei confronti dei terzi per le obbligazioni sociali – il che significa
che ai soci di collettiva irregolare non sarà consentito di limitare pattiziamente la
responsabilità nei confronti dei terzi, non tornando quindi applicabile l’art. 2267
co.1 e co.2; II) Si presume che la rappresentanza sociale spetti a tutti i soci che
agiscono per la società, e non si applicherà quindi l’art. 2266 co.2
161
I RAPPORTI DELLA SOCIETÀ E DEI SOCI CON I TERZI
Il tema del rapporto della società con i terzi coinvolge essenzialmente due sottotemi:
quello della rappresentanza della società e quello della responsabilità per le
obbligazioni sociali.
162
patrimonio personale dei soci, stabilendo che «i creditori sociali, anche se la società
è in liquidazione, non possono pretendere il pagamento dei singoli soci, se non dopo
l’escussione del patrimonio sociale». E a tal proposito, la giurisprudenza considera
l’accertamento negativo della capienza del patrimonio sociale come una condizione
di procedibilità dell’azione nei confronti del patrimonio del singolo socio, marcando
così la differenza con la società semplice, nella quale la preventiva escussione del
patrimonio sociale forma oggetto di una mera eccezione da parte del socio
convenuto. La norma non si applica alle società in nome collettivo irregolari e, a
fortiori, a quelle di fatto, mentre ne è discussa l’applicabilità in caso di fallimento
della società.
163
2270 per la società semplice, cioè il creditore particolare potrà chiedere in ogni
tempo la liquidazione della quota dimostrando l’insufficienza degli altri beni del
socio suo debitore]
164
3. LA SOCIETÀ IN ACCOMANDITA SEMPLICE
165
concludere affari in nome della società, se non in forza di procura speciale per i singoli
affari».
Quindi, se l’atto costitutivo nulla dispone, il potere di amministrare spetta a ciascun
socio accomandatario (o disgiuntamente ex art. 2257 o congiuntamente ex art. 2258); se
l’amministratore viene nominato con atto separato dall’atto costitutivo, la decisione
invece deve ricevere il consenso di tutti i soci accomandatari, deve avere anche
l’approvazione della maggioranza dei soci accomandanti.
↓
I DIVIETI A CARICO DEGLI ACCOMANDANTI
Per i soci accomandanti, valgono soprattutto due divieti:
1) Il socio accomandante non può far comparire il proprio nome nella ragione sociale
della società, altrimenti rischia la perdita della responsabilità limitata nei confronti dei
terzi (art. 2314 co. 2);
2) Gli accomandanti non possono amministrare – divieto di immistione (art. 2320). In
questo caso, all’accomandante che contravviene e compie anche un solo atto di
amministrazione non è solo comminata la perdita della responsabilità limitata, ma anche
la possibilità di esclusione ai sensi dell’art. 2286.
I POTERI DELL’ACCOMANDANTE
La materia trova la sua fonte, anzitutto, nella legge e, in secondo luogo nei patti sociali.
1) Dal primo punto di vista, l’art. 2320 co.1 consente agli accomandanti di prestare la
loro opera sotto la direzione degli amministratori; 2) Nel caso che vengano a mancare
tutti gli accomandatari, l’art. 2323 concede agli accomandanti il potere di nominare per
il semestre di grazia un amministratore provvisorio; 3) Gli accomandanti hanno altresì il
diritto di «avere comunicazione annuale del bilancio e del conto dei profitti e delle
perdite e di controllarne l’esattezza» (art. 2320 co.2).
Con riguardo ai poteri aventi fonte nell’atto costitutivo, oltre a un possibile patto di
immistione (patto che consente agli accomandanti una più o meno ampia ingerenza
nell’amministrazione della società), vanno segnalati quello di dare autorizzazione a
determinate operazioni e quello di compiere atti di ispezione e sorveglianza.
166
A differenza di quanto avviene per le quote dei soci illimitatamente responsabili delle
società personali (e quindi anche degli accomandatari), in ordine alla cui trasferibilità si
discute, la quota dell’accomandante è trasferibile sia 1) INTER VIVOS (è fatta salva la
diversa disposizione dell’atto costitutivo e l’efficacia della cessione verso la società è
subordinata all’approvazione della maggioranza dei soci); che 2) MORTIS CAUSA
(con conseguente deroga al regime speciale previsto dall’art. 2284).
167
168
LE SOCIETÀ DI CAPITALI
Nella categoria delle società di capitali rientrano la società per azioni, la società a
responsabilità limitata e la società in accomandita per azioni. È solo il caso di rilevare
che, se la normativa anteriore alla riforma disposta con d.lgs. 6/2003 ascriveva alla SPA
il ruolo di vero “prototipo normativo”, dal momento che la disciplina, tanto della SRL
che della SAPA, era modellata su quella della prima; oggi c’è da rilevare una sorta di
“affrancamento” della SRL. Nel senso che la società a responsabilità limitata presenta
oggi una disciplina autonoma e indipendente, distaccatasi per molti profili dalle società
di capitali; e l’attuale impianto normativo conferma la vocazione della SPA a soddisfare
le esigenze di imprese a forte base capitalistica, e la correlativa vocazione della SRL a
soddisfare le esigenze di una struttura imprenditoriale media.
Quindi affronteremo, in ordine:
SOCIETÀ PER AZIONI
SOCIETÀ A RESPONSABILITÀ LIMITATA
SOCIETÀ IN ACCOMANDITA PER AZIONI
169
170
LA SOCIETÀ PER AZIONI
La società per azioni è regolata da un articolato impianto normativo che trova il suo
nucleo centrale nel Titolo V, Capo V, Libro V (art. 2325 ss.), ma rinviene momenti
essenziali anche nell’ambito della legislazione speciale: basti pensare all’importanza del
TUF (Testo Unico Finanziario, d. lgs. 58/1998) per quanto concerne le società aperte.
Di questo, però, ci occuperemo in un capitolo a parte. Va premesso, per adesso, che le
SPA possono dividersi in società chiuse (che non fanno ricorso al mercato di capitale di
rischio) e società aperte (che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio). Benché,
nelle pagine che seguiranno, affronteremo spesso la differenza tra le prime e le seconde,
ossia le società che hanno azioni quotate nei mercati regolamentati, all’argomento sarà
dedicata una disamina particolare, un capitolo a parte, dedicato appunto alle società
aperte, ossia che hanno azioni quotate. Per ora, restiamo sulle SPA chiuse.
171
3)ORGANIZZAZIONE INTERNA CORPORATIVA
Un ultimo tratto marcante della fattispecie societaria viene rinvenuto
nell’organizzazione interna, caratterizzata dall’attribuzione di compiti e funzioni a
organi: in una parola, si ha una organizzazione corporativa. Va rilevato, tuttavia, che
l’autonomia statutaria concede ai soci la possibilità di scegliere tra il modello
tradizionale (basato sulla tricotomia assemblea – amministratori – collegio
sindacale), o modelli alternativi a quello tradizionale, che sono due: il modello
dualistico (consiglio di gestione e consiglio di sorveglianza) e modello monastico
(consiglio di amministrazione con, all’interno, un comitato per il controllo sulla
gestione).
172
ammontare. Invece, per i conferimenti in natura o di crediti, la liberazione delle azioni
corrispondenti deve sempre risultare integralmente effettuata. Inoltre, il valore dei
conferimenti in natura o di crediti deve risultare da una relazione di stima di un esperto,
redatta ai sensi dell’art. 2343 ovvero 2343 ter.
(Un rilevante indirizzo interpretativo sostiene che tutte le condizioni per la costituzione
della società debbano sussistere al momento della stipulazione dell’atto costitutivo, fatta
eccezione per le autorizzazioni di cui al n.3, che secondo quanto previsto dall’art. 223
disp. att. Sono richieste ai soli fini dell’iscrizione della società nel registro delle
imprese, e vadano quindi rilasciate sul presupposto che l’atto costitutivo sia già stato
stipulato).
La costituzione simultanea
Questo modo, più semplice e rapido, si realizza attraverso l’immediata stipulazione
dell’atto costitutivo fra i soggetti coinvolti nella vicenda genetica della società, i quali
compaiono innanzi al notaio incaricato di riceverne i consensi e di redigere l’atto
costitutivo.
173
La costituzione per pubblica sottoscrizione
La stipulazione dell’atto costitutivo per pubblica sottoscrizione è, invece, un sistema più
macchinoso e lento, pensato soprattutto per favorire la costituzione di società con un
ingente capitale, derivante dalla raccolta di apporti di un rilevante numero di soggetti.
Tuttavia, il sistema in esame non ha avuto grosso successo, dal momento che ai fini
della costituzione di una SPA fortemente capitalizzata si è potuto comunque fare ricorso
al primo sistema, la costituzione simultanea, dotando l’ente di un capitale sociale
minimo e delegando gli amministratori, ai sensi dell’art. 2443, a provvedere
successivamente all’aumento dello stesso fino all’ammontare programmato. In ogni
caso, il procedimento in esame si articola in un iter che prevede le seguenti quattro fasi:
La redazione del programma dell’iniziativa;
Predisposto dai promotori, che non necessariamente acquisteranno la qualità di soci.
In esso vanno indicati l’oggetto e il capitale sociale, le principali disposizioni
dell’atto costitutivo, l’eventuale partecipazione dei promotori agli utili, ecc.
2.L’acquisizione delle adesioni al programma;
Esso, munito delle firme autentiche dei promotori, va depositato presso un notaio e
reso pubblico. L’adesione al programma si esprime attraverso la sottoscrizione del
capitale della società in fieri, cui deve far seguito, da parte dei sottoscrittori, il
versamento del 25% dei conferimenti in denaro, ovvero accompagnarsi alla
contestuale liberazione dei conferimenti in natura o di crediti.
3.La celebrazione dell’assemblea costituente
Convocata dai promotori, l’assemblea costituente accerta l’esistenza delle
condizioni per la costituzione della società, delibera sul contenuto dell’atto
costitutivo e dello statuto, delibera sulla riserva di partecipazione agli utili prevista a
favore dei promotori e, infine, nomina amministratori e sindaci ovvero i componenti
del consiglio di sorveglianza, e, quando previsto, il soggetto incaricato di effettuare
la revisione legale dei conti.
174
CONTENUTO E STRUTTURA DELL’ATTO COSTITUTIVO
L’art. 2328 co.2 fissa il contenuto minimo dell’atto costitutivo.
1.Cognome, nome o denominazione, data di nascita o Stato di costituzione,
domicilio o sede, cittadinanza dei soci e degli eventuali promotori, persone
fisiche o enti, e del numero delle azioni assegnate a ciascuno di essi; tale
indicazione risponde all’esigenza di individuare le parti del contratto/negozio
unilaterale della SPA. La qualifica di socio fondatore, come emerge da questo n.1,
può essere assunta oltre che da persone fisiche, anche da altre società – di persone,
di capitali o cooperative.
175
azioni). Per quanto riguarda, invece, caratteristiche e circolazione delle azioni, a
questo tema saranno dedicati i paragrafi successivi.
7.Norme secondo le quali gli utili devono essere ripartiti; tale indicazione non è
strettamente necessaria, potendo la sua mancanza essere superata attraverso il
riferimento alle disposizioni contenute negli artt. 2348, 2430 e 2433.
176
13.Durata della società ovvero, se questa è costituita a tempo indeterminato, il
periodo di tempo, non superiore a 1 anno, decorso il quale il socio è legittimato
a esercitare il diritto di recesso; dopo la riforma del 2003, si è quindi previsto che
la SPA possa essere costituita a tempo indeterminato, superando così la precedente
previsione, secondo la quale l’atto costitutivo doveva indicare necessariamente la
durata della società. Ciò detto, è da ritenersi oggi ammissibile l’introduzione nello
statuto di clausole di proroga tacita della società, che in precedenza non venivano
ammesse. Peraltro, l’attribuzione ai soci del diritto di sciogliersi dal vincolo
associativo quando la società è contratta a tempo indeterminato risponde al principio
per cui non può ammettersi che gli stessi restino legati al sodalizio sine die.
Dobbiamo ricordare, infine, che a mente dell’art. 2328 co.3, forma parte integrante
dell’atto costitutivo lo statuto, recante le regole relative all’organizzazione e al
funzionamento della società. L’essenzialità della funzione assolta dal nucleo
statutario nella vita della società trova riscontro nella previsione secondo la quale, in
caso di contrasto tra clausole dell’atto costitutivo e clausole dello statuto, sono le
seconde a prevalere.
177
1)Hanno a oggetto l’esercizio del diritto di voto nelle società per azioni e nelle
società che le controllano (sindacati di voto);
2)Pongono limiti al trasferimento delle relative azioni o delle partecipazioni in
società che le controllano (sindacati di blocco, termine che si riferisce a quella
tipologia di accordi che mira a impedire che, attraverso l’alienazione delle azioni, si
possano modificare le quote dei singoli soci a vantaggio di uno di essi e a
svantaggio degli altri: essi mirano a far sì che ciascuno conservi la posizione che
aveva in società, con obbligo, in caso di alienazione di azioni, di offrirle in
prelazione agli altri aderenti al patto);
3)Hanno per oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di una influenza
dominante su una società per azioni (sindacati di controllo o di influenza
dominante).
↓
Con riguardo a queste 3 sole tipologie considerate (in realtà i patti parasociali
comprendono molte più specie), a legge prevede specifici obblighi.
● Durata → L’art. 2341bis limita a una durata massima di 5 anni i patti a tempo
determinato, precisando che tale durata si riduce de iure a cinque anni ove le parti
abbiano previsto un termine maggiore. Nell’ipotesi in cui, invece, i patti siano
stipulati a tempo indeterminato, il secondo comma dell’articolo prevede che a
ciascun contraente sia attribuito il diritto di recesso con preavviso di almeno 180
giorni;
● Pubblicità → L’art. 2341ter dispone che nelle società che fanno ricorso al
mercato del capitale di rischio (purché non abbiano titoli quotati, altrimenti si
applica il TUF)1, i patti parasociali devono essere comunicati alla società e dichiarati
in apertura di ogni assemblea. Il mancato adempimento di tale dichiarazione
impedisce il diritto di voto ai possessori delle azioni cui si riferisce il patto. Ove poi
il diritto di voto venga comunque esercitato e risulti essere stato determinante per
l’adozione della delibera, la stessa sarà impugnabile ai sensi dell’art. 2377.
CONTROLLO PREVENTIVO SULL’ATTO COSTITUTIVO
A norma dell’art. 2330 co.1, entro 20 giorni successivi alla stipulazione dell’atto
costitutivo, il notaio rogante è obbligato a depositare copia dell’atto costitutivo presso
1
Come vedremo, infatti, le società che “fanno ricorso al mercato del capitale di rischio” comprendono sia
le società con azioni quotate nei mercati regolamentati, sia le società che, pur non essendo quotate, hanno
strumenti finanziari diffusi tra il pubblico. Quindi è questa seconda la categoria cui fa riferimento
l’articolo in esame.
178
l’ufficio del registro delle imprese nella cui circoscrizione si trova la sede sociale,
allegandovi i documenti attestanti la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 2329,
«per la costituzione» della società e, contestualmente, richiedendo l’iscrizione.
Per quanto attiene all’oggetto e ai limiti del controllo notarile, va detto che si tratta
soprattutto di un controllo di legalità, in quanto il notaio dovrà appurare: 1)L’esistenza
di tutte le condizioni previste dall’art. 2329; 2)La completezza documentale dell’atto
costitutivo ex art. 2328 co.2; 3)La compatibilità delle previsioni contenute nello stesso
atto costitutivo con le norme imperative e con la disciplina della SPA.
↓
Ai sensi dell’art. 2330 co.3, l’ufficio del registro delle imprese provvede all’iscrizione
una volta riscontrata la «regolarità formale» della documentazione prodotta dal
richiedente. Dunque, procede a un controllo estrinseco, che non investe il contenuto
dell’atto costitutivo né la conformità dell’atto stesso dal tipo di società: significa che
non si può, in questa fase, tornare sul controllo di legalità già compiuto dal notaio. Si
ritiene, invece, che l’ufficio debba controllare la regolarità formale della
documentazione, come la stipulazione nella forma di atto pubblico (art. 2328 co.1),
l’integrale sottoscrizione del capitale sociale (art. 2329 n1), ecc…
↓
L’iscrizione dell’atto costitutivo nel registro delle imprese, ai sensi dell’art. 2331 co.1,
segna l’acquisto della personalità giuridica da parte della società e, con essa, il venire
in essere della SPA come soggetto di diritto. Pertanto, si suol dire che l’iscrizione nel
registro delle imprese ha efficacia costitutiva.
Ciò posto, decorsi 90 giorni dalla stipulazione dell’atto costitutivo – o dal rilascio delle
autorizzazioni richieste per la costituzione della società ai sensi dell’art. 2329 n.3 –
senza che ne sia intervenuta l’iscrizione nel registro delle imprese, le somme versate dai
sottoscrittori a titoli di conferimento sono restituite e l’atto costitutivo perde la sua
efficacia (art. 2331, co.4).
Se la società viene in vita dopo l’iscrizione nel registro delle imprese, ne deriva che gli
atti posti in essere prima di tale adempimento non possono essere ascritti a un’entità non
ancora definita. Ecco che si spiega l’art. 2331 co.2, il quale dispone che per le
operazioni compiute in nome della società prima dell’iscrizione nel registro delle
imprese, sono illimitatamente e solidalmente responsabili, anzitutto, «coloro che hanno
agito» (ossia coloro che hanno posto in essere le operazioni spendendo il nome della
179
società), poi «il socio unico fondatore» (in virtù della posizione di assoluto
protagonismo di questi nella vicenda genetica della società) e, infine, «i soci che hanno
deciso, autorizzato o consentito» che le stesse operazioni fossero compiute, purché la
loro partecipazione, nei termini anzidetti, emerga dall’atto costitutivo ovvero da atto
separato.
Le cause di nullità della SPA elencate dall’art. 2332 non ostacolano il venire a
esistenza della società. Né, in deroga alle norme codicistiche in materia di nullità dei
180
contratti, l’accertamento di questi vizi travolge ex tunc l’organizzazione che ne è
affetta. Di converso, la sentenza dichiarativa di nullità implica lo scioglimento della
società e innesca il procedimento di liquidazione della stessa, lasciando immune da
ogni conseguenza l’attività pregressa. Lo stesso art. 2332 dispone che «il dispositivo
della sentenza che dichiara la nullità deve essere iscritto, a cura degli amministratori
o dei liquidatori nominati ai sensi del quarto comma, nel registro delle imprese».
L’iscrizione del dispositivo giudiziale, nella fattispecie, sembra porsi come
presupposto necessario ai fini dell’avvio della fase di liquidazione della società.
Infine, il co.5 dell’art. 2332, prevede che le cause di nullità possano essere eliminate
e che di questa eliminazione occorre dare pubblicità mediante iscrizione nel registro
delle imprese, senza dare alcuna effettiva indicazione in merito alle modalità di
rimozioni. Molti sostengono che l’assunzione di una delibera assembleare di
modificazione dell’atto costitutivo sia il passaggio obbligato ai fini della rimozione
delle cause di nullità.
181
Ritornando all’art. 2346 co.5, si è detto che “in nessun caso il valore dei conferimenti
può essere inferiore all’ammontare globale del capitale sociale”. Significa che al
capitale sociale, e alle azioni che rappresentano la partecipazione di ciascun socio al
capitale stesso, devono necessariamente corrispondere i conferimenti. L’azionista può
vedersi attribuite le azioni solo se esegue il conferimento richiesto dallo statuto e la
somma dei conferimenti deve necessariamente essere almeno corrispondente
all’ammontare globale del capitale sociale.
Ora, va rilevato che, rispetto al conferimento, possono esservi ulteriori attribuzioni del
socio, non imputabile a capitale sociale ma a patrimonio. Ossia, il socio può trovarsi a
effettuare apporti non imputabili a capitale, ma a patrimonio. Spieghiamo meglio.
Ipotizziamo che vi sia un aumento di capitale sociale (es. Alfa SPA, che ha un capitale
di 200.000 euro, vuole aumentarlo fino a 400.000 euro). Ora, dobbiamo premettere che
ogni azione ha un valore nominale, che deriva dal rapporto tra capitale nominale e
numero di azioni. Quindi, se Alfa SPA ha:
capitale sociale: 200.000 euro
numero di azioni: 100
il valore nominale di ogni azione sarà di 2000 euro.
Nell’esempio riportato, Alfa SPA vuole aumentare il proprio capitale sociale, e quindi
emette altre 100 azioni, che tuttavia non vengono emesse al valore di 2000 euro
cadauna, ma di 3000 euro. In questo caso, i sottoscrittori sono tenuti al pagamento di un
sopraprezzo rispetto al valore nominale (corrispondente a 1000 euro). Le azioni, quindi,
sono emesse a un valore (detto prezzo di emissione) superiore al loro valore nominale:
una parte di questo valore (ossia 2000 euro) andrà imputata a capitale sociale e
concorrerà al suo aumento, mentre la parte restante (1000 euro, il sopraprezzo) formerà
la riserva da sopraprezzo, che ai sensi dell’art. 2431 non può essere distribuita tra i soci
finché la riserva legale non abbia raggiunto il limite del quinto del capitale sociale. Se il
nuovo capitale viene interamente sottoscritto, la società riceverà in tutto 300.000 euro,
di cui 200.000 andranno a incrementare il capitale sociale (portandolo a 400.000),
mentre 100.000 costituiranno la riserva da sopraprezzo. In questo esempio, si vede che i
soci, come anticipato all’inizio, effettuano un ulteriore apporto, diverso dal
conferimento vero e proprio, che non viene imputato a capitale, ma a patrimonio. Perché
questo accade?
Perché il valore nominale delle azioni può non corrispondere al valore effettivo delle
stesse. Come detto, mentre il valore del capitale sociale resta solitamente costante nella
182
vita di una società, il valore del patrimonio varia (aumenta o diminuisce). Se aumenta,
significa che l’attività di impresa incrementa la dotazione patrimoniale della SPA (es.
l’andamento della società è positivo), con una conseguenza essenziale: il patrimonio
avrà un valore superiore al capitale. Ergo, il valore reale delle azioni (derivante dal
rapporto tra patrimonio sociale e numero di azioni) sarà superiore al valore nominale
delle azioni (derivante dal rapporto tra capitale sociale e numero di azioni). Quindi, se i
nuovi soci potessero sottoscrivere nuove azioni al loro valore nominale, sarebbero
avvantaggiati perché pagherebbero un’azione meno di quello che vale. Ecco perché,
nell’aumento di capitale sociale con esclusione del diritto di opzione a favore dei soci,
l’art. 2441 impone che le azioni siano emesse con sopraprezzo.
Conferimenti in denaro
Ai sensi dell’art. 2342 «Se nell’atto costitutivo non è stabilito diversamente il
conferimento deve farsi in denaro». Sono dunque possibili forme alternative di
conferimenti, solo se lo statuto lo prevede.
In caso di conferimento in denaro, al momento della sottoscrizione dell’atto costitutivo i
soci devono versare almeno il 25% del loro conferimento presso una banca. Se trattasi
di società unipersonale, in sede di costituzione l’unico azionista dovrà versare
l’integrale ammontare.
Gli amministratori dovranno poi richiedere ai soci il pagamento di quanto necessario
per completare i conferimenti; qualora il socio, cui è stato chiesto di integrare il
conferimento, non provveda, gli amministratori dovranno diffidarlo ad adempiere nel
termine di 15 giorni e pubblicare la diffida nella gazzetta ufficiale. Si legga, all’uopo,
l’art. 2344.
«Se il socio non esegue i pagamenti dovuti, decorsi quindici giorni dalla pubblicazione
di una diffida nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, gli amministratori, se non
ritengono utile promuovere azione per l'esecuzione del conferimento, offrono le azioni
agli altri soci, in proporzione alla loro partecipazione, per un corrispettivo non inferiore
ai conferimenti ancora dovuti. In mancanza di offerte possono far vendere le azioni a
183
rischio e per conto del socio, a mezzo di una banca o di un intermediario autorizzato alla
negoziazione in mercati regolamentati.
Qualora la vendita non possa aver luogo per mancanza di compratori, gli amministratori
possono dichiarare decaduto il socio, trattenendo le somme riscosse, salvo il
risarcimento dei maggiori danni.
Le azioni non vendute, se non possono essere rimesse in circolazione entro l'esercizio in
cui fu pronunziata la decadenza del socio moroso, devono essere estinte con la
corrispondente riduzione del capitale.
Il socio in mora nei versamenti non può esercitare il diritto di voto».
184
il recesso dalla società (nel qual caso, ha diritto alla restituzione del conferimento,
qualora sia possibile in tutto o in parte in natura).
● Per evitare che il procedimento testé descritto possa venire eluso mediante il
trasferimento alla società di beni o crediti in una fase successiva a quella della
costituzione, l’art. 2343bis ha disposto un ulteriore congegno di controllo: tale
disposizione estende l’applicabilità del procedimento di stima anche agli acquisti che,
«nei due anni dall’iscrizione nel registro delle imprese», la società dovesse compiere
«per un corrispettivo pari o superiore al decimo del capitale sociale» relativamente a
beni o crediti appartenenti a promotori, fondatori, soci o amministratori.
185
In ogni caso, la documentazione presentata dal conferente, comprovante il valore
attribuito ai conferimenti e la sussistenza delle condizioni per l’esonero
dall’ordinario procedimento di stima, è allegata all’atto costitutivo.
LE AZIONI
Nella SPA la partecipazione sociale è rappresentata da azioni (art. 2346). Ogni
partecipazione è dunque costituita da tante azioni quante sono le frazioni di capitale
sociale sottoscritte dal socio.
Le azioni presentano tre caratteristiche basilari:
Sono indivisibili → primo carattere dell’azione è la sua indivisibilità. Qualora
l’azione si appartenga a più soggetti, essi non possono pretenderne la
divisione. I comproprietari di un’azione sono tenuti a nominare un
rappresentante comune per l’esercizio dei diritti sociali e, se il rappresentante
comune non viene nominato, le comunicazioni e le dichiarazioni fatte dalla
società a uno dei comproprietari sono efficaci nei confronti di tutti. I
comproprietari, inoltre, rispondono solidalmente delle obbligazioni derivanti
dall’azione.
Sono uguali → L’art. 2348 dispone che «Le azioni sono tutte di uguale valore
nominale e conferiscono ai possessori uguali diritti». Dal primo punto di
vista, sappiamo che le azioni hanno tutte lo stesso valore nominale
(derivante dal rapporto tra capitale nominale e numero di azioni) e, quando si
parla di “azioni prive di valore nominale”, in realtà si intende un valore
nominale non espresso, ma comunque ricavabile agevolmente dal rapporto
tra l’ammontare del capitale nominale e il numero delle azioni emesse. Dal
secondo punto di vista (ultima parte dell’articolo), l’affermazione secondo la
quale le azioni conferiscono ai loro possesso uguali diritti è vera da un punto
di vista qualitativo (ossia ogni azione attribuisce al titolare stessi diritti delle
altre), non è necessariamente vera da un punto di vista quantitativo (vi sono
infatti diritti che possono essere esercitati solo subordinatamente al possesso
di una determinata aliquota del capitale sociale, come la richiesta di
convocazione dell’assemblea).
Sono autonome → Ciò significa che ogni azione è autonoma rispetto all’altra, in
quanto il possessore di più azioni potrà, per esempio, disporne
186
separatamente, come esercitare il diritto di recesso solo per alcune azioni o
partecipare all’assemblea solo con una parte di quelle che possiede
LE CATEGORIE DI AZIONI
Lo statuto, ai sensi dell’art. 2348 co.2, può prevedere categoria di azioni fornite di
diritti diversi, maggiori o minori di quelli attribuiti alle azioni ordinarie.
L’autonomia statutaria è assai ampia, dal momento che si dispone che «la società,
nei limiti imposti dalla legge, può liberamente determinare il contenuto delle azioni
delle varie categorie». Una volta stabiliti questi diritti, il contenuto di essi non può
essere modificato, né pregiudicato, senza l’approvazione dell’assemblea speciale
degli azionisti di categoria, che si pronuncia peraltro anche sulle deliberazioni
dell’assemblea ordinaria (quindi può autorizzare le deliberazioni dell’assemblea
ordinaria), quando queste possano pregiudicare gli azionisti di categoria. Lo stesso
meccanismo, come vedremo, è simile per quanto concerne le obbligazioni.
La diversità dei diritti attribuiti alle azioni speciali può riguardare il contenuto
patrimoniale o amministrativo delle stesse.
Contenuto patrimoniale
187
Azioni privilegiate → Le azioni di questo tipo sono quelle assistite da un privilegio
patrimoniale, che può tanto riguardare la partecipazione agli utili quando la quota di
liquidazione. Fermo restando, però, il divieto di patto leonino (art. 2265): la
creazione di categorie speciali di azioni privilegiate dal punto di vista patrimoniale
non può finire per escludere altre azioni dalla partecipazione agli utili o alle perdite
della società;
Azioni postergate → Ammesse dall’art. 2348, che consente che il diritto delle
azioni speciali riguardi la «incidenza delle perdite». Azioni postergate sono azioni
che vengono intaccate dalle perdite solo dopo che le stesse abbiano colpito la parte
di capitale sociale rappresentata da altre azioni.
Azioni correlate → Si consente, in questo caso, di emettere «azioni fornite di diritti
patrimoniali correlati ai risultati dell’attività sociale in un determinato settore», di un
ramo dell’azienda della società o un particolare settore dell’attività svolta. Con tali
azioni è consentita la partecipazione mirata a uno specifico settore dell’attività
sociale, contabilmente separato, in quanto il socio parteciperà agli utili e subirà le
perdite solo in relazione a esso.
Contenuto amministrativo
Azioni prive del diritto di voto o con voto limitato → Il principio di atipicità delle
azioni consente allo statuto consente allo statuto di prevedere, ex art. 2351, queste
particolari azioni, con il divieto tuttavia delle azioni con voto plurimo. Salve
eventuali limitazioni previste da leggi speciali, il secondo comma della norma citata
attribuisce allo statuto la possibilità di prevedere: a)Azioni senza diritto di voto;
b)Con diritto di voto limitato a particolari argomenti (es. nomina degli
amministratori); c)Con diritto di voto subordinato al verificarsi di particolari
condizioni (es. se per un determinato numero di esercizi non sono stati ripartiti
dividendi). Per evitare di profittare della categoria di azioni in esame allo scopo di
controllare la società con un’esigua parte del capitale sociale, il legislatore vieta che
il valore delle azioni con voto limitato superi complessivamente la metà del capitale
sociale.
Azioni in favore dei dipendenti della società → Si tratta di uno strumento diretto a
favorire il cd. azionarato operaio, ossia la partecipazione dei dipendenti nella
società. Ciò avviene con l’assegnazione agli stessi di utili «mediante l’emissione,
per un ammontare corrispondente agli utili stessi, di speciali categorie di azioni da
188
assegnare individualmente ai prestatori di lavoro». Naturalmente l’operazione,
dando luogo al passaggio di utili a capitale, importa che quest’ultimo sia aumentato
in misura corrispondente.
Azioni di godimento → Le azioni in esame sono collegate alla riduzione reale del
capitale sociale, che si attua mediante il rimborso del capitale ai soci. Quando la
società delibera la riduzione del capitale sociale, e procede al rimborso ai soci, con
conseguente annullamento delle corrispondenti azioni, ai possessori delle azioni
rimborsate vengono attribuite azioni di godimento per consentire loro di partecipare
a eventuali utili o plusvalenze patrimoniali, di cui in mancanza non potrebbero
godere. Le azioni di godimento non danno il diritto di voto.
Azioni riscattabili → Azioni per le quali lo statuto prevede un potere di riscatto a
favore da parte della società o dei soci a fronte del pagamento di un prezzo. Il
riscatto delle azioni può essere ancorato al verificarsi di determinate condizioni,
come la morte di un socio (la società riscatta le azioni per evitare il subentro degli
eredi), fermo restando che il potere di esercitare il riscatto è arbitrario e
insindacabile.
Azioni di risparmio → Le azioni di risparmio, che saranno approfondite
partitamente nel capitolo dedicato alle società quotate, sono azioni prive del diritto
di voto, ma dotate di privilegi patrimoniali. Possono concernere solo società quotate
in mercati regolamentati italiani o di altri paesi dell’UE. Caratteristica di queste
azioni, come vedremo, è che possono essere al portatore – deroga rispetto alla
nominatività obbligatoria dei titoli azionari. Ma esse possono essere al portatore,
anzitutto, solo se sono interamente liberate e, in secondo luogo, purché non
appartengano agli amministratori, ai sindaci, ai direttori generali (devono essere
nominative). Per le azioni di risparmio vale il limite quantitativo disposto dall’art.
2351 co.2: esse, insieme alle eventuali categorie di azioni con voto limitato, non
possono complessivamente superare la metà del capitale sociale.
Disposizioni legislative
189
Esempi di questa ipotesi si rinvengono, per esempio, nel caso di azioni liberate
mediante conferimenti in natura, che non possono essere trasferite fino a quando la
valutazione dei conferimenti non sia stata verificata dagli amministratori.
