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DIRITTO COMMERCIALE

L’IMPRESA
LA FATTISPECIE “IMPRESA”
LA NOZIONE D’IMPRESA L’attività è definibile come una serie di tanti singoli comportamenti
rilevanti sul piano normativo come accadimento unitario e che rappresentano una sequenza coordinata sia
strutturalmente sia funzionalmente, finalizzata cioè a raggiungere un determinato scopo. Le attività, a
secondo del loro scopo, possono distinguersi in attività di godimento, attività non produttive che consistono
in una serie di comportamenti finalizzati ad usare o scambiare qualcosa che si ha già, non mirano ad
incrementare una ricchezza preesistente, e attività produttive, dirette a produrre un’utilità che prima non
c’era attraverso la produzione e lo scambio di beni/servizi.

Una particolare attività produttiva è l’impresa, disciplinata nel Titolo II “Del lavoro nell’impresa” del
Libro V “Del lavoro” del Codice civile, corpo di norme che costituisce il cd. diritto commerciale, il cui
destinatario è l’impresa (e non l’imprenditore). Nel nostro ordinamento ci sono più nozioni d’impresa. A noi
interessa la nozione d’impresa che è anche riferimento generale ed astratto per individuare quali fenomeni
produttivi hanno la dignità giuridica d’impresa e quindi quali devono essere assoggettati allo statuto
codicistico delle imprese (componente tradizionale del diritto commerciale). L’impresa è definita dall’ART.
2082 CC come un’attività produttiva, organizzata, professionale ed economica posta in essere da un
imprenditore: “è imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della
produzione o dello scambio di beni o di servizi”. Questi sono gli elementi necessari e sufficienti affinché un
certo fatto possa essere considerato, giuridicamente, un’impresa.

L’impresa è un’attività produttiva professionale, ossia svolta in maniera abituale, stabile e reiterata.
“Professionalmente” non è sinonimo di “esclusivamente”: un’attività produttiva può essere professionale
anche se non è l’unica attività svolta dal soggetto (es. Tizio di giorno gestisce un punto di ristoro e di sera
insegna aerobica in una palestra; Caio di giorno gestisce una tavola calda e di sera gestisce un pub). Lo stesso
soggetto può svolgere contemporaneamente un’impresa ed una diversa attività produttiva, o più imprese.
Un’attività produttiva può essere professionale anche se svolta in modo non continuativo, ma le interruzioni
devono essere legate alle esigenze naturali del ciclo produttivo sottostante: l’attività interrotta ricomincia
dopo un certo periodo e si interrompe nuovamente ad intervalli costanti (es. attività stagionali, come la
gestione di un impianto sciistico o di uno stabilimento balneare). Infine, un’attività produttiva può essere
professionale anche se mira ad un unico risultato (o affare). Se l’affare è complesso (es. una grande
struttura, come un ponte o una strada), esso richiede un apparato organizzativo; l’affare complesso può
essere anche occasionale, e non per questo è occasionale anche l’attività produttiva. Se invece l’affare è
semplice, non è necessario un apparato organizzativo, ma può essere posto in essere da chiunque anche
improvvisamente (es. Tizio compra una partita di merce all’ingrosso per rivenderla al dettaglio e guadagnare
la differenza tra il prezzo d’acquisto ed il prezzo di vendita); in questo caso se l’affare è occasionale, è tale
anche l’attività.

L’impresa è un’attività produttiva organizzata, ossia svolta con l’ausilio di due fattori produttivi: il
lavoro, ossia la forza lavoro acquisita sul mercato del lavoro (da cui possono nascere vari tipi di rapporti di
lavoro: subordinato, coordinato e continuativo, occasionale, volontario, etc.), e il capitale, che si può
ottenere a vari titoli (es. proprietà, usufrutto, uso, locazione, leasing, etc.). Solitamente lavoro e capitale sono
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presenti entrambi, ma esistono anche processi produttivi che richiedono solo il lavoro (cd. processi produttivi
labour intensive) e processi che richiedono solo il capitale (cd. processi produttivi capital intensive). Il titolare
di un’attività produttiva organizzata ha il compito di svolgere un’opera di organizzazione (se il lavoro
personale del titolare è l’unico fattore impiego nel processo produttivo, si ha un’auto-organizzazione e non
si tratta di impresa, bensì di lavoro autonomo): quanto al lavoro, il titolare stabilisce chi decide cosa e chi
esegue, mentre quanto al capitale il titolare prepara quello che deve essere utilizzato nel processo
produttivo. Non è necessario un apparato organizzativo tangibile (es. le attività d’investimento elementari si
limitano a raccogliere denaro e poi impiegarlo in strumenti finanziari, secondo opportuni criteri di ripartizione
del rischio); l’importante è che tale apparato sia riconducibile ad un’attività organizzativa (si parla a proposito
di etero-organizzazione).

L’impresa è un’attività produttiva economica. Bisogna premettere che esistono due tipologie di
metodo economico, ossia di metodo con cui può svolgersi un’attività produttiva economica: 1 il metodo
economico in senso stretto, metodo che mira al pareggio tra costi e ricavi essendo irrilevante il profitto, 2 il
metodo economico lucrativo, metodo che mira al conseguimento di un profitto. Il diritto dell’impresa
governa le attività svolte secondo entrambi i metodi. L’attività va svolta impiegando il metodo economico in
senso stretto, ossia assicurandosi il pareggio tra ricavi e costi, essendo irrilevante ed eventuale il profitto. I
prezzi di vendita devono essere fissati ex ante in modo da consentire di recuperare, attraverso i ricavi, i costi
di produzione sostenuti (cd. prezzi costo). Il titolare deve riprendersi dal mercato (sempre che il mercato
risponda alla produzione offerta) i capitali che ha investito per svolgere il processo produttivo e quanto
occorre per rinnovare gli investimenti necessari per proseguire regolarmente l’iniziativa, senza interventi da
parte di terze economie. L’iniziativa deve essere in grado di mantenersi in equilibrio economico-finanziario,
rimanendo autonoma da altre economie. Per acquisire i fattori produttivi si deve disporre ex ante di
investimenti, ed a tal fine servono sufficienti risorse finanziarie, acquisibili o a titolo di capitale proprio (senza
vincolo di restituzione) o a titolo di capitale di credito (con vincolo di restituzione). Se l’attività produttiva si
svolge secondo un metodo economico, si prefigge di recuperare, vendendo i beni/servizi offerti sul mercato,
le risorse necessarie per appagare le pretese di coloro che l’hanno finanziata. Le pretese dei finanziatori sono
esposte al rischio di mercato, ossia al rischio che l’impresa non riesca ad ottenere dal mercato, perché
quest’ultimo non assorbe la produzione offerta dall’impresa, le risorse necessarie per soddisfare le legittime
pretese dei finanziatori.

Non sono qualificabili come imprese le attività erogative, ossia quelle svolte senza prefiggersi il
pareggio dei costi con i ricavi (es. l’associazione benefica che distribuisce gratuitamente pasti ai non abbienti).

È incerto se sia un’impresa o un’attività erogativa l’attività svolta secondo una logica di perdita
programmata: il livello dei prezzi-ricavo non copre i costi di produzione e la differenza negativa è fissata in
funzione del fatto che ex ante un terzo (generalmente un ente pubblico) si è impegnato a coprirla. Sono
attività svolte nel mondo non profit, iniziative che producono servizi alla persona e che cedono tali servizi ad
un utente, senza che quest’ultimo corrisponda l’intero prezzo, ma il fornitore diventa creditore, verso il terzo
impegnatosi ex ante a coprire la differenza negativa, della differenza tra il prezzo integrale del servizio ed il
minore importo pagato dall’utente. Ciò accade soprattutto nei consorzi, che producono servizi a favore degli
imprenditori facenti parte del sodalizio, che inizialmente hanno ceduto sottocosto o gratuitamente, quanto
necessario per coprire i costi di produzione e che poi recuperano attraverso i cd. contributi consortili. Ciò
che rileva, ai fini di qualificare tali attività come imprese, è che, nella fissazione del prezzo esse tengono conto
dell’impegno a coprire il differenziale negativo per ogni unità di prodotto/servizio venduto. Tali attività
seguono pertanto un criterio d’economicità, tale che esse possono essere ritenute delle imprese.

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Le imprese per conto proprio, che non collocano la produzione sul mercato (es. costruire in
economia la propria villa, assumendo in proprio il personale ed acquisendo i materiali necessari per costruire
l’immobile), le imprese illegali, svolte senza osservare le condizioni richieste dalla legge, e le imprese
immorali (o mafiose), che perseguono finalità illecite, possono qualificarsi come imprese se presentano i tre
requisiti di professionalità, organizzazione ed economicità richiesti dall’ART. 2082 CC.

LE CATEGORIE DI IMPRESA In generale la disciplina dell’impresa è costituita dallo statuto generale


dell’impresa (che disciplina l’azienda, la concorrenza, i consorzi, etc.) e da altre disposizioni del CC. Le
imprese non sono tutte soggette alla stessa disciplina. Lo statuto dell’impresa non si applica a tutte le
imprese. Ci sono imprese che sono soggette solo ad una parte del diritto commerciale: l’impresa agricola,
per la natura della produzione, e la piccola impresa, per le dimensioni dell’organizzazione, non sono soggette
alla disciplina che tutela gli interessi di coloro che finanziano l’impresa (es. l’obbligo di tenere le scritture
contabili o vi sono le procedure concorsuali, etc.), poiché tali imprese non hanno particolari esigenze
d’investimento. A tale disciplina posta a tutela dei finanziatori dell’impresa sono soggette solo le imprese
commerciali non piccole (dove questa forma di finanziamento è più frequente).

L’IMPRESA AGRICOLA (ART. 2135 CC) L’imprenditore agricolo è colui che svolge un’attività di
coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali (cd. attività agricole essenziali) e le attività
connesse (cd. attività agricole per connessione). Nel 2001 il legislatore ha ampliato la nozione di impresa
agricola, soprattutto sul versante delle attività connesse. Le attività agricole essenziali sono le attività dirette
a curare e sviluppare un ciclo (o una sua fase necessaria) biologico (vegetale o animale), che possono
utilizzare il fondo, il bosco o le acque. L’attività di coltivazione o allevamento di bestiame può (e non deve!)
utilizzare il fondo: il fondo è passato dall’essere fattore produttivo essenziale ad essere fattore produttivo
eventuale e, pertanto, non è più un elemento costitutivo della fattispecie. Ora l’elemento costitutivo della
fattispecie che qualifica come impresa agricola un’impresa è la cura e lo sviluppo di un ciclo (o di una sua
parte) biologico (animale o vegetale). Le attività agricole per connessione sono:
sia tutte le attività trasformative (manipolazione, conservazione, commercializzazione,
valorizzazione) che utilizzano come materia prima prevalente i prodotti derivanti dalla coltivazione e/o
dall’allevamento di animali (cd. attività agricole essenziali) esercitata dal medesimo soggetto, anche se tale
attività non è, economicamente, subordinata all’attività essenziale e non è normale nell’agricoltura, cioè
anche se il soggetto realizza la maggior parte (se non l’intero) del risultato economico tramite questa attività
(es. il produttore di uva svolge un’attività agricola per connessione, poiché non vende l’uva sul mercato
ortofrutticolo, ma la trasforma in vino per vendere il vino)
sia le attività che producono/forniscono beni/servizi ottenuti impiegando principalmente le
attrezzature/risorse dell’azienda agricola dello stesso soggetto, anche se tale attività non è
economicamente subordinata all’attività essenziale e non è normale nell’agricoltura (es. le attività di
agriturismo sono imprese agricole se le strutture in cui ricevono gli ospiti per offrire loro servizi di ristorazione
o alberghieri sono le strutture che appartengono all’azienda agricola).
A seguito di tale ampliamento, oggi le imprese agricole possono sostanziarsi in attività produttive e
commerciali con significative esigenze finanziarie, che tali imprese coprono ricorrendo al capitale di credito.
Inoltre oggi nell’impresa agricola sono ricomprese produzioni industrializzate. Non è più giustificato,
pertanto, un trattamento normativo differente: all’impresa agricola oggi andrebbe applicato il diritto
dell’impresa nella sua interezza. All’ampliamento dell’impresa agricola sul piano della fattispecie non si è
accompagnato un contestuale ampliamento della disciplina. Gli interventi hanno riguardato solo la pubblicità
d’impresa: oggi le informazioni relative all’organizzazione dell’impresa sono soggette all’obbligo di pubblicità
con efficacia dichiarativa.

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LA PICCOLA IMPRESA (ART. 2083 CC) I piccoli imprenditori sono i coltivatori diretti del fondo, gli
artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano l’impresa prevalentemente con il lavoro proprio e
dei familiari. Il primo criterio per distinguere un’impresa piccola è il criterio della prevalenza. Il processo
produttivo s’incentra sul lavoro prevalente del titolare e dei suoi familiari, fattore produttivo essenziale di cui
già si dispone. Le esigenze d’investimento (finanziarie) attengono pertanto a fattori produttivi secondari, ma
non sono significative. Il lavoro del titolare e dei familiari prevale, ma solo qualitativamente, e non
quantitativamente: non deve necessariamente valere economicamente di più degli altri fattori (lavoro altrui
e/o capitale) impiegati nel processo produttivo. Il titolare (ed eventuali familiari) ha un ruolo esecutivo nel
processo produttivo (mentre nell’impresa non piccola o medio-grande il titolare può non avere ruoli esecutivi
nell’iniziativa, che sono svolti dall’organizzazione, e può limitarsi a svolgere un ruolo imprescindibile
organizzativo: appronta i fattori produttivi secondo l’ordine funzionale e strutturale richiesto da un efficiente
impiego nel processo produttivo). Il criterio della prevalenza è impiegabile senz’altro all’impresa cui fa capo
una persona fisica, ma non si può escludere che possa applicarsi anche alle imprese cui fanno capo le società:
è una piccola impresa societario la società a ristretta compagine sociale (ossia con pochi soci) in cui il lavoro
dei soci prevale sul lavoro altrui e sul capitale (nelle società con molti soci invece è incerta la possibilità di
far riferimento al lavoro dei soci, dato che alla piccola impresa - qualifica formale - potrebbe non
corrispondere l’esercizio di un’attività oggettivamente piccola, tale da giustificare la non applicazione del
diritto dell’impresa per mancanza di significative esigenze di tutela degli interessi coinvolti). Per distinguere
le piccolo imprese, ai fini soprattutto di capire se è possibile applicare le procedure concorsuali (procedure
che vanno parte tempestivamente per evitare che la gestione concorsuale cominci tardi e non sia poi in grado
di comporre efficacemente gli interessi in gioco) si usa anche un criterio quantitativo basato su tre parametri:
non possono aprire procedure concorsuali le imprese che, al momento in cui si potrebbe aprire la procedura
concorsuale: 1 abbiano un debito complessivo non superiore a € 5.000, 2 il cui attivo patrimoniale nei tre
esercizi precedenti non sia superiore per ogni esercizio a € 300.000, 3 i cui ricavi lordi nei tre esercizi
precedenti non siano superiori per ogni esercizio a € 200.000. La norma fallimentare prevede una
presunzione di piccolezza (presunzione assoluta): si presumono piccole, e non fallibili, le imprese che si
attestano al di sotto di tutte e tre le soglie; implicitamente si presume non sia piccola impresa (presunzione
di grandezza, anch’essa assoluta) quella che supera anche uno solo dei tre parametri.

L’IMPRESA COMMERCIALE Le imprese commerciali non piccole o medio-grandi sono destinatarie di


tutto il diritto commerciale. Non c’è una norma che definisca l’impresa commerciale, ma la nozione può
desumersi dall’ART. 2195 CC, che prevede, per certe categorie di imprenditori, l’obbligo di pubblicità, ossia
di iscrivere l’impresa nel registro delle imprese. Da tale norma si ricava che sono imprese commerciali le
imprese che svolgono le seguenti attività produttive: 1 l’attività industriale diretta alla produzione di beni e
servizi, tra cui c’è l’attività di trasporto per terra, acqua e aria, l’attività assicurativa e le attività ausiliarie
alle precedenti (es. attività di pubblicità o di mediazione), 2 l’attività intermediaria nella circolazione di beni.
L’attività bancaria produce sia servizi (trasforma il risparmio raccolto in moneta bancaria e concede crediti)
sia fa circolare i beni (ossia il denaro, raccolto dai risparmiatori ed erogato in forma di credito). I tratti
identificativi dell’impresa commerciale sono l’industrialità e l’intermediarietà. La nozione di impresa
commerciale ricomprende tutti i fenomeni produttivi caratterizzati da un processo produttivo automatizzato
(industriale), che trasforma la materia o fa circolare beni acquistandoli e poi rivendendoli (intermediazione
commerciale). C’è chi ritiene che esista una terza categoria di imprese: l’impresa civile. Sarebbero tali:
- le imprese artigiane, in cui il processo produttivo non è industriale, non automatizzato
- le imprese primarie e le imprese di pubblici spettacoli, in cui il processo produttivo non è industriale,
in quanto esse non trasformano la materia, ma sfruttano le risorse che trovano in natura (es. pietre

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estratte dalle cave, calore solare sfruttato a fini energetici) o le abilità umane (es. capacità di
recitare),
- le imprese finanziarie, che fanno circolare il denaro, ma non come intermediari: esse raccolgono
risparmi e li investono o concedono crediti utilizzando il denaro appartenente al patrimonio
personale del titolare,
- le agenzie matrimoniali, le agenzie di collocamento o il mediatore di prodotti agricoli, che svolgono
attività ausiliarie ad iniziative non imprenditoriali (matrimonio, lavoro).
Ma in questo modo si dovrebbe attribuire all’impresa civile la stessa rilevanza normativa dell’impresa agricola
e l’impresa civile dovrebbe essere assoggettata al diritto commerciale parziale. Gli interessi in gioco nelle
imprese civili, però, non sono tanto diversi da quelli in gioco nelle imprese commerciali. Pertanto si ritiene
che esistano solo due tipi di imprese: le imprese commerciali e le imprese agricole, e sono imprese
commerciali tutti i fenomeni imprenditoriali che, in ragione della loro natura, non possono qualificarsi come
agricoli.

LE IMPLICAZIONI DELLA NATURA DELL’ORGANIZZAZIONE DELL’IMPRESA SULLA DISCIPLINA APPLICABILE A


seconda della forma giuridica rivestita, l’impresa commerciale può essere pubblica o privata.

L’IMPRESA PUBBLICA L’impresa commerciale è pubblica se ha la forma giuridica di diritto pubblico e se


il titolare è un ente pubblico. Se l’attività imprenditoriale è l’oggetto esclusivo dell’ente pubblico nonché il
mezzo principale con cui l’ente persegue il proprio fine istituzionale, l’ente è detto “ente pubblico
economico” (soggetto giuridico). Se l’attività commerciale è un’iniziativa secondaria dell’ente, il quale
realizza i più fini istituzionali attraverso iniziative soprattutto non imprenditoriali (es. enti pubblici locali,
come Comuni e Regioni), l’ente è detto “ente pubblico non economico” (privo di soggettività giuridica). Se
invece l’ente pubblico detiene il controllo di una società, si parla di “società in mano pubblica”. Oggi le
imprese pubbliche si riscontrano per lo più nei mercati di monopolio legale (tabacchi, giochi e scommesse)
ed in qualche mercato locale. Gran parte degli enti pubblici economici, specie quelli nazionali, sono stati
privatizzati, ossia trasformati in società di capitali in mano pubblica, in quanto le partecipazioni sociali sono
detenute da un ente pubblico. È stata però una “privatizzazione solo formale”: l’impresa ha assunto la forma
giuridica di un soggetto privato, ma l’interesse economico perseguito è rimasto di natura pubblica. Tra le
società in mano pubblica ci sono società a partecipazione interamente pubblica, cd. società in house
it una relazione inter-organica (relazione intensa).
providing, nelle quali tra l’ente-socio e la società intercorre
L’ente pubblico può esercitare un’attività economica (es. fornire un servizio pubblico) sia direttamente sia
tramite una società. I servizi pubblici suscettibili di essere forniti attraverso un’attività commerciale si
distinguono in servizi pubblici a rilevanza economica (servizi di gas, luce e acqua), forniti per realizzare un
profitto, per i quali esiste un mercato concorrenziale di riferimento e gestiti da una società in house cui l’ente
pubblico ha affidato la gestione, e servizi pubblici non economici (servizi sociali), forniti solo per coprire i
costi e per i quali non esiste un mercato concorrenziale. I servizi pubblici (quindi l’attività imprenditoriale
pubblica) possono essere gestiti da una società in house (società pubblica), da un’azienda speciale (ente
pubblico economico) o da un ente pubblico non economico. Quanto alla disciplina applicabile, se l’impresa
è esercitata da una società, si applica la disciplina dell’impresa, anche se il socio di controllo ha natura
pubblica. Se l’impresa è esercitata da un ente pubblico economico, si applicano le disposizioni del Libro V
del CC, mentre agli enti pubblici non economici si applicano le disposizioni del Libro V del CC limitatamente
alle imprese da essi esercitate. Qualunque ente pubblico (economico e non) è sottratto al fallimento ed al
concordato preventivo e solo gli enti pubblici economici devono adempiere all’obbligo di pubblicità (quindi
devono iscrivere l’impresa nel registro delle imprese). L’impresa pubblica è quindi soggetta a tutta la
disciplina dell’impresa, salvo sia stabilito diversamente.

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L’orientamento minoritario applica la teoria dell’imprenditore occulto, elaborata tra gli anni ’50 e
’60 da Walter Bigiavi e basata sull’ART. 147 della Legge fallimentare, che stabilisce che in caso di fallimento
di una società con soci illimitatamente responsabili, falliscono anche tali soci; la norma si riferisce ad
un’impresa apparentemente individuale per la quale è stato accertato inizialmente lo stato d’insolvenza, ma
che poi si scopre essere esercitata per conto di una società occulta). L’impresa deve imputarsi secondo un
criterio che si riferisce all’impresa in quanto tale. C’è un’inscindibile relazione biunivoca tra potere e rischio:
chi ha il potere di dirigere un’impresa è necessariamente anche responsabile delle obbligazioni che sorgono
durante il suo svolgimento, anche se l’impresa è esercitata per suo conto da parte di un prestanome. Un tale
dominus è un imprenditore. L’impresa si imputa in funzione dell’interesse perseguito, a prescindere dal
nome speso nel suo svolgimento. Se tra i soci di una società palese c’è un socio occulto, la società fallisce e,
Mdi
dopo il fallimento della società, si scopre chi è l’altro socio, il fallimento della società viene dichiarato anche
nei confronti di quest’altro socio. Ciò vale anche per la società occulta, ossia la società i cui soci sono tutti
occulti, tranne uno che è palese e che esercita l’impresa a proprio nome ed appare come imprenditore
individuale (la società palese con socio e la società occulta si differenziano solo per il numero dei soci). Se
dopo l’attivazione della procedura concorsuale emerge che l’imprenditore dichiarato insolvente (ed
eventualmente fallito) è legato ad un altro soggetto da un rapporto di società, e entrambi sono in realtà soci
illimitatamente responsabili, gli effetti della dichiarazione d’insolvenza (ed eventualmente il fallimento) si
estendono anche a quest’altro soggetto. Un’impresa esercitata per conto di una società occulta deve
imputarsi ad essa, è irrilevante che l’attività sia stata svolta senza spendere il nome di tale società. Si può
estendere questo principio generale in via interpretativa anche al caso in cui l’impresa è esercitata da un
prestanome nell’interesse esclusivo di un terzo. Nel nostro sistema il presupposto d’applicazione della
disciplina d’impresa deve fondarsi sempre su dati oggettivi, sottratti quindi alla discrezionalità delle parti.

LA PUBBLICITÀ D’IMPRESA
IL REGISTRO DELLE IMPRESE L’obbligo di pubblicità si sostanzia nell’iscrizione dell’impresa nel
registro delle imprese. L’adempimento di tale obbligo assicura una trasparenza informativa minima su alcuni
fatti/atti previsti espressamente dalla legge e su alcune vicende che riguardano l’organizzazione d’impresa.
Tale obbligo contempera due esigenze, per certi versi contrapposte: A l’esigenza dell’imprenditore, il quale
ha la certezza legale che alcune informazioni possano essere conosciute dai terzi con cui entra in contatto, B
l’esigenza dei terzi (e del mercato in generale), che possono fruire di alcune informazioni inerenti l’impresa.
Per mettere in equilibrio queste due esigenze, l’obbligo pubblicitario è soggetto al principio di tipicità, in
forza del quale le informazioni da pubblicizzare sono solo quelle per le quali la legge impone tale obbligo.
Il registro delle imprese è un “registro pubblico”, una banca dati in cui sono indicate tutte le imprese soggette
con l’obbligo di registrazione e le relative informazioni che devono essere pubblicizzate. Il registro è “tenuto
dall’ufficio del registro delle imprese” e gestito dalle camere di commercio di ogni provincia (in particolare
dal segretario generale o da altro soggetto con funzioni dirigenziali, che funge da conservatore). Esso è “sotto
la vigilanza di un giudice delegato dal presidente del tribunale” (cd. giudice del registro), competente di
prime cure per le controversie concernenti i procedimenti d’iscrizione e di deposito. Il registro è consultabile
in tempo reale su internet sul portale della camera di commercio e si articola in 1 sezione ordinaria e in
diverse sezioni speciali.

LA SEZIONE ORDINARIA E LE RELATIVE ISCRIZIONI Nella sezione ordinaria sono indicate le imprese
commerciali non piccole, le società e le cooperative commerciali, gli enti pubblici economici ed i consorzi per
i quali il CC prevede l’obbligo d’iscrizione, il gruppo europeo di interesse economico e la rete d’impresa con
fondo comune.

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“Entro 30 giorni dall’inizio dell’impresa (o dal verificarsi del fatto/atto che deve essere pubblicizzato)
l’imprenditore che esercita un’attività commerciale presenta una domanda sottoscritta (che nelle società e
negli altri enti che esercitano l’impresa in via esclusiva, coincide con l’atto costitutivo, contenente anche tutti
gli elementi organizzativi d’impresa che devono essere indicati nella richiesta d’iscrizione) da cui risultano le
informazioni da pubblicizzare e chiede “all’ufficio del registro delle imprese nella cui circoscrizione stabilisce
la sede”, di iscrivere la propria impresa. La richiesta di iscrizione deve anticipare il concreto avvio
dell’iniziativa imprenditoriale. Nella richiesta d’iscrizione, l’imprenditore deve indicare le informazioni
relative alla struttura organizzativa dell’impresa, quindi le generalità dell’imprenditore (cognome e nome,
luogo e data di nascita, cittadinanza, PEC); l’eventuale ditta; l’oggetto dell’impresa; la sede dell’impresa; gli
eventuali institori e procuratori. Se tali elementi vengono modificati, o l’impresa cessa, entro 30 giorni dalla
modifica/cessazione l’imprenditore deve chiederne la relativa iscrizione. “Se un’iscrizione obbligatoria non è
stata richiesta, l’ufficio del registro invita mediante raccomandata l’imprenditore a richiederla entro un
congruo termine. Decorso inutilmente il termine assegnato, il giudice del registro può ordinarla con decreto”.
Prima di procedere all’iscrizione, l’ufficio del registro controlla l’autenticità della sottoscrizione e
che si tratti di un’iscrizione prescritta dalla legge, e la regolarità formale della domanda d’iscrizione
presentata dall’imprenditore (le iscrizioni richieste dalle imprese diverse dalle SPA, costituite sulla base di un
atto pubblico o di una scrittura privata autenticata, sono controllate da un pubblico ufficiale). Se l’ufficio si
rifiuta di iscrivere l’impresa, comunica il proprio rifiuto con raccomandata al richiedente, il quale entro 8
giorni può ricorrere al giudice del registro. Se accerta che l’iscrizione è avvenuta, ma mancavano le condizioni
richieste dalla legge, il giudice del registro, sentito l’interessato, ordina con decreto (d’ufficio) la cancellazione
dell’iscrizione, rimediando ad un errore commesso in sede d’iscrizione. “Contro il decreto del giudice del
registro, l’interessato, entro 15 giorni dalla comunicazione, può ricorrere al tribunale dal quale dipende
l’ufficio del registro. Il decreto che pronuncia sul ricorso deve essere iscritto d’ufficio nel registro”

L’iscrizione ha un’efficacia dichiarativa. Perfezionatasi l’iscrizione, essa determina una presunzione


di conoscenza del fatto/atto pubblicizzato e l’informazione si considera conosciuta senza bisogno di accertare
che lo sia in concreto (es. dopo che è stato iscritto il trasferimento della sede dell’impresa, ogni dichiarazione
recettizia inviata dai terzi presso la vecchia sede - es. il recesso da un contratto di fornitura periodica di
surgelati - è inefficace, poiché non indirizzata correttamente al suo destinatario, a prescindere dal fatto che
il mittente ignorasse il mutamento di sede). Il diritto europeo ha stabilito che, per i soli fatti/atti delle società
di capitali, per i primi 15 giorni d’iscrizione tale presunzione è relativa: in questo arco di tempo i terzi
possono superare la presunzione di conoscenza dimostrando di non aver potuto acquisire l’informazione
pubblicizzata. “Per le operazioni compiute entro il 15imo giorno dalla pubblicazione nel registro delle imprese,
gli atti non sono opponibili ai terzi che provino di essere stati nell’impossibilità di averne conoscenza”. La
presunzione diventa assoluta dal 16imo giorno. “Gli atti per i quali il CC prescrive l’iscrizione o il deposito nel
registro delle imprese sono opponibili ai terzi solo dopo tale pubblicazione, a meno che la società provi che i
terzi ne erano a conoscenza”.
Se un’iscrizione obbligatoria è stata omessa, vi è una presunzione d’ignoranza dei fatti/atti che si
sarebbero dovuti iscrivere (es. la mancata iscrizione del trasferimento della sede d’impresa fa sì che tutte le
dichiarazioni recettizie inviate dai terzi presso la vecchia sede siano efficaci, come fossero state indirizzate al
destinatario presso la sua attuale sede effettiva). La presunzione è sempre relativa: l’imprenditore può
dimostrare che il fatto/atto, se pur non iscritto, era comunque conosciuto dal terzo (prova tuttavia difficile
da rendere). “I fatti dei quali la legge prescrive l’iscrizione, se non sono stati iscritti, non possono essere
opposti ai terzi da chi è obbligato a richiederne l’iscrizione, a meno che questi provi che i terzi ne abbiano
avuto conoscenza”. “L’ignoranza dei fatti dei quali la legge prescrive l’iscrizione non può essere opposta dai
terzi dal momento in cui l’iscrizione è avvenuta”.
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L’iscrizione nel registro delle imprese ha anche efficacia normativa: rende applicabile una certa
disciplina (es. l’iscrizione di una società commerciale di persone – SNC o SAS – è condizione per applicare alla
società la disciplina della società regolare; in difetto dell’iscrizione, si applica la disciplina della società
irregolare).

L’iscrizione delle società di capitali e delle decisioni modificative dell’atto costitutivo, ha efficacia
costitutiva, ossia è la condizione affinché l’atto (oggetto d’iscrizione) produca i propri effetti: con l’iscrizione
la società viene ad esistenza come centro autonomo d’imputazione e le modifiche organizzative apportate
divengono operative.

LE SEZIONI SPECIALI E LE RELATIVE ISCRIZIONI Nelle sezioni speciali, previste prima che fosse istituito il
registro delle imprese, vengono iscritte le imprese non commerciali non piccole e le forme giuridiche per le
quali il CC non prevede l’obbligo di pubblicità. In una sezione speciale sono iscritti i titolari di imprese
agricole, i titolari di piccole imprese, le società semplici, e annotati i titolari di imprese artigiane ed i loro
consorzi. Nel corso degli anni sono state istituite altre 6 sezioni speciali: 1 una per le società tra
professionisti, 2 una per le società ed enti di gruppo, i quali esercitano o sono assoggettati all’altrui direzione
e coordinamento, 3 una per agli enti titolari di imprese sociali, 4 quella in cui le società di capitali possono
replicare i fatti/atti già iscritti nella sezione ordinaria con traduzione giurata di un esperto in un’altra lingua
ufficiale dell’UE, 5 una per le imprese start-up innovative (che sviluppano, producono e commercializzano
prodotti/servizi innovativi tecnologici), 6 una per le piccole medie imprese innovative. Le iscrizioni nelle
sezioni speciali hanno l’effetto di pubblicità notizia, ossia rendono conoscibili le informazioni (senza le
presunzioni di conoscenza e di ignoranza della sezione ordinaria, salvo la legge non disponga diversamente).
Le iscrizioni relative alle imprese agricole hanno efficacia dichiarativa.

IL DEPOSITO. LE INDICAZIONI NEGLI ATTI E NELLA CORRISPONDENZA Sempre a fini pubblicitari alcuni atti
(per i quali non ha senso l’iscrizione) devono essere depositati (es. il bilancio d’esercizio delle società di
capitali e cooperative) e l’imprenditore deve indicare “negli atti e nella corrispondenza delle società soggette
all’obbligo d’iscrizione nel registro delle imprese il registro delle imprese presso il quale è iscritto” e il numero
di iscrizione.

ORGANIZZAZIONE E “CIRCOLAZIONE” DELL’IMPRESA


LA DOCUMENTAZIONE D’IMPRESA L’imprenditore commerciale non piccolo ha l’obbligo di
documentare (ossia mettere per iscritto) ciò che accade durante lo svolgimento dell’attività d’impresa,
deve cioè tenere le cd. scritture contabili. In questo modo l’imprenditore è incentivato a svolgere
correttamente la propria attività e i terzi coinvolti nell’attività e i finanziatori a titolo di capitale di credito
sono tutelati. Le scritture contabili permettono anche all’imprenditore di controllare ex post come si è svolta
l’attività e capire se ha ottenuto i risultati che si era programmato.

LE SCRITTURE CONTABILI OBBLIGATORIE L’imprenditore (non piccolo) deve tenere le scritture contabili
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“richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa e conservare per ciascun affare gli originali di lettere,
telegrammi e fatture ricevute, e le copie di lettere, telegrammi e fatture spedite”. Le scritture contabili
obbligatorie variano da impresa a impresa, tranne due (cd. scritture contabili nominate) che devono tenere
tutte le imprese: il libro giornale e il libro degli inventari. Nel libro giornale vanno indicati giorno per giorno,
secondo l’ordine con cui si susseguono, tutte le operazioni compiute per l’esercizio dell’impresa e i fatti di
gestione sotto il profilo sia patrimoniale sia reddituale.

ES La stipulazione di un contratto di vendita viene rilevata, nel profilo patrimoniale, come credito verso il cliente
o (eventualmente dopo la riscossione del credito) come entrata di banca o di cassa, nel profilo reddituale, come ricavo
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può limitare i poteri connaturati alla figura del collaboratore sia qualitativamente (es. impedendogli di
contrattare con alcuni fornitori) sia quantitativamente (es. impedendogli di assumere obbligazioni superiori
ad un certo ammontare), attraverso un atto formale di procura. Affinché tali limiti siano opponibili ai terzi,
l’imprenditore deve iscrivere la procura relativa ad institori e procuratori nel registro delle imprese
(pubblicità d’impresa), mentre per i limiti riguardanti i commessi, sarà sufficiente rendere la procura
conoscibile con mezzi idonei (pubblicità di fatto). Con l’iscrizione della procura nel registro delle imprese
scatta una presunzione assoluta di conoscenza del suo contenuto. Se non viene pubblicizzata, a meno che si
provi che questi ne erano comunque a conoscenza, la procura non può essere opposta ai terzi (presunzione
relativa d’ignoranza). Se i collaboratori violano i propri limiti, gli atti compiuti da questi saranno comunque
efficaci per l’imprenditore rappresentato (es. l’imprenditore, tramite procura, che però non iscrive,
stabilisce che l’institore non può stipulare contratti con fornitori stranieri; violando la procura, l’institore
acquista un macchinario da un produttore estero; il contratto d’acquisto è comunque efficace nei confronti
del dominus, il quale è obbligato a pagare il prezzo pattuito). Se viola la procura, il collaboratore sarà
responsabile di un’eventuale azione di responsabilità per i danni arrecati all’imprenditore (la violazione della
procura ha conseguenze solo interne all’impresa).

L’INSTITORE Gli institori (noti come “direttori generali”, “direttori di filiale” o “responsabili di uno
specifico settore produttivo”) sono i collaboratori interni d’impresa di livello più elevato. Sono gli alter ego
dell’imprenditore. Hanno qualifiche dirigenziali: dirigono l’impresa o una parte di essa, sotto un profilo
territoriale (l’institore dirige la sede secondaria dell’impresa) o funzionale (l’institore dirige un ramo
d’impresa). Per le imprese o le sedi secondarie cui è preposto, l’institore deve osservare le disposizioni
riguardanti le scritture contabili e la pubblicità commerciale (l’iscrizione nel registro delle imprese). Possono
esserci un unico institore o più institori. Salvo la procura disponga diversamente, i più institori possono agire
indipendentemente dagli altri, anche se assegnati al medesimo ambito operativo. Se l’imprenditore vuole
che gli institori si coordinino tra loro, il che implicitamente vuol dire limitare i poteri di ciascun institore, dovrà
indicarlo nella procura. “L’institore può compiere tutti gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa cui è
preposto, salve le limitazioni contenute nella procura”. Egli non può spingersi oltre la gestione dell’impresa
(limiti impliciti ai poteri dell’institore), non può alienare l’azienda, cambiare l’oggetto dell’impresa gestita,
alienare o ipotecare i beni immobili dell’imprenditore, ossia i beni immobili aziendali, a meno che sia stato
a ciò espressamente autorizzato dall’imprenditore. L’institore ha poteri processuali, egli può stare in
giudizio in nome dell’imprenditore, in veste di attore o di convenuto, per le obbligazioni sorte in conseguenza
agli atti che ha compiuto. Nel compiere gli atti cui è autorizzato l’institore deve spendere il nome
dell’imprenditore, altrimenti diventa titolare degli atti che compie a proprio nome, ma se sono atti
astrattamente pertinenti all’imprese, ne è responsabile anche l’imprenditore (altra conferma del fatto che,
ai fini dell’imputazione dell’impresa, la spendita del nome è irrilevante).

IL PROCURATORE I procuratori (noti come “direttori del personale”, “responsabili del servizio
commerciale”, “responsabili della comunicazione”, etc.) sono i collaboratori interni d’impresa di livello
intermedio. Sono preposti a compiere atti riconducibili ad uno specifico ambito funzionale (personale,
acquisti, vendite, marketing, etc.), rispetto al quale hanno qualifiche dirigenziali. Nel loro ambito operativo
essi hanno poteri di rappresentanza e poteri decisionali, suscettibili di essere limitati dall’imprenditore con
apposita procura. Non hanno poteri di rappresentanza processuale né doveri attinenti all’impresa (scritture
contabili, pubblicità commerciale). Possono compiere per l’imprenditore gli atti pertinenti all’esercizio
dell’impresa e se li compiono senza spendere il nome dell’imprenditore, di tali atti sono responsabili solo
loro, l’imprenditore no.

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collaboratori esterni hanno anche poteri di rappresentanza (es. gli editori, per commercializzare i loro
volumi, si avvalgono di una complessa rete di agenti territoriali con poteri di rappresentanza).

LA “CIRCOLAZIONE” DELL’IMPRESA: IL TRASFERIMENTO DELL’AZIENDA Per svolgere l’attività


d’impresa l’imprenditore ha bisogno di un’azienda, ossia un apparato produttivo, un complesso di beni
(beni immobili, materie prime, beni immateriali, sistemi informatici, macchinari, etc.) coordinati tra loro per
perseguire un obiettivo economico unitario. Se l’imprenditore decide di trasferire (cedere, concedere in
godimento, tramite una compravendita, un affitto, una donazione, etc.) l’azienda (l’unità operativa), nella
gestione e nell’esercizio dell’impresa subentra un nuovo soggetto.

LA NOZIONE DI AZIENDA L’azienda è un’entità unitaria, che trascende le singole componenti. I beni
aziendali sono legati tra loro da un vincolo d’interdipendenza e complementarietà per il conseguimento di
un determinato fine produttivo. Essi sono organizzati dall’imprenditore. L’azienda non ha un valore
economico in quanto tale. Mentre forma l’azienda l’imprenditore sviluppa un progetto imprenditoriale che
richiede un costante mantenimento dell’efficienza produttiva. L’attitudine a produrre nuova ricchezza e
maturare un reddito rappresenta l’avviamento dell’azienda, il cui valore, a determinate condizioni, può
essere iscritto nel bilancio dell’impresa. L’avviamento costituisce, anche commercialmente, il maggior valore
del complesso di beni rispetto alla somma dei valori dei singoli beni. Si distinguono l’avviamento oggettivo,
il quale dipende da fattori intrinseci al complesso (la sua obiettiva efficienza e collocazione sul mercato), e
l’avviamento soggettivo, che dipende invece dalle abilità dell’imprenditore. L’avviamento oggettivo, pur non
costituendo un bene in senso tecnico, è una qualità immanente ad ogni azienda, non cedibile separatamente
dal complesso, e di norma computato nella determinazione del prezzo di quest’ultimo.

L’azienda può essere composta da un insieme vario di beni. Giuridicamente ciascun bene conserva
la propria autonomia rimanendo indipendente dagli altri beni. Nonostante l’ART. 2256 CC faccia riferimento
all’esistenza di una proprietà sull’azienda, l’espressione è a-tecnica: non è necessario che l’imprenditore sia
proprietario di ciascun bene aziendale, è sufficiente che egli abbia un titolo giuridico per poterne godere, la
cd. proprietà sul complesso si risolve nella titolarità delle diverse posizioni giuridiche (proprietà, usufrutto,
diritto personale di godimento) aventi ad oggetto i singoli beni aziendali (es. è un bene aziendale anche
l’immobile presso il quale, in forza di un contratto di locazione, l’imprenditore esercita l’impresa, o sono tali
i macchinari di cui l’imprenditore gode in leasing). Il complesso dei beni aziendali varia ogni giorno, a causa
dell’ingresso di nuovi elementi (es. nuove materie prime) o della cessione di altri (es. prodotti finiti,
macchinari obsoleti). L’azienda si considera costituita quando, tra i beni aziendali, risultano esserci tutti i
beni essenziali per l’identità dell’impresa, ossia quei beni che identificano primariamente l’ambito d’attività
(es. locali commerciali) o costituiscono il cuore del progetto organizzativo (es. macchinari di produzione). La
conduzione dell’impresa può essere sostituita, e quindi l’azienda trasferita, anche quando circola un apparato
produttivo che, se pur incompleto, già attui un progetto organizzativo ed individua il contesto economico e
relazionale in cui sarà svolta l’impresa servita dall’azienda in costruzione. Se l’attività viene interrotta,
l’azienda non viene meno; quest’ultima viene meno quando l’insieme dei beni viene disgregato o quando
perde qualsiasi radicamento rispetto all’originario ambito d’attività servito (es. finché permangono vetture e
clienti, un’azienda di trasporti non perde la propria identità per l’interruzione dell’impresa).

All’interno del complesso aziendale possono essere creati i cd. rami d’azienda (ci possono essere
anche azienda prive di rami, poiché le funzioni non sono scindibili), soprattutto se l’azienda è costituita per
operare in settori diversi o se coesistono linee produttive distinte. Il ramo d’azienda è una parte dell’azienda
con funzioni produttive autonome, è un’articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica
organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento (ART.

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2112 CC). Per individuare un ramo non è necessario che sussista una completa separazione organizzativa
rispetto alle restanti parti del complesso, né che sia tenuta una contabilità separata. È normale che alcuni
elementi servano trasversalmente l’intera attività imprenditoriale (es. una segreteria centralizzata), senza
che ciò impedisca la tracciatura del ramo, nella misura in cui gli elementi che vengono a mancare con la sua
effettiva separazione (in occasione del suo trasferimento) siano qualificabili come non essenziali e siano
dunque integrabili dall’acquirente. La circolazione autonoma del ramo è soggetta alle regole della cessione
d’azienda, limitatamente a ciò che riguarda la porzione d’attività dal medesimo servita. Alla vicenda di
sostituzione nella conduzione di una porzione d’attività si applica la disciplina sulla sostituzione nell’impresa,
per la parte implicata.

IL TRASFERIMENTO DELL’AZIENDA: NATURA, CAUSA, OGGETTO DEL NEGOZIO E ... L’azienda è soggetta ad
un momento circolatorio. La proprietà sul complesso di beni può essere trasferita, il fascio di eterogenee
posizioni giuridiche facenti capo all’alienante (proprietà, diritti reali o personali di godimento, etc.) può
essere ceduto. Il trasferimento dell’azienda non è un tipo negoziale autonomo, ma una fattispecie trasversale
ai diversi tipi contrattuali consueti, con un particolare oggetto: le parti possono scegliere di fare una
compravendita, o una donazione, o un conferimento in società dell’azienda, e si applica integralmente la
rispettiva disciplina negoziale. La specificità dell’oggetto si riflette nella causa del negozio, tipicamente
finalizzato ad immettere l’acquirente nel concreto contesto imprenditoriale servito dalla medesima: è un
sottotipo contrattuale (della vendita, donazione, etc.) il cui scopo non è solo cedere uno o più beni (dietro
corrispettivo o con spirito di liberalità, etc.), ma introdurre l’acquirente nel contesto relazionale e di mercato
dell’attività servita dall’azienda. È questo specifico scopo che motiva l’integrazione della disciplina generale
del tipo negoziale con regole speciali.
L’atto dispositivo può avere ad oggetto sia un singolo bene aziendale sia l’azienda nel suo complesso.
Se le parti intendono trasferire tutti i singoli beni che compongono l’azienda, senza elencarli tutti
analiticamente, è sufficiente che convengano di trasferire l’azienda, identificandola in base ad elementi
estrinseci (localizzazione, settore di attività, etc.). Le parti che intendono trasferire l’azienda tranne alcuni
beni (eccetto i beni essenziali, che non possono essere esclusi dal trasferimento), dovranno semplicemente
specificare quali beni devono restare in capo all’alienante. Se dal trasferimento viene escluso un bene
essenziale, il negozio è comunque valido, ma non è qualificabile come “trasferimento d’azienda”, bensì
come cessione di più beni (es. il magazzino e gli arredi inerenti ad un’attività di rivendita al dettaglio vengono
trasferiti, con esclusione dei locali in cui l’attività è stata svolta e la ditta sotto cui l’attività è stata esercitata).

Il contratto con cui si trasferisce l’azienda è a forma libera,


... LA FORMA E LA PUBBLICITÀ DEL CONTRATTO
a meno che la natura del contratto richieda una determinata forma (es. per la donazione è necessario
stipulare un atto pubblico). Restano ferme le solennità necessarie per il trasferimento di singoli beni aziendali
(es. per trasferire la cessione della proprietà su un bene immobile è necessaria la forma scritta). La
circolazione dell’azienda non ha una propria specifica disciplina, essa è assoggettata allo statuto dello
specifico contratto con cui viene ceduta ed a quello dei beni aziendali. Devono rispettarsi le prescrizioni
pubblicitarie relative al trasferimento di ciascun bene (es. la trascrizione nei registri immobiliari, per i beni
immobili). Se l’azienda che si intende trasferire è relativa ad un’impresa soggetta a registrazione, per il
contratto con cui si trasferisce la proprietà o il godimento dell’azienda è richiesta la forma scritta ad
probationem: solo se il contratto è stato redatto per iscritto le parti contraenti possono provarne l’esistenza
ed il contenuto, senza pregiudicarne la validità. In caso di contratti redatti “in forma pubblica o per scrittura
privata autenticata”, il notaio rogante o autenticante deve depositare il contratto per l’iscrizione nel registro
delle imprese entro 30 giorni (ART. 2556, CO. 2 CC): la norma mira ad avere operazioni economiche
trasparenti e persegue sia l’interesse del mercato al’informazione sia l’interesse pubblico a contenere i rischi

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di riciclaggio del denaro frutto di attività illecite. La redazione in forma pubblica o per scrittura privata
autenticata non è un presupposto di validità del contratto di trasferimento: anche un contratto verbale o
privo di autentica è efficace ed obbliga reciprocamente le parti a riprodurlo per assolvere le formalità
pubblicitarie. Tutti i trasferimenti d’azienda, purché almeno una delle parti sia un imprenditore soggetto
all’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese, devono essere registrati: se entrambe le parti hanno
l’obbligo di iscrizione, il trasferimento va iscritto nella sezione del registro presso cui è iscritto l’alienante, se
invece solo l’acquirente è soggetto a registrazione, il trasferimento va iscritto nel registro presso cui è iscritto
quest’ultimo.

IL DIVIETO DI CONCORRENZA (ART. 2557 CC) Chi aliena l’azienda (cedente), per 5 anni dal trasferimento,
non può avviare una nuova impresa che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la
clientela dell’azienda ceduta. In forza del negozio traslativo l’acquirente cessionario entra nell’ambito delle
attività servite dall’azienda che ha acquistato. Se non fosse previsto il divieto di concorrenza in capo
all’alienante-cedente, quest’ultimo, conoscendo bene i propri clienti, potrebbe facilmente dirottarli verso la
propria nuova attività, pregiudicando così (molto di più di quanto potrebbe fare un qualsiasi altro terzo
concorrente) il cessionario nella sua sostituzione nella conduzione dell’impresa. Il divieto si applica in tutti i
casi in cui un’azienda commerciale viene ceduta (volontariamente o coattivamente), a qualunque titolo (es.
in caso di usufrutto o affitto dell’azienda il divieto di concorrenza vale nei confronti del proprietario o del
locatore per la durata dell’usufrutto o dell’affitto). Se il trasferimento riguarda un’azienda agricola, il divieto
concerne solo le attività connesse, se rispetto a queste è possibile sviare la clientela. La norma è applicabile
per analogia anche a vicende che, pur non essendo formalmente un trasferimento d’azienda, hanno effetti
sostanziali simili, ossia introducono un terzo nell’esercizio di un’attività d’impresa precedentemente facente
capo ad un altro, e su quest’ultimo grava il divieto di concorrenza (es. la giurisprudenza ha riconosciuto il
divieto di concorrenza in capo al socio che ha alienato una partecipazione sociale, poiché l’alienazione, per
l’entità della quota ceduta, ha determinato l’avvicendamento dell’acquirente nella conduzione dell’impresa
societaria). Il divieto di concorrenza non può eccedere i 5 anni dal trasferimento d’azienda: se nel patto è
indicata una durata maggiore o la durata non è stabilita, il divieto di concorrenza vale per 5 anni. Il divieto ha
ad oggetto l’avvio di una nuova attività, quindi l’alienante può continuare una seconda precedente impresa
che esercitava parallelamente a quella servita dall’azienda ceduta. L’alienante non può intraprendere una
nuova attività sia per conto proprio sia per conto di terzi (es. assumendo la carica di amministratore di una
società concorrente). L’alienante non può avviare un’impresa individuale. Per quanto riguarda la
partecipazione ad un’impresa societaria, si deve distinguere: A se la partecipazione rappresenta un mero
investimento finanziario in una data organizzazione, l’alienante non viola il divieto, B se invece la
partecipazione si configura come una modalità d’esercizio di un’attività economica, l’alienante non può
costituire una società uni-personale (né acquisire una partecipazione di controllo), ma può acquistare un
pacchetto azionario di minoranza. Il divieto di concorrenza può essere sia ridotto sia esteso (sotto il profilo
dell’oggetto, o delle dimensioni, o della collocazione geografica), purché estendendolo non s’impedisca
all’alienante di compiere ogni attività professionale. L’estensione o riduzione del divieto non è specificata
dalla legge, le parti la regolano in concreto nel contratto traslativo dell’azienda, in base a quanto l’alienante
potrebbe distrarre la clientela (es. specificano l’area territoriale nella quale opera il divieto o il tipo di merci
che l’alienante non può vendere). Il divieto vale anche per la commercializzazione di beni diversi ma
succedanei (es. chi ha ceduto una pizzeria non può aprire una paninoteca) o se la commercializzazione è
esercitata tramite canali alternativi ma concorrenti (es. chi ha ceduto un’azienda di vendita di prodotti
tramite agenti locali non può avviare un’attività di vendita degli stessi prodotti online).

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LA SUCCESSIONE NEI CONTRATTI, NEI CREDITI E NEI DEBITIAttorno all’azienda ruotano rapporti giuridici, i quali
fanno giuridicamente capo all’imprenditore. Tali rapporti nascono, vengono eseguiti e si estinguono nel corso
della vita dell’apparato produttivo e derivano dal fatto che il titolare d’impresa ha organizzato tale apparato
per esercitare l’attività d’impresa. Con il trasferimento d’azienda, l’acquirente, oltre a subentrare nell’attività
d’impresa, acquisisce un complesso di beni che deve conservare la propria funzionalità imprenditoriale. “Se
non è pattuito diversamente, l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati per l’esercizio
dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale” (ART. 2558, CO. 1 CC). Sono quei contratti in forza
dei quali il titolare dell’azienda può godere dei beni aziendali di cui non è proprietario (es. il contratto di
locazione avente ad oggetto i locali) o approvvigiona periodicamente o stabilmente l’azienda di taluni
elementi (contratti con i fornitori: es. somministrazione della materia prima o dei semilavorati) o consegue
determinate prestazioni collaborative (contratto di prestazione d’opera intellettuale con un professionista,
contratto d’agenza) ma anche tutti i contratti nascenti nell’esercizio dell’attività imprenditoriale, specie i
contratti con la clientela. È logico che in tali rapporti negoziali subentri l’acquirente dell’azienda: ciò risponde
sia al suo interesse ad acquisire un complesso pienamente operativo ed a mantenerne la clientela già
raggiunta, sia all’interesse dei terzi contraenti ad avere, quale controparte contrattuale, il soggetto che
continuerà nell’esercizio dell’impresa.

La successione in tali rapporti contrattuali rappresenta un effetto naturale ed automatico del


trasferimento dell’azienda e si determina ex lege, nel momento in cui diviene efficace il trasferimento. È una
previsione normativa che deroga alla disciplina generale in tema di cessione del contratto. Il subentro
dell’acquirente prescinde dalla volontà sua e del cedente e dalla conoscenza che il primo abbia dell’esistenza
del rapporto. La conoscenza dell’acquirente è irrilevante: egli succede nella posizione dell’alienante anche
se ignora che un certo contratto sia in corso, alla sola condizione, oggettiva, che si tratti di un contratto
inerente all’azienda e non avente carattere personale. Inoltre, non è richiesto il consenso del terzo
contraente: a prescindere dalla volontà di costui, il rapporto prosegue con il solo acquirente, che acquista la
titolarità dei crediti scaturenti dallo stesso e ne assume i debiti, con integrale ed immediata liberazione
dell’alienante. La volontà del terzo contraente è irrilevante, ma in caso il suo nuovo debitore, ossia
l’acquirente (sostituitosi all’alienante, precedente debitore del terzo), sia inadempiente, il terzo contraente
potrà eccepire l’inadempimento dell’acquirente e sospendere l’esecuzione degli obblighi assunti. La
successione riguarda solo i contratti a prestazioni corrispettive, non ancora eseguite da nessuno dei due
contraenti nel momento in cui si verifica il trasferimento dell’azienda. Quando si attua la successione,
residuino tra i contraenti posizioni vicendevolmente equivalenti dal punto di vista economico.

In relazione ai contratti personali la successione non opera, essi continuano a far capo all’alienante.
I contratti personali sono contratti che sono stati stipulati dal terzo contraente per le qualità personali della
controparte, quindi dell’alienante. In tali contratti la prestazione promessa dall’alienante è infungibile,
oggettivamente e l’acquirente non potrebbe eseguire una prestazione identica (es. il contratto ha ad oggetto
la fornitura di un mobile di serie decorato a mano dall’alienante) o soggettivamente (le parti hanno pattuito
che la prestazione è infungibile ed il rapporto non cedibile). Le parti possono anche accordarsi affinché
l’acquirente subentri all’alienante in un rapporto personale, ma è necessario il consenso del terzo. Nel
contratto traslativo d’azienda le parti, alienante ed acquirente, possono derogare a quanto detto finora
escludendo dalla successione uno o più rapporti contrattuali, senza limiti, eccetto i rapporti in forza dei quali
l’alienante cedente ottiene la disponibilità di un bene essenziale dell’apparato produttivo (in questo caso non
si avrebbe neanche un trasferimento d’azienda). Se è escluso dalla successione, il rapporto prosegue tra
l’alienante ed il terzo contraente.

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Il terzo subisce la modificazione soggettiva del rapporto che gli fa capo. Per questo, a sua tutela, gli
è riconosciuto il diritto di recedere dal contratto con l’acquirente entro 3 mesi dalla notizia del
trasferimento (ART. 2558, CO. 2 CC), estinguendo così il rapporto con efficacia ex nunc (valgono i principi
sull’opponibilità dell’iscrizione nel registro delle imprese). Il terzo ha diritto di recesso, però, solo “se sussiste
una giusta causa”, ossia solo in presenza di ragioni oggettive, riguardanti l’acquirente o suoi precedenti
rapporti con il terzo, che ostano alla prosecuzione del rapporto con l’acquirente (es. l’acquirente versa in una
situazione patrimoniale così precaria da far temere che non adempierà correttamente al contratto). In caso
di recesso, l’alienante è responsabile nei confronti del terzo per i danni che questi ha subito per essere
stato costretto a risolvere anticipatamente il contratto. La responsabilità dell’alienante sorge però solo
quando gli è imputabile una culpa in eligendo, quando cioè l’alienante è stato negligente nell’individuare
l’acquirente cessionario, mostrando così poca attenzione nei confronti delle legittime aspettative del terzo
contraente. Infine, “le stesse disposizioni si applicano anche nei confronti dell’usufruttuario e dell’affittuario
per la durata dell’usufrutto e dell’affitto” (ART. 2558, CO. 3 CC).

La sorte dei rapporti obbligatori nei confronti dei terzi è disciplinata dagli ARTT. 2559 e 2560 CC,
contenenti la disciplina dei crediti e debiti puri inerenti all’esercizio dell’azienda, ossia quei rapporti
obbligatori di fonte extra-contrattuale (es. il credito dell’alienante al risarcimento del danno arrecato da un
terzo ad un auto-articolato dell’azienda) o contrattuale, quando residui solo una prestazione isolata, a favore
o a carico del cedente (es. si applica l’ART. 2560, e non l’ART. 2558, al debito dell’alienante al pagamento del
prezzo relativo alla fornitura di merce già consegnatagli; si applica l’ART. 2559, e non l’ART. 2558, al credito
vantato dal medesimo nei confronti di un fideiussore). La tesi prevalente ritiene che l’ART. 2559 CC si applichi
solo a condizione che cedente e cessionario abbiano pattuito la cessione dei crediti. In ogni caso,
solitamente alienante ed acquirente regolano liberamente tali profili. Per quanto riguarda i crediti (ART. 2559
CC), dal momento dell’iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese, la cessione (o trasferimento)
dei crediti relativi all’azienda ceduta è efficace nei confronti dei terzi, anche in mancanza di notifica al
debitore (ceduto) o di sua accettazione. La pubblicità nel registro, purché avvenga in una sezione con efficacia
dichiarativa, rende efficace la cessione nei confronti del debitore. “Tuttavia il debitore ceduto è liberato se
paga in buona fede all’alienante”, anche ad iscrizione avvenuta. “Le stesse disposizioni si applicano anche nel
caso di usufrutto dell’azienda, se esso si estende ai crediti relativi alla medesima”. Per quanto riguarda,
invece, i debiti (ART. 2560 CC), se essi risultano dai libri contabili obbligatori, ne risponde anche ex lege
l’acquirente dell’azienda. Chi continua l’impresa (il cessionario) ha interesse a proseguire i rapporti aziendali,
ma non per questo vedersi gravato da obbligazioni non conosciute, le quali, rappresentando un valore
economico negativo, pregiudicherebbero la valutazione del valore economico dell’azienda acquistata. La
norma è a protezione del terzo, quindi non è derogabile dalle parti. In ogni caso “l’alienante non è liberato
dai debiti inerenti l’esercizio dell’azienda ceduta anteriori al trasferimento”, ma continua a risponderne in
solido con l’acquirente, a meno che i creditori abbiano acconsentito alla sua liberazione (principio generale
per cui un creditore non può vedere sostituito il proprio debitore senza il suo consenso).

USUFRUTTO E AFFITTO DELL’AZIENDA I beni aziendali possono essere oggetto anche di negozi che
costituiscono un diritto di godimento su tali beni. L’azienda può essere oggetto di una concessione in
usufrutto (diritto reale di godimento), il quale potrà essere costituito mediante compravendita o donazione,
o di affitto o di conferimento in società (diritto personale di godimento). In questo modo il beneficiario
dell’azienda può continuare, se pur provvisoriamente, l’attività. Le norme che regolano i diritti ed i doveri del
beneficiario vanno integrate con la disciplina del tipo di negozio prescelto dalle parti, e per le imprese
soggette a registrazione si applica l’ART. 2556 CC. Affinché l’azienda conservi la propria attitudine produttiva
ed il proprio avviamento, l’attività va esercitata costantemente. Il beneficiario (usufruttuario o affittuario) ha

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l’obbligo di esercitare l’azienda sotto la ditta che la contraddistingue, deve gestire l’azienda senza
modificarne la destinazione e conservando l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti e le normali
dotazioni di scorte (ART. 2561 CC). Il beneficiario ha l’obbligo di compiere ogni atto necessario per
salvaguardare l’avviamento dell’azienda, di sostituire gli impianti obsoleti, di introdurre le nuove tecnologie
di produzione, di rinnovare i prodotti offerti per stare al passo con le mutate esigenze del mercato,
sostenendo le spese attinenti alla normale gestione dell’azienda, secondo diligenza professionale. Nel gestire
l’azienda il beneficiario varierà costantemente la composizione del complesso, cedendo beni (es. i prodotti
dell’impresa, le scorte di magazzino) ed acquisendone altri (es. nuove materie prime, nuovi macchinari). Al
fine di poter bene esercitare il potere di gestione dell’azienda, il beneficiario ha anche il potere di disporre
dei beni aziendali appartenenti al concedente, che si sostituisce in capo al beneficiario, pur non acquistando
la proprietà di nessun bene. Tutti i beni immessi dal beneficiario nel complesso sono automaticamente
acquistati in proprietà (nuda, in caso di usufrutto) dal concedente. Al termine del rapporto, l’azienda
potrebbe avere una composizione molto diversa da quella originaria e “la differenza tra le consistente
d’inventario all’inizio ed al termine dell’usufrutto è regolata in danaro, sulla base dei valori correnti al termine
dell’usufrutto”. Quanto al patrimonio aziendale, alla costituzione del rapporto il beneficiario subentra nei
contratti in corso di esecuzione negli stessi limiti e con le stesse regole che valgono nel trasferimento
d’azienda (ART. 2112 CC). Allo stesso modo il concedente succede in tutti quelli pendenti al termine del
rapporto, anche in quelli stipulati dal beneficiario, con l’unica eccezione dei rapporti sproporzionati rispetto
alle dimensioni dell’impresa. Per la cessione dei crediti, occorre un espresso accordo tra le parti, mentre i
debiti continuano a gravare solo sulla persona che li ha assunti: non si applica l’ART. 2560 CC, salvo si tratti
di debiti di lavoro (ART. 2112 CC).

LA COOPERAZIONE TRA IMPRENDITORI


STRUMENTI DI COOPERAZIONE E FORME DI INTEGRAZIONE TRA IMPRESE Per poter esercitare la propria
attività imprenditoriale in un mercato competitivo in continua evoluzione sono necessarie diverse risorse
economiche e finanziarie, nonché aggiornate competenze tecnologiche, requisiti che un singolo imprenditore
spesso non riesce a procurarsi da solo. Soprattutto in Italia, dove la maggior parte sono piccole e medie
imprese, queste necessitano di cooperare ed integrarsi tra loro. Inizialmente si creano alleanze territoriali
per soddisfare esigenze contingenti (ottenere un finanziamento, partecipare ad una gara d’appalto, etc.) e
se poi si raggiungono tali obiettivi le imprese cooperano in modo più solido con un apparato organizzativo.
Le imprese possono cooperare tra loro stipulando contratti con cui conservano, salva qualche eccezione, la
propria sostanziale autonomia giuridica ed economica e costituiscono intese anti-concorrenziali. Oppure, le
imprese si integrano tra loro, instaurando legami partecipativi nella proprietà dell’impresa, formando
un’unica entità economica (gruppo di imprese) ed in alcuni casi creando una nuova entità giuridica (fusione)
in cui confluiscono le imprese alleate.

LE FORME DI COOPERAZIONE TRA IMPRESE SU BASE CONTRATTUALE Esistono due forme di cooperazione
tra imprese su base contrattuale: 1 forme inderogabilmente “strutturate” (consorzi e società consortili), che
necessitano di un apparato organizzativo funzionale ad una collaborazione potenzialmente stabile e duratura
tra gli imprenditori, 2 forme potenzialmente “flessibili” (contratti di rete e associazioni temporanee
d’impresa, disciplinati da leggi speciali), che non hanno una rigida organizzazione comune, trattandosi di
cooperazioni occasionali temporanee o finalizzate al perseguimento di specifici obiettivi contingenti.

I CONSORZI Il consorzio è una forma di cooperazione inderogabilmente strutturata, ossia dotata di


un apparato organizzativo funzionale ad una collaborazione che potrebbe essere stabile e duratura nel
tempo. Il consorzio (ART. 2602 CC) è un “contratto con cui più imprenditori istituiscono un’organizzazione

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comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese”. È uno strumento
di coordinamento interaziendale. Stipulando un contratto che coordina lo svolgimento di una o più fasi delle
imprese consorziate, gli imprenditori mirano a conseguire un vantaggio economico diretto (risparmio di
spesa o maggior ricavo) nell’esercizio della propria attività (cd. mutualità consortile). Il contratto consortile
può essere stipulato anche per limitare, direttamente o indirettamente, la concorrenza tra imprenditori (es.
distribuendo in modo selettivo i prodotti di più imprese in diverse aree del territorio nazionale), ma a tal fine
devono rispettarsi i limiti tracciati dalla disciplina anti-monopolistica: i contratti consortili sono intese anti-
concorrenziali, le quali sono vietate se hanno ad oggetto, o quale effetto, l’impedire il gioco della concorrenza
nel mercato nazionale o in una sua parte rilevante. Si distinguono A consorzi con attività interna, dove
l’organizzazione comune è volta a regolare convenzionalmente i rapporti reciproci degli imprenditori
consorziati anche per verificare il corretto assolvimento degli obblighi assunti, e B consorzi con attività
esterna, dove l’organizzazione comune è volta soprattutto a disciplinare l’attività imprenditoriale che il
consorzio (soggetto giuridico autonomo) svolge con i terzi. Quanto alla disciplina, vi sono disposizioni
generali contenute nel CC che regolano la costituzione del sodalizio ed i rapporti tra quest’ultimo e gli
imprenditori consorziati, e poi alcune regole specifiche (peculiare regime patrimoniale, pubblicitario e
contabile) applicabili ai soli consorzi con attività esterne per il fatto che essi operano anche con i terzi.

LE DISPOSIZIONI GENERALI DEI CONSORZI (ARTT. 2602 – 2611 CC) Il consorzio è un contratto stipulato tra
imprenditori. Esso non può essere stipulato tra persone fisiche o giuridiche che, pur svolgendo un’attività
economica, non sono qualificabili come imprenditori (agricoli o commerciali), come ad esempio i
professionisti intellettuali o le società tra professionisti. Il contratto di consorzio deve essere stipulato per
iscritto a pena di nullità e deve contenere le seguenti indicazioni essenziali: l’oggetto del consorzio, gli
obblighi assunti dai consorziati (es. vendere/comprare solo tramite il consorzio) e i “contributi dovuti dai
consorziati”, di regola costituiti da versamenti iniziali (conferimenti) e periodici. Se mancano gli altri dati (la
durata, la sede dell’ufficio eventualmente costituito, “le attribuzioni e i poteri degli organi consortili anche in
ordine alla rappresentanza in giudizio”, le condizioni d’ammissione di nuovi consorziati, i casi di recesso e di
esclusione, le sanzioni per l’inadempimento degli obblighi dei consorziati), si può rimediare ricorrendo ai
principi generali o, nel caso della durata, a specifiche norme suppletive. In mancanza di diversa
determinazione, il contratto è valido per 10 anni. Essenziale è la presenza di un’organizzazione comune per
compiere gli atti necessari per l’esecuzione del programma consortile. Le poche regole fissate sono derogabili
dall’autonomia privata. Il contratto, oltre a fissare obblighi reciproci tra i partecipanti, deve dar vita ad un
apparato che curi la fase esecutiva del contratto (non sarebbe un consorzio il contratto tra 5 imprenditori
con sede in regioni diverse, in forza del quale ciascuno si obbliga a commerciare solo i propri prodotti e solo
nella propria regione).
L’organizzazione si crea anche con un semplice collegio di mandatari che espleta un’attività comune
unitariamente riferibile al consorzio, pertanto nel consorzio può esserci anche un unico organo con funzioni
deliberative ed esecutive. Tuttavia il modello legale prevede un organo deliberativo ed un organo
esecutivo. L’organo deliberativo è composto da tutti i consorziati e, se il contratto di consorzio non dispone
diversamente, le deliberazioni relative all’attuazione dell’oggetto del consorzio sono prese col voto
favorevole della maggioranza dei consorziati (principio maggioritario), da calcolarsi per teste (salvo diversa
previsione contrattuale) per teste. L’organo deliberativo opera presumibilmente secondo il metodo
collegiale. Se non è convenuto diversamente, le modificazioni del contratto (tra cui non rientrano le
variazioni dei consorziati, ma solo le variazioni riguardanti le caratteristiche e l’ambito produttivo in cui opera
l’impresa) devono essere fatte per iscritto a pena di nullità e decise all’unanimità. Se non sono
esplicitamente previste condizioni di ammissione di nuovi consorziati, il sodalizio s’intende a struttura
chiusa, quindi per l’ingresso di nuovi membri deve esserci il consenso unanime dei contraenti. L’organo
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esecutivo è composto dalle persone che i consorziati hanno deciso di porre alla direzione del sodalizio. I
componenti di tale organo sono soggetti a responsabilità ed a tal proposito si richiamano le regole del
mandato in caso essi compiano atti di gestione pregiudizievoli per i consorziati. Tale organo controlla anche
che i consorziati adempiano esattamente alle obbligazioni assunte, compreso il versamento dei contributi.
Quali cause di scioglimento del contratto di consorzio il CC prevede: 1 il decorso del termine di
durata, 2 il conseguimento dell’oggetto o la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo, 3 la volontà unanime
dei consorziati, 4 la deliberazione maggioritaria dei consorziati se sussiste una giusta causa, 5 il
provvedimento dell’autorità governativa, nei casi ammessi dalla legge, 6 le altre cause previste nel contratto
(le parti possono prevedere nel contratto ulteriori cause di scioglimento). La singola partecipazione al
consorzio può invece sciogliersi per 1 recesso, ossia per volontà del consorziato, oppure 2 esclusione, ossia
per decisione degli altri consorziati (tipica sanzione prevista per l’inadempimento degli obblighi consortili),
nei casi previsti dal contratto e nel caso in cui il consorziato perda la qualità d’imprenditore (la qualità di
imprenditore è requisito essenziale per partecipare al consorzio). “Nei casi di recesso e di esclusione previsti
dal contratto, la quota di partecipazione del consorziato receduto o escluso si accresce proporzionalmente
a quella degli altri. Il mandato conferito dai consorziati per l’attuazione degli scopi del consorzio, anche se
dato con unico atto, cessa nei confronti del consorziato receduto o escluso” (ART. 2609 CC).

LE REGOLE SPECIFICHE DEI CONSORZI CON ATTIVITÀ ESTERNA I consorzi con attività esterna sono soggetti
giuridici, autonomi centri d’imputazione. È istituito un ufficio che svolge le attività con i terzi. Gli
amministratori, entro 30 giorni dalla stipulazione del contratto di consorzio, devono depositarne un estratto
affinché sia iscritto nella sezione ordinaria del registro delle imprese. L’estratto deve indicare 1 la
denominazione e l’oggetto del consorzio e la sede dell’ufficio, 2 il cognome e il nome dei consorziati, 3 la
durata del consorzio, 4 le persone a cui vengono attribuite la presidenza, la direzione e la rappresentanza del
consorzio ed i rispettivi poteri, 5 il modo di formazione del fondo consortile e le norme relative alla
liquidazione. Ogni modificazione del contratto riguardante gli elementi sopra citati deve essere iscritta nel
registro delle imprese. Tali consorzi “possono essere convenuti in giudizio in persona di coloro cui il contratto
attribuisce la presidenza o la direzione, anche se la rappresentanza è attribuita ad altre persone” (ART. 2613
CC). Salvo i consorzi tra imprenditori agricoli (che hanno natura agricola), essi acquistano la qualità di
imprenditori commerciali ed esercitano un’attività ausiliaria consistente nella disciplina o nello svolgimento
di fasi delle imprese consorziate. Tali consorzi sono esposti al fallimento. Godono di un regime di autonomia
patrimoniale: i contributi dei consorziati (versamenti in denaro e/o apprestamento di mezzi strumentali per
perseguire lo scopo comune) e i beni acquistati con questi contributi confluiscono in un patrimonio autonomo
denominato fondo consortile. Finché dura il consorzio i consorziati non possono chiedere la divisione del
fondo, e i creditori particolari dei consorziati non possono far valere i loro diritti sul fondo medesimo (ART.
2614 CC). Tale fondo è la garanzia principale dei creditori del consorzio. Vige un particolare regime di
responsabilità verso i terzi delle obbligazioni consortili. Per le obbligazioni assunte in nome del consorzio
dai suoi rappresentanti, i terzi possono far valere i loro diritti solo sul fondo consortile: sono le “spese
generali” necessarie per l’esistenza del consorzio (oneri di funzionamento degli organi consortile e degli
impianti con i correlativi costi di gestione, spese per i servizi, per il personale e per l’attività di promozione
svolta dal consorzio nell’interesse comune dei consorziati). Viceversa, per le obbligazioni assunte dagli
organi del consorzio per conto di singoli consorziati (es. acquisto di materie prime necessarie per l’esercizio
dell’attività di una delle imprese consorziate) rispondono quest’ultimi solidalmente col fondo consortile:
tali obbligazioni sono giuridicamente imputabili ai singoli consorziati, cui si aggiunte la responsabilità
sussidiaria, a mero titolo di garanzia, del fondo consortile. Se il consorzio è costretto a pagare, gli organi
consortili potranno esercitare azione di rivalsa per l’intera somma pagata nei confronti del consorziato
interessato (cd. solidarietà passiva disuguale). In caso d’insolvenza nei rapporti tra i consorziati il debito
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dell’insolvente si ripartisce tra tutti in proporzione delle quote. Infine, le persone che dirigono il consorzio,
entro 2 mesi dalla chiusura dell’esercizio, devono redigere una situazione patrimoniale osservando le regole
relative al bilancio delle SPA.

LE SOCIETÀ CONSORTILI Gli imprenditori che intendono coordinare e accentrare lo svolgimento di una
fase delle rispettive imprese (coordinamento inter-aziendale) possono scegliere di costituire un consorzio
oppure una società consortile. La società consortile, che produce quindi servizi ausiliari alle imprese dei soci
(es. organizzazione di una struttura per l’acquisto in comune di materie prime), può rivestire la forma di tutte
le società di persone e di capitali, tranne la società semplice. Si può costituire anche società consortili
cooperative, i cui soci realizzano lo scopo mutualistico attraverso l’integrazione delle rispettive imprese o di
alcune fasi di esse. Anche lo scopo consortile, come lo scopo lucrativo e lo scopo mutualistico, è una scopo
patrimoniale – egoistico caratteristico delle società. L’attività svolta dall’impresa consortile ha carattere
ausiliare, il consorzio di norma opera a beneficio delle sole imprese dei consorziati, offrendo loro beni e
servizi a condizioni più vantaggiose rispetto a quelle altrimenti ottenibili dal singolo aderente sul mercato (es.
consorzio costituito per acquistare all’ingrosso, quindi a prezzi inferiori, i prodotti alimentari destinati ad
essere poi venduti al dettaglio nei supermercati gestiti dagli aderenti) o offrendo l’opportunità di collocare
sul mercato i propri prodotti a condizioni migliori (es. consorzio che acquista dagli aderenti la loro produzione
agricola, per trasformarla e venderla al dettaglio). Di norma, nonostante sia gestita con metodo economico,
ossia assicurando che i costi siano coperti dai ricavi, l’impresa consortile non ha natura lucrativa (lo scopo
lucrativo consiste nel conseguire un utile da ripartire tra i soci) né mutualistica. Rispetto allo scopo
mutualistico, tuttavia, la differenza è più sottile, poiché in entrambi i casi l’obiettivo è procurare ai soci un
vantaggio patrimoniale diretto: se però la mutualità cooperativa è volta a soddisfare un bisogno personale
dei soci, la mutualità consortile è invece pertinente alle attività economiche esercitate dai soci, sicché il
vantaggio è imprenditoriale. Secondo la tesi prevalente, le società consortili sono regolate dalle norme
stabilite per il tipo societario prescelto. In caso di società consortile per azioni (SPA) o a responsabilità
limitata (SRL), per le obbligazioni sociali risponde solo la società con il suo patrimonio. L’atto costitutivo della
società può prevedere l’obbligo, a carico dei soci, di elargire, oltre ai conferimenti iniziali, contributi periodici
in denaro per il funzionamento dell’impresa comune (vietato in una società non consortile).

IL CONTRATTO DI RETE Il contratto di rete è una forma di cooperazione potenzialmente flessibile, ossia
priva di una rigida organizzazione comune, trattandosi di cooperazioni temporanee o volte a perseguire
obiettivi contingenti. Stipulando un contratto di rete più imprenditori perseguono l’obiettivo di accrescere,
individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e competitività sul mercato. A tal fine essi
si obbligano, sulla base di un programma comune di rete, a collaborare in forme ed ambiti predeterminati
attinenti all’esercizio delle proprie imprese, a scambiarsi informazioni/prestazioni (di natura industriale,
commerciale, tecnica, tecnologica) o ad esercitare in comune una o più attività rientranti nell’oggetto della
propria impresa. Non è necessaria un’articolata organizzazione comune tra le imprese, è sufficiente un
programma condiviso tra le imprese aderenti, programma la cui attuazione è monitorata da banche e
finanziatori della rete. La necessaria flessibilità della rete è funzionale al fatto che l’oggetto di tale
cooperazione tra imprese può essere eterogeneo, la rete può avere il mero scopo di consentire lo scambio
d’informazioni commerciali tra le aderenti (es. più imprese che producono beni complementari si scambiano
i nominativi dei propri clienti nei singoli mercati esteri in cui smerciano i propri prodotti). Il contratto di rete
è soggetto ad alcune agevolazioni fiscali, per fruire delle quali è necessario osservare determinate regole di
forma e di contenuto. Il contratto deve essere redatto, in conformità ad un modello standard tipizzato con
decreto ministeriale, per atto pubblico o per scrittura privata autenticata o per atto scritto firmato
digitalmente. Esso deve indicare 1 gli obiettivi strategici d’innovazione e d’innalzamento della capacità

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competitiva dei partecipanti e le modalità concordate per misurare l’avanzamento verso tali obiettivi
(indicazione interessante per banche e finanziatori) e 2 un programma di rete che enunci i diritti e gli obblighi
di ciascun partecipante, le modalità di realizzazione dello scopo comune e, se è previsto un fondo
patrimoniale comune, la misura e i criteri di valutazione dei conferimenti iniziali e di eventuali contributi
successivi che ciascun partecipante si obbliga a versare al fondo, nonché le regole di gestione del fondo. Il
patrimonio della rete può consistere in un fondo comune alimentato dai contributi delle imprese
partecipanti, soggetto alla disciplina dei consorzi con attività esterna (ARTT. 2614 e 2615 CC), in quanto
compatibile. In ogni caso, per le obbligazioni contratte dall’organo comune in relazione al programma di rete,
i terzi possono far valere i loro diritti solo sul fondo comune. Il fatto che nel contratto di rete sia previsto un
organo comune e un fondo patrimoniale comune non necessariamente implica che la rete acquisti
soggettività giuridica. Tuttavia è possibile costituire una “rete soggettivata”, ma in tal caso è necessario, non
solo che il contratto sia stipulato per atto pubblico o per scrittura privata autenticata o per atto munito di
firma digitale, ma anche l’iscrizione nella sezione ordinaria del registro delle imprese nella cui circoscrizione
è stabilita la sede della rete. Le regole di responsabilità della “rete soggettivata” sono le stesse previste per i
consorzi con attività esterna ed occorre redigere la situazione patrimoniale in osservanza delle disposizioni
del bilancio d’esercizio di SPA.

LE ASSOCIAZIONI TEMPORANEE DI IMPRESE Le associazioni temporanee di imprese sono una forma di


cooperazione contingente ed occasionale tra imprenditori. Tale cooperazione non richiede né
un’organizzazione né la nascita di un soggetto di diritto diverso dalle imprese coinvolte nel sodalizio (cosa
che rende tale forma di cooperazione utile a livello internazionale). Tali associazioni si fondano su contratti
associativi innominati (non sono inquadrabili giuridicamente nelle figure associative tradizionali), tuttavia
alcune leggi speciali hanno disciplinato, tipizzandole, alcune figure di associazioni temporanee, tra cui
rilevano le associazioni temporanee di imprese costituite per la partecipazione agli appalti pubblici
(regolate dal Codice dei contratti pubblici). Soffermiamoci su quest’ultime. Le imprese mandanti
conferiscono, con un unico atto, un mandato collettivo speciale, in rem propriam, con rappresentanza,
all’impresa capogruppo mandataria, affinché essa presenti un’offerta unitaria alla committente in nome e
per conto delle imprese mandanti. Al committente è assicurata una specifica tutela in quanto il mandato
deve risultare da scrittura privata autenticata, è gratuito ed irrevocabile: in deroga alla disciplina del
mandato collettivo, la sua revoca, anche per giusta causa, è inefficace nei confronti della stazione
appaltante. Per l’assegnazione di appalti di opere pubbliche i committenti richiedono determinati requisiti
qualitativi e quantitativi, al fine di assicurarsi che le imprese assegnatarie delle commesse di eseguire opere
complesse (es. costruzione di una linea ferroviaria) siano realmente capaci e lo facciano nei tempi stabiliti.
Per soddisfare tali requisiti gli imprenditori, ciascuno con una particolare specializzazione, possono decidere
di unirsi temporaneamente. A tal fine, però, gli imprenditori non possono utilizzare i tradizionali contratti
associativi: i consorzi e le società consortili sono usati per creare cooperazioni tendenzialmente stabili (anche
perché la loro costituzione di norma implica costi preventivi che potrebbero rivelarsi superflui se l’appalto
dovesse poi essere assegnato ad altri). Gli imprenditore vogliono unirsi, ma nello stesso tempo vogliono
conservare la propria autonomia ed individualità nell’esecuzione dell’opera, nonché procedere
singolarmente, permettendo così ai terzi di venire a conoscenza di quanto fatto individualmente per la
frazione della commessa di loro specifica competenza (se gli imprenditori optassero per il consorzio o la
società consortile, sarebbe quest’ultimo/a ad eseguire l’opera complessiva, e non le singole imprese). Ecco
che nacquero le associazioni temporanee di imprese, dove le imprese aspiranti alla commessa si presentano
distinte ed autonome al committente. Il loro collegamento consiste nel sottoporre al committente un’offerta
congiunta assumendo il comune impegno di eseguire la complessiva opera e nell’assegnare ad una di esse,
cd. impresa capogruppo, l’incarico di gestire i rapporti con il committente e di assicurare il necessario
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coordinamento esecutivo dell’opera. L’impresa capogruppo assume la rappresentanza esclusiva (anche
processuale) delle imprese mandanti nei confronti della stazione appaltante fino all’estinzione del rapporto.

DOMANDE RACCOLTE DA PRECEDENTI SCRITTI

• Professionalità nella nozione di impresa


• Scritture contabili obbligatorie (19 settembre 2019)
• Registro delle imprese
• Efficacia dell’iscrizione nel registro delle imprese
• Pubblicità nei registri
• Nozione di piccolo imprenditore e piccola impresa (16 luglio 2019)
• Attività agricole essenziali
• Attività connesse in agricoltura
• Il concetto d’attività agricola principale
• L’attività occulta
• Impresa pubblica
• Impresa commerciale (marzo 2019 – 1° parziale)
• Inizio e fine impresa
• Imprese di professionisti
• Professioni intellettuali e impresa, art. 2238 cc (5 settembre 2019)
• Institore e i suoi poteri di rappresentanza
• Commessi (18 giugno 2019)
• La sorte dei debiti e crediti nel trasferimento d’azienda
• Sorte dei debiti puri nel trasferimento d’azienda e nell’affitto
• La sorte dei contratti nel trasferimento d’azienda
• Divieto di concorrenza nel trasferimento d’azienda
• Usufrutti d’azienda

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I TITOLI DI CREDITO
GLI STRUMENTI DI MOBILIZZAZIONE DELLA RICCHEZZA. PRINCIPI FONDAMENTALI
La ricchezza si distingue in ricchezza mobiliare, la quale si sostanzia nella ricchezza monetaria e
finanziaria e comprende il denaro, il risparmio e gli investimenti finanziari nelle attività imprenditoriali e nello
Stato, e ricchezza immobiliare, costituita dalla proprietà fondiaria. La ricchezza mobiliare è circolante, la sua
movimentazione è una componente centrale del traffico giuridico, gli investimenti finanziari e gli scambi nei
mercati sono importanti per lo sviluppo delle imprese. La circolazione della ricchezza mobiliare va quindi
promossa e protetta, assicurandone celerità e sicurezza. Essa non riguarda solo le imprese, bensì tutte le
relazioni giuridiche aventi contenuto patrimoniale, a prescindere che siano inserite in un contesto
produttivo. Lo spostamento di ricchezza può assumere due forme:
1 un soggetto paga un’obbligazione pecuniaria ad un altro soggetto, attribuendogli così del denaro
(unità monetaria). Il denaro deve essere trasmesso in modo veloce e sicuro, ed a tal fine si usano strumenti
di pagamento come assegni bancari, bonifici elettronici, carte di credito, carte prepagate, etc.
2 viene fatta circolare una situazione giuridica che rappresenta un valore finanziario, come un
diritto di credito, una partecipazione sociale, etc. Nel mercato dei valori finanziari occorre proteggere gli
acquisti, ma anche favorire meccanismi operativi veloci (oggi veicolati dagli apparati informatici), ed a tal fine
si usano i titoli di credito (cambiali, azioni di società, titoli di Stato, etc.), che permettono di far circolare i
rapporti finanziari.

LA NOZIONE DI TITOLO DI CREDITO Il titolo di credito (ARTT. 1992 e SS. CC) è un documento, cartaceo
o elettronico, che menziona una situazione giuridica attiva (credito pecuniario, partecipazione sociale,
possesso di merci custodite presso terzi) che circola in modo autonomo (secondo principi che garantiscono
l’autonomia dell’acquisto dalla posizione dell’alienante) mediante la movimentazione del titolo. Il soggetto
che dispone materialmente del documento titolo di credito è legittimato ad esercitare la situazione
giuridica attiva ivi menzionata. Il titolo di credito è quello strumento giuridico che permette ai valori
finanziari di circolare, proteggendo gli acquisti. I titoli di credito rafforzano le garanzie che presidiano il
mercato della ricchezza mobiliare ed aumentano le possibilità di accedere a finanziamenti da parte di chi
intende raccogliere capitali di terzi per un qualche fine, come può essere quello imprenditoriale. Più è facile
disinvestire, ossia recuperare successivamente la liquidità investita, più un soggetto sarà propenso ad
investire le proprie risorse finanziarie libere in attività altrui. L’investimento e il disinvestimento sono favoriti
ed incrementati dall’esistenza di un mercato, nel quale possono trovarsi altri investitori, interessati a
subentrare nel rapporto di finanziamento. Più il mercato dà la possibilità di acquisire valori finanziari più
garanzie esso offre di fronte ai rischi tipici di ogni acquisto (es. il rischio che l’alienante non sia il vero titolare
del bene ceduto all’acquirente, il rischio che il bene acquistato non corrisponda alle attese, etc.).

LA FATTISPECIE TITOLO DI CREDITO Non ogni supporto cartaceo su cui è annotato un rapporto
giuridico è un titolo di credito, ma solo quel supporto che rispetta determinati requisiti e condizioni. Tali
requisiti e condizioni rappresentano gli elementi costitutivi della fattispecie cartolare, i quali non sono però
stabiliti dal legislatore. La legge non dice quali elementi consentono di qualificare un documento come un
titolo di credito (non esiste una definizione tipologica di “titolo di credito”), ma si limita a dettarne la
disciplina, le regole cui soggiace (ne dà quindi una definizione normativa). Il titolo di credito ha la funzione
di promuovere il mercato e di mediare nella raccolta e nella circolazione dei finanziamenti, pertanto può
definirsi “titolo di credito” quel documento formato ed emesso per realizzare un finanziamento tra colui
che è interessato a conseguire l’investimento e colui che è interessato a concederlo, assicurando una facile
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liquidabilità dell’investimento mediante la negoziazione del rapporto. La manifestazione di volontà tra
l’emittente e il primo prenditore contenuta nel titolo di credito rileva anche nei confronti dei terzi che
operano nel mercato, pertanto essa va interpretata ex ART. 1366 CC come potrebbe interpretarla un terzo
di media diligenza. Ne consegue che un documento è qualificabile come titolo di credito se, a prescindere
dall’intento dell’emittente, i terzi lo percepiscono come un documento destinato a circolare.

A seconda della posizione giuridica documentata, i titoli di credito si distinguono in quattro


tipologie:
1 titoli di finanziamento (cambiali, titoli di Stato), che documentano un diritto di credito avente ad
oggetto una prestazione pecuniaria,
2 titoli partecipativi, che documentano una posizione giuridica cd. complessa comprendente sia
diritti patrimoniali (diritto agli utili, diritto alla quota di liquidazione) sia diritti amministrativi (diritto di voto,
diritto di controllo) e rappresentativa della partecipazione economica ed organizzativa ad un’iniziativa
produttiva (azioni di società, strumenti finanziari partecipativi, etc.),
3 altri valori finanziari, che documentano posizioni giuridiche di vario tipo (diritti di opzione, quote
di fondi comuni d’investimento),
4 titoli rappresentativi di merci, che documentano il diritto alla consegna di merci (derrate
alimentari), specificate nel titolo e depositate presso un terzo o trasportate da un vettore, il possesso di tali
merci ed il potere di disporne trasferendo il titolo.

Il sistema dei titoli di credito è atipico, possono cioè crearsi titoli di credito diversi da quelli previsti
dal legislatore. Ciò si ricava dall’ART. 2004 CC, il quale, per evitare di arrivare ad un sistema monetario privato
parallelo a quello legale, stabilisce che “il titolo di credito contenente l’obbligazione di pagare una somma di
denaro non può essere emesso al portatore (ossia fatto circolare con la semplice consegna materiale, senza
altre formalità) se non nei casi stabiliti dalla legge”. Allo stesso tempo la norma sembra autorizzare
l’emissione di titoli atipici.

I titoli di credito si distinguono dai documenti di legittimazione (biglietti della lotteria, gettoni delle
giostre), i quali non sono destinati a circolare, ma hanno la mera funzione di identificare il soggetto avente
diritto ad una prestazione, facilitando l’esecuzione di quest’ultima. Essi conferiscono al possessore una prova
immediata del proprio diritto. Il possessore può limitarsi ad esibire il documento di legittimazione ed il
debitore che lo paga in buona fede è liberato (pagamento al creditore apparente).

LA CIRCOLAZIONE DEI RAPPORTI OBBLIGATORI I rapporti obbligatori sono soggetti a circolazione, che
può essere cartolare o non cartolare. La circolazione non cartolare dei rapporti obbligatori è soggetta ad
una disciplina che non offre adeguate forme di promozione e non tutela adeguatamente il mercato della
ricchezza finanziaria. Questo tipo di circolazione è rischiosa. Chi acquista un diritto di credito, o un rapporto
contrattuale, corre rischi in merito alla titolarità (il cedente potrebbe non essere il vero titolare del diritto
ceduto o potrebbe non essere legittimato a disporne) ed al contenuto della posizione giuridica acquistata
(il debitore/contraente ceduto potrà opporre all’acquirente cessionario tutte le eccezione che poteva
opporre al cedente). Le modalità con cui si attua il trasferimento del rapporto obbligatorio ne impedisce una
circolazione frequente, poiché ad esempio la cessione è efficace nei confronti del debitore solo dopo
notificazione/accettazione e richiede inoltre il consenso del contraente ceduto. Ancora, l’acquirente
cessionario può esercitare il diritto solo dopo aver provato l’esistenza del diritto e di un valido ed efficace
atto d’acquisto dello stesso.

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LA CIRCOLAZIONE CARTOLARE La circolazione dei titoli di credito (cd. circolazione cartolare), quindi
sia dei titoli cartacei sia dei titoli scritturali, asseconda le esigenze di celerità e protezione degli acquisti, grazie
al collegamento esistente tra il documento (cartaceo/elettronico) e la posizione giuridica documentata.
L’aggettivo “cartolare” deriva dall’impiego della chartula come supporto documentale del rapporto
obbligatorio (storicamente i titoli di credito erano solo cartacei). Tale circolazione è soggetta ad una
disciplina che tutela l’acquirente sulla base dei principi di autonomia (reale e obbligatoria), letteralità ed
astrattezza. Il diritto documentato nel titolo può essere esercitato con la mera esibizione del titolo: chi ha in
mano la chartula (per i titoli cartacei) o chi dispone del conto in cui è registrato il titolo (per i titoli scritturali)
ha l’esclusivo controllo sulla documentazione. C’è un evidente favor per la circolazione e formazione di un
mercato efficiente della ricchezza cartolarizzata.

Esistono tre tipi di titoli di credito cartacei, ciascuno con una propria legge di circolazione. I TITOLI
AL PORTATORE (libretto di risparmio al portatore emesso da una banca) circolano tramite la semplice
consegna materiale del titolo. Chi possiede un titolo al portatore è legittimato ad esercitare il diritto in esso
menzionato semplicemente presentando il titolo. I TITOLI ALL’ORDINE (assegni, cambiali) contengono
l’impegno ad eseguire una prestazione a favore di un altro soggetto (creditore) menzionato nel titolo. Essi
circolano tramite la consegna materiale del titolo e la girata. La girata è la sottoscrizione apposta sul
documento dall’alienante (cd. girante), il quale indica il nuovo creditore (cd. giratario). È legittimato ad
esercitare il diritto menzionato nel titolo colui che possiede quest’ultimo, ossia l’ultimo beneficiario
(giratario) di una serie continua di girate. In tale serie continua di girate, ciascun girante è giratario nella
girata precedente. Prima di pagare, il debitore ha però l’onere di controllare che il soggetto che reclama il
credito sia l’ultimo giratario. I TITOLI NOMINATIVI (azioni) circolano solitamente per mezzo di un notaio:
l’emittente (cd. transfert) consegna il titolo all’acquirente (creditore), indicandone il nome sia nel titolo sia
nel proprio registro (oppure l’emittente effettua una girata autentica e poi aggiorna il registro), e
l’acquirente, in possesso del titolo, è legittimato ad esercitare il diritto in esso menzionato. Per la circolazione
di un titolo all’ordine o un titolo nominativo è necessario un possesso qualificato, dato dalla consegna e da
un valido ed efficace negozio traslativo. La consegna riguarda la fase esecutiva del negozio, essa non può da
sola sopperire alla mancanza del negozio (se pur è la consegna che rafforza la protezione dell’acquirente).

LA CIRCOLAZIONE DEI TITOLI DI CREDITO CARTACEI La disciplina dei titoli di credito cartacei poggia su
alcuni principi cardine codificati negli ARTT. 1992, 1993 e 1994 CC. I titoli di credito permettono alla ricchezza
mobiliare di circolare, grazie al collegamento rilevante sul piano giuridico esistente tra titolo documento e
diritto documentato: il titolo documento incorpora il diritto documentato. È centrale il possesso della
chartula, ma non sempre è sufficiente. Il collegamento tra titolo e diritto documentato si esplica su tre piani.

IL PRINCIPIO DI AUTONOMIA REALE Anzitutto “chi ha acquistato in buona fede il possesso di un titolo di
credito, in conformità delle norme che ne disciplinano la circolazione, non è soggetto a rivendicazione” (ART.
1994 CC). Chi acquista in buona fede il possesso di un titolo di credito, e la buona fede (ossia l’ignoranza
circa il fatto che il titolo appartiene ad una persona diversa dall’alienante) si presume, ne diventa
proprietario anche a non domino, ossia anche se il suo dante causa (venditore) non ne era il vero titolare, e
non è soggetto a rivendicazione da parte di precedenti titolari (il precedente vero proprietario non potrà
rivendicare il titolo nei suoi confronti). Egli inoltre, sempre se in buona fede, acquista il titolo libero da
vincoli, eccetto quelli che risultano dal titolo. In caso di titoli all’ordine o titoli nominativi, l’acquisto a non
domino (più difficile) può verificarsi solo in due casi: 1 quando il dante causa, pur figurante come giratario
nella penultima girata, non ha acquistato la proprietà del titolo ad esempio per l’invalidità del suo atto
d’acquisto, oppure 2 quando il dante causa, dopo aver sottratto il documento al vero proprietario, ne falsifica

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la sottoscrizione girando il titolo a se stesso e poi all’acquirente. La circolazione della posizione giuridica
documentata è correlata alla circolazione del titolo documento, nel senso che l’acquirente acquista il diritto
documentato in quanto acquista il titolo di credito. Il rapporto obbligatorio è per natura immateriale,
mentre il titolo di credito è un documento, una cosa mobile materiale, di cui è possibile acquistarne la
proprietà. Il rapporto obbligatorio viene materializzato nel titolo, pertanto, acquistando la proprietà del
titolo, l’acquirente diventa titolare anche del rapporto obbligatorio incorporato nel documento. L’acquisto
del titolo e della titolarità del diritto ivi menzionato presuppongono però l’esistenza di un negozio traslativo
valido ed efficace. Il possesso (eventualmente qualificato, a seconda del titolo) sana solo il difetto di
proprietà dell’alienante, non altri vizi dell’atto.

IL PRINCIPIO DI AUTONOMIA OBBLIGATORIA. LETTERALITÀ E ASTRATTEZZA Il contenuto del diritto documentato


è correlato alla lettera del documento. L’acquirente di un titolo di credito occupa una posizione indipendente
rispetto a quella dei precedenti creditori. Ne consegue anzitutto che il possessore del titolo di credito può
esercitare il diritto ivi menzionato nei termini indicati nel titolo (principio di letteralità), senza poter subire
le conseguenze di eventuali modifiche di contenuto (dilazioni, remissioni parziali) o estinzioni del diritto
(pagamento) riferibili a precedenti possessori e non risultanti dal titolo. Ci sono titoli, denominati titoli a
letteralità piena (cambiale, assegno), che indicano tutto il contenuto del diritto, e titoli cd. a letteralità
incompleta, che menzionano solo in parte il contenuto del rapporto e quindi richiedono di essere integrati
con ulteriori documenti (es. il titolo azionario va integrato con lo statuto della società affinché il socio possa
venire a conoscenza dell’estensione del suo diritto e delle modalità con cui esercitarlo). Ulteriore
conseguenza dell’indipendenza che caratterizza l’acquirente è (principio di astrattezza) che il diritto
menzionato nel titolo è giuridicamente separato dal rapporto giuridico che l’ha fatto sorgere (rapporto
fondamentale), il quale è irrilevante nei confronti dei successivi possessori del titolo che non faranno parte
di tale rapporto (es. il rilascio di una cambiale per il pagamento del prezzo di un bene fa sorgere un credito
astratto rispetto al rapporto di compravendita, la cui esistenza, vizi o eccezioni non sono opponibili ai terzi
che successivamente acquisteranno la cambiale dal venditore del bene).
Né tale possessore può subire eccezioni riguardanti i precedenti possessori del titolo (vi sono alcune
eccezioni a protezione del debitore alla cui volontà non è riferibile l’emissione del titolo: firma falsa, difetto
di rappresentanza, etc.). “Il debitore può opporre al possessore del titolo solo le eccezioni a questo personali,
le eccezioni di forma, quelle che sono fondate sul contesto letterale del titolo, nonché quelle che dipendono
da falsità della propria firma, da difetto di capacità o di rappresentanza al momento dell’emissione, o dalla
mancanza delle condizioni necessarie per l’esercizio dell’azione. Il debitore può opporre al possessore del
titolo le eccezioni fondate sui rapporti personali con i precedenti possessori, solo se, nell’acquistare il titolo, il
possessore ha agito intenzionalmente a danno del debitore medesimo” (ART. 1993 CC). Il debitore di un titolo
di credito può opporre al possessore del titolo le seguenti eccezioni:
A eccezioni personali, opponibili solo all’attuale possessore del titolo. Rientrano in questo gruppo 1
le eccezioni personali in senso stretto, come il difetto di proprietà del titolo (es. titolo acquistato in base ad
un negozio nullo o a non domino in mala fede) o il difetto di legittimazione (carenza di possesso qualificato
del titolo), 2 le eccezioni fondate su rapporti personali con l’attuale possessore, aventi ad oggetto tutti i
fatti, intercorsi con il possessore, che incidono sull’esistenza o sul contenuto della pretesa documentata,
come gli atti o le vicende direttamente modificativi del rapporto cartolare (es. la concessione di una dilazione
nel pagamento) o le vicende concernenti altri rapporti, che possano dar luogo ad un’eccezione di
compensazione; vi rientrano anche le eccezioni scaturenti dal rapporto fondamentale, se l’attuale possessore
ne è parte
B eccezioni reali, ossia opponibili a chiunque (qualunque possessore). Sono comprese 1 le eccezioni
fondate sul contesto letterale del titolo (es. la somma dovuta è inferiore rispetto alla somma pretesa) e 2 le
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eccezioni di forma (es. la legge richiede l’apposizione della denominazione “cambiale” sul relativo titolo e
nella lingua in cui esso è redatto). Eventuali modifiche al rapporto originario (un pagamento parziale, una
dilazione), se documentate nel titolo, diventano eccezioni fondate sulla lettera del titolo. Rientrano in tale
categoria, poi, 3 alcune eccezioni riguardanti il fatto che l’obbligazione cartolare non è riferibile alla volontà
di chi figura come debitore (falsità della firma, difetto di capacità d’agire o di rappresentanza al momento
dell’emissione, violenza fisica).
C eccezioni fondate sui rapporti personali (compreso il rapporto fondamentale) con i precedenti
possessori, non riferibili quindi al possessore attuale, solo se (in tale generale inopponibilità si manifesta
l’autonomia obbligatoria dell’acquisto cartolare) nell’acquistare il titolo il possessore attuale ha agito
intenzionalmente a danno del debitore, ossia al solo scopo di privarlo dell’eccezione.

LEGITTIMAZIONE CARTOLARE ATTIVA E PASSIVA L’esercizio del diritto è correlato al semplice possesso del
documento (ART. 1992 CC), nel senso che il soggetto che possiede il titolo è legittimato (legittimazione
attiva) ad esercitare il diritto documentato (possesso che, nei titoli all’ordine e nominativi, deve essere
qualificato), quindi ha diritto a ricevere la prestazione in esso indicata in cambio della mera presentazione
del titolo, assolvendo così ad ogni onere probatorio. Il possessore del titolo non deve provare di essere
titolare di tale diritto. Il possesso del documento determina una presunzione relativa di titolarità, relativa
perché al debitore è sempre concessa la possibilità di fornire una prova contraria (es. il debitore può sempre
dimostrare che il possessore ha acquistato il titolo sulla base di un atto nullo). Quanto alla legittimazione
passiva, invece, è stabilito che “il debitore che, senza dolo o colpa grave, adempie la prestazione nei
confronti del possessore del titolo di credito, è liberato anche se il possessore del titolo non è il vero titolare
del diritto”. Il pagamento del debitore nei confronti del possessore è sempre liberatorio per il primo, il che
significa che il vero titolare del diritto non potrà costringerlo ad un secondo adempimento. Il pagamento del
debitore non libera quest’ultimo solo se il debitore è in dolo o in colpa grave, ossa dispone (o avrebbe potuto
agevolmente disporre) di prove certe e liquide che il possessore non è il vero titolare del diritto
documentato, e quindi avrebbe potuto respingere la pretesa del possessore.

I TITOLI SCRITTURALI E LA LORO CIRCOLAZIONE La più importante forma alternativa ai titoli cartacei sono
i titoli scritturali (o dematerializzati), disciplinati dal TU della Finanza, destinati a circolare e sono percepiti
come tali dal mercato. Sono necessariamente scritturali i titoli negoziati nelle sedi di negoziazione europee,
nei mercati regolamentati, come ad esempio le azioni quotate e i titoli di Stato. Sono invece facoltativamente,
ossia a scelta dell’emittente, scritturali i titoli di massa (ossia emessi in serie) non quotati. Qui il rapporto
giuridico è documentato in forma telematica, ossia registrato in un conto aperto presso un intermediario
abilitato, come può essere ad esempio una banca, ed intestato al “possessore” del titolo. La registrazione
nel conto coincide con l’emissione del titolo: con la sua registrazione il titolo viene emesso. Presso un
depositario centrale (CSD) ciascun intermediario ha un conto, denominato conto-terzi, intestato a sé ed in
cui vi sono registrati tutti i titoli di pertinenza dei clienti. C’è quindi una rete piramidale di conti con al vertice
il CSD, poi gli intermediari e alla base i loro rispettivi clienti. I titoli scritturali non possono essere oggetto né
di possesso né di consegna, essi circolano tramite una consegna puramente virtuale, attraverso
movimentazioni contabili telematiche, denominate operazioni di giro: i titoli ceduti vengono addebitati al
conto dell’alienante e del conto-terzi del suo intermediario ed accreditati al conto dell’acquirente e del conto-
terzi del suo intermediario.
I principi cardine della disciplina di circolazione dei titoli scritturali sono analoghi a quelli che
valgono per i titoli cartacei. L’acquirente nel cui conto sono stati accreditati/registrati titoli in buona fede
acquista la titolarità del rapporto ivi documentato e non può essere soggetto a pretese o azioni da parte di
precedenti titolari (in questo caso non si parla di “rivendicazione”, poiché non c’è in gioco la proprietà di una

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chartula, ma il principio è identico). All’intestatario del conto in cui il titolo è registrato l’emittente può
opporre solo le eccezioni a lui personali e le eccezioni reali, ossa le eccezioni comuni a tutti gli altri titolari
di titoli della stessa serie, quindi non quelle personali ai precedenti possessori. Quanto alle eccezioni reali,
nei titoli azionari è comune l’eccezione fondata su una norma statuaria, ossia sul contesto letterale del titolo
(stante la letteralità incompleta del titolo azionario), mentre nei titoli obbligazionari è comune l’eccezione
consistente nell’assenza della delibera di emissione da parte dell’organo societario preposto (nei titoli emessi
da persone giuridiche, corrisponde alla eccezione d’irriferibilità dell’emissione alla volontà di chi figura come
debitore).
Il titolare del conto in cui sono stati accreditati/registrati i titoli ha la legittimazione piena ed
esclusiva ad esercitare i diritti nascenti dal rapporto documentato. L’hardware in cui è menzionato il titolo
non è un documento che il possessore del titolo può esibire all’emittente per provare di essere proprietario
del titolo: per provare la propria titolarità al possessore basterà presentare all’emittente l’attestazione della
registrazione dei titoli nel suo conto. I diritti patrimoniali (riscossione di dividendi) sono esercitati, in forma
mediata, collettiva e anonima, dagli intermediari e dal CSD. Solo i diritti amministrativi (voto assembleare)
possono essere esercitati direttamente dall’intestatario del conto, dietro presentazione di una certificazione,
cioè di un documento (che non ha natura di titolo di credito) rilasciato su richiesta dall’intermediario e
attestante la registrazione dei titoli nel conto intestato al richiedente (oppure, per la partecipazione alle
assemblee, a seguito dell’invio, da parte dell’intermediario, di una comunicazione elettronica diretta
all’emittente, contenente la medesima attestazione). La legittimazione non coincide con la titolarità del
rapporto giuridico registrato, il legittimato può essere un soggetto diverso dal titolare (es. colui che ha
acquistato in base ad atto nullo). L’emittente, pertanto, se riesce a provarlo, può eccepire all’intestatario del
conto il difetto di titolarità. Quanto alla legittimazione passiva, come per i titoli cartolari il debitore che senza
dolo o colpa grave adempie nei confronti dell’intestatario del conto (i cui dati siano pure annotati nel suo
registro, se il titolo è nominativo) è liberato anche se l’intestatario del conto non è il titolare del diritto.

LA CIRCOLAZIONE DEL DENARO: GLI STRUMENTI DI PAGAMENTO

Indipendentemente dal rapporto giuridico sottostante, oltre che con la materiale consegna di pezzi
monetari il denaro può essere trasferito tra due soggetti anche in modo diverso. L’odierno sistema di
pagamenti ruota attorno alla nozione di moneta scritturale, ossia la moneta data dall’insieme dei saldi
disponibili dei conti accesi presso banche o altri intermediari specializzati (cd. debiti a vista). Con la
movimentazione di tali conti si può trasferire una certa disponibilità monetaria da un soggetto ad un altro.
Affinché si possa usare efficacemente la moneta scritturale è necessario che il pubblico abbia fiducia nella
solvibilità degli intermediari coinvolti e nella loro capacità di convertire, in qualunque momento e a semplice
richiesta, la moneta scritturale in moneta legale. Negli Stati moderni la prestazione di servizi di pagamento e
l’uso della moneta scritturale sono circondati da adeguati controlli pubblici. Negli ultimi anni alla moneta
scritturale si sono affiancate le valute virtuali, ossia rappresentazioni digitali di valore che funzionano come
mezzo di scambio, unità di conto e/o strumento di conservazione del valore, pur senza essere riconosciute
come valuta avente corso legale. Tali valute sono utilizzate all’interno di una specifica comunità virtuale,
possono essere memorizzate sul computer in appositi portafogli digitali (e-wallets) e, all’occorrenza,
trasferite e negoziate elettronicamente. Possono impiegarsi a prescindere dalla presenza di intermediari. Per
evitare il trasferimento materiale diretto del denaro contante, ossia di pezzi monetari, tra il debitore e il
creditore nella prassi si utilizzano due tipi di strumenti di pagamento: quelli sostitutivi del denaro contante
(assegni bancari e assegni circolari), in cui il debitore consegna al creditore documenti rappresentativi del
denaro contante e il creditore li accetta in sostituzione temporanea della moneta, e quelli alternativi al

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denaro contante (bonifico, addebiti diretti, carta di debito e di credito), in cui banche o istituti di pagamento
eseguono delle scritturazioni a debito e a credito sui conti intestati ai soggetti coinvolti nell’operazione.

LA CAMBIALE La cambiale, strumento di pagamento sostitutivo del denaro contante, è un documento


(stampato, dattiloscritto o manoscritto) completo, nel senso che contiene tutte le clausole che individuano
e regolano il diritto cartolare di credito. Ha una funzione creditizia, differisce cioè il pagamento di una certa
somma. È un titolo di credito di norma all’ordine, contenente l’obbligazione incondizionata di pagare o di
far pagare una somma di denaro alla scadenza e nel luogo indicati nel titolo. Circola tramite girata, la quale
fa diventare il giratario il portatore legittimo della cambiale. È un titolo astratto, perché il rapporto
sottostante tra traente/emittente della cambiale e primo prenditore (rapporto di valuta) non risulta dal titolo
e può avere vario contenuto (es. obbligo di pagare il corrispettivo di una compravendita). La cambiale è un
titolo esecutivo: notificando il precetto il creditore cambiario può avviare subito (non sono necessari né una
sentenza di condanna né un decreto ingiuntivo di pagamento) la procedura esecutiva sui beni dei debitori
cambiari inadempienti. Ai fini fiscali è obbligatorio usare l’apposita carta bollata, in mancanza della quale la
cambiale è comunque valida, ma non è titolo esecutivo. È spesso utilizzata dal debitore per pagare i propri
debiti pecuniari. La cambiale può presentarsi sotto forma di due tipologie: 1 pagherò cambiario e 2 cambiale
tratta. Con il pagherò cambiario (o vaglia cambiario, o cambiale propria) il sottoscrittore fa una promessa di
pagamento alla persona indicata nel titolo (prenditore). Con la cambiale tratta il traente impartisce un ordine
di pagamento al trattario a favore del portatore del titolo. Oltre al rapporto di valuta intercorrente tra
traente e primo prenditore, nella cambiale tratta rileva il rapporto di provvista, intercorrente tra traente e
trattario. Il trattario, che solitamente è debitore nei confronti del traente per un debito non cambiario,
pagando la cambiale, estingue contemporaneamente sia il rapporto di valuta tra il traente e il prenditore sia
il rapporto di provvista tra se stesso e il traente. La cambiale nasce con la dichiarazione cambiaria del
traente/emittente, ma spesso, dopo l’emissione del titolo e prima della sua scadenza, sulla cambiale
vengono aggiunte altre dichiarazioni e da ciascuna di queste sorge, in capo al sottoscrittore, un obbligo
cambiario nei confronti del creditore cambiario (in caso di circolazione per mezzo di girata, il girante diviene
obbligato cambiario nei confronti del proprio giratario e dei giratari successivi). In caso di dichiarazioni di
avallo, ossia dichiarazioni con cui si garantisce il pagamento del debito cambiario assunto da un altro
soggetto, anche gli avallanti diventano obbligati cambiari, assumendo la stessa posizione dell’obbligato
cambiario (indicato nella dichiarazione come avallato) per il quale hanno garantito. Le obbligazioni che
derivano dalle varie dichiarazioni cambiarie sono tra loro indipendenti, quindi l’invalidità di una non influisce
sulla validità delle altre. Gli obbligati cambiari si distinguono in obbligati diretti (emittente, accettante e loro
avallanti) e obbligati di regresso (traente, giranti e loro avallanti): solo gli obblighi di quest’ultimi si
estinguono per mancanza di protesto e il termine di prescrizione degli obblighi degli obbligati diretti è più
lungo di quello degli obblighi degli obbligati di regresso. Alla scadenza, il portatore legittimo della cambiale
(ossia chi risulta essere l’ultimo giratario di una serie continua di girate) è legittimato a chiedere il pagamento
al trattario (in caso di cambiale tratta) o all’emittente (in caso di pagherò cambiario). Se l’obbligato principale
si rifiuta di pagare la somma indicata, l’avente diritto (ossia il portatore legittimo della cambiale) può chiedere
il pagamento ad un qualunque altro obbligato cambiario. I rapporti cambiari si estinguono solo se il
pagamento è effettuato dall’emittente (o accettato dall’obbligato principale, in caso di cambiale tratta); se il
pagamento è effettuato da un altro obbligato cambiario (es. un girante), questi può pretendere dai giranti
che lo precedono, dal traente o dai loro avallanti il rimborso di quanto ha pagato. In questo consiste il cd.
ordine (o nesso) cambiario.
Sulla falsariga della cambiale è stata introdotto un nuovo tipo di titolo di credito che desse alle un
metodo di raccolta diverso dalle normali obbligazioni: la cambiale finanziaria. Si tratta di uno strumento di
finanziamento a breve termine che permette agli emittenti di diversificare la raccolta di risorse e agli
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investitori di articolare maggiormente l’impiego del risparmio. La possibilità di emettere tali titoli è stata
estesa anche alle società non quotate in mercati regolamentati (o non regolamentati, se pur a particolari
condizioni). La cambiale finanziaria può durare tra 1 e 36 mesi e può essere emessa in forma dematerializzata.

L’ASSEGNO L’assegno, strumento di pagamento sostitutivo del denaro contante, è spesso utilizzato
dal debitore per pagare i propri debiti pecuniari. Ha una funzione di pagamento, consente a coloro che
hanno somme disponibili presso una banca di utilizzarle per effettuare, tramite la banca, pagamenti a terzi.
L’assegno, che deve essere presentato entro termini brevissimi, è inscindibilmente connesso all’attività
d’intermediazione bancaria (sia il trattario di un assegno bancario sia l’emittente di un assegno circolare
devono essere banche). Esso può presentarsi sottoforma di assegno bancario o assegno circolare.

L’ASSEGNO BANCARIO Un soggetto può decidere di stipulare con una banca un contratto di conto
corrente bancario cui di regola è connessa una convenzione di assegno, in forza della quale la banca
consegna al cliente un libretto degli assegni, lo autorizza ad emetterli (a trarli su di essa) e, in presenza di
fondi disponibili (sia quelli risultanti da rapporti attivi, come ad es. depositi in conto, sia quelli derivanti da
operazioni di concessione di credito da parte della banca, come ad es. aperture di credito), si obbliga ad
onorarli. I presupposti quindi affinché un soggetto possa emettere un assegno bancario sono la presenza di
una convenzione d’assegno e la presenza di fondi disponibili. Gli assegni bancari rappresentano dei titoli di
credito. Con l’assegno bancario il cliente (traente) ordina al trattario (ossia alla banca) di effettuare un
pagamento a favore del legittimo portatore del titolo di credito (prenditore o beneficiario); questa
delegazione di pagamento avvicina l’assegno bancario ad altri strumenti di pagamento, come il bonifico,
l’addebito diretto o le carte di debito/credito. Nel rispetto dei limiti introdotti dalla normativa anti-riciclaggio,
l’assegno bancario deve contenere, quali requisiti formali (non è necessario indicare la scadenza, la quale è
sempre a vista), la denominazione di “assegno bancario”, l’ordine incondizionato di pagare una somma
determinata, il nome del trattario, il luogo di pagamento, la data e il luogo di emissione dell’assegno, e la
sottoscrizione del traente. L’assegno può contenere il nome del beneficiario. A meno che vi sia la clausola
“non trasferibile”, l’assegno pagabile ad una persona determinata può trasferirsi tramite girata, che non può
essere né condizionata né parziale. L’assegno al portatore si trasferisce con la semplice consegna del
documento. L’assegno bancario può essere emesso “su piazza”, ossia nella stessa località (Comune) in cui
opera lo sportello presso cui il soggetto ha aperto il proprio conto corrente bancario, oppure “fuori piazza”:
nel primo caso l’assegno bancario deve essere presentato per il pagamento entro 8 giorni, mentre nel
secondo caso entro 15 giorni, sempre a decorrere dalla data di emissione. Il beneficiario può presentare
l’assegno all’incasso presso i dipendenti della banca trattaria presso cui l’emittente ha il conto corrente. La
banca verifica la copertura dell’assegno, ossia la presenza di fondi disponibili, l’autenticità della firma del
traente, l’assenza di alterazioni dell’assegno e la continuità delle girate. L’assegno bancario, pertanto, non
garantisce al portatore legittimo né che il pagamento verrà effettuato né che vi siano i soldi da dargli. La
banca può incorrere in responsabilità contrattuale verso il cliente se l’assegno viene pagato violando tali
doveri di controllo. Spesso però il beneficiario presenta l’assegno all’incasso presso una banca diversa dalla
trattaria: in questo caso la banca negoziatrice – girataria per l’incasso del titolo (girata ammissibile anche se
sull’assegno è apposta la clausola non trasferibile) – accredita l’importo nel conto corrente “salvo buon fine”,
cioè a condizione che l’importo venga regolarmente pagato dalla trattaria all’esito della negoziazione
dell’assegno in Stanza di compensazione o, nel caso di assegni bancari di importo fino a € 5.000 e degli assegni
circolari senza limiti di importo, della procedura della check truncation (colloquio telematico tra le due
banche, senza trasmissione materiale dell’assegno). Se il beneficiario non effettua la richiesta di pagamento
nel termine, l’obbligazione di regresso dei giranti si estingue. Se il cliente traente ordina alla banca trattaria
di non pagare l’assegno, revocando così l’ordine di pagamento, la banca non deve pagarlo, ma in mancanza

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della revoca, la banca può pagare anche oltre il termine. L’assegno bancario è un titolo esecutivo, quindi il
beneficiario, dopo la formale constatazione del mancato pagamento mediante il protesto effettuato da un
pubblico ufficiale, può esercitare l’azione di regresso contro gli eventuali giranti.

L’ASSEGNO CIRCOLARE Il cliente può chiedere alla banca di emettere un assegno circolare, che consiste
in una promessa di pagamento nei confronti della persona indicata nel titolo (prenditore). La banca,
emettendo l’assegno circolare, promette di pagare la somma di denaro a favore del soggetto indicato nel
titolo, nei confronti del quale è direttamente obbligata. A pena d’invalidità, l’assegno circolare deve
contenere (elementi essenziali) la denominazione di “assegno circolare”, la promessa incondizionata, il
prenditore, il luogo e la data di emissione, e la sottoscrizione della banca emittente. Si applicano le stesse
norme previste per il pagamento dell’assegno bancario, ma il termine per presentare la richiesta di
pagamento è di 30 giorni dalla data di emissione e l’azione contro l’emittente va in prescrizione in 3 anni.

IL BONIFICO Il bonifico è uno strumento di pagamento alternativo al denaro contante. Il titolare di


un conto può ordinare alla propria banca di trasferire la disponibilità di una somma (fondi) dal suo conto ad
un altro suo conto o ad un conto di un altro soggetto. Se è il creditore ad ordinare alla banca di trasferire i
fondi vi è un addebito diretto: il pagamento è disposto dal beneficiario sulla base del consenso datogli dal
pagatore.

LE CARTE Le carte sono strumenti di pagamento alternativi al denaro contante e si distinguono in


carte di debito (o di pagamento), che consentono transazioni e/o prelievi con contestuale movimentazione
dei fondi disponibili sul conto corrente, e carte di credito, che consentono di effettuare transazioni e/o
prelievi con regolamento sul conto rinviato ad un momento successivo e che presuppongono un accordo
complesso tra tre soggetti (emittente della carta, titolare della carta ed esercente convenzionato): tra
emittente e titolare della carta c’è un rapporto di provvista, mentre tra emittente e fornitore dei beni/servizi
c’è una convenzione, in forza della quale il fornitore si obbliga nei confronti dell’emittente ad eseguire la
prestazione richiestagli dal titolare della carta di credito e l’emittente si obbliga nei confronti del fornitore a
pagare il corrispettivo del bene/servizio.