Previsioni statutarie
Clausole statutarie che limitino il trasferimento delle azioni sono ammesse dall’art.
2355bis a due condizioni, ossia che non si tratti di azioni al portatore e, in secondo
luogo, qualora la clausola proibisca l’alienazione, che il divieto non ecceda il periodi di
cinque anni, decorrenti dalla costituzione della società o dall’introduzione del divieto.
Le più frequenti clausole in quest’ambito sono: la clausola di gradimento (che
subordina il trasferimento al previo gradimento di organi sociali – di solito gli
amministratori. Essa produce l’inefficacia nei confronti della società del trasferimento
delle azioni fin quando non intervenga il gradimento: fino ad allora, il compratore non
potrà ovviamente esercitare i diritti sociali) e la clausola di prelazione (con la quale si
prevede che il socio che intenda vendere le proprie azioni debba prima offrirle agli altri
soci, i quali potranno acquistarle a parità di condizioni rispetto a quanto proposto dal
terzo. La sanzione conseguente al trasferimento avvenuto in violazione della clausola di
prelazione è, secondo l’orientamento prevalente, l’inefficacia, che può essere fatta
valere dalla società o dai soci).
Patti parasociali
A differenza dei limiti statutari al trasferimento, che sono opponibili verso terzi in
quanto hanno efficacia erga omnes, le clausole limitative contenute in patti parasociali
(cd. sindacati di blocco) hanno effetti soltanto tra gli aderenti e l’unico rimedio alla
violazione è quello dell’azione risarcitoria conseguente all’inadempimento.
I TITOLI AZIONARI
L’art. 2354 fa riferimento ai titoli azionari, ai documenti nei quali possono essere
incorporate le azioni e che hanno la funzione di rappresentarle. Attraverso
l’incorporazione dell’azione nel documento si agevola l’esercizio dei diritti e il
trasferimento della stessa. Ora, secondo l’art. 2354, i titoli azionari possono essere
nominativi o al portatore, ma la disposizione del codice è stata derogata dalla
legislazione speciale, che impone la nominatività obbligatoria delle azioni delle società
190
aventi sede nello Stato. A questa regola, come prima accennato, fanno eccezione le
azioni di risparmio e le azioni emesse dalle SICAV (le vedremo in seguito).
Il contenuto dei titoli azionari (art. 2354 co.3) prevede: 1) Denominazione e sede della
società; 2)Data dell’atto costitutivo, della sua iscrizione e l’ufficio del registro delle
imprese ove la società è iscritta; 3)Il loro valore nominale o, se si tratta di azioni senza
valore nominale, il numero complessivo delle azioni emesse e l’ammontare del capitale
sociale; 4)l’ammontare dei versamenti parziali sulle azioni non interamente liberate; 5)i
diritti e gli obblighi particolari ad essi inerenti.
I titoli azionari devono essere sottoscritti da uno degli amministratori e, va ricordato,
l’emissione dei titoli non è obbligatoria, in quanto l’art. 2346 stabilisce che «Salvo
diversa disposizione di leggi speciali, lo statuto può escludere l’emissione dei (…) titoli
o prevedere l’utilizzazione di diverse tecniche di legittimazione e circolazione».
L’art. 2355 detta le regole per la circolazione, distinguendo tra:
I. Mancata emissione di titoli
In questo caso, il trasferimento delle azioni ha effetto nei confronti della società dal
momento dell’iscrizione nel libro dei soci;
191
l’esercizio dei diritti sociali sia impedito sia al venditore che al compratore nel
periodo intercorrente tra la girata e l’iscrizione nel libro dei soci.
192
Gli intermediari danno comunicazione alla società di gestione accentrata delle
operazioni eseguite, cosicché:
III)La società di gestione accentrata registra sul conto dell’intermediario Caio una
variazione in diminuzione delle azioni della società Alfa;
IV)La società di gestione accentrata registra sul conto dell’intermediario Sempronio
una variazione in aumento delle azioni della società Alfa.
LE AZIONI PROPRIE
La possibilità per la società di compiere operazioni aventi a oggetto azioni proprie,
consentendole dunque di diventare socia di se stessa, è sempre stata disciplinata dal
legislatore, sin dal codice civile del 1882. Possono essere varie le ragioni per le
quali la società si decide a diventare socia di se stessa: per esempio, l’acquisto di
azioni proprie può essere uno strumento per investire liquidità disponibile, di
realizzare dunque un investimento nella consapevolezza che esso presenta buone
prospettive. Oppure l’acquisto di azioni proprie può essere lo strumento per
rafforzare il gruppo di controllo, ma i pericoli di operazioni con azioni proprie non
vanno sottovalutati: essi sono l’annacquamento del capitale sociale, nella misura in
cui consentano di eludere le norme sui conferimenti o il principio dell’integrità del
capitale sociale.
La disciplina delle azioni proprie la si rinviene negli artt. 2357 ss. e ha subito
parecchie modifiche negli ultimi anni. Partiamo da una distinzione fondamentale.
193
conseguire ugualmente alla società i conferimento dovuti: obbligati al pagamento
sono i soggetti indicati nel 2° e nel 3° comma della norma in esame.
194
tale scritturazione contabile, fa riscontro l’iscrizione al passivo di una riserva
indisponibile pari all’importo delle azioni proprie iscritto all’attivo. Riserva che
deve essere costituita e mantenuta finché le azioni non siano state trasferite o
annullate (art. 2357bis, ult. comma).
Ultima cosa di rilievo è l’art. 2358, il quale dispone che «La società non può
accordare prestiti, né fornire garanzie per l’acquisto o la sottoscrizione di azioni
proprie». Anche questo articolo è dedicato alla tutela dell’integrità del capitale
sociale: vietando tali operazioni, si è voluto evitare che il capitale sociale reale abbia
un valore diverso da quello nominale sottoscritto. In questi casi, infatti, il capitale
sembrerebbe interamente versato ma, in realtà, i conferimenti necessari per la sua
sottoscrizione risultano forniti dalla società stessa, sotto forma di anticipi dati ai
sottoscrittori delle azioni.
(Nota: si può leggere, già da adesso, il capitolo relativo alle società controllate e
controllanti, parte finale del capitolo inerente i gruppi di società, per rendersi conto
di come, la disciplina finora esaminata, è molto simile, quasi identica, a quella
relativa alla sottoscrizione e all’acquisto di azioni della società controllante da parte
della società controllata).
195
ma a essa sono collegati diritti patrimoniali o anche amministrativi, ad esclusione
del diritto di voto in assemblea generale riservato agli azionisti.
I titolari di detti strumenti si riuniscono un proprio organo assembleare speciale.
III.L’ASSEMBLEA
La gestione della società avviene attraverso un sistema articolato di competenze ripartite
tra diversi organi. Vediamo l’assemblea.
All’assemblea partecipano i soci della società, i quali nelle riunioni sono chiamati a
decidere sulle materie riservate all’assemblea stessa dalla legge o dallo statuto. Alle
deliberazioni assembleari attraverso il rispetto di un procedimento che consta delle
seguenti fasi:
1) Convocazione;
2) Intervento dei soci alla riunione e discussione degli argomenti posti all’ordine
del giorno;
3) Voto e proclamazione dei risultati della votazione;
4) Verbalizzazione dell’intero svolgimento della riunione assembleare.
196
amministratori; 6) Approva l’eventuale regolamento assembleare. A ciò deve
aggiungersi una precisazione: l’art. 2364 n.5 attribuisce all’assemblea la
competenza a deliberare su atti di gestione, ma a condizione che a) che lo statuto
preveda la necessità della deliberazione assembleare per determinati atti; b) che
in ogni caso resta ferma la responsabilità degli amministratori per gli atti
compiuti. Ergo, la gestione dell’impresa è attribuita in via esclusiva agli
amministratori e viene ridimensionato il potere dell’assemblea, che da organo
sovrano della società, vede ristretto l’ambito delle materie su cui si può
pronunciare a quelle indicate negli artt. 2364, 2364 bis e 2365.
I) LA CONVOCAZIONE DELL’ASSEMBLEA
Il potere di convocare l’assemblea è attribuito dalla legge agli amministratori. Nel
sistema di amministrazione dualistico vi provvede il consiglio di gestione.
Gli amministratori sono obbligati a convocare l’assemblea in una serie di ipotesi:
1) L’assemblea ordinaria deve essere convocata almeno una volta all’anno, nel
termine fissato dallo statuto e cmq non superiore a 120 gg dalla chiusura
dell’esercizio, al fine di provvedere all’approvazione del bilancio; l’art. 2364
co.2 consente che il termine prima indicato sia superato, ma in ogni caso nel
limite massimo di 180 gg, in due ipotesi: a) nel caso di società tenute alla
redazione del bilancio consolidato; b) quando lo richiedono particolari esigenze
relative alla struttura e all’oggetto della società.
197
2) Alla convocazione dell’assemblea gli amministratori devono poi provvedere
senza ritardo quando ne sia fatta domanda da una minoranza qualificata di soci
che raggiungano il ventesimo del capitale sociale nelle società che fanno
ricorso al capitale di rischio e il decimo del capitale sociale nelle altre, o la
minore percentuale prevista dallo statuto, purché nella richiesta formulata dai
soci siano indicati gli argomenti da trattare (art. 2367)
198
essere infatti pubblicato sul sito internet della società, nonché con le altre modalità
previste dalla Consob, entro il 30esimo giorno precedente la data dell’assemblea. Il
termine però diventa del 40esimo giorno per l’assemblea convocata per l’elezione
degli organi di amministrazione e controllo, ed è posticipato al 21esimo giorno per
le deliberazioni di riduzione del capitale e di nomina dei liquidatori.
II) LO SVOLGIMENTO
I legittimati.
Hanno diritto a intervenire in assemblea coloro ai quali spetta il diritto di voto (art.
2370, co.1). Oltre agli azionisti, intervengono però anche gli amministratori, i sindaci, il
rappresentante comune degli azionisti di risparmio e degli obbligazionisti. Per
intervenire in assemblea, di solito, non è necessario alcun adempimento preventivo,
anche se lo statuto delle società le cui azioni non sono ammesse alla gestione accentrata
dei titoli può tuttavia richiedere il preventivo deposito delle azioni presso la sede
sociale.
VS
Profondamente diversa è la disciplina prevista per le società aventi azioni quotate in
mercati regolamentati: l’art. 2370 ult. comma fa salva la disciplina dettata dalla
legislazione speciale, e il testo unico della finanza prevede che «la legittimazione
all’intervento in assemblea e all’esercizio del diritto di voto è attestata da una
comunicazione all’emittente, effettuata dall’intermediario, in conformità alle proprie
scritture contabili, in favore del soggetto cui spetta il diritto di voto».
(L’intermediario effettua la comunicazione sulla base delle evidenze relative al termine
della giornata contabile del settimo giorno di mercato aperto precedente la data fissata
per l’assemblea in prima o unica convocazione. Con questa disposizione è stato
199
introdotto nel nostro ordinamento il sistema di accertamento della legittimazione degli
azionisti sulla base di una determinata data di registrazione (RECORD DATE): il
sistema persegue vari obiettivi, in particolar modo quello di consentire la formazione in
tempo utile di una lista dei soggetti legittimati a partecipare e votare all’assemblea;
quella di evitare tuttavia per il breve periodo di tempo in questione (6 giornate di
mercato aperto precedenti l’assemblea) il blocco delle negoziazioni dei titoli senza che
ciò incida sulla validità della delibera.
2. La rappresentanza in assemblea
La regola generale relativa alla rappresentanza in assemblea è che il socio titolare
del diritto di voto – quindi legittimato a intervenire in assemblea – può farsi
rappresentare da altri soggetti, terzi, soci o non soci. Detta regola può essere
derogata dallo statuto, ma soltanto nelle società che non fanno ricorso al mercato di
capitale di rischio e nelle società cooperative. Per la procura è previsto un
particolare requisito: la rappresentanza deve essere conferita per iscritto e i
documenti relativi devono essere conservati dalla società. È vietata la delega in
bianco, priva cioè dell’indicazione del rappresentante. (Ricorda: il titolare del diritto
di voto può delegare un unico rappresentante per ciascuna assemblea).
200
a) derogano alla regola secondo cui il titolare del diritto di voto può
delegare un unico rappresentante per ciascuna assemblea, qualora per
esempio egli detenga azioni da parte di diversi clienti;
b) ammettono il conferimento della delega a un rappresentante in
conflitto di interessi, purché il rappresentante comunichi per iscritto al
socio le circostanze da cui deriva tale conflitto;
c) prevedono che la società designi per ciascuna assemblea un
soggetto al quale i soci possono conferire, entro la fine del secondo
giorno di mercato aperto precedente la data fissata per l’assemblea in
prima o unica convocazione, una delega con istruzioni di voto su tutte
o alcune delle proposte all’ordine del giorno;
d) attraverso l’istituto della sollecitazione di deleghe si consente a chi
abbia interesse a partecipare all’assemblea di richiedere a un elevato
numero di azionisti (più di 200) la delega su «specifiche proposte di
voto ovvero accompagnata da raccomandazioni, dichiarazioni o altre
indicazioni idonee a influenzare il voto» (art. 136 t.u.F). Le regole
prima esposte in ordine alle modalità di conferimento della
rappresentanza valgono anche per la delega rilasciata seguito di
sollecitazione: essa è sottoscritta dal delegante, è revocabile e può
essere conferita soltanto per singole assemblee già convocate, con
effetto per eventuali convocazioni successive; essa non può essere
rilasciata in bianco e indica la data, il nome del delegato e le istruzioni
di voto.
3. I quorum assembleari
Per poter validamente deliberare è necessaria la presenza di almeno una determinata
aliquota del capitale sociale e il voto favorevole di una maggioranza di soci.
201
- Perché le proposte siano approvate, dunque deliberate dall’assemblea, è necessario
che siano raggiunte le maggioranze prescritte, quindi si richiede il raggiungimento
del quorum deliberativo: la quota di capitale richiesta perché la deliberazione
possa considerarsi approvata.
- Al fine del computo del quorum COSTITUTIVO non si tiene conto delle azioni
prive del diritto di voto nell’assemblea medesima (art. 2368 co.1). Si calcolano
invece le azioni per le quali non può essere esercitato il diritto di voto (art. 2368
co.3)
VS
Assemblea ordinaria
a) PRIMA CONVOCAZIONE
quorum costitutivo: almeno la metà del capitale sociale
quorum deliberativo: maggioranza assoluta
b) SECONDA CONVOCAZIONE
quorum costitutivo: assente. L’assemblea delibera qualunque sia la parte
di capitale rappresentata;
quorum deliberativo: la maggioranza delle azioni che hanno preso parte
alla votazione
Assemblea straordinaria
A) DI SOCIETÀ CHIUSE
202
A1) Prima convocazione: non è richiesto espressamente un quorum costitutivo,
che coincide con quello deliberativo. L’art. 2368 co.2 richiede più della metà
del capitale sociale, salvo che lo statuto preveda una maggioranza più elevata;
A2) Seconda convocazione
quorum costitutivo: oltre un terzo del capitale sociale;
quorum deliberativo: almeno i due terzi del capitale rappresentato in
assemblea.
B) CONVOCAZIONI SUCCESSIVE ALLA SECONDA DI SOCIETÀ CHE
FANNO RICORSO AL MERCATO DI CAPITALE DI RISCHIO (art. 2369
co.7).
quorum costitutivo: almeno un quinto del capitale sociale, ma lo statuto può
prevedere un quorum più elevato;
quorum deliberativo: almeno i due terzi del capitale rappresentato in
assemblea.
203
■ Se il socio vota, la delibera che sia stata approvata col suo voto determinante è
impugnabile ai sensi dell’art. 2377, qualora possa recare danno alla società (art. 2373
co.1). I presupposti per l’annullamento della deliberazione sono due:
1) È in primo luogo necessario che il voto del socio in conflitto di interessi (con
l’interesse della società) sia stato determinante al fine del raggiungimento della
maggioranza richiesta per l’adozione della deliberazione (cd. prova di resistenza);
2) In secondo luogo, si richiede che la decisione adottata sia anche solo potenzialmente
dannosa per la società.
■ L’art. 2373 co.2 prevede due ipotesi tipiche di conflitto di interessi nelle quali, in
considerazione del fatto che il pericolo di danno è in re ipsa, il voto è precluso. Si tratta
del caso dell’amministratore nei cui confronti la società intenda promuovere l’azione di
responsabilità e di quello dei componenti del consiglio di gestione (quindi sistema
dualistico) che non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la nomina, la revoca o
la responsabilità dei consiglieri di sorveglianza.
■ La libertà attribuita al socio non può tradursi tuttavia in un esercizio abusivo del
diritto di voto. Esempio: l’abuso della maggioranza che adotta deliberazioni diretta al
solo scopo di pregiudicare il socio di minoranza, quale per esempio un aumento oneroso
del capitale sociale in un momento nel quale il socio di minoranza non può
sottoscriverlo. La finalità della deliberazione è quella di pregiudicare la posizione del
socio di minoranza, ma in questi casi siamo in ipotesi diverse del conflitto di interessi
finora esaminato. Qui l’interesse della società è estraneo rispetto a quello del socio in
contrapposizione, dunque non siamo nell’ambito dell’art. 2373, bensì ci collochiamo
nell’ambito della violazione del principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione
del contratto (art. 1375), cosa che può portare all’annullamento della deliberazione
quando il voto determinante del socio sia stato espresso allo scopo di ledere gli interessi
degli altri soci.
■ Lo svolgimento dell’assemblea nella sua interessa deve risultare dal verbale (art.
2375), che deve essere sottoscritto dal presidente dell’assemblea e dal segretario (o
notaio), e il verbale deve rispettare il contenuto prescritto dalla norma (data
dell’assemblea, identità dei partecipanti, ordine del giorno, ecc).
204
III) L’INVALIDITÀ DELLE DELIBERAZIONI
Gli artt. 2377 e ss. disciplinano l’invalidità delle deliberazioni distinguendo 2 ipotesi:
l’annullabilità e la nullità.
(Giova ricordare che la disciplina attualmente in vigore risente della riforma del 2003,
finalizzata soprattutto a evitare quanto avvenuto in passato, ossia che a opera della
giurisprudenza venissero create ipotesi di invalidità non previste dal legislatore. Si era
infatti individuata anche l’ipotesi della inesistenza della deliberazione, ipotizzabile
allorquando mancasse un elemento costitutivo della formazione della deliberazione, tale
da non consentire l’inizio o da provocare l’interruzione dell’iter legale necessario alla
formazione di una deliberazione: attraverso questa inesistenza, la nullità aveva finito per
trovare vasto ambito di applicazione, dato che le deliberazioni inesistenti subivano la
sorte di quelle nulle. Di qui, l’intervento riformatore, diretto a codificare le varie ipotesi
di invalidità in maniera esaustiva).
Prendiamo le mosse dall’art. 2377 co.1, secondo il quale «Le deliberazioni prese in
conformità della legge e dell’atto costitutivo vincolano tutti i soci, ancorché non
intervenuti o dissenzienti».
Annullabilità
Annullabili sono invece le deliberazioni che non siano state prese in conformità della
legge o dello statuto, mentre la nullità ricorre solo nelle ipotesi tassative previste
dall’art. 2379.
Legittimati a impugnare le deliberazioni annullabili sono i soci assenti, dissenzienti o
astenuti, gli amministratori, il consiglio di sorveglianza e il collegio sindacale. La
legittimazione dei soci, tuttavia, presuppone il possesso di una aliquota minima del
capitale sociale, che varia a seconda che la società faccia ricorso o meno al mercato del
capitale di rischio: nelle società chiuse i sodi possono impugnare le delibere annullabili
quando possiedono tante azioni aventi diritto di voto – con riferimento alla
deliberazione da impugnare - che rappresentino il 5% del capitale sociale. Nelle società
che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio l’aliquota è fissata nell’1 per 1000.
(vs I soci privi dell’aliquota di capitale richiesta per la legittimazione all’impugnativa
non sono sforniti del tutto di tutela: a essi il legislatore accorda una tutela risarcitoria:
essi possono proporre, nello stesso termine fissato per l’impugnativa (90 giorni),
205
l’azione diretta a ottenere il risarcimento del danno subito dalla non conformità della
deliberazione alla legge o allo statuto).
Nullità
L’art. 2379 disciplina le ipotesi di nullità:
1) Mancata convocazione dell’assemblea;
2) Mancanza del verbale;
3) Impossibilità o illiceità dell’oggetto della deliberazione;
4) Deliberazioni che modifichino l’oggetto sociale prevedendo lo svolgimento di
attività illecite o impossibili.
206
Per le prime tre ipotesi, la nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia
interesse, ed è rilevabile d’ufficio dal giudice, nel termine di 3 anni dall’iscrizione o
dal deposito nel registro delle imprese o dalla trascrizione nel libro delle adunanze
dell’assemblea se la deliberazione non è soggetta a iscrizione o deposito. Nel quarto
caso, invece, la nullità può essere fatta valere o rilevata d’ufficio dal giudice, senza
limiti di tempo.
Gli effetti della nullità sono disciplinati rinviando alle norme dettate in tema di
invalidità (art. 2379 ult. comma, che richiama, in quanto compatibili, il 7° e l’8°
comma dell’art. 2377). Anche la nullità dunque, al pari dell’annullabilità:
A) Non pregiudica i diritti acquistati dai terzi in buona fede in base ad atti
compiuti in esecuzione della deliberazione;
B) Non può essere pronunciata se la delibera è stata sostituita da altra presa
in conformità della legge o dello statuto.
In conclusione, diciamo che la differenza tra l’art. 2377 e l’art. 2379 sta nel fatto che la
regola generale è quella della ANNULLABILITÀ come causa di invalidità, mentre le
ipotesi di NULLITÀ ricorrono solo nei quattro casi tassativamente previsti dall’art.
2379.
207
IV.AMMINISTRAZIONE E CONTROLLO
LA FUNZIONE AMMINISTRATIVA
A livello preliminare, possiamo dire che gli amministratori costituiscono l’organo cui è
affidata la gestione dell’ente e la direzione dell’attività imprenditoriale. La competenza
degli amministratori è generale ed esclusiva, ed essi svolgono fondamentalmente due
tipi di funzioni:
- quelle di carattere esecutivo e propulsivo relativamente alle deliberazioni dell’organo
assembleare;
- quelle concernenti la gestione dell’attività sociale, ponendo in essere tutte le
operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale.
L’ordinamento societario prevede, per la società per azioni, tre sistemi alternativi di
amministrazione e controllo:
1) il modello tradizionale, basato sul consiglio di amministrazione o
amministratore unico + collegio sindacale + eventuale revisore legale dei conti;
2) Il modello dualistico, basato su un consiglio di gestione controllato da un
consiglio di sorveglianza;
3) Il modello monistico, basato su un consiglio di amministrazione che al suo
interno provvede a nominare un comitato di controllo.
208
Il modello tradizionale
209
a) La revoca dell’assemblea, in qualunque tempo, anche se la nomina è contenuta
nello statuto. In mancanza di giusta causa gli amministratori hanno diritto al
risarcimento dei danni;
b) La revoca da parte del tribunale, ex art. 2409 comma 4°, nel corso del
procedimento di controllo giudiziario per gravi irregolarità di gestione;
c) La rinuncia;
d) La scadenza del termine;
e) La morte;
f) La decadenza per la sopravvivenza di una causa di ineleggibilità;
g) L’iscrizione nel registro delle imprese della nomina dei liquidatori;
h) Le altre cause previste dallo statuto.
Come per la nomina, anche la cessazione del rapporto è soggetta a iscrizione, entro
30 giorni, nel registro delle imprese a cura del collegio sindacale.
Sostituzione degli amministratori nel corso dell’esercizio → Occorre parlare, a
questo proposito, dell’importanza dell’art. 2386. Esso, rubricato “sostituzione degli
amministratori”, prevede quattro ipotesi. 1)Il primo comma prevede il meccanismo
della cooptazione: ossia, se vengono a mancare uno o più amministratori, purché la
maggioranza sia sempre costituita da amministratori nominati dall’assemblea, quelli
in carica possono sostituire i mancanti cooptando i nuovi; questo meccanismo della
cooptazione consente, appunto, al consiglio di auto-integrarsi; 2)Il secondo comma,
invece, dispone che se viene meno la maggioranza degli amministratori nominati
dall’assemblea, quelli rimasti in carica devono convocare l’assemblea affinché
provveda alla nomina dei nuovi amministratori; 3)Il quarto comma legittima la
clausola simul stabunt, simul cadent, che dispone la cessazione di tutto il consiglio
di amministrazione al venire meno di taluni dei suoi componenti. In tal caso
l’assemblea, per la nomina del nuovo consiglio, è convocata d’urgenza dagli
amministratori rimasti in carica; 4)Ultimo comma: se vengono a mancare
l’amministratore unico o tutti gli amministratori, l’assemblea per la nomina
dell’amministratore o dell’intero consiglio deve essere convocata d’urgenza dal
collegio sindacale, il quale può compiere nel frattempo gli atti di ordinaria
amministrazione.
210
compenso degli amministratori e dei sindaci, se questo non è stabilito dallo
statuto. La seconda che i compensi spettanti agli amministratori e ai componenti
del comitato esecutivo sono stabiliti all’atto della nomina o dall’assemblea. La
competenza inderogabile dell’assemblea si spiega in considerazione del conflitto
di interessi in cui verrebbero a trovarsi gli amministratori se fossero essi a
decidere della loro remunerazione. L’art. 2389 co. 2 stabilisce che i compensi
possono essere costituiti si dalla partecipazione agli utili, sia dall’attribuzione
del diritto di sottoscrizione, a prezzo predeterminato, di azioni di futura
emissione, le cc.dd. stock options → Strumenti che consentono di legare la
remunerazione degli amministratori all’andamento dell’impresa sociale.
Il consiglio di amministrazione
I. Se l’organo amministrativo è costituito dall’amministratore unico, su di esso si
concentrano i poteri di gestione e rappresentanza, che egli eserciterà sotto il
controllo del collegio sindacale e, eventualmente, del revisore legale dei conti.
vs
Se l’organo è pluripersonale, si parla di consiglio di amministrazione. Esso sceglie
il presidente tra i suoi componenti, qualora non vi abbia provveduto l’assemblea.
Secondo l’art. 2381 il presidente convoca il consiglio, fissa l’ordine del giorno, ne
coordina i lavori e «provvede affinché adeguate informazioni, sulle materie iscritte
all’ordine del giorno, vengano fornite a tutti i consiglieri».
211
delegati. Dall’altro, gli organi delegati, che si pongono al vertice della struttura
aziendale, e che sono direttamente coinvolti nella gestione dell’impresa sociale.
Art. 2381 co 5° → Gli organi delegati devono anzitutto curare che l’assetto
organizzativo, amministrativo e contabile della società sia adeguato alla natura e alle
dimensioni dell’impresa: essi sono, in altri termini, tenuti a intervenire sulle
modalità di organizzazione interna dell’attività di impresa, sull’adozione di principi
contabili, sull’articolazione degli uffici, sul controllo interno.
212
3) Valutare il generale andamento della gestione sulla base della relazione degli
organi delegati.
Il potere di rappresentanza
1. Con l’esercizio della funzione finora descritta, gli amministratori esercitano un
potere che rileva esclusivamente all’interno della società. Affinché gli atti di
amministrazione vengano eseguiti nei confronti dei terzi (→ siano imputati alla
società), occorre il potere di rappresentanza, attraverso il quale la società assume
obblighi e acquista diritti.
213
dell’atto di nomina nel registro delle imprese, salvo «che la società provi
che i terzi ne erano a conoscenza» (art. 2383, comma 5°);
b) Secondo problema, nel caso lo statuto contenga limitazioni al potere di
rappresentanza, oppure quando queste derivino dall’atto di nomina o di
conferimento della delega → Tali limitazioni, quand’anche iscritte nel
registro delle imprese, non sono opponibili ai terzi, salvo che la società
di mostri «che i terzi abbiano agito intenzionalmente a danno della
società»: è la cd. EXCEPTIO DOLI (art. 2384, comma 2°);
c) Terzo problema, atti estranei all’oggetto sociale. Sempre al fine di non
costringere i terzi a verifiche estremamente difficoltose relative alla
circostanza che un atto possa o meno rientrare nell’oggetto sociale, si
ritiene che l’estraneità dell’atto all’oggetto sociale non possa essere
opposta al terzo, salvo il caso in cui il terzo, consapevole dell’estraneità
dell’atto, abbia compiuto l’atto conoscendo il pregiudizio che lo stesso
avrebbe arrecato alla società. Ergo, ex art. 2384 comma 2° → L’oggetto
sociale costituisce un limite, meramente interno, al potere di gestione
degli amministratori, ma non costituisce più un vincolo al potere di
rappresentanza degli stessi; conseguenza: irrilevanza, sul piano dei
rapporti esterni, dell’atto estraneo all’oggetto sociale, che rimane valido
e impegnativo per la società vs rilevanza dell’atto estraneo all’oggetto
sociale nei rapporti interni, dato che può costituire la base di un’azione di
responsabilità nei confronti degli amministratori.
d) Quarto problema, rappresentanza degli amministratori limitata da
una preventiva deliberazione di un altro organo sociale (dalla
«decisione degli organi competenti», ex art. 2384 co 2°) + può
verificarsi, peraltro, una dissociazione tra potere gestorio e potere
deliberativo (quando la volontà esteriorizzata non sia conforme alla
delibera del consiglio di amministrazione che ha deciso di compiere
l’atto) → Ci si chiede se il regime di inopponibilità delle limitazioni sino
a ora considerato includa anche tali limitazione al potere di gestione, e
quindi, se gli atti compiuti dal rappresentante sprovvisto di poteri di
gestione vincolino o meno la società →→ (Sulla base dei principi appena
esposti di salvezza dei diritti acquisiti in buona fede dai terzi) prevale la
214
soluzione dell’inopponibilità dell’eccezione fondata sulla dissociazione
tra potere gestorio e potere deliberativo. Resta salva l’exceptio doli.
215
Gli interessi degli amministratori
Gli obblighi di diligenza e di fedeltà che connotano il rapporto tra società e
amministratori devono indurli a perseguire esclusivamente l’interesse dalla società →
inteso come l’interesse fondato sul contratto sociale, e che tale viene considerato dalla
maggioranza dei soci.
La disciplina che il legislatore ha dedicato alla materia è contenuta nell’art. 2391,
ispirato all’idea che l’interesse dell’amministratore non sia da considerarsi in necessaria
contrapposizione con quello della società.
● La norma fa infatti obbligo all’amministratore di informare gli amministratori e il
collegio sindacale di «ogni interesse» di cui egli sia portatore (precisando la natura, i
termini, l’origine e la portata di tale interesse), in una determinata operazione sulla
quale il consiglio di amministrazione sia chiamato a decidere. Rimessa così, all’organo
collegiale, la valutazione circa l’eventuale conflittualità con l’interesse della società.
● L’amministratore portatore di un proprio interesse non è tenuto ad astenersi dal voto.
vs
Se però è l’amministratore delegato a essere portatore di un interesse proprio o di terzi,
egli dovrà astenersi dal compiere l’operazione, investendo della stessa il consiglio di
amministrazione.
vs
Se si tratta di amministratore unico, sarà tenuto a darne
notizia alla prima assemblea utile, motivando nel
caso in cui decida di compiere l’operazione.
● Qualora l’amministratore non abbia dato notizia del proprio interesse nell’operazione,
oppure il consiglio non abbia motivato le ragioni e la convenienza di quest’ultima, e il
voto dell’amministratore portatore dell’interesse sa stato determinante per il
raggiungimento della maggioranza, la delibera suscettibile di arrecare un danno alla
società può essere impugnata dagli altri amministratori e dal collegio sindacale entro
novanta giorni dalla data in cui la delibera è stata assunta (art. 2391, comma 3°).
● L’art. 2391 comma 4° prevede che l’amministratore interessato risponda dei danni
arrecati alla società derivanti dalla sua azione o omissione del suddetto obbligo di
comunicazione.
216
Divieto di concorrenza e sfruttamento notizie
Due regole:
1) Art. 2390 → Gli amministratori «non possono assumere la qualità di
soci illimitatamente responsabili in società concorrenti, né esercitare
un’attività concorrente per conto proprio o di terzi, né essere
amministratori o direttori generali in società concorrenti, salvo
autorizzazione dell’assemblea». La violazione di questa regola li espone
alla revoca della carica e al risarcimento del danno eventualmente
cagionato dalla società. Questo divieto è un’applicazione del più generale
divieto di agire in conflitto di interessi prima considerando,
difficilmente potendo l’amministrazione prestare la dovuta indipendenza
e trasparenza nella gestione di due società concorrenti.
2) Art. 2391, ult. comma → Gli amministratori rispondono dei danni
quando utilizzano, a vantaggio proprio o di terzi, dati, notizie e
opportunità di affari, appresi nell’esercizio dell’incarico. Trattasi di
quelle definite business opportunity, ovverosia tutte quelle occasioni e
affari di cui l’amministratore può venire a conoscenza in virtù della
carica ricoperta. Anche questa norma è ispirato al medesimo principio
della precedente: l’azione degli amministratori deve perseguire, con
diligenza e fedeltà, l’interesse della società.