LA DISCIPLINA DEI SERVIZI DI PAGAMENTO: LE LINEE DI FONDO DEL D.LGS. 11/2010Nel 2010 l’Italia ha recepito la
direttiva PSD del 2007 sui servizi di pagamento nel mercato interno, in una prospettiva d’armonizzazione e
con l’obiettivo di istituire un quadro giuridico moderno e coerente per i servizi di pagamento. La disciplina
PSD si applica senza distinzioni a tutti i pagamenti in € prestati nell’UE. La PSD è stata revisionata nel 2015
dalla direttiva PSD2, recepita in Italia nel 2017, direttiva che risponde concretamente all’evoluzione del
mercato dei pagamenti ed al contempo supera alcune criticità del precedente regime, facendo così un passo
ulteriore verso la completa armonizzazione del mercato dei pagamenti. La disciplina PSD si applica alle
banche, agli istituti di moneta elettronica, agli istituti di pagamento, a Poste italiane SPA, etc. La direttiva PSD
non solo ha lasciato liberi i singoli Stati di equiparare, in sede di recepimento, la micro-impresa (impresa che
occupa meno di 10 addetti e realizza un fatturato annuo o un totale di bilancio annuo non superiori a 2 milioni
di €) al consumatore al fine di un trattamento di maggior tutela (scelta fatta dall’Italia), ma ha anche attratto
la macro-impresa nel suo campo d’applicazione, sia pure prevedendo nei suoi riguardi la possibilità di
derogare una parte della disciplina disegnata dalla direttiva. La PSD ha poi dettato una disciplina trasversale
delle operazioni di pagamento, non differenziata secondo il tipo di operazione considerato (bonifico,
addebito diretto, etc.). Dove il legislatore ha sentito la necessita di introdurre regole diverse, l’ambito
applicativo di queste è stato disegnato tramite il riferimento a due categorie di operazioni: operazioni su
iniziativa del pagatore e operazioni su iniziativa del beneficiario. Il campo d’operatività della nuova disciplina
è individuato dal legislatore nazionale facendo ricorso alle nozioni di “contratto quadro relativo a servizi di

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pagamento” e di singole “operazioni di pagamento”, che a loro volta si fondano su quella base di “servizi di
pagamento”. Un’altra nozione introdotta dalla nuova normativa è “conto di pagamento”, cui è riconducibile
ogni conto che consente al suo titolare l’esecuzione di pagamenti (conto corrente bancario, conto di
pagamento acceso presso un istituto di pagamento, conto corrente postale).

DOMANDE RACCOLTE DA PRECEDENTI SCRITTI

• Autonomia reale e obbligatoria dei titoli strutturali


• Eccezioni del debitore al creditore e nei titoli di credito
• Eccezioni personali e reali nella circolazione dei titoli di credito
• Leggi di circolazione dei titoli di credito
• Pagamento è mancato pagamento assegno bancario

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LA NOZIONE DI SOCIETÀ E I PRINCIPI GENERALI
L’ORGANIZZAZIONE PRODUTTIVA: ELEMENTI COSTITUTIVI
Le società sono strutture organizzative destinate all’esercizio di un’attività produttiva. Sono
organismi di diritto privato con un proprio patrimonio e un proprio apparato operativo, con i quali svolgono
un’attività economica che produce o scambia beni o servizi. Le società nascono come associazioni, come un
gruppo di persone che si aggregano per svolgere un’iniziativa comune e trarne un guadagno. A partire dal
tardo medioevo, accanto alle imprese individuali si affermano le imprese collettive, promosse da gruppi di
persone che uniscono le proprie forze finanziare e lavorative per intraprendere congiuntamente una
determinata attività. Le società sono enti che esercitano imprese che non fanno capo giuridicamente ad una
persona fisica. Non c’è però una perfetta corrispondenza tra società e impresa collettiva. Ci sono società che
esercitano un’attività produttiva non imprenditoriale (le società tra professioni intellettuali) o società cui
partecipa un unico socio (società unipersonali). Esistono poi anche enti diversi dalle società che esercitano
un’impresa (associazioni, fondazioni, consorzi). Ciò che è certo è che la società svolge un’attività produttiva
(e di norma imprenditoriale) e questo giustifica l’inserimento della società nel diritto commerciale e
nell’impresa. La società è un centro di interessi, soggettivamente autonomo e con un patrimonio
giuridicamente distinto da quelli personali dei soci.
Le società si distinguono in:
A società di persone, cui appartengono la società semplice, la società in nome collettivo (SNC) e la
società in accomandita semplice (SAS). Sono società con pochi soci che esercitano attività di dimensioni non
cospicue
B società di capitali, cui appartengono la società per azioni (SPA – le società quotate sono spa), la
società a responsabilità limitata (SRL) e la società in accomandita per azioni (SAPA). Sono società più
complessa, con più o meno soci, che svolgono attività di varie dimensioni.
Sia le società di persone sia le società di capitali sono società lucrative, ossia società che perseguono
(salve alcune eccezioni) uno scopo di lucro: svolgendo l’attività esse mirano a realizzare un profitto da
dividere tra i soci. Ci sono poi le società a scopo mutualistico, come le società cooperative e mutue
assicuratrici (le ultime nel settore delle assicurazioni), e la società europea e la società cooperativa europea.

SOCIETÀ PLURIPERSONALE E UNIPERSONALE Si distinguono società pluri-personali e società uni-


personali (la presenza di quest’ultime è indicatore dell’evoluzione della società). Sono necessariamente
pluri-personali:
A le società di persone, in cui i soci fondatori devono essere almeno 2, come si evince dalla natura
contrattuale dell’atto costitutivo. Se nel corso della vita della società i soci scendono al di sotto di 2, la società
si scioglie e si estingue
B la società in accomandita per azioni, composta da due classi di soci (accomandanti e
accomandatari)
C le società mutualistiche, in cui i soci devono essere almeno 9 o, a certe condizioni, 3 (il
perseguimento di uno scopo mutualistico ha senso solo in presenza di più persone). Se il numero dei soci
scende sotto il limite, la società deve essere integrata entro 1 anno, pena il suo scioglimento.
Le SPA e le SRL possono essere sia pluripersonali sia unilaterali. In caso di società unilaterali, tutte le
quote di partecipazione confluiscono in un unico socio (es. nei gruppi di società, la capogruppo – holding – o
le società al centro della piramide detengono tutte le partecipazioni nelle controllate).

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La società con un unico socio è un ente autonomo da quest’ultimo, all’interno del quale è formata la
volontà negoziale, che acquista diritti e assume obblighi e che espone alla responsabilità per l’adempimento
di questi il patrimonio di cui viene dotata: a tali organismi è riconosciuta personalità giuridica. La società cui
partecipa un unico socio risponde ad un interesse patrimoniale individuale e l’attività produttiva svolta, dal
punto di vista economico, è simile ad un’impresa esercitata dal socio in veste di imprenditore individuale.
Tuttavia, giuridicamente la distinzione è netta e riguarda l’imputabilità dell’attività e dei rapporti che ne
scaturiscono (all’imprenditore o alla società). L’opportunità di avviare iniziative produttive individuali,
circoscrivendo il rischio d’impresa ad un patrimonio delimitato, incentiva l’economia. Gli strumenti di
controllo, pubblicitari ed informativi, che circondano l’attività delle società di capitali e tutelano i creditori,
proteggono i terzi rendendoli edotti in merito alla relativa situazione finanziaria, permettendo loro di
scegliere se riporre o meno fiducia nelle diverse società.

IL CONTRATTO E L’ATTO UNILATERALE COSTITUTIVO Le società (eccetto quelle create dalle legge, cd.
società legali) sono costituite con un atto di autonomia privata, ossia con un contratto o con un atto
unilaterale. Il contratto di società lucrative è il contratto con cui “due o più persone conferiscono beni o servizi
per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili” (ART. 2247 CC). La volontà
negoziale costitutiva ha ad oggetto: 1 il conferimento di determinati beni o servizi, ossia una dotazione di
risorse funzionale all’esercizio di un’attività economica, 2 lo svolgimento (secondo determinate regole
organizzative) di quest’attività per mezzo di quel patrimonio, 3 la realizzazione di un profitto da assegnare
ai partecipanti (scopo di lucro), rispetto a cui l’attività è strumentale. Esistono società che perseguono uno
scopo mutualistico o consortile. In ogni caso tutte le società perseguono (con le sole eccezioni previste dalla
legge) uno scopo patrimoniale ed egoistico e il contratto di società cooperativa o consortile coincide, nei
tratti essenziali, fatta eccezione per lo scopo, con l’atto costitutivo di società lucrativa. Negozio unilaterale e
contratto condividono gli elementi fondamentali e differiscono solo sul piano dei promotori dell’iniziativa. Il
contratto di società non è riconducibile ai contratti di scambio (compravendita, locazione, appalto, etc.), i
quali mirano a comporre interessi contrapposti tra le parti soddisfacendoli entrambi attraverso la
commutazione (ossia lo scambio) di prestazioni reciproche. I contratti di scambio richiedono
necessariamente almeno due parti per essere efficaci. Il contratto di società è un tipo di contratto
plurilaterale a struttura aperta con comunione di scopo. È un negozio che mira a realizzare un unico
interesse comune tra le parti: le prestazioni cui le parti s’impegnano convergono, in vista del soddisfacimento
di tale interesse (nelle società, ciascun partecipante non cede il bene promesso allo scopo di appropriarsi di
quelli apportati dagli altri, bensì per farli confluire tutti nel patrimonio strumentale all’esercizio dell’attività
produttiva). Il numero delle parti non è essenziale, l’atto produce effetti anche se unilaterale ed eventuali
eventi che, nel corso del rapporto, modificano il numero dei traenti (es. il recesso di un socio), sono irrilevanti
ai fini del perseguimento dello scopo. In particolare, il contratto di società è un contratto plurilaterale a
rilevanza esterna, ossia un contratto associativo. L’esecuzione delle prestazioni (nelle società: i
conferimenti) non soddisfa direttamente l’interesse delle parti, ma è il presupposto per poter esplicare
l’attività, ossia compiere atti materiali e giuridici, anche nei confronti dei terzi, funzionali alla realizzazione
dell’obiettivo finale del rapporto. Il contratto non attribuisce solo le prestazioni tra i contraenti, ma disciplina
anche l’organizzazione creata. Sul piano della disciplina il contratto di società è parzialmente autonomo: è
certamente un contratto in senso proprio, quindi gli è applicabile il relativo corpus normativo, ma la disciplina
generale dei contratti è concepita con quasi esclusivo riferimento ai contratti bilaterali di scambio. La vita e
l’attività della società, pur originate da un atto di autonomia privata, se ne distaccano, acquisiscono
un’autonomia di trattamento giuridico (es. le società di capitali, una volta iscritte, vengono ad esistenza,
operano efficacemente a prescindere dalla validità dell’atto costitutivo e funzionano sulla base di regole che
privilegiano la stabilità delle operazioni economiche rispetto alle esigenze di rimozione degli atti viziati, su
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cui si fonda invece la disciplina generale dei contratti): la disciplina delle società regola la struttura
organizzativa ed i modi di esercizio dell’attività. I principi di diritto comune dei rapporti obbligatori non
operano automaticamente, l’attività dell’organizzazione non può essere ridotta a mero momento attuativo
di un rapporto obbligatorio; inoltre la disciplina speciale è spesso informata a principi autonomi e diversi.
Come il contratto, l’atto unilaterale regola l’organizzazione deputata allo svolgimento dell’attività. Dà vita al
rapporto di partecipazione, ossia al fascio di diritti ed obblighi che fanno capo al socio, nei confronti della
società. Strutturalmente e funzionalmente atto unilaterale e contratto s’identificano, anche l’atto unilaterale
è potenzialmente aperto all’ingresso di nuovi soci (l’unico fondatore cede parte della sua quota o altri
investitori aderiscono apportando nuovi conferimenti alla società), generando così un rapporto tra soci che
prima non esisteva, ma che non contraddice la fonte unilaterale dell’ente. L’atto unilaterale continua ad
esplicare il proprio valore, per tutta la durata della società, come atto fondativo e come legge fondamentale
della società.

L’ESERCIZIO DELL’ATTIVITÀ PRODUTTIVA: ATTIVITÀ SOCIALE E ATTIVITÀ D’IMPRESA. LE SOCIETÀ PER


L’ESERCIZIO DELLE PROFESSIONI INTELLETTUALI La società è un organismo cui si dà vita per esercitare un’attività
economica (ART. 2247 CC), ossia un’attività in grado di generare nuovi valori economici attraverso la
produzione di beni/servizi o l’intermediazione nella loro circolazione. La società esercita l’attività economica
all’interno di un determinato settore, indicato nell’atto costitutivo quale oggetto sociale. L’attività
economica esercitata dalla società deve essere produttiva. L’attività è organizzata, i beni/servizi conferiti
dai soci, o acquisiti per mezzo di essi, sono coordinati tra loro. Le società che esercitano un’attività non
professionale sono definite “società occasionali”, società senza impresa (sono marginali). L’impresa e la
società si discostano soprattutto per l’oggetto dell’attività: l’attività sociale è caratterizzata da un’essenziale
produttività, con essa si devono creare nuovi valori economici.

Si può, tuttavia, costituire una società, e quindi una struttura organizzata, anche per svolgere una
professione intellettuale. Nell’ordinamento esistono vincoli sia pubblicistici sia privatistici. I vincoli
pubblicistici limitano la libertà individuale e costituzionale d’iniziativa economica e di esercizio dell’arte e
della scienza: molte professioni intellettuali richiedono il conseguimento di un titolo abilitativo e l’iscrizione
in un apposito albo, senza i quali l’esercizio della professione è illecito e nullo è qualsiasi contratto stipulato
dal soggetto non abilitato. I vincoli privatistici, invece, incidono sul contenuto del contratto avente ad
oggetto l’opera professionale: la prestazione deve essere eseguita personalmente dal professionista, il quale,
al più, può avvalersi di sostituti o ausiliari sotto la propria direzione, considerando il carattere fiduciario che
connota il rapporto. Il legislatore ha introdotto nell’ordinamento la società tra avvocati e le società di
revisione legale. Oggi è possibile esercitare in forma societaria qualsiasi professione, se pur a determinate
condizioni. Il legislatore regola le sole professioni protette, per le quali è necessaria l’abilitazione (avvocato,
notaio, architetto, ingegnere, etc.).
L’esercizio delle professioni non protette, invece, è libero. Qualsiasi società può erogare servizi non
protetti, senza dover rispettare i requisiti fissati dalla legge, svolgendo la propria attività d’erogazione sotto
forma di attività d’impresa, quindi assoggettandosi integralmente allo statuto giuridico delle imprese
(comprese le procedure concorsuali). Si tratta di società imprenditrici. Chi, anche individualmente, eroga
servizi relativi a tali attività può anche ricorrere al contratto d’appalto. Anche l’appalto può avere ad oggetto
il compimento di un servizio a favore del committente. Nel contratto d’opera e nel contratto d’appalto la
natura della prestazione può essere anche identica; ciò che distingue i due contratti sono le modalità con cui
viene eseguita la prestazione: nel contratto d’opera l’esecuzione avviene prevalentemente con il lavoro
proprio del prestatore, mentre nel contratto d’appalto l’esecuzione avviene ricorrendo ad un apparato
organizzativo di fattori produttivi non incentrato sul lavoro del suo titolare e di natura imprenditoriale.
Quando il servizio reso, pur intellettuale, richiede oggettivamente l’utilizzo di un simile apparato (o quando
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il committente si è pattiziamente affidato ad un soggetto che se ne avvale), il contratto sarà d’appalto e non
vi saranno problemi di esecuzione personale e diretta della prestazione da parte del contraente. Chi offre
questo tipo di servizi intellettuali non riservati può scegliere di operare in qualità di professionista non
imprenditori, se fonda l'offerta soprattutto sul proprio lavoro, o di imprenditore, se deve organizzare una
struttura aziendale apposita (e se è una società, opererà secondo quest’ultimo schema).
Le società che invece esercitano una professione protetta devono essere composte (anche se non
esclusivamente) da soci abilitati e la prestazione deve essere eseguita da uno dei soci iscritti all’albo, scelto
dal cliente o a lui preventivamente indicato. Sono inammissibili le società tra capitalisti, ossia costituite solo
tra soci non abilitati, per offrire prestazioni riservate ricorrendo al lavoro organizzato di terzi professionisti.
L’espressione “società tra professionisti”, che indica l’esercizio in comune dell’attività intellettuale da parte
dei soci abilitati, deve essere contenuta nel nome della società. Tuttavia è possibile che compartecipino soci
non abilitati e quindi che si abbia una società mista tra professionisti e capitalisti. Il numero dei soci
professionisti e la partecipazione al capitale sociale dei professionisti deve essere tale da determinare la
maggioranza di due terzi nelle deliberazioni o decisioni dei soci. Il controllo della società deve far capo a
soggetti abilitati; il superamento della soglia di partecipazione consentita ai capitalisti determina lo
scioglimento della società, a meno che l’equilibrio non sia ristabilito entro 6 mesi. La prestazione
professionale è dovuta dalla società, parte formale e sostanziale del rapporto d’opera, e non dal socio, il
quale è tenuto all’esecuzione solo nei confronti della prima. Egli gode, nello svolgimento dell’incarico, di
piena autonomia di giudizio, non essendo soggetto ad alcun potere di direzione da parte degli amministratori.
Il socio esecutore assume nei confronti del cliente una responsabilità diretta per i danni arrecati
nell’esecuzione della prestazione, solidalmente con la società.

ATTIVITÀ PRODUTTIVA E GODIMENTO DI BENI: SOCIETÀ E COMUNIONE IN GENERALE In quanto produttiva, l’attività
sociale crea nuova ricchezza. Sono inammissibili le società finalizzate al mero godimento di beni: nessuna
società può essere costituita al solo scopo di fruire delle utilità generate da uno o più beni. L’esercizio di
un’attività economica, in quanto avviene mediante l’impiego di beni, implica il loro sfruttamento, quindi ogni
società gode degli elementi che compongono il suo patrimonio (utilizza gli impianti, occupa l’immobile, etc.),
ma tale godimento deve sempre risultare funzionale all’esercizio di un’attività produttiva. La comunione
costituita o mantenuta al solo scopo del godimento di una o più cose è regolata dalle norme sulla comunione
ordinaria, il che significa che se più persone mettono in comune uno o più beni con l’unico obiettivo di trarne
i relativi frutti (es. acquistano congiuntamente un immobile per concederlo in locazione a terzi e dividersi i
canoni riscossi), il solo effetto che si produce è la costituzione tra di esse di una normale situazione di
comproprietà per quote (ART. 2248 CC). Se invece una società, originariamente costituita per lo svolgimento
di una normale attività economica, ne cessa poi di fatto l’esercizio e si limita a godere del patrimonio (es.
concede in affitto la propria azienda) o a lasciare che ne godano i soci, la società resta in vita. La separazione
tra società e mero godimento di beni è dovuta alla diversa funzione assolta da tali beni, diversità che giustifica
un trattamento giuridico diverso.
Ciò è evidente confrontando l’istituto della comunione con l’istituto della società. La comproprietà è
una situazione giuridica statica, in cui rileva solo l’appartenenza comune del bene; si applica il diritto dei beni,
la disciplina della res e dei poteri su essa; ogni contitolare ha diritto di fare uso individualmente della cosa,
sia pure nel rispetto del coesistente diritto degli altri, e può chiedere in ogni momento la divisione. La società,
invece, è una situazione giuridica dinamica, in cui il conferimento dei beni in comune è strumentale
all’esercizio di un’attività, la disciplina appartiene al diritto dell’impresa, ha ad oggetto l’attività e le modalità
del suo svolgimento; nessun socio può usare i beni sociali per i propri scopi personali, poiché essi sono
destinati e vincolati all’esercizio dell’iniziativa economica. Lo scioglimento dell’ente si ha solo quando
l’attività è stata realizzata o ne sia impossibile l’attuazione, o quando i soci decidano all’unanimità (o nelle
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società di capitali a maggioranza) di sciogliere la società. Nella società tutto ruota attorno all’attività, che va
salvaguardata. Il patrimonio sociale è autonomo rispetto ai patrimoni dei soci. I creditori particolari dei soci
non possono mai aggredire direttamente i beni sociali: i soci o non rispondono affatto con i propri beni delle
obbligazioni sociali (nelle SPA e nelle SRL) oppure ne rispondono solo in via sussidiaria. I beni in comproprietà,
invece, non sono autonomi: i terzi che hanno acquistato crediti per effetto di atti relativi alla gestione del
bene comune sono normali creditori dei singoli comunisti, possono aggredire questo bene come quelli
personali dei comproprietari e concorrono sugli uni e sull’altro con i creditori personali, i quali possono
espropriare indifferentemente il patrimonio individuale del loro debitore, così come la cosa comune, per la
quota di sua pertinenza.
Quindi, più persone, mettendo in comune una o più cose per una mera finalità di fruizione, non
possono assoggettarle al regime della società, rimanendo sempre applicabile quello della comunione. Un
individuo non può assoggettare una o più cose proprie al primo, costituendo una società unipersonale con
questo solo scopo: il regime applicabile resta per costui solo quello della proprietà di diritto comune, la res
continua ad essere confusa nel restante suo patrimonio e non può mai acquisire alcuna autonomia.
Non sempre è facile distinguere un’attività di godimento da una produttiva (es. tra le attività
ricettive e di noleggio, è godimento la locazione di uno o due immobili, o di un furgone, per la riscossione dei
relativi canoni, ma non è tale l’attività di auto-noleggio, o di gestione di una struttura residenziale turistica).
La differenza non è solo quantitativa: il proprietario dell’immobile e del furgone si limita a trarre i frutti civili
di un’utilità economica che preesiste alla sua attività (il bene è suscettibile di godimento, a prescindere
dall’azione del proprietario), mentre il coordinamento e l’offerta al mercato di un servizio complesso di
noleggio o di ospitalità creano un valore economico altrimenti inesistente. Di difficile qualificazione è anche
l’attività di gestione di partecipazioni: la semplice detenzione di quote sociali costituisce godimento di tali
quote, ma la direzione unitaria e il coordinamento delle società di un gruppo, attraverso l’esercizio dei poteri
di controllo, genera un valore che arricchisce le singole realtà societarie, integrandole, pertanto rappresenta
un’attività produttiva. Sono legittime le holdings pure, ossia le società costituite per l’acquisizione e la
gestione di partecipazioni in altre società e destinate ad assumere il ruolo di vertice di un gruppo di imprese.

L’ESERCIZIO IN COMUNE DELL’ATTIVITÀ: FORME DI PARTECIPAZIONE DEI SOCI ALL’ATTIVITÀ SOCIALE:


GESTIONE COMUNE, RISCHIO COMUNE, REGIME D’IMPUTAZIONE DELL’ATTIVITÀ Il fatto di esercitare l’attività in
comune distingue la società da altre figure affini. L’attività è comune quando sono condivisi il potere di
decisione e l’interesse economico (il rischio d’impresa). Se si vuole esercitare un’attività in comune occorre
necessariamente costituire una società: anche coloro che esercitano solo in via di fatto un’attività economica
comune, senza avere espresso alcuna volontà contrattuale, s’intendono avere stipulato per fatti concludenti
un contratto di società. Ma una società può anche non condividere il potere. La posizione assunta dai singoli
partecipanti può variare, può non esserci una gestione comune. Nelle società semplici e in nome collettivo il
contratto può sottrarre ad alcuni soci ogni potere d’amministrazione; nelle SAS i soci accomandanti sono
esclusi dalla gestione; nelle SPA l’atto costitutivo può creare categorie di azioni prive del diritto di voto.
La condivisione del rischio, ossia la compartecipazione ai risultati positivi o negativi, prodotto
dall’attività è sempre presente. Ma un interesse di più soggetti nella stessa iniziativa produttiva può profilarsi
anche in rapporti giuridici non societari (nell’associazione in partecipazione ex ART. 2549 CC l’associato
apporta beni nell’impresa dell’associante, in cambio di una compartecipazione agli utili). In tali casi l’attività
resta propria ed esclusiva di una sola delle parti, salvo l’obbligo di corrispondere una data somma all’altra
parte, obbligo che rappresenta, per la prima parte, un costo dell’attività, ma a differenza degli altri costi, non
è predeterminato, ma commisurato ai risultati ottenuti; l’apporto del terzo non contribuisce a formare un
patrimonio comune, ma è assegnato alla controparte (entra nel suo patrimonio), perché questa se ne serva.

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Nelle società i risultati sono giuridicamente imputati al gruppo come soggetto autonomo. Gli apporti
formano un patrimonio giuridicamente attribuito alla società. Ciò che differenzia la società dalle altre figure
(in cui pure l’interesse in un’attività produttiva è comune a più soggetti) e rende comune l’attività, sono le
regole della sua imputazione: la scelta della veste societaria è scelta di un regime d’imputazione collettivo.
Questo criterio mostra anche l’identità che la volontà costitutiva mantiene, dal punto di vista degli elementi
essenziali, indipendentemente dal numero dei fondatori: anche nell’atto costitutivo di società unilaterale
(dove non c’è condivisione né di poteri né di rischio) è presente la volontà del socio d’imputare
giuridicamente l’attività alla struttura a cui egli dà vita.
L’impresa familiare è l’impresa anche medio-grande in cui collaborano il coniuge, i parenti entro il III
grado, gli affini entro il II”. I familiari possono manifestare espressamente, o per fatti concludenti, la volontà
di costituire un rapporto di lavoro o di società (es. gli eredi continuano l’impresa del defunto condividendo
decisioni e rischio). I familiari si limitano a prestare di fato in modo continuativo la loro attività di lavoro
nell’impresa o nella famiglia, coadiuvando l’imprenditore a causa del vincolo parentale. È giuridicamente
imputabile al solo familiare che la esercita (la responsabilità per le obbligazioni assunte grava solo su di lui e
solo lui è esposto, in caso d’insolvenza, al rischio di fallimento). Non c’è una volontà negoziale che regola un
rapporto tra le parti; la legge, per ragioni di equità e solidarietà, riconosce ai collaboratori alcuni diritti
patrimoniali e di co-decisione, che altrimenti non spetterebbero loro. Diritti che, non avendo l’impresa
carattere collettivo, hanno rilevanza meramente interna, costituendo solo obblighi a carico dell’imprenditore
nei confronti dei suoi congiunti.
L’impresa coniugale (ART. 177, LETT. D CC) è soggetta al regime/disciplina di comunione legale.
L’azienda costituita (o acquistata) dopo il matrimonio e gestita da entrambi i coniugi. L’attività e i rapporti
che ne scaturiscono sono attratti nel diritto di famiglia. L’autonomia patrimoniale della comunione è
modesta: i creditori personali di ciascun coniuge possono aggredire i beni comuni, fino al valore
corrispondente alla quota del loro debitore, mentre dei debiti contratti nell’interesse della comunione
risponde in via sussidiaria anche il patrimonio personale dei coniugi, nella misura della metà del credito. La
gestione spetta ai coniugi disgiuntamente per gli atti di ordinaria amministrazione e congiuntamente per
quelli di amministrazione straordinaria, con la possibilità di ricorrere al giudice in caso di rifiuto del consenso.
Il fenomeno non è attratto nel diritto societario. Questo spirito di solidarietà familiare giustifica l’applicazione
della disciplina della comunione legale (anche quando l’impresa coniugale assume dimensioni superiori ai
bisogni della famiglia). Gli sposi possono costituire una società, ma devono manifestare chiaramente la
volontà di superare quello spirito per perseguire finalità speculative: il contratto sociale deve essere concluso
espressamente.

IMPUTAZIONE DELL’ATTIVITÀ E SPENDITA DEL NOME SOCIALE. LA SOCIETÀ NON MANIFESTA L’iniziativa economica
è svolta in nome della società. Gli amministratori o gli ausiliari compiono gli atti rappresentando la società e
facendo ricadere nella sua sfera gli effetti giuridici che ne conseguono. È sempre la società ad essere iscritta
nel registro delle imprese. La spendita del nome sociale comporta l’imputazione giuridica dell’attività alla
società. È necessario esternare il nome della società o può esserci anche una società non manifesta? Si
dovrebbe parlare di società non manifesta (o società interna, o occulta) quando il contratto prevedesse che
l’esercizio dell’attività debba avvenire in nome di un solo socio, il quale apparirebbe all’esterno come
imprenditore individuale: i partecipanti attribuirebbero a costui la disponibilità dei beni strumentali
all’attività, somministrandogli periodicamente i mezzi finanziari necessari (conferimenti), suddividendo utili
e perdite (scopo di lucro, rischio comune) ed impegnandosi a concordare, secondo le regole fissate
convenzionalmente, ogni decisione (potere comune), mentre l’attività resterebbe giuridicamente imputabile
al solo socio agente, che si obbligherebbe a svolgerla in nome proprio. Gli obiettivi perseguiti (non lodevoli)
sarebbero: mantenere il riserbo sulla partecipazione all’iniziativa di un soggetto cui sarebbe precluso
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prendervi parte (es. perché vincolato verso un terzo da un patto di non concorrenza), ma soprattutto
sottrarre i patrimoni personali dei soci alla responsabilità per le obbligazioni sociali, facendola gravare sul
solo prestanome che, di regole, ha modeste risorse patrimoniali. Il patto di occultamento sarebbe tuttavia
invalido. L’ordinamento ammette la compartecipazione al rischio di un’iniziativa giuridicamente imputabile
ad un terzo solo se non viene condiviso il potere decisionale; se l’attività è soggetta ad un potere gestorio
collettivo, deve essere imputata al gruppo. Un patto di questo tipo darebbe vita ad una società atipica (la
spendita del nome è elemento costante di tutti i tipi di società disciplinati), la quale è vietata, poiché l’ART.
2249 CC non consente di creare società non riconducibili ad uno dei tipi previsti.
Il gruppo potrebbe, ciò nonostante, operare rimanendo occulto. Eventuali controversie, in questo
caso, potrebbero nascere perché i terzi creditori, disvelata la realtà, cercheranno di aggredire i patrimoni di
tutti costoro. Il prestatore agisce per conto del gruppo, quale mandatario senza rappresentanza. La
responsabilità verso i terzi dovrebbe dunque gravare esclusivamente su di lui. La legge fallimentare oggi
stabilisce che qualora dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l’impresa
è riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile, il tribunale dichiara il fallimento
di questa e degli altri soci illimitatamente responsabili.

ORGANIZZAZIONE INTERNA: UNANIMITÀ E MAGGIORANZA, GESTIONE E CONTROLLO I soci possono compartecipare


all’esercizio dell’attività in gradi diversi. I soci possono avere il potere d’amministrazione, con cui decidono
sulla gestione dell’attività (nelle società di persone, di regola, tutti i soci sono amministratori, fatta eccezione
per l’accomandante nelle SAS). Nelle società di capitale, invece, (fatta eccezione per le SAPA, in cui gli
accomandatari sono di diritto amministratori), i soci hanno il potere di voto in assemblea con cui nominano
i soggetti preposti all’amministrazione della società. L’atto costitutivo può escludere alcuni soci dalla
compartecipazione o limitarne l’estensione: nelle società di persone, sottraendo loro il potere
d’amministrazione o limitandolo alla sola amministrazione straordinaria; nelle società di capitali, sottraendo
loro il diritto di voto e il diritto di nomina degli amministratori. La possibilità di contribuire alla gestione sociale
può anche essere azzerata.
Se compartecipano più soggetti all’assunzione di una decisione, possono esserci orientamenti
contrastanti. In alcune società c’è la regola dell’unanimità: nessun atto può essere compiuto se non vi è il
consenso di tutti. Nelle società di persone l’unanimità è il principio normale per le modifiche del contratto
sociale e per gli atti di gestione straordinaria può optarsi per il regime d’amministrazione congiuntiva
all’unanimità. Il principio dell’unanimità implica una perfetta armonia tra i soci, ma ciascuno di essi può
respingere qualunque scelta non condivisa: massimo grado di esercizio collettivo dell’attività. Nelle società
di capitali, invece, vige la regola maggioritaria: la maggioranza assembleare (calcolata in base alla
dimensione delle partecipazioni) prevale sulla minoranza, anche nelle decisioni di modifica dell’atto
costitutivo (regola inderogabile nelle SPA). Il principio maggioritario consente di superare gli ostacoli dovuti
al fatto che he il potere di veto anche il socio con la partecipazione più modesta, ma rimette la minoranza
alla mercé dei soci più forti. Il rapporto tra i partecipanti si sviluppa innescando una dialettica tra
maggioranza e minoranza (tra chi amministra e chi è escluso dall’amministrazione). Tale dialettica può essere
virtuosa se la maggioranza è capace di esprimere efficientemente l’interesse di tutti alla massimizzazione del
profitto (o quando essa consente, con il formarsi di volta in volta di maggioranza variabili raccoltesi attorno
alla proposta migliore, di comporre i diversi orientamenti e di adottare strategie ottimali), ma essa potrebbe
anche generare tensione e pregiudizio per la minoranza, se una maggioranza stabile e consolidata piega il
proprio potere al soddisfacimento di interessi egoistici e lesivi di quelli degli altri soci. La legge innesta molte
prerogative difensive accordate alla minoranza o a chi è escluso dall’amministrazione, proprio quale
contrappeso del ruolo riconosciuto alla maggioranza: poteri di vigilanza (diritto d’informazione, di
consultazione della documentazione sociale), poteri di attivare rimedi giudiziali di fronte ad atti di mala
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gestio, diritto di recedere dalla società in presenza di una giusta causa o quando la maggioranza assume
decisioni che modificano gli elementi fondamentali della struttura societaria. Il principio di correttezza e
buona fede, limite costante ed insuperabile all’arbitrio del socio nell’esercizio dei suoi diritti: egli non può
esercitare i propri diritti al fine di perseguire interessi non meritevoli di tutela o per arrecare danno agli altri
partecipanti, esponendosi altrimenti al rischio che la sua azione venga neutralizzata (es. è annullabile la
delibera che la maggioranza assembleare adotta abusando del proprio potere) e che gli altri partecipanti
attivino nei suoi confronti rimedi risarcitori chiamandolo a rispondere dei danni provocati.

4 LA DOTAZIONE PATRIMONIALE: I CONFERIMENTI: IL LORO OGGETTO, LA LORO ESSENZIALITÀ La società


esercita l’attività per mezzo delle utilità economiche (beni o servizi) apportate dai soci, ossia dei conferimenti.
Essi formano il complesso delle risorse iniziali, che i fondatori destinano in via definitiva all’iniziativa
economica progettata e attraverso cui questa può trovare realizzazione. Ogni entità utile e suscettibile di
valutazione economica può essere oggetto di conferimento (denaro, proprietà di cose mobili o immobili, i
crediti, le quote di partecipazione in altre società, un obbligo di non fare, etc.). Le società di capitali hanno
vincoli più stringenti dovuti alla necessità di tutelare l’integrità del capitale sociale. L’atto costitutivo della
società contiene l’assunzione, da parte dei soci, dell’obbligo di effettuare i conferimenti (l’impegno a prestare
la propria attività manuale o intellettuale, a versare il denaro promesso, etc.) o trasferisce direttamente alla
società la titolarità del bene conferito in proprietà. I conferimenti dei vari soci possono essere di diverso tipo
e diverso ammontare. Essi giustificano la partecipazione degli stipulanti alla costituzione della società (il
conferimento giustifica l’assegnazione, a ciascun socio, della quota di partecipazione nella società) e
rappresentano lo strumento per l’esercizio dell’attività.
I conferimenti sono elemento essenziale dell’atto costitutivo di società. Non esiste società se non
c’è una dotazione iniziale di risorse per l’esercizio dell’attività. Ciascun fondatore deve conferire qualcosa. La
partecipazione all’iniziativa economica presuppone necessariamente l’assunzione del relativo rischio per il
perseguimento di uno scopo egoistico; senza l’una o senza l’altro non si può essere soci, verrebbe meno la
funzione della partecipazione. È vietato il patto leonino (ART. 2265 CC), è nullo ogni accordo che esclude un
socio da qualsiasi partecipazione agli utili o alle perdite. Il conferimento rappresenta il valore del rischio che
ciascun socio accetta di assumere: se l’attività sociale si chiuderà in perdita, il valore di ciò che verrà
rimborsato a ciascun socio con la liquidazione risulterà inferiore rispetto al valore del suo conferimento. Tale
rischio è esclusivo nelle società che non prevedono la responsabilità illimitata del socio per le obbligazioni
sociali, mentre è esteso all’intero patrimonio personale nelle altre società.
Le risorse patrimoniali iniziali non devono per legge avere un determinato valore. La legge fissa dei
minimi solo nelle società di capitali (10.000 € nelle SRL a capitale ordinario, 50.000 € in SPA e SAPA). A
prescindere dalla dimensione dei conferimenti, il contratto è valido e i soci non sono obbligati ad integrare i
loro conferimenti oltre quanto pattuito. La società può anche ricorrere al credito bancario per reperire
risorse.
È possibile costituire una SRL con un capitale (quindi con conferimenti) inferiore a 10.000 €, pari
almeno a 1 €, quindi nei fatti una SRL senza conferimenti, quindi senza assunzione iniziale di rischio da parte
dei soci. La SRL fonda la propria attività solo su risorse reperite esternamente (es. prestiti bancari), è un mero
centro di raccolta di risorse finanziarie e d’imputazione dell’attività. Nelle società di persone, per quanto non
vi siano soglie minime di valore dei conferimenti, la responsabilità illimitata dei soci è una componente di
rischio ineliminabile, mentre nelle società di capitali analoga funzione svolgono i minimi legali (10.000 e
50.000 €). Questi minimi non impediscono che, con un rischio modesto, si avvii un’attività finanziariamente
più impegnativa, raccogliendo all’esterno i capitali necessari, ma le SRL a capitale marginale azzerano una
componente fondamentale della società. I modelli delle società di capitali si distaccano sempre più dagli
schemi tradizionali.
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VINCOLO DI DESTINAZIONE DEI BENI CONFERITI E VINCOLO D’INDISPONIBILITÀ DEL CAPITALE I beni conferiti sono
destinati in via definitiva dai soci all’attività sociale. L’atto costitutivo imprime su di essi un vincolo di
destinazione, in forza del quale essi non possono essere sottratti all’iniziativa economica per tutta la durata
della società. Il socio conferente non può mai chiedere la restituzione del bene. Anche quando può recedere
dalla società, non ha diritto al ri-trasferimento del bene a suo tempo conferito in proprietà, ma solo ad una
somma di denaro (quota di liquidazione), corrispondente al valore attuale della sua partecipazione; neppure
ha diritto all’immediata riconsegna del bene conferito in godimento, il quale rimane alla società per tutto il
periodo per il quale era stato originariamente concesso. Il socio non è libero di chiedere in qualsiasi
momento detta liquidazione, può recuperare il valore dell’investimento effettuato nei casi in cui gli è
consentito il recesso. Egli vincola, con il conferimento, lo specifico bene e il suo valore. Durante la vita della
società può essere distribuito tra i soci solo l’utile, ossia il maggior valore acquisito dal patrimonio netto
rispetto ai conferimenti. Il vincolo di destinazione si estende a tutti i beni che, in un dato momento, formano
il patrimonio della società. I soci non possono individualmente servirsi dei beni per fini estranei a quelli
della società. I beni sono destinati alla garanzia dei creditori sociali, prioritariamente rispetto ai creditori
individuali dei soci, o in via esclusiva (espressione di autonomia patrimoniale). I singoli beni conferiti, però,
non devono necessariamente restare nel patrimonio della società per tutta la sua durata, la società può
disporne (le materie prime potranno essere lavorate e vendute, le cose conferite in proprietà potranno
essere liberamente cedute a terzi, il denaro verrà speso per remunerare i collaboratori o per acquistare altri
beni).

Il capitale sociale è soggetto al vincolo d’indisponibilità. Il capitale sociale (o capitale nominale) è


una posta contabile, che rappresenta il valore dei conferimenti e che viene indicata nell’atto costitutivo. Il
patrimonio della società, invece, è l’insieme concreto dell’attivo (crediti) e del passivo (debiti) che in un dato
momento appartengono all’ente. La composizione del patrimonio varia continuamente (es. muta quando la
società vende un prodotto, perché quest’ultimo esce dal suo patrimonio e vi entra il denaro o il credito al
prezzo). Il capitale sociale, invece, è un valore astratto, una posta ideale e numerica: non identifica specifici
beni, esso rappresenta il valore delle risorse che all’inizio i soci decidono di destinare irreversibilmente
all’attività, è immutabile, può essere variata solo modificando l’atto costitutivo della società, quindi il suo
programma fondante (es. quando la società raccoglie ulteriori conferimenti da nuovi soci – aumento del
capitale). I soci possono prelevare dal patrimonio della società, per distribuirsele, solo le somme che
eccedano il valore del capitale. Solo se il patrimonio netto (differenza tra valori dell’attivo e del passivo) è
superiore al capitale, l’attività sociale ha prodotto un utile e questo può essere distribuito; se il valore del
patrimonio netto coincide con il capitale, o ne è inferiore, i risultati dell’attività sono nulli o negativi, e l’attivo
residuo non può essere distribuito tra i soci a causa del vincolo d’indisponibilità (se non sciogliendo l’ente, o
riducendo il capitale). La riduzione del capitale sociale è una formale modifica del programma originario,
dell’atto fondativo della società, adottata per calibrare più efficientemente le risorse destinate all’attività a
quelle richieste per le dimensioni dell’attività, ma che, incidendo sul vincolo d’indisponibilità, è corredata da
cautele a tutela del mercato (es. i creditori sociali possono opporsi).
Il vincolo non riguarda specifici beni, ma un valore. Di tutti gli elementi che compongono il suo
patrimonio la società è libera di disporre, anche nel contesto di un rapporto negoziale costituito con uno dei
soci. La società, però, può assegnare a ciascun socio, in base al rapporto sociale, solo il valore dell’eccedenza
tra patrimonio netto e capitale. I soci non possono ridurre il valore dell’investimento, e quindi del rischio,
inizialmente accettato.

LO SCOPO EGOISTICO DELL’ATTIVITÀ: SCOPO DI LUCRO, SCOPO MUTUALISTICO E CONSORTILE. LA CAUSA


COME CRITERIO DISTINTIVO TRA I FENOMENI ASSOCIATIVI Lo scopo negoziale, ossia la causa, dell’atto costitutivo:
i soci esercitano l’attività per realizzare un guadagno (lucro oggettivo) – un profitto, una differenza positiva
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tra ricavi e costi – da attribuirsi (lucro soggettivo), partecipando alla sua distribuzione secondo la proporzione
che essi hanno convenuto. L’eventuale guadagno, ossia l’incremento di valore del patrimonio netto rispetto
al capitale, si definisce utile. Essendo indisponibile il capitale, l’utile è la sola porzione ideale del patrimonio
che può essere distribuita tra i soci durante la vita della società. Agli enti lucrativi si affiancano le cooperative
(e la sottospecie delle mutue assicuratrici), che perseguono uno scopo mutualistico. L’obiettivo di questi enti
è far avere ai soci direttamente beni, servizi o occasioni di lavoro, a condizioni più favorevoli rispetto al
mercato. La società cooperativa esercita l’attività rinunciando al profitto d’impresa, tendendo
esclusivamente al pareggio tra costi e ricavi, al fine di poter erogare ai soci che intendano avvalersene beni o
servizi a prezzi di costo (nelle cooperative di consumo) o un salario maggiore (in quelle di produzione e
lavoro). Nelle società lucrative il socio trae il proprio profitto per il solo fatto di essere socio, con la
distribuzione dell’utile, mentre nelle società mutualistiche ricava il suo beneficio (un risparmio di spesa, uno
stipendio più elevato) solo se acquista i prodotti o i servizi della società o lavori per essa.
Si può costituire ogni tipo di società di persone o di capitali (tranne la società semplice) per uno scopo
consortile, mutualistico, a beneficio delle imprese dei soci. In tutti i casi la società persegue uno scopo
egoistico. Per distinguere tra loro i negozi associativi (negozi costitutivi di una struttura organizzata) bisogna
guardare la causa, la funzione cui assolve l’attività progettata dai fondatori. Sono negozi associativi anche gli
atti costitutivi di associazioni e fondazioni (enti non societari), le quali possono svolgere un’attività economica
d’impresa, anche di natura e dimensioni analoghe a quelle di una società (es. associazioni di beneficienza che
raccolgono fondi attraverso la gestione di negozi). L’attività è svolta stabilmente e con metodo economico,
ma persegue uno scopo di lucro solo oggettivo. I proventi realizzati attraverso l’attività sono devoluti in
beneficienza, destinati ad opere assistenziali, sono impiegati nel perseguimento di uno scopo ideale e
altruistico (manca il lucro soggettivo). Se non vi è svolgimento di attività produttiva (es. associazioni religiose
di preghiera) non si può avere società. Se vi è attività produttiva, la distinzione tra società e non dipende
dall’etero-destinazione o dall’auto-destinazione dei benefici dell’attività svolta. Il negozio societario deve
avere causa egoistica.

LE ECCEZIONI NORMATIVE: LE SOCIETÀ SENZA SCOPO EGOISTICO, IN PARTICOLARE L’IMPRESA SOCIALE Negli ultimi
decenni alcune leggi speciali hanno introdotto figure societarie senza scopi egoistici. Rileva a proposito
l’impresa sociale, qualifica che associazioni, fondazioni, società possono acquisire (es. per godere di
agevolazioni fiscali), quando esercitano un’attività economica d’interesse generale e rispettano determinate
condizioni, tra cui non perseguono uno scopo di lucro. Per le imprese sociali che rivestono la forma societarie:
è consentito distribuire una quota minoritaria degli utili maturati, entro limiti di rendimento predeterminati.
La società può quindi scegliere tra assenza oppure mero contenimento dello scopo di lucro. La possibilità di
perseguire finalità ideali o altruistiche oggi, con l’impresa sociale, è estesa a tutto lo spettro delle iniziative
produttive. La dottrina maggioritaria ritiene che, di fronte all’ART. 2247 CC, tutte le disposizioni di settore
siano eccezionali, specie per le ragioni non generali che ne sono a fondamento. Da tali disposizioni non è
possibile, per analogia, formulare alcun principio generale. La tesi è corretta, ma con l’impresa sociale lo
scenario è cambiato, perché in ogni ambito economico ci può essere una società senza scopo di lucro, a
condizione che essa arruoli tra il personale, in una certa percentuale, lavoratori appartenenti alle categorie
disagiate e si assoggetti a certe regole coerenti con le finalità ideali che intende perseguire. Il nome dell’ente
deve contenere l’espressione “impresa sociale”, ed è una scelta definitiva (non è possibile riconvertire la
società in una con scopi lucrativi). L’autorità governativa ha il potere, se i requisiti per il riconoscimento della
qualità d’impresa sociale vengono meno, di sciogliere l’ente, devolvendone il patrimonio (dedotto il capitale)
a fondi per la promozione delle imprese sociali. La società “impresa sociale” è una società voluta per essere
assoggettata ad un regime particolare, caratterizzato dall’assenza delle finalità egoistiche. L’atto costitutivo

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di una società non può contenere clausole incompatibili con lo scopo lucrativo o economico/egoistico, a
meno che non si opti (già nel nome della società) per l’impresa sociale.

I TIPI DI SOCIETÀ. AUTONOMIA PATRIMONIALE, PERSONALITÀ GIURIDICA,


SOGGETTIVITÀ
IL TIPO DI SOCIETÀ: NOZIONE L’ordinamento disciplina più modelli organizzativi societari: le sei società
lucrative (società semplice, SNC, SAS; SPA, SRL, SAPA) e le società cooperative (con le mutue assicuratrici).
Ciascun modello (cui vanno aggiunte la società europea e la società cooperativa europea) rappresenta un
tipo di società e si distingue dagli altri per:
1 le regole dell’organizzazione interna. L’organizzazione è più agile nelle società di persone, pensate
per iniziative modeste, con pochi soci, partecipi personalmente ed attivamente alla gestione dell’attività.
L’organizzazione è più complessa e circondata da maggiori cautele a tutela dei creditori nelle società di
capitali e cooperative. Nelle società cooperative, l’organizzazione asseconda la finalità solidaristica e non
speculativa dell’ente (la società è aperta all’ingresso di chiunque appartenga alla categoria interessata alle
sue attività e ciascun socio ha lo stesso potere degli altri e non un potere proporzionale all’investimento).
2 l’autonomia patrimoniale. Questa è minore nelle società di persone, in cui i soci amministratori
rispondono personalmente e illimitatamente delle obbligazioni sociali, mentre è maggiore nelle altre, che
sono persone giuridiche distinte dai soci.
Ciascun tipo di società (ART. 2249 CC) è autonomamente disciplinato in via normativa.
Il contratto di società è un tipo contrattuale: il sistema normativo cataloga i contratti per tipi,
differenziati per la diversa funzione (causa) assolta. Nel contratto di società il valore differenziale della causa
si perde quando la legge consente la creazione di società con scopi ideali (dove ciò è permesso, come ad es.
nelle imprese sociali, ciò che contraddistingue il contratto costitutivo di un’associazione da quello costitutivo
di una società non sta più nello scopo, ma nella struttura organizzativa prescelta per raggiungerlo). Quando
si parla di tipi societari s’introduce una suddivisione dipendente dal modello organizzativo. Questa nozione
di “tipo” distingue i diversi modi in cui si sceglie di svolgerla.

LA LIBERTÀ DI SCELTA E I CRITERI D’INDIVIDUAZIONE DEI TIPI. IL PRINCIPIO DI TIPICITÀ E L’AUTONOMIA


PRIVATA. LE SOCIETÀ DI DIRITTO SPECIALE Vige la libertà di scelta: i fondatori possono eleggere liberamente il
tipo che preferiscono. La scelta avviene con la costituzione della società, ma può essere successivamente
mutata dai soci, modificando l’atto costitutivo: l’operazione di cambiamento del tipo prende il nome di
“trasformazione della società”. La libertà di scelta (ART. 2249 CC) incontra però dei limiti, dipendenti dalla
natura dell’attività programmata, cioè dall’oggetto sociale:
1 limite generale: se l’attività è di natura commerciale, non può optarsi per la società semplice (ART.
2249, CO. 1 CC); se l’attività non è di natura commerciale (attività agricola, di professione intellettuale) si può
scegliere tra uno qualunque dei tipi (ART. 2249, CO. 2 CC). La società semplice è utilizzabile solo per attività
non commerciali.
2 limite settoriale: per svolgere attività in determinati settori (ART. 2249, CO. 3 CC), la legge può
richiedere l’adozione di un particolare tipo (es. l’attività bancaria è riservata alle SPA e alle cooperative per
azioni, in forma di SPA devono costituirsi alcune società operanti nei mercati finanziari).
Se le parti non effettuano alcuna scelta, ossia si accordano genericamente per lo svolgimento
comune di un’attività, o di fatto ne intraprendono l’esercizio, senza ulteriori specificazioni, si applicano le
disposizioni sulla società semplice, quando l’attività non è commerciale (ART. 2249, CO. 2 CC). Se l’attività è
commerciale, la società va qualificata come SNC. Ogni altro tipo societario, per le specificità che lo connotano,
presuppone una volontà mirata, diretta a porne in essere gli elementi caratterizzanti (le due categorie di soci,
nella SAS e nella SAPA; l’autonomia patrimoniale perfetta e dunque la limitazione del rischio al conferimento,
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che si acquista con l’iscrizione, nelle società di capitali). Il fatto che, in assenza di una scelta negoziale
alternativa, operi la relativa disciplina significa che SNC e società semplice costituiscono i tipi residuali,
rispettivamente, per le attività commerciali e per le attività non commerciali.
Vige il principio di tipicità delle società (ART. 2249 CC): le società con oggetto commerciale devono
costituirsi secondo uno dei tipi regolati, mentre quelle con oggetto non commerciale sono società semplici,
a meno che le parti non abbiano voluto costituire la società secondo uno degli altri tipi regolati. Le parti non
possono dar vita a modelli organizzativi nuovi e diversi da quelli regolati in via normativa: i tipi societari sono
predeterminati tassativamente. Questo limite all’autonomia negoziale dipende dalla rilevanza esterna degli
enti societari, che devono essere prontamente e facilmente riconoscibili da parte dei terzi. Il principio non
urta contro quello costituzionale di libertà nelle iniziative economiche, perché anche questa deve esplicarsi
nel rispetto dei valori della comunità, tra cui la trasparenza del mercato. Rimane tuttavia un po’ di
autonomia privata: nessun modello legale è rigido, la libertà negoziale può esplicarsi, o perché la legge affida
al negozio il compito di regolarli, o perché la regolamentazione normativa è derogabile. La tendenza recente
è accentuare l’autonomia negoziale. Tradizionalmente l’autonomia negoziale è meno ampia nei modelli
destinati alle iniziative economiche più importanti, per l’intreccio con gli interessi generali del mercato e per
le più spiccate esigenze di protezione dei creditori e degli investitori. Si è però passati ad una concezione più
liberale, pur non rinunciando a porre vincoli, dove gli interessi dei terzi sono più coinvolti, i soci hanno la
libertà di regolare i reciproci rapporti tra loro ed anche i sistemi organizzativi.

I modelli organizzativi regolati nel CC hanno carattere generale: la loro disciplina è applicabile a tutte
le società costituite secondo uno di essi. Alcune normative speciali introducono disposizioni dedicate a
categorie di società o singole società, che derogano o integrano la disciplina generale. Si tratta di società di
diritto speciale: enti che appartengono ad uno dei tipi codicistici e quindi soggetti alle relative norme, ma
che, sotto certi profili, presentano una regolamentazione propria, giustificata dall’esistenza di un interesse
pubblico specifico. Ciò che muove il legislatore è principalmente la necessità di dettare regole apposite in
settori economici delicati o peculiari (es. il credito bancario, le professioni intellettuali), o l’opportunità di
consentire alla pubblica amministrazione d’intervenire nell’economia attraverso strumenti giuridici di diritto
privato, ma corretti in modo da favorire il perseguimento dei correlati interessi pubblicistici (privatizzazione
delle imprese pubbliche). Tra le società sono numerose quelle cui partecipa, sovente come socio unico o di
maggioranza, un ente pubblico. Le società a partecipazione pubblica sono diffuse e sono assoggettate al
diritto societario comune. Sono normali società, appartenenti ad uno dei tipi previsti dalla legge e sottomesse
alla relativa disciplina, come ogni società partecipata esclusivamente da soggetti privati. Tuttavia, sotto alcuni
aspetti, c’è una disciplina speciale, soprattutto quando l’ente pubblico detiene la partecipazione di controllo.

3 L’AUTONOMIA PATRIMONIALE NEI DIVERSI TIPI La società è caratterizzata dall’autonomia


patrimoniale. I beni che ad essa fanno capo rimangono sempre separati, giuridicamente, da quelli personali
dei soci. C’è pertanto un distinto regime di responsabilità nei confronti dei creditori della società e del singolo
socio (caratteristica finalizzata a favorire l’iniziativa economica ed il suo svolgimento). L’autonomia però varia
di grado, a seconda del tipo di società: essa è modesta nelle società semplici, cresce nelle SNC e nelle SAS ed
è piena nelle società di capitali e nelle cooperative. Ci sono situazioni in cui l’autonomia è totalmente assente:

1 comunione di beni. La comunione costituita per fini di godimento è retta dalla disciplina della
proprietà (ART. 2248 CC) e, sotto il profilo della responsabilità, la contitolarità non isola il bene comune da
quelli individuali dei comproprietari. Nei confronti del creditore comune tutti i comproprietari rispondono
solidalmente ed egli può soddisfare il proprio diritto aggredendo indifferentemente tale bene o quelli
personali dei debitori; parimenti, il creditore particolare del singolo comproprietario può aggredire
indifferentemente i beni personali di questo o il bene comune, per la quota di contitolarità. La semplice
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costituzione di una comune patrimoniale, senza destinazione economica dei beni, non consente di accedere
ad alcuna forma di autonomia.

2 azienda individuale. L’imprenditore che destini parte dei propri beni all’esercizio di un’attività
svolta a titolo individuale risponde dei relativi debiti (ART. 2740 CC) anche con i propri beni extra-aziendali.
Allo stesso modo i beni aziendali sono aggredibili anche dai suoi creditori, che vantino diritti per rapporti
estranei all’impresa. La destinazione economica di beni, se l’impresa resta individuale, a sua volta non
determina alcuna separazione patrimoniale.

L’autonomia patrimoniale delle società di persone è definita imperfetta. Vediamo perché.

Nella società semplice si delinea un primo grado di autonomia. Il creditore particolare di un socio
non può aggredire direttamente i singoli beni sociali, sebbene possa esigere dalla società la liquidazione in
denaro della quota spettante al suo debitore (ART. 2270 CC). L’impossibilità di espropriare i beni sociali
assicura l’integrità del complesso produttivo, sia a favore degli altri soci (che così conservano la disponibilità
dei beni strumentali), sia dei creditori sociali (che nel valore di questi beni trovano una garanzia preferenziale
rispetto al creditore particolare cui, infatti, spetta il valore netto della quota, cioè il valore che residua dopo
aver soddisfatto i primi). C’è autonomia anche riguardo ai debiti sociali, di cui i beni dell’ente rispondono
prioritariamente o esclusivamente, rispetto ai patrimoni personali dei soci; esclusivamente, per quei soci non
amministratori la cui responsabilità il contratto sociale può limitare al conferimento (ART. 2267 CC);
prioritariamente, per gli altri soci, che sono sì illimitatamente e solidalmente responsabili, ma che possono
evitare l’espropriazione dei propri beni, indicando quelli della società su cui il creditore può soddisfarsi (ART.
2268 CC).

L’autonomia patrimoniale è maggiormente intensa nelle SNC, dove il creditore particolare del socio
non può chiedere la liquidazione della quota (ART. 2305 CC). L’integrità del patrimonio produttivo è garantita
sia nella composizione sia nel valore. Pur essendo tutti i soci, senza eccezioni, illimitatamente responsabili
per le obbligazioni solidali, i creditori non possono aggredire i beni individuali, se non dopo avere inutilmente
escusso il patrimonio sociale (ART. 2304 CC), il che difende i primi da qualsiasi loro pretesa, almeno finché la
società è solvibile, e fa di questo patrimonio, distaccandolo da quelli individuali, l’asset primario attraverso
cui l’attività economica si sostiene.

Nelle SAS l’autonomia patrimoniale è intensa come nelle SNC. Nelle SAS vi è una categoria di soci
(gli accomandanti) che sono responsabili solo nei limiti del conferimento (ART. 2313 CC).

L’autonomia patrimoniale perfetta si riscontra nelle società di capitali e cooperative. I patrimoni


sono separati e nessuna interferenza si verifica nell’assoggettamento alla responsabilità per i debiti dei singoli
soci e per quelli sociali: il creditore particolare non ha azione verso la società ed il creditore sociale non ha
azione verso i soci (salvo che verso gli accomandatari delle SAPA, che rispondono illimitatamente). Il
patrimonio destinato all’attività produttiva è garanzia esclusiva per i terzi, e indifferente alle vicende che
colpiscono individualmente i partecipanti.

4 PERSONALITÀ GIURIDICA E SOGGETTIVITÀ GIURIDICA La dottrina tradizionale identifica l’autonomia


patrimoniale perfetta con la nozione di personalità giuridica: la separazione patrimoniale è la logica
conseguenza del fatto che la società è un soggetto distinto dai soci. Delle proprie obbligazioni può rispondere
solo la società, con il proprio patrimonio, nessuna responsabilità può gravare sul patrimonio della società per
i debiti del socio. Accanto alle persone fisiche, pertanto, esistono entità ulteriori, centri autonomi
d’imputazione di rapporti giuridici, titolari di pretese e destinatari di comandi: le persone giuridiche. Il
legislatore ricollega la nozione di personalità giuridica alle società di capitali: “con l’iscrizione nel registro
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[delle imprese] la società acquista personalità giuridica” (ART. 2231 CC). La disciplina è consequenziale
all’idea che la personalità consiste nell’alterità soggettiva tra organismo e partecipanti: così si spiega come
esistano “nome” e “rappresentanza” della società, la sua responsabilità esclusiva per le obbligazioni sociali,
la costituibilità di rapporti contrattuali tra società e singoli soci, etc. Alle società di persone la legge non
attribuisce espressamente la personalità giuridica. Nella giurisprudenza oggi prevalente si afferma che le
società di persone sono dotate di una propria autonomia soggettiva, di grado inferiore rispetto alla
personalità giuridica, ma comunque tale da erigerle a centri di imputazione di rapporti giuridici, distinti dai
soci. La disciplina codicistica lo dimostra: “la società acquista diritti e assume obbligazioni” (ART. 2266 CC),
all’ente sono attribuiti un nome e una sede, sono trascrivibili atti a suo favore o contro nei registri immobiliari.
I rapporti giuridici instaurati con i terzi sono insensibili al mutare della compagine sociale. Le società di
persone rientrano in un tertium genus di soggetti (terzo rispetto alle persone fisiche e giuridiche) e si parla
(non di personalità, ma) di soggettività minore. Il minor grado di soggettività delle società di persone si
manifesta nella loro inferiore autonomia patrimoniale.

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LE SOCIETÀ DI PERSONE
INTRODUZIONE
Le società di persone sono il modello elettivo per l’esercizio in comune di imprese di dimensioni
contenute. I tratti comuni sono i seguenti:

- la responsabilità illimitata di almeno un socio per le obbligazioni solidali,


- la stabilità nel tempo della compagine sociale e dell’originario assetto organizzativo cristallizzato
nell’atto costitutivo,
- la rilevanza normativa di alcune vicende personali dei soci,
- l’agilità gestionale.