217
Quella degli amministratori verso la società è una responsabilità contrattuale, per colpa
e per un fatto proprio (non è una responsabilità oggettiva). È una responsabilità di mezzi
e non di risultato, differenziata in funzione dell’eventuale delega di attribuzioni
conferita, non potendo gli amministratori essere imputati per il mancato successo
economico dell’attività di impresa.
218
funzioni in concreto attribuite a uno o più amministratori» (art. 2932, comma 1°)
→ cioè, in presenza di organi delegati o deleghe di fatto.
219
b) I soci di minoranza, come si dirà appresso, ex art. 2393 bis;
c) L’amministratore giudiziario nominato nel procedimento di controllo da parte
dell’autorità giudiziaria ordinaria (art. 2409, comma 5°);
d) Gli organi delle procedure concorsuali, ai sensi dell’art. 2394 bis e l. fall.
● Il comma 5° dell’art. 2393 prescrive che se la delibera assembleare è assunta col voto
favorevole di almeno 1/5 del capitale sociale, essa comporta la revoca dall’ufficio degli
amministratori contro i quali è proposta, nel qual caso l’azione sarà promossa dai nuovi
amministratori.
● L’azione sociale di responsabilità si prescrive in 5 anni dalla cessazione
dell’amministratore dalla carica
● Il giudice dovrà accertare il nesso di causalità tra il fatto illecito e il danno: sul piano
probatorio, trattandosi di responsabilità contrattuale, la società dovrà limitarsi ad
allegare l’inadempimento dell’amministratore e il nesso di causalità tra questo e il
danno subito vs sull’amministratore incomberà l’onere di provare la diligenza prestata o
i fatti che escludono o attenuano la sua responsabilità.
● Al fine di evitare che la maggioranza dei soci possa disporre del diritto al risarcimento
dei danni spettante alla società, il codice riconosce una minoranza qualificata di soci un
diritto di veto. Infatti, intanto la società può rinunciare o transigere l’azione, purché,
recita l’ultimo comma dell’art. 2393, l’assemblea sia favorevole senza il voto contrario i
tanti soci che rappresentino il quinto del capitale sociale (aliquota che diventa 1/20 per
le società che fanno ricorso al capitale di rischio) o la minore aliquota prevista nello
statuto per l’esercizio dell’azione esercitata dalla minoranza ex art. 2393 bis.
220
Tanti soci che rappresentino almeno 1/5 del capitale sociale o la diversa percentuale
prevista dallo statuto possono citare in giudizio gli amministratori e chiedere il
risarcimento del danno sopportato dalla società, esercitando l’azione in nome
proprio, ma nell’interesse della società. Nelle società che fanno ricorso al mercato di
capitale di rischio l’azione può essere esercitata da tanti soci che rappresentino il
2,5% del capitale sociale, o altra percentuale prevista dallo statuto.
+
Trattandosi di un’ipotesi di sostituzione processuale, posto che l’azione è
eccezionalmente attribuita a un soggetto diverso da quello titolare del diritto da far
valere in giudizio, cioè la società, il comma 3° dell’art. 2393 bis prevede che l’atto
di citazione sia notificato alla società anche nella persona del presidente del collegio
sindacale.
+
Essendo la società unica titolare del rapporto giuridico controverso, l’esito del
giudizio, eventualmente a essa favorevole, andrà solo a suo vantaggio. Il comma 5°
prevede che in questo caso la società sarà tenuta a rimborsare, ai soci che hanno
agito, le spese del giudizio e quelle sopportate nell’accertamento dei fatti che il
giudice non abbia posto a carico dei soccombenti.
221
crediti → Attraverso detta azione i creditori puntano a conseguire, a titolo risarcitorio,
l’equivalente della prestazione rimasta insoddisfatta.
● Nel silenzio della disposizione, applicando il termine dell’art. 2949 che regola la
prescrizione dei diritti derivanti dai rapporti sociali, si ritiene che l’azione si prescriva in
5 anni dal momento in cui l’insufficienza sia divenuta oggettivamente conoscibile da
parte dei creditori.
↓↓↓
Nel fallimento, nella liquidazione coatta amministrativa e nell’amministrazione
straordinaria delle grandi imprese insolventi, le azioni di responsabilità sinora esaminate
confluiscono in un’unica azione, esercitata (ex art. 2394 bis) dagli organi di tali
procedure concorsuali. Questi ultimi puntano a conseguire lo stesso risarcimento che,
fuori da tali procedure, avrebbero potuto ottenere la società e i suoi creditori. L’art.
2394 bis va coordinato con l’art. 146 l. fall. (che attribuisce al curatore del fallimento la
legittimazione a proporre le azioni di responsabilità contro gli amministratori,
componenti organi di controllo, direttori generali e liquidatori) e con l’art. 206 l. fall.
(che fa esplicito riferimento all’azione sociale e a quella dei creditori esercitabili dal
commissario nella liquidazione coatta amministrativa).
4)L’AZIONE DI RESPONSABILITÀ
DEI SINGOLI SOCI E DEI TERZI (art. 2395)
L’art. 2395 regola la responsabilità in cui possono incorrere gli amministratori quando,
con i loro atti colposi o dolosi, abbiano cagionato un pregiudizio direttamente al
patrimonio del singolo socio o del terzo. Non deve trattarsi del riflesso del pregiudizio
subito dalla società per effetto della cattiva gestione degli amministratori. Anzi, il
pregiudizio del singolo socio o del terzo può sussistere anche quando gli amministratori
abbiano teso a realizzare l’interesse della società.
■ Il presupposto dell’azione risiede nella lesione di un diritto soggettivo patrimoniale
del socio o del terzo: gli ambiti più diffusi di tali lesioni sono quelli delle false
comunicazioni sociali e dei mercati finanziari, per via delle comunicazione al pubblico
di informazioni inesatte.
■ L’azione non può essere esperita nei casi di inadempimento contrattuale della società,
per i quali risponde quest’ultima, eventualmente col concorso degli amministratori, se
l’inadempimento sia imputabile a loro colpa o dolo.
222
■ L’azione si prescrive, come prevede il comma 2° dell’art. 2395, in cinque anni dal
compimento dell’atto che ha pregiudicato il socio o il terzo, quindi secondo una regola
stranamente difforme da quella di diritto comune, che per la responsabilità
extracontrattuale (di cui questa è un esempio) dispone la decorrenza dal momento in cui
il danno si è prodotto.
223
Il collegio sindacale
I. Nel modello tradizionale il collegio sindacale è l’organo al quale è affidato il
controllo e la vigilanza sulla gestione sociale (quindi un controllo
sull’amministrazione).→ Esso vigila «sull’osservanza della legge e dell’atto costitutivo,
sul rispetto dei principi di corretta amministrazione» (art. 2403) vs il controllo contabile
è invece affidato a un revisore esterno, come vedremo dopo.
Come vedremo, negli altri sistemi, questa funzione sarà esercitata da altri organi:
Un consiglio di sorveglianza nominato dall’assemblea, nel sistema dualistico;
Un comitato per il controllo sulla gestione nominato dal consiglio di
amministrazione al suo interno, nel sistema monistico.
II. Il collegio sindacale «si compone di 3 o 5 membri effettivi, soci o non soci. Devono,
inoltre, essere nominati due sindaci supplenti» (art. 2397).
Per i sindaci è dettata la seguente disciplina:
1) I primi sindaci sono nominati nell’atto costitutivo e, successivamente,
dall’assemblea ordinaria (art. 2400). Il presidente del collegio sindacale, ai sensi
dell’art. 2398, è nominato dall’assembla. La nomina e la cessazione della carica
da parte dei sindaci devono essere «iscritte, a cura degli amministratori, nel
registro delle imprese nel termine di 30 giorni» (art. 2400).
2) I sindaci durano in carica per un triennio e sono rieleggibili. Decade dall’ufficio
il sindaco che, senza giustificato motivo, non assiste alle assemblee o diserta,
durante un esercizio sociale, due riunioni del consiglio di amministrazione (o del
comitato esecutivo) o dello stesso collegio sindacale (artt. 2404 e 2405).
3) Per garantire l’indipendenza dell’organo di controllo, la revoca dei sindaci da
parte dell’assemblea (art. 2400, comma 2°), essendo prevista non solo la giusta
causa, quale condizione di efficacia della stessa revoca, ma altresì che la delibera
di revoca sia sottoposta ad approvazione del tribunale, sentito il sindaco
interessato.
4) In caso di morte, di rinuncia o di decadenza di un sindaco subentrano i supplenti
in ordine di età. I nuovi sindaci restano in carica fino alla riunione della
successiva assemblea, che dovrà provvedere alla nomina (o alla ratifica) dei
sindaci effettivi e supplenti necessari. I nuovi nominati scadono
contemporaneamente a quelli in carica.
224
5) Per svolgere correttamente le proprie funzioni di controllo, i sindaci devono
rispettare requisiti di obiettività, imparzialità e indipendenza. Quindi devono
avere:
a) Una particolare competenza tecnica e preparazione professionale →
Art. 2397: Il collegio sindacale è composto da 3 a 5 sindaci effettivi e da
due sindaci supplenti (comma 1) + È necessario che almeno un sindaco
effettivo e uno supplente siano iscritti nel registro dei revisori legali dei
conti. Gli altri membri, se non iscritti in quest’ultimo, devono esserlo
negli albi degli avvocati, dei periti commerciali e dei consulenti del
lavoro, oppure tra i professori universitari di ruolo in materie
economiche o giuridiche (comma 2);
b) Particolari requisiti di onorabilità e indipendenza→ Art. 2399: È
necessario che i sindaci posseggano l’idoneità psichica e morale richiesta
per gli amministratori. Da qui, le cause di ineleggibilità previste da
questo articolo: A) Rinvio all’art. 2382 – ineleggibilità amministratori –
prevede che non possono essere eletti, e se eletti decadono, gli interdetti,
gli inabilitati, i falliti e coloro che abbiano riportato la condanna a una
pena che importi l’interdizione dai pubblici uffici o l’incapacità di
esercitare uffici direttivi; B)Ineleggibilità di coloro che sono legati agli
amministratori della società da rapporti di coniugio, parentela o affinità
entro il 4° grado – per garantire il dovuto distacco organo di controllo vs
organo di governo; C) Causa di ineleggibilità: coloro che sono legati alla
società da rapporti di lavoro subordinato, professionale «ovvero da altri
rapporti di natura patrimoniale che ne compromettano l’indipendenza».
L’ultimo comma dell’art. 2399 attribuisce allo statuto la possibilità di
prevedere altre cause di ineleggibilità, decadenza, incompatibilità.
III. Accanto ai già menzionati doveri del collegio sindacale di vigilare sull’osservanza
della legge e dello statuto (art. 2403, comma 1°), nonché sul rispetto dei principi di
corretta amministrazione, il legislatore ha richiesto di «vigilare sull’adeguatezza
dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società e sul suo
concreto funzionamento».
a) Il primo dovere ha un contenuto ampio, implicando l’osservanza di ogni
disciplina legale e regolamentare che interessi la vita della società;
225
b) La vigilanza sulla corretta amministrazione attiene, invece, alla conformità delle
decisioni gestionali, alle regole, comunemente accettate, della prudente
amministrazione derivante dalla scienza aziendalistica.
■ L’art. 2403 bis fissa i poteri dei sindaci, stabilendo che essi possono, in ogni
momento, compiere atti di ispezione e controllo, anche individualmente, e
accedere quindi a ogni informazione concernente la gestione della società (comma
1) + Il collegio sindacale può, altresì, chiedere agli amministratori notizie
sull’andamento delle operazioni sociali o su determinati affari, anche relativamente
a società controllate (comma 2).
■ Art. 2404 → Per garantire un adeguato funzionamento del controllo, la legge
impone al consiglio sindacale di riunirsi almeno ogni 90 giorni. La concreta
partecipazione dei sindaci è garantita dalla decadenza dall’ufficio, qualora il sindaco
non partecipi, senza giustificato motivo, a due riunioni nel corso di un esercizio
sociale.
Art. 2405 → Per assicurare l’effettività del controllo la legge impone ai sindaci di
assistere alle adunanze del consiglio di amministrazione, del comitato esecutivo e
alle assemblee.
226
capitale (il 2% nelle società che fanno ricorso al capitale di rischio), il collegio
sindacale, verificatane la fondatezza, «deve indagare senza ritardo su fatti denunziati
e presentare le sue conclusioni ed eventuali proposte all’assemblea».
227
La revisione legale dei conti
Fatta eccezione per le società che non fanno ricorso al capitale di rischio e che non sono
tenute alla redazione del bilancio consolidato (→ Che possono affidare il controllo
contabile al collegio sindacale), la revisione legale dei conti delle s.p.a. è affidata a un
revisore legale o a una società di revisione contabile, iscritti nel registri istituito presso il
Ministro dell’economia e delle finanze (art. 2409 bis), unica norma –assieme all’art.
2409 septies, rimasta in vigore a seguito dell’abrogazione disposta con d.lgs. 39/2010,
che ha introdotto la disciplina seguente.
● In sede di costituzione della società per azioni, il soggetto incaricato del controllo
contabile è indicato nell’atto costitutivo, mentre successivamente è nominato
dall’assemblea su proposta motivata dell’organo di controllo (art. 13 comma 1°).
L’incarico dura 3 esercizi e scade alla data dell’assemblea convocata per l’approvazione
del bilancio relativo al terzo esercizio dell’incarico.
228
● I soggetti incaricati della revisione legale devono verificare la regolare tenuta della
contabilità sociale e la corretta rilevazione dei fatti di gestioni nelle scritture
contabili. Essi devono poi redigere un giudizio sulla correttezza sostanziale del bilancio
di esercizio e del bilancio consolidato (se redatto) →→ La relazione esprime un
giudizio di conformità del bilancio «alle norme che ne disciplinano la relazione e se
esso rappresenti in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria e il
risultato economico dell’esercizio». Datata e sottoscritta dal responsabile della
revisione, la relazione può contenere
- un giudizio senza rilievi (se il bilancio è pienamente conforme alle norme che ne
disciplinano i criteri di redazione e se rappresenta in modo veritiero e corretto il risultato
economico dell’esercizio);
- un giudizio con rilievi (attinenti all’obbligo di chiarezza e veridicità con cui deve
essere redatto il bilancio);
- un giudizio negativo (in caso di accertate gravi violazioni);
(Peraltro, si può avere anche una dichiarazione di impossibilità a rilasciare un giusizio).
In tutti i giudizi diversi da quello senza rilievi, la relazione deve illustrare analiticamente
i motivi della decisione. Essa resta depositata presso la sede sociale durante i 15 giorni
che precedono l’assemblea, insieme al bilancio e agli altri documenti allegati →→
L’importanza del giudizio sta nel fatto che se questo è senza rilievi, la legittimazione a
impugnare la delibera approvativa del bilancio spetta a tanti soci che rappresentino il
5% del capitale.
229
Per assicurare la legalità dell’amministrazione, può non essere sufficiente il quadro dei
poteri sinora considerati previsti dalla legge in capo all’organo amministrativo,
all’organo di controllo interno e all’eventuale organo di controllo contabile. Per questo,
l’art. 2409 prevede il controllo giudiziario sulla gestione delle società per azioni.
↓
Art. 2409 → Qualora vi sia il fondato sospetto che gli amministratori, violando i loro
doveri, abbiano compiuto gravi irregolarità di gestione, suscettibili di «arrecare danno
alla società o a una o più società controllate», i soci rappresentanti il decimo del capitale
sociale (il ventesimo nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio)
possono presentare ricorso in tribunale per denunziare tali fatti. Legittimati ad attivare il
procedimento sono anche gli organi di controllo nei diversi modelli di amministrazione
e il pubblico ministero nelle sole società che fanno ricorso al mercato del capitale di
rischio.
La denuncia di gravi irregolarità deve ricondursi a censure di legittimità idonee a
pregiudicare il buon funzionamento della società, non a questioni di merito o di
convenienza degli atti di gestione.
↓
Esaminata la denunzia, il tribunale sente gli amministratori e i sindaci in camera di
consiglio. Dopodiché può ordinare l’ispezione della società a spese dei soci
denunzianti, per accertare gli elementi di fatto posti a base della denuncia. Il decreto è
reclamabile entro 20 giorni davanti alla Corte d’Appello.
Nei casi più gravi, il tribunale può revocare gli amministratori ed eventualmente
anche i sindaci e nominare un amministratore giudiziario, determinando i poteri e la
durata. All’amministratore giudiziario spetta la gestione dell’impresa nei limiti dei
poteri conferitigli, nonché la rappresentanza, anche processuale, della società. Egli è
tenuto, al termine dell’incarico, a presentare al tribunale il conto della sua gestione,
nonché a convocare e a presiedere l’assemblea perché nomini gli organi di
230
amministrazione e controllo, per proporre la messa in liquidazione della società o la sua
ammissione a una procedura concorsuale (art. 2409, comma 6°).
231
Il modello dualistico
La società per azioni (art. 2409 octies) può adottare il sistema dualistico di
amministrazione e controllo. Nel sistema dualistico:
- La funzione amministrativa spetta esclusivamente al consiglio di gestione;
- Quella di controllo di legalità al consiglio di sorveglianza;
- Quella di controllo contabile a un revisore o a una società di revisione.
1. Il consiglio di gestione
a) È costituito da non meno di 2 componenti – non è quindi consentito l’organo
amministrativo uni personale – anche non soci, nominati i primi in sede di
costituzione e, successivamente, dal consiglio di sorveglianza, che ne determina
il numero e anche il compenso. Contrariamente al sistema tradizionale, non è
dunque l’assemblea a nominare i componenti dell’organo amministrativo né ad
approvare il bilancio di esercizio.
b) I consiglieri di gestione non possono far parte del consiglio di sorveglianza
che li elegge + restano in carica per un periodo non superiore a 3 esercizi + sono
rieleggibili + possono essere revocati solo dal consiglio di sorveglianza, anche se
nominati nell’atto costitutivo.
c) Sulla presidenza del consiglio di gestione, l’art. 2409 undecies si limita a
rinviare all’art. 2380 bis comma 5° per il quale il consiglio di amministrazione
sceglie tra i suoi componenti il presidente, se questi non è nominato
dall’assemblea.
d) Attraverso il rinvio operato dall’art. 2409 undecies a svariate norme sugli
amministratori nel sistema tradizionale, sono applicabili ai componenti del
consiglio di gestione: l’art. 2382 sulle cause di ineleggibilità e decadenza + l’art.
2383 sulla pubblicità della nomina presso il registro delle imprese + l’art. 2384
sulla rappresentanza + l’art. 2385 sulla cessazione degli amministratori + l’art.
2390 sul divieto di concorrenza + l’art. 2388 relativa alla disciplina di validità
delle delibere consiliari + l’art. 2391 relativa alla disciplina degli interessi degli
amministratori;
232
e) L’azione di responsabilità contro i consiglieri di gestione può essere promossa,
in virtù del richiamo operato dall’art. 2409 decies, dalla società, dai soci, dai
creditori, dagli organi delle procedure concorsuali e dai singoli soci e terzi
+
Si aggiunge, ex art. 2409 decies comma 2°, anche la legittimazione del consiglio
di sorveglianza, il quale delibera l’azione di responsabilità contro i consiglieri di
gestione a maggioranza dei suoi componenti, non dei presenti + i criteri di
valutazione della responsabilità dei consiglieri di gestione sono i medesimi di cui
all’art. 2392, espressamente richiamato dall’art. 2409 undecies + a maggioranza
assoluta dei suoi componenti, e purché non vi si oppongano tanti soci che
rappresentino 1/5 del capitale, il consiglio di sorveglianza può rinunziare o
transigere l’azione di responsabilità.
2. Il consiglio di sorveglianza
Al Consiglio di sorveglianza spetta la funzione di controllo e di vigilanza
sull’amministrazione nel modello dualistico, ma non quella del controllo
contabile, che deve necessariamente essere attribuita al revisore o alla società di
revisione cotnabile.
A. I componenti del consiglio di sorveglianza possono non essere soci e sono, per
la prima volta, nominati nell’atto costitutivo, e successivamente
dall’assemblea - che designa anche il presidente, i cui poteri sono determinati
dallo statuto – in numero non inferiore a 3 (art. 2409 duodecies); i consiglieri di
sorveglianza restano in carica per 3 esercizi e scadono alla data dell’assemblea
successiva alla scadenza del terzo esercizio.
233
C. Almeno un componente dei consiglieri di sorveglianza deve essere iscritto nel
registro dei revisori legali (art. 2409 dodecies, comma 4°), mentre per gli altri
componenti la previsione di particolari requisiti è rimessa allo statuto.
(Ineleggibilità)
D. I consiglieri di sorveglianza non devono trovarsi nelle condizioni previste
dall’art. 2382 (inabilitazione, interdizione, fallimento, ecc), per gli amministratori
nel sistema tradizionale + Non devono essere componenti del consiglio di
gestione né essere legati alla società, alle sue controllate e a quelle sottoposte a
comune controllo da un rapporto di lavoro, di consulenza, di prestazione d’opera
retribuita.
Il sistema monistico
Con il sistema monistico, lo statuto delle società per azioni può prevedere, ai
sensi dell’art. 2409 sexiesdecies, che la gestione dell’impresa sociale spetti al
consiglio di amministrazione (con esclusione quindi dell’organo amministrativo
unipersonale) e che vigilanza e controllo, anziché essere esercitate da un organo
separato – come nei sistemi fin qui considerati – siano affidati a un comitato per
il controllo sulla gestione, costituito all’interno dello stesso consiglio di
amministrazione → È quest’ultimo che nomina i componenti del comitato per il
controllo sulla gestione.
236
● Un terzo dei consiglieri di amministrazione deve possedere gli stessi requisiti
di indipendenza non più rigorosi di quelli previsti per i sindaci dall’art. 2399:
questo requisito è funzionale alla vigilanza che alcuni di essi – quelli che
formano il comitato per il controllo sulla gestione – devono svolgere sulla
correttezza della gestione.
238
V.LE OBBLIGAZIONI
Il prestito obbligazionario
La struttura finanziaria della società per azioni si fonda, come sappiamo, sul
capitale di rischio, attraverso l’emissione di azioni.
↓
A questo può aggiungersi il CAPITALE DI CREDITO, rappresentato dalle
obbligazioni, titoli di credito di massa (a reddito fisso), emessi in serie,
nominativi o al portatore, negoziabili nei mercato finanziari.
Quindi:
AZIONI vs OBBLIGAZIONI
Mentre sottoscrivendo azioni, l’investitore L’investitore che sottoscrive obbligazioni
acquista, anzitutto lo status di socio, e effettua un prestito alla società, di cui
confida nella remunerazione esige la restituzione con gli interessi.
dell’investimento, esponendoli non solo Prestito obbligazionario→ Operazione
all’alea di non conseguirla, ma altresì alla con la quale la società per azioni chiede al
perdita completa del proprio investimento mercato, sotto forma di credito, mezzi
(fermo restando il beneficio della finanziari che è obbligata a restituire.
limitazione della responsabilità
patrimoniale)
AZIONISTI vs OBBLIGAZIONISTI
Apprestano capitale di rischio. Apprestano capitale di credito.
Hanno diritto alla restituzione del prestito,
maggiorato della remunerazione, alle
scadenze pattuite, e con precedenza
assoluta rispetto a ogni gruppo di soci.
Se la società è in perdita, mentre l’utile
non può essere distribuito, non può
omettersi il pagamento degli
obbligazionisti, quali creditori sociali. Se,
239
tuttavia, la società è insolvente anche gli
obbligazionisti, come tutti gli altri
creditori sociali, sono esposti al rischio di
non conseguire il rendimento e la
restituzione del prestito.
240
dall’andamento della società, facendo in tal modo partecipare l’obbligazionista al
rischio d’impresa.
Le obbligazioni ordinarie
Accordano al sottoscrittore il diritto alla restituzione del prestito, maggiorato degli
interessi e, per incentivare gli investitori, possono essere emesse anche «al di sotto
della pari», nel senso che il valore di sottoscrizione versato è inferiore al valore
nominale del titolo.
Meritevoli di segnalazione sono anche:
● Le obbligazioni a premio, che oltre alla restituzione del capitale maggiorato degli
interessi, accordano al sottoscrittore il beneficio di possibili convenienze, oggetto i
estrazione a sorte;
● Le obbligazioni con warrant (dette anche “obbligazioni con diritto d’opzione),
che consentono all’obbligazionista di restare tale – di conservare il credito verso la
società emittente – e di sottoscrivere o acquistare azioni dalla società emittente o di
altre società;
● Le obbligazioni subordinate e partecipanti (già esposte)
241
rappresenti 1/20 dei titoli emessi e non estinti. Si applicano le disposizioni
sull’assemblea straordinaria anche per i relativi quorum.
■ Se non conformi alla legge, le deliberazioni dell’assemblea degli
obbligazionisti possono essere impugnate secondo la disciplina propria
dell’invalidità delle deliberazioni dell’assemblea dei soci, ai sensi degli artt. 2377
e 2379.
■ La materia più rilevante affidata all’organo assembleare riguarda la
competenza a deliberare sulle modificazioni delle condizioni del prestito (art.
2415 n.2): l’estensione di tale competenza risulta estremamente controversa in
dottrina. Secondo l’orientamento preferibile, la circostanza stessa che il
legislatore abbia fatto riferimento alle condizioni (cioè, alle modalità del prestito)
esclude la possibilità che l’assemblea possa alterare gli elementi strutturali
dell’operazione (quali la soppressione del diritto al rimborso o la conversione
coattiva delle obbligazioni in azioni). In ogni caso, le deliberazioni relative a
questa delicata materia devono essere approvate, anche in seconda convocazione,
col voto favorevole degli obbligazionisti che rappresentino la metà delle
obbligazioni emesse e non estinte (art. 2415, co. 3).
242
concordato preventivo, nel fallimento, nella liquidazione coatta amministrativa e
nell’amministrazione straordinaria della società che ha emesso il prestito.
243
Le obbligazioni convertibili
Il sottoscrittore di obbligazioni è, innanzi tutto, un creditore che ha diritto alla
restituzione del capitale + gli interessi. Attraverso la categoria delle obbligazioni
convertibili in azioni gli è concessa la facoltà di convertire tale situazione soggettiva
(di creditore) in quella di socio, sia della società emittente sia di altra società coinvolta
nell’operazione o finanziata dalla società emittente le obbligazioni convertibili.
1)Competente a deliberare l’emissione delle obbligazioni convertibili è l’assemblea
straordinaria. Ma, ex art. 2420 ter, lo statuto può attribuire agli amministratori la
facoltà di emettere «in una o più volte, obbligazioni convertibili fino a un ammontare
determinato e per il periodo massimo di 5 anni».
2) All’atto di emissione delle obbligazioni convertibili viene fissato il rapporto di
cambio tra queste e le azioni, in base al quale sarà possibile determinare il numero
delle azioni spettanti agli obbligazionisti che eserciteranno la conversione. In tal caso,
l’obbligazionista dismette la qualità di creditore e acquista quella di socio.
3) Premesso che il capitale sociale debba essere interamente versato, questa operazione
esige che, contestualmente alla deliberazione di emissione del prestito, sia deliberato
l’aumento di capitale al servizio dell’ammontare delle obbligazioni emesse (art. 2420
bis), ossia per un ammontare corrispondente alle azioni da attribuire in conversione. Si
applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui all’art. 2346.
↓
4)Puntualmente disciplinata è la conversione, a iniziativa dell’obbligazionista, dei
suoi titoli in azioni: nel primo mese di ciascun semestre, gli amministratori della
società curano l’emissione delle stesse azioni a beneficio di quegli obbligazionisti che
hanno chiesto la conversione, appunto, nel semestre precedente.
↓
5) Tenuto conto che con l’emissione di obbligazioni convertibili si pongono le
premesse per la sottoscrizione dell’aumento del capitale che, in concreto, si realizza
con il progressivo esercizio del diritto di conversione, questi titoli devono essere offerti
in opzione ai vecchi soci e ai precedenti possessori di obbligazioni convertibili: si
assicura, così, l’inalterato mantenimento della partecipazione sociale a chi è già
azionista e a chi può diventarlo.
6) Nel corso del rapporto coi possessori di obbligazioni convertibili, la società non può
deliberare né la riduzione volontaria del capitale né le modificazioni delle disposizioni
dello statuto concernenti la ripartizione degli utili, fatta salva l’eventualità che ai
244
sottoscrittori sia stata offerta la facoltà, mediante avviso depositato presso l’ufficio del
registro delle imprese, almeno 90 gg prima della convocazione dell’assemblea, di
esercitare il diritto di conversione nel termine di 30 gg dalla pubblicazione.
245
VI. LE SCRITTURE CONTABILI E IL BILANCIO
Nozione e funzioni
L’art. 2421 stabilisce che la società deve tenere i libri e le altre scritture contabili
prescritti dall’art. 2214 + l’art. 2423 prescrive che gli amministratori devono
redigere il bilancio di esercizio.
Le scritture contabili, di cui ci siamo già occupati, possono essere definite come
l’insieme ordinato della documentazione inerente l’impresa: nelle scritture contabili,
secondo un criterio cronologico (libro giornale) e sistematico (libro mastro), vanno
rilevati, con il metodo della PARTITA DOPPIA – che considera le operazioni aziendali
sia dal punto di vista delle condizioni monetarie (variazioni di crediti, di debiti) che di
quelle economiche (ricavi, costi) – i fatti di gestione, secondo le norme di un’ordinata
contabilità (art. 2219).
↓
Le scritture contabili recepiscono a loro volta i fatti di gestione, ossia le operazioni
aziendali poste in essere dal’imprenditore nelle imprese individuali, e dagli
amministratori nelle imprese collettive, quali una vendita, un acquisto, un incasso →→
dai fatti di gestione possono derivare variazioni numerarie positive (+ denaro, + crediti
di funzionamento, – debiti di funzionamento) o negative (– denaro, + debiti di
funzionamento, – crediti di funzionamento): quindi le scritture contabili hanno la
funzione di rilevare la consistenza quantitativa e monetaria dei fatti di gestione, cioè di
far emergere le operazioni poste in essere dall’impresa, che costituiscono la premessa
logica della → rilevazione contabile.
↓
I fatti di gestione devono essere documentati mediante i relativi DOCUMENTI
CONTABILI e rilevati, quindi, nelle SCRITTURE CONTABILI: la rilevazione
quantitativa nelle scritture contabili dei fatti di gestione costituisce l’atto contabile, e
consiste nell’iscrivere nelle scritture contabili di valori dei fatti di gestione con la
relativa denominazione.
[La rilevazione determina così la rappresentazione contabile dei valori mediante
scritture sui libri: essa ha per oggetto la documentazione che accompagna i fatti di
gestione, in quanto la contabilità non registra fatti materiali, bensì i documenti che li
246
evidenziano →→ Documenti questi definiti DOCUMENTI DI PRIMO GRADO e,
sotto questo profilo, il libro giornale e il libro degli inventari sono considerati
DOCUMENTI DI SECONDO GRADO, e il bilancio DOCUMENTO DI TERZO
GRADO]
↓ ↓ ↓ ↓ ↓ ↓ ↓ ↓
Tutto questo processo organico di rilevazione dà luogo alla contabilità generale, intesa
come «il sistema di determinazione ed espressione, in linguaggio matematico, di fatti e
di operazioni aziendali, la cui finalità ultima è rappresentata dalla redazione del bilancio
di esercizio.
247
Il bilancio di esercizio
La funzione primaria del bilancio è quella di offrire informazioni ai soci, ai creditori e
ai terzi in genere, secondo una valutazione prudente, della situazione patrimoniale e
finanziaria della società e del risultato economico dell’esercizio
I. STRUTTURA
Il relazione alla struttura del bilancio di esercizio, va detto che gli artt. 2424 e 2425
stabiliscono lo schema, rispettivamente, dello stato patrimoniale e del conto economico,
che presuppongono a loro volta la disciplina della relativa struttura (art. 2423 ter) di
questi due documenti contabili. Queste le regole:
A) INDEROGABILITÀ DELLE POSTE (art. 2423 ter, comma
1°): Nello stato patrimoniale e nel conto economico «devono» essere
iscritte le voci previste dagli artt. 2424 e 2425 «separatamente» e nell’
«ordine indicato»: non è quindi consentito adottare un ordine di
sequenza delle poste diverso da quello scelto dal legislatore.
B) SUDDIVISIONI-RAGGRUPPAMENTI (art. 2423 ter,
comma 2°): Le voci precedute da numeri arabi possono essere
ulteriormente suddivise o, al contrario, riunite in raggruppamenti, ma
solo in due casi: o quando il raggruppamento, a causa dell’importo delle
singole voci, sia irrilevante ai fini di un’informazione chiara e precisa o
quando il raggruppamento favorisca la chiarezza del bilancio.
C) AGGIUNTA DI VOCI (art. 2423 ter, comma 3°): Alle voci
elencate negli schemi legali, «devono essere aggiunte altre voci» qualora
il loro contenuto non sia compresa in alcuna di quelle previste dagli artt.
2424 e 2425.
D) ADATTAMENTO DELLE VOCI (art. 2423 ter, comma
4°): Le voci precedute da numeri arabi devono essere adattate quando lo
esiga la natura dell’attività esercitata;
E) VOCE CORRISPONDENTE ALL’ESERCIZIO
PRECEDENTE (art. 2423 ter, comma 5°): La comparazione tra il
bilancio dell’esercizio e quello dell’esercizio precedente viene agevolata
dall’obbligo di indicare, per ogni voce dello stato patrimoniale e del
248
conto economico, l’«importo» della voce corrispondente del’esercizio
precedente;
F) DIVIETO DI COMPENSAZIONE DI PARTITE (art. 2423
ter, ultimo comma): Il divieto di compensazione di partite, che però
non esclude che anche ai crediti delle società per azioni si applichi
l’istituto della compensazione (volontaria o legale) fra debiti e crediti
reciproci: se la società ha un credito di 100 verso il cliente X e ha un
debito di 30 verso lo stesso cliente, quando questi crediti si
compenseranno tra loro, residuerà solo un credito di 70 e solo questo
dovrà iscriversi in bilancio. («Sono vietati i compensi di partite»).
CHIAREZZA
La chiarezza è intesa come «evidenza», e non sempre è realizzata dal mero rispetto delle
norme ex artt. 2424, 2425 e 2427, con conseguente necessità, occorrendo, di andare al
di là dell’analiticità minima richiesta da queste norme. È prevista, altresì, la regola che il
bilancio deve essere redatto in unità di euro, senza cifre decimali, a eccezione della nota
integrativa, che può essere redatta in migliaia di euro.
VERITÀ
La verità è in primo luogo il rispetto dei criteri legali di valutazione indicati dal
legislatori e questa clausola impone ai redattori del bilancio il dovere di formulare, con
atteggiamento neutrale e oggettivo, le ipotesi sull’utilizzo dei futuri beni e di indagare
con diligenza sui dati di mercato rilevanti, di accertare i componenti che confluiscono
nella determinazione del costo.
CORRETTEZZA
Essa costituisce un’espressione del principio di buona fede in senso giuridico, e si
riconnette al principio di «chiarezza». La relatività della «rappresentazione veritiera e
corretta», propria del bilancio d’esercizio, trova il proprio limite nel dovere di diligente,
accurata e neutrale ricerca del valore più coerente al fine del bilancio e dei criteri
legalmente imposti: sì che, quando oggettivamente si esca dai limiti del «coerente» con
249
quel fine e con quei criteri, non si avrà più una rappresentazione veritiera, quale che sia
il convincimento soggettivo del redattore del bilancio. Il bilancio può considerarsi
economicamente corretto quando sono veri i valori certi, corretti quelli stimati e congrui
quelli congetturati.
Partiamo dal n.1, da cui sono desumibili tre principi: “La valutazione delle voci deve
essere fatta secondo prudenza e nella prospettiva della continuazione dell’attività,
nonché tenendo conto della funzione economica dell’elemento dell’attivo o del passivo
considerato”.
PRUDENZA
La valutazione delle voci di bilancio deve essere fatta secondo prudenza, quindi
fondata sul costo storico (o del valore di realizzo se inferiore al primo), anche se
questo principio non può essere il pretesto per la creazione di riserve occulte
mediante sottovalutazione di attività o sopravvalutazione di passività.
250
(Il n.2 dispone specificamente “Si possono indicare esclusivamente gli utili
realizzati alla data di chiusura dell’esercizio”). Il dies ad quem è costituito dalla data
di chiusura dell’esercizio.
COMPETENZA
Nella redazione del bilancio si deve tenere conto dei proventi e degli oneri di
competenza dell’esercizio (vale a dire, quelli di cui si è verificata la causa durante
l’esercizio) indipendentemente dalla data dell’incasso o del pagamento, nonché dei
rischi e delle perdite di competenza dell’esercizio, anche se conosciuti dopo la
chiusura dello stesso ma prima della redazione del bilancio → Il bilancio di
esercizio è un BILANCIO DI COMPETENZA e non di cassa, quindi i ricavi si
considerano realizzati quando il processo produttivo di beni e servizi è stato
completato e lo scambio è già avvenuto, cioè si è verificato il passaggio di proprietà,
quindi sono fatturabili.
251
integrativa e di illustrarne l’influenza sulla rappresentazione della situazione
patrimoniale e finanziaria e del risultato economico (art. 2423 bis, comma 2°).
Il penultimo comma dell’art. 2424 disciplina, infine, i cc.dd. conti d’ordine, e prescrive
che in calce allo stato patrimoniale – come si suol dire “sotto la linea”, in quanto non
incidenti sul risultato d’esercizio – devono risultare le garanzie prestate direttamente o
indirettamente, distinguendosi tra fideiussioni, avalli, altre garanzie personali e garanzie
reali, e indicando separatamente, per ciascun tipo, le garanzie prestate a favore di
imprese controllate e collegate, nonché di controllanti e di imprese sottoposte al
controllo di queste ultime.
252
V. LO SCHEMA DEL CONTO ECONOMICO (art. 2425)
Il conto economico, che rappresenta una «schematica rielaborazione riassuntiva del
libro giornale», indica i fatti e i movimenti economici di competenza dell’esercizio e ne
espone il risultato (un utile se i ricavi superano i costi, oppure una perdita se i costi
superano i ricavi). Deve essere redatto in conformità allo schema di cui all’art. 2425
(leggi articolo).
La determinazione dei costi e dei ricavi da iscrivere nelle singole voci deve essere
compiuta in base ai principi della competenza. Cioè, i ricavi da iscrivere in conto
economico non coincidono con gli incassi, e i costi non coincidono con gli esborsi.
La gestione ordinaria (A-B, Valore della produzione – Costi della produzione)
viene tenuta separata dalla gestione finanziaria (C), onde consentire al lettore del
bilancio di comprendere se il risultato dell’esercizio è frutto del favorevole andamento
dell’attività ordinaria o, invece, discende da operazioni finanziarie. Separati da proventi
e oneri finanziari vanno iscritte le rettifiche di valore delle attività finanziarie (D).
Esaurito anche il segmento della produzione di reddito da attività finanziaria devono
essere esposti distintamente i proventi e gli oneri straordinari (E).
In chiusura, il conto economico indica l’utile o la perdita dell’esercizio (n. 23 dello
schema) che va a determinare l’aumento o la riduzione del patrimonio netto rispetto a
quello del precedente esercizio → Il reddito netto dell’esercizio evidenzia di quanto è
aumentato il valore del patrimonio netto a seguito di una gestione economica, mentre,
per contro, la perdita di esercizio evidenzia di quanto il patrimonio netto dell’impresa
sia diminuito seguito di una gestione non economica.
253
il criterio principale, è solo uno dei criteri di valutazione previsti dal legislatore: vi sono,
infatti, altri criteri che possono sostituire quello del costo storico ogni volta che questo
non sia idoneo a determinare il valore da iscrivere in bilancio.
2) Indicazione dei movimenti nelle voci del patrimonio → Devono essere esposti i
movimenti intervenuti nelle immobilizzazioni (materiali, immateriali e finanziarie)
partendo dalla consistenza iniziale per giungere alla consistenza di fine esercizio. È fatto
obbligo, altresì, di evidenziare le variazioni intervenute nella consistenza delle voci
dell’attivo e del passivo.
254
e dei sindaci, le varie categorie di azioni, di obbligazioni e di altri titoli emessi dalla
società, i finanziamenti effettuati dai soci, ecc.
6) Con il d.lgs. 394/2003 è stata integrata la disciplina della nota integrativa con
l’inserimento nel codice civile dell’art. 2427 bis, rubricato “Informazioni relative al
valore equo «fair value» degli strumenti finanziari”. L’articolo stabilisce che nella nota
integrativa debbano essere indicati, per ciascuna categoria di strumenti finanziari
derivati: 1) Il loro fair value; 2) Informazioni sulla loro entità e la loro natura. La
sostituzione del criterio del «costo storico», non sempre idoneo a individuare l’effettivo
valore della gamma di strumenti finanziari, con il «fair value», ha la funzione di
avvicinare maggiormente i valori contabili delle attività e delle passività ai valori di
mercato, al fine di consentire agli investitori di disporre di informazioni sempre +
precise sull’effettivo valore economico dell’impresa.
255
prevede solo un numero minimo di voci, inferiore a quelle previste dagli artt. 2424 e
2425. In particolare:
- Le attività (e passività) devono essere classificate come «correnti» (a breve termine) o
«non correnti» (a lungo termine), vale a dire secondo un criterio di luquidità e non già
come immobilizzazioni e attivo circolante;
- Il conto economico può essere redatto, a scelta dell’impresa, con costi classificati per
natura o per destinazione.
256
1) Attività operativa → Attraverso la quale si realizza la cd. missione d’impresa, cioè
l’attività tipica;
2) Attività di investimento → Che riguarda gli acquisti o le vendite di
immobilizzazioni materiali, immateriali e finanziarie;
3) Attività finanziaria → Che concerne l’ottenimento o la restituzione di risorse
finanziarie sotto forma di capitale di rischio o di debito.
II) Il prospetto delle variazioni del patrimonio netto: «Le variazioni nel patrimonio
metto dell’entità tra la data di inizio e la data di chiusura dell’esercizio riflettono
l’aumento o la diminuzione del suo attivo netto durante l’esercizio… la variazione
complessiva del patrimonio netto durante l’esercizio rappresenta l’ammontare
complessivo dei proventi e degli oneri generati dalle attività durante quel periodo»
(IAS, par. 109)
↓
Significa che le variazioni patrimoniali verificatesi nell’esercizio, «derivanti da
operazioni con i propri soci, che agiscono in tale loro qualità e i costi delle operazioni
direttamente collegate a tali operazioni» vengono rilevati direttamente come poste del
patrimonio netto senza che risultino dal conto economico.
III) Le note al bilancio che corrispondono, solo parzialmente, alla nostra nota
integrativa, costituiscono un documento discorsivo e hanno la funzione di «offrire una
presentazione attendibile del bilancio, conformandosi con tutti gli IFRS applicabili».
Nelle note al bilancio trovano spiegazione quegli impegni che potrebbero produrre
effetti in tempi successivi, che secondo il codice civile vanno iscritti nei conti d’ordine,
istituto non previsto dai principi contabili internazionali.
257
+
Assume valore, inoltre, il principio della substance over form, inteso come prevalenza
della sostanza economica sulla forma giuridica delle operazioni, con conseguente
ridimensionamento del principio di «prudenza».
258
composizione del capitale social, le partecipazioni rilevanti al capitale sociale,
qualsiasi limitazione al trasferimento di titoli, ecc…) + per le società quotate è
prevista, altresì, un’articolata disciplina delle relazioni finanziarie, sia annuali
che intermedie, sulla gestione + per gli emittenti di azioni è prevista anche
«una relazione finanziaria trimestrale.
L’art. 2429 stabilisce che il collegio deve riferire all’assemblea, con apposita relazione
accompagnatoria al bilancio, «sull’attività svolta nell’adempimento dei propri doveri».
Dovendo i sindaci, nel corso dell’esercizio:
- «assistere alle adunanze del consiglio di amministrazione, alle assemblee e alle
riunioni del comitato esecutivo» (art. 2405);
- potendo «in qualsiasi momento procedere, anche individualmente, ad atti di ispezione
e controllo»;
- e chiedere «agli amministratori notizie… sull’andamento delle operazioni sociali e su
determinati affari» (art. 2403)
↓↓
Essi sono posti nelle condizioni di riferire all’assemblea sui risultati delle loro verifiche.
(dal momento che i compiti del collegio sindacale in relazione al bilancio sono
strettamente collegati al controllo sulla gestione, funzione precipua dell’organo).
Sotto altro profilo, la relazione del collegio sindacale dovrà incentrarsi sull’illustrazione
dei risultati dell’esercizio sociale, con osservazioni e proposte in ordine al bilancio. La
relazione si chiude con la proposta al collegio in ordine alla approvazione del bilancio.
{Art. 2409bis co.3 → Ove lo statuto abbia riservato al collegio sindacale, invece che al
revisore dei conti, anche il controllo contabile, sarà compito del collegio, nel corso
259
dell’esercizio, procedere periodicamente alle verifiche sulla tenuta della contabilità, e
quindi al controllo della correttezza dei saldi esposti in bilancio.
In assenza di previsione statutaria in tal senso, la revisione legale dei conti della società
è esercitata da un revisore legale dei conti o da una società di revisione legale iscritta
nell’apposito registro (soggetto esterno alla società)}
Nelle società quotate va ancora allegata una relazione sul bilancio, sottoscritta
congiuntamente dagli amministratori e dal dirigente preposto alla redazione dei
documenti contabili societari (denominato direttore finanziario, che è un vero e proprio
nuovo organo societario) → Le relazione congiunta attesta che: il bilancio è conforme
alle risultanze delle scritture contabili e ai principi contabili internazionali +
l’adeguatezza e l’effettiva applicazione delle procedure di formazione del bilancio + che
il bilancio fornisce una rappresentazione veritiera e corretta della situazione
patrimoniale, economica e finanziaria della società.
260
deve essere depositata a cura degli amministratori presso l’ufficio del registro delle
imprese o spedito al medesimo ufficio a mezzo lettera raccomandata.
Sempre entro 30 gg dall’approvazione del bilancio, le società non aventi azioni quotate
in mercati regolamentati sono tenute altresì a depositare per l’iscrizione nel registro
delle imprese l’elenco dei soci riferito alla data di pubblicazione del bilancio, con
l’indicazione del numero delle azioni possedute, nonché dei soggetti diversi dai soci
che siano titolari di diritti o beneficiari di vincoli sulle azioni medesime.
L’utile e le riserve
● Compete all’assemblea che approva il bilancio decidere, con ulteriore
deliberazione (art. 2433, comma 1°), sulla sorte degli utili eventualmente
maturati, sia procedendo alla distribuzione, come pure all’accantonamento in
un’ottica di autofinanziamento della società. (Nota: anche nelle società con
consiglio di sorveglianza, nelle quali l’approvazione del bilancio è di competenza di
questo organo, la delibera sulla distribuzione degli utili spetta all’assemblea).
L’UTILE PUO’ ESSERE DEFINITO COME L’INCREMENTO
PATRIMONIALE, VERIFICATOSI ATTRAVERSO LA GESTIONE DELLA
SOCIETÀ, RISPETTO AL CAPITALE SOCIALE.
A tutela del capitale sociale, la norma appena richiamata dispone che:
1) Non possono essere pagati dividendi sulle azioni, se non per utili realmente
conseguiti e risultanti dal bilancio regolarmente approvato;
2) Se si verifica una perdita del capitale sociale, non può darsi luogo a ripartizioni di
utili fino a che il capitale sociale non sia reintegrato o ridotto in misura
corrispondente;
3) Dagli utili annuali deve essere dedotta una somma corrispondente almeno alla
ventesima parte (5%) di essi per costituire una riserva (riserva legale), fino a che
questa non abbia raggiunto il quinto del capitale sociale (art. 2430, comma 1°).
↓
Lo scopo di questa norma è quello di creare, mediante un accantonamento
contabile di utili, una posta del patrimonio netto che, in aggiunta al capitale sociale,
vada a costituire una garanzia per i creditori sociali, ulteriore rispetto al capitale
sociale, dando vita a un autofinanziamento obbligatorio della società.
La norma fissa un limite minimo di accantonamento annuo (almeno il 5%). Questo
significa che tale misura può essere superata:
261
1) Qualora lo statuto preveda un maggiore accantonamento annuale;
2) Qualora l’assemblea dei soci, approvato il bilancio, decida di destinare a riserva
legale una maggiore percentuali di utili.
→→ La riserva legale non è distribuibile ai soci ed è utilizzabile per la copertura
delle perdite dopo che, a tale scopo, sono state utilizzate tutte le altre riserve
disponibili.
+
L’utile non distribuito e accantonato comporta la creazione in bilancio di una
riserva facoltativa (detta anche straordinaria), che può essere in ogni momento
distribuita ai soci mediante delibera dell’assemblea ordinaria, come pure utilizzata
per aumenti gratuiti del capitale sociale.
+
Lo statuto può, altresì, prevedere un terzo tipo di riserva, cd. riserve statutarie, in
aggiunta alla riserva legale: avendo il vincolo origine nello statuto, questo può
essere rimosso con delibera dell’assemblea straordinaria modificativa dello statuto,
con conseguente distribuzione ai soci delle somme corrispondenti.
+
Accanto alle riserve fin qui esaminate, che originano da utili dell’esercizio (riserve
da utili), sussiste una seconda categorie di riserve di patrimonio, che non
discendono dalla gestione, bensì da apporti esterni, quali la riserva di soprapprezzo.
(I dividendi)
● Quella parte di utili di cui l’assemblea ha deliberato la distribuzione assume il
nome di dividendo, che costituisce la remunerazione del capitale investito.
Ogni azione attribuisce il diritto a una parte proporzionale degli utili netti (art. 2350)
e il dividendo, oltre che cash, può anche essere distribuito sotto forma di nuove
azioni (stock dividend) + i dividendi erogati in violazione di legge non sono
ripetibili se i soci li hanno riscossi in buona fede in base a bilancio regolarmente
approvato da cui risultano utili netti corrispondenti (art. 2433, comma 4°).
La disponibilità di utili antecedentemente alla chiusura dell’esercizio, vale a dire la
distribuzione infra-annuale (acconti sui dividendi), in passato rimessa alla prassi,
attualmente è disciplinata dall’art. 2433 bis, secondo un’ottica di estrema prudenza.
- La distribuzione è consentita solo alle società il cui bilancio è assoggettato per
legge a revisione legale dei conti e deve essere prevista dallo statuto.
262
- È deliberata dagli amministratori (non quindi dall’assemblea) dopo il rilascio da
parte del soggetto incaricato di effettuare la revisione legale dei conti di un giudizio
positivo sul bilancio d’esercizio precedente e la sua approvazione;
- Non è consentita la distribuzione di acconti sui dividendi quando dall’ultimo
bilancio approvato risultino perdite relative all’esercizio o a esercizi precedenti;
- L’ammontare degli acconti sui dividendi non può superare la minor somma tra
l’importo degli utili conseguiti alla chiusura dell’esercizio precedente, diminuito
delle quote che dovranno essere destinate a riserva per l’obbligo legale o statutario,
e quello delle riserve disponibili;
- Gli amministratori deliberano la distribuzione di acconti sui dividendi sulla base di
un prospetto contabile e di una relazione, dai quali risulti che la situazione
patrimoniale, economica e finanziaria della società consente la distribuzione stessa.
263
■ In tema di legittimazione dell’impugnativa della delibera approvativa del bilancio,
v’è l’ulteriore previsione dell’art. 2434 bis, comma 2°, per la quale, se il soggetto
incaricato di effettuare la revisione legale dei conti ha emesso un giudizio privo di
rilievi, la sua impugnativa, sia per causa di annullabilità che di nullità, è riconosciuta
ai soci che rappresentino almeno il 5% del capitale sociale. Infine, nelle società
quotate l’impugnativa per mancata conformità del bilancio alle norme che ne
disciplinano i criteri di redazione può essere proposta in ogni caso anche dalla
Consob nel termine di 6 mesi dal deposito del bilancio presso l’ufficio del registro
delle imprese.
264
Dando attuazione alla VII direttiva CEE, il d.lgs. 127/1991 ha disciplinato il
bilancio consolidato, obbligatorio, in aggiunta al bilancio d’esercizio, «per le
società per azioni, in accomandita per azioni, e a responsabilità limitata che
controllano un’impresa», nonché per «gli enti di cui all’art. 2201 del codice civile, le
società cooperative e le mutue assicuratrici che controllano una società per azioni, in
accomandita per azioni o a responsabilità limitata» e, infine, le società personali
interamente partecipate da società di capitali, se previsto.
● La nozione di controllo, delineata dall’art. 2359 comma 1°, n. 1 e 2, presuppone a
sua volta l’esercizio di un’influenza dominante da parte di una società su un’altra
società, sia perché la prima disponga della maggioranza dei voti esercitati
nell’assemblea ordinaria della seconda, come pure nell’ipotesi in cui disponga di
voti sufficienti per esercitare tale influenza.
●Affinché trovino applicazione le norme sul bilancio consolidato, è sufficiente
peraltro che sussista un rapporto di controllo senza necessità cioè che l’influenza
dominante sfoci in una «direzione unitaria». Quest’ultima, propria dei gruppi,
presuppone non solo la disponibilità dei voti di cui si è detto, ma anche l’esercizio di
fatto di una direzione unitaria e controllata.
●Il bilancio consolidato, obbligatorio indipendentemente dal fatto che le società
siano o non siano quotate in borsa, concerne, allo stato della legislazione italiana,
soltanto le imprese collettive in forma societaria, con l’unica eccezione degli enti
pubblici di cui all’art. 2201 sopra richiamata → Non sono ricomprese tra i soggetti
obbligati a redigere il bilancio consolidato le imprese individuali + il richiamo ai
voti esercitabili induce altresì a circoscrivere l’applicazione della norma alle sole
società di capitali, con esclusione delle società di persone (a meno che non sia
previsto per società di persone interamente partecipate da società di capitali).
● La finalità precipua del bilancio consolidato è costituita dalla rappresentazione, a
opera della capogruppo, della situazione patrimoniale finanziaria e del risultato
economico del complesso delle imprese costituito dalla controllante e dalle
controllate, con una funzione, dunque, informativa sulla situazione complessiva del
gruppo, che viene considerato come un’unica impresa.
● Il bilancio consolidato si compone dello stato patrimoniale, del conto
economico e della nota integrativa e deve essere redatto secondo modalità
analoghe a quelle del bilancio di esercizio, anche per quanto concerne la redazione
in euro, integrate con i cc.dd. principi di consolidamento → questi presuppongono,
265
da un lato, l’inclusione integrale nel bilancio consolidato degli elementi dell’attivo e
del passivo, nonché dei proventi e degli oneri delle imprese ricomprese nel
consolidamento, dall’altro l’eliminazione a) delle partecipazioni in imprese incluse
nel consolidamento; b) dei crediti e dei debiti tra le imprese incluse nel
consolidamento; c) dei proventi e degli oneri relativi a operazioni effettuate tra le
imprese; d) degli utili e delle perdite conseguenti a operazioni effettuate tra tali
imprese e relative a valori compresi nel patrimonio.
● La data di riferimento del bilancio consolidato coincide con la data di chiusura del
bilancio dell’esercizio dell’impresa controllate.
● Il bilancio consolidato:
a) Deve essere redatto dagli amministratori, o approvato dal consiglio di
sorveglianza nel sistema dualistico, della società controllante;
b) Ha di regola, come termine di riferimento, la data di chiusura del bilancio
d’esercizio dell’impresa controllante;
c) È sottoposto al controllo dei sindaci e, ove l’impresa controllante sia sottoposta
al controllo della società di revisione, anche a quello di quest’ultima;
d) Deve essere depositato insieme al bilancio d’esercizio presso il registro delle
imprese.
e) Non è soggetto ad approvazione dell’assemblea.
266
2424) che ai criteri di valutazione (art. 2426). Idem per quanto concerne la terza
norma, relativa alla situazione patrimoniale in caso di scissione.
I libri indicati nei nn. 1,2,3,4,8 sono tenuti a cura degli amministratori o dei
componenti del consiglio di gestione; il n.5 a cura del collegio sindacale o consiglio
di sorveglianza o comitato per il controllo sulla gestione; il n.6 a cura del comitato
esecutivo; il n.7 a cura del rappresentante comune degli obbligazionisti.
267
VII. LA MODIFICA DELLO STATUTO
La competenza assembleare
Lo statuto, che ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 2328 è parte integrante
dell’atto costitutivo, può essere modificato dalla società nel corso della sua
esistenza.
268
Il notaio che redige, nella forma dell’atto pubblico, il verbale della relativa
assemblea, accerta l’adempimento delle condizioni di legge, ossia il rispetto
della normativa legale e statutaria (art. 2375) – dunque il controllo è successivo
rispetto alla delibera.
1) Se l’esito della verifica è positivo, nei 30 gg successivi alla riunione dei
soci, contestualmente al deposito della deliberazione, presso il registro
delle imprese, il notaio ne chiede l’iscrizione. Il registro delle imprese,
accertata la regolarità formale della documentazione, provvede
all’iscrizione;
2) Se il notaio, viceversa, rileva il mancato rispetto delle condizioni di legge,
ne informa non oltre i 30 gg gli amministratori. Questi ultimi, nei 30 gg
successivi, possono convocare a) l’assemblea per gli opportuni
provvedimenti ovvero b) ricorrere al tribunale – il quale, sentito il PM,
deve verificare l’adempimento delle condizioni richieste dalla legge. Solo
in tal caso ordina l’iscrizione della deliberazione nel registro delle imprese
– c) In mancanza, la delibera è definitivamente inefficace.
Il diritto di recesso
Le modificazioni dello statuto determinano un mutamento delle situazioni
soggettive dei soci acquisite in sede di costituzione della società. Esse, come
detto, possono realizzarsi con delibere pur sempre assunte dalla maggioranza dei
soci, che dunque incidono sulla minoranza di soci dissenzienti. Di qui, per alcune
modifiche ritenute dal legislatore più incisive sul contratto sociale, il
riconoscimento ai soci dissenzienti del diritto di recesso.
ART. 2437. Legittimano il recesso le delibere riguardanti (art. 2437):
1) La modifica dell’oggetto sociale quando essa «consente un cambiamento
significativo dell’attività svolta dalla società»;
2) La trasformazione della società, cioè il cambiamento del tipo sociale che
muti le basi essenziali della struttura organizzativa prescelta dal socio;
3) Il trasferimento della sede sociale all’estero;
269
4) La revoca dello stato di liquidazione (con la quale la società fa cessare il
procedimento di scioglimento e, con esso, la destinazione dell’eventuale
residuo attivo alla ripartizione tra i soci);
5) L’eliminazione di una o più cause di recesso derogabili o previste dallo
statuto;
6) La modifica dei criteri di determinazione del valore delle azioni in caso di
recesso (riferimento all’art. 2437-ter);
7) La modificazione dello statuto concernente i diritti di voto o di
partecipazione;
L’ultimo comma dell’art. 2437 prescrive la nullità di qualsiasi patto col quale si
escluda o si renda più gravoso l’esercizio del recesso nelle appena elencate
fattispecie.
Art. 2437 co.2 → Vi sono altre 2 vicende, che viceversa possono essere derogate
dallo statuto, che legittimano il recesso del socio, ossia le delibere riguardanti:
a) La proroga del termine della società;
b) L’introduzione o la rimozione dei vincoli alla circolazione delle azioni.
Anche queste cause sono caratterizzate da una modificazione peggiorativa
dell’interesse del socio, che aveva confidato su taluni elementi essenziali della
sua partecipazione alla società.
ART. 2437 bis. Per quel che riguarda i termini e le condizioni per l’esercizio
del diritto di recesso, questi sono regolati dall’art. 2437bis.
Comma 1°. La norma precisa che il socio è tenuto a comunicare la sua volontà di
recedere con lettera raccomandata – da spedire entro 15 gg dall’iscrizione nel
registro delle imprese della delibera che legittima il recesso – nella quale indica
le proprie generalità, nonché numero e categoria delle azioni per le quali esercita
il recesso.
Comma 2°. Le azioni oggetto del recesso non possono essere cedute e devono
restare depositate presso la sede sociale, al servizio verosimilmente degli altri
soci di rendersene acquirenti.
270
Comma 3°. «Il recesso non può essere esercitato e, se già esercitato, è privo di
efficacia, se entro 90 giorni, la società revoca la delibera che lo legittima ovvero
se è deliberato lo scioglimento della società».
ART. 2437 ter (“Il socio ha diritto alla liquidazione delle azioni per le quali
esercita il recesso”). Questo articolo contiene i criteri di determinazione del
valore delle azioni, la cui liquidazione costituisce l’oggetto del diritto del socio
recedente. Nelle società non quotate, tale valore è determinato dagli
amministratori, sentito il parere del collegio sindacale e del revisore legale dei
conti, alla luce della consistenza patrimoniale della società e delle sue
prospettive, nonché dell’eventuale valore di mercato delle azioni. La quota di
liquidazione delle azioni quotate in mercati regolamentati è invece determinata
con esclusivo riferimento alla media aritmetica dei prezzi di chiusura nei 6 mesi
che precedono la pubblicazione ovvero la ricezione dell’avviso di convocazione
dell’assemblea la cui deliberazione ha legittimato l’esercizio del recesso.
271
Qualora la società non disponga di utili e di riserve disponibili, gli amministratori
devono convocare l’assemblea per deliberare la riduzione del capitale ovvero lo
scioglimento della società (art. 2437 quater, comma 6°).
272
delle azioni ed integralmente l’eventuale soprapprezzo, anche se la delibera può
richiedere l’integrale versamento delle azioni sottoscritte.
273
concorso anche ai possessori di obbligazioni convertibili sulla base delle azioni
di cui diventerebbero titolari se esercitassero la conversione.
275
1. La riduzione reale del capitale (art. 2445) comporta la restituzione agli
azionisti (almeno parziale) dei conferimenti, ovvero li libera
dall’esecuzione di quelli residui. In tal caso, nell’avviso di convocazione
dell’assemblea straordinaria, gli amministratori dovranno indicare le
ragioni e le modalità della riduzione e la riduzione stessa dovrà,
ovviamente, rispettare il minimo di capitale prescritto dalla legge (art.
2327). La delibera di riduzione del capitale potrà essere eseguita solo
quando saranno decorsi almeno 90 gg dalla sua iscrizione nel registro
delle imprese, e sempre che i creditori sociali non abbiano proposto
opposizione davanti al tribunale. Tuttavia, se il tribunale ritiene
infondato il pericolo di pregiudizio nei confronti dei creditori, dispone
che la riduzione abbia luogo nonostante l’opposizione. Eseguita la
delibera di riduzione, le azioni in circolazione potranno essere sostituite
con altre aventi un valore nominale ridotto, o possono anche essere
riscattate e successivamente annullate dalla società.
X. I PATRIMONI DESTINATI
I patrimoni destinati a uno specifico affare identificano un’operazione che
permette di limitare ulteriormente il rischio di impresa, evitando alla costituzione
di tante società quanti sono gli affari: si utilizza invece il patrimonio della società
assegnandogli mirate destinazioni sulle quali si commisura il rischio di impresa.
La società, tramite la costituzione di un patrimonio destinato a uno specifico
affare, può articolare la propria responsabilità patrimoniale, creando masse
patrimoniali tra di loro distinte, cui corrispondono diverse classi di creditori.
La riforma ha previsto due tipologie di patrimoni dedicati: i patrimoni destinati e
i finanziamenti dei terzi. In particolare, l’art. 2447bis stabilisce che la società
può:
A)Costituire uno o più patrimoni, ciascuno dei quali destinato in via esclusiva a
uno specifico affare; vi è dunque una netta separazione di singoli cespiti rispetto
al patrimonio della società.
B)Convenire che, nel contratto relativo al finanziamento di uno specifico affare,
al rimborso totale o parziale del finanziamento medesimo siano destinati i
proventi dell’affare stesso, o parte di esso.
In entrambi i modelli si è in presenza di un fenomeno di separazione patrimoniale
e vi è l’esistenza di un vincolo di destinazione, con la differenza, però, che nel
caso indicato dall’art. 2447 bis a) la destinazione riguarda i beni compresi nel
patrimonio dell’impresa, mentre nell’ipotesi sub b) la destinazione concerne i
proventi derivanti dallo stesso contratto di finanziamento.
278
I PATRIMONI DESTINATI A UNO SPECIFICO AFFARE
Si ha patrimonio destinato a uno specifico affare quando la società isola una parte
del proprio patrimonio, destinandola alla realizzazione di uno specifico affare. Il
vantaggio del patrimonio destinato rispetto alla società unipersonale è
rappresentato dalla eliminazione dei costi di costituzione, mantenimento ed
estinzione che una società unipersonale, costituita per uno specifico affare,
comporterebbe. La costituzione del patrimonio destinato a uno specifico affare
comporta la individuazione di beni o comunque di una parte del patrimonio che,
per effetto della destinazione, cessa di costituire oggetto della garanzia
patrimoniale generica dei creditori, per divenire oggetto della garanzia
patrimoniale dei soli creditori delle obbligazioni poste in essere per intraprendere
e realizzare l’affare.
Quanto alla nozione di «specifico affare», secondo un’interpretazione restrittiva,
il termine indica una singola operazione, una precisa iniziativa economica
destinata al realizzarsi entro un lasso di tempo indicato.
La destinazione del patrimonio a uno specifico affare importa che:
1) delle obbligazioni contratte per realizzare lo specifico affare risponde solo
il patrimonio a esso destinato (art. 2447quinques, co.3);
2) il patrimonio destinato allo specifico affare e i frutti e i proventi da esso
derivanti non rispondono delle obbligazioni della società (art. 2447
quinques, co.1);
3) ogni atto compiuto in relazione allo specifico affare deve aver indicato
espressamente il vincolo di destinazione: in mancanza, diviene
direttamente responsabile la società, che ne risponde con il suo patrimonio
residuo.