La disciplina di riferimento è contenuta negli ARTT. 2250-2324 CC. È un modello elementare,


concepito per le società con una ristretta cerchia di soci ed un elevato vincolo fiduciario tra i soci (cd. intuitus
personae). Il modello legale presenta ampi margini di derogabilità, che consentono ai soci di confezionare
modelli statutari che ridimensionano o accantonano i tratti personalistici attraverso clausole che richiamano
istituti e regole dei tipi capitalistici, sia sul piano della struttura organizzativa, sia su quello della circolazione
delle quote (società di persone a struttura corporativa e a struttura aperta). Per l’esercizio delle piccole e
medie imprese, le società di persone incontrano la concorrenza delle SRL, se pur hanno più successo le società
di persone, e ciò principalmente per due motivi: 1 il trattamento tributario, ispirato al principio della
trasparenza fiscale (è tassato l’utile non in capo alla società, ma direttamente in capo ai soci, con conseguente
possibilità di fruire di aliquote più favorevoli), 2 la maggiore elasticità in sede di costituzione e nel corso della
vita sociale.

Ci sono tre tipi di società di persone: 1 la società semplice, 2 la società in nome collettivo (SNC) e 3
la società in accomandita semplice (SAS). La società semplice può svolgere solo attività non commerciali,
quindi si presta all’esercizio in comune di attività d’impresa agricola e di attività professionale. SNC e SAS,
invece, sono società di forma commerciale che possono svolgere attività d’impresa commerciale, ma anche
altre attività. Tutte e tre presentano almeno un socio chiamato a rispondere illimitatamente per le
obbligazioni sociali, in solido con la società. Nella società semplice e nella SNC rispondono illimitatamente
tutti i soci, mentre nella SAS rispondono illimitatamente solo i soci accomandatari (la responsabilità dei soci
accomandanti è circoscritta al conferimento effettuato o promesso). Sul piano dell’organizzazione
dell’attività, ha ampio spazio l’autonomia statuaria; le poche regole dettate, in larga parte derogabili,
disegnano un modello organizzato per persone, nel senso che tutti i poteri (gestione, controllo,
partecipazione alle decisioni più rilevanti) sono rimessi ai soci in quanto tali, e non ad organi designati,
nominati o delegati dai soci.

Le società di persone si caratterizzano per una tecnica normativa a cascata. Solo alla società semplice
è riservata una disciplina tendenzialmente completa (ARTT. 2251-2290 CC). Agli altri due tipi sono dedicate
poche disposizioni specifiche e poi si richiamano le regole precedenti. Alla SNC sono applicabili sia le norme
ad essa espressamente dedicate (ARTT. 2291-2312 CC) sia, in quanto queste non dispongano, quelle dettate
in tema di società semplice. Alla SAS, invece, sono applicabili le norme che la riguardano direttamente (ARTT.
2313-2324 CC) e le disposizioni sulla SNC (comprese quelle in tema di società semplice richiamate), applicabili
in quanto compatibili.

DOMANDE RACCOLTE DA PRECEDENTI SCRITTI

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• Esclusione dei soci
• Recesso società di persone (11 settembre 2019)
• Soggettività giuridica nelle società di persone
• Efficacia probatoria delle scritture contabili
• Attività economica e mero godimento nelle attività societarie

51
LA SOCIETÀ IN NOME COLLETTIVO
PROFILI FORMALI E PROFILI FINANZIARI
NOZIONE Tutti i soci rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali (ART.
2291 CC). È una responsabilità ineliminabile: l’eventuale patto limitativo della responsabilità di uno o più soci
rileva solo nei rapporti interni tra soci e non sarà opponibile ai creditori della società (nella società semplice
le limitazioni di responsabilità hanno efficacia anche esterna; nella SAS, accanto ai soci accomandatari, il cui
regime di responsabilità ricalca quello dei soci di SNC, i soci accomandanti rispondono per le obbligazioni
sociali nei limiti del capitale dagli stessi sottoscritto). La SNC è identificata, quale soggetto di diritto, con una
ragione sociale, composta dal nome di uno o più soci con l’indicazione del rapporto sociale (ART. 2292 CC).
A tale contenuto minimo possono aggiungersi ulteriori elementi, ma non si può inserire il nome di soggetti
estranei alla compagine sociale.

COSTITUZIONE L’atto costitutivo della SNC è sempre un contratto, dovendo essere più d’uno i soci
fondatori. L’atto costitutivo deve indicare (ART. 2295 CC): il cognome e il nome, il domicilio, la cittadinanza
dei soci; la ragione sociale; i soci che hanno l’amministrazione e la rappresentanza della società; la sede della
società e le eventuali sedi secondari; l’oggetto sociale (cioè il settore o il tipo di attività in cui la società
opererà), il programma economico; i conferimenti di ciascun socio, il valore ad essi attribuito e il modo di
valutazione; le prestazioni a cui sono obbligati i soci d’opera, se vi sono; le norme secondo le quali gli utili
devono essere ripartiti e la quota di ciascun socio negli utili e nelle perdite; la durata della società (se pur è
possibile costituirla a tempo indeterminato). Se alcuni di tali elementi mancano (soci titolari del potere di
amministrazione e rappresentanza, durata della società, criteri di ripartizione di utili e perdite), il codice
provvede ad integrarli.
Per poter iscrivere la SNC nel registro delle imprese, l’atto costitutivo deve essere stipulato per atto
pubblico o per scrittura privata autenticata (ART. 2296 CC). Il contratto costitutivo è a forma libera (a meno
che una forma solenne non sia richiesta in ragione dei conferimenti apportati dai soci: se ad es. viene
conferita la proprietà di un immobile, l’atto deve rivestire la forma scritta). L’iscrizione non costituisce
condizione di esistenza della società: essa è solo condizione di regolarità della società (nelle società di
capitali, invece, la mancanza della forma prescritta comporta la nullità della società, anche dopo l’iscrizione,
e senza quest’ultima la società non esiste). L’iscrizione ha un’efficacia normativa: se manca l’iscrizione, la SNC
semplicemente gode di minore autonomia patrimoniale, ossia di quella propria della società semplice
(rimane ferma la responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci). La SNC non iscritta (SNC irregolare) è
validamente costituita pur in assenza delle forme richieste ai fini dell’iscrizione. Una SNC può essere costituita
anche indipendentemente dall’esternazione della stipula del contratto di società. Si distingue tra SNC
irregolare, il cui atto costitutivo è stilato in forma scritta osservando le prescrizione di contenuto, ma senza
l’iscrizione nel registro, e SNC di fatto, in cui manca la documentazione dell’atto costitutivo, poiché il
contratto è concluso tacitamente, l’attività societaria viene esercitata per fatti concludenti e manca la scelta
del tipo “SNC”. Nei casi in cui i soci non abbiano specificato il tipo prescelto e l’attività svolta è commerciale,
si ritiene in via interpretativa che vadano applicate le norme della SNC. È l’unico tipo compatibile con la
società di fatto; per la costituzione degli altri tipi (SAS, società di capitali) è richiesta l’indicazione di ulteriori
elementi contrattuali (le due categorie di soci nell’accomandita) e le prescrizione di forma a pena di nullità
(società di capitali), il che richiede una manifestazione espressa della volontà costitutiva.
Sono due SNC necessariamente irregolari, poiché non vengono iscritte, 1 la società occulta o non
manifesta e 2 la società apparente (pur non sussistendo - o non riuscendosi ad offrire la prova di - un vincolo
societario nei rapporti tra soci, si reputa sussistente, e quindi assoggettabile a fallimento, la società che
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appare tale nei rapporti esterni, inducendo i terzi a confidare sulla sua concreta esistenza). Di regola si
assegna valore probatorio alla partecipazione alle trattative preliminari alla stipula di rilevanti contratti o al
sistematico rilascio di garanzie e finanziamenti da parte dei soggetti, distinti dall’imprenditore insolvente, di
cui si voglia così dimostrare o che condividevano con il primo, sia pure agente in nome proprio, poteri gestori
e rischi dell’attività, o che avevano ingenerato nei terzi il legittimo affidamento; si distinguono, in caso di
coniugi o parenti, i comportamenti giustificabili alla luce dell’affectio familiaris da quelli tipici dell’affectio
societatis.

PARTECIPAZIONE Possono partecipare ad una SNC sia le persone fisiche sia le persone giuridiche. Se
una società di capitali intende assumere partecipazioni in altre imprese comportanti una responsabilità
illimitata per le obbligazioni sociali, è necessaria la previa autorizzazione dell’assemblea. In caso di
partecipazione ad una SNC, detta autorizzazione è necessaria sempre (mentre nella SAS, sarà richiesta solo
per l’accomandatario). In tema di bilancio della SNC (e SAS) le società di persone commerciali devono
redigere il bilancio secondo le norme previste per la SPA se tutti i loro soci illimitatamente responsabili sono
SPA, SAPA o SRL. La SNC può avere solo soci che sono società di capitali: in tal caso le persone giuridiche
socie (o solo alcune) rivestiranno la veste di amministratori.

INVALIDITÀ DELL’ATTO COSTITUTIVO (DEL CONTRATTO) In tema d’invalidità dell’atto costitutivo di SNC
(come per tutte le società di persone). Si applica la disciplina generale sulla patologia dei contratti. Tale
disciplina potrebbe però contrastare con la salvaguardia dell’attività svolta dalla SNC nulla nell’interesse di
tutti i soci. La nullità della singola partecipazione, salvo essa sia essenziale, ha ripercussioni limitate sul
contratto societario. Se la SNC ha iniziato la propria attività compiendo atti giuridici che coinvolgono terzi
estranei, il problema si pone rispetto agli effetti dell’invalidità. L’invalidità (salvo quella della singola
partecipazione non essenziale) ha effetti retroattivi. Se l’attività sociale è in fatto iniziata, la nullità opera ex
nunc. Le cause d’invalidità di una società che ha iniziato la propria attività legittimano gli interessati a
richiederne l’eliminazione per il futuro, ma non rendono improduttiva di effetti, fra le parte e per i terzi,
l’attività svolta prima dell’accertamento giudiziale dell’invalidità.

PROFILI FINANZIARI E RAPPORTI PATRIMONIALI TRA I SOCI. RESPONSABILITÀ PER LE OBBLIGAZIONI SOCIALI: I
CONFERIMENTI I soci devono indicare nell’atto costitutivo il valore attribuito ai conferimenti ed il modo di
valutazione (ART. 2295, N. 6 CC). Il valore dei conferimenti potrà essere liberamente concordato tra i soci
all’atto della stipula dell’atto costitutivo o in sede di aumento del capitale. La somma del valore dei
conferimenti darà luogo al capitale della società, per il quale non è fissata alcuna soglia minima. Sono
conferibili tutti i beni e servizi (ART. 2247 CC), qualsiasi entità valutabile economicamente: denaro, beni in
natura (in proprietà o in godimento), crediti, obbligo di non fare, beni intangibili (brevetti), purché utili per la
società. Anche il conferimento d’opera (o servizi): il socio, con diritto a partecipare agli utili ed alle perdite
della società ed alle decisioni sociali, si obbliga nei confronti della SNC a svolgere una prestazione di fare. Il
socio d’opera può essere escluso se emerge la sua sopravvenuta inidoneità a svolgere l’opera conferita.
L’importo di ciascun conferimento, i soci possono fissarlo in autonomia, all’atto della stipula dell’atto
costitutivo o in sede di aumento del capitale. Se l’entità dei conferimenti da ciascuno dovuti non è
determinata, scatta una duplice presunzione (ART. 2253, CO. 2 CC): i soci si presumono obbligati a conferire
quanto è ragionevolmente necessario per il conseguimento dell’oggetto sociale, nel momento della stipula
dell’atto costitutivo (momento in cui il contratto di società è concluso); le parti interne si presume siano
uguali per tutti i soci.

IL CAPITALE SOCIALE L’insieme dei conferimenti dei soci forma il capitale sociale. La cifra del capitale è
la somma dei valori dei conferimenti. I soci sono tendenzialmente liberi di fissare la cifra monetaria
(l’importo) del capitale sociale nominale (non è previsto un minimo legale, né un obbligo di accantonare utili
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al fine di alimentare una riserva) e di valorizzare i beni diversi dal danaro nella misura tra loro concordata,
senza che sia necessario che un perito attesti il valore attraverso una relazione di stima. L’indicazione nell’atto
costitutivo del valore attribuito ai conferimenti. Nella SNC il capitale è elemento essenziale dell’atto
costitutivo. Non è necessario però che il contratto sociale assegni un valore ai conferimenti d’opera e che
questi concorrano a determinare il capitale: tali conferimenti non devono necessariamente essere
capitalizzati (possono, ma non devono). Se non vengono capitalizzati, vi sono conseguenze specie in sede di
liquidazione della società, quando l’attivo residuo dopo il pagamento dei debiti sociali deve essere distribuito
tra i soci restituendo loro il capitale (ossia il valore del proprio conferimento capitalizzato) e poi distribuendo
l’eccedenza, se vi sia, in proporzione alla partecipazione di ciascuno di essi agli utili.
Sul piano vincolistico, c’è una disciplina non molto intensa però, data la minore autonomia
patrimoniale della SNC, i cui creditori trovano garanzia anche nel patrimonio personale dei soci. La disciplina
tutela il capitale a protezione del mercato (i soci di SNC possono attribuire un qualsiasi valore ai conferimenti
diversi dal denaro, il che non garantisce l’effettiva corrispondenza del capitale dichiarato ai valori reali delle
risorse conferite). Ai soci non possono essere restituiti i conferimenti né distribuite somme attinte dal
patrimonio sociale, se non perché eccedono il patrimonio netto rispetto all’importo del capitale indicato in
atto costitutivo. Quando tutti i soci illimitatamente responsabili sono società di capitali, scatta l’obbligo di
applicare le regole di bilancio della SPA.
La decisione di riduzione reale del capitale (sia rimborsando ai soci le quote pagate sia liberando i
soci dall’obbligo dei versamenti ancora da effettuare) diventa efficace dopo 3 mesi dal giorno dell’iscrizione
della decisione di riduzione nel registro delle imprese (ART. 2306 CC). Entro 3 mesi i creditori della società
anteriori all’iscrizione, che ritengono di subire un pregiudizio dall’esecuzione della riduzione, possono opporsi
dinnanzi al tribunale. L’opposizione paralizza l’esecuzione della riduzione, ma il tribunale può disporre che
essa abbia comunque luogo, previa prestazione da parte della società di un’idonea garanzia. Bisogna tutelare
i creditori della società da riduzioni facoltative del capitale, di regola dovute all’aver valutato in modo
esuberante il capitale rispetto al perseguimento dell’oggetto sociale, ma potenzialmente pregiudizievoli per
i creditori. Il capitale rappresenta il valore delle risorse programmaticamente ed irreversibilmente destinate
dai soci all’esercizio dell’attività, e perciò volontariamente assoggettate a vincolo d’indisponibilità. La
riduzione successiva del capitale modifica tale programma, e libera parte di quel valore dal predetto vincolo:
motivo per cui occorre proteggere i creditori e in generale il mercato.
Per le stesse ragioni è vietato distribuire somme tra i soci se non per utili realmente conseguiti (ART.
2303, CO. 1 CC). È il riflesso del divieto di distribuzione degli utili fittizi, cioè somme non corrispondenti ad
un’eccedenza del patrimonio netto rispetto al capitale sociale nominale o somme destinate alla copertura di
perdite maturate in esercizi precedenti e non ripianate. La SNC può richiedere la restituzione degli eventuali
utili fittizi distribuiti, a prescindere dallo stato soggettivo del socio. Gli amministratori hanno pertanto
l’obbligo di conservare il capitale.
Gli amministratori non hanno l’obbligo di adottare particolari provvedimenti quando il capitale venga
eroso dalle perdite (il patrimonio diviene inferiore rispetto al valore del capitale) o di procedere ad una
rettifica contabile (riduzione nominale) del capitale, adeguandolo al nuovo, minor valore del patrimonio. I
soci sono liberi di non intervenire in caso di perdite, senza che ciò determini lo scioglimento della società
(nelle società di capitali, invece, la riduzione è doverosa; trattandosi di una rimodulazione del programma
iniziale, sebbene meramente contabile, e quindi di una modifica dell’atto costitutivo, essa va iscritta nel
registro delle imprese, così che il mercato ne viene informato). La SNC in perdita non può però ripartire utili
fino a che il capitale non sia reintegrato (grazie ad un nuovo, successivo incremento del patrimonio) o ridotto
(cioè adeguato nel suo valore contabile al più basso valore attuale del patrimonio) in maniera corrispondente
(ART. 2303, CO. 2 CC). Ogni modifica del capitale originario (in aumento o in riduzione) va assunta dai soci
all’unanimità (ART. 2252 CC).
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Sul piano organizzativo, alla partecipazione al capitale è agganciato il computo delle maggioranze
per determinate decisioni (accade in tema di proposta di concordato preventivo e concordato fallimentare o
in tema d’introduzione e soppressione di clausole compromissorie).

UTILI E PERDITE. DIVIETO DI PATTO LEONINO Nell’atto costitutivo i soci possono indicare espressamente le
norme secondo cui gli utili devono essere ripartiti e la quota di ciascun socio negli utili e nelle perdite. Di
regola la parte di ciascuno negli utili coincide con la quota di partecipazione al capitale, ma è consentito
personalizzare le quote e alterare la simmetria tra conferimenti e partecipazione agli utili, che si presume
vigente in assenza di clausole specifiche sul punto (ART. 2263, CO. 1 CC – es. un socio può partecipare al 30%
del capitale e solo al 20% degli utili; il socio d’opera può avere il 10% degli utili anche se il suo conferimento
non viene imputato a capitale). Nei rari casi in cui la partecipazione agli utili del socio d’opera non è stata
fissata ex ante nell’atto costitutivo (nelle società di fatto), è previsto un intervento suppletivo del tribunale,
che può essere adito dal socio interessato e dovrà giudicare secondo equità. Nessuna simmetria è prescritta
tra partecipazione agli utili e alle perdite: un socio potrà vedersi riconosciuta una quota del 20% degli utili e
del 15% delle perdite. Vige una mera presunzione di corrispondenza: qualora l’atto costitutivo preveda la
sola parte dei soci agli utili, nella medesima misura deve reputarsi la partecipazione alle perdite (ART. 2263,
CO. 3 CC). Il rapporto tra utili e perdite è l’unico limite all’autonomia dell’atto costitutivo: “è nullo il patto con
cui uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili e alle perdite” (ART. 2265 CC). È il cd. divieto
del patto leonino (che vale per tutti i tipi di società), che evita che possa snaturarsi il contratto societario,
creando situazioni di favore o svantaggio nei rapporti tra un socio e gli altri. La quota di partecipazione agli
utili ed alle perdite assume rilevanza in sede di liquidazione della società: la parte di ciascuno negli utili funge
da criterio per la distribuzione del surplus di attivo al netto del rimborso dei conferimenti capitalizzati (ART.
2282, CO. 1 CC); la parte di ciascuno nelle perdite determina la distribuzione tra i soci del peso dei debiti
sociali, una volta che i fondi della SNC si rivelino insufficienti (anche per la ripartizione tra gli altri soci del
debito del socio insolvente). La partecipazione del socio agli utili assume anche valore organizzativo in
decisioni rilevanti. Il diritto del socio alla percezione degli utili sorge automaticamente, una volta approvato
il bilancio da cui risultino gli utili (ART. 2262 CC).

LA POSIZIONE DEI CREDITORI PARTICOLARI DEI SOCI La SNC ha un’autonomia patrimoniale imperfetta. I
creditori particolari dei soci non possono chiedere la liquidazione della quota del socio loro debitore finché
dura la società (ART. 2305 CC). I creditori particolari possono solo aggredire gli utili spettanti al socio loro
debitore e conservare la quota a questi spettante in occasione della liquidazione della società (ART. 2270,
CO. 1 CC). Essi non possono sciogliere il singolo rapporto sociale, anche se provano che gli altri beni del socio
sono insufficienti a soddisfare il credito azionato (essi hanno tale facoltà se la SNC è irregolare, poiché
quest’ultima gode di minore autonomia patrimoniale). Il valore del patrimonio sociale è intangibile da parte
di tali creditori, a servizio dell’attività produttiva ed a garanzia dei relativi debiti. I creditori particolari devono
attendere lo scioglimento della società per vedere aumentare le proprio chances di soddisfazione. C’è però
il rischio che prorogando la società vengano deluse le aspettative dei creditori particolari del socio anteriori
alla società. Ecco perché essi hanno la legittimazione ad opporsi alla decisione di proroga della società (cd.
proroga espressa) entro 3 mesi dall’iscrizione nel registro delle imprese della società (ART. 2307 CC). Se
l’opposizione è accolta, la società deve, entro altri 3 mesi dalla notificazione della sentenza, liquidare la quota
del socio debitore dell’opponente. In caso di proroga tacita, il creditore particolare del socio può in ogni
momento chiedere la liquidazione della quota del suo debitore ex ART. 2270 CC (mera richiesta rivolta
formalmente alla SNC). La stessa regola vale nel caso di proroga non iscritta nel registro delle imprese o in
caso di soppressione del termine di durata, che comporta il passaggio a società a tempo indeterminato.

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RESPONSABILITÀ DEI SOCI PER LE OBBLIGAZIONI SOCIALI. IL BENEFICIO DI ESCUSSIONE Per le obbligazioni sociali,
tutti i soci rispondono solidalmente e illimitatamente (ART. 2291 CC). La responsabilità è legata alla qualità
di socio, e non a quella di amministratore. La responsabilità è illimitata, i soci rispondono con l’intero loro
patrimonio personale (ART. 2740 CC), senza la possibilità di predeterminare un limite. Anche i soci persone
giuridiche rispondono con l’intero patrimonio, sebbene la persona o le persone fisiche che partecipano al
capitale della persona giuridica socia di una SNC risponderanno nei limiti di quanto conferito nella società di
capitali (così cumulando i vantaggi delle due famiglie di società). I soci rispondono in solido tra loro, ciascuno
di loro può essere costretto all’adempimento per l’intero importo delle obbligazioni sociali, di qualsiasi
natura, e l’adempimento da parte di un socio libera gli altri nei confronti dei terzi. Sul piano dei rapporti tra
soci e creditori sociali, l’eventuale patto contrario tra i soci è privo di efficacia nei confronti dei terzi,
indipendentemente da qualsiasi stato soggettivo dei terzi (che possono anche versare in mala fede) e dagli
effetti della pubblicazione del patto limitativo nel registro delle imprese, che si ha qualora il patto venga
inserito nell’atto costitutivo pubblicato. I creditori sociali, pur se pienamente edotti della limitazione,
potranno invocare la responsabilità illimitata nei loro confronti del socio beneficiario della limitazione. Il
debito è della società, quindi il socio conserverà, una volta pagato un’obbligazione sociale, il diritto di rivalersi
per l’intero nei confronti della società. La società potrebbe disporre di elementi patrimoniali, preesistenti o
sopravvenuti, che i creditori sociali non sono riusciti ad escutere fruttuosamente, ma che il socio escusso
potrebbe invece, in sede di rivalsa, aggredire con successo. La responsabilità del socio per le obbligazioni
sociali permane, entro certi limiti, anche dopo lo scioglimento del rapporto sociale. La responsabilità del socio
(o dei suoi eredi, in caso di scioglimento per morte) per le obbligazioni sociali sorte fino al giorno dello
scioglimento permane nei confronti dei terzi anche all’indomani dello scioglimento (ART. 2290 CC). In caso di
assoggettamento della SNC a fallimento. I soci sono anch’essi esposti al fallimento, anche l’ex socio nel
termine di un anno dallo scioglimento del rapporto sociale, e sempre che l’insolvenza della società dipenda
da obbligazioni sorte prima dello scioglimento. Anche il soggetto che fuoriesca dalla compagine sociale (o
perché cede la propria quota, o perché è intervenuta una causa di scioglimento del singolo rapporto sociale
– recesso, esclusione o morte – pur avendo perso la qualità di socio) potrebbe venire assoggettato a
fallimento in estensione. Nell’ambito del concordato preventivo della società gli effetti favorevoli (efficacia
remissoria) si ripercuotono anche sui soci illimitatamente responsabili. Se il piano di concordato approvato
dai creditori della società contempla una riduzione percentuale e/o una dilazione dei debiti, il beneficio
riguarda anche i soci. La responsabilità dei soci verso i creditori sociali è però sussidiaria rispetto a quella della
società: i soci, pur solidalmente responsabili con la SNC, hanno il beneficio di preventiva escussione: i creditori
sociali hanno l’onere di provare, nel processo di esecuzione promosso contro i soci, di aver previamente
escusso, in modo infruttuoso, il patrimonio della società. Il beneficio opera automaticamente, sempre che la
SNC sia iscritta nel registro delle imprese, e non viene meno quando la società versi in stato di liquidazione.
Nelle ipotesi di SNC irregolare il beneficio degrada ad eccezione che il socio, il cui patrimonio venga aggredito
per obbligazioni sociali, può sollevare in sede esecutiva. I creditori sociali saranno liberi di aggredire
direttamente il patrimonio del socio, su cui grava l’onere d’invocare il beneficium excussionis indicando i beni
della società su cui i creditori sociali possono agevolmente soddisfarsi.

PROFILI ORGANIZZATIVI
L’AMMINISTRAZIONE: IL MODELLO LEGALE E L’AUTONOMIA PRIVATA Il modello legale (modello che si
applica in mancanza di una diversa opzione dell’atto costitutivo) prevede l’amministrazione disgiunta di tutti
i soci. Per assicurare la piena funzionalità della società, ogni amministratore ha un ampio potere di gestione,
ossia di decidere le operazioni sociali da compiere per realizzare l’oggetto sociale, ed un potere di
rappresentanza, ossia di spendere il nome della SNC nei traffici giuridici. Tra i osci scorre un elevato vincolo

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fiduciario (intuitus personae): ciascuno opera indipendentemente (o disgiuntamente) dagli altri e facendo
insorgere obbligazioni della SNC che comportano però la responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci. Nel
modello legale l’amministrazione della società spetta a ciascuno dei soci disgiuntamente dagli altri, tutti i soci
sono amministratori di diritto. L’autonomia privata può derogare tale disciplina per adattare il regime
d’amministrazione alle concrete esigenze della società. È possibile inserire specifiche clausole statutarie volte
alla risoluzione dei contrasti gestionali (cd. arbitraggio gestionale). Con l’atto costitutivo i soci possono:
decidere per il regime d’amministrazione congiunta; combinare i due regimi ricorrendo all’uno per talune
operazioni gestorie, all’altro per altre; prevedere che solo uno o più soci siano amministratori, secondo il
regime disgiunto o congiunto; prevedere un amministratore unico, nel qual caso non si rende necessario
scegliere un regime.

AMMINISTRAZIONE DISGIUNTA Nel regime di amministrazione disgiunta ciascun amministratore è


pienamente legittimato ad assumere decisioni di gestione indipendentemente dagli altri amministratori, i
quali non devono essere necessariamente coinvolti, né avvisati preventivamente dell’operazione (es. stipula
di un mutuo bancario). Ciascun amministratore ha però il diritto di opporsi (diritto di veto) alle operazioni
programmate dagli altri amministratori, manifestando il proprio dissenso all’operazione, prima che sia
realizzata. Se un amministratore si oppone, l’operazione non può essere compiuta, poiché l’amministratore
che avrebbe voluto compierla ha perso il relativo potere (che viene paralizzato dal veto). Per poter esercitare
il proprio diritto di veto, l’amministratore deve però essere a conoscenza dell’operazione che l’altro intende
compiere, quindi o questi lo informa spontaneamente circa l’operazione che intende compiere o
l’amministratore opponente si informa autonomamente. Un amministratore può opporsi all’operazione
animato dal solo sospetto. Il veto deve indirizzarsi ad un’operazione ben individuata nell’oggetto, al fine di
evitare la paralisi completa dell’attività, incompatibile con il modello disgiunto. Sull’opposizione decide la
maggioranza dei soci, compresi i soci non amministratori, maggioranza determinata secondo la parte di utili
attribuita a ciascun socio. L’opposizione crea uno stallo sul piano gestionale.

AMMINISTRAZIONE CONGIUNTA Con l’atto costitutivo si può optare per il regime di amministrazione
congiunta, dove gli amministratori si confrontano costantemente, a seconda che si scelta l’unanimità o la
maggioranza. L’amministrazione congiunta può essere anche combinata con l’amministrazione disgiunta (es.
per gli atti di valore inferiore ad una certe soglia c’è l’amministrazione disgiunta, mentre per quelli di valore
superiore operi il sistema congiunto). Se si opta per l’amministrazione congiunta all’unanimità, che si applica
in mancanza dell’espressa indicazione dello schema prescelto, per la decisione occorre il consenso di tutti
gli amministratori, tutti gli amministratori sono coinvolti nella decisione, ciascuno ha un potere di veto.
Nessun amministratore può esercitare da solo il potere decisionale, a meno che non coinvolga l’altro o gli
altri amministratori. Inoltre, il gruppo dei soci non ha il ruolo di sciogliere l’opposizione. Se, invece, si opta
per l’amministrazione congiunta a maggioranza, un amministratore (o gruppo di amministratori) può
prevalere sull’altro amministratore (o gruppo di amministratori). Per il computo della maggioranza vale il
criterio della partecipazione agli utili (ART. 2257 CC). Il singolo amministratore può compiere individualmente
atti di gestione, quando vi è urgenza di evitare un danno alla società (es. se sta per scadere un termine e non
vi è il tempo o la possibilità di coinvolgere nella decisione l’altro o gli altri amministratori).

RAPPRESENTANZA Il potere di rappresentanza si esplica nei rapporti tra la SNC e i terzi che entrano in
contatto con la SNC. È il potere di esternare la volontà della società, acquistando in nome della stessa diritti
e assumendo obbligazioni al fine di ottemperare alle linee gestionali decise dagli amministratori per la
realizzazione dell’oggetto sociale. È il potere di spendere il nome della società nella stipula di contratti con i
fornitori e con la clientela, nelle operazioni bancarie, nei rapporti con i lavoratori, etc. L’atto costitutivo indica
i soci che hanno la rappresentanza della società. Possono essere rappresentanti tutti gli amministratori o solo
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alcuni di essi, o uno solo. In caso di più rappresentanti, l’atto costitutivo precisa se essi operano
congiuntamente (ed in questo caso, per la conclusione del negozio devono intervenire tutti i rappresentanti,
es. occorre la sottoscrizione di tutti in caso di atto scritto) o disgiuntamente (è sufficiente l’intervento – la
sottoscrizione – di uno solo). In mancanza di indicazioni il potere di rappresentanza è simmetrico a quello
di gestione: l’amministratore che rappresenta la società può compiere tutti gli atti che rientrano nell’oggetto
sociale, salve le limitazioni che risultano dall’atto costitutivo o dalla procura. Le limitazioni non sono
opponibili ai terzi, se non sono iscritte nel registro delle imprese o se non si prova che i terzi ne hanno avuto
conoscenza. La SNC regolare può opporre ai terzi, se debitamente iscritte, tutte le limitazioni contenute
nell’atto costitutivo. Il potere di rappresentanza ricomprende il potere di rappresentanza giudiziale della
società. Sui terzi ricade il rischio che possano venire dichiarati inefficaci gli atti estranei rispetto all’oggetto
sociale della società (cd. atti ultra vires – es. l’acquisto di una villa al mare avulsa dall’attività aziendale).
L’autonomia statutaria può decidere di dissociare il potere di gestione e il potere di rappresentanza:
- può attribuire il potere di rappresentanza solo ad alcuni amministratori o ad uno solo (es. in caso di
amministrazione congiunta, si dispone che la rappresentanza competa solo all’amministratore più
anziano),
- può diversificare le modalità di esercizi delle regole di gestione e di quelle di rappresentanza,
- può prevedere diversi regimi a seconda dell’operazione sociale da compiere, distinguendo tra atti di
ordinaria e straordinaria amministrazione.
Anche in tali casi la dissociazione che priva di potere rappresentativo un amministratore fornito di potere
gestorio può essere opposta ai terzi, solo se risulta iscritta nel registro delle imprese, oppure si provi che il
terzo ne ha avuto comunque conoscenza effettiva.

NOMINA E REVOCA DEGLI AMMINISTRATORI Nell’atto costitutivo i soci nominano gli amministratori e i
rappresentanti della società. In mancanza di apposita clausola nell’atto costitutivo, la nomina si assume a
maggioranza. I soci amministratori non amministratori né rappresentanti hanno comunque la responsabilità
illimitata per le obbligazioni sociali). Se l’atto costitutivo non nomina nessuno, il potere di amministrazione e
di rappresentanza spettano a tutti i soci. L’atto costitutivo può anche limitarsi a prevedere il numero di
amministratori, rinviando ad una successiva decisione dei soci, che costituisce atto separato (rispetto all’atto
costitutivo), la designazione degli stessi; in questo caso l’eventuale nuovo entrato in società non acquisterà
il diritto di amministrare, ma solo quello di concorrere alla nomina degli amministratori. La revoca può essere
negoziale (per volontà dei soci), ed è automaticamente efficace purché soddisfi i presupposti di legge, oppure
giudiziale, e diventa efficace solo dopo la pronuncia del tribunale (salva la possibilità di chiedere
provvedimenti cautelari). Per la revoca negoziale c’è una regola differenziata, a seconda che gli
amministratori siano nominati nell’atto costitutivo o con atto separato. Se gli amministratori sono nominati
nell’atto costitutivo (o sono tali perché tale atto non dispone nulla), la revoca ha effetto solo se ricorre una
giusta causa, ossia se l’amministratore è inadempiente verso i suoi obblighi (inadempimento grave e da
legittimarne la rimozione, come ad es. assenze reiterate e ingiustificate). La decisione di revoca richiede
l’unanimità dei consensi (salvo la società abbia introdotto una clausola di maggioranza; in ogni caso non
occorre il consenso anche del revocando). In tali casi, la carica di amministratore è legata al fatto di essere
socio e la revoca priva il socio solo del potere di amministrazione, non della sua partecipazione sociale. Se
invece gli amministratori sono nominati con atto separato, si può procedere alla revoca anche in assenza
di giusta causa, sebbene ciò esponga la società al rischio di dover risarcire il danno (ossia ai futuri emolumenti
che all’amministratore revocato sarebbero stati dovuti se fosse stato mantenuto in carica). Si ritiene che la
relativa decisione possa essere decisa a maggioranza (quindi è più facile revocare l’amministratore nominato
con atto separato rispetto a quello nominato con l’atto costitutivo). Indipendentemente dalla misura della
sua partecipazione, ciascun socio ha il diritto di richiedere la revoca giudiziale per giusta causa,
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promuovendo un’azione innanzi al tribunale per accertare la sussistenza di una giusta causa di revoca, pur
nell’inerzia della società.

OBBLIGHI E RESPONSABILITÀ DEGLI AMMINISTRATORI Gli amministratori hanno il potere e il dovere di gestire
l’impresa sociale. A tal fine essi hanno il potere di compiere tutti gli atti rientranti nell’oggetto sociale:
- predisporre gli strumenti per esercitare l’impresa (locali, impianti, attrezzature, etc.),
- delineare le strategie imprenditoriali della società,
- organizzare lo svolgimento dell’attività e curarne la sostenibilità finanziaria,
- individuare gli atti da compiere e le controparti negoziali,
- operare secondo economicità per contenere i costi e massimizzare i ricavi dell’attività.
Gli amministratori hanno poi obblighi specifici:
- tenere la contabilità,
- redigere il bilancio d’esercizio,
- iscrivere la società nel registro delle imprese depositando l’atto costitutivo presso il relativo ufficio.
Diritti ed obblighi degli amministratori sono regolati dalle norme sul mandato, ma non si distingue tra
ordinaria e straordinaria amministrazione. In regime di amministrazione disgiunta, ciascun amministratore
ha l’obbligo generale di vigilare sull’operato degli altri e di intervenire (esercitando il potere di opposizione)
se riscontra il pericolo di operazioni dannose. Gli amministratori hanno poi l’obbligo di non operare in
conflitto con la società. L’obbligazione generale degli amministratori di gestire l’attività è un’obbligazione di
mezzi (non di risultato), essi sono tenuti a svolgere le loro funzioni con la diligenza del buon padre di famiglia
e se osservano tale diligenza nell’espletare l’incarico non sono responsabili dell’eventuale andamento
negativo della gestione, quindi non rispondono delle eventuali perdite derivanti dalla normale attività
d’impresa. Rispondono solo se non adempiono ai loro doveri, o se non uniformano i loro comportamenti agli
standard di diligenza ad essi imposti. Nelle scelte di gestione, nel decidere se una certa operazione è
opportuna gli amministratori godono di molta discrezionalità, la quale non sarà sindacabile in sede di
accertamento della responsabilità. Sarà possibile invece censurare le scelte imprudenti ed irragionevoli che
impediscono una corretta gestione imprenditoriale della società. Gli amministratori, eccetto quelli che
dimostrano di non avere colpa (es. in regime di amministrazione disgiunta un amministratore compie
un’operazione dannosa e la tiene nascosta deliberatamente agli altri), sono tutti solidalmente responsabili
verso la società per l’adempimento degli obblighi ad essi imposti dalla legge e dal contratto sociale. La
società deve esercitare un’azione di risarcimento danni, provando la violazione degli obblighi e l’entità del
danno subito e il nesso di causalità tra detto danno e la condotta censurabile degli amministratori.

AMMINISTRATORE NON SOCIO. SOCIO NON AMMINISTRATORE Non necessariamente un socio è anche un
amministratore, o un amministratore è un socio: possono essere amministratori anche soggetti estranei alla
compagine sociale. In regime di amministrazione disgiunta, l’atto costitutivo può affidare ad un terzo il
compito di risolvere eventuali contrasti tra amministratori su una data operazione che paralizzano la gestione
sociale (cd. arbitraggio gestionale – es. un consulente esterno decide sull’operazione). Derogando al modello
legale, nell’atto costitutivo o con atto separato possono nominarsi amministratori solo alcuni soci. I soci non
amministratori partecipano, al pari degli amministratori, alle decisioni che il CC rimette a tutti i soci, compresa
la decisione sull’opposizione in regime di amministrazione disgiunta. I soci non amministratori hanno
penetranti poteri di controllo (ampliabili nell’atto costitutivo) che controbilanciano il fatto che essi sono
esclusi dal governo dell’impresa societaria. I soci non amministratori hanno:

- il diritto di ricevere dagli amministratori informazioni sullo svolgimento degli affari sociali, e il diritto
d’ispezionare i documenti relativi all’amministrazione (ma non possono ispezionare cose o luoghi,
come ad es. capannoni industriali), al fine di valutare sia il generale andamento della società sia
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quello di specifiche operazioni. I diritti d’informazione e d’ispezione sono ancorati ai tempi
dell’iniziativa del socio.
- il diritto a ricevere su richiesta il rendiconto, quando sono stati compiuti gli affari per cui fu costituita
la società. Il rendiconto va inviato ogni anno o entro il diverso termine maggiore di 1 anno fissato
dall’atto costitutivo (per lo più il compimento degli affari dure oltre 1 anno). Il rendiconto è un
prospetto analitico delle operazioni realizzate, dove sono indicate le relative entrate e uscite. Esso
non postula alcuna approvazione da parte dei soci in generale.
Anche l’ex socio, tale perché receduto o escluso, o gli eredi del socio defunto hanno tali diritti, in relazione
però ai soli casi in cui è coinvolto un affare sociale per il quale sono responsabili.

DECISIONI DEI SOCI. MODIFICAZIONI DELL’ATTO COSTITUTIVO: UNANIMITÀ E MAGGIORANZA NELLE DECISIONI
DEI SOCI Le decisioni relative alla gestione della società sono rimesse agli amministratori, ma per decisioni
relative ad alcuni temi (es. le modifiche dell’atto costitutivo, la nomina e revoca degli amministratori, etc.)
intervengono anche i soci. Manca una disciplina generale delle decisioni dei soci, c’è solo una disciplina per
singole decisioni rimesse ai soci e da questa si è tentato di ricostruire regole più ampie. L’unanimità si applica,
salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo, per le modifiche dell’atto costitutivo, sia soggettive sia
oggettive (sono fatte salve le decisioni di trasformazione in società di capitali, fusione e scissione, per le quali
è sufficiente la maggioranza). La maggioranza viene calcolata secondo tre diversi criteri, a seconda della
decisione da assumere: A la decisione sull’opposizione ad una certa operazione gestoria in regime
d’amministrazione disgiunta e sulla trasformazione in società di capitali, fusione e scissione è presa dalla
maggioranza dei soci calcolata in base alla partecipazione agli utili (per quote di interesse); B la decisione di
esclusione del socio è presa dalla maggioranza dei soci calcolata per teste, ossia in base al numero dei soci;
C per la proposta di concordato, i soci decidono a maggioranza in base alla partecipazione al capitale (che
non necessariamente coincide con la partecipazione agli utili), e ciò vale anche per il concordato preventivo,
per l’amministrazione straordinaria e per la decisione di presentare domanda di fallimento.
Ci sono poi decisioni per le quali non è indicato il numero di consensi richiesti:
A decisioni inerenti all’attività gestoria (assimilate a quella sull’opposizione di un amministratore
nell’ambito del modello disgiuntivo), prese a maggioranza in base alla partecipazione agli utili: decisioni di
nomina e revoca degli amministratori nominati con atto separato e l’approvazione del bilancio, da cui scatta
il diritto agli utili;
B decisioni inerenti alla struttura organizzativa (assimilate a quelle sulle modifiche contrattuali),
legale o convenzionale, per le quali è richiesta l’unanimità: consenso all’esercizio di attività concorrenziali da
parte del socio. Sono decisioni che attribuiscono, in una fase successiva del rapporto societario, una facoltà
supplementare ad un socio, modificando l’equilibrio delle reciproche posizioni contrattuali.

IL PROCEDIMENTO DECISIONALE E L’IMPUGNAZIONE DELLE DECISIONI Il CC non regola il procedimento


decisionale e tale lacuna è colmata dalla dottrina. Il procedimento decisionale è suddiviso nelle fasi tipiche
del procedimento collegiale: convocazione, riunione, discussione, votazione e verbalizzazione. Anche per
l’impugnativa della decisioni viziata non ci sono norme, se non quelle relative al socio escluso, il quale ha 30
giorni dalla comunicazione per impugnare la decisione della sua esclusione e chiedere un rimedio cautelare
tipico (la sospensione dell’esecuzione della decisione in pendenza del giudizio). Per le altre decisioni (es.
revoca dell’amministratore viziata da un errato computo della maggioranza, decisione assunta senza la
necessaria maggioranza), non c’è una disciplina, pertanto si applica la disciplina delle SRL che, tra le società
di capitali, è il modello più vicino alle società di persone, e che è applicabile a tutte le società di persone.

Tutte
LE MODIFICAZIONI DELL’ATTO COSTITUTIVO: NOZIONE E PUBBLICITÀ. MODIFICAZIONI SOGGETTIVE E OGGETTIVE
le decisioni relative alle modificazioni dell’atto costitutivo, comprendenti ogni modifica degli elementi tipici

60
dell’atto costitutivo, vanno assunte all’unanimità dei soci. Vi rientrano le decisioni relative sia ad elementi
oggettivi dell’atto costitutivo (la ragione sociale, i soci amministratori - a meno che non fossero stati
nominati per atto separato - o la rappresentanza della società, il regime di amministrazione e rappresentanza,
la sede sociale, l’oggetto sociale, i conferimenti di ciascun socio, le prestazioni che i soci d’opera sono tenuti
a svolgere, le variazioni del capitale, le norme di ripartizione degli utili, la quota di ciascun socio negli utili e
nelle perdite, la durata della società) sia quelle relative ad elementi soggettivi del contratto (trasferimento
delle quote di partecipazione, sia inter vivos sia mortis causa).
Nei rapporti tra soci le modifiche sono immediatamente efficaci, ma divengono opponibili ai terzi
solo dopo l’iscrizione nel registro delle imprese, da effettuarsi a cura degli amministratori entro 30 giorni. Le
modifiche non iscritte possono essere opposte ai terzi solo fornendo la prova che i terzi ne fossero comunque
a conoscenza. Vale la regola dell’efficacia dichiarativa ex ART. 2193 CC.
I singoli soci hanno interesse a conservare nel tempo l’assetto contrattuale originario; per questo
ciascun socio, a prescindere dalla misura della sua partecipazione, può paralizzare con il proprio dissenso
(o mancato consenso) l’assunzione delle decisioni modificative dell’atto costitutivo. L’unanimità richiesta
per le modificazioni dell’atto costitutivo è uno dei principali tratti distintivi delle società di persone rispetto
a quelle di capitali. Anche per i mutamenti soggettivi si richiede l’unanimità. La necessità del consenso
unanime consente agli altri soci di valutare i riflessi delle vicende delle partecipazioni sociali (in particolare
l’ingresso di nuovi soci) sulla propria posizione in società. Si può derogare al principio d’unanimità con modelli
alternativi, che tutelino l’adattabilità dell’atto costitutivo alle mutate esigenze dell’attività sociale. Si può
inserire una clausola di maggioranza, da cui scaturisce una dialettica tra soci di maggioranza e di minoranza.
Una deroga è possibile anche per facilitare i mutamenti soggettivi, se i soci preferiscono ridimensionare il
vincolo fiduciario. L’intuitus è un elemento naturale, ma non essenziale, delle società di persone e vi si può
derogare con la clausola di libera trasferibilità delle partecipazioni sociali, che rimuove ogni vincolo alla
circolazione sia inter vivos sia mortis causa.
Alcune decisioni, anche se di carattere strutturale, come le decisioni di trasformazione (in società di
capitali), fusione e scissione, allo scopo di favorire il transito verso le società di capitali, sono assunte, salvo
diversa disposizione del contratto sociale, con il consenso della maggioranza dei soci determinata sulla base
della parte attribuita a ciascuno degli utili; il socio che non ha concorso alla decisione ha il diritto di recesso.
C’è un’asimmetria tra i possibili mutamenti del tipo sociale: è richiesta la maggioranza solo quando
si passa ad un tipo capitalistico, mentre resta l’unanimità per ogni altra trasformazione; ogni fusione, dia
essa vita ad una società di persone o di capitali, è decisa a maggioranza. Le modifiche dell’atto costitutivo
collegate a tali operazioni (es. variazioni del capitale sociale, trasferimento della sede, etc.) si decidono con
la regola maggioritaria (modifiche minime sono necessarie per adeguare la struttura societaria alle regole
che caratterizzano il diverso tipo risultante dalla trasformazione, fusione o scissione). Lo statuto può però
introdurre una clausola che, uniformando la trasformazione, la fusione e la scissione alle altre modifiche
statutarie, richieda per tali operazioni il consenso di tutti i soci (o maggioranza diverse, non coincidenti con
quella legale).

LO SCIOGLIMENTO DEL SINGOLO RAPPORTO SOCIALE (ARTT. 2284-2290 CC)


Qui affiora maggiormente il forte legame esistente tra le vicende personali dei soci e il loro vincolo
societario. Le cause di scioglimento (morte, recesso ed esclusione) sono collegate ad eventi
personali/patrimoniali che colpiscono il socio (o incidono sulle relazioni interpersonali tra i soci) e
impediscono, limitano o rendono sgradito che il socio continui a partecipare alla società. Detti eventi non
incidono sull’attività sociale, che prosegue con gli altri soci. Scioglimento del singolo rapporto sociale significa
solo che viene meno (si estingue) il rapporto partecipativo facente capo ad uno specifico socio, il quale

61
acquista di conseguenza il diritto a che la sua quota sia liquidata in denaro. Tali eventi possono influire sulla
prosecuzione della società se questa, all’indomani dell’evento che ha determinato lo scioglimento del singolo
rapporto, si ritrova in stato di uni-personalità protratta per oltre 6 mesi. In quest’ipotesi l’evento determina,
combinato con l’inerzia dell’unico socio (che non si attiva tempestivamente per ricostituire la pluralità dei
soci), lo scioglimento della società.
Lo scioglimento del singolo rapporto può essere dovuto alla volontà del socio interessato (recesso) o
degli altri soci (esclusione facoltativa), o ad una previsione legale (esclusione di diritto) o ad un evento
naturale (morte). In caso di morte gli altri soci possono decidere di proseguire il rapporto con gli eredi del
socio defunto, se questi acconsentono. Rilevano poi situazioni legate alla persona fisica (la morte,
l’interdizione, l’inabilitazione, l’inidoneità fisica a prestare la propria opera). Spesso le tensioni tra soci sono
dovute a conflitti interpersonali di carattere coniugale o familiare. Lo scioglimento del singolo rapporto
sociale non tronca immediatamente ogni legame tra socio e società:
- l’ex socio o i suoi eredi dovranno attendere fino a 6 mesi per vedersi liquidato il valore della quota
- l’ex socio o i suoi eredi continueranno a rispondere illimitatamente per le obbligazioni sociali sorte
fino al giorno in cui si scioglie il rapporto, senza alcun termine temporale (salvi gli effetti della
prescrizione)
- l’ex socio o i suoi eredi potranno essere dichiarati falliti entro 1 anno dallo scioglimento del rapporto
o, in caso di trasformazione, fusione o scissione, dalla cessazione della responsabilità illimitata,
- il nome del socio receduto o defunto potrà restare inserito nella ragione sociale, con il consenso
dell’interessato (in caso di recesso) o dei suoi eredi (in caso di morte).
Gli amministratori, entro 30 giorni dall’evento, devono iscrivere lo scioglimento presso il registro delle
imprese. Detti soggetti sono responsabili per le obbligazioni sociali sorte fino al giorno in cui si verifica lo
scioglimento, ma ciò deve essere opponibile ai terzi (e l’opponibilità si ottiene attraverso l’iscrizione nel
registro delle imprese), per cui, in difetto, il socio uscito risponde nei confronti dei creditori anche per le
obbligazioni successive (ma ha poi regresso verso i suoi ex consoci) e se ne potrà sottrarre solo provando
che chi esige da lui il pagamento era comunque a conoscenza dell’avvenuto scioglimento.

MORTE DEL SOCIO Se muore un socio, quindi viene meno una quota di partecipazione alla società,
entro 6 mesi i soci superstiti devono prendere una decisione. I soci hanno due alternative, ed in entrambi i
casi si tratta di una decisione modificativa dell’atto costitutivo da assumersi all’unanimità:
1 sciogliere anticipatamente la società, se il socio deceduto era essenziale per la prosecuzione
dell’attività (motivi soggettivi) oppure se liquidare la sua quota vorrebbe dire privare la società del patrimonio
necessario per proseguire l’attività (motivi oggettivi). La decisione di porre in liquidazione la società, purché
assunta nei 6 mesi dalla morte del socio, evita che si perfezioni il diritto degli eredi alla corresponsione della
quota di liquidazione. Gli eredi, al pari degli altri soci, dovranno attendere l’esito del procedimento di
liquidazione della società.
2 continuare la società con gli eredi ex ART. 2284 CC (salva l’ipotesi di uni-personalità), liquidando a
quest’ultimi la quota di partecipazione del socio defunto (la quota di partecipazione del defunto non si
trasmette automaticamente ai suoi eredi!). In questo caso è necessario il consenso di tutti gli eredi del
socio. Se gli eredi che subentrano sono più di uno si formerà una comunione degli stessi sulla quota ed
occorrerà il consenso di tutti anche in merito alla nomina di un rappresentante comune per l’esercizio dei
diritti sociali. I soci superstiti devono decidere se gli eredi subentreranno come soci o come amministratori.
L’accettazione da parte di tutti è necessaria anche se gli eredi (come accade nelle compagini sociali familiari)
detengono già una partecipazione in società: anche in tal caso la successione nella quota determinerebbe un
accrescimento in capo a costoro delle quote (di capitale e di partecipazione agli utili ed alle perdite).

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RECESSO La dichiarazione di recesso è una manifestazione unilaterale di volontà del socio, recettizia
per la società. Si distingue tra società a tempo determinato e società a tempo indeterminato.

Nelle società a tempo indeterminato, i soci sono liberi di recedere (cd. recesso ad nutum) quando
vogliono con l’onere di rispettare un termine di preavviso di 3 mesi (il recesso produce effetti dopo 3 mesi
dal momento in cui la relativa dichiarazione è pervenuta alla società – es. delle obbligazioni sorte in tale
periodo il receduto risponderà in quanto socio a tutti gli effetti). Tale regola si applica anche 1 alle società
contratte per tutta la vita di uno dei soci, dove sussiste un termine finale (la morte di uno specifico socio),
ma non è determinabile a priori, 2 alle società formalmente a tempo determinato, ma che contemplano un
termine non previamente determinabile o comunque tale da superare le aspettative di vita medie
dell’essere umano, e 3 alle società a tempo determinato la cui durata viene prorogata espressamente senza
fissare un termine o tacitamente (si passa automaticamente al regime che governa le società a tempo
indeterminato).
Nelle società a tempo determinato i soci possono recedere solo in presenza di una giusta causa o
di un’apposita previsione dell’atto costitutivo. L’autonomia privata è libera di prevedere cause facoltative
di recesso, nonostante l’inevitabile depauperamento del patrimonio sociale che si genera in occasione del
rimborso di quote della società. I soci hanno il diritto di recedere se si verificano eventi relativi alla loro
persona (es. trasferiscono la loro residenza in regione diversa da quella ove ha sede la società) o alla società
(es. entro un dato periodo non vengono raggiunti determinati obiettivi di fatturato). In presenza di giusta
causa spesso la pretesa del socio di recedere non viene assecondata dagli altri, che negano la sussistenza
della giusta causa. Di fronte a tale tensione tra soci si apre un contenzioso giudiziario volto ad accertare la
genuinità dei presupposti del recesso e spesso gli altri soci reagiscono escludendo il socio che vuole recedere.
Il recesso è collegato ad ogni situazione oggettiva che aggravi, seppur indirettamente, la responsabilità del
socio o le condizioni di rischio economico in presenza del quale egli aveva aderito al contratto sociale. La
giusta causa non può essere integrata da situazioni soggettive del socio (gravi malattie, impedimenti fisici o
età avanzata). Però dette vicende, se conducono all’interdizione o inabilitazione del socio (o all’attivazione
dell’amministrazione di sostegno), legittimano gli altri soci ad escludere il socio.
Infine, ci sono tre altri casi di recesso dei soci che non hanno acconsentito alle decisioni (a
maggioranza) di trasformazione in società di capitali, fusione e scissione. Tale principio è valido anche per le
altre modifiche a maggioranza, quando l’atto costitutivo deroga alla regola dell’unanimità, quanto meno
dove si tratti di modifiche particolarmente incisive (suscettibili di aggravare, se pur indirettamente, la
responsabilità del socio: es. una modifica dell’oggetto sociale).

ESCLUSIONE FACOLTATIVA Al verificarsi di certi presupposti i soci possono decidere (decisione


facoltativa) di escludere a maggioranza un socio dalla società, sciogliendo così il singolo rapporto sociale tra
socio e SNC. L’esclusione è una decisione facoltativa, gli altri soci sono liberi di soprassedere e mantenere il
rapporto con il socio pur in presenza di un presupposto di esclusione facoltativa. È chiaro che il socio
estromesso vorrebbe mantenere la posizione in società. C’è quindi un conflitto tra la maggioranza dei soci e
il socio escluso. A tutela del socio escluso esiste un controllo giudiziale: il socio può opporsi alla sua
esclusione chiedendo al giudice di verificare ex post la sussistenza dei presupposti sostanziali e
procedimentali. I presupposti dell’esclusione facoltativa si raggruppano in tre categorie:
1 il socio è responsabile di gravi inadempienze delle obbligazioni derivanti dalla legge o dall’atto
costitutivo, tra cui l’obbligo di effettuare il conferimento promesso nel contratto. L’inadempimento deve
essere imputabile al socio (l’impossibilità sopravvenuta integra una distinta ipotesi di esclusione). Oltre alla
violazione di altri obblighi specifici (es. il dovere di non concorrenza), è ricompreso il comportamento del
socio contrario al principio di buona fede: il socio usa sistematicamente diritti di controllo o di veto al solo

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fine di dissolvere la società. Il socio non ha l’obbligo di collaborare fattivamente alla vita della società, egli
può anche rimanere inerte, ma non può compiere atti preordinati alla dissoluzione della società. Non può
escludersi un socio che semplicemente si oppone ad una o più decisioni: l’atteggiamento ostruzionistico
rileva ai fini dell’esclusione se ostacola l’assunzione di qualsiasi decisione e mira alla paralisi dell’attività
sociale con relativa impossibilità di conseguire l’oggetto sociale. Le gravi inadempienze attengono ad obblighi
gravanti sul socio in quanto tale: le inadempienze agli obblighi gravanti sul socio in quanto amministratore
(es. una negligenza in una scelta gestoria) non possono giustificare una sua esclusione: gli altri soci potranno
attivare il procedimento di revoca per giusta causa ed eventualmente esercitare l’azione di responsabilità.
2 interdizione o inabilitazione del socio. Il tutore entra nella SNC (o l’affiancamento al socio del
curatore) nell’esercizio dei diritto sociali, incidendo sulla composizione della base sociale. Lo stesso vale se
viene nominato, in luogo del tutore o del curatore, un amministratore di sostegno. La condanna (penale) del
socio a pena che comporti l’interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici. Tale condanna rischia di
screditare la società, pregiudicando la sua immagine commerciale. Non giustificano invece l’esclusione del
socio misure cautelari penali che colpiscono il suo patrimonio, anche se prevedono la nomina di un custode
o di un amministratore giudiziario della quota (sequestro penale o sequestro antimafia).
3 impossibilità sopravvenuta della prestazione dedotta nel conferimento per inidoneità del socio a
svolgere l’opera conferita (conferimento d’opera), perimento della cosa dovuto a causa non imputabile agli
amministratori (conferimento in godimento), perimento della cosa che il socio si è obbligato a trasferire
prima che la proprietà sia acquistata dalla società (conferimento in proprietà non immediatamente
traslativo). Sono particolari tipi di conferimento che presentano un rischio (assente nei conferimenti in
denaro, crediti o beni in proprietà). Sia il conferimento di beni in godimento sia il conferimento d’opera
richiedono che per un determinato arco temporale permangano determinate condizioni tali da assicurare
alla società l’acquisizione dell’utilità promessa dal socio: l’idoneità del socio ad effettuare l’opera promessa;
l’attitudine del bene ad essere oggetto di godimento (es. se il socio si è impegnato a prestare una determinata
opera per 10 anni dal suo ingresso in società e dopo 8 anni diviene fisicamente inabile a svolgere l’opera
promessa, il socio è parzialmente inadempiente rispetto alla società; il socio ha conferimento il godimento
di un immobile e dopo un po’ diviene inutilizzabile per fatto non imputabile alla società).
L’atto costitutivo può indicare altri casi di esclusione (es. sentenze di condanna che non comportano
l’interdizione dai pubblici uffici), ma non può contenere una clausola che consenta di escludere il socio senza
alcuna motivazione, ossia a discrezione assoluta degli altri soci.

PROFILI PROCEDIMENTALI. OPPOSIZIONE ALL’ESCLUSIONE L’esclusione è decisa dai soci a maggioranza,


non computando il socio da escludere. Si tratta di una maggioranza per teste, ciascun socio esprime un voto,
indipendentemente dall’entità della partecipazione al capitale o agli utili. Possono votare anche i soci non di
capitale (soci i cui conferimenti non vengono capitalizzati, principalmente i soci d’opera). Questo particolare
computo della maggioranza implica che ad es. il socio che detiene il 90% del capitale può ritrovarsi escluso
da due soci che detengono il 5% ciascuno. L’esclusione diventa efficace dopo 30 giorni dalla sua
comunicazione al socio escluso, il quale può opporsi alla decisione, chiedendo al giudice di accertare la
sussistenza dei presupposti e il rispetto del procedimento decisionale. La decisione di esclusione deve essere
comunicata al socio, che ha 30 giorni dal ricevimento della comunicazione per opporsi davanti al tribunale
competente, ossia per impugnare la decisione. L’onere di opposizione grava sul socio escluso, che se rimane
inerte perde il diritto di opporsi e l’esclusione diviene efficace, anche se viziata. Se invece il socio escluso si
oppone tempestivamente, può chiedere la sospensione dell’efficacia della decisione, in attesa che si concluda
il giudizio di merito sulla validità dell’esclusione. Se l’opposizione viene accolta, il socio ha il diritto di essere
reintegrato nella società con efficacia ex tunc, quindi potrà partecipare ai risultati positivi e negativi prodottisi
nel frattempo. Resteranno travolte automaticamente eventuali decisioni assunte (nelle more del giudizio)
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senza la partecipazione del socio ingiustamente escluso (es. modifiche oggettive o soggettive del contratto
assoggettate alla regola dell’unanimità).
Se la società si compone di due soli soci, ciascun socio può richiedere direttamente al tribunale
l’esclusione dell’altro e l’esclusione acquista efficacia solo dopo che il tribunale si è pronunciato, ferma
restando la possibilità di richiedere un provvedimento d’urgenza atipico (ART. 700 CPC) che assicuri
provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito, conferendo efficacia anticipata all’esclusione.