4) i patrimoni destinati non possono essere formati per un valore
complessivamente superire al 10% del patrimonio netto della società;
5) la delibera che destina un patrimonio a uno specifico affare è adottata
dall’organo amministrativo a maggioranza assoluta dei suoi componenti,
salvo diversa indicazione dello statuto. Essa deve essere depositata e
iscritta presso il registro delle imprese;
279
6) l’art. 2447septies prevede che i beni e i rapporti compresi nei patrimoni
destinati siano distintamente indicati nello stato patrimoniale della società.
Inoltre gli amministratori hanno l’obbligo di redigere per ciascun
patrimonio destinato un separato rendiconto, da allegare al bilancio. È
fatto inoltre obbligo agli amministratori di illustrare nella nota integrativa
la tipologia di beni e rapporti giuridici compresi in ciascun patrimonio
destinato;
7) L’art. 2447octies prevede la formazione di un’assemblea speciale per
ciascuna categoria di strumenti finanziari emessi in relazione a specifici
affari: si applicano le norme relative all’assemblea degli obbligazionisti.
8) Quando si realizza o quando è divenuto impossibile l’affare cui è stato
destinato il patrimonio, gli amministratori redigono un rendiconto finale.
280
Al pari che nel patrimonio separato, anche nel finanziamento separato l’effetto
della separazione patrimoniale è duplice, e consiste:
1) Da un lato, nel fatto che «sui proventi, sui frutti di essi e sugli investimenti
eventualmente effettuati in attesa del rimborso al finanziatore, non sono
ammesse azioni da parte dei creditori sociali»;
2) Dall’altro lato, nel fatto che «delle obbligazioni nei confronti del
finanziatore risponde esclusivamente il patrimonio separato».
3) Infine, ricordiamo che anche per tale operazione è prevista la pubblicità
nel bilancio della società. Infatti la nota integrativa alle voci di bilancio
relativa ai proventi e ai beni coinvolti nell’operazione deve contenere
l’indicazione della destinazione dei proventi e dei vincoli relativi ai beni.
281
282
LA SOCIETÀ IN ACCOMANDITA
PER AZIONI
SPA e SAPA sono accomunate dalla divisione del capitale sociale in azioni, ma
diversificate dall’esistenza di due categorie di soci: gli accomandatari
(amministratori di diritto, che rispondono solidalmente e illimitatamente per le
obbligazioni sociali) e gli accomandanti (che rispondono nei limiti della quota
conferita e non possono amministrare la società).
283
● La revoca degli amministratori deve essere deliberata con le maggioranze
previste per le deliberazioni dell’assemblea straordinaria della SPA. Si ricorderà
che, invece, proprio nella società per azioni, la revoca dell’amministratore
avviene con le maggioranze proprie dell’assemblea ordinaria. Parimenti, con lo
stesso quorum della revoca, avviene anche la sostituzione dell’amministratore.
● Al servizio della stessa finalità, ossia la protezione del ruolo di socio
accomandatario, la prescrizione che impone l’approvazione delle modificazioni
dell’atto costitutivo con le maggioranze fissate per l’assemblea straordinaria nella
SPA, nonché l’approvazione di tutti i soci accomandatari.
● Infine, ricordiamo che l’accomandita per azioni può sciogliersi anche se
cessano dall’ufficio tutti gli amministratori (se nel termine di 180 giorni non si è
provveduto alla loro sostituzione): non si giustificherebbe, infatti, la
sopravvivenza in mancanza degli accomandatari, unici amministratori della
società.
● Infine, l’art. 2459 tiene conto della possibilità, anche per l’accomandita per
azioni, di articolare il sistema di amministrazione e controllo secondo il sistema
dualistico (consiglio di gestione e consiglio di sorveglianza). È precluso, invece,
il ricorso al sistema monastico (consiglio di amministrazione nel cui ambito
opera il comitato per il controllo sulla gestione): tale soluzione, infatti, sarebbe
incompatibile con la peculiarità della SAPA poiché dell’organo amministrativo
sono, necessariamente ed esclusivamente, componenti i soci accomandatari che
rispondono per le obbligazioni sociali. Di esse non potrebbero, invece,
rispondere, gli amministratori componenti del comitato per il controllo sulla
gestione che non amministrano, ma svolgono appunto solo funzioni di controllo.
284
LA SOCIETÀ A RESPONSABILITÀ
LIMITATA
La funzione della nuova SRL
Il regime normativo delle SRL è contenuto nel capo VII (artt. 2462-2483) del Titolo V
del libro V del codice civile, profondamente modificato dalla riforma del 2003.
Fino all’entrata in vigore della riforma, la SRL veniva considerata e disciplinata in
modo residuale, ossia alla stregua di una società minore rispetto alla SPA, e da questa
distinta fondamentalmente per 2 caratteri peculiari:
1) Per il differente importo del capitale minimo necessario per la costituzione della
società (20 mln di lire per la SRL vs 200 mln di lire per la SPA, ex art. 2474 – non più
vigente);
2) Per la differente natura del documento rappresentativo della partecipazione sociale,
stante il divieto contenuto nell’art. 2474 co. 2 – non più vigente – per il quale le quote
non possono essere rappresentate da azioni → Ergo, mentre l’azionista è titolare di una
o più azioni, il socio di una società a responsabilità limitata è titolare di una quota pari a
un determinato ammontare.
I CARATTERI MARCANTI
Ci sono 6 caratteri marcanti una SRL:
285
ad esempio, l’art. 2463 che, nel delineare il contenuto dell’atto costitutivo, al n.7
stabilisce che «contiene le norme relative al funzionamento della società,
indicando quelle concernenti l’amministrazione e la rappresentanza», facendo
così apparire normalmente suppletiva la normazione legale in tema di
organizzazione interna della società.
2) Secondo carattere è, appunto, la creazione di una società che, pur mantenendo i
caratteri propri di una società di capitali, ridimensiona il più classico carattere di
queste ultime – che vale peraltro a distinguere la società di persona dalla società
di capitali – e cioè l’elemento della organizzazione interna. Basti pensare all’art.
2475, che non permette più di scrivere che carattere delle società di capitali è
l’adozione del metodo collegiale anche nel funzionamento dell’organo
amministrativo – mentre tale carattere mancherebbe nella società di persona – la
norma, infatti, prevede che il modello di organizzazione resti quello corporativo,
tipico delle società di capitali, solo se l’atto costitutivo non adotta quello tipico
delle società di persone.
3) Il terzo carattere è la personalizzazione della SRL, tale locuzione dovendosi
intendere in un duplice senso: anzitutto, come valorizzazione del ruolo che la
persona del socio ha nella vita della società e, in secondo luogo, come
introduzione di regole finora riservate alle cc.dd. società di persone, come
vedremo meglio.
4) Il quarto carattere è un certo ibridismo nell’organizzazione interna. Pur
dovendosi ritenere tale organizzazione espressione del classico modello
corporativo, giacché fondata sulla terna di organi propri di questo modello, vi è
l’inserzione di elementi “personalistici” che ridimensionano, per esempio, il
ruolo dell’assemblea (ex art. 2479 la «deliberazione assembleare» non
rappresenta più il modo esclusivo di espressione della volontà della società, ma
diventa uno dei modi in cui tale volontà può formarsi; oppure, per restando
immutata la figura dell’amministratore, può non esserci, come vedremo meglio,
un consiglio di amministrazione, con la conseguenza che potranno subentrare i
sistemi di amministrazione propri delle società personali;
5) Il quinto carattere lo si può ritrovare nel mantenimento dell’imperatività delle
regole, e quindi in nessuno spazio concesso all’autonomia statutaria, in alcuni
comparti, soprattutto quelli in cui accanto agli interessi dei soci sono rilevanti gli
interessi dei terzi, come ad esempio le modificazioni dell’atto costitutivo con
286
particolare riguardo alle modificazioni del capitale sociale: «Le modificazioni
dell’atto costitutivo sono deliberate dall’assemblea dei soci a norma dell’art.
2479 bis. Il verbale è redatto dal notaio e si applica l’art. 2436».
6) Il sesto carattere risiede nella complessa e nuova disciplina relativa alle
modificazioni del capitale sociale.
LA FATTISPECIE COSTITUTIVA
287
condizione prevista dal n.2), in quanto alla SRL risultano inapplicabili gli artt.
2342/2343, perché la materia ivi regolata riceve autonoma regolamentazione per la
SRL nell’art. 2464 → di conseguenza si applicheranno il 3° comma di quest’ultima
norma al posto dell’art. 2342 e il 4° comma al posto dell’art. 2343, come vedremo
meglio dopo]
Ciò premesso, esaminiamo ogni singolo che compone l’atto costitutivo ai sensi
dell’art. 2463:
1. I soggetti
L’atto costitutivo deve indicare il cognome o la denominazione, la data e il luogo di
nascita o di costituzione, il domicilio o la sede, la cittadinanza di ciascun socio.
L’essenzialità dell’elemento, una costante di tutte le norme regolanti l’atto
costitutivo, è in re ipsa, dal momento che non esisterebbe un contratto che non
contenesse le indicazioni utili all’identificazione dei contraenti.
288
a una funzione di identificazione del soggetto. L’unica regola per la formazione
della denominazione è quella relativa alla inclusione in essa dell’indicazione del
rapporto sociale, a conferma del principio di verità che vige, in forza dell’art. 2563,
per la formazione della ditta dell’imprenditore individuale.
Sede della società → Per sede legale della società deve intendersi quella risultante
dall’atto costitutivo e dallo statuto, e nella quale si trovano di norma gli organi che
hanno la rappresentanza dell’ente e la capacità di obbligarlo. Può comunque darsi
che la sede legale non coincida con la sede reale della società, che è quella dove,
secondo l’opinione comune, c’è il centro effettivo di direzione e svolgimento
dell’attività sociale. In questo caso, l’opinione dominante propende per la
prevalenza della sede reale su quella legale, almeno ai fini dell’applicazione della
disciplina fallimentare e per l’individuazione del giudice territorialmente
competente.
La riforma ha apportato una novità, stabilendo che all’atto costitutivo debba
indicarsi solo il Comune dove sono poste la sede della società e le eventuali sedi
secondarie, e mancando discipline normative apposite, si può dire che per aversi
sede secondaria occorrono: a) un rapporto di dipendenza economica e organizzativa
con la sede principale; b) uno stabile apprestamento di mezzi destinato allo
svolgimento dell’attività sociale e un rappresentante stabile della società; c) un
autonomo ambito di affari, che giustifichi la legittimazione sostanziale e processuale
del rappresentante.
3. Oggetto sociale
Elemento indicato al n.3) dell’art. 2463 è l’attività che costituisce l’oggetto sociale.
Esso, assieme al capitale sociale, è una delle indicazioni più importanti: da un lato,
deve consistere necessariamente in un’attività economica e, dall’altro, deve
possedere i requisiti che l’art. 1346 richiede per ogni tipo di contratto: liceità,
possibilità, determinatezza o determinabilità. Ed è con riferimento a quest’ultimo
requisito che va ribadita la mancata corrispondenza alle prescrizioni normative di
quei contratti che enunciano l’oggetto sociale in modo da non consentirne
un’effettiva individuazione (oggetto generico) o contengono l’indicazione di più
attività merceologicamente distinte e nemmeno complementari tra loro (oggetto
plurimo).
289
4. Capitale sociale. Rinvio
Ricordato che il capitale sociale 1) È la somma dei conferimenti dei soci valutati in
denaro; 2) Che nella SRL esso non può essere di ammontare inferiore a diecimila
euro e 3) che nell’atto costitutivo deve essere indicato il capitale sottoscritto e
versato,va ribadito che quasi tutta la Sezione V, dedicata alle modificazioni
dell’atto costitutivo, contiene in realtà la disciplina delle variazioni del capitale
sociale. Ne parleremo meglio in seguito.
290
una perizia giurata, l’esperto incaricato di redigerla – revisore legale o
società di revisione legale – non deve essere più nominato dal presidente
del tribunale; peraltro, non è previsto l’obbligo degli amministratori di
procedere alla revisione della stima; d2) Un inserimento di elemento
proprio delle società personali è contenuto nel 5° comma dell’art. 2464,
che estende ai conferimenti delle SRL la disciplina dettata dagli artt.
2254 (la garanzia dovuta dal socio e il passaggio dei rischi per le cose
conferite in proprietà sono regolate dalle norme sulla vendita e per le
cose conferite in godimento dalle norme sulla locazione) e 2255 (il socio
che ha conferito un credito risponde della insolvenza del debitore nei
limiti indicati dall’art. 1267 per il caso di assunzione convenzionale della
garanzia); d3) Come prima ricordato, per i conferimenti d’opera o di
servizi il comma 6° dell’art. 2464 stabilisce che il conferimento può
avvenire mediante la prestazione di una polizza di assicurazione o di una
fideiussione bancaria con cui vengono garantiti per l’intero valore gli
obblighi assunti dal socio; d4) Qualora il socio non esegua il
conferimento nel termine prescritto, l’art. 2466 contiene un’escalation di
provvedimenti adottabili dalla società nei confronti del socio moroso, a
cominciare dalla diffida ad adempiere nel termine di 30 gg, per
continuare con la possibilità di promuovere un’azione per l’esecuzione
forzata dei conferimenti e per finire con la possibilità di vendere le
partecipazioni agli altri soci in proporzione alle loro partecipazioni e, in
assenza di offerte, alla vendita all’incanto.
291
la novità sta proprio nell’ampiezza di tale possibilità: al criterio della proporzionalità
si può eccettuare sia nel rapporto tra conferimento e partecipazione, nel senso che la
misura delle partecipazioni può essere determinata in modo non proporzionale al
conferimento (art. ex art. 2468 co.2, fine), sia nel rapporto tra conferimento e diritti
dei soci, nel senso che l’atto costitutivo può prevedere «l’attribuzione a singoli soci
di particolari diritti riguardanti l’amministrazione della società o la distribuzione
degli utili» (art. 2468, co.3), con il limite del divieto del patto leonino (art.2265);
6b) L’art. 2468 co.4 prevede che, salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo e
con esclusione del diritto di recesso, «i diritti previsti dal precedente comma»
possono essere modificati solo con il consenso di tutti i soci;
6c) L’art. 2469 della la regola della libera trasferibilità delle partecipazioni, sia per
atto tra vivi che mortis causa, salvo contraria disposizione dell’atto costitutivo; a
seguito delle modifiche introdotte tra 2008 e 2009, che hanno eliminato il libro dei
soci, il trasferimento ha effetto nei confronti della società dal momento del deposito
nel registro delle imprese;
6d) L’art. 2471 disciplina l’espropriazione, affermando anzitutto l’espropriabilità
della quota, e poi precisando che il pignoramento si esegue mediante notificazione
al debitore e alla società e successiva iscrizione nel registro delle imprese;
6e) La partecipazione può formare oggetto di pegno, usufrutto e sequestro, con
applicazione dell’art. 2352 dettato per le SPA.
292
hanno compiuto operazioni sociali prima dell’iscrizione dell’atto costitutivo (art.
2331, co.2), mentre solo al compimento della fattispecie – ISCRIZIONE DELLA
SOCIETÀ NEL REGISTRO DELLE IMPRESE – si produce l’effetto finale: la
nascita della società ex art. 2331 co.1, a mente del quale «con l’iscrizione nel
registro delle imprese, la società acquista personalità giuridica».
Ricordiamo, ancora una volta, che tra gli articoli mutuali dalla disciplina della SPA,
la normazione della SRL prevede anche l’applicazione dell’art. 2332, sulla nullità
della società.
L’ORGANIZZAZIONE INTERNA
293
5. L’adozione del metodo collegiale e, conseguentemente la necessità di convocare
l’assemblea per l’adozione di una deliberazione assembleare, è indicata dal
legislatore se l’atto costitutivo non dispone diversamente, ed è cmq obbligatoria
nei seguenti casi: a) quando si tratti di decisioni aventi a oggetto le «modifiche
dell’atto costitutivo» (art. 2479, co.2, n.4), il compimento di «operazioni che
comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale determinato
nell’atto costitutivo» o «una rilevante modificazione dei diritti dei soci» (art.
2479, co.2 n.5); b)quando ne è fatta espressa richiesta da uno o più
amministratori o da un numero di soci rappresentanti almeno un terzo del
capitale sociale (art. 2479 co.4);
6. Nell’ipotesi in cui venga adottato il metodo assembleare valgono le regole
seguenti: a) l’assemblea deve essere convocata con le modalità richieste nell’atto
costitutivo; b) la riunione deve svolgersi presso la sede sociale, salvo diversa
disposizione dell’atto costitutivo, ed è presieduta dalla persona indicata dall’atto
costitutivo o designata dagli intervenuti; c) l’assemblea è regolarmente costituita
con la presenza di almeno la metà del capitale sociale e delibera a maggioranza
assoluta dei presenti, salvo nel caso di modificazioni dell’atto costitutivo o
compimento di operazioni sociali che comportano una sostanziale modificazione
dell’oggetto sociale o una rilevante modificazione dei diritti dei soci, per le quali
occorre un quorum deliberativo di una maggioranza pari ad almeno la metà del
capitale sociale.
294
voto determinante del socio che abbia per conto proprio o di terzi un interesse in
conflitto con la società (commi 1 e 2);
REGOLA N.2 → Entro 3 anni dalla loro trascrizione nel libro delle decisioni dei soci,
possono essere impugnate da chiunque vi abbia interesse le decisioni aventi oggetto
illecito o impossibile, nonché «quelle prese in assenza assoluta di informazione»
(comma 3);
REGOLA N.3 → Senza limiti di tempo possono essere impugnate «le deliberazioni che
modificano l’oggetto sociale prevedendo attività impossibili o illecite» (comma 3).
REGOLA N.4 → Il procedimento per ottenere l’annullamento è quello previsto per le
SPA dall’art. 2378, già visto.
Il legislatore, poi, ha previsto una serie ulteriore di regole che potessero salvaguardare i
diritti dei terzi: 1) Ha, in via generale, sancito che l’annullamento della deliberazione
può essere evitato attraverso la sostituzione della delibera impugnata con altra presa in
conformità della legge o dello statuto; 2) ha poi stabilito che l’impugnativa non è
proponibile nei confronti delle deliberazioni di approvazione del bilancio dopo che è
avvenuta l’approvazione del bilancio dell’esercizio successivo; 3) ha negato la
legittimazione all’impugnativa a chi, pur non avendo ricevuto la convocazione, ha
«dichiarato il suo assenso allo svolgimento dell’assemblea»; 4) ha ipotizzato una sorta
di sanatoria per la mancata verbalizzazione, disponendo che tale lacuna può essere
colmata redigendo il verbale «prima dell’assemblea successiva».
295
metodo, che le decisioni siano adottate al di fuori di un contesto «formale» o
collegiale – mediante, ricordiamo, o consultazione scritta o consenso espresso
per iscritto.
3. L’atto costitutivo può, in alternativa, adottare uno dei due sistemi ipotizzati dal
legislatore per le società di persone, e cioè quello disgiuntivo (disciplinato
dall’art. 2257) ovvero quello congiuntivo (previsto dall’art. 2258).
4. La versione originaria dell’ultimo comma dell’art. 2475, a tenore del quale «la
redazione del progetto di bilancio e dei progetti di fusione e scissione, nonché le
decisioni di aumento del capitale ex art. 2481 sono in ogni caso competenza del
consiglio di amministrazione» aveva suscitato forti perplessità, dal momento che
il 3° comma della stessa norma disponeva che «l’atto costitutivo può tuttavia
prevedere, salvo quanto disposto dall’ultimo comma del presente articolo,
l’adozione di sistemi di amministrazione tipici delle società di persone». Messi a
confronto i due commi si veniva sfiorati dal dubbio che la possibilità per ultimo
adombrata fosse puramente virtuale. Motivo per il quale, con un decreto del
2003 la locuzione «consiglio di amministrazione» contenuta nell’ultimo comma
è stata sostituita dalla più neutra espressione «organo amministrativo».
5. In ordine alla rappresentanza, il comma 1° dell’art. 2475bis enuncia la regola
secca in base alla quale «gli amministratori hanno la rappresentanza generale
della società» mentre dall’art. 2475 ter viene usata un’espressione –
amministratori che hanno la rappresentanza della società – che consente di
desumere che vi possano essere amministratori che non hanno la rappresentanza.
Per quanto concerne la responsabilità verso la società, viene ripetuta la regola per cui
gli amministratori sociali sono solidalmente responsabili verso la società per i danni
derivanti dall’inosservanza dei doveri loro imposti dalla legge e dall’atto costitutivo
(art. 2476 comma 1, inizio). Il comma 3° dispone che la legittimazione a promuovere
l’azione è concessa a ciascun socio, il comma 4° stabilisce che, in caso di esperimento
vittorioso dell’azione, incombe sulla società l’obbligo di rimborsare agli attori le spese
296
di giudizio e quelle da essi sostenute per l’accertamento dei fatti, salvo il regresso nei
confronti degli amministratori e il comma 5° ammette la rinuncia all’azione e la
transazione dell’azione, ma con due novità: a condizione che l’atto costitutivo non lo
vieti e a condizione che le proposte relative siano approvate da parte dei soci
rappresentati i 2/3 del capitale sociale, purché non venga proposta opposizione da tanti
soci che rappresentino 1/10 del capitale sociale.
Per quanto riguarda la responsabilità degli amministratori verso i soci e i terzi uti
singuli, viene ripetuta grossomodo la norma contenuta nell’art. 2395, dettato in tema di
società per azioni (art. 2476, co.6).
Infine, assai controverso è se gli amministratori rispondano anche nei confronti dei
creditori sociali, come accade nelle altre società di capitali ai sensi dell’art. 2394.
297
Anche a prescindere dalle condizioni appena esposte, è sempre consentito ai soci
prevedere nell’atto costitutivo la presenza di tale organo di controllo o di un revisore,
determinandone competenze e poteri.
2) A cura degli amministratori, il libro delle decisioni dei soci, nel quale devono
essere trascritte sia le deliberazioni, sia le decisioni adottate mediante
consultazione scritta o sulla base di un consenso espresso per iscritto;
298
4) Il libro delle decisioni del collegio sindacale, a cura del collegio sindacale.
LA PARTECIPAZIONE SOCIALE
Essendo quello di partecipazione sociale concetto di contenuto costante per tutti i tipi
di società, non si ritiene opportuno trattarne a parte in questa sede, se non per ribadire
che nelle SRL risalta in modo non contestabile il carattere unitario della partecipazione.
Obbligo unico del socio è quello del conferimento.
Più interessante, invece, è concentrarsi sulle peculiarità dei diritti dei soci, cui il decreto
di riforma dà una nuova veste. Partiamo da due innovazioni:
I) Abbiamo una esaltazione in questo campo dell’autonomia statutaria dei soci, che
trova la sua consacrazione nelle norme di cui al n.7 dell’art. 2463 e nell’art. 2468.
1a) La prima norma concede all’autonomia dei soci di modellare, entro certi
limiti, l’organizzazione interna della società.
2a) La seconda norma fissa alcuni principi.
A) Anzitutto, un criterio generale incontestabile, ossia che i diritti
sociali spettano ai soci in misura proporzionale alla partecipazione da
essi posseduta e, sempre che l’atto costitutivo non disponga
diversamente, le partecipazioni dei soci sono determinate in misura
proporzionale ai conferimenti. B) In secondo luogo, in principio del
comma 3° viene stabilito che l’atto costitutivo può prevedere
l’attribuzione ai singoli soci di particolari diritti riguardanti
l’amministrazione della società o la distribuzione degli utili;
C) Terzo principio, nuovo, è quello fissato dall’art. 2482 quater, a tenore
del quale in tutti i casi di riduzione del capitale per perdite «è esclusa
ogni modificazione delle quote di partecipazione e dei diritti spettanti ai
soci»;
II) Seconda innovazione, dipendente dalla prima, è un mutamento significativo del
contenuto e del modo d’essere dei più importanti diritti tradizionalmente concessi ai
soci stessi.
Se si volesse fare una rapida elencazione dei diritti dei soci, la si potrebbe proporre nel
modo seguente:
299
1) Il diritto di intervenire alle riunioni dell’assemblea (sospeso per il socio moroso);
2) Il diritto di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso per le decisioni
prese al di fuori del contesto assembleare e il proprio voto per le deliberazioni
(art. 2479bis), ambedue non esercitabili per il socio moroso;
3) Il diritto di convertire in danaro, in ogni momento, il conferimento effettuato
attraverso la stipula di una polizza assicurativa o di una fideiussione bancaria;
4) Il diritto di recedere dalla società;
5) Il diritto di promuovere l’azione di responsabilità nei confronti degli
amministratori;
6) Il diritto di impugnativa delle deliberazioni invalide ai sensi dei commi 2° e 3°
dell’art. 2479ter;
7) Il diritto di sottoscrivere l’aumento del capitale sociale mediante nuovi
conferimenti;
8) Il diritto agli utili e alla quota di liquidazione;
9) Limitatamente ai soci che non partecipano all’amministrazione, il diritti di avere
dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare
i libri sociali e documenti relativi all’amministrazione.
300
dal momento che prima la delega agli amministratori era consentita solo per le
SPA.
301
liberazioni dei soci dall’obbligo di versamenti ancora dovuto. La delibera
dell’assemblea può essere eseguita dopo che siano trascorsi 90 giorni dal giorno
della sua iscrizione nel registro delle imprese.
2b) Riduzione per perdite. La riduzione per perdite trova la sua disciplina in
due norme che hanno in comune l’elemento base: la delibera di riduzione deve
essere obbligatoriamente adottata quando il capitale sociale è diminuito di oltre
un terzo in conseguenza di perdite. In presenza della perdita, la legge prevede
due situazioni:
● Una prima (art. 2482bis), nella quale la perdita ha prodotto la diminuzione
del capitale di oltre un terzo, senza tuttavia portarlo al di sotto del limite
stabilito dalla legge. In questo caso, gli amministratori devono convocare
l’assemblea cui devono sottoporre una situazione patrimoniale della società,
corredata dalle osservazioni del collegio sindacale o del soggetto incaricato
della revisione legale dei conti. La legge lascia alla società un anno per il
recupero spontaneo della perdita, ma se entro l’esercizio successivo la
perdita non risulta diminuita a meno di un terzo, l’assemblea convocata per
l’approvazione del bilancio deve ridurre il capitale in proporzione delle
perdite accertate (altrimenti provvede il tribunale).
● Una seconda (art. 2482ter), nella quale la perdita ha provocato anche la
discesa del capitale al di sotto del minimo legale. In questo caso
l’assemblea, convocata senza indugio, dagli amministratori, deve – se vuole
evitare lo scioglimento – deliberare la riduzione del capitale e la sua
reintegrazione a una cifra non inferiore al minimo legale, ovvero, se
preferisce, la trasformazione della società in un tipo legale la cui disciplina
non richiede la ricorrenza di quei requisiti per cui la riduzione è stata
obbligatoriamente disposta.
302
definisce finanziamenti dei soci a favore della società quelli, in qualsiasi
forma effettuati, che sono stati concessi in un momento di difficoltà economica e
finanziaria della società stessa e specificamente quando risulta un eccessivo
squilibrio dell’indebitamento della società rispetto al proprio patrimonio netto,
ovvero quando “sarebbe stato ragionevole un conferimento”. Vengono sancite
due regole: quello della postergazione del rimborso del finanziamento rispetto
alla soddisfazione degli altri creditori e quella per la quale il rimborso deve
essere restituito se è avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di
fallimento.
3. IL BILANCIO
L’art. 2478bis è una norma che, per quanto concerne la SRL, mutua
completamente l’omologa disciplina dettata per le società per azioni, per cui “il
bilancio deve essere redatto con l’osservanza degli articoli” da 2423 a 2431,
“salvo quanto disposto dall’art. 2435bis”, differenziandosene solo perché nella
parte finale del 1° comma si dispone che il bilancio è presentato ai soci entro il
termine stabilito dall’atto costitutivo e cmq non superiore a 120 giorni dalla
chiusura dell’esercizio sociale, e nel comma 2° si dispone altresì che entro 30
giorni dall’approvazione deve essere depositata presso l’ufficio del registro delle
imprese copia del bilancio approvato.
303
LA CESSAZIONE DELLO STATUS DI SOCIO
Trattando l’argomento con riferimento alle società di capitali prima della riforma, si
sarebbe detto che, fatta salva la cessione della partecipazione, l’exit del socio poteva
avvenire solo in seguito a recesso dalla società, e tale è rimasto per le SPA. Per le SRL,
invece, al recesso si aggiunge oggi l’esclusione.
1. Il recesso
Il provvedimento di riforma ha notevolmente ampliato per il socio le possibilità
di recesso, e anche in questo caso l’autonomia dei soci la fa da padrona, dal
momento che l’atto costitutivo “determina quando il socio può recedere dalla
società e le relative modalità.
La prima fonte dei casi di recesso è quindi lo statuto, mentre la seconda è la
legge, segnatamente l’art. 2473, che amplia in modo corposo il numero di casi in
cui il recesso può essere esercitato:
304
esercita attività di direzione e coordinamento ex art. 2497; c) quando, all’inizio o
alla cessazione dell’attività di direzione e coordinamento, e non trattandosi di
società con azioni quotate, ne derivi un’alterazione delle condizioni d rischio
dell’investimento.
1e) C’è infine un’altra causa di recesso, non contenuta nel nel d.lsg. 6/2003,
bensì nel decreto di modifica delle norme procedurali (d.lsg. 5/2003), al cui art.
34 stabilisce che «le modifiche dell’atto costitutivo, introduttive o oppressive di
clausole compromissorie, devono essere approvate dai soci che rappresentano
almeno i 2/3 del capitale sociale. I soci assenti o dissenzienti, entro i successivi
90gg, esercitare il diritto di recesso». Il socio che recede ha diritto di ottenere il
rimborso della propria partecipazione entro 6 mesi dalla comunicazione del
recesso alla società.
2. L’esclusione
È previsto un solo caso legale di esclusione: a norma del comma 3° dell’art.
2466, deve essere escluso il socio moroso quando sono falliti i tentativi di
vendita della quota.
Ampio è lo spazio lasciato, invece, all’autonomia privata: l’art. 2473bis
stabilisce che l’atto costitutivo può prevedere specifiche ipotesi di esclusione per
giusta causa e che in tal caso si applicano le disposizioni previste per l’esercizio
del diritto di recesso, esclusa la possibilità del rimborso della partecipazione
mediante riduzione del capitale sociale (contrariamente a quanto dispone, per il
recesso, l’art. 2473.
305
Anche la SRL semplificata deve avere un atto costitutivo che deve indicare:
1)Cognome, nome, luogo e data di nascita, domicilio e cittadinanza di ciascun socio; 2)
La denominazione sociale contenente l’indicazione di “Società semplificata a
responsabilità limitata”; 3) L’ammontare del capitale sociale pari ad almeno 1 euro e
inferiore all’importo di 10.000 euro. È previsto che il conferimento debba farsi in
denaro; 4) L’oggetto sociale ex art. 2463 n3, le quote di partecipazione di ciascun socio,
le norme relative al funzionamento della società, le persone cui è affidata
l’amministrazione e l’eventuale soggetto incaricato di effettuare la revisione legale dei
conti; 5) Luogo e data della sottoscrizione.
È attribuito al Consiglio nazionale del notariato il compito di vigilare sulla corretta e
tempestiva applicazione delle norme in materia di SRL semplificata da parte dei singoli
notai.
306
LE SOCIETÀ CON AZIONI
QUOTATE
Il titolo di questo capitolo allude alle società italiane, i cui titoli sono ammessi alla
negoziazione sul mercato regolamentato italiano. È bene tenere presente che il TU
distingue varie categorie di emittenti quotate:
1) Emittenti quotati = “Soggetti italiani o esteri che emettono strumenti finanziari
quotati nei mercati regolamentati italiani”; soggetti, questi, che sono individuati
con esclusivo riferimento al mercato nel quale sono quotati, a nulla rilevando lo
Stato di origine dell’emittente;
2) Il TU contempla poi una seconda categoria di soggetti, “gli emittenti quotati
aventi l’Italia come stato membro di origine”, che comprendono: a)Gli emittenti
azioni ammessi alle negoziazioni in mercati regolamentati italiani o di altro
Stato membro dell’UE, aventi sede in Italia; b)Gli emittenti titoli di debito di
valore nominale inferiore a 1000 euro, ammessi alle negoziazioni in mercati
regolamentati italiani o di altro Stato membro dell’UE, aventi sede in Italia.
307
Incontreremo, perciò, norme applicabili alle sole società italiane quotate in un
mercato regolamentato italiano e norme applicabili a società italiane non quotate in
un mercato regolamentato italiano ma solo in un mercato regolamentato in altro
Stato membro.
308
superamento delle soglie percentuali del 2,5,10 e successivi multipli di 5, fino al 50%,
nonché le riduzioni di partecipazioni entro le medesime soglie. La comunicazione delle
partecipazioni è effettuata “senza indugio e comunque non oltre i 5 giorni decorrenti
dall’operazione idonea a determinare il sorgere dell’obbligo”. Inoltre, la comunicazione
delle partecipazioni rilevanti e relative variazioni non viene effettuata solo nei confronti
della società quotata e della Consob, ma sia a opera della prima che tramite la seconda,
viene diffusa al mercato.