ESCLUSIONE DI DIRITTO Un socio è escluso di diritto se 1 viene dichiarato fallito, perché titolare di
un’impresa individuale o perché socio illimitatamente responsabile di altra società, oppure 2 se il creditore
particolare del socio ha ottenuto la liquidazione della quota del socio. L’esclusione, e quindi lo scioglimento
del rapporto, è decisa a priori dalla legge, ai soci è sottratta ogni discrezionalità. La perdita della qualità di
socio comporta l’automatica perdita anche della qualità di amministratore. L’esclusione di diritto tutela
interessi esterni alla società (creditori del fallimento del socio o creditori particolari del socio), quindi la
disciplina è immodificabile dall’atto costitutivo. Il presupposto dell’esclusione può venir meno (es. revoca
della dichiarazione di fallimento del socio) e il socio andrà reintegrato nella società con efficacia ex tunc.

LIQUIDAZIONE DELLA QUOTA In tutti i casi in cui si scioglie il singolo rapporto sociale, la società
(composta dai soci superstiti) ha l’obbligo di liquidare in denaro la quota del socio, la cui partecipazione alla
SNC è venuta meno, entro 6 mesi (3, in caso di esclusione di diritto). In alternativa i soci superstiti possono,
attraverso una decisione modificativa dell’atto costitutivo (da assumere all’unanimità, salvo diversa
pattuizione), entro 6 mesi dallo scioglimento del singolo rapporto sociale, sciogliere anticipatamente la
società: in questo caso, il socio receduto/escluso, o gli eredi del socio defunto, per il pagamento dovranno
attendere la liquidazione della società, quindi 6 mesi. Se non paga entro questi 6 mesi la società potrà subire
azioni esecutive e gli amministratori saranno responsabili: il socio receduto/escluso diviene un creditore della
società. La liquidazione della quota va chiesta alla società (o meglio al legale rappresentante, anche quando
la società è rimasta uni personale); gli altri soci sono illimitatamente responsabili solo nei confronti dei terzi.
Secondo il modello legale l’ex socio ha diritto “ad una somma di danaro che rappresenti il valore della quota”,
non ha diritto alla restituzione del bene conferito in proprietà o in godimento (in quest’ultimo caso il bene
dovrà essere restituito dalla società solo dopo che è decorso il periodo per il quale il godimento le era stato
originariamente concesso), né una liquidazione in natura. È comunque lecita una diversa clausola dell’atto
costitutivo.
Il valore della quota è determinato sulla base della situazione patrimoniale della società al momento
dello scioglimento e se vi sono operazioni in corso, il socio o i suoi eredi partecipano agli utili ed alle perdite
inerenti a dette operazioni. Per il calcolo del valore della quota si fa riferimento alla data dello scioglimento
del rapporto (è irrilevante il momento in cui viene effettuato il pagamento). Decorsi i 6 mesi scatta l’obbligo
per la società di corrispondere gli interessi legali. Liquidata all’ex socio la quota, ossia la porzione di
patrimonio corrispondente alla sua partecipazione, il capitale società andrà corrispondentemente ridotto. La
quota di partecipazione agli utili (e alle perdite, se diversa) dell’ex socio si accresce proporzionalmente a
quella degli altri soci.

LO SCIOGLIMENTO DELLA SOCIETÀ


CAUSE DI SCIOGLIMENTO DELLA SOCIETÀ Lo scioglimento della società, passando per la liquidazione del
suo patrimonio e l’estinzione dei debiti sociali, conduce all’estinzione della società come autonomo soggetto
di diritti. Le cause di scioglimento della SNC sono sette:
1 il decorso del termine. La società si scioglie automaticamente decorso il termine di sua durata. Ciò
non si applica nelle società a tempo indeterminato. I soci possono tuttavia decidere (la decisione seguirà le

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regole per le modifiche dell’atto costitutivo) di prorogare il termine originario prima che spiri (proroga
espressa), la decisione di proroga dovrà essere iscritta nel registro delle imprese. L’iscrizione fa insorgere in
capo ai creditori particolari dei soci la facoltà di opporsi, ricorrendo al tribunale competente, affinché la
proroga non paralizzi la possibilità di richiedere lo scioglimento del rapporto al fine di soddisfarsi sul credito
del socio alla liquidazione della quota. La SNC potrà anche proseguire la propria attività come se il termine
non fosse mai decorso (proroga tacita), sopprimendo implicitamente il termine originario di durata, e
diventando una società a tempo indeterminato. Gli amministratori devono comunque iscrivere la relativa
modifica nel registro delle imprese. La prosecuzione delle operazioni sociali senza aprire la liquidazione e
senza decisione espressa di proroga ha due conseguenze: 1 i creditori particolari del socio sono legittimati a
richiedere la liquidazione della quota del socio loro debitore, 2 i soci possono recedere liberamente, dando
preavviso.
In tutti gli altri casi la società viene sciolta anticipatamente rispetto al termine fissato nell’atto
costitutivo a causa di un evento sopravvenuto che determinata l’apertura della liquidazione.
2 la volontà di tutti i soci. I soci decidono di anticipare lo scioglimento della SNC e di porre in
liquidazione le società a tempo indeterminato o il cui termine di durata è stato superato tacitamente.
3 il conseguimento dell’oggetto sociale, che presuppone un’attività circoscritta (es. la società ha per
oggetto la costruzione e vendita di un centro commerciale: l’oggetto è conseguito quando l’ultimo degli spazi
del centro è venduto) o la sopravvenuta impossibilità di conseguire l’oggetto sociale, che può essere
un’impossibilità oggettiva (causata talvolta dall’illiceità sopravvenuta dell’attività: es. una società ha per
oggetto la realizzazione di conserve di una determinata specie ittica e interviene una legge che, al fine di
preservare detta specie dall’estinzione, ne vieta qualsiasi forma di cattura e commercializzazione), o
un’impossibilità soggettiva (dovuta soprattutto all’incrinarsi dei rapporti tra soci al punto da paralizzare
l’attività). In quest’ultimo caso una decisione modificativa dell’oggetto sociale non sarebbe sufficiente ad
evitare lo scioglimento (sufficiente invece nei casi di impossibilità oggettiva).
4 se viene a mancare la pluralità dei soci e questa non viene ricostituita entro 6 mesi. Si parla di uni-
personalità sopravvenuta, che si verifica nelle società di due soli soci, in caso di morte o recesso di uno di
essi.
5 provvedimento dell’autorità governativa nei casi stabiliti dalla legge (caso irrilevante nella pratica).
6 dichiarazione di fallimento, se la SNC ha per oggetto un’attività commerciale, causa rimossa dal
2003. Il diritto fallimentare contempla la possibilità di proseguire l’attività produttiva quando ciò possa
rivelarsi conveniente per i creditori.
7 altre cause previste dal contratto sociale.

EFFETTI DELLO SCIOGLIMENTO. PROCEDIMENTO DI LIQUIDAZIONE Se si verifica una causa di scioglimento


automaticamente la SNC entra in stato di liquidazione: essa deve liquidare il patrimonio sociale, pagare i
creditori della società e ripartire l’eventuale residuo attivo tra i soci. Solo dopo aver compiuto tali operazioni
(che possono protrarsi anche per anni) la SNC potrà essere cancellata dal registro delle impresi e potrà
estinguersi. La liquidazione è revocabile con il consenso di tutti i soci. Lo scioglimento della società limita i
poteri degli amministratori, i quali conservano il potere di amministrare, ma limitatamente agli affari urgenti,
e fino a che siano presi i provvedimenti necessari per la liquidazione. Essi non possono compiere nuove
operazioni, l’attività produttiva non può proseguire in fase di liquidazione. Possono compiersi solo operazioni
che, se pur nuove, mirano solo a salvaguardare il valore del patrimonio. Gli amministratori devono avviare
tempestivamente il procedimento formale di liquidazione, che si articola in più fasi: 1 nomina dei liquidatori
(che avviene all’unanimità, salvo deroga; se i soci non si accordano, alla nomina provvede il tribunale su
istanza di uno di essi o di un amministratore), 2 passaggio di consegne tra liquidatori e amministratori, 3

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pagamento delle passività, 4 riparto delle attività tra i soci, 5 cancellazione della SNC dal registro delle
imprese.
Il procedimento di liquidazione si applica solo in assenza di diverse statuizioni pattizie al riguardo. Le
modalità di liquidazione del patrimonio possono essere indicate nell’atto costitutivo, dove possono essere
individuati i soggetti legittimati a svolgere la relativa attività. In mancanza, i soci possono adottare una
decisione ad hoc all’unanimità (salvo clausola di maggioranza in deroga) per andare incontro alle concrete
esigenze dei soci. Può prevedersi la ripartizione di beni in natura (ART. 2283 CC), che tutela l’interesse dei
soci a che i beni sociali non vengano alienati a terzi per consentire di addivenire ad un riparto. Se l’atto
costitutivo non dice nulla sulla liquidazione del patrimonio ed i soci non trovano un accordo, si apre il
procedimento di liquidazione regolato dal CC.
I liquidatori succedono agli amministratori nella gestione del patrimonio e dell’attività sociale. Gli
amministratori devono collaborare, consegnando ai liquidatori i beni e i documenti sociali e presentando ad
essi il conto della gestione per il periodo successivo all’ultimo bilancio. I liquidatori hanno l’obbligo di
prendere in consegna i beni e i documenti sociali, e di redigere, insieme agli amministratori, l’inventario, dal
quale risulti lo stato attivo e passivo del patrimonio sociale. Amministratori e liquidatori devono sottoscrivere
congiuntamente l’inventario, che determina il formale sub-ingresso dei liquidatori nella gestione della
società. I liquidatori hanno gli stessi obblighi e responsabilità degli amministratori, e sono salve le norme
specificamente dettate in tema di liquidazione o le eventuali previsioni ad hoc dell’atto costitutivo. I
liquidatori, nominati dai soci o dal tribunale, possono essere revocati per volontà di tutti i soci (o a
maggioranza, se lo prevede l’atto costitutivo) e in ogni caso dal tribunale per giusta causa su richiesta di uno
o più soci. I liquidatori compiono gli atti necessari per trasformare in denaro il patrimonio della società. Da
quando è iscritta la loro nomina, i liquidatori rappresentano la società, anche giudizialmente. Essi hanno i
poteri indispensabili per monetizzare l’attivo, ossia usare gli strumenti negoziali e giudiziali a tutela del
patrimonio della società nei confronti dei terzi (rivendiche di beni, scioglimento di vincoli contrattuali per
recesso o risoluzione, etc.). I liquidatori non possono prescindere da tali poteri per difendere la società dalle
eventuali aggressioni dei creditori sociali, che rischiano di ridimensionare l’attivo destinato ad esser ripartito
tra i soci. Infine, i liquidatori non possono intraprendere nuove operazioni, altrimenti essi rispondono
personalmente e solidalmente per gli affari intrapresi. Essi non possono ripartire tra i soci i beni sociali, anche
parzialmente, finché non siano pagati i creditori della società o non siano accantonate le somme necessarie
per pagarli.
Il diritto dei creditori sociali ad essere soddisfatti è anteposto al diritto dei soci alla liquidazione della
propria quota. Per il pagamento dei debiti sociali, i liquidatori devono attingere anzitutto ai fondi disponibili
della società; se questi risultano insufficienti, i liquidatori possono chiedere ai soci i versamenti ancora dovuti
sulle rispettive quote e, se occorre, le somme necessarie, nei limiti della rispettiva responsabilità e in
proporzione della parte di ciascuno nelle perdite. Nella stessa proporzione si ripartisce tra i soci il debito del
socio insolvente.
Estinti i debiti sociali (quindi le passività), i liquidatori trasformano in denaro l’attivo residuo in primis
per rimborsare i conferimenti capitalizzati: per quelli in denaro sarà restituito l’esatto importo a suo tempo
versato, mentre per quelli diversi dal danaro (crediti, beni in proprietà) sarà rimborsato un importo
corrispondente alla valutazione operata nell’atto costitutivo o, in mancanza, secondo il valore storico che
essi avevano nel momento in cui furono eseguiti. Se l’atto costitutivo prevede che la ripartizione dei beni sia
fatta in natura, vi è la divisione delle cose comuni: qui sono più complicate le operazioni di riparto, ma è
tutelato l’interesse dei soci che hanno conferito un bene in proprietà ad evitare che quel bene venga alienato
a terzi. Se dopo il rimborso dei conferimenti risulta un’eccedenza di attivo, essa andrà ripartita tra i soci in
proporzione della parte di ciascuno nei guadagni (utili) fissata dall’atto costitutivo. A tale fase del riparto
potranno partecipare i soci il cui conferimento non sia stato capitalizzato (es. i soci d’opera).
67
Terminata la liquidazione, i liquidatori predispongono e sottopongono all’approvazione dei soci il
bilancio finale di liquidazione ed il piano di riparto, comunicando tali documenti a mezzo raccomandata. Per
agevolare la chiusura della liquidazione, e la successiva cancellazione della società, bilancio e il piano di
riparto s’intendono approvati se non vengono impugnati dai soci entro 2 mesi dal ricevimento della
comunicazione (meccanismo di silenzio assenso). Se entrambi i documenti vengono impugnati, i liquidatori
potranno esaminare separatamente le questioni di liquidazione da quelle di riparto.

CANCELLAZIONE, ESTINZIONE E FALLIMENTO DELLA SNC Approvato il bilancio finale, i liquidatori


presentano istanza per la cancellazione della società dal registro delle imprese (ART. 2312 CC). Con la
cancellazione, che rappresenta il momento finale del procedimento di liquidazione, la società si estingue e
viene definitivamente meno. Sotto il profilo di tributi e contributi previdenziali, però, la società si estingue
solo dopo 5 anni dalla richiesta di cancellazione. Le scritture contabili e i documenti sociali vengono però
conservati per 10 anni dalla cancellazione presso un depositario (designato dalla maggioranza dei soci), allo
scopo di poter eventualmente ricostruire l’andamento degli affari sociali. Anche dopo l’estinzione della
società potrebbero sorgere situazioni giuridiche passive o attive riconducibili ad essa. Per le sopravvenienze
passive i creditori sociali insoddisfatti possono far valere i loro crediti solo nei confronti dei soci, i quali
continuano a rispondere illimitatamente per le obbligazioni sociali anche dopo la cancellazione. Se i
creditori sociali non vengono pagati ed essi dimostrano che per il mancato pagamento hanno colpa i
liquidatori (la sopravvenienza passiva corrisponde ad un debito già risultante dalla contabilità sociale che, se
i liquidatori fossero stati diligenti, avrebbero potuto facilmente riscontrare), oltre ai soci potranno essere
chiamati a rispondere anche i liquidatori. Per i residui passivi imprevisti ed imprevedibili al momento
dell’attività di liquidazione non potrà imputarsi alcuna responsabilità ai liquidatori.
I residui attivi non distribuiti e le sopravvenienze attive ricadono in contitolarità tra i soci. Dopo la
cancellazione i soci non possono far valere in giudizio diritti che la società avrebbe potuto attivare prima
dell’estinzione. Si ravvisa nel comportamento della società un indice inequivoco della volontà di rinunciare a
quelle azioni, facendo così venir meno l’oggetto di una trasmissione successoria ai soci. Si cerca così di frenare
gli abusi: i soci potrebbero cancellare la società (non per un genuino intento di rimuovere la società, ma) per
accaparrarsi i correlati benefici sul piano della fallibilità dei soci, salvaguardando iniziative recuperatorie per
conto della società.
La cancellazione ha effetti anche nelle procedure concorsuali. Anche per gli imprenditori collettivi,
la dichiarazione di fallimento può avvenire dopo la cessazione, purché entro 1 anno dalla cancellazione dal
registro delle imprese. La SNC, pur formalmente estinta e quindi non più un soggetto di diritto, può reputarsi,
ai soli fini concorsuali, ancora in vita per 1 anno. Ciò le conferisce piena capacità processuale nell’ambito del
procedimento fallimentare.

DOMANDE RACCOLTE DA PRECEDENTI SCRITTI

- Amministrazione disgiunta e congiunta


- Morte del socio
- Responsabilità per le obbligazioni sociali e poi anche nella SAS
- SNC irregolare
- Socio non amministratore
- Cause di recesso socio di SNC
- Diritti agli utili dei soci di una SNC - Distribuzione degli utili nelle SNC (Marzo 2019, 1° parziale)

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LA SOCIETÀ IN ACCOMANDITA SEMPLICE
CARATTERI GENERALI La società in accomandita semplice (SAS) è il modello societario utilizzato dalle
società di capitali (la SAS è la società di persona più vicina alle società di capitali!), utilizzato da coloro che
intendono investire in un’attività produttiva assumendo la qualità di soci (cd. soci capitalisti) ed i correlati
poteri e doveri, ma senza assumere anche il ruolo di amministratori. I soci capitalisti non amministrano
personalmente l’attività: essi affidano le proprie risorse finanziarie ad altri soggetti affinché amministrino
l’attività. Il rischio d’impresa assunto dai soci capitalisti è limitato a tali risorse finanziarie. Le quote di
partecipazione dei soci, sia accomandatari sia accomandanti, non possono essere rappresentate da azioni
(quindi non possono essere documentate in titoli di credito!).

DUE CATEGORIE DI SOCI: ACCOMANDATARI E ACCOMANDANTI Nella SAS i soci si dividono in due
categorie (accomandatari e accomandanti), entrambe essenziali affinché la SAS esista (il venir meno di una
categoria di soci comporta lo scioglimento della società!).
I soci accomandatari sono i soli a poter essere nominati amministratori (ART. 2318 CC). Ciò non
significa che tutti i soci accomandatari siano anche amministratori: è possibile nominarne solo alcuni o
addirittura solo uno. La maggior parte delle SAS, infatti, è costituita con un solo socio accomandatario (che
può essere anche una società di capitali) che è quindi amministratore unico (il che vuol dire che egli non si
deve confrontare con nessuno nel prendere una decisione di gestione). Si applicano le regole previste per i
soci di SNC. Essi rispondono illimitatamente e solidalmente (con la società) per le obbligazioni sociali.
L’eventuale patto limitativo della responsabilità dei soci accomandatari è inefficace nei confronti dei terzi.
Salvo diversa previsione statutaria, la quota di partecipazione degli accomandatari, per circolare, necessita
del consenso unanime degli altri soci. Se un socio accomandatario muore, quindi viene meno la sua quota
di partecipazione alla società, nel silenzio dell’atto costitutivo si applica la regola ex ART. 2284 CC: la società
ha 6 mesi per decidere (decisione modificativa dell’atto costitutivo da assumersi all’unanimità) se continuare
la società, liquidando agli eredi del socio defunto la quota di partecipazione di quest’ultimo, oppure sciogliere
anticipatamente la società avviando la procedura di liquidazione.
I soci accomandanti sono qualificati come tali nell’atto costitutivo (parte integrante ed ineludibile
dello statuto della SAS). Tendenzialmente non possono essere nominati amministratori, sono quindi esclusi
dalla gestione della società (divieto di immistione!). Essi hanno però la qualifica di “soci”, quindi partecipano
all’attività sociale apportando mezzi finanziari o conferendo altri tipi di beni, compresa la propria opera. La
circolazione della loro quota di partecipazione è soggetta alle regole previste per la quota di partecipazione
di un socio capitalista. Per cedere la quota di partecipazione di un socio accomandatario inter vivos è
necessario il consenso dei soci che rappresentano la maggioranza del capitale, ma lo statuto può prevedere
la libera trasferibilità della quota, escludendo la necessaria preventiva approvazione da parte della
maggioranza dei soci. Se un socio accomandante muore, la quota di partecipazione di quest’ultimo viene
ceduta mortis causa al soggetto designato dal socio defunto, ma l’autonomia privata può limitare tale
circolazione. Essi rispondono limitatamente alla quota conferita (ART. 2313 CC), anche nei rapporti esterni,
a prescindere dallo stato soggettivo dei creditori sociali e anche se la SAS è irregolare (ossia non è stata iscritta
nel registro delle imprese). Non possono essere aggrediti direttamente dai creditori sociali, i quali possono
soddisfarsi solo sul patrimonio dei soci accomandatari e su quello della società (anche dopo la liquidazione
della SAS, ART. 2324 CC). Se però gli accomandanti non hanno versato alla società tutti, o in parte, i
conferimenti promessi, i creditori sociali possono esercitare nei loro confronti l’azione surrogatoria ex ART.
2900 CC affinché essi versino integralmente alla società il conferimento dovuto.

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DIVIETO DI IMMISTIONE DEL SOCIO ACCOMANDANTE (ART. 2320 CC) Il socio accomandante ha il divieto
di immistione, ossia il divieto di interferire nella gestione della società (affidata ai soli soci accomandatari)
e quindi di essere nominati amministratori; per questo, essi hanno il beneficio della responsabilità limitata
(principio delle organizzazioni corporative). Se un accomandante interviene nella gestione della società,
violando così il divieto di immistione, egli perde il beneficio della responsabilità limitata (sanzione
normativa), anche se l’ingerenza è avvenuta con il pieno consenso degli amministratori e degli altri soci. I soci
accomandanti non possono né compiere atti di amministrazione esterni, trattando o concludendo affari in
nome e per conto della società, né compiere atti interni alla società ingerendosi nelle decisioni di gestione.
C’è un’unica eccezione espressa: se l’atto costitutivo lo prevede, essi possono ricevere una procura speciale
per singoli affari, in forza della quale possono esprimere pareri e dare autorizzazioni per quella determinata
operazione. Autorizzazioni e pareri hanno però carattere meramente consultivo e non vincolante. L’atto
costitutivo può inoltre investire il socio accomandante di poteri di controllo sulla legittimità dell’operato degli
amministratori. Ex lege (previsione inderogabile) il socio accomandante ha il diritto di essere informato
annualmente sull’attività sociale, quindi di ricevere comunicazioni sul bilancio, nonché il potere di
consultare i documenti della società per verificarne l’esattezza. L’accomandante può essere munito del
potere di rappresentanza per un singolo affare e stipulare così contratti, collegati all’affare, senza la presenza
degli accomandatari, i quali erano stati coinvolti solo precedentemente nella decisione a monte sull’affare.
Nella pratica si consente al socio accomandante di presenziare in società e di trattare con i terzi; la mera
partecipazione a trattative o la mera presenza in sede sociale non determinano automaticamente la
violazione del divieto di immistione. La violazione del divieto di immistione, che si configura come una grave
inadempienza, ha conseguenze sia in termini negoziali sia sul beneficio della responsabilità limitata e può
portare anche all’esclusione del socio accomandante. Se l’accomandante viola il divieto nel compiere atti di
gestione esterni, ossia compie quest’ultimi senza procura, tali atti non impegnano la società e
l’accomandante subisce la sanzione prevista per il falsus procurator (sanzione prevista a tutela della massa
indistinta di terzi). Se viola il divieto di immistione, l’accomandante perde il beneficio della responsabilità
limitata e diventa illimitatamente responsabile per tutte le obbligazioni sociali. Tuttavia se gli accomandanti
violano il divieto di immistione con il pieno consenso dei soci accomandatari (come spesso accade nella
pratica), se dimostrano di aver ricevuto l’autorizzazione da quest’ultimi (o dimostrano la loro acquiescenza),
gli accomandatari non potranno avanzare alcuna doglianza verso gli accomandanti.

SCIOGLIMENTO DELLA SOCIETÀ (ART. 2323 CC) Le cause di scioglimento della SAS sono le stesse previste
per la SNC, cui si aggiunge il venir meno di una delle due istituzionali categorie di soci. Se la SAS mantiene
più soci, ma questi appartengono tutti ad una sola categoria (quindi ci sono solo soci accomandatari o solo
soci accomandanti), la società non può proseguire. Lo scioglimento non opera però automaticamente: la SAS
ha 6 mesi per ricostituire le due categorie. Se viene meno la categoria dei soci accomandatari, quindi
rimangono solo accomandanti, la società può rimanere operativa durante i 6 mesi di tolleranza nominando
un amministratore provvisorio (cd. amministratore pro tempore), che può essere anche un accomandante o
un estraneo. L’amministratore pro tempore (che non assume la qualifica di socio accomandatario!) può
compiere gli atti di ordinaria amministrazione e rappresenta la società in questi 6 mesi. Se non viene
nominato alcun amministratore provvisorio, il socio accomandante rimasto in società, anche se ha assunto
la gestione sociale, non ha comunque il potere di impegnare la società all’esterno: a tal fine è necessario che
venga formalmente nominato un amministratore provvisorio e che l’atto di nomina sia iscritto nel registro
delle imprese.

SAS IRREGOLARE (ART. 2317 CC) Se l’atto costitutivo non è stato iscritto nel competente registro delle
imprese, la SAS è irregolare. Finché non avviene l’iscrizione, se pur tardiva, volta a regolarizzare la società,

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si applica il regime di responsabilità per le obbligazioni sociali e personali dei soci previsto per le società
semplici: regime penalizzante per i soci, che godono di una più ridotta autonomia patrimoniale. Anche se la
SAS è irregolare, i soci accomandanti possono opporre la propria qualifica ai creditori, ma la loro
partecipazione all’attività di gestione è ancor più limitata: essi non possono operare come procuratori
speciali per singoli affari (mancando un’adeguata pubblicità societaria, i terzi non possono verificare a priori
il ruolo assunto da ciascun socio agente!), pena la loro responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, ma
mantengono il potere di dare pareri o autorizzazioni per il compimento di singoli atti, di compiere atti
d’ispezione e sorveglianza, nonché la facoltà di prestare la propria opera a favore della SAS, se pur sotto la
direzione degli amministratori.

DOMANDE RACCOLTE DA PRECEDENTI SCRITTI

- Divieto di immistione dell’accomandante

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LA SOCIETÀ SEMPLICE
La società semplice è il prototipo normativo delle società di persone, la cui disciplina si applica a
tutte le società di persone, a meno che il legislatore abbia previsto una normativa specifica che vi deroga
espressamente. Ciò che la rende poco diffusa è che la società semplice non può essere costituita per
esercitare attività d’impresa commerciali (la società non ha quindi l’obbligo di tenere le scritture contabili e
di redigere annualmente il bilancio!), né può perseguire scopi consortili. Ci sono norme speciali che spingono
verso un maggiore impiego delle società semplici come società di godimento (che non dovrebbero essere
ammissibili), in particolare società di gestione di beni (spesso patrimoni familiari). La società semplice può
essere costituita per esercitare un’attività d’impresa agricola, ed in questo caso l’iscrizione della società
nella sezione speciale del registro delle imprese ha ex lege efficacia dichiarativa, oppure un’attività
professionale intellettuale, ed in questo caso l’iscrizione ha efficacia meramente notiziale e di certificazione
anagrafica. L’amministrazione ed i conferimenti sono soggetti alla disciplina prevista per la SNC. L’atto
costitutivo (contratto sociale) di una società semplice non deve rispettare forme speciali, può essere
concluso anche verbalmente o per fatti concludenti (c’è libertà di forma); sono fatte salve le forme richieste
dalla natura dei beni conferiti. Non vi sono norme che regolano il contenuto dell’atto costitutivo, né compare
la nozione di capitale sociale, tuttavia il legislatore colma con norme suppletive l’eventuale silenzio delle parti
su elementi (anche) essenziali del contratto sociale.

LA RESPONSABILITÀ DEI SOCI PER LE OBBLIGAZIONI SOCIALI Almeno uno dei soci deve essere
illimitatamente responsabile per le obbligazioni sociali. Di regola tutti i soci hanno tale illimitata
responsabilità, ma i soci possono anche accordarsi (inserendo un’apposita clausola nel contratto sociale) per
limitare la responsabilità di alcuni soci. La limitazione di responsabilità dei soci implica che quest’ultimi non
hanno il potere di rappresentanza, ossia il potere di agire in nome e per conto della società. Tale limitazione
di responsabilità potrà opporsi ai terzi a condizione che l’accordo sia posto a conoscenza dei terzi con mezzi
idonei, altrimenti non sarà loro opponibile.
I creditori sociali possono soddisfarsi sul patrimonio sociale, sul patrimonio dei soci che hanno agito
in nome e per conto della società (soci con potere di rappresentanza illimitatamente responsabili per le
obbligazioni sociali), ma anche sul patrimonio personale degli altri soci, a meno che un patto espresso non
la escluda. I creditori sociali possono esercitare l’azione esecutiva contro un socio, il quale può sottrarsi
all’esecuzione forzata solo indicando beni societari prontamente aggredibili (denaro, beni mobili, crediti) su
cui il creditore sociale può soddisfarsi agevolmente. In mancanza di tali beni, il socio non può sottrarsi
all’azione esecutiva e, non essendo l’eccezione rilevabile d’ufficio, il procedimento andrà avanti anche se egli
resta contumace.
I creditori personali del socio (creditori particolari) possono colpire gli utili spettanti al socio loro
debitore, tramite il pignoramento presso terzi, e procedere al sequestro conservativo della quota spettante
allo stesso in sede di liquidazione. Inoltre, se dimostra che i beni sono insufficienti a soddisfare il proprio
credito, il creditore personale del socio può chiedere, ed ottenere, in ogni momento la liquidazione della
quota del socio debitore, e la società deve liquidare tale quota entro 3 mesi dalla domanda, salvo la società
decida di sciogliersi anticipatamente escludendo così di diritto il socio debitore.

LA RAPPRESENTANZA DELLA SOCIETÀ (ART. 2266 CC) La società acquista diritti ed assume obbligazioni
tramite i soci che hanno il potere di rappresentanza, ossia il potere di agire in nome e per conto della società,
compresa la rappresentanza giudiziale, quindi la società sta in giudizio tramite le persone dei propri soci. Se
non è diversamente stabilito nel contratto sociale, ciascun socio amministratore (disgiuntamente o
congiuntamente, a seconda del regime d’amministrazione scelto) ha il potere di rappresentanza per tutti gli

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atti rientranti nell’oggetto sociale. Il contratto sociale può riservare la rappresentanza solo ad alcuni soci e
può limitare tale potere. Nelle società semplici professionali (dove l’iscrizione della società ha efficacia
notiziale), i limiti originari del potere di rappresentanza, quelli stabiliti successivamente nonché l’estinzione
del potere, sono sempre opponibili ai terzi, purché essi ne siano potuti venire a conoscenza con mezzi idonei.
I terzi, a propria tutela, hanno il diritto di ottenere dal socio con cui contrattano i documenti che giustificano
il suo potere di rappresentanza. Nelle società semplici agricole (dove l’iscrizione della società ha efficacia
dichiarativa), invece, limiti originari e successivi ed estinzione del potere saranno opponibili ai terzi solo se
iscritti (limiti/estinzione) nel registro delle imprese.

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LA SOCIETÀ PER AZIONI
LA STRUTTURA FORMALE
NOZIONE E DISCIPLINA: IL FENOMENO SPA La società per azioni è il più importante tipo di società e, tra
le società di capitali, è il modello più risalente. È un modello il cui utilizzo è diffuso, soprattutto per la sua
rilevanza sul piano economico: essa effettua investimenti, raccoglie risorse finanziarie in vista della
produzione d’impresa, e genera ricavi. Le SPA hanno avuto un’evoluzione storica articolata: nei secoli XVI e
XVII operavano le antiche compagnie coloniali, che venivano costituite per realizzare grandi imprese
commerciali. Col trascorrere del tempo l’iniziativa è stata divisa in periodi di un anno, detti “esercizi”, rispetto
ai quali si calcolava i risultati parziali dell’attività e si distribuivano i dividendi cd. utili di periodo. Nella SPA i
soci sono investitori di rischio “anonimi”, tali poiché non sono personalmente coinvolti nella gestione
dell’iniziativa, e nelle relative responsabilità. La gestione è affidata solo a persone di fiducia degli investitori,
persone che assumono la qualifica di “amministratori” ed hanno il compito di far fruttare le risorse investite
dai soci e di permettere a quest’ultimi di ottenere un lucro. In qualità di soci, poi, gli investitori hanno un
potere di controllo nel merito sugli atti compiuti dagli amministratori. I gestori/amministratori devono
perseguire un profitto per i soci, non un profitto personale e svolgere l’incarico loro assegnato in modo
diligente. Le quote di interesse nell’iniziativa (e nei suoi risultati) sono assegnate in relazione alla
contribuzione ad un fondo di rischio. È titolare dell’iniziativa, e dei diritti ad essa connessi, chi fornisce capitale
alla SPA e lo è nella misura in cui gli si riconosca di avere operato tale apporto. Ciò vale sia nei rapporti con i
soggetti esterni alla società sia nei rapporti tra soci. Sono soci, ed hanno i relativi poteri, coloro che
contribuiscono al rischio e nella misura del capitale prestato. La distribuzione dei risultati e del potere
all’interno della società dipende dall’apporto di ciascuno (logica spersonalizzata): il potere di ciascun socio
è proporzionale alla ricchezza investita e capitalizzata (principio plutocratico). I privati sono quindi
incentivati a investire maggiori risorse per il programma produttivo. Nella SPA, quindi, sono predeterminati
il singolo investimento, il rischio d’impresa e la delimitazione della garanzia patrimoniale. Ciascun investitore
non può essere soggetto al pericolo di un debito maggiore rispetto a quanto ha investito, non gli si può
attribuire una responsabilità sussidiaria per i debiti della società: accanto all’impegno finanziario diretto,
assunto con la sottoscrizione del capitale, il socio non può essere responsabile per un debito dovuto al
risultato di una gestione altrui. La responsabilità del socio è limitata al conferimento effettuato (autonomia
patrimoniale perfetta). Gli investitori sono incentivati a capitalizzare il capitale di rischio nell’attività sociale,
poiché sanno che, anche prima che si concluda l’iniziativa, potranno operare un disinvestimento: i soci
possono sempre cedere a terzi le proprie quote di titolarità dell’investimento, collocandole nel mercato
secondario, grazie al fatto che le quote sono suddivise in azioni. I progetti imprenditoriali, realizzati dalle SPA,
esigono che il vincolo di destinazione delle risorse investite sia, entro certi limiti, stabile: la possibilità di
cedere la titolarità delle quote di interesse negli investimenti operati evita che il singolo investitore
immobilizzi eccessivamente le risorse. A tal fine ai soci vengono assegnate delle azioni, ossia delle frazioni
standard dell’investimento in capitale, suscettibili di attribuire al loro titolare diritti individuati in termini
formali e oggettivi nello statuto. Tali diritti sono liberamente trasferibili, senza che ciò modifichi
l’organizzazione della società, e valutabili più facilmente dai terzi interessati al relativo acquisto. Tali diritti
sono esercitabili e trasferibili in modo sicuro e celere, potendo essere le azioni emesse in forma cartolare o
scritturale. All’iniziativa possono accedere anche coloro che non hanno grandi capitali, né inclinazioni
imprenditoriali, come ad esempio i risparmiatori privati, che mirano ad investimenti di breve periodo per
reperire le risorse finanziarie necessarie. Il risparmio privato viene avvicinato all’investimento azionario. Un
sub-modello che si è venuto a creare è quello della SPA con azioni quotate, dove i risparmiatori sono

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ampiamenti coinvolti e pertanto esse hanno uno statuto particolare, previsto da leggi speciali, che integra
quello di diritto comune.

FATTISPECIE E TIPOLOGIA: I TIPI DI SPA Ci sono più varianti di SPA, diverse manifestazioni della vicenda
azionaria. Si distinguono:

- le società di medio-grandi dimensioni e le società piccole, a seconda dei dati economici espressi
dalle relative imprese (capitale investito o patrimonio netto, volumi dei ricavi, esposizione
finanziaria)
- le SPA con compagini sociali ampie o comunque aperte alla partecipazione di nuovi soci e le SPA
a ristretta base familiare o chiuse all’ingresso di investitori esterni
- le società che si rivolgono ai mercati per reperire investitori, tra cui ci sono le società le cui azioni
sono quotate nei mercati finanziari regolamentati e le società le cui azioni sono negoziate al di
fuori di tali contesti, e le società prive di tale connotato
- le società con titolarità diffusa solo presso i privati e le società le cui partecipazioni sono,
interamente o parzialmente, in mano pubblica.
I privati possono prevedere particolari clausole statutarie, in molte direzioni. Sotto alcuni profili le disciplina
di ogni SPA possono essere diverse. L’ART. 2325 BIS CC enuclea la categoria delle società che fanno ricorso al
mercato del capitale di rischio: SPA destinatarie di una particolare disciplina, dovuta al fatto che le azioni
sono quotate in mercati regolamentato o diffuse in misura rilevante. C’è un impianto normativo articolato,
in cui si distingue un regime comune a tutte le SPA, indipendentemente dalla presenza nei mercati delle
proprie azioni, e due statuti speciali: uno riferito alle società facenti ricorso al mercato del capitale di rischio,
un altro riferito a tutte le altre società.
Tra le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio peculiari sono le società con azioni
quotate nei mercati regolamentati. Per questo esse hanno una disciplina speciale, in gran parte contenuta
nel TUF. La peculiarità di tale disciplina è riflesso del pieno posizionamento degli strumenti finanziari emessi
dalla SPA, tra cui le azioni, in un dato mercato: il prezzo delle azioni incorpora il valore assegnato in quel
preciso contesto alla SPA emittente, come emergente dalle informazioni diffuse, adeguatamente
interpretate dagli operatori e riflesse nei listini. Accanto alle regole che adeguano al diverso contesto i
meccanismi di partecipazione del socio alla vita amministrativa (i diritti di voice), vi sono istituti che tutelano
il diritto dell’azionista all’adeguata valorizzazione dell’investimento in sede di circolazione e quindi,
soprattutto, al momento della finale alienazione (diritti di exit): tale vicenda, oltre che come momento di
monetizzazione per l’alienante dell’investimento operato, è un possibile innesco (nell’ipotesi di passaggio del
controllo) di un meccanismo di ricambio manageriale e indiretta sollecitazione di un’efficiente gestione.

LA SOCIETÀ UNIPERSONALE Una situazione opposta a quella della società a compagine azionaria dispersa
e frammentata, è quando tutte le azioni appartengono, originariamente o per effetto di acquisti operati nel
corso dell’attività, a un’unica persona, che detiene così una partecipazione totalitaria nella società. Il
legislatore ammette espressamente (in coerenza con l’accentuazione della connotazione della SPA quale
sistema di organizzazione d’impresa) che si possa svolgere un’attività lucrativa nella forma di SPA
unipersonale, sin dal momento della costituzione (per atto unilaterale: ART. 2328, CO. 1 CC) e senza che sia
necessario sciogliere l’ente (al contrario di quanto accade nelle società di persone). Inoltre, a carico dell’unico
socio non sorge alcuna responsabilità aggiuntiva rispetto a quella ordinaria, legata al conferimento. Se nella
società c’è un solo azionista, su questo e sugli amministratori gravano specifici oneri, sia in tema di
conferimenti sia in ambito pubblicitario. Per quanto riguarda i conferimenti, l’azionista è sempre obbligato a
prestare da subito l’intero apporto cui si sia impegnato con la sottoscrizione del capitale sociale. In
particolare, ex ART. 2342, CO. 2 CC già alla sottoscrizione dell’atto costitutivo va versato presso una banca
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tutto l’ammontare dei conferimenti in denaro. Ciò mentre rimane fermo l’obbligo generale di realizzare
immediatamente gli apporti in natura, ove siano oggetto di conferimento. Quando invece la partecipazione
del socio diviene totalitaria successivamente alla costituzione, gli eventuali versamenti in denaro ancora da
questi dovuti dovranno essere effettuati entro 90 giorni (ART. 2342, CO. 4 CC). Per quanto riguarda
l’informazione dei terzi del fatto che la società è unipersonale, gli amministratori devono rendere pubblica la
circostanza (ART. 2362 CC) dell’esistenza di un unico socio, col deposito presso il registro delle imprese di
un’apposita dichiarazione, contenente l’indicazione delle generalità dell’azionista (cognome e nome o
denominazione sociale, data e luogo di nascita o di costituzione, domicilio o sede e cittadinanza del socio).
Quando si costituisce o ricostituisce la pluralità dei soci, gli amministratori ne devono depositare apposita
dichiarazione presso il registro delle imprese (ART. 2362, CO. 2 CC). In caso di inerzia degli amministratori alla
pubblicità in parola può provvedere anche l’unico socio. Solo se tali adempimenti vengono rispettati, si può
applicare il regime di responsabilità esclusiva della società col proprio patrimonio sociale per le obbligazioni
insorgenti dalla propria attività. Quando i conferimenti non sono stati effettuati secondo quanto previsto
dall’ART. 2342 CC o fin quando non è stata attuata la pubblicità prescritta dall’ART. 2362 CC, in caso di
insolvenza della società, per le obbligazioni sociali sorte nel periodo in cui le azioni sono appartenute ad una
sola persona, questa risponde illimitatamente (ART. 2325, CO. 2 CC).
La responsabilità illimitata dell’unico socio scatta solo in caso di insolvenza della società. È una
responsabilità sussidiaria, suscettibile di insorgere solo quando la SPA non adempie le proprie obbligazioni e
solo se si rivela infruttuosa l’escussione del relativo patrimonio. Un tale gravame di fatto si fa valere nel caso
di fallimento della SPA, tuttavia in tale caso al socio (contrariamente a quanto avviene in caso di insolvenza
delle società di persone) non può essere estesa la dichiarazione di fallimento quale conseguenza del
fallimento della società. A salvaguardia degli equilibri patrimoniali connessi all’agire della società nei riguardi
dei terzi c’è l’ART. 2362, CO. 5 CC, relativo a quando lo svolgimento dell’attività determina l’instaurarsi di
rapporti contrattuali tra la SPA e il suo unico socio. Per evitare manovre fraudolente dell’unico socio ai danni
dei creditori, aggirando la garanzia generica dei creditori della SPA rappresentata dal patrimonio della stessa,
“i contratti delle società con l’unico socio o le operazioni a favore dell’unico socio sono opponibili ai creditori
della società solo se risultano dal libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio di amministrazione o
da atto scritto avente data certa anteriore al pignoramento”.

LA COSTITUZIONE DELLA SPA E LE ALTRE VICENDE DELL’ORGANIZZAZIONE

Le norme sulla SPA disciplinano una complessa organizzazione, destinata alla raccolta e all’impiego
combinato di risorse produttive. La SPA va guardata come un sistema di norme intese a stabilire le modalità
di utilizzo combinato di risorse destinate alla produzione. Il momento iniziale della vicenda negoziale SPA è
la costituzione della società. A tal fine non è sufficiente la stipula di un contratto o il perfezionamento di un
atto unilaterale, ma che si instauri e si completi un procedimento che, muovendo dalle manifestazioni di
volontà dei fondatori (raccolte attraverso una procedura di mercato) e passando attraverso una fase di
controllo, culmina con l’iscrizione nel registro delle imprese, a partire dalla quale la società acquista la
personalità giuridica e viene ad esistenza. L’atto che contiene la volontà dei fondatori di dare vita alla società
e ne determina gli elementi essenziali è l’atto costitutivo. Assieme ad esso vanno fissate le regole dello
statuto, cioè quelle previsioni relative allo svolgimento dell’attività e concernenti la questione del come
l’organizzazione societaria potrà funzionare. Costituita la SPA, l’assetto organizzativo non rimane
necessariamente cristallizzato nelle regole immaginate da promotori o soci fondatori, ma è revisionabile e
integrabile in vista degli scopi sociali, tra cui in primis valorizzare al meglio l’investimento operato dagli
azionisti. Lo statuto è pertanto modificabile. Sono previsti termini e condizioni generali per modificare lo
statuto e poi c’è una speciale normativa per i casi in cui la variazione attiene al capitale sociale, in relazione

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al suo aumento o alla sua riduzione. Un’ulteriore normativa è prevista per specifiche alterazioni degli originari
assetti organizzativi: trasformazione, fusione e scissione.

LA COSTITUZIONE DELLA SPA La nascita della persona giuridica societaria, e dunque la costituzione
della SPA, avviene attraverso due passaggi: la definizione e attestazione dei fondamentali elementi formali e
sostanziali della società in un atto costitutivo, e la pubblicità dell’avvenuta costituzione della SPA. La
pubblicità ha una particolare efficacia costitutiva.

L’ATTO COSTITUTIVO E LO STATUTO: I CONTENUTI La SPA può essere costituita per contratto o per atto
unilaterale (ART. 2328, CO. 1 CC). La società può quindi derivare da un negozio unilaterale ed essere, sin
dall’origine, unipersonale. La costituzione però può anche avvenire per contratto: in questo caso le regole
previste nel CC sui contratti in generale si applicheranno solo per la fase in cui il rapporto sociale si costituisce
inizialmente, quando frutto di un accordo tra più parti; una volta iscritta la SPA, e formatasi un’organizzazione
persona giuridica, tendenzialmente si applicheranno solo le norme specificamente dirette alla SPA.
Affinché sorga la società è necessario che il socio o i soci fondatori redigano un atto costitutivo, i cui
contenuti si ricavano dall’ART. 2328, CO. 2 CC:
A le caratteristiche dell’attività che verrà esercitata con l’organizzazione sociale (ART. 2328, CO. 2,
NN. 2, 3, 4 e 13 CC). Devono specificarsi denominazione e sede, oggetto, capitale e durata della società. Si
tratta di profili che disegnano l’ente societario, la sua conformazione base e quindi l’oggetto sostanziale
dell’investimento azionario. Tali elementi sono essenziali, irrinunciabili ex lege (tranne la durata), previsti
dall’ART. 2332 CC a pena di nullità della società. La denominazione sociale è l’indicazione utilizzata dalla SPA
nei rapporti esterni ai fini della formale imputazione dell’attività esercitata ed essa può essere liberamente
formata purché compaia la qualificazione di “società per azioni” (es. F.lli Rossi s.p.a.). La sede è il luogo dove
operano stabilmente gli amministratori e i vertici delle società e per la sua indicazione è sufficiente precisare
il comune della sede (non è obbligatorio specificare il preciso indirizzo), ma nell’atto costitutivo si devono
dichiarare (ART. 2328, CO. 2, N. 2 CC) anche eventuali sedi secondarie della società. Le società di nuova
costituzione deve indicare, all’iscrizione nel registro delle imprese, anche la cd. sede elettronica, ossia
l’indirizzo PEC. Quanto all’oggetto, bisogna precisare il genere di attività da svolgere. La durata della società
può anche essere indeterminata. Infine, il capitale sociale sottoscritto e versato rientra anche tra le
condizioni (materiali) per la costituzione della società.
B il numero e le caratteristiche delle azioni e della loro emissione, il valore attribuito a crediti e
conferimenti in natura e le norme secondo cui gli utili devono essere ripartiti, i benefici eventualmente
accordati ai promotori o ai soci fondatori, l’importo globale (almeno approssimativo) delle spese per la
costituzione poste a carico della società (ART. 2328, CO. 2, NN. 5, 6, 7, 8 e 12 CC). A tali regole si aggiungono
poi quelle, eventuali, concernenti l’emissione di strumenti finanziari (ART. 2346, CO. 6 CC) e di obbligazioni
(ART. 2410 CC). Tali clausole sono relative all’attività d’impresa se concernono la sua struttura finanziaria.
Tali previsioni caratterizzano l’attività comune su un piano dinamico, poiché incidono sui modi di
approvvigionamento delle risorse da parte della società o sul relativo conto economico. L’inserimento da
parte dei soci nell’atto costitutivo di molte di tali clausole è eventuale: o perché la legge detta un regime di
base al riguardo (come nel caso degli utili) o perché tali previsioni sono legate a presupposti sostanziali che
possono mancare (es. non si stabiliscono benefici particolari per soci e promotori e non si prevede di
addossare alla società spese iniziali). I benefici per promotori e soci fondatori vanno limitati entro il decimo
degli utili netti di bilancio e possono essere accordati per massimo 5 anni.
C previsioni che incidono sulla struttura di governo della società e che determinano a quali soggetti
e, tra essi, con quale ordine di rapporti spetta stabilire come le risorse investite o altrimenti reperite verranno
gestite per realizzare al meglio l’attività comune. Vanno indicati quindi il sistema di amministrazione

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adottato, quantità e poteri degli amministratori e il numero dei componenti dell’organo di controllo (ART.
2328, CO. 2, NN. 9 e 10 CC). Anche le previsioni relative alle azioni attengono a tale area (oltre a quella della
struttura finanziaria), poiché dal relativo possesso discende l’assunzione della qualità di socio e la
partecipazione all’assemblea, organo fondamentale ineliminabile in ogni SPA. Si aggiungono poi le previsioni
riguardanti l’individuazione nominativa dei soci fondati e dei primi soggetti incaricati della gestione della
società e del relativo controllo (ART. 2328, CO. 2, NN 1 e 11 CC), ma sono indicazioni che identificano
l’organizzazione sociale solo inizialmente e poi vengono soppiantate per l’avvicendamento di soci e relativi
fiduciari nella società. Dalla riforma del 2003 è possibile scegliere tra tre diversi sistemi di amministrazione,
tuttavia, in assenza di diversa indicazione, il modello di conduzione della società che si intenderà adottato
sarà ex ART. 2380 CC quello tradizionale: l’assemblea dei soci elegge un consiglio di amministrazione, quale
organo di gestione, e un collegio sindacale, quale organo di controllo.
Lo statuto contiene le norme relative al funzionamento della società (ART. 2328, CO. 3 CC), ossia le
regole su emissione e circolazione delle azioni e le procedura sul funzionamento degli organi sociali. La
concreta predisposizione di clausole statutarie (tali perché riguardano il funzionamento della società) non è
strettamente necessaria, in quanto la legge spesso interviene con apposite previsioni: queste ultime, però, a
volte hanno carattere dispositivo e quindi sono derogabili; inoltre i privati spesso integrano il CC con
disposizioni aggiuntive per meglio venire incontro a una domanda di investimento diversificata. Nella prassi
è frequente la clausola statutaria compromissoria, con cui viene prevista la devoluzione ad arbitri delle
controversie insorgenti tra soci, o tra la società e gli amministratori.
Quanto ai rapporti tra statuto e atto costitutivo, lo statuto, anche se oggetto di atto separato,
costituisce parte integrante dell’atto costitutivo (ART. 2328, CO. 3 CC): atto costitutivo e statuto concorrono
insieme a comporre le regole dell’organizzazione, l’uno completando l’altro. Nella prassi lo statuto spesso
contiene non solo le regole di funzionamento dell’organizzazione, ma anche i suoi elementi identificativi
(ammontare del capitale, durata della società, etc.). In obbedienza ad un principio di prevalenza delle norme
organizzative (riguardanti l’oggettivo prodursi dell’attività) su quelle dispositive (concernenti la modifica
delle sfere soggettive dei soci), in caso di contrasto tra le clausole dell’atto costitutivo e quelle dello statuto,
prevalgono quelle dello statuto.

LA FORMA DELL’ATTO COSTITUTIVO. IL CONTROLLO NOTARILE L’atto costitutivo deve essere redatto per atto
pubblico (ART. 2328, CO. 2 CC). Ciò soddisfa due esigenze: 1 certifica la dichiarazione privata con cui viene
fondata la SPA e vengono destinati i conferimenti a capitale, rendendosi così tale dichiarazione non
contestabile, 2 il notaio può verificare l’effettiva conformità a legge delle regole formate. Il notaio ha una
funzione di controllo, egli ha il divieto di ricevere atti espressamente proibiti dalla legge o manifestamente
contrari al buon costume o all’ordine pubblico. La forma notarile deve essere osservata anche per lo statuto.

LE CONDIZIONI PER LA COSTITUZIONE Per costituire la SPA devono rispettarsi 3 condizioni (ART. 2329 CC).
La SPA è un’organizzazione di mezzi, pertanto tali mezzi devono essere materialmente parzialmente
predisposti già al momento dell’inizio dell’attività sociale.
1 il capitale sociale deve essere sottoscritto per intero. È il principio di effettività in senso lato del
capitale. L’intera dotazione di mezzi di rischio, statutariamente destinata al servizio degli scopi sociali, deve
essere oggetto di un impegno individuale al riguardo da parte dei soci: il capitale della società non è un mero
programma, ma un’entità reale ed attuale. Ciò può dirsi (ART. 2329, N. 1 CC) solo se da subito consti
l’assunzione, da parte dei soci, di un vincolo giuridicamente rilevante al suo integrale apporto, nella misura
corrispondente alla cifra del capitale sociale statutariamente adottato.
2 devono rispettarsi gli ARTT. 2342, 2343 e 2343 TER CC relativi ai conferimenti. Sono regole di
effettività in senso stretto e di integrità del capitale sociale reale. La società deve avere immediatamente la

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disponibilità sicura di almeno parte (il 25% dei conferimenti in denaro e la totalità dei conferimenti diversi)
delle risorse ad essa destinate ed il loro valore deve corrispondere interamente alla cifra del capitale
sottoscritto (al cd. valore nominale). Così si soddisfa l’esigenza di solidità della dotazione finanziaria della
società, soprattutto in vista del raggiungimento di un equilibrio economico-finanziario nei rapporti con i
creditori e il mercato.
3 devono esserci le autorizzazioni e le altre condizioni richieste dalle leggi speciali per la costituzione
della società, in relazione al suo particolare oggetto. Per la speciale rilevanza dell’attività da esercitarsi lo
svolgimento di essa è subordinata al rilascio di apposite autorizzazioni, provenienti da soggetti pubblici (es.
per l’attività bancaria la costituzione della società è subordinata alla preventiva autorizzazione di Banca
d’Italia). Tale formalità concerne però solo quelle autorizzazioni che devono intervenire prima della stipula
dell’atto costitutivo (o almeno prima dell’iscrizione della società nel registro delle imprese). Fuori dall’ambito
applicativo della disposizione, l’avvallo amministrativo va richiesto solo affinché possa iniziare l’esercizio
dell’attività in cui consiste l’oggetto sociale: anche se poiché l’autorizzazione sarà comunque legata a requisiti
discendenti dalla formulazione dell’atto costitutivo, questi devono comunque essere presenti alla stipula o
all’scrizione, pena il rischio di costituire una società destinata a non poter operare.

LE MODALITÀ DI COSTITUZIONE ISTANTANEA E PER PUBBLICA SOTTOSCRIZIONE Il CC prevede due procedimenti:


1 la costituzione istantanea, la più immediata e diffusa nella prassi. I contenuti dell’organizzazione
vengono decisi istantaneamente dai sottoscrittori del capitale sociale, quali soci fondatori, al momento della
stipula dell’atto costitutivo presso il notaio. Sono contestuali la determinazione del programma di attività, la
sua adozione da parte degli investitori destinando ad esso i conferimenti tramite le sottoscrizioni e la formale
volontaria costituzione dell’organizzazione.
2 la costituzione per pubblica sottoscrizione, che però ha scarso successo nella prassi. Le fasi di
programma, sottoscrizioni, formulazione di atto costitutivo e statuto, stipula finale possono avvenire in
momenti diversi. Le sottoscrizioni devono essere sollecitate presso il pubblico, dunque tra investitori
sconosciuti e non spontaneamente mossi a concorrere all’iniziativa. I promotori devono poi presentare un
progetto di SPA (programma) invitando gli interessati ad aderirvi ed a sottoscrivere quote di capitale, in modo
che, quando l’obiettivo programmato, in termini di risorse da raccogliere, verrà raggiunto, si perverrà alla
stipulazione dell’atto costitutivo fra gli aderenti

L’ISCRIZIONE NEL REGISTRO DELLE IMPRESE E LE OPERAZIONI PRIMA DELL’ISCRIZIONE Affinché il procedimento di
costituzione della SPA si completi è necessario che si iscriva la società nel registro delle imprese. Il notaio che
ha ricevuto l’atto costitutivo deve depositarlo entro 20 giorni presso l’ufficio del registro delle imprese nella
cui circoscrizione è stabilita la sede sociale (ART. 2330 CC). Al deposito vanno allegati i documenti
comprovanti la sussistenza delle condizioni previste dall’ART. 2329 CC. Là dove il notaio, o gli amministratori,
nel termine stabilito non provvedano al deposito, tale formalità può effettuarsi a cura di ciascun socio.
Contestualmente al deposito si deve presentare la richiesta di iscrizione, su cui l’ufficio del registro effettua
un mero controllo di regolarità formale della documentazione (ART. 2330, CO. 3 CC): ove l’esito risulterà
positivo, l’ufficio iscriverà la società nel registro. Una volta iscritta la SPA acquista la personalità giuridica
(ART. 2331, CO. 1 CC). La pubblicità ha un rilievo costitutivo, ossia determinante per la produzione degli effetti
dell’atto. L’atto costitutivo e lo statuto divengono efficaci solo in quel momento: a partire da questo le
clausole statutarie rileveranno quali parametri da cui dipenderà la validità degli atti interni dell’assemblea e
degli amministratori, ai fini dell’esistenza dell’ente societario quale soggetto suscettibile di entrare in
rapporto con i terzi. C’è il divieto di emettere azioni prima dell’iscrizione (ART. 2331, ULTIMO COMMA CC).
All’iscrizione nel registro delle imprese è quindi legata l’applicazione delle norme di elegge e statutarie
dettata a proposito della vita della SPA.

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Vediamo ora quali sono gli effetti prodotti dalla stipula dell’atto costitutivo nel periodo
antecedente l’iscrizione, periodo nel quale spesso la preparazione dell’inizio dell’operatività della società
impone di instaurare rapporti non rinviabili. Infatti, nell’atto costitutivo va indicato l’importo globale, almeno
approssimativo, delle spese per la costituzione poste a carico della società (ART. 2328, CO. 2, N. 12 CC). Dalla
stipulazione dell’atto costitutivo si produce un irrevocabile vincolo dei sottoscrittori ai conferimenti: tale
vincolo potrà sciogliersi (col diritto dei sottoscrittori alla restituzione delle somme versate) solo se entro 90
giorni dalla redazione dell’atto costitutivo l’iscrizione non abbia avuto luogo (ART. 2331, CO. 4 CC).
Quanto al rilievo, degli atti compiuti in nome della SPA prima dell’iscrizione, sulla sfera soggettiva di
coloro che partecipano alla fase di costituzione della SPA, sono illimitatamente e solidalmente responsabili
verso i terzi coloro che hanno agito (ART. 2331, CO. 2 CC). Alla responsabilità di questi soggetti si aggiunge: 1
quella del socio unico fondatore e di quelli tra i soci che hanno deciso, autorizzato o consentito il compimento
dell’operazione, 2 in caso di costituzione a formazione successiva, quella dei promotori, relativamente alle
obbligazioni assunte per costituire la società (ART. 2338 CC).
In relazione a se, e a quali presupposti, i comportamenti precedenti all’iscrizione possano produrre
effetti in capo alla società, una volta costituita l’ART. 2331, CO. 3 CC si limita a dire che la società è
responsabile se, in seguito all’iscrizione, ha approvato un’operazione compiuta precedentemente a tale
momento, essendo tenuta a rilevare coloro che hanno agito. Lo stesso obbligo la società lo assume nei
confronti dei promotori, in relazione alle spese da essi sostenute, ma solo se sono state necessarie per la
costituzione dell’assemblea (ART. 2338 CC).
Nonostante vi sia ancora un dibattito a riguardo, si ritiene che già nella fase anteriore all’iscrizione
nel registro delle imprese esista comunque una fattispecie configurabile come società (cd. società in
formazione), se pur priva della capacità, dell’autonomia patrimoniale e dei tratti tipici di una compiuta SPA.
Già prima dell’iscrizione infatti è identificabile un interesse sociale e sono identificabili soggetti (quelli indicati
nell’atto costitutivo) con il compito di curarne il perseguimento. Pertanto, una volta costituita nella sua
pienezza con l’iscrizione nel registro delle imprese, la società dovrà ratificare quegli atti che, concretamente
posti in essere da questi soggetti, risultino rispondenti a tale interesse. Per effetto dei principi generali di
diritto societario, questa società in formazione è disciplinata, per i rapporti tra i soci o per le parti non
espressamente regolate dagli ARTT. 2330 e 2331 CC, dalle norme in tema di società semplice (es. le operazioni
non procrastinabili e necessario potranno essere poste in essere dai singoli amministratori). La tradizione
obiezione che la costituzione di una società personale non sarebbe voluta dai soci è superabile rilevando che
ai soci viene fatto costituire proprio quel che hanno voluto, ossia una SPA, fungendo la società semplice solo
da piattaforma disciplinare cui attingere in caso di lacune.

LE MODIFICAZIONI DELLO STATUTO: LA FATTISPECIE DELLE MODIFICHE DELLO STATUTO Dopo la


costituzione può essere opportuno modificare l’assetto regolamentare originario della SPA. Trattandosi di
un’organizzazione formulata in regole che devono servire a raggiungere determinati obiettivi, è plausibile
che nel tempo le clausole statutarie diventino inefficienti e quindi devono essere modificate, soppresse,
sostituite o affiancate da ulteriori clausole, che rispondono meglio al nuovo bisogno rinvenuto nel mercato.
Ciò può riguardare sia le clausole dello statuto in senso stretto, ossia quelle direttamente relativo al
funzionamento dell’apparato organizzativo, se non più idonee a consentire all’apparato di svolgere il proprio
compito, sia le regole dell’atto costitutivo che identificano la società (es. la clausola che individua la sede).
Tuttavia, poiché, una volta costituita la società, i suoi elementi essenziali e le regole di funzionamento
formano un’unica carta fondamentale che regole la vita e l’operare dell’organizzazione, il legislatore
ricomprende nelle modificazioni dello statuto sia le variazioni dello statuto in senso stretto sia quelle degli
elementi dell’atto costitutivo, prevedendo una generale disciplina (ART. 2436 CC). D’altra parte nella prassi il
documento redatto come statuto riproduce anche gli elementi essenziali identificativi della società.
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Posta la distinzione della persona societaria rispetto ai suoi azionisti, le modifiche statutarie sono
affidate alla competenza degli organi sociali (mentre nelle società di persone vale la regola dell’unanimità
dei consensi dei soci). Data la loro rilevanza organizzativa, esse sono sottoposte alla generale competenza
dell’assemblea straordinaria, operante con la regola della maggioranza (ARTT. 2368 e 2369 CC), tranne nel
caso della riduzione del capitale per perdite, per cui è competente l’assemblea ordinaria o (nelle società
soggetto al cd. sistema dualistico) il consiglio di sorveglianza (e in caso di inerzia di tali due organi, è
competente il tribunale). La legge consente che nello statuto sia prevista l’attribuzione o una delega della
competenza all’organo amministrativo o anche, nel caso delle società che adottano il sistema dualistico di
amministrazione e controllo, al consiglio di sorveglianza.