Secondo il Regolamento Emittenti “La Consob pubblica in luogo degli emittenti azioni
quotate, le informazioni acquisite entro i 3 giorni di negoziazione successiva al
ricevimento della comunicazione”,e trasmette la medesima informazione alla società di
gestione del mercato, che provvede a renderla pubblica. (Nota: in caso di omessa
comunicazione, il legislatore ha previsto, oltre a una sanzione amministrativa, anche una
sanzione civile: la sospensione del diritto di voto “inerente alle azioni quotate o agli
strumenti finanziari per i quali sono state omesse le comunicazioni”.
Vi sono invece vincoli per l’acquisizione di partecipazioni reciproche quando anche una
sola delle società coinvolte sia una società avente l’Italia come stato membro d’origine
con azioni quotate in un mercato regolamentato italiano di altro stato membro della
Comunità Europea (società quotata): ciò va ascritto alla necessitò di assicurare una
circolazione dei diritti proprietari delle società che si rivolgono al pubblico risparmio,
309
impedendo che il governo di queste società, attraverso le partecipazioni reciproche, sia
sottratto al mercato.
310
I PATTI PARASOCIALI
Il Testo Unico prende in considerazioni i patti, in qualunque forma stipulati, “aventi
per oggetto l’esercizio del diritto di voto nelle società quotate e nelle società che le
controllano” (art. 122 co.1), nonché quelli:
1)Che istituiscono obblighi di preventiva consultazione per l’esercizio del diritto di
voto;
2)Che pongono limiti al trasferimento delle relative azioni o di strumenti finanziari
che attribuiscono diritti di acquisto o sottoscrizione delle stesse;
3)Che prevedono l’acquisto delle azioni o degli strumenti finanziari di cui al n.2;
4)Aventi per oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di un’influenza
dominante su tali società;
5)Volti a favorire o contrastare il conseguimento degli obiettivi di un’offerta
pubblica di acquisto o di scambio.
Questi patti assumono rilievo solo se riguardano le società con azioni quotate e le
società che le controllano.
Vediamo più da vicino le varie ipotesi prese in considerazione dalla norma:
PATTI DI VOTO
Nella nozione di “Patti aventi per oggetto l’esercizio del diritto di voto” dovrebbero
rientrare tutte e soltanto le convenzioni che abbiano per oggetto il diritto di voto, e
che introducano una qualsiasi deroga a quanto previsto dalla legge o dallo statuto in
ordine alla sua titolarità o modalità di esercizio. Quindi non vi rientrano, per
esempio, le convenzioni che abbiano per oggetto il trasferimento di un’azione o la
costituzione di diritti reali sulla stessa, dal momento che in queste ipotesi la
modifica della titolarità o delle regole relative al voto non sono che la conseguenza,
prevista ex lege, delle modificazioni di altre situazioni giuridiche afferenti l’azione.
Nell’ambito dei patti di voto rilevanti rientrano, invece, sia i patti che vincolano a
esercitare il diritto di voto secondo modalità diverse da quelle previste dalla legge o
dallo statuto, sa quelli che trasferiscono la titolarità del diritto di voto a soggetti
diversi da quelli cui la legge, o lo statuto, lo attribuiscono.
PATTI DI CONSULTAZIONE
311
I patti di consultazione sono patti che prevedono obblighi di preventiva
consultazione per l’esercizio del diritto di voto, ma che non impongono vincoli al
diritto di voto in assemblea. Da questo novero vanno esclusi quelli che prevedono
una facoltà di consultazione, ma non fanno di quest’ultima l’oggetto di un
comportamento dovuto.
SINDACATI DI BLOCCO
I sindacati di blocco prevedono limiti alla circolazione delle azioni o degli strumenti
finanziari che diano diritto all’acquisto o alla sottoscrizione delle medesime.
Rientrano in questa categoria i patti che prevedono la intrasferibilità assoluta delle
azioni, le clausole di prelazione o di gradimento, ecc.
312
assunte con il voto determinante delle relative azioni; annullabilità che può essere
fatta valere anche dalla Consob.
Il TUF ha posto alcuni limiti all’autonomia privata anche in tema di durata dei
patti. Si prevede, infatti, che i patti possono essere stipulati sia a tempo determinato
che a tempo indeterminato. Nella seconda ipotesi, “ciascun contraente ha diritto di
recedere dal patto con un preavviso di almeno 6 mesi”; nella prima ipotesi, invece,
la durata massima consentita è di 3 anni e il patto si intende stipulato per tale durata
“anche se le parti hanno previsto un termine maggiore”.
Il TUF precisa, altresì, che i patti sono rinnovabili alla scadenza. Per evitare che la
rinnovabilità del patto si traduca in elusione del termine massimo di durata, occorre
capire bene le modalità del rinnovo. Il TUF impone, infatti, la cessazione del
rapporto allo scadere del termine medesimo, per cui il rapporto si estingue, e
necessariamente, per tutti i contraenti. Questi, tuttavia, potranno stipulare una nuova
convenzione di voto, che teoricamente potrebbe essere stipulata prima della
scadenza se preceduta dallo scioglimento anticipato del patto medesimo. Ciò che
interessa il legislatore è che il vincolo che obbliga i soci nel futuro esercizio dei
propri diritti non si protragga per più di 3 anni.
LA STRUTTURA FINANZIARIA
Le azioni delle società quotate sono sottoposte a disciplina speciale già in forza delle
norme dettate per i mercati regolamentati: esse debbono essere necessariamente
dematerializzate e la loro gestione è necessariamente accentrata, con la conseguente
sostituzione del certificato azionario con la certificazione dell’intermediario in tutte le
ipotesi in cui la legittimazione all’esercizio di un diritto sia subordinata al deposito del
primo (es. intervento in assemblea).
La quotazione incide sia sui diritti patrimoniali, sia sui diritti amministrativi
dell’azionista.
■ Particolare rilevanza ha la disciplina del diritto di opzione. Il termine per l’esercizio
del diritto viene modificato, riducendosi da 30 giorni previsti dal diritto comune ai 15
giorni consentiti dal TUF. Importanti, peraltro, le norme che consentono di escludere il
diritto di opzione → L’art. 2441 co.4 prevede che “nelle società con azioni quotate in
313
mercati regolamentati lo statuto può altresì escludere il diritto di opzione nei limiti del
10% del capitale sociale preesistente, a condizione che il prezzo di emissione
corrisponda al valore d mercato delle azioni, e ciò sia confermato in apposita relazione
del revisore legale”.
■ Peculiari sono anche le modalità che devono essere adottate per quanto riguarda
l’acquisto di azioni proprie. A norma dell’art.32 del TUF tale acquisto deve avvenire
in modo da assicurare la parità di trattamento tra gli azionisti.
■ La riforma societaria ha consentito alle SPA di emettere azioni senza valore nominale
e azioni fornite di diritti patrimoniali correlati ai risultati dell’attività sociale in un
determinato settore (art. 2346). Si ritiene che anche le società quotate possano emetterle,
mentre sussistono limiti per quanto concerne l’emissione di azioni con limitati diritti
amministrativi. L’art. 2351 co.3 esclude che possano essere imposti limiti al diritto di
voto “in relazione alla quantità delle azioni possedute da uno stesso soggetto” (voto
scalare), come è invece consentito nelle società non quotate.
■ L’art. 127quater prevede la possibilità che lo statuto delle società quotate preveda una
maggioranza non superiore al 10% del dividendo per le azioni detenute dal medesimo
azionista per un periodo continuativo, statutariamente determinato, comunque non
inferiore a 1 anno, purché lo stesso azionista non detenga una partecipazione superiore
allo 0,5% del capitale della società;
314
■ La L. 216/1974 consente alle società quotate di emettere le cc.dd. AZIONI DI
RISPARMIO. Sono azioni al portatore, prive del diritto di voto, ma privilegiate sul
piano patrimoniale. Il TUF ha operato su tre profili:
1)Non ha rafforzato i privilegi patrimoniali delle azioni di risparmio, ma ha lasciato la
determinazione di questi valori all’autonomia statutaria, infatti l’art. 145 co.2 stabilisce
che “l’atto costitutivo determina il contenuto del privilegio, le condizioni, i limiti, le
modalità e i termini per il suo esercizio”;
2)Nonostante quanto detto prima, comunque il TUF si preoccupa di stabilire talune
regole e limiti: A)I certificati rappresentativi delle azioni devono riportare l’indicazione
dei privilegi che le assistono; B)Pur potendo essere al portatore, le azioni di risparmio
devono essere necessariamente nominative, non solo quando non siano interamente
liberate, ma anche quando appartengono agli amministratori, ai sindaci, ai direttori
generali della società; C)Limite all’ammontare complessivo delle azioni: “Il valore
nominale complessivo delle azioni di risparmio, in concorso con quello delle azioni con
voto limitato emesse, non può superare la metà del capitale sociale.
3)Il TUF prevede un’organizzazione degli azionisti di risparmio, articolata in
un’assemblea speciale e un rappresentante comune. L’assemblea speciale degli
azionisti di risparmio delibera sulla nomina/revoca del rappresentante comune;
sull’approvazione delle deliberazioni dell’assemblea della società che pregiudicano i
diritti della categoria in esame; sulla costituzione di un fondo per le spese necessarie alla
tutela dei comuni interessi e sul rendiconto relativo; sulla transazione delle controversie
con la società; sugli altri oggetti di interesse comune. La disciplina, invece, del
rappresentante comune degli azionisti di risparmio è modellata su quella vigente per
il rappresentante comune degli obbligazionisti: è nominato dall’assemblea degli
azionisti di risparmio; dura in carica per un periodo massimo di 3 anni; cura gli interessi
dei possessori delle azioni di risparmio.
315
obbligazioni emesse in eccedenza sono riservate alla sottoscrizione di investitori
professionali soggetti a vigilanza prudenziale, che rispondono, peraltro, della solvenza
della società nei confronti dei successivi acquirenti che non siano investitori
professionali. Il legislatore esonera dal rispetto di quel limite e dall’applicazione di
questa condizione per poterlo superare, le società con azioni quotate in mercati
regolamentati, limitatamente alle obbligazioni destinate a essere quotate negli stessi o in
altri mercati regolamentati.
L’ASSEMBLEA
Il TUF ravvisa nella riunione dei soci in assemblea la sede nella quale “le minoranze”
possono far sentire la propria voce. Si collocano in questa prospettiva sia le norme che
introducono l’obbligo per l’organi di controllo di riferire all’assemblea su vicende
rilevanti ai fini del controllo sulla gestione (es. il TUF impone ai sindaci, al consiglio di
sorveglianza e al comitati di controllo di riferire all’assemblea sull’attività di vigilanza
svolta), sia quelle che riservano all’assemblea il potere di deliberare su atti che rientrano
nell’ambito della gestione sociale (es. l’art. 104 pretende che gli atti di gestione, che
possano contrastare il conseguimento di un’offerta pubblica, siano sottoposti ad
autorizzazione dell’assemblea).
Il TUF aveva introdotto una serie di norme, come quelle che facilitassero la
convocazione dell’assemblea, consentissero l’esercizio del diritto di voto per
corrispondenza, arricchissero l’informazione fornita ai soci, ecc. Alcune di queste
discipline (come quella relativa alle deleghe di voto e voto per corrispondenza) non
sono state interessate dalla riforma del diritto societario, e continuano a differenziare la
disciplina delle società quotate da quelle delle società non quotate, mentre altre sono
state abrogate, come quella che facilitava la convocazione dell’assemblea da parte della
minoranza.
L’assemblea deve essere convocata mediante avviso sul sito internet nonché con le altre
modalità previste dalla Consob entro il 30esimo giorno precedente l’assemblea;
l’assemblea dei soci, nelle società quotate, può essere convocata anche dal collegio
sindacale, o da almeno due membri del collegio, previa comunicazione al presidente del
consiglio di amministrazione.
316
Molto analitica è la disciplina del contenuto dell’avviso di convocazione. Mentre
secondo il diritto comune questo può limitarsi a indicare giorno, ora e luogo
dell’adunanza e l’elenco delle materie da trattare (art. 2366 co.2), l’avviso di
convocazione dell’assemblea delle quotate deve contenere, oltre a tali elementi, anche
“una descrizione chiara e precisa delle procedure che gli azionisti devono rispettare per
poter partecipare e votare in assemblea”, ivi comprese informazioni riguardanti il diritto
di porre domande prima dell’assemblea, la procedura per l’esercizio del voto per delega,
l’identità del soggetto eventualmente designato dalla società per il conferimento delle
deleghe di voto, ecc →→ Lo scopo perseguito attraverso un contenuto così diffuso è
evitare al socio una qualsiasi “sorpresa”.
Il diritto di informazione preassembleare dei soci trova alimento, oltre che nell’avviso di
convocazione, anche nell’obbligo degli amministratori di mettere “a disposizione del
pubblico presso la sede sociale, pubblicare sul sito internet e con le altre modalità
previste dalla Consob” una relazione sulle materie all’ordine del giorno.
317
comprese quotate – di fissare il termine entro il quale debbano essere depositate le
azioni o la certificazione dell’intermediario, ed eventualmente di prevedere che le stesse
non possano essere ritirate prima che l’assemblea abbia luogo), dall’altro, come
sappiamo, le azioni delle quotate sono necessariamente dematerializzate e in gestione
accentrata (quindi per esse vale l’art. 2370 co.2: il deposito è sostituito da una
comunicazione dell’intermediario che tiene i conti).
La nuova disciplina del diritto di intervento (art. 83sexies TUF) ribadisce che “la
legittimazione all’intervento in assemblea e all’esercizio del diritto di voto è attestata da
una comunicazione all’emittente, effettuata dall’intermediario, in conformità alle
proprie scritture contabili, in favore del soggetto cui spetta il diritto di voto. Ma,
soprattutto, individua il momento in cui tale legittimazione deve essere accertata,
stabilendo che la comunicazione prevista dal comma 1 art. 83sexies è effettuata
dall’intermediario sulla base delle evidenze relative al termine della giornata contabile
del settimo giorno di mercato aperto precedente la data fissata per l’assemblea in prima
o unica convocazione. Il giorno fissato per accertare la legittimazione (RECORD
DATE) è il settimo precedente: dopo quel momento, colui che risulti legittimato potrà
intervenire in assemblea anche se nel frattempo ha venduto le azioni, mentre non
potranno intervenire coloro che abbiano acquistato la qualità di socio dopo quel settimo
giorno. La convocazione dell’intermediario deve pervenire all’emittente entro la fine del
terzo giorno di mercato aperto precedente la data fissata per l’assemblea di prima
convocazione, ovvero il diverso termine stabilito dalla Consob, d’intesa con la Banca
d’Italia.
318
A)L’avviso di convocazione deve contenere l’avvertenza che il voto può essere
esercitato anche per corrispondenza, le modalità e i soggetti presso cui richiedere la
scheda e il termine entro il quale quest’ultima deve pervenire al destinatario;
B)Documento cardine è la SCHEDA DI VOTO, che l’emittente deve consegnare a
chiunque, legittimato a partecipare all’assemblea, ne faccia richiesta. La scheda è
predisposta in modo tale da garantire la segretezza del voto fino all’inizio dello
scrutinio.
C)I voti espressi per corrispondenza sono computati al fine della determinazione
dell’eventuale quorum costitutivo e debbono restare segreti (nella custodia del collegio
sindacale) fino all’inizio dello scrutinio.
LE DELEGHE DI VOTO
Il TUF del 1998 aveva operato due interventi importanti in materia di deleghe di voto e
quello, tra questi, che ci interessa, concerneva la “sollecitazione” e la “raccolta” delle
deleghe, materia sulla quale è intervenuto il d.lgs. 27/2010.
A)Per “sollecitazione di deleghe” si intende la richiesta d conferimento di deleghe di
voto rivolta a più di 200 azionisti su specifiche proposte di voto, ovvero
accompagnate da raccomandazioni, dichiarazioni o altre indicazioni idonee a
influenzare il voto, da parte di un PROMOTORE, ossia da parte di un soggetto o più
soggetti che congiuntamente promuovono la sollecitazione;
B)Per “raccolta di deleghe” si intende la richiesta di conferimento di deleghe di voto
accompagnata da raccomandazioni, dichiarazioni o altre indicazioni idonee a
influenzare il voto, rivolta ai propri associati dalle associazioni di azionisti.
↓
Mentre la sollecitazione tende ad acquisire adesioni a una proposta di delibera
formulata dal promotore (di solito socio titolare di una partecipazione consistente),
la raccolta tende piuttosto a rendere possibile ai piccoli azionisti di concorrere alla
formulazione della volontà assembleare, indipendentemente dal fatto che gli stessi
siano favorevoli o contrari a una determinata proposta.
Il d.lgs. 27/2010 ha ampliato l’ambito dei possibili rappresentanti in deroga a quanto
previsto dal diritto comune, avendo eliminato il divieto che era stabilito dall’art.
2372 co.5 (“La rappresentanza non può essere conferita né ai membri degli organi
amministrativi o di controllo o ai dipendenti della società, né alle società da esse
controllate o ai membri degli organi amministrativi o di controllo”).
319
Vediamo, adesso, più da vicino le norme che il Testo Unico e la Consob hanno
dettato rispettivamente per la sollecitazione e la raccolta delle deleghe.
SOLLECITAZIONE
La sollecitazione è effettuata da un “promotore” mediante la diffusione di un
prospetto e di un modulo di delega. Il TUF del 1998 prevedeva che vi fosse un
soggetto (il committente) che assumeva l’iniziativa di promuovere una
sollecitazione di deleghe di voto e un intermediario che effettuava, in concreto, la
sollecitazione presso la generalità dei soci su incarico del primo.
Il d.lgs. 27/2010 ha liberalizzato questo sistema sotto due aspetti: A)Non è più
necessario l’inserimento di un intermediario e la sollecitazione può essere
direttamente effettuata dal promotore; B)Quest’ultimo può essere sia un socio sia un
soggetto non socio.
RACCOLTA DI DELGHE
320
La raccolta delle deleghe di voto è consentita alle associazioni di azionisti che:
A)Sono costituite con scrittura privata autenticata; B)Non esercitano attività di
impresa, salvo quelle strettamente strumentali al raggiungimento dello scopo
associativo; C)Siano composte da almeno 50 persone fisiche, ciascuna delle quali è
proprietaria di un quantitativo di azioni non superiori allo 0,1% del capitale sociale
rappresentato da azioni con diritto di voto.
La norma tende a facilitare il concorso dei piccoli azionisti alla formazione delle
deliberazioni dell’assemblea, riducendo i costi di tale concorso attraverso la
creazione di un punto di riferimento organizzativo. Il legislatore pretende che la
composizione dell’associazione sia certa (scrittura privata autenticata); che
l’associazione non svolga, oltre all’attività di raccolta delle deleghe e alla
rappresentanza in assemblea dei propri associati, attività di imprese diverse da
quelle strumentali alle prime; che la stessa non costituisca uno strumento al servizio
dei grandi azionisti (riservata appunto agli azionisti la cui partecipazione non superi
l’1 x 1000 delle azioni con diritto di voto) e abbia una sufficiente rappresentatività
(deve essere composta da almeno 50 soci). A differenza di quanto previsto per la
sollecitazione, gli associati potranno esprimere sia un voto favorevole, sia un voto
contrario alla proposta sulla quale viene chiamata a deliberare l’assemblea, sia il
diritto di astenersi sulla stessa, fermo restando anche il diritto dell’azionista di non
conferire alcuna delega.
IL MODELLO TRADIZIONALE
Il modello tradizionale (consiglio di amministrazione e collegio sindacale) era l’unico
modello disponibile per le SPA nel momento in cui fu emanato il TUF del 1998.
321
Negli anni successivi all’emanazione del TUF la disciplina delle società quotate, anche
per quanto concerne gli organi amministrativi, si era venuta differenziando da quella di
diritto comune, soprattutto per gli interventi del Codice di Autodisciplina e della
Consob.
Il Codice di Autodisciplina (1999) delle società quotate, dopo avere sottolineato che è
compito del consiglio di amministrazione la individuazione delle linee strategiche
dell’impresa, suggeriva che lo stesso fosse composto sia da amministratori esecutivi
(amministratore delegato e comitato esecutivo), sia da amministratori non esecutivi.
Anche la Consob ha provveduto a ridisegnare la disciplina degli organi amministrativi
delle società quotate in termini più articolati di quelli previsti dal diritto comune.
Ma, in realtà, il tratto più significativo della disciplina degli amministratori delle società
quotate introdotto dal TUF era l’art. 129, il quale consentiva a una minoranza di soci di
esercitare nei confronti degli amministratori l’azione sociale di responsabilità (“tanti
soci, iscritti da almeno 6 mesi nel libro dei soci, che rappresentassero almeno il 5% del
capitale sociale o la minore percentuale stabilita nell’atto costitutivo, potevano
esercitare l’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori, i sindaci e i
direttori generali”). Il TUF voleva così impedire che le norme sulla responsabilità degli
amministratori e la loro capacità deterrente nei confronti di comportamenti non attenti
all’interesse della società restassero lettera morta.
La Riforma societaria ha abrogato la norma speciale dettata dal TUF recependo,
peraltro, il suo contenuto nel codice civile (art. 2393bis), in termini grossomodo identici
per tutte le società che fanno ricorso al mercato dei capitali e, quindi, anche per le
quotate.
322
esprimere, oltre che una parte dei sindaci, anche uno o più componenti del consiglio di
amministrazione;
2)Lo stesso art. 147ter prevede poi che “almeno uno dei componenti del consiglio di
amministrazione – ovvero 2, se il CDA sia composto a più di 7 componenti – devono
possedere i requisiti di indipendenza (previsti per i sindaci). Appare quindi evidente la
non coincidenza tra nozione di amministratore nominato dalla minoranza e
amministratore indipendente, essendo l’indipendenza una qualità, legislativamente o
convenzionalmente fissata, che può essere posseduta anche dagli amministratori
nominati dal socio di maggioranza.
323
statuto l’individuazione del numero di sindaci (non inferiore a 3), ha attribuito alla
Consob il potere di stabilire con “regolamento le modalità per l’elezione di un membro
effettivo del collegio sindacale da parte dei soci di minoranza”.
● Il collegio sindacale vigila: a)sull’osservanza della legge e dell’atto costitutivo; b)sul
rispetto dei principi di corretta amministrazione; c)sull’adeguatezza della struttura
organizzativa della società per gli aspetti di competenza, del sistema di controllo interno
e del sistema amministrativo-contabile; c-bis)sulle modalità di concreta attuazione delle
regole di governo societario previste dai codici di comportamento redatti dalle società di
gestione di mercati regolamentati o da associazioni di categoria cui la società dichiara di
attenersi; d)sull’adeguatezza delle disposizione impartite dalla società alle società
controllate.
● Operiamo qualche considerazione. Non vi sono problemi per quanto riguarda
l’attribuzione al collegio sindacale di vigilare “sull’osservanza della legge e dello
statuto”. Qualche problema pongono le altre funzioni del collegio.
- Il controllo sul rispetto dei principi di “corretta amministrazione” concerne il dovere
degli amministratori di attenersi a uno scrupoloso perseguimento dell’interesse sociale e
il controllo dovrà mirare a verificare che gli amministratori non si lascino condizionare
da interessi in conflitto con quelli della società;
- Il collegio deve anche verificare “l’adeguatezza della struttura organizzativa della
società”, ossia la coerenza tra l’articolazione della funzione amministrativa e della
struttura aziendale con l’attività dell’impresa sociale. Ma questo controllo dovrà
limitarsi agli “aspetti di competenza”, ossia verificare se le scelte organizzative siano
quelle che la diligenza e la perizia dei gestori devono approntare per l’esercizio di una
particolare attività;
- Di notevole importanza, poi, la vigilanza sul “sistema di controllo interno”, ossia
sull’attività della struttura aziendale che deve assicurare il rispetto delle regole dettate
dal consiglio di amministrazione per l’attività di impresa;
- Il collegio sindacale ha anche il compito di valutare l’adeguatezza del sistema
amministrativo contabile, con particolare riguardo all’affidabilità dello stesso e alla
capacità di rappresentare correttamente i fatti di gestione: il punto di contatto importate
tra il controllo sulla contabilità affidato alle società di revisione e quello del collegio
sindacale consiste nel fatto che quest’ultimo on deve più verificare, a posteriori, la
correttezza delle rilevazioni effettuate, ma deve accertare, ex ante, se un particolare
assetto amministrativo contabile (es. le procedure adottate) sia in grado di assicurare
324
una corretta rappresentazione dei fatti di gestione; sul punto il TUF ha stabilito che “il
collegio sindacale e il revisore legale o società di revisione legale si scambiano
tempestivamente i dati e le informazioni rilevanti ai fini dell’espletamento dei loro
compiti”.
- La L. 262/2005 stabilisce che il collegio sindacale vigila sulle modalità di concreta
attuazione delle regole di governo previste dai codici di comportamento redatti da
società di gestione dei mercati, cui la società ha dichiarato di attenersi. La violazione
delle rispettive norme può comportare la sospensione o l’esclusione dalla quotazione;
- Infine il collegio sindacale deve informare la Consob delle irregolarità riscontrate
nell’attività di vigilanza e trasmettere alla stessa i verbali delle riunioni e degli
accertamenti svolti.
I MODELLI ALTERNATIVI
MODELLO DUALISTICO
Sul modello dualistico (strutturato in consiglio di gestione e consiglio di sorveglianza) il
d.lgs. 37/2004 ha stabilito che “le norme che fanno riferimento al consiglio di
amministrazione, all’organo amministrativo e agli amministratori si applicano anche al
consiglio di gestione e ai suoi componenti” e che, se non diversamente disposto, le
norme che fanno riferimento al collegio sindacale e ai sindaci “si applicano anche al
consiglio di sorveglianza e ai suoi componenti”.
325
L’art. 147quater (L. 262/2005) detta una regola: se il consiglio di gestione è composto
da più di 4 membri, almeno uno di essi deve possedere i requisiti di indipendenza
previsti per i sindaci.
Per quanto concerne il consiglio di sorveglianza:
a)I componenti del consiglio di sorveglianza possono chiedere notizie ai consiglieri di
gestione, anche con riferimento a società controllate, sull’andamento delle operazioni
sociali o su determinati affari;
b)I componenti del consiglio di sorveglianza possono, anche individualmente, chiedere
al presidente la convocazione dell’organo, indicando gli argomenti da trattare;
c)Il consiglio di sorveglianza può, previa comunicazione al presidente del consiglio di
gestione, convocare l’assemblea dei soci, il consiglio di gestione e avvalersi di
dipendenti della società per l’espletamento delle proprie funzioni;
d)Il consiglio di sorveglianza o un membro dello stesso appositamente delegato, può
procedere in qualsiasi momento ad atti di ispezione e di controllo, nonché scambiare
informazioni con gli organi delle società controllate in merito ai sistemi di
amministrazione e controllo.
{Sono norme, in buona sostanza, che cercano di attribuire al consiglio di sorveglianza
gli stessi poteri che, nel sistema tradizionale, sono riconosciuti al collegio sindacale e ai
sindaci. Ma, come è noto, il consiglio di sorveglianza ha anche il potere di nominare e
revocare i componenti del consiglio di gestione e di approvare il bilancio}.
MODELLO MONISTICO
Con riferimento a questo modello (consiglio di amministrazione e comitato per il
controllo sulla gestione costituito al suo interno) il d.lgs. 37/2004, mentre non detta
alcuna norma per il consiglio di amministrazione (regolato dalle stesse disposizioni
previste per il modello tradizionale), si preoccupa di definire struttura e funzioni del
comitato per il controllo, stabilendo che le norme del TUF dettate per i sindaci e il
collegio sindacale si applicano, se non diversamente disposto, anche al comitato di
controllo e ai suoi componenti. Lo stesso decreto individua poi i poteri del comitato,
sulla falsariga di quelli del collegio sindacale:
i)I componenti del comitato per il controllo sulla gestione possono, anche
individualmente, chiedere agli amministratori notizie, anche con riferimento a società
controllate, sull’andamento delle operazioni sociali o su determinati affari, ovvero
326
rivolgere richieste di informazioni direttamente agli organi di amministrazione e di
controllo delle società controllate;
ii)I componenti del comitato per il controllo sulla gestione, anche individualmente,
possono chiedere al presidente la convocazione del comitato, indicando gli argomenti da
trattare;
iii)Il comitato, previa comunicazione al presidente del consiglio di amministrazione,
può convocare il consiglio di amministrazione o il comitato esecutivo e avvalersi di
dipendenti della società per l’espletamento delle proprie funzioni;
iv)Il comitato, o un componente dello stesso appositamente delegato, può procedere in
qualsiasi momento ad atti di ispezione e controllo, nonché scambiare informazioni con i
corrispondenti organi delle società controllate in merito ai sistemi di amministrazione e
controllo e all’andamento generale dell’attività sociale.
327
154bis “Gli organi amministrativi delegati e il dirigente preposto alla redazione dei
documenti contabili attestano, con apposita relazione sul bilancio di esercizio, sul
bilancio semestrale abbreviato e, ove redatto, sul bilancio consolidato: l’adeguatezza e
l’effettiva applicazione delle procedure amministrative e contabili; che i documenti
siano redatti in conformità ai principi contabili internazionali; la corrispondenza dei
documenti alle risultanze dei libri e delle scritture contabili, ecc…
IL CONTROLLO GIUDIZIARIO
Legittimati a promuovere il procedimento previsto dall’art. 2409 nei confronti di una
società quotata sono: a)Tanti soci che rappresentino almeno 1/20 del capitale sociale;
b)Il collegio sindacale, il consiglio di sorveglianza e il comitato per il controllo sulla
gestione, se hanno fondato sospetto che gli amministratori, in violazione dei loro doveri,
abbiano compiuto gravi irregolarità nella gestione che possano recare danno alla società
o a quelle controllate; c)Anche la Consob, se “ha fondato sospetto di gravi irregolarità
nell’adempimento dei doveri di vigilanza del collegio sindacale, del consiglio di
sorveglianza o del comitato per il controllo sulla gestione può denunciare i fatti al
Tribunale ai sensi dell’art. 2409”. La Consob può promuovere il controllo giudiziario
solo con riferimento alle società italiane quotate su un mercato regolamentato italiano e
non anche ne confronti delle società italiane quotate esclusivamente in mercati
regolamentati di altri paesi UE.
LA REVISIONE LEGALE DEI CONTI
Il d.lgs. 39/2010 detta disposizioni speciali riguardanti la revisione legale dei conti degli
“enti di interesse pubblico”: vi rientrano, accanto alle banche, alle assicurazioni, alle
società di gestione dei mercati, anche le società emittenti strumenti finanziari diffusi tra
il pubblico e le “società italiane emittenti valori mobiliari ammessi alla negoziazione su
mercati regolamentati italiani e dell’UE”. È di queste ultime che ci occupiamo adesso.
328
Importante è, anzitutto, la disciplina dettata per assicurare l’indipendenza del revisore.
Tale obiettivo viene anzitutto perseguito vietando a quest’ultimo di fornire alla società
servizi che potrebbero comprometterla.
Art. 17 co.3 (d.lgs. 39/2010): “I revisori legali, la società di revisione legale, i soci, gli
amministratori, i componenti degli organi di controllo e i dipendenti della società di
revisione legale non possono fornire alcuni dei seguenti servizi all’ente di interesse
pubblico che ha conferito l’incarico di revisione e alle società dallo stesso controllate:
a)Tenuta dei libri contabili e altri servizi relativi alle registrazioni contabili o alle
relazioni di bilancio; b)progettazione/realizzazione di progetti informativi contabili; c)
servizi attuariali; d)Gestione esterna di servizi di controllo intern; e)Consulenza e
servizi in materia di organizzazione aziendale diretti alla selezione o formazione del
personale, ecc…
A tutela dell’indipendenza del revisore sono dettate anche le norme che impongono un
periodo di “raffreddamento” nei passaggi dall’organizzazione del revisore a quella della
società che ha conferito l’incarico, nonché di quelli compiuti in direzione opposta. “Il
revisore legale, il responsabile della revisione legale per conto di una società di
revisione, e coloro che hanno preso parte con funzione di direzione e supervisione alla
revisione del bilancio di un ente di interesse pubblico non possono rivestire cariche
sociali negli organi di amministrazione e controllo dell’ente che ha conferito l’incarico
di revisione, né possono prestare lavoro autonomo o subordinato in favore dell’ente
stesso svolgendo funzioni dirigenziali di rilievo, se non sia decorso almeno un biennio
dalla conclusione dell’incarico, ovvero dal momento in cui abbiano cessato di essere
soci, amministratori o dipendenti della società di revisione”.