IL PROCEDIMENTO Le modificazioni dello statuto rientrano nella generale competenza dell’assemblea


straordinaria dei soci, la quale delibera con i normali quorum costitutivi e deliberativi previsti per lei, salve
specifiche previsioni stabilite per particolari materie. Le nuove regole statutarie, una volta deliberate,
possono essere adottate solo nell’osservanza di alcuni vincoli formali. La delibera di modifica deve essere
iscritta presso il registro delle imprese (ART. 2436 CC). È il notaio che ha verbalizzato la decisione che fa la
richiesta di iscrizione, accompagnata dal deposito dell’atto assembleare e allegando le eventuali
autorizzazioni richieste. Tuttavia, il notaio, prima del deposito, deve verificare l’adempimento delle
condizioni stabilite dalla legge (ART. 2436, CO. 1 CC), quindi opera un controllo sul rispetto delle norme, ossia
verifica il rispetto delle disposizioni imperative concernenti tanto il procedimento di formazione della
delibera quanto i relativi contenuti.
Se la verifica del notaio dà esito negativo, questi deve comunicarlo tempestivamente (e comunque
non oltre 30 giorni dopo la verbalizzazione della delibera) agli amministratori, che hanno 30 giorni per
scegliere tra A convocare l’assemblea per gli opportuni provvedimenti, in modo da valutare l’eventualità di
assumere una nuova decisioni che superi le critiche del notaio, oppure B ricorrere al tribunale, affinché, dopo
aver verificato la sussistenza delle condizioni di legge, ordini l’iscrizione nel registro delle imprese con decreto
soggetto a reclamo. Se gli amministratori, ricevuta la comunicazione negativa proveniente dal notaio, non
fanno nulla, trascorsi i 30 giorni dalla comunicazione, la deliberazione è definitivamente inefficace (ART.
2436, CO. 3, ULTIMA FRASE CC).
Se l’organo di gestione opta per il ricorso al tribunale, si apre il cd. procedimento di omologazione,
oggi previsto solo in via residuale per il caso in cui, nonostante l’esito negativo della verifica notarile in ordine
alla decisione di modifica, la società insista per l’iscrizione perché reputa infondati i rilievi del notaio. In
questo caso, il tribunale emette un decreto avente ad oggetto il controllo di conformità a legge della
deliberazione di modifica (è escluso un sindacato di merito sulla decisione dei soci). Il collegio deve limitarsi
a valutare se l’assunzione della delibera e i suoi contenuti, inseriti anche nel contesto generale delle previsioni
dello statuto, comportino o meno un contrasto con disposizioni imperative.
Se il controllo notarile o giudiziale dà esito positivo, l’ufficio del registro delle imprese, dopo aver
verificato la regolarità formale della documentazione, procede all’iscrizione. In seguito all’iscrizione, la
delibera di modificazione dello statuto produce effetti (ART. 2436, CO. 5 CC). Il deposito presso il registro
delle imprese, da effettuare dopo ogni modifica dello statuto, del testo integrale nella sua redazione
aggiornata, ha invece una mera efficacia di pubblicità notizia (ART. 2436, ULTIMO COMMA CC).

LA NULLITÀ DELLA SPA Nel mercato vige un’esigenza di certezza dell’azione della SPA. Sotto il profilo
della circolazione della ricchezza, occorre che gli scambi nei confronti dei terzi siano sicuri, mentre sotto il
profilo della produzione della ricchezza, occorre che le risorse messe a servizio dell’attività comune siano
definitivamente acquisite e legittimamente utilizzabili dalla società. La nascita di un vincolo societario
comporta la realizzazione di un programma avente ad oggetto la modifica del patrimonio dei soci, in quanto

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parti del contratto (tale modifica si determina tuttavia, mediante attribuzioni tra soci e società, sia all’inizio
del programma di investimento con i conferimenti sia al termine di ogni esercizio con la percezione degli utili
da parte dei soci), e ciò avviene nell’ambito dello svolgimento di una più generale vicenda economica (ossia
riguardante la produzione e distribuzione di ricchezza) che rileva nei confronti dei terzi e del mercato. Per
realizzare questo processo economico occorre garantire la certezza dell’organizzazione azionaria: solo così
saranno sicuri sia gli scambi operati nel mercato con la SPA sia gli investimenti destinati ad essa. Occorre
garantire preventivamente che l’esistenza della società sia conoscibile ed incontrovertibile, con i suoi
elementi identificanti e le sue regole statutarie, e che tali elementi e regole siano conformi a legge (ecco
perché la legge individua tipicamente il contenuto dell’organizzazione, le clausole essenziali di atto
costitutivo e statuto, la relativa creazione e modifica e il controllo notarile e la pubblicità).
L’ART. 2332 CC individua le tassative cause di nullità della SPA, ossia quei soli casi di contrarietà alla
legge che giustificano una dichiarazione d’invalidità della società:
1 mancata stipulazione dell’atto costitutivo nella forma dell’atto pubblico,
2 illiceità dell’oggetto sociale,
3 mancanza nell’atto costitutivo di ogni indicazione riguardante la denominazione della società, o i
conferimenti, o l’ammontare del capitale sociale o l’oggetto sociale.
La violazione della maggior parte delle norme previste in tema di costituzione della SPA, nonostante siano
imperative, è irrilevante sul piano dell’invalidità. La disciplina si applica ai vizi in genere comportanti la nullità
in senso tecnico di un atto negoziale, ma anche a tutti i casi in cui potrebbe teoricamente discorrersi di
annullabilità o di inefficacia dell’atto costitutivo (es. una SPA non potrà mai essere annullata, invocando il
vizio della volontà o dell’incapacità di uno dei soci, la cui partecipazione sia stata determinante per il consenso
degli altri). Se si accerta la nullità, la dichiarazione di nullità della SPA è per legge caratterizzata
dall’irretroattività dei relativi effetti. L’iscrizione della SPA nel registro delle imprese ne comporta la validità
dell’azione fino alla dichiarazione giudiziale di nullità: ai fini della validità degli atti compiuti da una SPA si
prescinde dal fatto che l’atto costitutivo originario fosse stato stipulato a sua volta in modo conforme alle
regole che ne dovevano costituire il presupposto (sia sostanziale sia procedimentale). “La dichiarazione di
nullità non pregiudica l’efficacia degli atti compiuti in nome della società dopo l’iscrizione nel registro delle
imprese” (ART. 2332, CO. 2 CC), quindi, se sono stati accertati vizi di nullità della SPA, nessuna pretesa
restitutoria potrà essere fondata nei confronti degli eventuali terzi. “I soci non sono liberati dall’obbligo di
conferimento fino a quando non sono soddisfatti i creditori sociali” (ART. 2332, CO. 3 CC): l’impegno
formalmente assunto dal socio sottoscrivendo il capitale sociale, pure se relativo ad una società nulla, deve
essere efficace e irretrattabile, poiché solo così l’azione sociale sarà definitiva e incontestabile. L’esigenza di
certezza dell’azione sociale non può spingersi fino a comportare che una SPA, rispetto alla quale si siano
accertati vizi di nullità, possa continuare la sua attività: il programma societario non è più degno di
riconoscimento e tutela. La conseguenza del manifestarsi di una nullità è la liquidazione: “la sentenza che
dichiara la nullità nomina i liquidatori”. La nullità è quindi un altro (insieme a quelli previsti dall’ART. 2484
CC) motivo di scioglimento del rapporto sociale e conseguente estinzione della SPA. Infine, una SPA colpita
da un vizio di nullità è suscettibile di convalida: la nullità non può essere dichiarata “quando la causa di essa
è stata eliminata e di tale eliminazione è stata data pubblicità con l’iscrizione nel registro delle imprese”
(ART. 2332, CO. 5 CC).
Per gli aspetti su cui l’ART. 2332 CC non interviene, la SPA nulla è soggetta alle regole generali sulla
nullità contrattuale. L’azione di nullità della SPA è infatti imprescrittibile (ART. 1442 CC) e ha legittimazione
ad esercitare tale azione chiunque ne abbia interesse (ART. 1421 CC).
Alcuni principi generali in tema di contratto, però, sono applicabili nei limiti della compatibilità con
la disciplina dell’ART. 2332 CC: se si ha una nullità parziale, ossia risulta viziata – contraria a norme imperative
– non l’intero atto costitutivo, ma solo una clausola statutaria (es. la clausola priva il socio del diritto di
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recesso nei casi in cui questo gli è inderogabilmente riconosciuto dalla legge), tale clausola teoricamente
potrebbe essere dichiarata nulla, ma la tassatività delle cause di nullità prevista dall’ART. 2332 CC impedisce,
anche se la clausola è determinante del consenso dei soci fondatori, che la sua invalidità possa provocare
l’invalidità dell’intero atto costitutivo e quindi la nullità della società. Oppure, supponiamo sia invalida una
singola partecipazione. Fermo restando che tale invalidità non potrebbe mai provocare quella della società
(sempre per la tassatività delle cause di nullità), nonostante manchi una previsione legislativa esplicita a
riguardo, si ritiene che i vizi generalmente comportanti la nullità o l’annullabilità (es. i vizi della volontà) di
un atto negoziale rilevano anche in relazione al caso della stipula dell’atto costitutivo di SPA (es. il
fondatore il cui consenso è stato estorto con violenza potrebbe chiedere l’annullamento della sua
partecipazione). Però l’eventuale accertamento dell’invalidità non potrà avere effetto retroattivo, dovendo
garantire ai creditori l’effettività dell’impegno finanziario comunque assunto dal socio. Per effetto della
sentenza di annullamento al socio spetterà il rimborso in denaro di una quota di liquidazione pari al valore
attuale della sua partecipazione.
Anche le modifiche statutarie possono presentare vizi. Non c’è a riguardo un’apposita disposizione,
la disciplina di riferimento è quella relativa all’invalidità di tutte le delibere assembleari (ARTT. 2377 e SS. CC),
comprese tra quest’ultime anche quelle incidenti sull’esercizio dell’attività della SPA. I casi in cui una modifica
statutaria può essere nulla coincidono con le ordinarie cause di invalidità delle delibere. Tale disposizione va
però integrata con altre riferite a speciali casi di modifiche statutarie complesse (aumento e riduzione del
capitale sociale, trasformazione, fusione e scissione), dove è preclusa la possibilità di far dichiarare l’invalidità
dopo aver completato il procedimento di iscrizione delle modifiche nel registro delle imprese. Quanto alle
conseguenze dell’eventuale pronuncia di invalidità di una delibera assembleare produttiva di una modifica
dello statuto si applicano, analogicamente o estensivamente, le norme dettate in tema di nullità originaria
della SPA (es. gli atti compiuti dai consiglieri di gestione nominati dopo una modifica del sistema di
amministrazione, che da tradizionale è passato a dualistico, e la modifica è stata dichiarata nulla, sono
comunque validi, a prescindere dal fatto che i terzi fossero o meno in buona fede).

I PATTI PARASOCIALI Le clausole statutarie compongono la struttura dell’organizzazione sociale,


formulano le regole concernenti l’attività comune. Con lo statuto i soci definiscono le regole che
sovraintendono le modalità di realizzazione dell’interesse sociale. Lo statuto regola anche la posizione
dell’azionista, considerato in quanto socio, disciplinando i suoi diritti che compongono la partecipazione
sociale. Con i diritti e i poteri che l’ordinamento societario (legge e statuto) gli attribuisce, il socio è libero di
determinarsi nel loro esercizio (es. può decidere di partecipare o meno alle assemblee, può votare a favore
o contro una proposta, può impugnare o meno una delibera, etc.). Gli azionisti potrebbero avere interesse a
definire tra loro vincoli ai propri comportamenti in società per meglio coordinare la propria azione e
assicurarsi così reciprocamente la conservazione e la valorizzazione del singolo investimento azionario. A tal
fine sono diffusi nella prassi accordi che si affiancano allo statuto nella regolamentazione delle posizioni
degli azionisti (sono chiamati “patti parasociali”, poiché presuppongono la qualità di socio dei soggetti che vi
partecipano o le cui prerogative vengono regolate). Sono accordi negoziali, stipulati tra tutti o parte dei soci,
i quali si impongono agli stessi determinati vincoli in relazione all’esercizio dei poteri amministrativi (es. si
impegnano a votare come verrà loro indicati da un consulente designato nel patto) o limiti alla libera facoltà
di disporre delle azioni. Così facendo i soci si premuniscono contro il rischio di alterare gli equilibri di potere
esistenti tra loro in un certo momento e a volte si garantiscono determinati benefici. Vengono stipulati nel
contesto di operazioni di investimento in società, che prevedono l’ingresso di nuovi soci nella SPA, o tra i
membri della famiglia che detiene le partecipazioni di controllo, o nelle grandi società (es. società quotate,
tra gli azionisti di riferimento che, pur detenendo singolarmente quote modeste di capitale, insieme possono
coordinarsi reciprocamente e garantirsi una comune stabile posizione di controllo sulla società).
83
Tali negozi non hanno una causa societaria, poiché non hanno l’obiettivo di perseguire uno scopo
lucrativo comune, bensì di proteggere l’investimento operato da ciascuno. Essi pertanto producono effetti
obbligatori tra le parti, e non possono incidere sulle regole organizzative della SPA. La violazione di tali
accordi è un normale inadempimento contrattuale, cui potrà seguire il risarcimento dei danni
eventualmente procurati alla/e controparte/i, ma mai l’invalidità di delibere assembleari o altri atti della
società (es. se un socio aderente al patto vota in modo diverso da quanto si era obbligato a fare, la delibera
assembleare è comunque valida, anche se il voto di quel socio è stato determinante).
Quanto alla loro disciplina, i patti parasociali sono accordi extrasociali ed il diritto societario si dedica
solo ai riflessi e alle interferenze che essi possono determinare nei confronti delle regole dell’attività. Tali
patti hanno per oggetto la regolamentazione delle prerogative del socio, se pur in vista di finalità individuali,
pertanto la loro esecuzione, determinando un coordinamento giuridicamente vincolante tra gli azionisti,
anche se indirettamente incide sull’effettiva realizzazione delle regole statutarie. I cd. sindacati di voto sono
patti aventi ad oggetto l’esercizio del voto da parte dell’azionista, alcuni dei quali subordinano il voto alla
decisione della maggioranza dei partecipanti all’accordo. La stipula di tali negozi, potendo alterare le
dinamiche assembleari, incide sull’applicazione delle regole imperative di funzionamento della SPA. Tuttavia
il legislatore presuppone la piena validità degli accordi parasociali, infatti gli ARTT. 2341 BIS e 2341 TER CC
contengono la disciplina generali degli accordi parasociali aventi ad oggetto la partecipazione in SPA. L’ART.
2341 BIS CC si applica solo a quei patti aventi un dato oggetto (quelli vertenti sul voto e sui limiti al
trasferimento delle azioni e quelli concernenti l’assunzione e l’esercizio del controllo societario) e
determinate finalità (stabilizzare gli assetti proprietari o il governo della società). I patti parasociali non
possono durare più di 5 anni e si intendono stipulati per questa durata anche se le parti hanno previsto un
termine maggiore. Se non è previsto un termine finale dell’accordo, ciascun socio può recedervi con un
preavviso di 180 giorni. Infine, i patti parasociali riguardanti società che fanno ricorso al mercato di capitale
di rischio devono essere comunicati alla società e dichiarati in apertura di ogni assemblea (ART. 2341 TER
CC), con obbligo della trascrizione della dichiarazione nel verbale e relativo deposito presso il registro delle
imprese.

DOMANDE RACCOLTE DA PRECEDENTI SCRITTI

- Iscrizione e azioni precedenti all’iscrizione SPA (11 settembre 2019)


- La nullità nelle SPA
- Patti parasociali

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LA STRUTTURA FINANZIARIA
IL CAPITALE SOCIALE E I CONFERIMENTI

GLI ELEMENTI DELLA STRUTTURA FINANZIARIA DELLA SPA Lo svolgimento dell’attività di una SPA
comporta e presuppone la raccolta di finanziamenti destinati ad essa. C’è una fisiologica apertura al
reperimento di risorse finanziarie nel mercato, allo scopo di canalizzare gli investimenti privati
nell’organizzazione d’impresa. Sono operate contribuzioni in favore della società e gli investitori che le
effettuano ricevono strumenti rappresentativi della posizione che essi rivestono nell’organizzazione sociale,
posizione che dipende dall’operazione cui è ricondotto l’investimento effettuato. La raccolta di risorse
finanziarie nel mercato può essere essenziale, ossia necessaria per l’esistenza della SPA, o eventuale.
È essenziale alla SPA la raccolta che interviene in occasione della creazione (e assegnazione) delle
azioni, particolari strumenti finanziari. La società riceve il capitale, ossia la provvista primaria di rischio con
cui nella formazione della struttura aziendale la società lega a sé le sorti degli azionisti, specifici investitori.
Gli azionisti sono indispensabili al funzionamento dell’organizzazione, sono titolari di diritti patrimoniali e
amministrativi traenti causa dal conferimento effettuato. Gli azionisti, poiché soci, partecipano alla
distribuzione degli utili e dell’avanzo di liquidazione e hanno voce in capitolo nell’esercizio dell’impresa
comune. Le azioni sono destinate a circolare, avendo così la possibilità di disinvestimento. Per facilitare tale
circolazione, è stabilita la normale emissione di titoli azionari che, essendo titoli di credito, assicurano
l’acquisto della partecipazione nel mercato e consentono l’operare di un efficiente sistema di legittimazione
all’esercizio dei diritti sociali, idoneo a realizzare gli interessi sia dei soci sia della società.
È invece solo eventuale alla SPA la raccolta di risorse sul mercato effettuata creando ed assegnando
gli altri strumenti finanziari partecipativi (ART. 2346, ULTIMO COMMA CC), suscettibili di essere emessi
anche a fronte di una contribuzione non finanziaria (es. prestazione d’opera) e che attribuiscono ai loro
titolari diritti patrimoniali analoghi a quelli degli azionisti, poiché legati ai risultati dell’attività sociale espressi
in ciascun esercizio e, se pur in misura ridotta, prerogative amministrative.
Eventuale è anche l’emissione di obbligazioni, con cui la SPA si procura nel mercato finanziario
risorse a debito: essa si impegna a restituire a una data scadenza le somme ricevute e ad effettuare
pagamenti aggiuntivi ai finanziatori a titolo di interessi. I titolari di obbligazioni, contribuendo alla formazione
del capitale di debito, non godono degli stessi diritti partecipativi dei soci, tuttavia la loro posizione è
comunque tutelata nei confronti della società (la stessa tutela è estesa ai titolari degli strumenti finanziari
assimilabili alle obbligazioni ex ART. 2411, CO. 3 CC).

IL CAPITALE SOCIALE Il capitale sociale è l’insieme dei mezzi originariamente prestati dai soci e
corrispondenti a un vincolo di stabile destinazione nella società di risorse per un pari importo netto allo
svolgimento dell’attività produttiva che costituisce l’oggetto sociale. È ciò che è stato prestato dai soci in un
dato momento e posto a disposizione dell’attività comune. La prestazione del capitale avviene in osservanza
di una previsione dei soci che stabiliscono che la società debba avere, all’inizio e nel corso dell’attività, un
certo capitale. Condizione affinché si possa costituire la SPA è che il capitale sia integralmente sottoscritto
(ART. 2329, N. 1 CC): per costituire una SPA è necessario che il relativo capitale sia sottoscritto per intero,
ossia che i soci abbiano già assunto, con le dichiarazioni di sottoscrizione, l’impegno ad effettuare i
conferimenti in misura pari alla cifra che si intende raggiungere quale capitale. La cifra del capitale sociale
esprime un dato storico e consente di raffrontare il contributo operato/promesso dai soci in via stabile e
strutturale (cui non corrisponde un debito della società verso terzi) con quello richiesto sul mercato ai
creditori sociali. La clausola statutaria del capitale, oltre a registrare l’avvenuto apporto in un dato momento
di certe risorse finanziarie, impone alla società un vincolo al mantenimento nel tempo di entità di pari
ammontare. Decidendo di raccogliere un certo numero di sottoscrizioni i soci automaticamente adottano
85
una regola di costante auto-destinazione all’attività di mezzi per un importo almeno pari, al netto dei debiti
sociali, alla cifra risultante dalla somma delle sottoscrizioni.
La SPA deve operare in una situazione di equilibrio economico-finanziario, in modo che possa
ricavarne un vantaggio in termini di migliore produttività. La regola del capitale è rigida: l’adozione di un
dato capitale sociale è prevista con una clausola statutaria. Il capitale sociale è fisso, tendenzialmente
invariabile nel tempo. Per modificare la cifra del capitale sociale, quindi adottarne uno nuovo, occorre una
formale modifica dello statuto decisa dall’assemblea straordinaria. C’è un rigoroso vincolo di non
distribuzione presso gli azionisti di risorse in misura corrispondente. Gli azionisti hanno il divieto di ripartire
gli utili in caso di perdita del capitale sociale finché il capitale non sia reintegrato o ridotto in misura
corrispondente (ART. 2433, CO. 3 CC). La restituzione dei conferimenti ai soci e la conseguente riduzione
reale del capitale sociale non è libera, ma è condizionata ad un giudizio sulla concreta sostenibilità
dell’operazione da parte della società (ART. 2445, CO. 3 e 4 CC), affidato ai creditori e, se negano il consenso
all’operazione, suscettibile di essere devoluto al tribunale. È prevista poi una corrispondente voce al passivo
del bilancio, nell’ambito della classe del patrimonio netto.
La scelta del capitale sociale che deve essere inizialmente sottoscritto non è pienamente libera. La
SPA deve costituirsi (comando imperativo) con un capitale non inferiore a € 50.000, che rappresenta il
capitale minimo (ART. 2327 CC). Il notaio non può procedere a stipulare l’atto costitutivo se verifica che il
capitale sottoscritto è inferiore a € 50.000. La medesima previsione è vincolante anche in seguito alla
costituzione della SPA, per tutto il corso dell’esistenza dell’ente. Il capitale sociale non può ridursi sotto €
50.000 (ART. 2484, CO. 1, N. 4 CC), pena lo scioglimento della società se non si provvede a continuare l’attività
sociale ricostituendo la provvista di capitale nella misura minima o trasformando la società in un tipo minore.

LA FORMAZIONE DEL CAPITALE SOCIALE: LE SOTTOSCRIZIONI DEL CAPITALE SOCIALE E I CONFERIMENTI IN


DENARO La cifra del capitale sociale è quella risultante dalle sottoscrizioni dei soci, è quella che deriva dal
contenuto delle sottoscrizioni effettuate. Dato l’obbligo di integrale sottoscrizione del capitale sociale ex ART.
2329, N. 1 CC, la società non può dichiarare un capitale per una somma superiore a quella espressa dalle
sottoscrizioni.
Il meccanismo tipico dei sistemi anglosassoni del cd. capitale autorizzato, in forza del quale i soci si
limitano a stabilire nell’atto costitutivo la quota massima di capitale da poter raccogliere nel corso della vita
della società e poi sta agli amministratori decidere se emettere o meno le azioni e raccogliere nuovo capitale,
nel nostro ordinamento è previsto solo per la delega agli amministratori all’aumento di capitale (ART. 2443
CC), consentita tuttavia entro confini temporali ristretti.
Chi emette la dichiarazione di sottoscrizione del capitale, originariamente coincidente con la
partecipazione alla stipula dell’atto costitutivo, s’impegna ad effettuare una prestazione in favore della SPA:
il conferimento, il cui valore è determinato espressamente tenendo conto del capitale rappresentato dalle
azioni da emettere a nome del sottoscrittore, il quale corrisponde a una quota del capitale della società. La
disciplina dei conferimenti forma il sistema del capitale reale: si tratta di previsioni complementari a quelle
concernenti il capitale nominale intese a realizzare il principio di effettività del capitale sociale. Se nell’atto
costitutivo non è stabilito diversamente, il conferimento deve farsi in denaro. L’emissione di azioni è
anzitutto rivolta al reperimento di un’indifferenziata provvista di liquidità, che verrà utilizzata dagli organi di
gestione per strutturare l’azienda. I singoli azionisti sono generalmente irrilevanti per il funzionamento
dell’organizzazione. La legge ammette però anche la possibilità di effettuare conferimenti diversi dal denaro,
a condizione però che vi sia il consenso dei soci, consenso che può essere espresso originariamente nell’atto
costitutivo o successivamente nella delibera di aumento del capitale sociale mediante conferimenti in natura
(ART. 2441, CO. 4 CC). Un quarto dei conferimenti in denaro (o l’intero ammontare in caso di società
unipersonale) deve essere versato dai soci immediatamente, alla sottoscrizione dell’atto costitutivo (ART.

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2343, CO. 2 CC). Quanto versato in questo momento rimane poi depositato preso una banca fino all’iscrizione
della SPA nel registro delle imprese. Così facendo la società dispone da subito di una parte dei mezzi a essa
destinati, in modo da poter provvedere alle esigenze minime di start up, e i soci fanno una sorta di impegno
cauzionale, garantendosi la serietà dei loro coinvolgimento nell’iniziativa comune. Quando riterranno esserci
un’esigenza finanziaria della società in proposito, gli amministratori richiederanno ai soci la prestazione dei
versamenti residui (i soci sono obbligato a questo fin dalla sottoscrizione del capitale). Le azioni possono
circolare anche durante la pendenza dell’obbligo di conferire i versamenti residui, tuttavia ex ART. 2356 CC
l’alienante non è liberato da tale obbligo per 3 anni dall’annotazione del trasferimento nel libro dei soci:
decorsi tali 3 anni, rimane vincolato ai versamenti residui solo l’acquirente. Se il socio è inadempiente
rispetto alla richiesta degli amministratori di pagare i conferimenti ancora dovuti, decorsi 15 giorni dalla
pubblicazione di una diffida sulla GU, gli amministratori possono offrire le azioni ancora non liberate, prima
agli altri soci (proporzionalmente alla partecipazione sociale da essi posseduta e per un corrispettivo almeno
pari ai conferimenti da prestare) e poi nel mercato, tramite una banca o un altro intermediario (ART. 2344,
CO. 1 e 2 CC): si tratta di un rimedio speciale alternativo a quelli ordinariamente spettanti al creditore per
ottenere l’adempimento coattivo da parte del debitore. In mancanza di compratori, il socio può essere
dichiarato decaduto (con estinzione, alla fine dell’esercizio, delle sue azioni, e corrispondente riduzione del
capitale), trattenendo la società le somme già riscosse (e salva la richiesta di maggiori danni). Infine, il socio
in mora nei versamenti non può esercitare il diritto di voto.

I CONFERIMENTI DIVERSI DAL DENARO Per i conferimenti diversi dal denaro valgono i principi di effettività
in senso stretto (ART. 2342 CC) e di integrità del capitale (ART. 2343 CC), in modo che il capitale sociale, in
sede di sua formazione, sia certo nel “se” e nel “quanto”. La società deve conseguire la sicurezza della
disponibilità degli apporti promessi a copertura del capitale sociale, in modo che essi siano utilizzabili
nell’attività sociale. Inoltre, il valore di tali risorse deve essere pari alla quota di capitale sociale che il singolo
conferente si è impegnato a coprire con la propria sottoscrizione.
Quanto al principio di effettività in senso stretto, ex ART. 2342, CO. 3 CC le azioni corrispondenti ai
conferimenti di beni in natura e di crediti devono essere integralmente liberato all’atto della sottoscrizione.
Così si evita che per il rinvio nel tempo dell’adempimento della prestazione di conferimento la SPA poi non
acquisisca l’apporto per fatti che sfuggono al controllo degli amministratori: si evita che il capitale si riveli a
posteriori (per la parte corrispondente al conferimento non più effettuato) in-effettivo. Bisogna evitare che
la futura acquisizione delle utilità connesse all’apporto dipende significativamente da fattori esterni alla
società. Quindi è ammissibile il conferimento di un bene non solo in proprietà, ma anche in godimento
(conferimento di un diritto reale o personale di godimento su un bene immobile), purché la società ne
consegua sin dalla sottoscrizione la disponibilità reale. Infine, non possono formare oggetto di conferimento
le prestazioni di opera o di servizi (ART. 2342, CO. 5 CC), in quanto inidonee a fornire agli amministratori
quel pieno controllo del fattore produttivo conferito, che la imputazione a capitale presupporrebbe.
Vediamo ora come si soddisfa l’integrità del capitale. L’emissione e la consegna di azioni a fronte del
conferimento di beni in natura o di crediti avvengono solo a seguito di un complesso procedimento (ART.
2343 CC). Anzitutto, contestualmente alla stipula dell’atto costitutivo viene stimato il valore del bene o del
credito apportato. La stima viene espressa con una relazione giurata di un esperto (indipendente, in quanto
nominato dal tribunale nel cui circondario ha sede la società) e allegata all’atto costitutivo. Tale relazione
deve attestare che il valore di tale bene o credito è almeno pari a quello ad esso attribuito ai fini della
determinazione del capitale. Entro 180 giorni dall’iscrizione della società nel registro delle imprese gli
amministratori controllano la stima. In questo periodo le azioni corrispondenti sono inalienabili e devono
restare depositate presso la società. Se dalla revisione degli amministratori risulta che il valore dei beni o
crediti conferiti era inferiore di oltre 1/5 a quello per cui avvenne il conferimento, il capitale sociale (con
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annullamento delle azioni scoperte) viene ridotto proporzionalmente, a meno che il conferente non decida
di integrare con versamento in denaro la propria prestazione o di recedere del tutto dalla società. Se il
conferente decide di recedere dalla società, ha diritto alla restituzione del conferimento, solo qualora sia
possibile in tutto o in parte in natura. Queste regole fanno sì che il valore dei beni apportati venga calcolato
secondo criteri oggettivi e di mercato ed evitano che i soci sopravvalutino strumentalmente i mezzi destinati
all’impresa comune (garantendosi un’assegnazione delle quote di titolarità dell’impresa proporzionata al
rischio realmente assunto). I terzi che vengono in contatto con la società, nel valutarne la solvibilità nel
momento di decidere se attivare o meno rapporti (di credito, di fornitura, etc.) con essa, possono contare sul
fatto che all’importo di capitalizzazione dichiarato corrispondano risorse reali di pari valore.
Il procedimento di stima dei conferimenti in natura ex ART. 2343 CC impone ai soci un vincolo
costoso. Per questo la legge prevede alcuni casi di esenzione dal suo rispetto: la ricorrenza di particolari
circostanze esclude il concreto verificarsi di rischi di errata valutazione del conferimento. Una perizia del
conferimento non è necessaria quando ci si trovi in uno dei seguenti casi (ART. 2343 TER CC):
1 il conferimento riguarda valori mobiliari o strumenti del mercato monetario, ed il valore ad essi
attribuito (a fronte del capitale assegnato e dell’eventuale soprapprezzo) è pari o inferiore al prezzo medio
ponderato di tali beni, registrato in un mercato regolamentato nei 6 mesi precedenti al conferimento (ART.
2343 TER, CO. 1 CC),
2 al bene apportato è attribuito un valore corrispondente al fair value a cui il bene è stato iscritto nel
bilancio del conferente, relativo all’esercizio precedente a quello nel quale è effettuato il conferimento, e
tale bilancio è stato sottoposto a revisione legale, espressa senza rilievi (ART. 2343 TER, CO. 2, LETT. A CC)
3 il bene è apportato per un valore corrispondente a quello che risulta dalla valutazione di un esperto
indipendente (ossia non legato al conferente da rapporti che possano compromettere l’obiettività della sua
valutazione; non è richiesta la nomina da parte dell’autorità giudiziaria) e con una comprovata
professionalità. Tale stima deve avvenire non più di 6 mesi prima del conferimento e deve essere conforme
ai criteri generalmente riconosciuti per la valutazione dei beni conferiti (ART. 2343 TER, CO. 2, LETT. B CC).
Ai fini del completamento del procedimento gli amministratori verificano la permanenza dei requisiti
di esenzione e, se l’esame dà esito positivo, depositano presso il registro delle imprese un’apposita
dichiarazione, contenente indicazioni sui beni conferiti e il relativo valore.
GLI ACQUISTI DA SOGGETTI CORRELATI ALLA SPA E LA COMPENSAZIONE TRA IL DEBITO AL CONFERIMENTO DEL
SOTTOSCRITTORE E IL CREDITO DA QUESTI VANTATO VERSO LA SOCIETÀ Occorre evitare che il sistema descritto venga
eluso dai privati, bisogna evitare che chi ha sottoscritto le azioni concordi con la società di non effettuare, in
tutto o in parte, il proprio conferimento, compensando il debito che sorge da tale sottoscrizione e un credito
derivante in capo al sottoscrittore da un altro negozio stipulato appositamente tra questi e la società. A tal
fine la legge stabilisce che la SPA di recente costituzione può acquistare beni o crediti di soggetti ad essa
correlati solo osservando una rigorosa procedura (che ricalca quella prevista per i conferimenti in natura),
che impedisce che si verifichi il cd. annacquamento del capitale sociale. Se un tale acquisto interviene nei 2
anni dall’iscrizione della SPA, a fronte di un corrispettivo pari almeno a 1/10 del capitale sociale, e riguarda
beni o crediti di promotori, fondatori, soci o amministratori, si devono rispettare le seguenti regole (ART.
2343 BIS CC):
- l’acquisto deve essere autorizzato dall’assemblea
- nei 15 giorni precedenti l’assemblea deve essere messa a disposizione dei soci una stima del bene
da acquistare, effettuata da un esperto, o la documentazione comprovante la sussistenza di casi di
esenzione dalla stima,
- gli amministratori devono depositare e iscrivere il verbale dell’assemblea presso il registro delle
imprese.

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Non sono soggetti a tale normativa i seguenti acquisti (ART. 2343 BIS, CO. 4 CC): 1 gli acquisti
effettuati a condizioni normali nell’ambito delle operazioni correnti della società, 2 gli acquisti operati sotto
il controllo dell’autorità giudiziaria o amministrativa (es. l’aggiudicazione di un bene espropriato al socio in
seno ad una procedura di esecuzione forzata), 3 gli acquisti intervenuti nei mercati regolamentati, rispetto ai
quali è escluso il pericolo di strumentale sopravvalutazione del bene alienato alla società.
La violazione della procedura comporta la solidale responsabilità di amministratori e alienante, per
i danni causati alla società, i soci e i terzi (ART. 2343 BIS, ULTIMO COMMA CC). Ferma restando la validità
della sottoscrizione delle azioni da parte del socio cedente, in ogni caso l’atto di acquisto da parte della
società può risultare invalido o inefficace, in particolare in presenza di una frode alla legge.

IL SOPRAPPREZZO E GLI ALTRI APPORTI “FUORI CAPITALE” Per formare il capitale sociale occorrono gli
apporti dei soci, ma ad ogni apporto del socio non deve necessariamente corrispondere l’imputazione in
capo a questi di una quota del capitale sociale. I soci possono effettuare in favore della società prestazioni
aggiuntive rispetto a quelle necessarie a formare il capitale sociale e che siano state oggetto di
conferimento. Il socio può pertanto essere sollecitato ad effettuare, oltre al conferimento del capitale da
utilizzare produttivamente nell’attività sociale, anche una prestazione ulteriore che favorisca lo scopo
comune, accrescendo il patrimonio della società, ma non aumentandone il capitale.
A Il socio può effettuare un soprapprezzo, ossia una prestazione aggiuntiva rispetto al conferimento
a capitale, prevista dalla legge (e in tal caso la società deve richiederla) nell’aumento di capitale sociale con
esclusione del diritto di opzione (ART. 2441, CO. 6 CC). Il soprapprezzo è ammissibile anche, e quindi
facoltativo, nel contesto della costituzione della SPA, può essere menzionato nell’attestazione depositata
dall’esperto in caso di conferimenti in natura (ART. 2343, CO. 1 CC): in sostanza si chiede al sottoscrittore
qualcosa di più rispetto al conferimento (es. il versamento di € 120 a fronte dell’assegnazione di ogni azione
di nominali € 100).
B il socio può effettuare un conferimento a capitale individualmente esuberante, ossia un apporto,
imputato alla formazione del capitale della SPA, ma avente un valore maggiore e non proporzionale a quello
riguardante la quota di capitale nominale assegnata al conferente. Un azionista si obbliga ad un conferimento
superiore rispetto a quello necessario in relazione alle azioni da emettere in suo favore, in quanto
strumentale all’emissione in favore di un altro socio di un numero di azioni per un valore più che
proporzionale rispetto al conferimento cui quest’ultimo si obbliga. Ciò è previsto dall’ART. 2346, CO. 4 CC
che, oltre a stabilire il criterio generale dell’assegnazione a ciascun socio delle azioni in via proporzionale alla
parte del capitale sottoscritta e per un valore non superiore a quello del suo conferimento, aggiunge che lo
statuto può prevedere una diversa assegnazione delle azioni. L’atto costitutivo può prevedere che un socio
accetti di prestare più capitale reale rispetto a quello che gli verrà nominalmente assegnato con le azioni
emesse in suo favore (es. conferisce € 10.000 a fronte dell’assegnazione di 5.000 azioni con valore nominale
€ 1), in quanto un altro socio concorda di ottenere azioni di valore nominale superiore al valore del proprio
conferimento (es. alcuni soci forniscono la provvista necessaria per le azioni che assegnano ad un noto
sportivo, poiché il fatto di poterlo annoverare nella compagine sociale può rappresentare per la società una
pubblicità per captare clienti). In accordo col principio di integrità del capitale sociale, l’ART. 2346, CO. 5 CC
impone un limite all’ammissibilità di apporti non proporzionali: in nessun caso il valore dei conferimenti può
essere inferiore all’ammontare globale del capitale sociale.
C il socio può effettuare, per andare incontro ad un bisogno della società, versamenti a patrimonio
senza osservare il procedimento richiesto dalla legge in relazione all’aumento di capitale. A tali versamenti
non corrisponde un incremento o una variazione del capitale sociale e della misura delle partecipazioni. Si
parla di “versamenti in conto capitale”, se destinati a sopperire ad una potenziale futura esigenza di
capitalizzazione, o di “versamenti a fondo perduto”, se destinati a coprire le perdite. Sono in ogni caso
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somme che incrementano il patrimonio netto della società, in quanto al socio non spetta alcun diritto alla
loro restituzione, se non in caso di liquidazione della società.

Il socio può anche erogare prestiti alla società (ipotesi frequente nelle società medio-piccole - es.
contratto di mutuo tra azionista e società), ossia finanziarla fornendole risorse a titolo di capitale di debito.
Il socio diviene il creditore della società, come un qualsiasi terzo che abbia prestato denaro alla società. Il
trattamento giuridico dei prestiti dipende dalle previsioni stabilite per il rapporto contrattuale cui si dà vita.
La maggior parte degli interpreti ritiene che il credito derivante da tali prestiti è soggetto ad una regola di
postergazione rispetto al pagamento degli altri creditori sociali.

LE AZIONI CON PRESTAZIONI ACCESSORIE Oltre l’obbligo dei conferimenti, l’atto costitutivo può stabilire
l’obbligo dei soci di eseguire prestazioni accessorie non consistenti in denaro, determinandone il contenuto,
la durata, le modalità e il compenso, e stabilendo particolari sanzioni per il caso di inadempimento (ART. 2345
CC). I soci possono quindi eseguire, in favore della SPA, prestazioni aggiuntive rispetto ai conferimenti a
capitale. La società così facendo vincola gli azionisti assegnatari dei titoli a fornire utilità diverse rispetto ai
conferimenti a capitale, in vista della migliore realizzazione dell’attività sociale. La partecipazione azionaria
viene così personalizzata, strettamente legata alle sorti di un rapporto tra il socio e la SPA, disciplinato
nell’atto costitutivo e ulteriore rispetto a quello che intercorre tra essi in via ordinaria (rapporto fondato sulla
prestazione del capitale). Le azioni circolano solo previo consenso degli amministratori (ART. 2345, CO. 2
CC) e in assenza di diversa disposizioni nell’atto costitutivo, gli obblighi oggetto di prestazione accessoria
non possono essere modificati senza il consenso di tutti i soci (ART. 2345, CO. 3 CC). Queste azioni con
prestazioni accessorie non sono una categoria di azioni ed è possibile prevedere prestazioni accessorie anche
in connessione con azioni di categoria.

LE AZIONI. CREAZIONE ED ESTINZIONE

La partecipazione sociale è rappresentata da azioni (ART. 2346, CO. 1 CC). Il termine “azione” può
assumere 3 significati. L’assegnazione di azioni (qui intese come partizioni del capitale sociale) attesta e
misura la partecipazione al capitale sociale dei diversi soci, definendo la misura entro cui i loro conferimenti
sono stati considerati capitale al momento dell’emissione azionaria. Dal numero e dal tipo di azioni assegnate
(qui intese come entità contenenti situazioni giuridiche soggettive) discendono peso e caratteri della
partecipazione all’attività sociale, e quindi al quantità e il contenuto dei diritti e degli obblighi riferibili a
ciascun socio. Il possesso o la disponibilità dei titoli azionari (qui intese come documenti destinati all’esercizio
di situazioni giuridiche soggettive) condiziona l’acquisto e l’esercizio dei diritti partecipativi.

IL SIGNIFICATO DELLE AZIONI QUALE PARTECIPAZIONE AL CAPITALE. IL VALORE NOMINALE DELLE AZIONI Le
azioni rappresentano la partecipazione, esse certificano formalmente, e cristallizzano, il contributo del socio
al capitale sociale. Indicano in che misura la collettività dei soci valuta il conferimento apportato dal singolo
in termini di risorsa produttiva, rientrante nell’originaria dotazione comune di capitale di rischio (es. una
società ha un capitale sociale di 60.000 €, diviso in 60 azioni; l’assegnazione di 20 azioni di fronte ad un dato
conferimento indica che quest’ultimo è stato valutato 20.000 € in termini di capitale e che il conferente ha
contribuito per un 1/3 alla fornitura della provvista di rischio destinata con quella SPA all’iniziativa che ne
costituisce l’oggetto sociale). Le azioni sono una misura prefigurata di investimento, l’unità minima di
apporto finanziario richiesta in una certa SPA per partecipare all’iniziativa d’impresa con essa organizzata
(es. i soci hanno previsto che l’unità minima di investimento nella loro SPA è di 1.000 €). Avere più azioni
significa essere titolari di più unità di investimento nella medesima iniziativa, in vista del proporzionale
godimento dei vantaggi collegati. Lo statuto predetermina con le azioni le unità standard di investimento
nell’impresa societaria, quindi consente agli investitori di decidere liberamente la quantità della propria
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partecipazione individuale al programma sociale, facilitando così l’adesione da parte di più persone. Le
partecipazioni sono fungibili l’una alle altre sul piano dell’esercizio dell’attività d’impresa, il singolo socio
incide pertanto sull’attività d’impresa a seconda dell’investimento che ha effettuato. La partecipazione è
così spersonalizzata. Le SPA, infatti, sono unioni di sacchi di denaro (non comunità di persone) e tra gli
associati rileva il valore monetario del contributo del singolo, se rapportato alla dotazione di capitale di
rischio (non le qualità di ciascun socio). La partecipazione è un bene collocabile e circolabile nel mercato.

Per valore nominale delle azioni si intende la porzione del capitale espressa dalla singola azione,
inizialmente coperta dal conferimento del socio cui è stata assegnata. Ex ART. 2346, CO. 2 CC le azioni
attestano l’avvenuta sottoscrizione di frazioni del capitale sociale (es. ciascuna azione equivale a 1/60) e il
loro valore nominale esplicita questa frazione (es. 1/60 di 60.000 = 1.000). Il valore nominale deve
corrispondere alla seguente divisione: capitale sociale / numero di azioni emesse. Sul piano dei rapporti tra
la SPA e i singoli azionisti, il valore nominale misura i diritti spettanti a ciascun azionista, diritti che competono
in proporzione alle azioni possedute, in quanto rappresentative di una porzione predeterminata del capitale
sociale. Se è determinato nello statuto, il valore nominale deve riferirsi a tutte le azioni emesse dalla
società, non si possono emettere azioni di diverso valore nominale, predeterminando differenti unità
minime di investimento in SPA.
Dal valore nominale si distingue il valore reale delle azioni, il quale non può essere funzione di
un’astratta previsione statutaria, ma dipende dal valore del patrimonio netto concretamente presente nella
SPA in un dato momento storico. Il valore reale è il risultato della seguente divisione: valore del patrimonio
aziendale / numero di azioni emesse. Esso muta pertanto nel tempo al mutare del patrimonio aziendale. I
criteri di valutazione del patrimonio aziendale possono essere diversi, infatti si distinguono:
- un valore contabile delle azioni, espresso dai dati di bilancio e condizionato dai criteri valutativi
previsti dalla legge per l’iscrizione dei beni sociali nel bilancio,
- un valore effettivo delle azioni, indipendente dagli accertamenti contabili e che può essere risultato
del contemperamento di parametri che nelle poste del bilancio rimangono inespressi (es. quello
relativo alle prospettive reddituali della società). Tale valore può determinarsi avendo riguardo a una
prospettiva di continuità dell’impresa comune o nell’ottica di una sua immediata liquidazione
- il valore di mercato, ossia il valore maturato in un dato ambiente commerciale su una data società,
di cui tener conto in vista della formazione del prezzo azionario in una data operazione di scambio
Il valore nominale delle azioni non è un dato essenziale dell’organizzazione formale della SPA, lo statuto può
non determinare il valore nominale delle azioni (ART. 2346, CO. 3 CC), può non esserci la relativa clausola
nell’atto costitutivo. In questo caso si ha una SPA con azioni con valore nominale inespresso. L’unità
azionaria è sempre misura dei diritti spettanti a ciascun socio, ciò che manca è solo la predeterminazione
nello statuto dell’investimento minimo in società, non si elimina la rilevanza della nozione di azione quale
quota unitaria di capitale sociale sul piano organizzativo. Le disposizioni che si riferiscono al valore nominato
si applicano con riguardo al numero delle azioni possedute da ciascun socio in rapporto al totale delle azioni
emesse (es. se un dato diritto spetta per legge ai soci che detengono il 10% del capitale, il diritto spetta ai
soci che detengono il 10% delle azioni). È semplicemente una diversa tecnica di computo, ma i risultati sono
gli stessi.
Il valore nominale delle azioni o, per il caso di azioni senza valore nominale, il numero complessivo
delle azioni emesse nonché l’ammontare del capitale sociale, devono essere indicati nei titoli azionari
eventualmente emessi dalla società (ART. 2354, CO. 3, N. 3 CC), allo scopo di far conoscere al sottoscrittore
il peso proporzionale della partecipazione assunta in rapporto al capitale complessivo.

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CREAZIONE DELLE AZIONI La creazione delle azioni implica la formazione del capitale sociale e richiede
che i soci sottoscrivano tale capitale, ossia dichiarino di vincolarsi a prestare conferimenti per una somma
almeno pari a quella del capitale sottoscritto. Il capitale sottoscritto deve coincidere con il capitale di
rischio che gli azionisti hanno deciso di destinare all’esercizio dell’attività. Originariamente le azioni sono
emesse sulla base del valore del conferimento operato o promesso dal socio. Salvo il caso dell’assegnazione
di azioni non proporzionale ai conferimenti, si tratta di fare una semplice equazione tra la somma che il socio
s’impegna a versare all’atto della sottoscrizione e il numero delle azioni alla cui assegnazione si ha diritto
(es. conferisco denaro o beni del valore di 10.000 €: ho diritto ad avere assegnate azioni con valore nominale
di 10.000 €). La sottoscrizione del capitale è titolo per acquistare originariamente delle azioni. Essa può
avvenire: A al momento della costituzione della SPA, oppure B nel corso dell’attività sociale, quando si
decide di accrescere la dotazione finanziaria di rischio e di procedere ad un aumento di capitale sociale
tramite nuovi conferimenti. Nel corso della vita della SPA è poi possibile emettere azioni anche a prescindere
dalla raccolta di nuove risorse, nel caso in cui si decida di aumentare il capitale sociale realizzato tramite
un’imputazione a capitale di altri fondi o di utili già componenti il patrimonio netto della società. Se viene
meno il capitale sociale, le azioni possono estinguersi, essendo parti del capitale, e eventuali corrispondenti
titoli emessi si annullano. Ciò può avvenire in occasione dello scioglimento generale della società oppure nei
casi di riduzione del capitale previsti dalla legge connesse alla decisione dei soci di modificare lo statuto o allo
scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio.

LA CREAZIONE E ASSEGNAZIONE DELLE AZIONI NELLA COSTITUZIONE DELLA SPA La creazione di azioni in sede di
costituzione richiede ordinariamente i seguenti presupposti: 1 la sottoscrizione delle azioni rappresentative
del capitale al momento della stipula dell’atto costitutivo o, nel caso di pubblica sottoscrizione, dopo la
pubblicazione del programma, 2 contestualmente alla sottoscrizione, il versamento presso una banca del
25% del conferimento in denaro (se ha ad oggetto beni in natura, il conferimento va prestato subito
interamente). Quanto alla mancanza di uno di tali presupposti, nel silenzio di legge prevale la tesi secondo
cui la violazione di una norma imperativa dettata in materia di sottoscrizione e conferimento SPA determina
la nullità della partecipazione. In accordo con l’ART. 2332 CC, la declaratoria di nullità non ha efficacia
retroattiva, quindi non legittima una pretesa alla restituzione ex tunc del conferimento effettuato, ma
comporta il diritto dell’azionista alla liquidazione in denaro della propria quota.

L’EMISSIONE SUCCESSIVA. L’AUMENTO DEL CAPITALE SOCIALE GRATUITO Spontaneamente, o sollecitati dagli
amministratori, i soci possono rivedere nel corso della vita della società l’originaria previsione circa il
capitale sociale (perché la considerano non adeguata all’attività che si sta svolgendo o in vista di uno sviluppo
della comune iniziativa). Se nel contesto di un certo piano economico-finanziario soci e amministratori
prevedono che la società deve ricorrere a più risorse interne vincolate al servizio dell’affare comune,
occorrerà aumentare il capitale sociale. Così facendo la società acquisirà maggiore credibilità finanziaria nei
confronti del mercato e dei creditori, i quali saranno più garantiti circa la solvibilità del proprio debitore.
L’aumento del capitale sociale può assumere due diverse configurazioni: 1 l’aumento di capitale sociale
gratuito e 2 l’aumento di capitale sociale a pagamento.
L’aumento di capitale gratuito (o nominale), ex ART. 2442 CC, consiste nell’imputare a capitale, ossia
assoggettare alla disciplina del capitale, valori patrimoniali già presenti in società, quindi senza
incrementare il patrimonio societario. Vi è quindi la decisione organizzativa di rivedere verso l’alto
l’originaria misura dell’investimento in capitale di rischio da destinare stabilmente a servizio dell’attività
sociale. Affinché una certa cifra sia adottata come capitale sociale di una SPA devono originariamente
prestarsi, e mantenersi, presso la società, fondi propri (ossia valori di patrimonio non oggetto di una pretesa
restitutoria da parte di creditori) di importo almeno pari alla misura del capitale sociale nominale (cioè

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dell’investimento programmato come indisponibile). Inoltre, per programmare un aumento di capitale
gratuito in un dato momento la società deve già possedere fondi propri in misura superiore rispetto a quelli
corrispondenti all’importo del capitale sociale precedentemente stabilito e deve detenere tale esuberanti
risorse quali fondi disponibili, ossia non vincolati per legge ad un determinato utilizzo. Con la decisione di
aumento del capitale le risorse vengono sottoposte al vincolo del capitale, perdono il connotato della
disponibilità e divengono non restituibili (precetto assistito da sanzione penale tipico del capitale sociale).
L’assemblea può aumentare il capitale, imputando a capitale le riserve e gli altri fondi iscritti in
bilancio in quanto disponibili. L’assemblea straordinaria emette una delibera, modificativa dello statuto, con
cui imputa a capitale risorse patrimoniali che la società già detiene quali fondi disponibili. Tale deliberazione
ha per oggetto un’operazione contabile, interviene sull’articolazione formale del patrimonio netto di bilancio,
concretandosi in un riposizionamento tra poste presenti al suo interno: all’aumento della cifra del capitale
corrisponde una pari diminuzione di una o più tra le altre poste (riserve e/o utili) del patrimonio netto, purché
ex lege disponibili (es. posto un capitale di 200 ed esistente una riserva statutaria per 100, un eventuale
aumento gratuito del capitale fino a 300 potrà consistere nell’azzerare tale riserva e nel contestuale
corrispondente aumento della posta del capitale).
L’operazione di aumento del capitale gratuito può concretarsi:
A nell’emissione di nuove azioni (ART. 2442, CO. 2 CC). Tali nuove azioni devono avere le stesse
caratteristiche di quelle in circolazione e devono essere assegnate gratuitamente agli azionisti in proporzione
di quelle da essi già possedute. L’aumento di capitale nominale non può alterare tra i soci le precedenti quote
di partecipazione all’organizzazione né essi possono sopportare un sacrificio economico per ottenere
l’assegnazione delle nuove azioni, dato che i fondi che giustificano la nuova emissione sono già idealmente
pro quota loro riferibili.
L’unico caso in cui può alterarsi il precedente assetto partecipativo al capitale sociale è quello
previsto dall’ART. 2349 CC: se lo statuto lo prevede, l’assemblea straordinaria può deliberare l’assegnazione
di utili ai prestatori di lavoro dipendenti delle società o società controllate mediante l’emissione, per un
ammontare corrispondente agli utili, di speciali categorie di azioni da assegnare individualmente ai prestatori
di lavoro. È una norma eccezionale che favorisce il cd. azionariato dei dipendenti, sistema di remunerazione
o premio dei dipendenti, che parallelamente incentiva il legame fiduciario tra i dipendenti e la società.
B nell’aumento del valore nominale delle azioni in circolazione (ART. 2442, CO. 3 CC).

L’AUMENTO DI CAPITALE TRAMITE NUOVI CONFERIMENTI L’emissione di nuove azioni dopo la costituzione
della SPA è più frequentemente collegata all’aumento del capitale sociale tramite nuovi conferimenti
(aumento del capitale sociale a pagamento o reale). Anche qui la decisione della società di modificare la
clausola originaria concernente il capitale sociale è motivata dalla volontà di adeguare le risorse stabilmente
destinate all’attività ai suoi maggiori volumi effettivi o da un piano di sviluppo di tale attività. In questo caso,
però, la società ricorre a nuove risorse provenienti dall’esterno (o perché è priva di mezzi propri necessari
o perché preferisce procurarsi provviste finanziarie aggiuntive e destinare le riserve precedentemente
accumulate ad altro uso), raccoglie ex novo altri conferimenti per l’attività, sottoponendoli da subito al
regime vincolistico del capitale sociale. Trattandosi di una modifica dell’atto costitutivo l’organo competente
è ex ART. 2436 CC l’assemblea dei soci, che delibera in sede straordinaria. Se lo statuto lo prevede,
l’assemblea può delegare la decisione agli amministratori, i quali dovranno, entro 5 anni dalla delega,
stabilire l’aumento di capitale fino ad un ammontare massimo predeterminato dallo statuto. Affinché si
produca il mutamento della cifra del capitale sociale non è però sufficiente la delibera, ma sono necessarie
anche nuove sottoscrizioni, ossia dichiarazioni negoziali degli investitori con cui essi si impegnano a conferire
il denaro o gli altri beni necessari a coprire il capitale nominale aggiuntivo. L’adozione del nuovo capitale è la
creazione delle nuove azioni, pertanto, si perfeziona nel momento in cui concorrono la delibera di aumento
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di capitale e la raccolta, da parte degli amministratori, delle relative sottoscrizioni, che devono intervenire
entro un termine finale stabilito nella delibera di aumento. Se l’aumento di capitale deliberato non è
integralmente sottoscritto, il capitale è aumentato di un importo pari alle sottoscrizioni raccolto solo se la
deliberazione lo ha espressamente previsto. Se manca una tale previsione assembleare, le sottoscrizioni
parziali raccolte, alla scadenza del termine, diventano inefficaci.
Per assicurarsi l’effettività del capitale, sono stabilite le seguenti regole. È vietato realizzare un
aumento di capitale finché non si sono integralmente liberate le azioni precedentemente emesse (ART. 2438
CC). Ciò deriva dalla natura del capitale reale quale strumento rivolto soprattutto a finanziare l’attività della
SPA (sarebbe incoerente raccogliere nuova finanza in un momento in cui non sono state ancora riscosse
somme che i soci hanno programmato di acquisire). Quanto all’oggetto dell’impegno dei sottoscrittori, in
caso di conferimenti in denaro, il 25% di questi deve essere versato all’atto della sottoscrizione (ART. 2439,
CO. 1 CC). Le azioni di nuova emissione dovranno liberarsi tramite conferimenti in denaro, a meno che
l’assemblea straordinaria stabilisca espressamente di accettare dai nuovi sottoscrittori apporti in natura.
Anche in questo caso le azioni corrispondenti a conferimenti in natura devono essere liberate integralmente
al momento della sottoscrizione e deve essere depositata in società la relazione di un perito. Infine, a fronte
dell’apporto di nuovo capitale, si emettono nuove azioni. Ai fini del completamento del procedimento di
aumento di capitale vige una peculiare formalità pubblicitaria che si aggiunge a quelle in generale previste
per le modifiche statutarie (ART. 2436 CC): entro 30 giorni dalle sottoscrizioni gli amministratori devono
depositare per l’iscrizione nel registro delle imprese un’attestazione che l’aumento di capitale è stato
eseguito (ART. 2444 CC). Tale formalità ha una mera efficacia dichiarativa, non condiziona l’efficacia
dell’aumento del capitale e la creazione delle azioni, che dipendono solo dalla raccolta delle sottoscrizioni.

IL DIRITTO DI OPZIONE L’aumento di capitale tramite nuovi conferimento potrebbe alterare le


precedenti percentuali di partecipazione in società degli azionisti. Da una parte si incrementa il numero delle
azioni in circolazione e aumenta correlativamente la misura complessiva di azioni su cui calcolare le
percentuali partecipative di ciascun socio; dall’altra parte non è detto che aumenti proporzionalmente la
misura delle azioni possedute da ciascuno, poiché tale aumento dipende dalla sottoscrizione delle azioni da
parte dei singoli soci. Pertanto, se i nuovi obblighi di conferimento sono assunti dai terzi, o i precedenti soci
sottoscrivono le nuove azioni in modo non proporzionale alle partecipazioni anteriormente possedute, la
misura dei rispettivi diritti ed obblighi varierà corrispondentemente.

ES Consideriamo una società con capitale sociale di 200.000 €, diviso in 200 azioni di 1.000 € ciascuna e
distribuito paritariamente tra 4 soci, Tizio, Caio, Sempronio e Mevio, ciascuno dei quali detiene azioni per un importo
nominale pari a 50.000 €. La società è amministrata da Tizio. Vi è un aumento del capitale reale di 100.000 €, che porta
il capitale a 300.000 €, e tale aumento è sottoscritto solo dai primi due soci (grazie ad un’offerta esclusiva effettuata nei
loro confronti da Tizio), ai quali è conferita la maggioranza del nuovo capitale successivo all’operazione, venendo essi a
detenere 200 azioni su 300, dunque i 2/3 dei diritti sociali, ai danni della precedente partecipazione di Sempronio e
Mevio, ridotti ad una posizione di comprimari.

Per evitare un’alterazione non concordata degli originari rapporti tra i soci, i singoli soci hanno il
diritto di opzione: le azioni di nuova emissione devono essere offerte in opzione ai soci in proporzione al
numero delle azioni possedute (ART. 2441, CO. 1 CC). Così si impedisce agli amministratori di indirizzare
l’offerta di sottoscrizione in modo discrezionale/arbitrario, dato che il mantenimento della precedente quota
di capitale sociale del singolo socio dipende solo dalla sua decisione di accettare o meno l’offerta rivoltagli
dagli amministratori.
Il procedimento di raccolta delle nuove sottoscrizioni presso i soci è soggetta alle seguenti regole.
Gli amministratori devono pubblicare presso il registro delle imprese l’offerta societaria e contestualmente
renderla nota attraverso un avviso pubblicato sul sito internet della società. Da tale pubblicazione, per
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l’esercizio del diritto di opzione decorre un termine, precisato nell’offerta, di almeno 15 giorni (ART. 2441,
CO. 2 CC). Poi, per ridurre la discrezionalità degli amministratori contro il pericolo che utilizzino
strumentalmente l’aumento di capitale per intervenire sugli assetti della compagine sociale, le azioni
inoptate (ossia non sottoscritte allo scadere dell’offerta in opzione) non possono essere liberamente
collocate: nelle società non quotate, ex ART. 2441, CO. 3 CC chi ha esercitato tempestivamente il diritto di
opzione ha un diritto di prelazione sulle azioni inoptate, mentre nelle società quotate per almeno 5 riunioni
gli amministratori devono offrire, per conto della società, nel mercato regolamentato i diritti di opzione non
esercitati. La disciplina del diritto di opzione impone un vincolo alla società che limita l’azione discrezionale
degli organi sociali. L’aumento di capitale può rivelarsi importante per attuare certi programmi vantaggiosi
per la SPA, i quali però necessitano che entri in società un terzo, tramite la sua sottoscrizione di un aumento
di capitale.