Anche nelle società quotate l’attività di revisione sfocia nel giudizio sul bilancio
d’esercizio, che può avere particolari riflessi sul piano della vigilanza e
dell’impugnabilità del bilancio. Così, “in caso di giudizio negativo o di dichiarazione di
impossibilità di esprimere un giudizio o in presenza di richiami di informativa relativi a
dubbi significativi sulla continuità aziendale, il revisore legale e la società di revisione
329
legale informano tempestivamente la Consob.” Come detto, il giudizio sul bilancio
incide anche sulla sua impugnabilità. Infatti, se il giudizio è senza rilievi, con rilievi, o
con semplici richiami di normativa, viene limitata la legittimazione a impugnare il
bilancio per ragioni attinenti ai criteri adottati per la sua redazione. “La deliberazione
dell’assemblea o del consiglio di sorveglianza che approva il bilancio d’esercizio può
essere impugnata, per mancata conformità del bilancio alle norme che ne disciplinano i
criteri di redazione, da tanti soci che rappresentino almeno il 5% del capitale sociale” →
→ Il legislatore, supponendo la attendibilità del giudizio della società di revisione, ha
inteso evitare che la stabilità della deliberazione che approva il bilancio di esercizio
possa essere compromessa da iniziative giudiziarie non adeguatamente giustificate
dall’interesse sociale.
A compensazione della limitazione imposta alla legittimazione dei soci, il TUF ha
riconosciuto alla Consob il potere di impugnare la deliberazione che approva un
bilancio sul quale sia stato espresso un giudizio senza rilievi o con rilievi, per violazione
delle norme che ne disciplinano la redazione, entro 6 mesi dal deposito presso il registro
delle imprese.
LE RELAZIONI FINANZIARIE
Le società italiane quotate in un mercato regolamentato italiano o di altro Stato membro
dell’UE debbono redigere i propri bilanci secondo i principi IAS-IFRS (d.lgs. 38/2005):
principi internazionali, adottati dall’UE, che si differenziano da quelli tradizionali ai
quali attengono le società non quotate e che non hanno capitale diffuso. Basti pensare
che questi ultimi fanno perso sulle valutazioni a costo storico, mentre i principi contabili
internazionali sono largamente ancorati al FAIR VALUE, ossia al valore di mercato.
Il TUF detta un’articolata disciplina delle relazioni finanziarie:
● Le società italiane quotate in un mercato regolamentato italiano o di altro paese della
Comunità e, più in generale, gli emittenti quotati aventi l’Italia come stato membro di
origine devono, entro 120 giorni dalla chiusura dell’esercizio, “pubblicare” la relazione
finanziaria annuale, comprendente il progetto di bilancio d’esercizio, il bilancio
consolidato ove redatto, la relazione sulla gestione e l’attestazione degli organi delegati
e del dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili, unitamente alla
relaziona di revisione legale dei conti;
330
● Entro 60 giorni dalla chiusura del primo semestre dell’esercizio, gli stessi emittenti
pubblicano una “relazione finanziaria semestrale” comprendente il bilancio semestrale
abbreviato, la relazione intermedia sulla gestione, le relative attestazioni degli
amministratori delegati e del dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili,
nonché la relazione di revisione legale dei conti;
● Gli emittenti di azioni quotate aventi l’Italia come stato membro di origine
pubblicano, entro 45 giorni dalla chiusura del primo e del terzo trimestre di esercizio, un
resoconto intermedio di gestione.
IL DELISTING
La condizione di società quotata cessa con il venire meno della quotazione dei titoli
emessi dalla stessa su tutti i mercati regolamentati. La cessazione della quotazione su un
mercato può avvenire:
1)Per esclusione della società dal mercato stesso;
2)Incorporazione società quotata in una società non quotata;
3)Fusione propria di una quotata che dia vita a una società non quotata;
4)Su richiesta della società quotata (DELISTING).
Lo status di società quotata cessa nel momento in cui la stessa venga incorporata dal
altra società non quotata. L’art. 13 TUF, nella stesura originaria, consentiva al socio
dissenziente e a quelli assenti di recedere dalla società. Tale norma è stata abrogata dalla
riforma del diritto societario, che ha fatto confluire tale ipotesi nella più ampia
fattispecie prevista dall’art. 2437 quinques: “Se le azioni sono quotate in mercati
regolamentati, hanno diritto di recedere i soci che non hanno concorso alla
deliberazione che comporta l’esclusione dalla quotazione” (e quindi anche soci
dissenzienti e astenuti, che nella precedente formulazione erano in dubbio).
La perdita di status di società quotata può anche essere la conseguenza di una richiesta
della società emittente (delisting). Il TUF, con norma che riguarda solo le società
italiane quotate in un mercato regolamentato italiano, prevede che queste possono
“previa deliberazione dell’assemblea straordinaria”, richiedere l’esclusione dalle
negoziazioni dei propri strumenti finanziari, secondo quanto previsto dal regolamento
del mercato, se ottengono l’emissione su un altro mercato regolamentato italiano o di
331
altro paese dell’UE, purché sia garantita una tutela equivalente degli investitori, secondo
i criteri stabiliti dalla Consob.
L’esclusione è dunque subordinata alla contemporanea ammissione su un altro mercato
regolamentato, anche non italiano, purché quel mercato regolamentato offra una tutela
equivalente a quella della quale vengono privati gli azionisti della società quotata che
chiede l’esclusione “dei propri strumenti finanziari”. Nell’ipotesi in cui vengano
soddisfatte queste condizioni, il socio (dissenziente) o assente dalla deliberazione
assembleare che approva la richiesta di delisting non ha certamente il diritto di recedere
dalla società: la liquidabilità del suo investimento è comunque assicurata.
Infine, il TUF ha attribuito alla Consob il potere di stabilire i criteri per l’individuazione
delle ipotesi in cui può ritenersi che un emittente abbia propri strumenti finanziari
diffusi tra il pubblico “in misura rilevante” e la Consob ha individuato criteri diversi con
riferimento alle OBBLIGAZIONI (che si considerano diffuse in misura rilevante
quando l’emittente abbia un patrimonio netto non inferiore a 5 milioni di euro e il
332
numero degli obbligazionisti sia superiore a 200) e alle AZIONI (sono considerati
emittenti azioni diffuse tra il pubblico in misura rilevante gli emittenti italiani che,
contestualmente, a)abbiano azionisti diversi da soci di controllo in numero superiore a
200 che detengano complessivamente una percentuale del capitale sociale almeno pari
al 5%; b)non abbiano la possibilità di redigere il bilancio in forma abbreviata ai sensi
dell’art. 2435 bis co.1: possibilità consentita alle società che abbiano un fatturato, un
patrimonio netto e un numero di dipendenti inferiore alle soglie fissate dalla norma
stessa.
Come abbiamo visto, il TUF non ha previsto per queste categorie di emittenti una
particolare organizzazione interna, come per le quotate. Ha imposto solo un grado di
trasparenza sulla gestione sostanzialmente identico a quello previsto per le quotate.
333
I GRUPPI DI SOCIETÀ
La partecipazione di società ad altre imprese
Le imprese tendono a creare tra di loro rapporti di vario genere. Nella serie,
molto variegata, di collaborazione tra imprese, abbiamo innanzi tutto rapporti
contrattuali esterni che vincolano le varie imprese a un programma/affare
comune; possono, viceversa, aversi operazioni di concentrazione, come quella
di fusione. Tra queste due ipotesi estreme, si collocano i gruppi di società,
che di solito presuppongono che una società (capogruppo o holding) eserciti il
controllo su altre imprese, dirigendone e coordinandone le attività, in vista di
uno scopo economico unitario. La struttura piramidale del gruppo è la più
comune, anche se nella pratica esistono altre forme di aggregazione, come
quella del gruppo paritetico, previsto espressamente per le società
cooperative (art. 2545 septies).
Da un punto di vista sostanziale, le società che ne fanno parte perdono la loro
autonomia (perché vengono assoggettate a una direzione unitaria), ma da un
punto di vista giuridico formale vi è il permanere della individualità delle
singole imprese che fanno parte del gruppo, il che crea alcuni problemi.
Partiamo dall’assunzione di partecipazioni in altre imprese da parte di società:
l’art. 2361 stabilisce che «l’assunzione di partecipazioni in altre imprese,
anche se prevista genericamente nello statuto, non è consentita se per la
misura e l’oggetto della partecipazione ne risulta sostanzialmente modificato
l’oggetto sociale determinato dallo statuto».
L’assunzione di partecipazioni a parte di società in altre imprese è dunque
consentita, ma con alcuni limiti:
Anzitutto, non è consentita la assunzione di partecipazioni che per la
misura e l’oggetto comportino una sostanziale modificazione dell’oggetto
sociale, determinato dallo statuto della società partecipante: con ciò il
legislatore vuole evitare che i soci subiscano il pregiudizio di una modifica
dell’oggetto sociale a opera degli amministratori (ai quali di solito è riservato
l’acquisto di partecipazioni) e non dell’assemblea straordinaria (art. 2365),
senza il riconoscimento del diritto di recesso, concesso ai soci in caso di
334
modifica dell’oggetto sociale con cambiamento significativo dell’attività
svolta dalla società (art. 2437 co 1°);
In secondo luogo, il codice ammette oggi, dopo la riforma, anche la
partecipazione di società di capitali a società di persone: tale partecipazione
deve però essere deliberata dall’assemblea, e qualora tutti i soci
illimitatamente responsabili siano società di capitali, la società di persone
partecipata deve redigere il bilancio secondo il bilancio previsto per la s.p.a.
e, se del caso, il bilancio consolidato.
L’ipotesi di cui al n.1 del comma 1° dell’art. 2359 è anche nota come
controllo interno di diritto (o azionario), mentre quella di cui al comma 2°
è nota come controllo interno di fatto. Entrambe le ipotesi sono basate sul
potere di voto della controllante e, a tale proposito, il codice precisa (art. 2359
comma 2°) che per il calcolo delle percentuali previste si tiene conto anche
dei voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona
interposta (controllo indiretto, a catena o a cascata). In tutte le ipotesi di
CONTROLLO INTERNO, sia di diritto che di fatto, la legge sottolinea
l’importanza che può avere il potere di incidere sulle deliberazioni
dell’assemblea ordinaria, che nel sistema tradizionale nomina e revoca gli
amministratori, nomina i sindaci, approva il bilancio di esercizio e la
distribuzione degli utili: in caso di controllo interno di diritto, la società
partecipante decide in assemblea esercitando i poteri che le derivano dal
detenere la maggioranza del capitale; in caso di controllo interno di fatto,
l’influenza dominante della partecipante, che non possiede la maggioranza,
deriva normalmente dalla polverizzazione del capitale e dall’astensionismo
dei soci in assemblea, ed è resa possibile dal peculiare quorum richiesto per la
assemblea ordinaria di seconda convocazione, che delibera a maggioranza
«qualunque sia la parte di capitale rappresentata dai soci partecipanti» (art.
2369 comma 3°).
336
Il collegamento tra società denota invece una situazione di interferenza
meno intensa, rappresentata da una influenza notevole, ma non dominante.
Molte incertezze regnano sulla esatta definizione di questo concetto.
[1] Gli organi di amministrazione della società ce fanno ricorso al mercato del
capitale di rischio adottano, secondo principi generali indicati dalla Consob,
regole che assicurano la trasparenza e la correttezza sostanziale e procedurale
delle operazioni con parti correlate e li rendono noti nella relazione sulla
gestione; a tali fini possono farsi assistere da esperti indipendenti, in ragione
della natura, del valore o delle caratteristiche dell' operazione.
337
A parte ciò, la disciplina del bilancio di esercizio è quella sui cui
tradizionalmente si dispiega la rilevanza giuridica del controllo e del
collegamento. L’obiettivo del legislatore è quello di rendere al massimo della
trasparenza i rapporti giuridici intercorrenti tra società controllate e collegate, ai
fini di una rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale e
finanziaria e del risultato economico di esercizio (art. 2423). È per questo che
nello stato patrimoniale devono essere indicate separatamente le partecipazioni in
imprese controllate, collegate o controllanti, e i crediti e i debiti verso le stesse
(art. 2424). Fra le garanzie prestate, che devono risultare in calce allo stato
patrimoniale, occorre indicare separatamente, per ciascun tipo di garanzia, quelle
prestate «a favore di imprese controllate e collegate, nonché di controllanti e di
imprese sottoposte al controllo di queste ultime» (art. 2424, comma 3°) e
correlativamente, nel conto economico, «i proventi da partecipazioni» devono
indicare separatamente quelli relativi a imprese controllate e collegate; e lo stesso
vale per gli «altri proventi finanziari», nonché per «interessi e altri oneri
finanziari», dovendo qui essere iscritti con separata indicazioni quelli da o verso
imprese controllate, collegate e controllanti (art. 2425). La nota integrativa deve
indicare «l’elenco delle partecipazioni» in imprese controllate e collegate,
specificando, per ciascuna partecipazione, la sede, il capitale, l’importo del
patrimonio netto, l’utile o la perdita dell’ultimo esercizio, la quota posseduta e il
valore attribuito in bilancio o il corrispondente credito (art. 2427, n.5) e nel
quadro degli «impegni non risultanti dallo stato patrimoniale» di cui la nota
integrativa deve parimenti dare conto, si devono precisare quelli relativi a
imprese controllate, collegate, controllanti e imprese sottoposte al controllo di
queste ultime (art. 2427, n.9).
Il bilancio consolidato (la cui disciplina è stata introdotta dal d.lgs. 127/1991)
riguarda:
a) Le società per azioni, in accomandita per azioni e a responsabilità limitata
che controllano un’impresa anche in forma non societaria;
338
b) Gli enti pubblici economici (art. 2201), le società cooperative e le mutue
assicuratrici che controllano una società per azioni, in accomandita per
azioni o a responsabilità limitata;
c) Le società di persone interamente partecipate da società di capitali.
La funzione principale del bilancio consolidato è quella di fornire una
informazione esauriente, un quadro fedele, ai soci e ai terzi, della situazione
patrimoniale, finanziaria e del risultato economico delle varie imprese, come
se fossero un’unica impresa, tenendo conto dei rapporti che esistono tra le
varie imprese che fanno parte del gruppo. Tale bilancio si compone dello
stato patrimoniale, del conto economico e della nota integrativa e, come già
detto, è redatto con modalità analoghe a quelle predisposte per il bilancio di
esercizio, integrate dall’applicazione dei cc.dd. principi di consolidamento,
sui quali ci siamo già soffermati in sede di bilancio.
A tal fine, l’art. 2497 sexies prevede che si presume, salvo prova contraria,
che l’attività di direzione e coordinamento di società sia esercitata dalla
società o ente tenuto al consolidamento dei loro bilanci, e che comunque le
controlla ai sensi dell’art. 2359. Aggiunge poi che il vincolo di direzione e
coordinamento può anche dipendere da rapporti contrattuali e clausole
statutarie.
L’esercizio di tale attività comporta che le decisioni strategiche delle società
di gruppo, con riferimento alla finanza, alle vendite, ecc… vengono prese
dalla società capogruppo, ed eseguite dalle società controllate. Nel gruppo, la
società di vertice non si limita a esercitare le prerogative che le competono
per il ruolo rivestito nell’assemblea, nominando amministratori e sindaci, ma
si ingerisce nella gestione delle società stesse, dirigendone e coordinandone le
attività. La direzione unitaria consiste, in particolare, nella imposizione agli
organi direttivi della società controllata di decisioni provenienti dalla società
dominante, e si traduce in direttive impartite dalla holding. Tutto ciò
determina un necessario ridimensionamento dei poteri degli amministratori
delle società etero dirette: è evidente che, pur risolvendosi il legame di gruppo
340
in un vantaggio per le società che vi appartengono, le decisioni e le direttive
del capogruppo tutelano l’interesse del gruppo nel suo complesso e non
sempre l’interesse della società controllata; in alcuni casi, il patrimonio della
società controllata viene impegnato in operazioni infra-gruppo dalle quali la
società stessa subisce un pregiudizio.
In questo complesso scenario, si inserisce la nuova disciplina introdotto dalla
riforma negli artt. 2497-2497 sexies del codice, che non menziona
espressamente i gruppi, ma la attività di direzione e coordinamento, che però
è attività tipica esercitata all’interno dei gruppi.
I capisaldi della nuova disciplina sono i seguenti:
1. L’art. 2497 introduce una azione di responsabilità a favore dei soci e dei
creditori delle società sottoposte ad attività di direzione e coordinamento.
L’azione è diretta, e si ritiene che abbia natura prevalentemente
extracontrattuale o aquiliana.
2. Molti temperamenti sono stati previsti per circoscrivere al massimo la
responsabilità e in definitiva per attenuare le conseguenze che potrebbero
avere le nuove norme. Premesso che la nuova disciplina contiene il
riconoscimento della liceità di direzione e coordinamento, la società/ente che
la esercitano possono essere chiamati in giudizio solo quando abbiano agito
nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi della
corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società danneggiate.
3. La azione può essere promossa solo se il socio o il creditore non siano stati
soddisfatti dalla società sottoposta a direzione e coordinamento. Inoltre, non
vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato
complessivo delle attività di direzione e coordinamento. (Questa norma trova
riscontro nei cc.dd. vantaggi compensativi, che spesso giustificano le
operazioni infra-gruppo: vantaggi che la singola unità pregiudicata da una
certa operazione, può trarre da una più ampia politica di gruppo, e talvolta
dalla sua stessa appartenenza al gruppo);
4. L’art. 2497 comma 2° aggiunge una disposizione molto significativa:
«risponde in solido chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo e nei limiti
del vantaggio conseguito, chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio». Le
341
prospettive applicative di questa norma sono molto ampie, perché essa
consente di estendere la responsabilità non solo agli ideatori ed esecutori, ma
anche ai beneficiari della attività dannosa.
342
I GRUPPI NELLA LEGISLAZIONE SPECIALE
343
Il gruppo assicurativo è disciplinato dal d.lgs. 209/2005 (codice delle
assicurazioni private): gli artt. 82 ss. ne prevedono la composizione, escludendo
dalla partecipazione sia le imprese bancarie e finanziarie. Il gruppo assicurativo
non ha struttura unitaria, e si basa sia sul controllo sia sul collegamento, oltre che
sulla direzione unitaria e la partecipazione rilevante. L’ISVAP può impartire
disposizioni sulla adeguatezza della gestione dei rischi.
IL GRUPPO INSOLVENTE
Uno dei maggiori pericoli che derivano dalla realtà dei gruppi è quello della
insolvenza delle imprese che ne fanno parte. La attività di direzione e
coordinamento consente infatti di distribuire in maniera anomala il rischio del
dissesto, concentrando le attività rischiose in capo a società del gruppo
scarsamente patrimonializzate, destinate al momento opportuno a essere
sacrificate per la stabilità del gruppo. La diversa personalità giuridica delle
società del gruppo sottrae alla responsabilità patrimoniale e gestoria chi ha
effettivamente deciso le strategie e adottato le decisioni che hanno determinato
l’insolvenza della singola società (la società holding risponde limitatamente delle
obbligazioni delle partecipate). Il legislatore si è occupato di questi problemi
soprattutto nell’ambito della procedura della amministrazione straordinaria delle
grandi imprese insolventi.
344
L’ESTINZIONE DELLA SOCIETÀ A
BASE CAPITALISTICA
L’estinzione dell’impresa societaria può avvenire:
1) In seguito al compiersi di una fattispecie a formazione progressiva, che
comporta una dissoluzione dell’impresa attraverso la liquidazione dell’attivo e
che culmina nella cancellazione della società dal registro delle imprese;
2) In seguito ad altri eventi, che rientrano nella fattispecie a formazione
istantanea, i quali producono la morte della società senza che occorra la
procedura di liquidazione (es. la fusione e la scissione).
Occupiamoci della prima.
Il primo momento della fattispecie estintiva è lo scioglimento, ma in realtà
scioglimento ed estinzione non si identificano, dal momento che il primo dà solo il
via a un processo che si articola in 3 momenti:
345
f)Per deliberazioni dell’assemblea (SCIOGLIMENTO ANTICIPATO);
g)Per altre cause previste dallo statuto, dall’atto costitutivo e dalla legge
346
La liquidazione, quindi, inizia con il passaggio delle consegne dagli
amministratori ai liquidatori. I liquidatori hanno una serie di POTERI (ossia,
quello di compiere tutti gli atti necessari alla liquidazione, es. vendere i beni sociali
in blocco o in lotti), hanno una serie di OBBLIGHI (devono adempiere i loro doveri
con la professionalità e la diligenza richieste dalla natura dell’incarico) e hanno
infine la RAPPRESENTANZA, anche processuale, della società. La procedura di
liquidazione si articola, come sempre, in 3 fasi:
I) Monetizzazione del patrimonio della società (ivi compresa l’esazione dei
crediti sociali);
II) Soddisfazione delle passività sociali;
III) La redazione del bilancio finale di liquidazione e del piano di riparto. I
due documenti svolgono funzioni differenti, giacché il bilancio finale di
liquidazione – sottoscritto dai liquidatori e corredato da una relazione dei
sindaci e, eventualmente, del soggetto incaricato della revisione dei conti –
dà conto di tutte le operazioni compiute in fase liquidatoria e degli esiti della
liquidazione, mentre il piano di riparto prevede la distribuzione tra i soci
dell’eventuale residuo patrimoniale. →→→ Il bilancio finale di liquidazione
deve essere depositato presso l’ufficio del registro delle imprese anche per
dare modo, nei tre mesi successivi, a ogni socio di proporre reclamo davanti
al tribunale in contraddittorio con i liquidatori. Art. 2493: «Decorso il
termine di novanta giorni, senza che siano stati proposti reclami, il bilancio
finale di liquidazione si intende approvato (approvazione tacita) e i
liquidatori, salvi gli obblighi relativi alla distribuzione dell’attivo risultante
dal bilancio, sono liberati di fronte ai soci».
347
Il post-cancellazione (art. 2495 co.2) » La morte della società non impedisce che i
creditori sociali insoddisfatti possano far valere i loro crediti nei confronti dei soci.
Non a caso, l’articolo in esame dispone che, ferma restando l’estinzione della
società, dopo la cancellazione i creditori sociali insoddisfatti possono far valere i
loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi
riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il
mancato pagamento è dipeso da colpa di questi. La domanda, se proposta entro un
anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l’ultima sede della società.
348
LE SOCIETÀ COOPERATIVE
1. Al vertice delle fonti delle società cooperative si trova l’art. 45 Cost. «La
Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e
senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i
mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, le finalità».
2. Il regolamento CE del 2003 ha previsto, dettandone lo statuto, la Società
Cooperativa Europea (SCE), per consentire la costituzione di cooperative con soci
residenti in almeno due Stati membri, che intendano svolgere la propria attività su tutto
il territorio della Comunità;
3. La disciplina generale delle società cooperative si trova nel Libro V del Codice
civile, sotto il Titolo VI, rubricato Delle società cooperative e delle mutue
assicuratrici (artt. 2511-2548), ma il codice è affiancato da numerosi leggi speciali;
4. La riforma del 2003 non si applica alle cooperative di credito, e cioè alle banche
popolari e alle banche di credito cooperativo, nonché ai consorzi agrari.
349
2. Secondo l’opinione prevalente, lo scopo mutualistico consiste in una reciprocità
di prestazioni tra società e soci (GESTIONE DI SERVIZIO) che sarebbe assente dallo
scopo delle società ordinarie. Abbiamo già parlato dell’essenza dello scopo mutualistico
e della differenza tra le cooperative e le società lucrative, ma dobbiamo approfondire,
dicendo che sono vari i meccanismi che garantiscono lo scopo mutualistico. Il rapporto
mutualistico, infatti, si realizza mediante rapporti contrattuali distinti e successivi
rispetto al rapporto sociale: in tal senso, si sottolinea l’esistenza della duplicità di
rapporti → contratto di società e successivi rapporti contrattuali di scambio,
caratterizzati essenzialmente da una particolare vantaggiosità economica della
prestazione alla quale il socio ha diritto. Un’apparente eccezione è data dalle mutue
assicuratrici: in base all’art. 2546 co. 3 «Non si può acquistare la qualità di socio, se
non assicurandosi presso la società, e si perde la qualità di socio con l’estinguersi
dell’assicurazione, salvo quanto disposto dall’art. 2548»: questa norma sancisce la
necessaria coincidenza della qualità di socio con quella di assicurato e, pertanto, è più
giusto dire che la mutualità, sotto questo aspetto, è più intensa nelle mutue che non nelle
cooperative;
3. Il vantaggio patrimoniale della prestazione mutualistica (per esempio, il prezzo
conveniente della casa costruita in cooperativa), viene realizzato mediante un
procedimento produttivo e distributivo nel quale la società si sostituisce
all’intermediario speculatore, eliminandone il profitto, che viene redistribuito ai soci
stessi sotto forma di minor costo dei beni e servizi offerti dalla società ai soci, o di
maggiore remunerazione dei beni e servizi offerti dalla società ai soci. Il vantaggio
mutualistico può essere realizzato con due tecniche distinte: quella del vantaggio
immediato (quando la società pratichi immediatamente, al momento dello scambio con
il socio, prezzi inferiori o retribuzioni superiori a quelle di mercato) e quella del
vantaggio differito (in questo caso, il vantaggio mutualistico viene attribuito ai soci
mediante i ristorni, che sono somme di denaro che la società distribuisce – restituisce –
ai soci periodicamente, quasi sempre in occasione dell’approvazione del bilancio di
esercizio, in proporzione ai rapporti intercorsi con la cooperativa. (Ricorda la differenza
tra utili e ristorni: mentre gli utili costituiscono la remunerazione del capitale investito e
sono, pertanto, proporzionali al capitale conferito da ciascun socio, i ristorni sono
somme periodicamente distribuite dalla cooperativa, e sono proporzionali ai rapporti
mutualistici intervenuti tra il socio e la società.
350
4. L’art. 2545 sexies stabilisce che l’atto costitutivo determina i criteri di
ripartizione dei ristorni ai soci proporzionalmente alla quantità e alla qualità degli
scambi mutualistici. A tal fine, le cooperative devono riportare separatamente in
contabilità l’attività svolta con i soci rispetto a quella svolta con i terzi (cd. gestioni
separate).
Del secondo criterio si occupa l’art. 2514, che stabilisce che una cooperativa rientra
nella categoria della mutualità prevalente quando, oltre ad agire prevalentemente
con i soci, il suo statuto preveda:
a) Il divieto di distribuzione di dividendi superiori alla misure dell’interesse
massimo dei buoni postali fruttiferi, aumentato di due punti e mezzo;
351
b) Il divieto di remunerare gli strumenti finanziari offerti in sottoscrizione ai soci
cooperatori in misura superiore a due punti rispetto al limite massimo previsto
per i dividenti;
c) Il divieto di ripartizione delle riserve tra i soci cooperatori durante la vita della
società;
d) In caso di scioglimento del rapporto sociale o dell’intera società, la devoluzione
del patrimonio sociale (eccedente il capitale, che va rimborsato ai soci) ai Fondi
mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione.
↓
In pratica, nelle società cooperative e mutualità prevalente, tutte le clausole
statutarie dell’art. 2514 limitano in cd. lucro soggettivo dei soci, impedendo che la
società possa essere utilizzata per finalità individuali, speculative e non
mutualistiche.
352
quindi al perseguimento dello scopo di lucro. Questo possibile dualismo di
finalità deve essere tollerato, in quanto il nostro ordinamento, mediando tra le
diverse tendenze, consente alle cooperative di perseguire anche uno scopo di
lucro, purché vengano rispettate alcune regole patrimoniali particolari,
alcuni correttivi, che non sono imposti alle società ordinarie; regole
destinate a incidere soprattutto sul cd. lucro soggettivo (impedendo la
distribuzione e la fruizione, da parte dei soci, dei risultati patrimoniali
conseguiti). Questa era grossomodo la situazione prima della riforma.
↓
2. Oggi, la distinzione tra cooperative a mutualità prevalente e cooperative
diverse, introdotta dalla riforma del 2003, finisce per incidere anche su questa
premessa. Infatti, per le cooperative a mutualità prevalente, il legislatore ha
introdotto una serie di regole che sembrano ridurre rispetto al passato la
possibilità di svolgere attività lucrativa; per le cooperative «diverse», non
obbligate a rispettare gli artt. 2512-2513-2514 del codice (perciò non
fiscalmente agevolate), il legislatore ha ampliato le possibilità di svolgimento di
attività speculative dei cui risultati possono profittare i soci e i finanziatori
dell’impresa. La riforma, cioè, ha ridotto il livello di lucratività per le
cooperative a mutualità prevalente e ampliato, viceversa, il tasso di lucratività
per le cooperative diverse. Un ulteriore elemento di incertezza nella valutazione
delle indicazioni desumibili dal sistema dato dal divieto ex lege di divisione tra i
soci della riserva legale, introdotto in parallelo con la riforma del d.l. 63/2002:
divieto che si applicherebbe anche alle cooperative diverse.
3. Per tutte le cooperative, anche quelle diverse, l’art. 2525 del codice e leggi
speciali stabiliscono limiti massimi ai conferimenti in danaro dei soci. Nelle
cooperative nessun socio può avere una quota o possedere azioni di valore
superiore a centomila euro o, nelle cooperative con più di 500 soci, superiore al
due per cento del capitale sociale. I conferimenti devono però essere distinti
dagli eventuali corrispettivi che il socio versi per il conseguimento dei servizi
sociali: per esempio, nelle cooperative edilizie il socio, oltre a versare il
conferimento, deve pagare il prezzo dell’immobile che gli viene assegnato;
4. La l. 59/1992 ha permesso la cd. rivalutazione delle quote di partecipazione
dei soci, attraverso un’operazione di imputazione di utili di esercizio a capitale
sociale e, quindi, attraverso un vero e proprio aumento gratuito del capitale
353
sociale, che prima si riteneva vietato per effetto delle clausole statutarie di non
lucratività della legge Basevi;
5. Come si è già accennato, il codice – art. 2514 e 2545 quater e quinques - e le
leggi speciali stabiliscono per le cooperative un regime particolare di
distribuzione e devoluzione degli utili. In tutte le cooperative, almeno il 30%
degli utili deve essere anzitutto destinati alla riserva legale (art. 2545 quater) +
una quota del 3% degli utili deve essere poi destinata ai Fondi mutualistici.
Dopo questi prelievi obbligatori, la disciplina d diversifica a seconda che si tratti
di cooperative a mutualità prevalente (in questo caso, la società deve rispettare
le clausole indicate dall’art. 2514: distribuzione «frugale» dei dividenti e divieto
di distribuzione delle riserve) o cooperative diverse (la partecipazione dei soci a
utili e riserve è invece più ampia, ma deve essere contenuta nei limiti stabiliti
dallo statuto).
6. Nelle cooperative a mutualità prevalente non è consentita la ripartizione delle
riserve tra i soci in caso di scioglimento del singolo rapporto sociale, ma è
viceversa consentito il rimborso del capitale rivalutato e del sovrapprezzo (art.
2535) vs nelle cooperative diverse può esservi una liquidazione della quota
comprendente il valore delle riserve tra i soci. Per quanto riguarda, infine, lo
scioglimento della società, nelle cooperative protette il patrimonio eccedente il
capitale deve essere devoluto ai Fondi mutualistici; mentre in quelle «diverse»
esso può essere ripartito tra i soci;
7. Per evitare la sottocapitalizzazione delle cooperative, derivante soprattutto dai
limiti posti dall’ordinamento ai conferimenti dei soci, la legge ha introdotto una
serie di misure che consentono anche a queste società di fare ricorso al risparmio
dei soci e dei terzi. Le cooperative sono state abilitate alla raccolta del risparmio
attraverso la emissione di obbligazioni e le cooperative possono ottenere dai
propri soci prestiti fiscalmente agevolati. La legge 59/1992 aveva introdotto le
figure dei soci avventori e degli azionisti di partecipazione cooperativa,
entrambi portatori di interessi lucrativi e non mutualistici. La riforma ha
confermato e ampliato le linee di tendenza del 1992, e per tutte le cooperative,
anche a mutualità prevalente, ha previsto accanto ai soci cooperatori la presenza
di finanziatori, soci e non soci (art. 2526), tra i quali rientrano necessariamente
le figure dei soci sovventori e gli azionisti di partecipazione cooperativa previsti
dalla legge del 1992. La legge però cerca cmq di evitare che gli interessi
354
lucrativi dei soci finanziatori possano prevalere sugli interessi mutualistici dei
soci cooperatori;
8. È anche il caso di segnalare che i profili cooperativi della cooperazione sono
stati accentuati dal fatto che il legislatore consente alle singole cooperative di
dar vita a organismi associativi di livello superiore che valorizzano le
potenzialità imprenditoriali degli enti aderenti → Le cooperative possono
costituire consorzi di cooperative, riconducibili a 3 tipi: consorzi di cooperative
ammissibili ai pubblici appalti; consorzi di cooperative i forma cooperativa –
cooperative tra cooperative – e infine consorzi di cooperative per il
coordinamento della produzione e degli scambi.
355
Contrariamente al dettato dell’art. 2528, che non concede all’aspirante socio la
possibilità di rivolgersi al tribunale in caso di rifiuto illegittimo da parte della società,
sussiste una maggiore garanzia per il socio che voglia trasferire a terzi la propria quota
sociale: l’art. 2530, pur prevedendo la necessità del placet, consente al socio di
rivolgersi al tribunale qualora l’autorizzazione degli amministratori sia illegittimamente
negata.
La costituzione
La cooperativa, dal punto di vista organizzativo, è modellata sulla disciplina della
società di capitali. Per la costituzione valgono dunque, in linea di principio, le stesse
regole di queste ultime: il codice prevede le indicazioni obbligatorie dell’atto costitutivo
(art. 2521) e stabilisce la possibilità che i rapporti mutualistici vengano disciplinati da
regolamenti interni, predisposti dagli amministratori e approvati dall’assemblea
straordinaria.