ES La società deve ristrutturare l’azienda ed un terzo (soggetto esterno alla compagine sociale) è disposto ad
effettuare l’intervento finanziario o industriale necessario solo a fronte dell’assunzione di una rilevante partecipazione
azionaria. L’obbligo di offrire necessariamente ai soci in opzione le azioni di nuova emissione potrebbe impedire di
realizzare l’operazione se alcuni soci non rinunciassero a mantenere una quota partecipativa, ipotesi incompatibile con
le attese del nuovo investitore.

Per evitare di comprimere troppo il potere della maggioranza, il diritto di opzione può essere escluso,
ma solo in casi tipicamente individuati (ART. 2441 CC). Tale esclusione deve essere deliberata dall’assemblea
e può intervenire nei seguenti casi:
A quando le azioni devono essere liberate mediante conferimenti in natura (ART. 2441, CO. 4,
PRIMA FRASE CC)
B quando l’interesse della società lo esige (ART. 2441, CO. 5 CC)
C quando le azioni sono offerte ai dipendenti della società o di società che la controllano o che
sono da essa controllate (ART. 2441, CO. 8 CC).
In questo casi, per evitare che i nuovi sottoscrittori sfruttino l’occasione di investimento e ottengano
con la sottoscrizione delle nuove azioni, a scapito dei vecchi soci, un vantaggio patrimoniale effettivo non
correlato al sacrificio assunto, la deliberazione di aumento del capitale con esclusione del diritto di opzione
determina il prezzo di emissione delle azioni in base al valore del patrimonio netto.
D nello statuto delle società quotate il diritto di opzione può escludersi (senza che occorra allegare
una ragione particolare nell’assemblea che decida tale esclusione), ma solo nei limiti del 10% del capitale
sociale preesistente (ART. 2441, CO. 4, ULTIMA FRASE CC).

ESTINZIONE DELLE AZIONI: LA RIDUZIONE DEL CAPITALE SOCIALE. LA RIDUZIONE REALE La riduzione del
capitale consiste invece nell’abbassare la soglia di investimento stabilmente destinato all’attività sociale,
rispetto a quella precedentemente prevista dai soci con la determinazione del capitale sociale. Vi possono
essere due casi:

A la riduzione reale del capitale, che presuppone un corrispondente impoverimento della società e
la restituzione ai soci di parte delle risorse precedentemente apportate (il nuovo capitale non deve
comunque essere inferiore al minimo legale di 50.000 €)
B la riduzione nominale, collegata al verificarsi di perdite al capitale e, senza far uscire risorse dalla
società, riallinea l’importo del capitale statutariamente programmato e l’importo (più basso) del patrimonio
netto di cui la società dispone in un dato momento storico.

La riduzione reale è di competenza esclusiva dell’assemblea straordinaria (ART. 2445 CC). Vi sono
due modalità (ART. 2445, CO. 1 CC), i soci possono stabilire alternativamente o il rimborso parziale del

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capitale versato o la liberazione dei soci dall’eventuale debito residuo ai versamenti, fino a concorrenza
con la misura di riduzione stabilita. La maggioranza assembleare ha ampia discrezionalità nella decisione,
che può essere presa sia se si constata la sovrabbondanza delle risorse interne della società rispetto
all’attività in corso sia se tali risorse non sono eccessive. La società, decidendo per la riduzione reale del
capitale, può perseguire anche solo scopi di parziale liquidazione dell’azione, ridimensionando l’affare
intrapreso, anche se così tradisce le aspettative di un’eventuale minoranza azionaria. La riduzione va
comunque deliberata dando spiegazioni a riguardo ai soci. L’avviso di convocazione deve infatti indicare le
ragioni e le modalità della riduzione (ART. 2445, CO. 2 CC), e tali ragioni devono essere richiamate anche
nell’atto assembleare e vanno formulate in modo congruo alla deliberazione presa. La riduzione del capitale
è soggetta ad un vincolo, esterno alla società: la deliberazione può essere eseguita solo dopo 90 giorni
dall’iscrizione nel registro delle imprese, purché entro tale termine nessun creditore sociale anteriore
all’iscrizione abbia fatto opposizione (ART. 2445, CO. 3 CC). I creditori hanno quindi il potere di opporsi alla
decisione al ribasso del capitale. Chi ha fatto credito alla società ne ha misurato la solvibilità considerando lo
stabile contributo offerto dal capitale alla formazione della provvista finanziaria necessaria a realizzare
l’attività, contributo che è una garanzia indiretta rispetto alla solvibilità ed il cui mantenimento potrebbe
corrispondere ad esigenze di cautela legittime. Per evitare che i creditori manifestino un’eccessiva prudenza
condizionando troppo le scelte dei soci, l’ART. 2445, CO. 4 CC prevede che la società possa rivolgersi al
tribunale, il quale, se ritiene infondato il pericolo di pregiudizio per i creditori o che la società abbia prestato
idonea garanzia, può disporre che la riduzione abbia comunque luogo nonostante l’opposizione. Il tribunale
verifica se il soddisfacimento dei creditori può reputarsi ragionevolmente in pericolo sulla base di
considerazioni obiettive circa la sostenibilità dell’operazione nella prospettiva della futura solvibilità della
società. Ai fini di eseguire l’operazione, l’assemblea può scegliere se ridurre il valore nominale (espresso o
inespresso) delle azioni, in misura uguale per tutte le azioni il cui numero complessivo non varia) oppure
estinguere alcuni azioni, in misura corrispondente alla riduzione decisa e nel rispetto della parità di
trattamento tra i soci (pertanto l’estinzione dovrà riguardare ciascuno di essi, proporzionalmente alla
rispettiva partecipazione).

LA RIDUZIONE DEL CAPITALE SOCIALE PER PERDITE L’altro caso di riduzione del capitale sociale consegue al
prodursi di perdite che intaccano il capitale (cd. perdite di capitale). In conseguenza di dati negativi, in un
dato momento di vita della società, il patrimonio netto della società (= valore complessivo delle attività
della società iscritte in bilancio – valore complessivo delle passività) è inferiore alla cifra del capitale
sottoscritto e stabilmente adottato dai soci (ARTT. 2446 e 2447 CC). La provvista originariamente apportata
è in tutto o in parte venuta meno in quanto consumata nell’attività sociale. Se si accertano delle perdite
significa che l’organizzazione d’impresa non si sta svolgendo nel modo in astratto programmato per il
migliore raggiungimento dello scopo lucrativo. In presenza di perdite l’assemblea non può deliberare la
distribuzione dell’eventuale, successivo utile di esercizio, se inferiore alle perdite. Inoltre, finché persistono
le perdite i creditori rischiano di ricevere (se continuano a tenere presente la cifra del capitale nominale)
informazioni errate circa le condizioni della società. La disciplina è coerente con la funzione del capitale
sociale e la sua idoneità a garantire indirettamente ai creditori la solvibilità della società, vi sono norme
imperative prescrittive di rigorosi adempimenti a carico degli organi sociali.
Se la perdita del capitale sociale è superiore a 1/3 rispetto ad esso (quindi il valore del patrimonio
netto è sceso sotto i 2/3 del capitale nominale), gli amministratori (o il consiglio di gestione e, in caso di
inerzia, i sindaci o il consiglio di sorveglianza) devono convocare l’assemblea, cui dovranno sottoporre una
relazione sulla situazione patrimoniale della società, con le osservazioni del collegio sindacale (ART. 2446 CC).
Alla riunione i soci non devono necessariamente adottare decisioni di modifica alla cifra del capitale sociale:
l’assemblea deve semplicemente assumere gli opportuni provvedimenti, che saranno diversi a seconda che
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i soci giudichino l’anomalia temporanea (quindi suscettibile di essere riassorbita intervenendo sulla
gestione, ristrutturando l’azienda, riducendo il personale, etc.) o strutturale (e quindi è necessario mutare
l’organizzazione, ossia ridurre immediatamente il capitale).
I soci non hanno la stessa discrezionalità se la perdita perduri per un altro esercizio nelle stesse
proporzioni. Se entro l’esercizio successivo a quello in cui è stata accertata la perdita, questa non risulta
diminuita a meno di 1/3, l’assemblea ordinaria o il consiglio di sorveglianza che approva il bilancio di tale
esercizio deve ridurre il capitale in proporzione delle perdite accertate (ART. 2446, CO. 2 CC). La società non
può sottrarsi a tale adempimento: se a tali condizioni l’assemblea (o il consiglio di sorveglianza) non
provvede, gli amministratori e i sindaci, o il consiglio di sorveglianza, devono rivolgersi al tribunale affinché
disponga la riduzione.
L’ART. 2447 CC stabilisce che se la perdita è tale da ridurre il patrimonio netto della società ad una
misura inferiore al capitale minimo (50.000 €), soglia sotto la quale la SPA non è giudicata adeguata
all’impresa esercitata, la società non può proseguire la sua attività. Se è accertata tale perdita, pertanto,
l’assemblea deve essere convocata senza indugio e le si deve proporre di deliberare la riduzione del capitale
ed il contemporaneo aumento dello stesso ad una cifra non inferiore al minimo. In alternativa, si può decidere
di trasformare la SPA in un tipo per il quale sia previsto un capitale minimo inferiore, altrimenti la SPA si
scioglie ex ART. 2484, CO. 1, N. 4 CC.
Se la perdita è inferiore al limite del terzo del capitale, pur non essendoci l’obbligo di riduzione
(poiché si potrebbe essere di fronte ad un calo di dimensioni temporaneo o fisiologico), l’assemblea può
comunque decidere di ridurre il capitale e così riallineare volontariamente la misura statutaria a quella
effettiva (cd. riduzione facoltativa). La legge non precisa quale disciplina applicare in questo caso.
Nonostante la diversa opinione della Cassazione, si ritiene di applicare analogicamente l’ART. 2446, CO. 1 CC,
e quindi si ritiene che gli amministratori siano comunque obbligati a depositare la relazione e la situazione
patrimoniale, e l’ART. 2445, CO. 3 e 4 CC, e pertanto è necessario che i creditori diano il proprio consenso
alla riduzione.
Anche la riduzione nominale, in tutti i casi visti, comporta o la riduzione del valore nominale
(espresso o inespresso) di tutte le azioni esistenti (fermo il loro numero) o l’estinzione di alcune azioni. In
quest’ultimo caso ciascun socio è colpito proporzionalmente alla partecipazione posseduta.

LA PARTECIPAZIONE AZIONARIA

CARATTERI GENERALI DELLA PARTECIPAZIONE AZIONARIA Le azioni rappresentano anche la


partecipazione individuale all’attività sociale. Il termine “azione” in questo caso indica (non la quota unitaria
dell’investimento in capitale di rischio nella SPA, ma) una ideale porzione unitaria del rapporto tra l’azionista
e la società, rapporto i cui contenuti sono rappresentati, espressi e conformati dai diritti e dagli obblighi
attribuiti dalle azioni possedute. L’assegnazione di azioni costituisce titolo per l’assunzione della
partecipazione sociale, la quale, intesa quale insieme dei diritti del socio, rappresenta un elemento
fondamentale affinché un’organizzazione d’impresa possa dirsi “societaria”. Riconoscere agli azionisti la
titolarità di partecipazioni sociale è essenziale per il buon funzionamento della società, dato che i soci devono
anche controllare la gestione svolta in via esclusiva dagli amministratori della SPA sui beni comuni. I soci
svolgono questo ruolo di controllo tramite i loro diritti partecipativi, incentivati dall’investimento
dell’azionista, dal rischio cui questo si è assoggettato e dalla prospettiva di subire una perdita o di ottenere
un utile. Le azioni sono unità minime indifferenziate della partecipazione individuale all’attività sociale e
ai suoi risultati, esse sono indivisibili, inscindibili e uguali.

Le azioni sono indivisibili (ART. 2347 CC), coerentemente al


INDIVISIBILITÀ E INSCINDIBILITÀ DELL’AZIONE
fatto che l’azione è l’unità minima predefinita dell’investimento in SPA. Lo statuto prevede la singola azione
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come limite al di sotto del quale non si può investire nella comune organizzazione. Coerentemente,
l’azionista non può suddividere in più parti la partecipazione all’attività sociale né si può imputare
separatamente ai titolari delle singole parti, in modo frazionato, diritti e obblighi sociali. L’azione può però
essere oggetto di contitolarità tra più persone (se così non fosse, si vincolerebbe ingiustificatamente
l’autonomia privata), ma deve garantirsi l’unitario esercizio della partecipazione in società. Nel caso di
comproprietà di un’azione i diritti dei comproprietari devono essere esercitati da un rappresentante
comune nominato a maggioranza (ART. 2347, CO. 1 CC). L’indivisibilità della partecipazione azionaria è un
mero riflesso della decisione statutaria sull’unità azionaria, ma ciò non toglie che la previsione su quale sia
l’unità azionaria adottata in una SPA, quindi quella relativa alla determinazione statutaria del valore
nominale dell’azione, potrebbe modificarsi osservando la procedura ex ART. 2436 CC. L’assemblea
straordinaria può sia ridurre, con conseguente frazionamento delle azioni in circolazione, sia aumentare,
con conseguente raggruppamento delle azioni in funzione della formazione di una nuova unità partecipativa
maggiore, il valore nominale unitario delle azioni (in entrambi i casi vengono ritirati i titoli azionari in
circolazione e consegnati i nuovi documenti adeguati all’attuale misura del valore nominale).

Le azioni sono inscindibili, nel senso che l’azionista non può frazionarle, ossia disporre in modo
parziale del contenuto dell’azione in favore di altri soggetti, attribuendo loro solo uno o più diritti azionari,
separandoli rispetto alla titolarità dell’intera partecipazione. Pertanto non è possibile vendere il voto:
l’esercizio di un diritto sociale da parte di chi lo ha isolatamente acquistato è illecito, in quanto contrario al
principio per cui il potere del socio (e quindi la possibilità di influire sulle sorti di una società) presuppone la
partecipazione del socio pro quota al rischio d’impresa.

UGUAGLIANZA E AUTONOMIA Le azioni attribuiscono ai relativi titolari partecipazioni uguali l’una alle
altre, avendo riguardo alle prerogative sociale ricollegabili: le azioni devono essere di uguale valore e
conferiscono ai loro possessori uguali diritti (ART. 2348, CO. 1 CC). Gli azionisti, pertanto, non possono
distinguersi sulla base di previsioni statutarie concernenti un soggetto o l’altro (la partecipazione in SPA è
spersonalizzata). Il principio di uguaglianza delle azioni non implica che tutte le azioni emesse da una società
siano identiche, anzi possono crearsi categorie diverse di azioni, che attribuiscono diritti particolari (ART.
2348, CO. 2 CC). La società ha interesse ad offrire relazioni partecipative diverse, così da intercettare nel
mercato dei capitali classi di investitori con aspettative di investimento diverse. La diversità della
partecipazione azionaria può essere quindi legata al tipo di azione posseduta, ma non alla persona che la
possiede: in tal caso si contrasterebbe col principio della tendenziale fungibilità dell’incidenza del socio
nell’attività comune e con lo stesso capitale. Gli azionisti detentori di azioni della medesima categoria
possono differenziarsi solo se possiedono diverse quantità delle azioni emesse da una SPA, poiché:
- la maggior parte delle prerogative sociali (es. il voto) sono misurate in base alla quota di capitale
detenuta e dunque al numero di azioni possedute, in conformità al criterio plutocratico (secondo cui
il potere è direttamente proporzionale alla ricchezza posseduta)
- alcuni diritti sociali sono condizionati ex lege, o possono essere condizionati per statuto, al possesso
di una partecipazione minima, e dunque alla titolarità di un dato numero di azioni.
Secondo parte della dottrina le azioni sono autonome, ognuna attribuisce al proprio possessore prerogative
esercitabili in modo autonomo, pertanto il medesimo soggetto può esercitare in modo diversificato le
prerogative sociali fondamentali (es. voto divergente: un socio può, nei confronti della stessa delibera,
esprimere voto favorevole per una parte delle azioni possedute e contrario per un’altra parte, e astenersi per
una terza porzione). Alcuni, però, ritengono che tale possibilità sia temperata dal principio di buona fede o
dal divieto di abuso del diritto, che rendono lecito l’esercizio diversificato dei diritti solo se giustificato da
ragioni obiettive. Tuttavia, se si accoglie il principio di autonomia si contrasta col fatto che i diritti sociali sono

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riconosciuti al socio per realizzare un interesse al risultato produttivo unitario, pertanto è illegittimo il
comportamento dell’azionista che, in mancanza di ragioni giustificatrici, esercita diversamente i diritti
sociali.

IL CONTENUTO DELLA PARTECIPAZIONE AZIONARIA In quanto titolare di azioni, all’azionista spettano


situazioni o prerogative soggettive, previste tipicamente ed inderogabilmente dalla legge: i cd. diritti sociali,
che si distinguono in diritti patrimoniali e diritti amministrativi.

IL DIRITTO AGLI UTILI Sono diritti patrimoniali il diritto agli utili e il diritto alla quota di liquidazione
della società in sede discioglimento generale o parziale del rapporto sociale. Sono prerogative che derivano
dall’inquadramento della SPA nella generale fattispecie societaria e dal dover rispettare il requisito dello
scopo lucrativo previsto dall’ART. 2247 CC. Sarebbe invalida la clausola che escludesse il diritto agli utili o alla
quota di liquidazione degli azionisti, anche se l’unanimità dei soci fosse d’accordo o in caso di società chiuse
(che prescindono da esigenze di tutela degli investitori reperibili nel mercato finanziario).
Il diritto al dividendo matura ogni anno solo se la società produce un utile di esercizio distribuibile e
se decide di distribuirlo. Gli utili da distribuire devono quindi anzitutto essere conseguiti realmente e
risultare da un bilancio regolarmente approvato (ART. 2433, CO. 2 CC). Affinché gli utili siano distribuibili è
necessario che:
1 essi risultino effettivamente utili di esercizio dal conto economico relativo all’anno in discussione
(la differenza tra ricavi e costi deve essere positiva)
2 gli utili da distribuire trovino capienza nello stato patrimoniale della società, al netto delle perdite
eventualmente prodottesi negli esercizi precedenti. Così si evita che la distribuzione degli utili di esercizio
intacchi quote di quell’attivo che in caso di immediata liquidazione della società servirebbe per pagare i
creditori sociali (viene salvaguardato il principio della postergazione dei diritti degli azionisti al
soddisfacimento deli altri creditori). Affinché gli utili possano essere distribuiti non è sufficiente che nella
società residui un patrimonio sufficiente a soddisfare i creditori, ma occorre anche che residui un patrimonio
netto di valore almeno pari al capitale sociale. Ne consegue che, se le perdite pregresse (al netto degli utili
maturati) sono dati da continuare ad intaccare il capitale anche negli esercizi successivi a quello in cui si sono
formate, anche in tali esercizi successivi gli utili non potranno essere distribuiti (ART. 2433, CO. 3 CC), poiché
altrimenti i soci verrebbero parzialmente rimborsati del capitale e ciò sarebbe inammissibile per mancanza
dei presupposti necessari ex ART. 2445 CC.
Affinché il socio abbia il diritto alla percezione del dividendo non è sufficiente che un utile
distribuibile risulti dal bilancio approvato di anno in anno, ma è necessario che l’assemblea dei soci emetta
una delibera con cui approvi il bilancio ed espressamente stabilisca la distribuzione dei dividenti in una certa
misura, dedotti gli accantonamenti previsti ex lege o per statuto. In proposito la maggioranza dei soci ha un
potere ampiamente discrezionale tale che, anche di fronte ad un bilancio che registra utili ragguardevoli, la
maggioranza dei soci può trattenere le relative somme, istituendo un’apposita riserva o rinviando ad esercizi
successivi ogni decisione circa la loro distribuzione: tutto ciò a meno che lo statuto imponga una distribuzione
in date percentuali dell’utile di esercizio eventualmente accertato (e sempre nel rispetto della regola sulla
capienza del patrimonio netto).

IL DIRITTO DI RECESSO Il successo della SPA quale strumento di canalizzazione di investimenti verso
l’impresa è legato al fatto che la sua disciplina contempera A l’esigenza che all’organizzazione di imponenti
attività commerciali siano destinati stabilmente capitali di rischio, e B l’interesse di chi ha apportato i capitali
di rischio a poterli disinvestire anche prima della fine di tali attività. Questo contemperamento è reso
possibile soprattutto dal fatto che il socio può trasferire in tutto o in parte la propria partecipazione, in quanto
rappresentata da azioni, nel mercato. Affinché tale meccanismo possa operare al meglio le azioni devono
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avere un mercato e questo deve essere adeguato alle legittime attese degli azionisti: i titoli devono poter
essere scambiati ad un prezzo che rifletta il valore della partecipazione all’attività, valore che dipende
soprattutto dalla percezione esterna delle potenzialità della SPA di produrre e distribuire utili in una certa
misura. Ma non sempre ciò si verifica, per questo, nei casi dove ritiene opportuno garantire un’effettiva
salvaguardia dell’interesse del socio al disinvestimento, la legge assicura al socio il diritto di recesso, ossia il
potere di sciogliersi dalla società, per mezzo di una propria, unilaterale manifestazione di volontà, e di
ottenere anticipatamente la quota di liquidazione.
L’ART. 2437 CC riconosce il diritto di recesso al verificarsi di alcune alterazioni significative
dell’organizzazione decise dalla maggioranza assembleare e idonee ad incidere sul programma produttivo
originario. Il diritto di recesso bilancia il potere della maggioranza di modificare qualsiasi profilo dello statuto
e l’interesse dell’azionista a non rimanere vincolato alla società nel mutato contesto organizzativo. Le cause
di recesso sono inderogabili e riguardano provvedimenti d’impatto sull’interesse del socio elencati dall’ART.
2437, CO. 1 CC (es. 1 la modifica dell’oggetto sociale, 2 la trasformazione della società, 3 il trasferimento della
sede sociale all’estero, 4 le modificazioni dello statuto concernenti i diritti di voto o di partecipazione, etc.) o
previsti da disposizioni speciali. In relazione a tali cause è nullo ogni patto volto a escludere o rendere più
gravoso l’esercizio del diritto di recesso (ART. 2437, ULTIMO COMMA CC).
Ci sono poi cause di recesso derogabili, ossia previste dalla legge, ma operanti solo se lo statuto non
dispone diversamente: 1 la proroga del termine della società, 2 l’introduzione o la rimozione di vincoli alla
circolazione dei titoli azionari.
La tutela del socio può anche essere rafforzata inserendo nello statuto (sono escluse le società che
ricorrono al mercato del capitale di rischio) ulteriori cause di recesso, che si aggiungono a quelle legalmente
prefigurate e che devono però essere collegate ad importanti mutamenti del programma organizzativo (es.
un aumento di capitale con esclusione del diritto di opzione), e non a mere vicende economiche della società.
L’azionista che non ha votato a favore della delibera modificativa è legittimato a recedere ed il recesso può
essere esercitato anche solo per alcune delle azioni possedute, ridimensionando così (e non azzerando) il
proprio investimento nella società.
Nel solo caso in cui la società non è quotata in un mercato regolamentato ed è costituita a tempo
indeterminato, ciascun socio ha un diritto di recesso ad nutum, ossia esercitabile liberamente in qualsiasi
momento e non collegato al verificarsi di particolari giustificazioni (così si evita che, in assenza di un mercato
delle partecipazioni, il socio rimanga prigioniero per sempre dell’affare intrapreso).
Il diritto di recesso deve essere esercitato con lettera raccomandata, da spedire entro 15 giorni
dall’iscrizione nel registro delle imprese della libera che lo legittima (ART. 2437 BIS CC). Il recesso potrebbe
derivare da un fatto diverso da una deliberazione: in questo caso la lettera raccomandata deve essere
spedita entro 30 giorni dalla conoscenza del fatto da parte del socio. Dall’esercizio del recesso le azioni del
socio recedente devono rimanere depositate presso la sede sociale, per evitarne la circolazione, la quale
sarebbe incoerente con l’intento manifestato dall’azionista ed incompatibile col regolare svolgimento della
procedura di liquidazione.
Quanto al procedimento per calcolare la quota di liquidazione, vi sono precisi criteri stabiliti dalla
legge che proteggono il valore dell’investimento azionario ed l’interesse del socio alla sua monetizzazione al
momento di uscire dalla SPA. Il valore di liquidazione è stabilito dagli amministratori, sentito il parere del
collegio sindacale e di chi revisiona i conti, tenuto conto della consistenza patrimoniale della società e delle
sue prospettive reddituali, nonché dell’eventuale valore di mercato delle azioni (ART. 2437 TER, CO. 2 CC). Il
patrimonio sociale va valutato in base ai suoi valori reali attuali (non ai valori di bilancio). Per le azioni quotate
la liquidazione è invece calcolata considerando la media aritmetica dei prezzi di chiusura nei 6 mesi che
precedono la pubblicazione o la ricezione dell’avviso di convocazione dell’assemblea le cui deliberazioni
legittimano il recesso (ART. 2437 TER, CO. 3 CC).
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Vi sono poi delle regole, dettate dall’ART. 2437 TER CC, che tutelano il socio in vista della corretta
determinazione della quota di liquidazione. Nei casi in cui il recesso è legittimato da una delibera
assemblare, chi è interessato a recedere può vedere anticipatamente la determinazione del valore delle
azioni ai fini del recesso, che deve essere approntata (e può essere richiesta dal socio) nei 15 giorni precedenti
alla data fissata per l’assemblea. Se i soci intendono contestare la determinazione effettuata, possono farlo
con la stessa dichiarazione di recesso, sollecitando così una diversa stima da parte di un esperto nominato
dal tribunale, il quale è chiamato ad effettuarla tramite relazione giurata.
La procedura di liquidazione è regolata dall’ART. 2437 QUATER CC. In linea di principio il recesso
dell’azionista non estingue la partecipazione sociale, ma la trasferisce ad altri soggetti. Le azioni del recedente
devono essere offerte in opzione agli altri soci, che hanno diritto di acquistarle, ad un prezzo pari al valore
indicato nella stima degli amministratori o dell’esperto, in proporzione alla rispettiva partecipazione, e con
diritto di proporsi anche per l’acquisto delle azioni che rimanessero inoptate. Se mancano soci interessati, gli
amministratori possono cercare altri soggetti disponibili all’acquisto (e nelle società quotate negoziare la
vendita sui mercati regolamentati). Le azioni che residuano da una tale procedura (per non trovarsi
acquirenti) devono essere rimborsate direttamente dalla società, che provvederà ad acquistarle, attingendo
a riserve disponibili o utili distribuibili. Se non vi sono tali fondi, in alternativa a sciogliere l’intera SPA, si dovrà
deliberare una riduzione del capitale sociale ex ART. 2445 CC. Se i creditori si oppongono alla riduzione,
l’assemblea, alternativamente, dovrà deliberare o lo scioglimento della società o la revoca a monte della
prima delibera da cui si era originato il diritto di recesso.

I DIRITTI AMMINISTRATIVI DELLA GENERALITÀ DEI SOCI. IL DIRITTO DI VOTO I diritti amministrativi sono le
prerogative che esprimono modi e termini di partecipazione del socio alla realizzazione dell’attività sociale
(contribuendo a produrre le regole che indirizzano l’azione della persona giuridica SPA). Anzitutto vi sono i
diritti rispondenti ad un interesse riferibile alla generalità dei soci, che concorrono alla formazione delle
delibere assembleari: i diritti di intervento in assemblea e di voto (ARTT. 2351 e 2370). Poi ci sono le
situazioni del socio a protezione di un’esigenza della minoranza azionaria nei rapporti con la maggioranza.
Attraverso il diritto di voto gli azionisti possono concorrere nel determinare la volontà assembleare,
incidendo così sulla vita della società sia direttamente, concorrendo alle scelte organizzative dell’attività
sociale di competenza esclusiva dell’assemblea, sia indirettamente, influendo così sulla gestione,
concorrendo nella nomina e nella revoca degli amministratori. L’interesse individuale ad incidere col voto
sull’iniziativa imprenditoriale non è essenziale nella partecipazione azionaria. Ex ART. 2351, CO. 2 CC infatti
lo statuto può prevedere azioni senza diritto di voto, azioni con diritto di voto limitato a particolari argomenti,
azioni con diritto di voto subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative. Il
controllo degli azionisti sull’attività sociale è uno strumento fondamentale di equilibrio dell’attività sociale,
che mira a scongiurare che chi gestisce la società persegua iniziative azzardate. Per questo l’autonomia
statutaria ha il potere (non assoluto) di creare azioni con diritto di voto escluso o limitato: il valore di tali
azioni non può complessivamente superare la metà del capitale sociale (ART. 2351, CO. 2 CC).
Vale la regola generale di un’azione-un voto: ogni azione attribuisce il diritto di voto (ART. 2351, CO.
1 CC). L’unità d’investimento rappresentata dall’azione è un’unità di potere azionario: per aumentare la
propria capacità di incidere sulle sorti della società, il socio deve incrementare proporzionalmente la propria
quota di investimento nel capitale sociale (es. acquistando azioni). Così si incoraggia l’investimento, quale
principale mezzo per controllare la società, e si consolida il principio plutocratico, di distribuzione del potere
sulla base della quantità di ricchezza investita. Tuttavia, considerando la varietà dei modelli organizzativi per
i quali è ipotizzabile l’utilizzo della SPA, l’autonomia statutaria può stabilire delle deroghe al principio
plutocratico, deroghe adottabili soprattutto nei casi in cui la società voglia il comando stabilmente
centralizzato o una tendenziale democrazia partecipativa. Salvo quanto previsto da leggi speciali, lo statuto
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può prevedere la creazione di azioni con diritto di voto plurimo anche per particolari argomenti o
subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative (ART. 2351, CO. 3 CC). Inoltre,
ciascuna azione a voto plurimo può avere fino a massimo 3 voti. Così l’autonomia può configurare assetti
societari in cui determinati azionisti, in possesso di azioni a voto plurimo, possono detenere una stabile quota
di controllo dell’assemblea: così facendo si annulla o si riduce la possibilità che la società sia soggetta a
periodici cambi di maggioranza e si rafforzano le probabilità che l’operato degli amministratori sia soggetto,
da parte del socio stabilmente interessato al suo governo, ad un continuo monitoraggio.

L’emissione di categorie azionarie a voto plurimo o a voto limitato/escluso consente ai soci di


riferimento di acquisire risorse finanziare collocando azioni presso altri soggetti, ma senza perdere il controllo
della società: tali soci conservano tale controllo anche senza detenere la maggioranza del capitale. I limiti
legali contemperano tale interesse con l’esigenza di assicurare l’equilibrio dell’attività sociale, impedendo
che i soggetti titolari di partecipazioni minime, portatori di investimenti marginali rispetto alle dimensioni
della società, controllino la società. Per effetti dei limiti normativi imposti all’autonomia, lo statuto non può
far scendere la partecipazione minima di controllo sotto al 12,5% + 1 del capitale: soglia che si otterrebbe se
la società emettesse azioni prive di voto per la metà del capitale e una ulteriore categoria di azioni a voto
triplo, per un ottavo (12,5%) dello stesso (il titolare di queste e di un’altra azione a voto unitario godrebbe
della maggioranza dei voti esercitabili in assemblea). Il voto plurimo è vietato nelle società quotate, allo
scopo di proteggere la contendibilità del controllo: tali società mantengono (quindi non sono tenute ad
annullare) le azioni a voto plurimo solo se già emesse anteriormente alla quotazione.

Si può moderare il principio plutocratico, per facilitare un’opposta regola di democrazia azionaria,
impedendo l’automatica progressione del potere di controllo a misura dell’aumento del numero di azioni
possedute. Lo statuto può infatti, in relazione alle azioni possedute da uno stesso soggetto, stabilire che il
diritto di voto sia limitato ad una misura massima oppure disporne scaglionamenti (ART. 2351, CO. 3 CC). Il
possesso in una sola persona di una certa percentuale di azioni conduce a neutralizzare le azioni sul piano
amministrativo in un caso, in relazione alla quota posseduta sopra una soglia data (es. stabilendosi che il voto
non spetti per la parte di azioni, posseduta dalla stessa persone, eccedente il 5% del capitale sociale), in un
altro caso, per salti tra uno scaglione e l’altro (es. il voto non spetta al di sotto della soglia del 10% e non
aumenta al raggiungimento del 20%, 30%). Le società quotate possono definire una maggiorazione del voto
per il singolo socio in conseguenza dell’eventuale possesso continuativo di azioni (anche ordinarie).

I DIRITTI DELLA MINORANZA Nella SPA si contrappongono soggetti portatori di interessi distinti:
all’interesse degli amministratori a gestire indisturbati l’impresa fa da contraltare l’interesse dei soci a
controllare l’impresa, per ridurre il rischio che gli amministratori approfittino della propria posizione di
detentori esclusivi della gestione e indirizzino quest’ultima verso scopi contrari a quelli per i quali è stata loro
conferita. Per proteggere tale esigenza sono previste le competenze dell’assemblea dei soci e le prerogative
di quest’ultimi. Nella SPA si contrappongono anche gli interessi della maggioranza e quelli della minoranza
dei soci: la maggioranza dei soci ha il potere di determinare o indirizzare le scelte sociali, mentre la minoranza
dei soci ha l’aspettativa di evitare che l’esercizio di tale potere realizzi un’ingiusta prevaricazione, strumentale
al perseguimento di interessi personali non conseguenti a realizzare la causa lucrativa comune. Per tutelare
tale aspettativa, ed evitare che alcuni soci si approfittino ingiustamente del proprio potere, gli azionisti
detentori di quote minori del capitale sociale hanno i cd. diritti della minoranza, a protezione contro
eventuali abusi della maggioranza o, nell’inerzia di questa, per sollecitare gli organi sociali ad adempiere ai
propri doveri fiduciari nel perseguimento dell’oggetto sociale. La minoranza ha anzitutto prerogative
funzionali a promuovere la regolare attività dell’assemblea: possono sollecitarne la convocazione (ART. 2367
CC), rinviare la riunione per preparare meglio la discussione (ART. 2374 CC), impugnare le delibere
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dell’assemblea (ART. 2377, CO. 3 CC). Il socio di minoranza di società quotate, per le speciali dinamiche di
governo operati in relazione a tali enti, ha prerogative particolari (il diritto all’integrazione dell’ordine del
giorno, presentare domande ante assemblea). Ci sono poi casi in cui la tutela accordata è occasionata da
comportamenti degli amministratori, attuati in accordo con la maggioranza. Sono casi in cui la minoranza
può sollecitare l’intervento nei loro confronti degli organi di vigilanza e controllo: ad esempio i soci hanno il
potere di denunciare gli amministratori al collegio sindacale, se gli amministratori compiono fatti censurabili
(ART. 2408 CC), oppure al tribunale, se hanno il fondato sospetto che gli amministratori hanno compiuto
gravi irregolarità nella gestione (ART. 2409 CC). In quasi tutti tali casi, il socio, o i gruppi di soci, hanno tali
prerogative solo se possiedono (in solitario o congiuntamente) particolari percentuali del capitale sociale.
Tale delimitazione dei poteri di stimolo e sollecitazione del socio attenua il rischio di comportamenti ispirati
ad un intento emulativo o ricattatorio da parte dei titolari di una sola azione o di quote di investimento
marginali rispetto al capitale complessivamente destinato all’attività comune.

PEGNO, USUFRUTTO E SEQUESTRO DI AZIONI Dei diritti fin qui visti è di norma titolare il socio titolare di
azioni. Il socio titolare di azioni può esercitare tutte le prerogative collegate alle azioni che formano la
partecipazione sociale. C’è tuttavia una compressione se le azioni sono sottoposte a vincoli reali o giudiziali:
in tal caso vanno conciliati l’interesse del socio alla partecipazione con l’interesse di terzi a che tali vincoli
sorgano. Il legislatore, in particolare, considera il caso in cui le azioni siano oggetto di pegno o usufrutto o
siano sottoposte ad un generico sequestro, e determina a chi compete in questi casi l’esercizio dei diritti
azionari, tenendo conto l’interesse dei terzi al soddisfacimento, tramite la partecipazione in società, delle
esigenze in vista delle quali i vincoli sono immaginati, e come tali esigenze si possono al meglio conciliare con
il perseguimento dell’interesse sociale. In caso di pegno o usufrutto, salvo sia diversamente previsto il diritto
di voto (ART. 2352 CC) spetta al creditore pignoratizio o all’usufruttuario, mentre il sequestro è esercitato
dal custode. Il creditore pignoratizio e l’usufruttuario occupano una posizione autonomamente rilevante
nell’organizzazione sociale: nell’esercizio del voto essi possono ispirarsi al proprio interesse protetto dalla
loro situazione soggettiva (usufrutto, pegno). Mentre in caso di sequestro il custode esercita i diritti per conto
altrui, essendo opportuno che tale esercizio, durante il sequestro, sia precluso al reale interessato. Il diritto
di opzione, in caso di aumento di capitale a pagamento, spetta invece al socio (ART. 2352, CO. 2 CC), come
anche le nuove azioni rivenienti dall’operazione, una volta emesse. Per quanto riguarda tutti gli altri diritti
amministrativi della minoranza (es. diritto ad impugnare le delibere assembleari viziate), nel caso di
sequestro li esercita il custode, mentre in caso di pegno o usufrutto possono essere esercitati sia dal creditore
pignoratizio/usufruttuario sia dal socio. Per quanto concerne, invece, i diritti patrimoniali, premesso che
verso la società legittimati a percepire gli utili e la quota di liquidazione sono i titolari dei diritti frazionari, nei
rapporti interni la titolarità dei diritti patrimoniali segue il regime dell’istituto considerato ogni volta.

LE CATEGORIE DI AZIONI: LA LIBERTÀ DI CREARE AZIONI SPECIALI In generale vale il principio di uguaglianza
per le azioni. Tuttavia si possono creare, con lo statuto o con le successive modifiche dello statuto, categorie
di azioni fornite di diritti diversi (ART. 2348, CO. 2 CC). Le SPA possono emettere azioni speciali, diverse da
quelle cd. ordinarie poiché attribuiscono diritti non coincidenti (per genere o misura) con quelli collegati, nel
silenzio dello statuto, al possesso dell’azione. Si emettono azioni speciali per diversificare l’offerta di
strumenti finanziari di raccolta di capitale, data la varietà di interessi che possono esprimere gli investitori
presenti sul mercato e quindi l’articolazione della domanda di investimento da essi rappresentata. Tra gli
investitori presenti sul mercato vi possono essere sia quelli interessati al controllo della società e alla
partecipazione alle dinamiche d’impresa sia quelli interessati solo al profitto e al risultato dell’attività. Tra
questi ultimi vi sono poi quelli che adottano un’ottica industriale di lungo periodo e gli speculatori puri,
interessati a lucrare in un breve arco di tempo sul gioco dei listini. Poi, ci sono quelli con maggiore

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propensione al rischio e quelli che cercano di ridurlo al massimo, se pur nei limiti di un investimento (com’è
quello di azioni) soggetto di per sé al pericolo dell’integrale perdita in caso di crisi del capitale investito. Anche
in questi casi l’azione rimane spersonalizzata. Non si può dar vita ad una singola azione attributiva di
particolari diritti, ad hoc, per rispondere alle esigenze di un singolo socio. Si può solo creare una categoria di
azioni, ossia più azioni uguali tra loro e tramite gli speciali diritti che attribuiscono intercettare le esigenze di
una particolare classi di investitori. Per assecondare una domanda di investimento diversificata, l’autonomia
statutaria ha la libertà di creare categorie speciali. Nonostante prefiguri alcune fattispecie determinate, per
fissarne generalmente l’ammissibilità, la legge non stabilisce un catalogo chiuso di tipi di azioni: i soci sono
liberi (al momento di costituzione della SPA o in sede di modifica statutaria) di conformare ogni categoria
senza dover seguire schemi predefiniti. Quanto infine al contenuto particolare delle azioni speciali, la
specialità deve consistere nell’attribuzione o esclusione di particolari diritti e questi possono riguardare sia
la posizione patrimoniale del socio sia quella amministrativa.

LE FATTISPECIECon riguardo ai diritti patrimoniali possono crearsi categorie di azioni che attribuiscono
ai relativi possessori un privilegio patrimoniale, ossia il diritto ad un utile maggioritario o maggiormente
garantito rispetto agli altri azionisti. Gli azionisti speciali possono avere o A una percentuale in più rispetto
alla percentuale destinata agli azionisti ordinari dell’utile distribuito, o B una priorità nella riscossione del
diritto al dividendo entro certe percentuali (es. gli azionisti ordinari possono concorrere al dividendo solo
dopo che gli azionisti speciali hanno ricevuto una remunerazione pari al 2% del capitale investito). La diversità
della posizione patrimoniale dell’azionista di categoria può riguardare anche l’incidenza delle perdite (ART.
2348, CO. 2 CC), si può cioè creare una categoria azionaria che attribuisce all’azionista speciale (anche come
unico vantaggio offertogli) il diritto di subire l’imputazione delle eventuali perdite della SPA, in sede di
riduzione del capitale, solo dopo che le stesse abbiano colpito la partecipazione degli altri soci.

ES Una SPA con capitale 500.000 €, di cui 100.000 rappresentato da azioni speciali postergate nelle perdite e
400.000 da azioni ordinarie, delibera una riduzione del capitale per perdite pari a 200.000 €: viene abbattuta solo la
partecipazione degli azionisti titolari delle azioni ordinarie la cui quota di capitale si riduce da 400.000 a 200.000 €, e il
rapporto tra azioni speciali e azioni ordinaria passa da 1/5 a 1/3.

Sempre parlando delle prerogative patrimoniali, rappresentano una partecipazione particolare le cd.
azioni correlate (ART. 2350, CO. 2 CC), fornite di diritti patrimoniali correlati ai risultati dell’attività sociale
in un determinato settore. Sono titoli che collegano la remunerazione dell’investimento del socio all’utile
prodotto da essa in un dato settore, ossia ai profitti derivanti dalla realizzazione di uno specifico affare. Ciò è
coerente con la promozione dell’autonomia privata in ambito societario e la liberalizzazione delle regole
sull’organizzazione della SPA. Tale categoria di azioni è usata nel caso in cui vi siano investitori interessati a
puntare su particolari prodotti in via separata rispetto ad altri. Non possono essere pagati dividenti ai
possessori di azioni correlate se non nei limiti degli utili risultanti dal bilancio della società (ART. 2350, CO.
3 CC): i titolari di tali azioni sono sempre azionisti, quindi sono soggetti alla regola generale secondo cui il
diritto alla riscossione di utili presuppone l’esistenza di fondi sufficienti a coprire le passività della società e il
capitale.

Dal punto di vista dei diritti amministrativi del socio è possibile sia potenziare sia comprimere
l’ordinaria posizione del socio (ART. 2351 CC). Sia in relazione ad ogni assembla sia con riguardo a particolari
decisioni si possono creare azioni a voto plurimo (doppio o triplo) o escludere il diritto di voto dell’azionista
(si parla di azioni a voto escluso e di azioni a voto limitato ad es. alle materie di competenza dell’assemblea
straordinaria). Ci sono poi le azioni a voto condizionato, dove il diritto di voto delle azioni speciali è
subordinato al verificarsi di particolari condizioni (es. il diritto di voto spetta solo se, nell’esercizio precedente,
non sono stati distribuiti gli utili). Possono quindi esserci contemporaneamente azionisti che, pur godendo
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degli stessi diritti patrimoniali, anche a parità di capitale investito hanno un potere molto diverso di incidere
nella vita sociale. Rimane dubbio se tale incidenza può spingersi fino ad attribuire all’azionista diritti
amministrativi potenziati ulteriori rispetto a quelli ex ART. 2351 CC (es. il diritto di veto nei confronti di
determinate decisioni o il diritto di nomina di un membro del consiglio di amministrazione).

Salva diversa disposizione dello statuto sono prive del diritto di voto le cd. azioni di godimento (ART.
2353 CC), emesse in favore dei soggetti cui è stato rimborsato, in sede di riduzione reale del capitale sociale,
il valore nominale delle azioni precedentemente possedute. Il diritto dei titolari di queste azioni a percepire
gli utili, o a concorrere alla ripartizione del patrimonio sociale residuo in sede di scioglimento della società, è
severamente mortificato: essi hanno solo il diritto a concorrere A nella ripartizione degli utili che residuano
dopo il pagamento delle azioni non rimborsate, di un dividendo pari all’interesse legale e, B nel caso di
liquidazione, nella ripartizione del patrimonio sociale residuo dopo il rimborso delle altre azioni al valore
nominale.

Dato il principio di libertà di creazione di categorie di azioni, l’autonomia privata può elaborare altre
categorie di azioni. Le azioni speciali sono infatti atipiche. Gli unici limiti inderogabili sono 1 il divieto del
patto leonino (ART. 2265 CC, applicabile a tutti i tipi societari) e 2 il rispetto di un equilibrio tra rischio e
potere, nell’allocare il diritto di voto tra le varie categorie (il valore complessivo delle azioni con voto limitato
o escluso non può superare la metà del capitale sociale). Infine nelle società quotate è vietato emettere
azioni a voto plurimo.

LE ASSEMBLEE SPECIALI La ricorrenza di più emissioni diversificate, quindi di categorie di azioni,


determina un governo societario più articolato, considerando le competenze ordinarie dell’assemblea dei
soci. La varietà dei diritti rappresentati dalla compagine sociale implica una maggiore difficoltà nel comporre
i diversi interessi, in vista del formarsi di un indirizzo, in relazione all’attività sociale, comune. Da un lato
occorre proteggere i portatori degli interessi della categoria, minoritariamente rappresentata nel capitale
sociale, contro eventuali decisioni della maggioranza che non tengano conto delle particolari esigenze
espresse dai portati degli interessi della categoria; dall’altro, affinché la SPA funzioni, la maggioranza deve
poter assumere decisioni opportune nell’interesse sociale, senza dover necessariamente adeguarsi alle
attese dei singoli soci di categoria, anche promuovendo radicali innovazioni nelle regole originariamente
decise al momento delle singole emissioni (regola generale in caso di modifiche statutarie). Per contemperare
queste varie esigenze vi è un organo particolare, l’assemblea speciale degli azionisti di categoria, al cui
funzionamento si applicano le regole dettate in materia di assemblea straordinaria (ART. 2376, CO. 2 CC).
Per tutelare gli interessi di categoria contro l’eventualità che il potere della maggioranza dei soci prevalga,
quando le deliberazioni dell’assemblea pregiudicano i diritti di una categoria di azioni, esse devono essere
approvate anche dall’assemblea speciale degli appartenenti alla categoria interessata (ART. 2376, CO. 1 CC),
pena l’inefficacia di tali deliberazioni. L’assemblea generale degli azionisti può, con le ordinare maggioranze,
modificare anche in peggio i diritti delle azioni speciali e, per rendere efficace la modifica, non ha bisogno del
consenso individuale di tutti i titolari della categoria pregiudicata dalla modifica, ma neppure può imporre la
propria decisione su quella dei soci di categoria: essa dovrà ottenere il consenso della maggioranza dei soci
di categoria, espressa in forma di delibera dell’assemblea speciale.

I TITOLI AZIONARI. LEGITTIMAZIONE DEL SOCIO E CIRCOLAZIONE DELLE AZIONI

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LE DIVERSE TECNICHE DI DOCUMENTAZIONE DELL’AZIONE Uno dei motivi per cui vi è un ampio utilizzo
della SPA, e della formula azionaria, è che gli azionisti possono disinvestire prima della conclusione
dell’affare, utilizzando il mercato secondario, ossia trasferendo a terzi le azioni già emesse. Le azioni sono
astrattamente trasferibili. Inoltre, affinché le azioni possano circolare facilmente occorre un efficiente
105
precedentemente impegnati nell’iniziativa. Ciò non toglie che una SPA possa adottare regole di limitazione
della circolazione delle azioni: nelle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, gli
azionisti possono avere interesse a controllare e condizionare il ricambio nelle quote di titolarità dell’impresa,
per evitare che tale ricambio alteri i precedenti assetti di governo. E ciò non per forza per un interesse loro
individuale: l’agire della SPA è influenzato dagli equilibri della compagine dei soci tale che può essere
necessario evitare che gli equilibri, una volta raggiunti, non vengano sconvolti dall’ingresso in società di terzi.
Per questo, in caso di emissione di azioni nominative o di mancata emissione dei relativi titoli, l’autonomia
statutaria può vincolare o condizionare la libera circolazione delle azioni (ART. 2355 BIS CC). Per consentire
l’opponibilità delle limitazioni statutarie ai terzi acquirenti (in applicazione dei principi cartolari ed in
particolare della regola di letteralità), le limitazioni al trasferimento delle azioni devono risultare dal titolo.
Lo statuto può vietare del tutto il trasferimento delle azioni (divieto di trasferimento), cementando
così la compagine sociale iniziale allo scopo di realizzare un determinato programma commerciale, ma il
divieto può durare al massimo (pena l’incompatibilità con i caratteri essenziali della SPA) 5 anni dalla
costituzione della società o dal momento in cui il divieto è introdotto.
Nella prassi vi sono altre clausole che derogano alla regola della libera circolazione. Sono diffuse le
clausole statutarie di prelazione, con cui si stabilisce che il socio che intende trasferire le azioni (per mezzo
di una compravendita o in occasione di vicende traslative diverse) è vincolato ad offrire prima agli altri soci,
i quali avranno diritto (in proporzione alle rispettive partecipazioni) a essere preferiti nell’acquisto, di regola
a parità di condizioni (cd. prelazione propria) rispetto al terzo interessato allo stesso acquisto. Oppure
(clausola di prelazione impropria) è stabilito che i soci possono acquistare le azioni offerte, sempre con
preferenza rispetto a terzi interessati, ma attraverso la corresponsione di un prezzo (non liberamento
stabilito dall’offerente, bensì) determinato dagli organi sociali, o da un abritratore, sulla base di criteri
oggettivi predefiniti (purché tali da condurre ad un prezzo congruo). Di norma l’alienante comunica la
propria intenzione di vendere alla società e gli altri soci, da questa informati, hanno un certo periodo di
tempo entro cui far pervenire le loro eventuali dichiarazioni di esercizio della prelazione. Se la prelazione
non è esercitata, o è esercitata parzialmente, l’alienante è libero di cedere le proprie azioni al terzo con cui
avere originariamente trattato.
Si può avere poi una clausola di chiusura della compagine sociale, ossia la clausola di gradimento,
con cui il trasferimento delle azioni è subordinato al consenso degli organi sociali (es. dell’organo
amministrativo, o dell’assemblea, ma non di singoli soci o di terzi). L’intento degli azionisti è selezionare le
persone che possono entrare a far parte della compagine sociale, sulla base di criteri predeterminati o di
considerazioni da svolgere nel singolo caso. La clausola deve essere compatibile con la regola secondo cui
all’azionista va concessa l’astratta possibilità di disinvestire. Per questo è valida la clausola che puntualizza
ex ante i criteri in base ai quali deve concedersi il placet societario all’aspirante acquirente (clausola di
gradimento non mero – es. il gradimento potrà negarsi ai non residenti in una certa regione). Le clausole
che invece subordinano il trasferimento delle azioni al mero gradimento degli organi sociali (clausole che
non indicano nello statuto i criteri sui quali dovrà basarsi la decisioni degli organi sociali) sono inefficaci se
non prevedono, a carico della SPA o degli altri soci, un obbligo di acquisto o il diritto di recesso dell’alienante
(ART. 2355 BIS, CO. 2 CC). Lo stesso regime si applica alla clausola che sottopone a particolari condizioni il
trasferimento delle azioni mortis causa, salvo sia previsto il gradimento e questo sia concesso (ART. 2355
BIS, CO. 3 CC). Insomma, l’organo sociale ha la possibilità di selezionare liberamente, ma al socio è comunque
garantita la possibilità di effettivo disinvestimento (per mezzo del recesso o della vendita della azioni alla
società o agli altri soci).

LE AZIONI PROPRIE E LE PARTECIPAZIONI SOCIALI DELLA SPA

109
il principio di integrità del capitale sociale (se la società riceve da un dato sottoscrittore un conferimento di
100 e poi acquista per la stessa cifra le relative azioni, potrebbe sottrarre alle finalità sociali delle risorse che
dovrebbero restare irreversibilmente destinate a tali finalità). L’acquisto di azioni proprie, ove sia comunque
decisa, può avvenire solo con mezzi ulteriori rispetto a quelli che forniscono da copertura netta alla cifra
del capitale nominale. Sempre a protezione del capitale sociale, possono acquistarsi solo azioni interamente
liberate (ART. 2357, CO. 1, ULTIMA PARTE CC), per le quali cioè non residui un debito di conferimento a carico
del socio alienante. Lo stesso vale per l’acquisto di azioni della controllante da parte della controllata (ART.
2359 BIS CC).
2 l’operazione riflette sugli equilibri di governo societario, bisogna evitare che l’acquisto di azioni
proprie venga effettuato in modo strumentale per alterare gli assetti preesistenti tra i soci (lo stesso vale per
l’acquisto da parte della controllata, ex ART. 2359 BIS CC). Pur rientrando la materia nella normale
competenza dell’organo di gestione, è necessaria un’autorizzazione dell’assemblea ordinaria sia per
l’acquisto (ART. 2357, CO. 2 CC) sia per la successiva disposizione delle azioni proprie (ART. 2357 TER, CO. 1
CC). Quanto alla disciplina delle azioni proprie nel periodo di detenzione da parte della società emittente, il
diritto di voto è sospeso, ma le azioni proprie sono computate ai fini del calcolo delle maggioranze e delle
quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea (ART. 2357 TER, CO. 2 CC). Così si
impedisce agli amministratori ed ai soci in generale di usare le azioni proprie per intervenire direttamente
sulle dinamiche assembleari. Le azioni proprie sono poi neutralizzate sul piano della loro partecipazione alla
struttura finanziaria: finché le stesse rimangono detenute dalla società emittente, il diritto agli utili e il diritto
di opzione sono attribuiti proporzionalmente alle altre azioni (ART. 2357 TER CC).
3 c’è infine un limite quantitativo di azioni proprie (o della controllante) acquistabili, ma solo per le
azioni delle società che ricorrono al mercato del capitale di rischio: il valore nominale delle azioni proprie
acquistate non può eccedere la quinta parte del capitale sociale, considerando a tal fine anche le azioni
possedute da società controllate.
Infine, in caso di violazione di tali regole norme speciali (che derogano alle ordinarie sanzioni stabilite
dal CC in materia negoziale per il mancato rispetto di norme imperative) prevedono obblighi di alienazione
e annullamento delle azioni illegittimamente acquistate o detenute dalla SPA emittente.

L’AUTO-SOTTOSCRIZIONE DI AZIONI: SOTTOSCRIZIONE DI AZIONI PROPRIE, SOTTOSCRIZIONE DA PARTE DELLA


SOCIETÀ CONTROLLATA, SOTTOSCRIZIONE RECIPROCA Quanto detto finora vale per l’acquisto di azioni, da parte
della emittente o della sua controllata, a titolo derivativo. Una disciplina più rigorosa è prevista invece per il
caso in cui la società procede ad un acquisto a titolo originario, attraverso una sottoscrizione di azioni. La
società non può sottoscrivere azioni proprie (ART. 2357 QUATER, CO. 1 CC – disposizione imperativa). La
società controllata non può sottoscrivere le azioni emesse in un aumento di capitale deliberato dalla
controllante (ART. 2359 QUINQUIES CC). Sono divieti assoluti, che non ammettono deroghe, previsti per
tutelare l’effettività del capitale sociale (sottoscrivendo azioni proprie la società farebbe figurare un
incremento di capitale, cui non corrisponderebbe alcun ingresso di nuove risorse finanziarie nel suo
patrimonio). Oltre a ciò l’operazione sarebbe contraddittoria, poiché si risolverebbe nell’investire nel
programma sociale risorse in realtà ad esso già destinate. In caso di violazione di tali divieti, ex ART. 2357
QUATER, CO. 2 CC le azioni si intendono sottoscritte e devono essere liberate dai promotori e dai soci
fondatori o, in caso di aumento del capitale sociale, dagli amministratori (eccetto coloro che non hanno
colpa). Lo stesso vale per gli amministratori della controllata che ha sottoscritto azioni della controllante
(ART. 2359 QUINQUIES, CO. 2 CC).
Infine è possibile che vi sia una sottoscrizione reciproca di azioni ex ART. 2360 CC: due società non
legate da rapporti di controllo decidono in parallelo di costituirsi o aumentare il proprio capitale, l’una
sottoscrivendo, per il medesimo importo, l’emissione dell’altra. Anche in questo caso la sottoscrizione di

111
azioni è perentoriamente vietata, poiché l’afflusso di conferimenti da una SPA all’altra si rivela solo
apparente: ciascun ottiene le stesse somme che ha destinato all’altra, continuando a disporre, pure ad
operazione completata, delle stesse risorse detenute in precedenza. Il rischio è che tramite la reciproca
sottoscrizione due società moltiplichino i propri capitali nominali senza incrementare le rispettive dotazioni
di mezzi destinati a servizio dell’attività.

IL FINANZIAMENTO PER L’ACQUISTO DI AZIONI PROPRIE L’ultima operazione su azioni proprie è il


finanziamento, ossia l’erogazione di un prestito, e la concessione di garanzie (es. fideiussione) da parte della
SPA nei confronti di soggetti intenzionati all’acquisto a titolo derivativo o alla sottoscrizione di azioni emesse
dalla SPA. La SPA può avere interesse ad agevolare l’ingresso nella compagine sociale di terzi investitori, al
fine di realizzare accordi che implicano una partecipazione esterna o di facilitare l’ingresso nell’azionariato di
managers e dipendenti. È normale quindi che la SPA impegni risorse sociali a tali fini, ma bisogna evitare le
indirette conseguenze negative che l’operazione potrebbe provocare nei confronti dell’organizzazione.
Infatti la SPA può realizzare tale negozio solo rispettando i precisi presupposti ex ART. 2358 CC: 1 l’assemblea
straordinaria, in seguito allo svolgimento di un’attività istruttoria da parte degli amministratori, deve rendere
una delibera di autorizzazione della concessione del finanziamento o delle garanzie, al fine di assicurare la
razionalità e la sostenibilità dell’operazione, 2 per il finanziamento o le garanzie si deve ricorrere a fondi tratti
da utili distribuibili e riserve disponibili, non destinati a fungere da copertura nei confronti al capitale sociale
(ART. 2358, CO. 3 CC). La legge, se pur entro certi limiti, consente il finanziamento per l’acquisto di azioni
proprie, ma vieta l’accettazione di azioni proprie in garanzia (ART. 2358, CO. 7 CC).

L’ASSUNZIONE DI PARTECIPAZIONI SOCIALI QUALIFICATE L’acquisto di azioni proprie o della controllante


è un investimento particolare. L’assunzione di partecipazioni in altre società, invece, è un’operazione spesso
rientrante negli atti di gestione straordinaria che le SPA compiono. La SPA può decidere di acquistare
partecipazioni:
A per ragioni industriali, ed in questo caso l’acquisto è un mezzo per generare una situazione di
controllo o collegamento tra società (ART. 2359, CO. 1 e 3 CC) e porre così i presupposti per articolare l’attività
in più comparti o realizzare intese strategiche tra soggetti diversi,
B per ragioni finanziarie, ed in questo caso l’acquisto di partecipazione è realizzato o per l’impiego
di liquidità utile in via accessoria rispetto al perseguimento di un oggetto sociale industriale (per formare,
mantenere o accrescere il valore di tale liquidità, questa è investita nella partecipazione in altri business) o,
in via principale, quale momento di diretta realizzazione di un oggetto sociale viceversa centrato sulla
realizzazione di profitti tramite la diretta acquisizione e gestione di un portafoglio di partecipazioni nel
capitale di rischio di imprese selezionate (nelle società finanziarie o nelle holding).
L’assunzione di partecipazioni in altre imprese, anche se prevista genericamente nello statuto, non
è consentita, se per la misura e per l’oggetto della partecipazione ne risulta sostanzialmente modificato
l’oggetto sociale determinato dallo statuto (ART. 2361, CO. 1 CC). Si evita così che un acquisto di
partecipazioni devi le risorse affidate agli amministratori rispetto alla destinazione tematica, espressa
dall’oggetto sociale, che ha guidato gli investimenti degli azionisti nella SPA (es. una società industriale, che
produce acciaio, utilizza una porzione significativa del proprio patrimonio per acquistare partecipazioni di
controllo di una società commerciale nel settore moda: tale acquisto implicherà il dover amministrare la
partecipazione assunta). Affinché non ci sia violazione non è sufficiente che l’assemblea straordinaria approvi
l’acquisto, l’interesse tutelato dalla norma non è proteggere i soci contro la violazione degli amministratori
del mandato fiduciario loro attribuito, bensì preservare l’uso coerente delle risorse al servizio del programma
destinato. Pertanto, affinché un acquisto potenzialmente rilevante ex ART. 2361, CO. 1 CC possa
legittimamente compiersi occorrerà prima procedere ad una formale modifica dell’oggetto sociale,

112
riconoscendo nell’occasione ai soci il diritto di recesso. Se ciò non avviene, l’amministratore sarà responsabile
per i danni eventualmente occorsi e la sua eventuale revoca sarà sorretta da giusta causa.
L’acquisto di partecipazioni in società comportante la responsabilità illimitata per le relative
obbligazioni (es. acquisto di quota di SNC) deve essere deliberato dall’assemblea (ART. 2361, CO. 2 CC) e se
ne deve poi dare specifica informazione in nota integrativa al bilancio. Ciò vale solo nei casi in cui la
responsabilità illimitata è conseguenza ordinaria della partecipazione del socio ad una data organizzazione,
pertanto sono esclusi i casi in cui tale responsabilità consegue a particolari comportamenti o inadempimenti
(società unipersonale in certe situazioni o socio accomandante che viola il divieto di immistione).