Per la costituzione della società occorre un numero minimo di soci (nove), ma il
numero minimo può scendere a 3 (tre) quando soci siano solo persone fisiche, e la
società adotti la disciplina di una SRL.
I requisiti dei soci delle cooperative sono stabiliti da leggi speciali, o dallo statuto, e
sono collegati al tipo di attività che la società deve svolgere. È vietata, in ogni caso, la
partecipazione di persone che esercitino imprese in concorrenza con quella della
cooperativa. Facciamo qualche esempio: per le cooperative di lavoro la normativa
stabilisce che i soci devono essere lavoratori ed esercitare l’arte o il mestiere
corrispondente alla specialità delle cooperative di cui fanno parte; per alcune forme di
cooperative agricole la legge stabilisce che non possono essere ammesse persone che
esercitino attività diverse dalla coltivazione della terra. Ecc ecc.
Per quanto concerne, infine, la pubblicità, le società cooperative sono soggette, oltre
all’iscrizione nel registro delle imprese, all’iscrizione presso l’Albo speciale delle
Società cooperative, di cui all’art. 2512 co.2, iscrizione che vale anche per le
cooperative «diverse» e che ha assunto valore costitutivo della qualifica di società
cooperativa.
Strumenti finanziari
356
Accanto alle azioni, la Riforma ha espressamente previsto la possibilità di emettere
strumenti finanziari e altri titoli di debito. La distinzione fondamentale da affrontare,
adesso, è quella tra soci cooperatori e soci finanziatori. I primi sono titolari di azioni o
quote che aderiscono alla cooperativa e perseguono uno scopo mutualistico; i secondi
sono senz’altro sottoscrittori di strumenti finanziari emessi dalla società, mossi da
intenti lucrativi, ma quand’è che possono definirsi anche soci? Il Buonocore risponde in
due modi: o quando gli strumenti finanziari sono remunerati con la partecipazione agli
utili della società (e non con la corresponsione di interessi che prescindono dai risultati
dell’impresa), oppure quando, viceversa, ad essi lo statuto attribuisca poteri di
intervento nella vita della società, anche se la remunerazione del finanziamento non è
collegata agli utili. Nel concetto di finanziatori, vi rientrano senz’altro le due seguenti
categorie:
I)SOCI SOVVENTORI
L’introduzione dei soci sovventori, da addebitarsi alla L.59/1992, consente alla società
di procedere alla raccolta di capitale di rischio anche nei confronti dei soggetti che non
partecipano direttamente agli scopi mutualistici. Non tutte le cooperative, però, possono
prevedere soci sovventori, per es. sono escluse le cooperative operanti nel settore
dell’edilizia abitativa, oppure le banche di credito cooperativo.
Per quanto concerne la disciplina dei soci sovventori, dobbiamo dire che le loro azioni
sono necessariamente nominative, ma circolano liberamente, senza che sia necessario il
consenso del consiglio di amministrazione. Il sovventore effettua un apporto, la cui
entità è libera, indipendente quindi dai limiti previsti per i conferimenti dei soci
ordinari. Tuttavia i voti attribuiti ai sovventori non devono in ogni caso superare 1/3 dei
voti spettanti a tutti i soci. Infine, i soci sovventori possono anche essere nominati
amministratori, purché la maggioranza degli amministratori sia costituita dai soci
cooperatori.
357
(remunerazione maggiorata del 2% rispetto a azioni/quote dei soci della cooperativa) e
un diritto di prelazione nel rimborso del capitale, al momento dello scioglimento della
società. Esse sono azioni, quindi, privilegiate patrimonialmente.
Le azioni di partecipazione cooperativa possono essere emesse per un ammontare non
superiore al valore contabile delle riserve indivisibili o del patrimonio netto risultante
dall’ultimo bilancio. I possessori di azioni di partecipazione cooperativa sono
organizzati in assemblea speciale, che delibera sulla nomina e sulla revoca del
rappresentante comune.
ORGANIZZAZIONE INTERNA
■ Partiamo dalle assemblee. L’art. 2540 del codice ha reso facoltative le assemblee
separate (che nominano i delegati che voteranno nelle assemblee generali), e
obbligatorie solo quando la società ha più di 300 soci e svolge attività in più province,
ovvero se ha più di 500 soci e si realizzano più gestioni mutualistiche;
■ La Riforma ha previsto che l’atto costitutivo debba indicare il sistema di
amministrazione adottato (quindi, se si adotta il modello della SPA, la cooperativa può
scegliere tra sistema tradizionale, dualistico e monastico). Inoltre, per essere interpreti
dei bisogni dei membri, l’art. 2542 stabilisce che i membri del consiglio di
amministrazione devono essere in maggioranza soci cooperatori, o persone indicate da
soci cooperatori persone giuridiche;
358
■ Veniamo infine al collegio sindacale. L’art. 2543 stabilisce che la nomina del
collegio sindacale è obbligatoria: a) se il capitale sociale della cooperativa non è
inferiore a quello minimo stabilito per la SPA (120.000 euro); b)se per due esercizi
consecutivi siano stati superati i limiti indicati dall’art. 2435bis; c)se la cooperativa ha
emesso strumenti finanziari non partecipativi.
I controlli
Per tutte le cooperative, anche quelle diverse, in ragione della loro funzione sociale, la
riforma ha mantenuto in vita il risalente sistema dei controlli pubblici. La vigilanza
cooperativa è devoluta al Ministero della Attività Produttive, e si esercita mediante
revisioni cooperative (che devono avvenire almeno una volta ogni 2 anni) o ispezioni
straordinarie. Le principali eccezioni a questo sistema generale sono costituite dalle
cooperative di credito, sottoposte a vigilanza della Banca d’Italia e dalle cooperative di
assicurazione e mutue assicuratrici.
359
euro; conferimenti di soci finanziatori superiori a 2.000.000 di euro) la legge prevede la
certificazione annuale del bilancio d’esercizio, affidata a una società di revisione. La
sanzione per la mancata certificazione è la gestione commissariale.
La gestione commissariale
L’art. 2545sexidecies stabilisce che, in caso di irregolare funzionamento delle
cooperative, l’autorità di vigilanza può revocare gli amministratori e i sindaci e affidare
la gestione della società a un commissario. Al commissario possono essere conferiti
anche i poteri dell’assemblea.
360
LE MUTUE ASSICURATRICI
Lo scopo mutualistico in campo assicurativo può essere perseguito, dal nostro
ordinamento, da due soggetti distinti: le cooperative di assicurazione e le mutue
assicuratrici.
Le mutue assicuratrici sono società cooperative caratterizzate dalla stretta
interdipendenza che per legge esiste tra la qualità di socio e la qualità di assicurato: non
si può acquistare la qualità di socio, se non assicurandosi presso la società e, viceversa,
si perde la qualità di socio con l'estinguersi dell'assicurazione.
Questo principio differenzia il mutuo assicurativo rispetto alle comuni cooperative di
assicurazione.
Per le obbligazioni sociali risponde solo la società con il proprio patrimonio. I soci
assicurati sono obbligati verso la società al pagamento di contributi, che costituiscono
nel contempo conferimento e premio di assicurazione (pagati periodicamente). Quando
il patrimonio sociale (formato dai contributi) è insufficiente per l'esercizio dell'attività
assicurativa, l'atto costitutivo può prevedere la costituzione di fondi di garanzia per il
pagamento delle indennità, mediante speciali conferimenti da parte di soci assicurati o
di terzi, attribuendo anche a quest'ultimi la qualità di socio.
Di regola perciò coesistono due categorie di soci: soci assicurati e soci sovventori (i
quali si limitano a conferire il capitale necessario per l'attività della società senza essere
assicurati).
I soci sovventori possono votare ed essere nominati amministratori, ma la maggioranza
di essi deve essere costituita da soci assicurati. Ai soci sovventori possono essere
attribuiti più voti, ma comunque non più di cinque.
La caratteristica peculiare della mutua assicuratrice è quindi che si acquista la qualità di
socio (assicurato), assicurandosi presso la società, e la si perde con l’estinzione del
rapporto di assicurazione. Alcuni ritengono che l’assicurazione mutua e la
partecipazione alla mutua assicuratrice siano due contratti diversi, ma prevale l’opinione
che le due fattispecie integrino un unico rapporto contrattuale: questo si riflette sulla
disciplina delle mutue, in quanto a esse si applicano le norme sulle società cooperative
(in quanto compatibili) e la disciplina delle assicurazioni private.
Ricordiamo che l’atto costitutivo deve essere stipulato necessariamente per atto
pubblico e, a questo proposito, un argomento a favore della tesi unitaria è che il
contratto costitutivo della mutua assicuratrice vale sia come costituzione dell’ente, sia
come contratto di assicurazione.
361
Le mutue assicuratrici si distinguono in:
1. Mutue a ripartizione → I partecipanti assumono l’obbligo di contribuire pro quota
al pagamento delle indennità di assicurazione, senza conferimenti per la costituzione di
un fondo sociale;
2. Mutue a quota fissa → In questo caso, invece, si ha la costituzione di un fondo
sociale mediante conferimenti determinati sin dall’inizio, o variabili. Solo in relazione a
queste ultime è lecito parlare di società, e rispetto a queste va applicata la disciplina
prevista dal codice per le mutue assicuratrici. Nel caso precedente abbiamo, invece, non
una vera società di mutua assicurazione, giacché presupposto di quest’ultima è la
costituzione di un patrimonio che garantisca le obbligazioni della società.
362
TRASFORMAZIONE, FUSIONE,
SCISSIONE
I)LA TRASFORMAZIONE
La trasformazione rappresenta una modifica del contratto di società, che non
implica l’estinzione del soggetto giuridico e la nascita di uno nuovo, ma il
mutamento della struttura organizzativa, ovvero incide sulla disciplina da
applicare. Ciò è confermato dall’art. 2498: «L’ente trasformato conserva i diritti
e gli obblighi e prosegue in tutti i rapporti, anche processuali, dell’ente che ha
effettuato la trasformazione» (principio della continuità dei rapporti giuridici).
Ora, la trasformazione a seguito della Riforma del 2003 può essere omogenea
(trasformazione che si muove nell’ambito dei diversi tipi di società lucrative, che
a sua volta può essere progressiva – trasformazione da società di persone a
società di capitali – o regressiva – trasformazione da società di capitali e società
di persone); ma può anche essere eterogenea, ossia la più radicale
trasformazione di una società di capitali in consorzi, società consortili, società
cooperative, ecc e viceversa.
LA TRASFORMAZIONE OMOGENEA
Trasformazione progressiva
Attualmente, il legislatore riferisce la trasformazione non più alle SNC o alle
SAPA, ma più correttamente si richiama alle “società di persone”, con ciò
includendo anche la società semplice.
La trasformazione da società di persone in società di capitale deve risultare da
atto pubblico e deve contenere le indicazioni previste dalla legge per l’atto
costitutivo del tipo di società prescelto. Il passaggio da società di persone a
società di capitali presente le seguenti peculiarità:
1) La necessità di determinare l’entità del capitale della società, al fine di
evitare l’elusione delle norme poste a tutela dell’effettività del capitale
della società trasformata. L’art. 2500ter co.2 prescrive che il capitale
363
della società risultante dalla trasformazione deve essere determinato sulla
base dei valori attuali degli elementi dell’attivo e del passivo, e deve
risultare da relazione di stima;
2) Le regole per la ripartizione del capitale tra i soci: in materia sovviene
l’art. 2500quater, co.1, per cui ciascun socio ha diritto all’assegnazione di
una quota o di un numero di azioni proporzionale alla sua partecipazione;
3) Il regime della responsabilità dei soci nel passaggio da illimitatamente
responsabile a limitatamente responsabile. La regola è che la
trasformazione non libera i soci a responsabilità illimitata dalla
responsabilità per le obbligazioni sorte prima della trasformazione;
tuttavia il legislatore prevede che tale responsabilità non è richiamabile nei
confronti di quei creditori sociali che abbiano prestato il loro consenso alla
trasformazione: nella prospettiva di favorire la liberazione e agevolare la
trasformazione, il consenso si presume prestato per quei creditori, ai quali
la delibera di trasformazione sia stata comunicata, che non lo abbiano
espressamente negato entro il termine di 60 giorni dalla ricezione.
Trasformazione regressiva
La trasformazione regressiva presenta profili peculiari. L’art. 2500-sexies
dispone che, salva diversa disposizione dello statuto, la deliberazione di
trasformazione è adottata con le maggioranze previste per le modifiche statutarie,
richiedendo comunque il consenso espresso dei soci che in ragione della
trasformazione assumono responsabilità illimitata. La ratio della disposizione è
in un principio cardine del nostro ordinamento: in nessun caso si può incidere
sulla sfera patrimoniale di un soggetto (e, dunque, sulla sua responsabilità) senza
una sua preventiva manifestazione di volontà. I soci contrari alla deliberazione di
trasformazione potranno esercitare il diritto di recesso (troveranno applicazione
gli artt. 2437 e 2473).
Inoltre, i soci che hanno assunto con la trasformazione responsabilità illimitata
rispondono illimitatamente anche per le obbligazioni sociali sorte anteriormente
alla trasformazione: in tal caso il legislatore, non prevedendo un diverso regime
364
di responsabilità tra le obbligazioni anteriori e quelle successive, vuole tutelare
le ragioni creditorie.
L’art. 2500sexies co.3 riconosce infine ai soci il diritto a una partecipazione
proporzionale al valore delle loro azioni o della loro quota, riaffermando così il
principio della inalterabilità delle posizioni e delle situazioni giuridiche
acquisite prima della trasformazione.
LA TRASFORMAZIONE ETEROGENEA
Come già detto, la trasformazione eterogenea è la trasformazione di società di
capitali in enti aventi natura o causa giuridica diversa e viceversa. In sostanza, in
questo caso la trasformazione può conseguire al sopraggiunto mutamento dello
scopo perseguito dai soci, non più lucrativo, ma consortile o mutualistico, e
viceversa.
II)LA FUSIONE
Per fusione si intende l’unificazione di due o più società, precedentemente
distinte dal punto di vista giuridico, sì che a una pluralità di società se ne
sostituisce una sola. A seconda delle modalità di esecuzione, il codice distingue
due tipi di fusione: 1)la fusione in senso stretto, in cui tutte le società
partecipanti alla fusione si estinguono e dalla loro integrazione nasce una nuova
società; 2)la fusione per incorporazione, in cui una società (detta incorporante)
assorbe tutte le altre (dette incorporate), che si estinguono.
La fusione può avere luogo tra società dello stesso tipo o che perseguono il
medesimo scopo, ovvero tra società di tipo diverso o tra enti diversi, e in tal caso
di parla di trasformazione eterogenea, figura però non contemplata
espressamente dal legislatore.
La partecipazione alla fusione è consentita anche alle società che si trovano in
stato di liquidazione, purché non abbiano iniziato la distribuzione dell’attivo
366
(salvo che alla fusione partecipino solo società con capitale non rappresentato da
azioni, nel qual caso è consentita la partecipazione al procedimento anche a
società che abbiano iniziato la distribuzione dell’attivo).
È inoltre caduto il divieto per società sottoposte a procedure concorsuali di
partecipare alla fusione, e ciò al fine di ampliare il numero di strumenti
utilizzabili per il risanamento dell’impresa.
Il procedimento di fusione si articola nelle seguenti fasi:
I) Il progetto di fusione
● L’art. 2501ter prevede che gli amministratori delle diverse società partecipanti
alla fusione devono redigere un progetto di fusione, nel quale debbono essere
fissate le condizioni e le modalità dell’operazione: la norma non solo identifica
un contenuto tipico e minimo del progetto di fusione, ma induce a ritenere che lo
stesso debba avere contenuto identico per tutte le società.
● Inoltre, l’organo amministrativo delle società partecipanti alla fusione è
chiamato a redigere una situazione patrimoniale delle società, riferita a una
data che non sia anteriore a 120 giorni dal giorno in cui il progetto di fusione è
stato depositato presso la sede sociale. La situazione patrimoniale rappresenta un
«documento storico» che costituisce il supporto informativo più completo, per i
creditori e per i soci, al fine di consentire la valutazione dell’operazione (si parla
di bilancio straordinario di fusione).
● L’art. 2501quinquies prevede inoltre che l’organo amministrativo delle società
partecipanti alla fusione debba predisporre una relazione che illustri o giustifichi
il progetto di fusione, e in particolare il rapporto di cambio tra le azioni o quote.
● E, a questo proposito, diciamo qualcosa in più sul rapporto di cambio:
esprime la misura con la quale verrà determinata la partecipazione attribuita ai
soci delle società incorporate nella società incorporante ovvero ai soci della
società risultante dalla fusione in senso stretto. Il termine «cambio» fa
riferimento alla sostituzione delle vecchie partecipazioni con le nuove, e il
termine «rapporto» indica il criterio col quale si procederà a questa sostituzione:
questo rapporto dipende dalla valutazione comparativa dei patrimoni netti delle
società che partecipano alla fusione, sicché col cambio di partecipazione il socio
367
dovrà conseguire il medesimo valore economico. Proprio al fine di salvaguardare
questo principio, si ammette la possibilità di un conguaglio in denaro,
determinato nella misura massima del 10% del valore delle azioni o quote
assegnate ai soci.
● Proprio in ragione della delicatezza di tale profilo, si prevede altresì che uno o
più esperti per ciascuna società debbano redigere una relazione sulla congruità
del rapporto di cambio delle azioni o quote, che indichi anzitutto il metodo
seguito per la determinazione del rapporto di cambio e, in secondo luogo, le
eventuali difficoltà di valutazione.
● Il progetto di fusione, le relazioni degli amministratori e degli esperti, la
situazione patrimoniale delle società partecipanti alla fusione e il bilancio degli
ultimi 3 esercizi debbono essere depositati in copia presso la sede di ciascuna
società partecipante alla fusione durante i 30 giorni che precedono la decisione di
fusione e finché la stessa non sia decisa. Peraltro, il progetto di fusione deve
essere iscritto le Registro delle imprese del luogo ove hanno sede le società
partecipanti alla fusione, e tra l’iscrizione del progetto e la data della
deliberazione devono intercorrere almeno 30 giorni.
368
■ La fusione può pregiudicare la posizione dei creditori delle società
partecipanti, posto che una volta attuata la fusione, tutti i creditori resteranno
garantiti dall’unico patrimonio risultante dalla fusione. È perciò stabilito (ex art.
2503) che, per tutelare l’interesse creditorio, la fusione possa essere attuata solo
dopo che siano trascorsi 60 giorni (30 se alla fusione partecipano solo società con
capitale non rappresentato da azioni) dall’iscrizione nel registro delle imprese
delle deliberazioni della società, sempre che entro tale termine i creditori non
abbiano fatto opposizione. In tal caso, troverà applicazione l’art. 2445 ultimo
comma, che dispone che nonostante l’eventuale opposizione dei creditori, il
Tribunale potrà comunque disporre che la fusione abbia luogo, se reputa
infondato il pericolo del pregiudizio ai creditori o se la società abbia prestato
idonee garanzie.
■ Il procedimento di fusione deve tenere conto, peraltro, anche che in una SPA
possono esservi titolari di obbligazioni ordinarie e convertibili: in tal senso, gli
obbligazionisti possono proporre opposizione a norma dell’art. 2503, quindi
secondo le stesse modalità previste per i creditori, salvo che la fusione sia stata
approvata dall’assemblea degli obbligazionisti (approvazione che si rende
necessaria proprio perché la fusione può modificare le condizioni del prestito
obbligazionario).
369
IV) Gli effetti della fusione
All’ultima iscrizione nel registro delle imprese della nuova società risultante
dalla fusione o della società incorporante va riconosciuta efficacia costitutiva
degli effetti della fusione. (Va precisato che nella fusione per incorporazione
tali effetti possono essere posticipati rispetto a tale momento attraverso
l’apposizione di un «termine iniziale», a differenza di quanto avviene nella
fusione mediante costituzione di una nuova società, nella quale ciò non è
possibile). Vediamo a questo punto quali sono questi effetti:
→ La fusione determina la riduzione a unità dei patrimoni delle singole società e
la confluenza dei soci di queste in un’unica struttura organizzativa, che, nella
fusione in senso stretto continua l’attività di tutte le società che si estinguono,
mentre nella fusione per incorporazione comporterà l’estinzione di tutte le
società, tranne l’incorporante.
L’art. 2504bis co.1 prescrive che «la società incorporante o la società che risulta
dalla fusione assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla
fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla
fusione». Le conseguenze riguardando:
1)Sia la posizione dei creditori delle società estinte, che potranno far valere i
loro diritti sul patrimonio della società incorporante o della società risultante
dalla fusione;
2) Sia i soci delle società estinte, che diventeranno soci delle società
incorporante ovvero di quella risultante dalla fusione, ricevendo in cambio della
loro originaria partecipazione quote o azioni di queste ultime, in base al
rapporto di cambio.
Le fusioni semplificate
Nell’art. 2505quater il legislatore ha previsto un’ipotesi semplificata di fusione
con riferimento a operazioni tra società il cui capitale non è rappresentato da
azioni, derogando alla disciplina innanzi descritta per quanto riguarda: a)la
disapplicazione dei limiti all’operatività della fusione tra società in liquidazione;
b)al conguaglio in denaro da determinarsi in sede di definizione del rapporto di
cambio, che può essere determinato anche in misura superiore al 10% del valore
370
nominale delle azioni o quote assegnate; c)nella possibilità di superare
l’esigenza, subordinatamente al consenso unanime dei soci, della relazione degli
esperti sulla congruità del con cambio; d)nella riduzione a metà di taluni termini
fissati per il procedimento di fusione.
III)LA SCISSIONE
L’art. 2506 co.1 dispone che «Con la scissione una società assegna l’intero suo
patrimonio a più società, preesistenti o di nuova costituzione, o parte del suo
patrimonio, in tal caso anche a una sola società, e le relative azioni o quote ai
suoi soci».
L’operazione appena descritta può assumere due forme diverse:
a) Con la scissione totale, la società scissa assegna l’intero suo patrimonio a
favore di una o più società preesistenti o di nuova costituzione. Il
patrimonio della società scissa viene quindi assegnato alla o alle società
beneficiarie, si ché la società scissa si estingue senza necessità di
liquidazione, e i soci della stessa diventano soci della società costituita ex
novo oppure entrano nella compagine sociale della società preesistente (si
parla, in tal caso, di scissione per incorporazione);
b) Con la scissione parziale, la società scissa trasferisce soltanto una parte
del suo patrimonio a favore di una o più società preesistenti o di nuova
costituzione. Qui l’operazione consiste nel trasferimento parziale del
patrimonio della società scissa a una o più società beneficiarie, e consente
di evocare un parallelismo con l’operazione di scorporazione. Infatti, in
passato, prima che il legislatore introducesse la scissione, effetti molto
simili alla stessa erano conseguibili attraverso la scorporazione, che
poteva avvenire mediante due modelli: 1)La società originaria riduceva il
capitale sociale per esuberanza e provvedeva al rimborso in natura ai soci
della parte di patrimonio resosi così disponibile. I soci, dal canto loro,
conferivano poi quanto ricevuto in una società di nuova costituzione; 2)La
società veniva sciolta e si dava luogo alla liquidazione di essa, con
371
conseguente distribuzione ai soci delle attività residue. Gli ex soci poi
conferivano quanto ricevuto in due o più società di nuova costituzione. →
→ Come può rilevarsi, la prima ipotesi è ben vicina alla scissione parziale,
mentre la seconda è ben vicina alla scissione totale. Con l’introduzione di
una disciplina unitaria della scissione, si discute se sia ancora ammissibile
la scorporazione.
L’art. 2506 co.2 consente, anche per la scissione, al fine di agevolare l’accordo
tra i soci, la previsione di un conguaglio in denaro, purché non superiore al 10%
del valore nominale delle azioni o delle quote attribuite, e contempla anche la
possibilità che, col consenso unanime dei soci, ad alcuni di essi non vengano
distribuite azioni di una delle società beneficiarie, bensì azioni della società
scissa.
Infine, il co.4 dello stesso articolo espressamente prevede che possano
partecipare alla scissione anche società in liquidazione, purché non abbiano già
iniziato la distribuzione dell’attivo.
Il procedimento di scissione
La disciplina del procedimento di scissione è in gran parte modellato su quello
della fusione, e infatti l’art. 2506ter contiene in rinvio generale alla maggior parte
delle norme dettate per il procedimento di fusione. La disciplina del
procedimento può pertanto così sintetizzarsi:
a)la redazione del progetto di scissione, che oltre a contenere tutti gli elementi
che l’art. 2501ter prescrive per il progetto di fusione, deve indicare l’esatta
descrizione degli elementi patrimoniali da trasferire a ciascuna delle società
beneficiarie, nonché i criteri di distribuzione ai soci delle azioni o quote delle
società beneficiarie. Anche per la scissione è prevista la redazione della
situazione patrimoniale, la relazione degli amministratori e la relazione degli
esperti (art. 2506ter).
b) la delibera di scissione, la pubblicità, l’eventuale fase di opposizione dei
creditori e la stipula dell’atto di scissione risultano disciplinati alla stregua della
normativa prevista per la fusione;
372
c)La scissione diventa efficace a partire dalla data in cui è stata eseguita l’ultima
iscrizione dell’atto di scissione nel registro delle imprese in cui sono iscritte le
società beneficiarie (art. 2506 quater co.1: a partire da tale momento, ciascuna
delle società beneficiarie assume i diritti e gli obblighi della società scissa, così
come risultano attribuiti nell’atto di scissione);
d)Nell’ultimo comma dell’art. 2506quater viene previsto che «Ciascuna società è
solidalmente responsabile, nei limiti del patrimonio netto ad essa assegnato o
rimasto, dei debiti della società scissa non soddisfatti dalla società a cui fanno
carico» → Per tale via, tutte le società coinvolte nella scissione si trovano a
garantire ex lege quella cui il debito è stato ceduto, fermo restando che si tratta di
una responsabilità di natura sussidiaria, ossia invocabile solo nel caso in cui la
obbligata in via principale non abbia già adempiuto la prestazione dovuta.
373
374
IL MERCATO MOBILIARE E I MERCATI
FINANZIARI
I. IL MERCATO MOBILIARE
Il MERCATO MOBILIARE può essere definito come quella parte di mercato
finanziario sul quale vengono prodotti e/o scambiati valori mobiliari e svolte
attività relative ai valori mobiliari.
La nozione di «mercato mobiliare» è incentrata su quella di valore mobiliare,
ossia prodotti finanziari che sono normalmente destinati alla circolazione. La più
completa e definitiva disciplina di tale mercato si è avuta, da ultimo, con il TUF,
Testo Unico Finanziario (d.lgs. 58/1998).
Questo testo definisce, anzitutto, la nozione di valore mobiliare e di strumenti
finanziari.
1. Per VALORE MOBILIARE si intendono categorie di valori negoziabili
nel mercato dei capitali, quali le azioni di società e altri titoli equivalenti
ad azioni di società, oppure obbligazioni e altri titoli di debito, o qualsiasi
altro titolo normalmente negoziato che permette di acquisire o di vendere i
suddetti valori mobiliari (l’elenco completo è recato dall’art. 2, co.1bis
TUF);
2. Per STRUMENTI FINANZIARI si intendono valori mobiliari (elencati
dall’art. 2 co. 1bis TUF), strumenti del mercato monetario (categorie di
strumenti normalmente negoziati nel mercato monetario, es. i buoni del
tesoro), contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati
(«future»), swap ecc. (l’elenco completo degli strumenti finanziari lo si
può leggere nell’art. 1 co.2 TUF).
Si può notare che il legislatore individua la species dei valori mobiliari
nell’ambito della categoria degli strumenti finanziari, individuandoli nei
valori negoziabili sul mercato dei capitali e fornendone un catalogo aperto. I
valori mobiliari, in defnitiva, si caratterizzano per la loro attitudine alla
375
circolazione, caratteristica che non posseggono gli altri strumenti finanziari
elencati nel relativo catalogo.
376
II. APPELLO AL PUBBLICO RISPARMIO
Il TUF conosce due tipi di «appello al pubblico risparmio», ossia: 1) L’offerta
al pubblico di prodotti finanziari; 2) L’offerta pubblica di acquisto (OPA).
377
restando che, in realtà, il controllo della Consob relativo alle operazioni di
offerta al pubblico di prodotti finanziari non si limita all’esame della
comunicazione e del prospetto informativo, ma si estende anche ai soggetti
(emittente, proponente, collocatore) coinvolti nell’offerta. Soggetti ai quali
vengono imposti obblighi di trasparenza e correttezza.
378
giudizio sull’offerta, la Consob lo approva entro 15 giorni dalla presentazione
di cui al 2).
{Come si nota, anche in questo caso abbiamo 2 documenti: la comunicazione
destinata alla Consob e il documento di offerta destinato alla pubblicazione,
che tiene luogo del prospetto informativo che abbiamo visto prima}
LE OPA OBBLIGATORIE
Premessa: il legislatore prevede ipotesi di OPA obbligatorie solo con
riferimento a società italiane con titoli ammessi alla negoziazione in mercati
regolamentati italiani, quindi non c’è obbligo di OPA né per società italiane
quotate soltanto in mercati non italiani, né per società straniere, anche se
quotate in mercato regolamentato italiano.
Punto primo: l’obbligo concerne solo le PARTECIPAZIONI che superino
determinate soglie, laddove col termine PARECIPAZIONE si intende una
quota dei titoli emessi da una società (di cui sopra) che attribuiscono diritto di
voto nelle deliberazioni assembleari riguardanti nomina/revoca/responsabilità
degli amministratori o del consiglio di sorveglianza. Ergo, non formano
oggetto di OPA né le azioni di risparmio (prive, per definizione, del diritto di
voto) né le azioni privilegiate sprovviste del diritto di voto nelle suddette
materie.
ART. 106 TUF → Chiunque, a seguito di acquisti, venga a detenere una
PARTECIPAZIONE superiore alla soglia del 30%, promuove un’offerta
pubblica di acquisto, sulla totalità dei titoli ammessi alla negoziazione in un
mercato regolamentato, a tutti i possessori di titoli, entro 20 giorni dal
superamento di detta soglia (OPA OBBLIGATORIA TOTALITARIA) →
Come si vede, il legislatore ha imposto obbligo di OPA non a chi acquisisca il
controllo della società, bensì a chi superi la soglia di partecipazione (ricorda
la nozione di cui sopra) del 30%, nel convincimento che predetta soglia
coincida con la partecipazione di controllo.
PREZZO: per ciascuna categoria di titoli l’offerta è promossa a un prezzo non
inferiore a quello più elevato pagato dall’offerente nei 12 mesi anteriori alla
comunicazione dell’obbligo di offerta, per l’acquisto dei titoli della medesima
categoria.
380
L’obbligo di OPA può anche non sorgere. Vi sono ipotesi nelle quali
l’acquisto a titolo oneroso di una partecipazione superire al 30% dei titoli che
attribuiscono diritto di voto sulle suddette materie non fa sorgere obbligo di
offerta pubblica.
1) Tale obbligo non sussiste se la partecipazione è stata acquistata a seguito
di un’offerta pubblica di acquisto (volontaria) diretta a conseguire la
totalità delle azioni;
2) (OPa Volontaria Parziale) L’obbligo di offerta totalitaria successiva non
sussiste a carico di chi abbia partecipazione superore al 30% se tale
acquisto è avvenuto a seguito di un’offerta pubblica di acquisto/scambio
avente a oggetto almeno il 60% dei titoli di ciascuna categoria,
subordinatamente al ricorrere di 3 condizioni: a) Se l’offerente e i soggetti
a esso legati non abbiano acquisito partecipazioni superiori all’1% nei 12
mesi precedenti la comunicazione alla Consob dell’offerta; b) L’efficacia
dell’offerta sia stata condizionata all’approvazione di tanti possessori di
titoli che possiedono la maggioranza dei titoli stessi; c) La Consob abbia
accordato l’esenzione previa verifica dell’esistenza delle predette
condizioni.
381
se non ripristina entro 90 giorni un flottante sufficiente ad assicurare il
regolare andamento delle negoziazioni.
■ Responsabilità da prospetto
Dato che notizie false o incomplete contenute nel prospetto informativo o nel
documento di offerta possono indurre il risparmiatore a effettuare scelte di
investimento dannose, i soggetti coinvolti nell’appello al pubblico risparmio
rispondono nei confronti dei risparmiatori danneggiati, anche se sulla natura di
questa responsabilità la dottrina è divisa, ma la tesi più accreditabile sembra
essere quella della RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE, data la
funzione tipica del prospetto e del documento di offerta.
382
III. SERVIZI E IMPRESE DI INVESTIMENTO
Occorre partire da una premessa: vi è una differenza sostanziale tra servizi di
investimento personalizzati e gestione collettiva del risparmio (cui sarà dedicato
il prossimo capitolo). L’intermediario che gestisce il patrimonio affidatogli dai
clienti, nel primo caso, instaura un rapporto diretto e personale con l’investitore,
mentre nel secondo caso abbiamo l’amministrazione in monte.