LE OBBLIGAZIONI

NOZIONE Il reperimento di risorse finanziarie nel mercato, che una SPA effettua per natura al fine
di canalizzare gli investimenti nell’organizzazione d’impresa, oltre che con le azioni, può avvenire anche
emettendo obbligazioni. Emettendo obbligazioni la SPA, a fronte dell’attribuzione al sottoscrittore dei
relativi titoli, riceve risorse finanziarie a debito e si impegna a restituire ad una data scadenza la somma
originariamente ricevuta (il capitale preso a debito) e ad effettuare pagamenti aggiuntivi nei confronti dei
finanziatori, a titolo di interessi. La necessaria previsione di un rimborso delle somme versate
contraddistingue le obbligazioni rispetto alle azioni (in forza delle quali, invece, il relativo titolare non è mai
creditore ex ante ad una data somma di denaro, ma gli spetta solo una quota di risorse il cui realizzarsi è
incerto, come accade con gli utili o il residuo in sede di liquidazione).
Come le azioni, le obbligazioni sono titoli di massa: esse presuppongono la creazione contestuale,
da parte della SPA, di più strumenti finanziari aventi eguale valore, nell’ambito di un’unica, complessiva
operazione finanziaria. Le obbligazioni sono titoli di credito (appartenenti ai titoli di debito, che si
distinguono dai titoli partecipativi, cui appartengono le azioni), che incorporano i diritti di credito
dell’obbligazionista alla restituzione delle somme prestate ed al pagamento degli interessi, conferendo così
a tali diritti autonomia, astrattezza e letteralità (caratteristiche tipiche della fattispecie cartolare).
Ci sono più tipi di obbligazioni, che si differenziano a seconda dei termini e delle condizioni cui
vengono sottoposti il credito alla restituzione della somma corrisposta ed il credito agli interessi. In relazione
al contenuto economico, si distinguono:
A le obbligazioni aventi una struttura semplice: restituzione finale della somma prestata e
pagamento di interessi da corrispondere periodicamente a parte come interessi cedolari o inglobati nel
capitale di restituzione,
B le obbligazioni complesse variamente indicizzate: la quantificazione della somma dovuta a titolo
di interessi è legata a parametri diversi
C le obbligazioni a premio: la società deve corrispondere ad alcuni obbligazionisti (normalmente
individuati con sorteggio) somme aggiuntive rispetto a quelle ordinariamente spettanti in base al rapporto
di credito
D le obbligazioni partecipative (ART. 2411, CO. 2 CC): tempi e entità del pagamento degli interessi
possono variare anche in dipendenza dell’andamento economico della società (i frutti di tali obbligazioni
partecipano agli esiti dell’attività sociale).
In relazione al contenuto giuridico, si distinguono:
E le obbligazioni postergate: il rimborso del prestito è condizionato alla preventiva soddisfazione dei
diritti di altri creditori della società (ART. 2411, CO. 1 CC)
F le obbligazioni convertibili in azioni: l’obbligazionista ha il diritto, a determinate condizioni e
seguendo precise procedure, all’assegnazione di azioni in cambio delle obbligazioni possedute, sulla base di
un dato rapporto di cambio.

113
Nei casi in cui non è coinvolto l’interesse comune degli obbligazionisti, ex ART. 2419 CC la tutela
della loro posizione è affidata alla loro iniziativa individuale (es. azione di condanna della società
all’adempimento), ma per agire individualmente il comportamento contestato deve essere stato approvato
dall’assemblea, quindi a livello di gruppo. L’organizzazione degli obbligazionisti rappresenta uno strumento
di tutela per i medesimi e soddisfa anche l’interesse della società a poter concordare con la maggioranza
l’adozione di decisioni rilevanti.

LE OBBLIGAZIONI CONVERTIBILI IN AZIONI Le obbligazioni convertibili in azioni sono l’unico tipo


particolare di obbligazione disciplinato nel dettaglio dalla legge con l’ART. 2420 BIS CC. Il rapporto originario
obbligazionario, nato come concessione di credito dall’investitore alla società, si converte, nel corso dello
svolgimento della relazione, in rapporto sociale. Inoltre, la somma originariamente acquisita dalla società a
titolo di capitale di debito, con la conversione si considera capitale di rischio e all’investitore si attribuiscono,
in base ad un rapporto di cambio prestabilito, titoli rappresentativi della sua mutata situazione (azioni), in
sostituzione di quelli prima assegnati (obbligazioni). Così la società ottiene immediata liquidità e l’investitore
può effettuare un investimento potenzialmente più redditizio, trascorso un periodo iniziale di studio della
società finanziata. Per l’investitore la conversione è una facoltà: alla scadenza prestabilita egli può scegliere
se richiedere il rimborso dell’obbligazione (estinguendo il finanziamento) o la conversione.
Sottoscrivendo tali titoli, accanto al rapporto obbligazionario, nascono partecipazioni, inizialmente
solo potenziali (in quanto condizionate alla conversione), ma la cui creazione, nei contenuti inizialmente
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determinati, debba subito assicurarsi. Valgono alcune regole speciali. La delibera di emissione delle
obbligazioni convertibili è di competenza dell’assemblea straordinaria (anziché dell’organo
amministrativo). Accanto alla decisione di emissione, la società deve assumere una deliberazione di aumento
del capitale sociale, per un ammontare corrispondente alle azioni da attribuire in conversione, destinato a
prodursi solo a misura delle dichiarazioni di conversione eventualmente raccolte.
Per quanto riguarda la procedura di conversione, a scadenze semestrali gli amministratori emettono
le azioni, sulla base delle dichiarazioni di conversione intervenute nel frattempo. La modifica del capitale
sociale corrispondente all’aumento di capitale avviene in modo progressivo (e non una sola volta), sebbene
per salti (di 6 mesi in 6 mesi), fino all’ultimo termine utile previsto nel regolamento di emissione. Di ogni
progressiva modifica gli amministratori danno pubblicità depositando presso il registro delle imprese
un’apposita attestazione (ART. 2410 BIS, CO. 3, ULTIMA PARTE CC). Le obbligazioni convertibili devono essere
offerte in opzione agli azionisti negli stessi termini previsti per l’emissione di nuove azioni (ART. 2441 CC).
In quanto potenziali azionisti, gli obbligazionisti sono tutelati nei casi in cui la società deliberi medio
tempore ulteriori operazioni sul capitale. Se la società decide per un ulteriore, autonomo aumento a
pagamento, ai titolari delle obbligazioni convertibili (ART. 2441 CC) deve essere riconosciuto il diritto di
opzione, in proporzione al rapporto di conversione; l’aumento gratuito e la riduzione per perdite, in pendenza
dell’emissione obbligazionaria, comportano la rideterminazione del rapporto di conversione (ART. 2420 BIS
CC); la riduzione reale nello stesso arco di tempo è ammessa solo se gli obbligazionisti possono esercitare
preventivamente la conversione.

GLI STRUMENTI FINANZIARI DIVERSI DA AZIONI E OBBLIGAZIONI

GLI STRUMENTI FINANZIARI ATIPICI Finora abbiamo parlato degli strumenti finanziari tipici della SPA,
ossia destinatari di una puntuale disciplina in considerazione di interessi prefigurati, connessi
necessariamente all’esistenza di una SPA (azioni) o utilizzati spesso dalla società per il proprio finanziamento
(obbligazioni). Le azioni sono quegli strumenti esclusivi da poter emettere in favore di chi vuole investire
nell’iniziativa a titolo di rischio, ossia in vista dell’ottenimento degli utili (o comunque di un guadagno in sede
di successiva rivendita) ed accettando l’eventualità di un’integrale perdita del capitale impiegato. Le
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obbligazioni sono invece strumenti previsti per soddisfare l’interesse all’investimento nel credito ad una data
organizzazione d’impresa, cui far corrispondere un’aspettativa ad un guadagno più ridotto ma più sicuro
rispetto alle azioni, collegato al valore che in un dato contesto di mercato è assegnato a quel credito nei
confronti di quell’impresa.
La SPA ha anche altri modi per reperire investimenti nel mercato finanziario, da canalizzare verso la
propria attività produttiva. La società può avere interesse di rivolgersi al pubblico degli investitori per: A
raccogliere contribuzioni alla provvista di rischio non rivolte ad incrementare la misura del capitale azionario
formalmente destinato al servizio dell’attività comune, ma suscettibili di offrire un prezioso sostegno
materiale al programma sociale, oppure B sollecitare la domanda di investimento in crediti caratterizzati da
un rimborso meno sicuro rispetto a quanto accade col prestito obbligazionario, magari a fronte dell’offerta
di una maggiore remunerazione del credito e dell’investimento operato. In coerenza con il principio
costituzionale di libertà dell’iniziativa economica privata (ART. 41 COST.), in forza del quale ogni operazione
coerente col programma organizzativo d’impresa non contrastante con l’utilità sociale dovrebbe essere
permessa, la SPA può articolare autonomamente la propria struttura finanziaria. La società può disporre di
strumenti finanziari atipici, i quali arricchiscono l’offerta di prodotti finanziari da parte di ogni emittente ed
ampliano le possibilità di ricorso al mercato finanziario quale mezzo di stabile supporto dell’attività
produttiva. Il principio secondo cui la partecipazione sociale è rappresentata da azioni (ART. 2346, CO. 1 CC)
non esclude la possibilità di immaginare altre forme di partecipazione all’impresa (al rischio e ai risultati)
scaturenti da una fonte diversa rispetto alla sottoscrizione di azioni. Ex ART. 2346, CO. 6 CC la società può
emettere altri strumenti finanziari partecipativi, a fronte di apporti non destinati a formare il capitale, e con
l’attribuzione di diritti patrimoniali o amministrativi, escluso il voto nell’assemblea generale degli azionisti.
Se pur il tipo ordinario di investimento finanziario nel credito alla SPA sia quello obbligazionario, che
presuppone il diritto al sicuro rimborso di un determinato capitale ad una data scadenza, la società può
emettere strumenti che si discostano da tale modello (ART. 2411, CO. 3 CC), nella misura in cui prevedano
un rimborso del capitale che possa essere invece condizionato, sia quanto ai tempi sia per l’entità,
all’andamento economico della società. In generale la SPA può ricorrere a strumenti finanziari di credito cd.
ibridi: titoli suscettibili di intercettare categorie di investitori molto diverse dai comuni obbligazionisti per la
propensione al rischio (estranea agli obbligazionisti).

LE REGOLE DELLA PARTECIPAZIONE ATIPICA L’emissione di strumenti finanziari innominati, con


contenuto partecipativo, da parte della società deve essere prevista nello statuto (ART. 2346, CO. 6 CC).
Quanto alla determinazione della prestazione che il sottoscrittore di tali strumenti deve effettuare per
ottenerne l’assegnazione, deve essere operato in favore della società un apporto. L’emissione avviene
pertanto a fronte di un contributo che non è un conferimento, non è una risorsa destinata a contribuire alla
formazione del capitale (il quale infatti non viene aumentato). Tale apporto può essere anche di opera o
servizi, può consistere in denaro o in beni in natura. Quanto alle prerogative dei portatori degli strumenti
partecipativi, circa i diritti patrimoniali vi è ampia discrezionalità. Affinché possa discutersi di strumenti
partecipativi, e ragionare sull’applicabilità o meno, ai titoli emessi dalla SPA, delle norme dettate a tal
proposito, ai sottoscrittori di tali titoli va comunque riconosciuto il diritto agli utili: la società è libera solo nel
precisarne il contenuto, ossia la misura e le condizioni delle partecipazione di tali sottoscrittori ai risultati di
periodo. Lo statuto può prevedere che ai portatori di strumenti finanziari spettino anche prerogative
amministrative. Gli strumenti finanziari in esame possono essere dotati del diritto di voto su argomenti
specificamente indicati (es. approvazione del bilancio) e lo statuto può stabilire le modalità con cui essi
possono nominare un componente indipendente del consiglio di amministrazione o del consiglio di
sorveglianza o di un sindaco (ART. 2351 CC). Tale voto non va esercitato nell’assemblea dei soci: i possessori
di tali strumenti non hanno il diritto di voto nell’assemblea generale degli azionisti (ART. 2346, CO. 6 CC).
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Vi è un’assemblea speciale quale sede in cui il diritto di voto andrà esercitato e competente in generale
all’approvazione delle delibere della società che pregiudicano i diritti degli strumenti finanziari (ART. 2376
CC). I possessori di strumenti partecipativi possono avere anche altri diritti minori (es. diritto di recesso al
verificarsi di determinate condizioni, diritto all’ispezione dei libri sociali).

GLI STRUMENTI FINANZIARI CON OBBLIGO DI RIMBORSO CONDIZIONATO La SPA può emettere anche
strumenti finanziari atipici di debito (ART. 2411 CC): il rimborso della somma fornita dagli investitori alla
sottoscrizione degli stessi non è assicurato, ma dipende dall’andamento economico della società (es. alla
scadenza si rimborserà l’intera somma, se la società ha raggiunto determinate sogli di fatturato, altrimenti si
rimborserà solo l’80%). A tali strumenti si applicano integralmente le norme dettate in tema di obbligazioni
societarie. Il rimborso del capitale può essere condizionato solo all’andamento economico della società, la
prestazione incombente sulla società non può essere parametrata a dati di mercato, esterni alla società (es.
indici di borsa): se si ancorasse a tale criterio il rimborso del capitale attribuito in prestito alla società (anziché
solo gli interessi), più che di un investimento sul credito a una SPA, si tratterebbe di una pura scommessa e
la legittimazione della società all’emissione non sarebbe più giustificata. Infine, gli strumenti finanziari
partecipativi e gli strumenti finanziari di debito non sono alternativi tra loro: ai possessori di strumenti
finanziari partecipativi ex ART. 2346, CO. 6 CC (ad essi spetta una quota di utili e il potere di nomina di un
amministratore) potrebbe riconoscersi anche il diritto al rimborso ex ART. 2411 CC, sempre che il patrimonio
netto disponibile sia capiente rispetto a tale restituzione. In questo caso, si applicheranno sia le norme sulle
obbligazioni sia quelle specificamente previste per gli strumenti finanziari partecipativi. Non vale il caso
opposto: ai possessori di strumenti rappresentativi di una posizione di credito non soggetta a rischio non
possono attribuirsi prerogative partecipative dello strumento emesso (es. il diritto di voto o diritti
amministrativi analoghi a quelli spettanti ai soci).

DOMANDE RACCOLTE DA PRECEDENTI SCRITTI

- Determinazione del valore della quota


- Aumento di capitale nominale SPA (5 settembre 2019)
- Aumento gratuito del capitale e aumento reale
- Diritto d’opzione nell’aumento di capitale
- Esclusione del diritto di opzione
- Riduzione del capitale per perdite sotto il minimo legale nelle SPA (18 giugno 2019)
- Riduzione del capitale obbligatorio per perdite
- Riduzione reale del capitale sociale
- Tutela del creditore sociale nella riduzione del capitale nelle SPA
- Indivisibilità delle azioni (19 settembre 2019)
- Il principio di uguaglianza e le categorie speciali delle azioni
- Limiti statutari alla circolazione delle azioni
- Obbligazioni convertibili in azioni
- Limiti e condizioni all’acquisto di azioni proprie
- Assemblee speciali

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LA STRUTTURA ORGANIZZATIVA
Le SPA hanno una struttura organizzativa complessa, articolati in 3 organi sociali con specifiche
funzioni e con competenze tendenzialmente inderogabili dallo statuto. Organi sociali e relative competenze
variano a seconda del sistema di amministrazione e controllo adottato dalla SPA:
1 il sistema organizzativo tradizionale, risalente al CC del 1942, prevede l’assemblea, quale organo
rappresentativo della compagine sociale, l’organo amministrativo-gestionale e il collegio sindacale, quale
organo di controllo.
In alternativa al sistema tradizionale, previa apposita scelta statutaria (ART. 2380, CO. 1 CC) oggi si
può scegliere tra:
2 il sistema dualistico (di derivazione tedesca) prevede un consiglio di sorveglianza (al posto del
collegio sindacale), che svolge sia funzioni di controllo di legalità della gestione (assegnate al collegio
sindacale) sia funzioni come (nel sistema tradizionale assegnate all’assemblea) la nomina e revoca degli
amministratori e l’approvazione del bilancio, ed un consiglio di gestione (al posto del c.d.a.)
3 il sistema monistico (di derivazione anglosassone) prevede un comitato per il controllo sulla
gestione (al posto del collegio sindacale).
Poi, indipendentemente dal sistema di amministrazione e controllo, la SPA ha un assetto societario
interno caratterizzato dal principio della ripartizione fissa di competenze. Tale assetto, tipico di tutte le
organizzazioni complesse (private e pubbliche) e finalizzato a privilegiare le esigenze di certezza delle regole
di funzionamento dell’ente, nella SPA, quale principale obiettivo, assicura la definizione di meccanismi di
governo dell’impresa che privilegino l’interesse all’efficienza della gestione.
Nel sistema tradizionale, l’impresa è interamente esercitata dall’organo amministrativo, specializzato
nell’attività di gestione e responsabile anche verso i creditori ed i terzi per i danni cagionati con il proprio
operato. Le decisioni organizzative (nomina delle cariche sociali, approvazione del bilancio, modificazioni
statutarie), invece, relative al complessivo assetto della società, sono in linea di massima rimesse alla
competenza dei soci (o di loro rappresentanti, nel sistema dualistico, dove larga parte di tali compiti è
assegnata al consiglio di sorveglianza), quali destinatari ultimi dei risultati dell’attività sociale (i soci, infatti,
sono titolari del diritto agli utili e del diritto alla quota di liquidazione del patrimonio sociale in caso di
scioglimento).
All’interno dell’organizzazione societaria nelle società azionarie deve necessariamente esserci anche
un’autonoma funzione di controllo: 1 sulla legalità, sulla correttezza della gestione imprenditoriale e
sull’adeguatezza dell’assetto aziendale, funzione assegnata ad un organo di controllo (collegio sindacale nel
sistema tradizionale, consiglio di sorveglianza nel sistema dualistico, comitato di controllo in quello
monistico), 2 sulla regolarità dei bilanci e delle scritture contabili, anche nell’interesse della minoranza e
dei terzi, funzione assegnata di regola (salvo eccezioni) al revisore (professionista o ente legati alla società
da rapporto professionale e non organico, ma titolari di funzioni inderogabilmente previste dalla legge).
Anche le società non quotate hanno un modello organizzativo notevolmente rigido. Possono essere
semplificati alcuni aspetti procedurali ed organizzativi (mentre nelle SRL l’autonomia statutaria ha larghi spazi
d’intervento), anche in funzione di una maggiore chiusura della società (es. prevedere forme personalizzate
di comunicazione dell’avviso di convocazione dell’assemblea, limitare l’uso della rappresentanza in
assemblea, aumentare alcuni quorum costitutivi e deliberativi, ricorrere all’amministratore unico, attribuire
il controllo contabile al collegio sindacale), ma sono aspetti secondari. Non si può invece intervenire sulle
caratteristiche principali di funzionamento del modello.
Le società quotate hanno poi una disciplina rafforzata su vari fronti, finalizzata ad incentivare
l’investimento del risparmio privato nelle società emittenti, accrescendo la tutela delle minoranze,

119
aumentando il livello di efficienza dell’organo amministrativo (o la quantità e qualità dei controlli sul suo
operato), e migliorando la trasparenza delle informazioni al mercato.

IL SISTEMA TRADIZIONALE: L’ASSEMBLEA

Nel sistema tradizionale l’organo di base è l’assemblea dei soci, organo presente in tutti i sistemi di
amministrazione e controllo, ma le sue competenze sono limitate nel sistema dualistico. L’assemblea è
l’organo che rappresenta gli azionisti della SPA, ma non è necessariamente composta da tutti gli azionisti:
lo statuto può decidere di creare azioni prive del diritto di voto o a voto limitato (ART. 2351 CC). La
possibilità di restringere la base di partecipazione assembleare, escludendo una parte anche significativa
della compagine (con il limite della metà del capitale sociale: ART. 2351, CO. 2 CC), è funzionale alle esigenze
delle società aperte (soprattutto quelle quotate), dove molti soci (soprattutto piccoli risparmiatori) sono
fisiologicamente disinteressati alla vita interna. L’assemblea è un organo necessariamente collegiale (ART.
2366 CC). Lo statuto può al massimo consentire ai soci di esprimere il proprio voto per corrispondenza o
elettronicamente (ART. 2370, CO. 4 CC), ma è poi necessario convocare e tenere la seduta assembleare. Ogni
avente diritto al voto conserva il diritto di assistere personalmente ai lavori assembleari. Così le scelte
fondamentali per la vita sociale vengono adottate a seguito di un procedimento che assicura al meglio le
esigenze di partecipazione, ponderatezza e certezza. Le competenze dell’assemblea sono tassativamente
determinate dalla legge (ART. 2364 CC) e, salvo casi limitati previsti dalla legge, non sono derogabili in
favore di altri organi della società. Ciò assicura un’efficiente e stabile ripartizione delle funzioni
nell’organizzazione societaria. L’assemblea esplica il proprio ruolo nell’ambito delle decisioni organizzative,
non sul piano della gestione dell’impresa sociale. Nella SPA gli investitori (azionisti) raccolgono il capitale
finanziario e affidano le loro risorse a soggetti qualificati, gli amministratori, affinché le gestiscano
produttivamente. Le decisioni relative alla struttura dell’organizzazione (alle condizioni dell’investimento)
ed alla valutazione dei risultati della gestione sono affidate ai titolari dell’investimento, ossia ai soci, che
sono invece estranei alla gestione dell’impresa. Infine, l’assemblea decide secondo la regola di
maggioranza, sulla base di aliquote diverse a seconda della materia (cd. quorum costitutivi e deliberativi).
In questo modo i soci di controllo, che hanno investito la parte determinante di risorse nella società, possono
indirizzare in modo coerente la gestione, scegliendo gli amministratori e verificando il loro operato, ed
adattare nel tempo la struttura organizzativa tramite eventuali modifiche dello statuto.

LE COMPETENZE DELL’ASSEMBLEA Nel sistema ordinario di amministrazione e controllo le competenze


dell’assemblea sono stabilite dalla legge. Lo stesso organo assembleare, a seconda delle materie trattate,
può essere assemblea ordinaria (ART. 2364 CC) o assemblea straordinaria (ART. 2365 CC), le quali si
riuniscono e deliberano con maggioranze e secondo regole formali diverse. Le decisioni periodicamente
necessarie per il funzionamento dell’organizzazione sociale, e riguardanti principalmente il rapporto con gli
organi di amministrazione e controllo (nomine e revoca delle cariche sociali, determinazione del compenso,
approvazione del bilancio di esercizio), sono adottate in sede ordinaria secondo regole di funzionamento più
snelle e con maggioranze meno elevate. Le decisioni attinenti alle regole di funzionamento (modifiche dello
statuto), alle vicende evolutive (liquidazione, trasformazione, fusione e scissione) ed alla struttura
finanziaria della società (operazioni sul capitale, obbligazioni convertibili) sono adottate invece in sede
straordinaria secondo regole che assicurano una maggiore partecipazione dei soci, grazie a quorum più
elevati, ed una maggiore certezza di regolarità della decisione, mediante la presenza del notaio quale
segretario verbalizzante.

L’assemblea ordinaria ha le seguenti competenze fondamentali e indisponibili:


1 approva il bilancio e distribuisce gli utili (ART. 2433 CC)

120
2 nomina e revoca gli altri organi sociali (amministratori, sindaci, revisori), fatta eccezione per i
liquidatori che sono nominati in sede straordinaria
3 determina il compenso degli amministratori e dei sindaci
4 delibera l’azione di responsabilità contro altri organi della società (amministratori e sindaci)
5 ha ogni altra competenza che la legge rimette genericamente all’assemblea dei soci senza
specificare la sede ordinaria o straordinaria (es. autorizza lo svolgimento di attività concorrenziali degli
amministratori ex ART. 2390 CC, acquista e vende azioni proprie ex ART. 2357 CC).
Lo statuto non può attribuire all’assemblea altre competenze rispetto a quelle previste dalla legge.
Quanto alle autorizzazioni eventualmente richieste per il compimento di atti degli amministratori
(ART. 2364, N. 5 CC), esse spettano solo eventualmente all’assemblea. In linea generale l’impresa sociale è
gestita solo dagli amministratori, l’assemblea non può intervenire in proposito (l’assemblea non può
impartire direttive agli amministratori o avocare a sé il compimento di un’operazione di gestione, o proibirla:
una tale deliberazione violerebbe la competenza esclusiva dell’organo amministrativo in tali materie).
Tuttavia per certe operazioni lo statuto può prevedere che gli amministratori debbano ottenere la
preventiva autorizzazione dell’assemblea ordinaria. Lo statuto non può attribuire all’assemblea una
competenza diretta su atti di gestione, essa può intervenire solo nel caso in cui gli amministratori abbiano
già per proprio conto deliberato di compiere l’atto e devono ricevere il consenso preventivo dell’assemblea
prima di eseguire l’operazione. Autorizzando l’operazione l’assemblea non può imporne il compimento: gli
amministratori sono liberi di decidere se eseguirla o no, quindi di rivalutare la loro precedente decisione.
L’autorizzazione ricevuta dall’assemblea non solleva gli amministratori dall’obbligo di valutare con la normale
diligenza l’opportunità del compimento dell’operazione né dalla responsabilità per i danni che da questa
eventualmente derivassero alla società. Se l’assemblea non dà l’autorizzazione, gli amministratori non sono
legittimati a compiere l’operazione: se dovessero compierla avranno la piena responsabilità per tutti i danni
conseguenti all’operazione compiuta vi sarà una giusta causa di revoca ed eventualmente di una grave
irregolarità ex ART. 2409 CC. I terzi sono tutelati dall’inopponibilità delle limitazioni al potere di
rappresentanza previste nello statuto, pertanto l’atto non autorizzato resterà valido, salvo il caso di dolo del
terzo (ART. 2384, CO. 2 CC). Lo statuto può definire l’ambito d’applicazione del meccanismo autorizzatorio in
modo ampio, individuando categorie di atti, secondo criteri quantitativi (es. atti eccedenti un certo valore) o
qualitativi (es. atti che incidono sulla struttura imprenditoriale e finanziaria della società), analitici (es. le
cessioni di azienda, la concessione di garanzie a terzi, la costituzione di società controllate, etc.) o generici
(es. le operazioni con valore strategico), ferma restando la riserva per cui l’assemblea non può ingerirsi nella
cd. gestione corrente.

Le competenze fondamentali dell’assemblea straordinaria, fissate dall’ART. 2365 CC, sono limitate
alle modificazioni statutarie ed alla nomina dei liquidatori. L’assemblea straordinaria, inoltre, delibera la
non emissione di azioni (ART. 2346, CO. 1 CC), emette obbligazioni convertibili in azioni (ART. 2420 BIS CC),
autorizza la concessione di prestiti e garanzie per la sottoscrizione o l’acquisto di proprie azioni (ART. 2358
CC). In numerosi casi, con un’apposita clausola statutaria può delegarsi agli amministratori la delibera di
modificazioni statutarie di carattere minore (per evitare le complicazioni del procedimento assembleare) o
indirettamente collegate con l’ambito gestionale (per garantire una maggiore efficienza dell’azione
imprenditoriale): il trasferimento della sede legale nel territorio nazionale, la scelta degli amministratori con
potere di rappresentanza, l’adeguamento dello statuto a disposizioni normative (ART. 2365, CO. 2 CC),
l’aumento di capitale a pagamento (ART. 2443 CC) e l’emissione di obbligazioni convertibili (ART. 2420 TER
CC).

121
IL PROCEDIMENTO ASSEMBLEARE L’assemblea è un organo collegiale che, per funzionare, deve
rispettare le fasi tipiche dei procedimenti collegiali. I momenti essenziali del procedimento collegiale sono
formali, nel senso che devono rispettare forme vincolate, e sono 1 convocazione dell’organo con relativo
“ordine del giorno”, 2 costituzione e riunione, 3 discussione, 4 votazione e relativa deliberazione, 5
proclamazione e 6 verbalizzazione. Le regole legali possono essere integrate, ed a volte derogate, da
apposite clausole statutarie. Il rispetto delle regole legali e statutarie è condizione di validità delle
deliberazioni: salvo i due casi estremi della mancata convocazione e della mancata verbalizzazione, che
rendono nulla la deliberazione (ART. 2379 CC), la non conformità della deliberazione alla legge ed allo statuto
è causa di annullabilità della delibera (ART. 2377 CC), a meno che il vizio procedimentale non influisca sul
risultato deliberativo (ART. 2377, CO. 5 CC).

LA CONVOCAZIONE DELL’ASSEMBLEA La prima fase del procedimento deliberativo è la convocazione, di


regola decisa dall’organo amministrativo, ogni qual volta lo ritenga opportuno. È pertanto discrezionalità
dell’organo amministrativo decidere se, quando e per quali materie convocare l’assemblea (es. si ritiene
opportuno proporre una modifica statutaria). La convocazione è però obbligatoria: 1 quando si determinano
perdite superiori ad 1/3 del capitale sociale (ART. 2446 CC) o 2 quando vi è una causa discioglimento della
società (ART. 2487, CO. 1 CC). La convocazione dell’assemblea ordinaria è poi obbligatoria in via generale 3
almeno 1 volta l’anno, per l’approvazione del bilancio: il termine per la relativa delibera non può superare
i 120 giorni (elevabili dallo statuto a 180 giorni, in alcuni casi previsti dalla legge) dalla chiusura dell’esercizio
(questo dies a quo, per ragioni fiscali, coincide con la fine dell’anno solare) e l’assemblea deve essere
tempestivamente convocata con congruo anticipo, in modo da rispettare tale termine (ART. 2364, CO. 2 CC).
La convocazione è obbligatoria anche 4 quando è richiesta dalla minoranza (ART. 2367 CC), che deve indicare
gli argomenti da trattare, e 5 quando è richiesta da soci che rappresentano 1/10 del capitale sociale (1/20
nelle società che ricorrono al mercato del capitale di rischio) o dalla minore percentuale minima prevista
nello statuto. Gli amministratori non possono respingere la richiesta per ragioni di opportunità: il rifiuto è
legittimo solo se la richiesta è illegittima (incompetenza dell’assemblea, illiceità o impossibilità giuridica
degli argomenti da trattare) o se la minoranza sta abusando del diritto (es. richiesta ripetitiva, futile o
intempestiva). Se l’organo amministrativo non provvede, l’ottemperanza all’obbligo di convocazione può
avvenire anche da parte dell’organo di controllo (collegio sindacale, consiglio di sorveglianza) e, in caso di
inerzia, i soci possono rivolgersi al tribunale, che provvede con decreto.
L’atto di convocazione dell’assemblea è in generale di competenza dell’organo amministrativo,
pertanto deve essere deliberato collegialmente dal c.d.a.. Tale regola è parzialmente derogabile: lo statuto
può rimettere la relativa competenza anche a singole cariche amministrative (es. il presidente del c.d.a.),
ferma restando la titolarità originaria in capo all’organo collegiale, che può sempre deliberare in materia. Nei
soli casi previsti dalla legge hanno il potere di convocazione anche A i sindaci, quando vengono a mancare
tutti gli amministratori o l’amministratore unico (ART. 2386 CC), quando la convocazione è obbligatoria e
l’organo amministrativo non provvede (ART. 2406, CO. 1 CC), quando il collegio ravvisa fatti censurabili di
rilevante gravità ed è necessario provvedere (ART. 2406, CO. 2 CC), B il tribunale, C l’amministratore
giudiziario nel procedimento ex ART. 2409 CC e D i liquidatori.
L’avviso di convocazione deve indicare la data, l’ora, il luogo della riunione e l’ordine del giorno.
L’avviso va emanato con modalità diverse a seconda delle caratteristiche della società. Nelle società non
quotate, l’avviso deve essere pubblicato per legge sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica almeno 15 giorni
prima di quello fissato per l’adunanza. Tuttavia lo statuto può prevedere la pubblicazione su almeno un
quotidiano, espressamente indicato nello statuto (ART. 2366, CO. 2 CC), fermo il rispetto del termine legale.
Nelle società chiuse, ossia le società che non ricorrono al mercato del capitale di rischio, lo statuto può
prevedere modalità alternative di convocazione più semplici e con termine ridotto, purché tali da garantire
122
la prova dell’avvenuto ricevimento dell’avviso almeno 8 giorni prima dell’assemblea. La convocazione può
essere prevista a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno, per PEC, telefax, o consegna direttamente a
mano dei soci. Nelle società quotate, l’assemblea è convocata almeno 30 giorni prima della data di
svolgimento dell’assemblea, mediante avviso pubblicato sul sito internet della società.
L’assemblea deve essere convocata nel comune dove ha sede la società, a meno che lo statuto non
autorizzi la convocazione anche in luoghi diversi (ART. 2363 CC). L’ordine del giorno serve per informare i
soci sulle materie in merito alle quali si discuterà e delibererà (le deliberazioni prese su materie non all’ordine
del giorno sono annullabili, ex ART. 2377 CC). L’organo amministrativo non deve però necessariamente
indicare il contenuto delle specifiche proposte: i soci possono avanzare in assemblea ulteriori e diverse
proposte rispetto a quelle eventualmente formulate dagli amministratori, i quali possono anche restare
neutrali e non prendere posizione sul merito degli argomenti. L’ordine del giorno può essere pertanto
sintetico, ma non generico. Esso comprende anche la discussione e la deliberazione sui provvedimenti
strettamente consequenziali alle materie indicate, anche se l’avviso non contiene la clausola di stile “varie
ed eventuali” (es. se è indicata la revoca degli amministratori, l’assemblea potrà sostituirli, anche se la
sostituzione non era menzionata). Per motivi di maggiore trasparenza, nelle società quotate gli
amministratori hanno l’obbligo di predisporre, e pubblicare sul sito internet, una relazione sulle materie
all’ordine del giorno. Entro 10 giorni dalla pubblicazione dell’avviso di convocazione i soci che rappresentano
almeno 1/40 del capitale sociale possono richiedere successivamente di integrare l’ordine del giorno.
Le delibere assunte da un’assemblea convocata in violazione di una di queste regole sono
annullabili (nulle solo in caso di mancanza assoluta di convocazione di uno o più soci). In ogni caso
l’assemblea si considera validamente costituita quando tutti i soci aventi diritto al voto sono presenti alla
riunione (cd. assemblea totalitaria: ART. 2366, CO. 4 CC; non serve che siano presenti tutti gli amministratori
e tutti i sindaci, ma è sufficiente che assista ai lavori la maggioranza dei componenti i rispettivi organi),
presenza che pertanto sana il mancato rispetto delle formalità iniziali e consente di trattare qualsiasi
argomento. Ciascun partecipante (socio, amministratore o sindaco) può però opporsi alla trattazione di una
data materia, dichiarando di non essere sufficientemente informato in proposito.

COSTITUZIONE DELL’ASSEMBLEA E VALIDITÀ DELLE DELIBERAZIONI Affinché le deliberazioni siano valide deve
raggiungersi previamente un quorum costitutivo, devono cioè essere presenti alla riunione un numero
minimo di azioni, e successivamente un quorum deliberativo, deve cioè esserci una maggioranza di voti
favorevoli alla decisione.
La regola del quorum costitutivo stabilisce che se non intervengono alla seduta tanti soci da
rappresentare un certo numero di azioni (o una certa aliquota di capitale), l’assemblea non può iniziare i
propri lavori, poiché non è regolarmente costituita. La regola garantisce che le decisioni, al fine di una loro
migliore ponderazione, siano assunte con la partecipazione e il confronto tra un numero minimo di soci, in
quanto portatori di un’adeguata quota dell’investimento azionario (potrebbe bastare anche un solo socio, se
rappresenta l’aliquota di capitale sufficiente). Il quorum costitutivo è diverso a seconda dell’importanza della
materia da trattare. Ai fini del calcolo del quorum costitutivo non si computano le azioni normativamente
prive del diritto di voto, ossia le azioni che per statuto non hanno voto sulle materie poste all’ordine del
giorno, mentre si computano le azioni occasionalmente prive di tale diritto (es. le azioni in possesso della
stessa società ex ART. 2357 CC, le azioni dei soci in conflitto d’interessi che dichiarano di astenersi dal voto
ex ART. 2373, CO. 4 CC, le azioni dei soci che non hanno effettuato gli adempimenti pubblicitari per i patti
parasociali ex ART. 2341 TER CC). Nel primo caso, pertanto, e non nel secondo, è più facile costituire
regolarmente l’assemblea: se le azioni non si computano, la base di calcolo per raggiungere il quorum
costitutivo è più ristretta. Se vi sono azioni a voto plurimo, la base di calcolo sarà computata sul numero di
voti esercitabili dai soci nel loro complesso (e non sul capitale avente diritto di voto).
123
La regola del quorum deliberativo stabilisce che affinché una decisione possa essere adottata
occorre che si siano espressi favorevolmente tanti soci da rappresentare una certa aliquota di capitale. Tra
i voti espressi, quelli favorevoli devono superare i contrari, quindi deve raggiungersi la maggioranza del
capitale presente. La legge spesso eleva il quorum, quindi richiede maggioranze più alte, quando la materia
in decisione è particolarmente rilevante. Le azioni prive del diritto di voto, sia normativamente sia
occasionalmente, non si computano mai nel quorum deliberativo (tranne nel caso di azioni proprie nelle
società chiuse). Per il calcolo del quorum deliberativo, in alcuni casi, il quorum è computato sul capitale
sociale complessivo della società (escluse le azioni normativamente prive del diritto di voto sulla materia in
decisione e, se vi sono azioni a voto plurimo, il calcolo non sarà sul capitale, ma sul numero complessivo dei
voti esercitabili), mentre in altri esso è computato sul capitale presente in assemblea (in caso di azioni a voto
plurimo, sul numero dei voti esprimibili dai soci presenti), ed in quest’ultimo caso si considerano anche i
presenti non votanti o coloro che si sono espressamente e volontariamente astenuti (non votanti e astenuti
sono equiparati ai voti contrari). In entrambi i casi non si tiene conto (riducendo così le maggioranze
necessarie per approvare la delibera) né delle azioni del socio in conflitto d’interessi (se il socio dichiara di
astenersi per la propria situazione personale), e in caso di astensione per conflitto d’interessi di larga parte
del capitale sociale le deliberazioni possono essere adottate anche da maggioranze molto ridotte, né dei soci
il cui voto sia occasionalmente sospeso (es. soci che non hanno effettuato la comunicazione ex ART. 2341
TER CC).
I quorum costitutivi e deliberativi sono fissati dalla legge in misura diversa a seconda della materia
(assemblea ordinaria, straordinaria o materie per cui sono previsti quorum particolari), del tipo di
convocazione (prima, seconda o successive) e del tipo di società (società che ricorre o meno al capitale del
mercato di rischio).
In sede di prima convocazione nelle società chiuse, per l’assemblea ordinaria il quorum costitutivo
è ½ del capitale sociale, mentre il quorum deliberativo è la maggioranza assoluta del capitale con diritto di
voto e presente in assemblea (ART. 2368, CO. 1 CC). Per l’assemblea straordinaria, il quorum costitutivo è
la maggioranza assoluta del capitale sociale (se tale maggioranza è prevista come quorum deliberativo, a
maggior ragione deve essere presente in assemblea). I quorum legali di prima convocazione possono essere
ex ART. 2368, CO. 2 CC aumentati dallo statuto in via generale o per singole materie (solitamente ciò avviene
per le sole assemblee straordinarie, per le ordinaria l’incremento dei quorum non avrebbe molta efficacia,
dato che le principali delibere ordinarie devono potersi prendere comunque a maggioranza dei soli presenti
nella seconda convocazione). Tuttavia è generalmente inammissibile, quindi nulla, una clausola statutaria
che impone l’unanimità, o maggioranze così elevate da attribuire un sostanziale diritto di veto ad ogni
socio, che ostacoli il regolare funzionamento dell’assemblea. La diminuzione dei quorum è invece sempre
illegittima, al fine di garantire un’adeguata rappresentatività delle maggioranze assembleari in materie di
particolare importanza come quelle straordinarie.
Se all’inizio della riunione si constata che non c’è il numero legale, il presidente dell’assemblea
dichiara la mancata costituzione della seduta e l’assemblea dovrebbe essere convocata ad una nuova data.
Per evitare di dover riavviare tutto il procedimento ex novo, è possibile fare una seconda convocazione ex
ART. 2369 CC in cui vi sono maggioranze più ridotte ed il cui avviso può essere contestuale a quello della
prima o emanato separatamente anche dopo la mancata costituzione della prima seduta (in quest’ultimo
caso, il termine di legge per la pubblicazione dell’avviso è ridotto da 15 a 8 giorni). La seconda convocazione
deve essere fatta per un giorno diverso da quello della prima (non occorre che tra la prima e la seconda
seduta intercorrano 24 h), ma la seduta deve tenersi entro 30 giorni dalla prima; in caso contrario, il
procedimento deliberativo dovrà essere riavviato dalla prima convocazione.
I quorum legali per le assemblee in seconda convocazione nelle società chiuse sono definiti dall’ART.
2369 CC. Per l’assemblea ordinaria non è stabilito nessun quorum costitutivo, è sufficiente qualsiasi porzione
124
del capitale, e per il quorum deliberativo serve la maggioranza assoluta del capitale presente alla seduta. Per
l’assemblea straordinaria, il quorum costitutivo è 1/3 del capitale sociale ed il quorum deliberativo è 2/3 del
capitale rappresentato in assemblea. Per alcune importanti materie (cambiamento dell’oggetto sociale,
trasformazione, scioglimento anticipato, proroga, etc.) è richiesta una maggioranza qualificata pari ad 1/3
del capitale sociale (il relativo quorum si aggiunge alla normale maggioranza deliberativa dei 2/3 sul capitale
presente): si parla di assemblee super-straordinarie.
Ex ART. 2369, CO. 4 CC lo statuto può richiedere maggioranze più elevate per l’assemblea di seconda
convocazione, tranne che per l’approvazione del bilancio e per la nomina e revoca delle cariche sociali
(elevazione invece possibile per altre materie ordinarie, come la deliberazione sui compensi o sulla
responsabilità degli amministratori). La norma è imperativa per le deliberazioni in cui si esprime la
competenza principale dell’assemblea ordinaria ed assicura che la maggioranza del capitale attivo in
assemblea riesca a controllare la società, scegliendo gli amministratori e verificandone l’operato.
Lo statuto può prevedere una terza e successive convocazioni. I quorum restano identici a quelli di
seconda convocazione, infatti le successive convocazioni hanno efficacia limitata.
Di norma, almeno nelle società aperte, la seconda convocazione è quella effettiva, in quanto
l’adozione delle delibere è semplificata dalla riduzione dei quorum rispetto alla prima seduta. Per questo,
nelle società che ricorrono al mercato del capitale di rischio, non cooperative, salvo diversa disposizione
statutaria, l’assemblea si tiene in convocazione unica (ART. 2369, CO. 1 CC) e si applicano immediatamente
i quorum previsti per l’assemblea di seconda convocazione in sede ordinaria e per le assemblee straordinarie
un quorum costitutivo di 1/5 del capitale e un quorum deliberativo dei 2/3 del capitale intervenuto. Tali ultimi
quorum contemperano le esigenze di efficienza e facilità deliberativa di fronte al possibile assenteismo di
molti investitori (permettendo l’adozione di deliberazioni straordinarie con maggioranze inferiori a quelle
necessarie nelle società chiuse: se partecipa ai lavori solo il 20% del capitale, è sufficiente per deliberare il
13,33%) con quelle di tutela delle minoranza organizzate e degli investitori istituzionali (attribuendo a tali
componenti un potere di veto nei confronti della maggioranza anche assoluta del capitale sociale: se
partecipa all’assemblea il 100% del capitale sociale, il 33,34% di voti contrari può bloccare l’adozione della
delibera, anche se la maggioranza è favorevole).

L’INTERVENTO Il diritto di intervenire in assemblea spetta ai componenti dell’organo amministrativo


e dell’organo di controllo (che hanno il dovere di intervenire) e agli azionisti titolari del diritto di voto (ART.
2370 CC). Il diritto di intervento è strumentale, non è tutelato autonomamente rispetto al diritto di voto. Ne
consegue che non hanno diritto di intervento gli azionisti privi del diritto di voto. Anche in caso di azioni a
voto limitato a particolari argomenti, o subordinato a certe condizioni (ART. 2351, CO. 2 CC), i soci possono
intervenire nelle sole assemblee, e per i soli argomenti, in cui hanno diritto di voto. Ne consegue che a
seconda degli argomenti potrà cambiare la base di calcolo dei quorum.

Per essere ammesso all’assemblea, l’azionista deve dimostrare la propria legittimazione. Salvo non
siano stati emessi titoli (in questo caso, il socio si limita a presentarsi alla riunione e il presidente
dell’assemblea verifica solo la corrispondenza tra la sua identità e il nominativo iscritto a libro soci) bisogna
distinguere:
A se l’azione è documentata in un titolo cartaceo, il socio deve esibire i titoli azionari, e la sua
identità e la sua legittimazione verranno accertate seduta stante dal presidente dell’assemblea. Lo statuto
può subordinare l’intervento del socio ad una prenotazione, da effettuarsi depositando i titoli azionari presso
la sede della società o banche indicate nell’avviso di convocazione. Il termine massimo di prenotazione,
stabilito nello statuto, nelle società chiuse non è fissato, mentre nelle società aperte è fissato in 2 giorni non
festivi.

125
B se l’azione è immessa nei sistemi di gestione accentrata, quindi per le società con azioni soggette
al regime di dematerializzazione, la legittimazione è controllata dagli intermediari presso cui sono registrate
le azioni, i quali effettuano un’apposita comunicazione alla società, dietra richiesta del socio. È legittimato
all’intervento, pertanto, il soggetto indicato dall’intermediario in conformità alle proprie scritture (soggetto
nel cui conto le azioni risultano registrate).
Per le società quotate, la legittimazione all’esercizio dei diritti di intervento e di voto in assemblea è
legata alla detenzione delle azioni ad una data antecedente l’assemblea (cd. data di registrazione), a
prescindere da eventuali atti di disposizione successivi a tale data, e le società non possono limitare la
circolazione delle azioni tra la data di registrazione e l’apertura dell’assemblea. Legittimato è colui nel cui
conto le azioni risultano registrate alla data predetta: l’eventuale loro cessione successiva non priva
l’alienante del diritto di voto (interviene e vota un soggetto non più titolare delle azioni). La comunicazione
deve essere effettuata dall’intermediario in base alle evidenze risultanti al settimo giorno di mercato
antecedente alla data fissata per la prima o unica convocazione.

Dietro previsione di apposita clausola statutaria, l’assemblea può:


A svolgersi con intervento telematico, con relativo voto. Il socio partecipa utilizzando mezzi di
telecomunicazione (es. audio, video conferenza): coloro che partecipano a distanza devono poter intervenire
attivamente anche nella discussione assembleare e votare simultaneamente agli altri soci; deve garantirsi
inoltre la parità di trattamento tra i partecipanti e la possibilità di identificarli in maniera attendibile. L’avviso
di convocazione precisa le modalità di svolgimento dell’assemblea.
B prevedere l’utilizzo del voto per corrispondenza (ART. 2370, CO. 4 CC). Il socio non partecipa alla
seduta assembleare, ma invia il proprio voto prima della seduta, in forma cartacea o elettronica, con le
modalità indicate dallo statuto. Nell’avviso di convocazione devono essere testualmente formulate le singole
proposte su cui dovrà esprimersi il voto favorevole, contrario o di astensione, e non solo le materie in
discussione all’ordine del giorno. Il socio che esprime il suo voto per corrispondenza si considera intervenuto
nell’assemblea (ART. 2370, CO. 3 CC), quindi le relative azioni dovranno essere computate nel quorum
costitutivo.
Questi strumenti possono favorire una più ampia partecipazione ai lavori, annullando le distanze e i
costi di partecipazione che potrebbero dissuadere alcuni soci dall’intervenire, anche se (nel voto per
corrispondenza) rinunciano a quel confronto pieno e dialettico tra partecipanti, tipico della collegialità
assembleare. L’intervento telematico o per corrispondenza non può in ogni caso privare il socio del diritto di
intervenire fisicamente nella sede principale di svolgimento di lavori (dove sono presenti il presidente e il
segretario) ed esercitare i propri poteri usufruendo delle garanzie del metodo collegiale. Infatti lo statuto
consente, e non impone, all’azionista di partecipare o votare a distanza.

LA RAPPRESENTANZA IN ASSEMBLEA Gli azionisti possono partecipare all’assemblea personalmente o


mediante un proprio rappresentante. L’opzione della rappresentanza può essere utile al socio per avvalersi
di un soggetto professionalmente qualificato o per ovviare ad una propria impossibilità/difficoltà a
partecipare direttamente ai lavori o ancora per rafforzare il legale parasociale con altri soci. Nelle sole società
che non ricorrono al mercato del capitale di rischio, lo statuto può escludere o limitare la possibilità di farsi
rappresentare in assemblea (es. per ragioni di riservatezza impone che il delegato debba essere un socio).
Vi sono 3 regimi, uno per le società chiuse, uno per le società con azioni diffuse (che ricorrono al mercato dei
capitali di rischio, ma non sono quotate) e uno per le società quotate.
Partiamo con regole di carattere generale:
1 la delega deve essere conferita per iscritto (forma ad substantiam, necessaria per la validità della
procura e l’ammissione alla seduta) e la società deve conservare i relativi documenti. Una clausola statutaria

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può disporre requisiti formali convenzionali (es. autenticazione della firma o data certa della procura), ma
non può derogare al requisito della forma scritta, imposto per ragioni di certezza e di legalità del
procedimento deliberativo.
2 è nulla la delega in bianco, ossia la delega che non indica il nome del delegato (regola facilmente
eludibile riempiendo la delega prima della seduta)
3 la procura è revocabile, nonostante ogni patto contrario, anche se conferita in rem propriam, cioè
anche nell’interesse del delegato. È ammessa la revoca tacita: l’azionista che si presenta personalmente in
assemblea, al posto del delegato
4 è vietata una subdelega discrezionale da parte del delegato: il nome dell’eventuale subdelegato
deve essere direttamente contenuto nell’atto di delega; se la delega è attribuita ad una persona giuridica,
quest’ultima, oltre ad intervenire con il legale rappresentante, potrà farsi rappresentare in assemblea da un
suo dipendente o da un suo collaboratore, senza che sia necessario indicarne preventivamente il nominativo
nell’autorizzazione alla subdelega.

Nelle società che ricorrono al mercato del capitale di rischio, incluse le società quotate, la procura
può essere solo per singole assemblee, allo scopo di evitare un trasferimento surrettizio di posizioni di potere
(cd. incetta di deleghe), sganciato dal possesso azionario, nelle imprese grandi e aperte alla raccolta del
capitale diffuso. Salva diversa indicazione del delegante, la procura vale per tutte le convocazioni, se ce n’è
più di una.

Nelle società chiuse la delega per più assemblee è ammessa, ma il socio può revocare ad nutum la
procura (nelle piccole società c’è meno il rischio di un’incetta di deleghe). È consentita sia la delega generica
a partecipare a tutte le assemblee di una determinata società, sia la delega a partecipare a tutte le assemblee
di società in cui il socio detiene partecipazioni.

Vediamo ora le regole per le società chiuse e per le società con azioni diffuse (regole che non si
applicano alle società quotate):
1 un singolo delegato può rappresentare al massimo 20 delegati nelle società chiuse e 50 100 e 200
delegati per le società diffuse, a seconda dell’entità del capitale (rispettivamente fino a 5 milioni, 25 milioni
ed oltre). Lo statuto può introdurre limitazioni più rigide. Nelle società quotate, invece, il ricorso alle deleghe
va incentivato, come strumento di possibile contendibilità del controllo societario, ragion per cui non ci sono
limiti quantitativi.
2 Nelle sole società non quotate c’è divieto di delega a favore di membri degli organi di
amministrazione e controllo della società o di dipendenti della società. Per le società quotate non ci sono
invece divieti rigidi, ma vige una disciplina di trasparenza applicabile a tutti i casi di potenziale conflitto di
interessi del rappresentante e dei suoi sostituti (l’ambito qui si estende, oltre agli organi di amministrazione
e controllo, anche al socio di controllo della società). Al delegante devono essere comunicate per iscritto le
circostanze da cui deriva il conflitto e le istruzioni di voto sono obbligatorie per ciascun punto all’ordine del
giorno (il delegante deve indicare al delegato se votare a favore, contro o astenersi).

Vediamo ora le regole per le società quotate:


1 la società deve designare un cd. rappresentante designato dalla società, cui ciascun socio potrà
conferire una delega, impartendo istruzioni di voto cui il rappresentante dovrà attenersi. Ciò dovrebbe
favorire la possibilità per i piccoli soci di esprimere il proprio voto senza costi.
2 vige una particolare procedura di agevolazione della rappresentanza assembleare, denominata
sollecitazione di deleghe, che concilia l’esigenza dei piccoli soci di partecipare indirettamente alla votazione
con l’esigenza delle minoranze organizzate, o di soggetti esterni, che vogliono favorire la coagulazione del
127
consenso su singole proposte deliberative. Chiunque (anche chi non è attualmente socio, o la società tramite
i propri amministratori) si rivolga al pubblico dei soci (almeno 200 azionisti), richiedendo il conferimento di
una delega su una specifica proposta, o accompagnando la richiesta con raccomandazioni, dichiarazioni o
altre indicazioni idonee ad influenzare il voto (non occorre la richiesta di adesione a specifiche proposte di
voto, ma è sufficiente la formulazione di più generiche indicazioni di voto ai deleganti), è soggetto ad una
specifica disciplina e ad obblighi procedurali e di trasparenza. Anche attraverso appositi intermediari il
promotore effettua la sollecitazione, diffondendo, secondo le modalità stabilite dalla legge, un prospetto
contenente le proprie indicazioni di voto e un modulo per il rilascio della procura. La delega, sottoscritta dal
delegante, deve contenere le istruzioni di voto. Per mezzo di queste il socio può usare la sollecitazione per
dare istruzioni anche su materie (di cui è prevista la trattazione nella medesima assemblea) per cui il
promotore non ha dato indicazioni preventive e sarà tenuto ad esercitare il voto per conto dei diversi
deleganti, anche in modo divergente nel caso in cui abbia ricevuto dai medesimi istruzioni non omogenee.
Invece, nell’ambito delle materie espressamente indicate dal promotore, il socio non può dare istruzioni
contrastanti con quelle contenuto nel prospetto, a meno che il promotore non abbia previsto tale possibilità
(cd. sollecitazione bidirezionale).
3 non costituisce sollecitazione il caso in cui la richiesta di deleghe è effettuata da associazioni di
azionisti (cd. raccolta di deleghe), costituite per scrittura privata autenticata, che non esercitano attività
d’impresa e composte da almeno 50 soci, persone fisiche, ciascuna delle quali non detiene più dello 0,1 %
del capitale rappresentato da azioni con diritto di voto. Il rilascio delle deleghe è sottratto alla disciplina della
sollecitazione è può essere effettuata tra i soci dell’associazione anche se l’associazione è composta da 200
e più soci. Il legislatore vuole favorire l’aggregazione stabile di piccoli azionisti e in presenza di tali forme
associative le esigenze di tutela dei soci deleganti risulterebbero attenuate rispetto alla sollecitazione rivolta
al pubblico indistinto.

LO SVOLGIMENTO DEI LAVORI Il presidente dell’assemblea A controlla la regolare costituzione


dell’organo, ed accerta l’identità e la legittimazione dei presenti, B dirige i lavori, quindi svolge la discussione,
formula le proposte di deliberazione e controlla la votazione, C si occupa dello scrutinio e della proclamazione
dei risultati e D verbalizza. Il presidente dell’assemblea è la persona indicata nello statuto o, in mancanza,
quella eletta con il voto della maggioranza dei presenti (la maggioranza si calcola per teste, visto che il
controllo sulla legittimazione all’intervento e sulla costituzione della seduta spettano al presidente solo dopo
la propria nomina), ed è coadiuvato da un segretario, eletto nelle stesse modalità del presidente, che lo
assiste nelle operazioni e collabora attivamente alla verbalizzazione, controfirmando il documento finale
(ART. 2375 CC). Le funzioni del segretario possono essere assorbite dal notaio cui è affidata al verbalizzazione,
come previsto obbligatoriamente per le assemblee straordinarie (nelle assemblee ordinarie, invece, il ricorso
al notaio può essere previsto dallo statuto o deciso dall’assemblea a maggioranza). Il presidente ha
competenze autonome, ha una funzione propria (e non delegata). Le sue decisioni non sono sindacabili o
revocabili da parte dell’assemblea. Eventuali errori o abusi del presidente possono essere in ogni caso
contestati in sede di impugnazione della deliberazione assembleare, dando luogo anche a responsabilità
personale (o professionale) del soggetto che ha ricoperto la carica.
Lo svolgimento dei lavori è rimesso in larga parte alle valutazioni e alle decisioni del presidente, il
quale anzitutto deve verificare la legittimazione in capo ai presenti, escludendo dalla partecipazione chi non
ne ha diritto. Egli inoltre regola la discussione, imponendo limiti di tempo agli interventi ed esercitando poteri
di polizia interni se qualche partecipante compie abusi o scorrettezze.
Gli azionisti hanno il diritto di informazione. Spesso i loro interventi consistono in domande rivolte
agli amministratori o ai sindacai, i quali hanno il dovere di rispondere, purché la domanda sia pertinente e la
materia di cui si tratta non sia coperta da segreto aziendale. Nelle società quotate, ogni azionista ha il diritto
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di porre domande sulle materie all’ordine del giorno anche prima dell’assemblea, però la società, obbligata
a rispondere, può fornire una risposta pubblicando un’apposita relazione sul proprio sito internet, evitando
così di appesantire i lavori assembleari. È prevista poi una specifica informazione pre-assembleare, sotto
forma di deposito o comunicazione di progetti, documenti e relazioni. I soci hanno diritto a prendere visione
ed ottenere copia a proprie spese di tali documenti e di tutti gli atti depositati presso la sede sociale per
assemblee già convocate.
Nell’affrontare i diversi temi da trattare il presidente deve anzitutto rispettare l’ordine del giorno,
interpretandone il contenuto con diligenza professionale ed evitando allargamenti o restrizioni ingiustificate.
La successione degli argomenti contenuta nell’avviso di convocazione deve essere rispettata, salvo che
l’assemblea deliberi un’inversione dell’ordine del giorno. Durante la discussione devono evitarsi
discriminazioni a danno di uno o più azionisti. Il presidente può sciogliere la seduta se non vi sono le
condizioni per svolgere in modo ordinato i lavori. Coloro che, anche cumulativamente, raggiungono la quota
di 1/3 del capitale sociale e dichiarano di non essere sufficientemente informati sugli argomenti in
discussione hanno il diritto a che l’assemblea sia rinviata (ART. 2374 CC). La richiesta può essere formulata
anche su singoli punti all’ordine del giorno. L’assemblea può essere rinviata al massimo di 5 giorni. La seduta
di rinvio prosegue la seduta originaria e l’ordine del giorno rimane invariato.
Quanto alla votazione, salvo apposite clausole nello statuto o nel regolamento assembleare il
presidente sceglie il sistema di votazione, tenendo conto di eventuali mozioni d’ordine approvate
dall’assemblea. Tra i possibili metodi di voto rientrano: le dichiarazioni verbali, l’alzata di mano,
l’acclamazione, le schede precompilate. La votazione deve essere simultanea per tutti, alterare la
successione delle fasi è causa d’invalidità (es. separare la votazione in più fasi, intercalate da discussione,
senza una formulazione del voto contestuale e senza la compresenza di tutti i votanti). Se vi sono più proposte
di deliberazione, il presidente decide quale mettere per prima in votazione. Non è ammissibile il voto segreto:
nel verbale devono essere identificati infatti i soci favorevoli, contrari e astenuti (ART. 2375 CC). Il voto
segreto, inoltre, è incompatibile con la disciplina del conflitto d’interessi, che impone di verificare come abbia
votato ogni socio.
Terminata la votazione, si accerta il risultato dei lavori e il presidente effettua la proclamazione, ossia
dichiara che l’assemblea ha accolto o rigettato le singole proposte di deliberazione, e dichiara esaurita la
trattazione del relativo punto all’ordine del giorno.

LA VERBALIZZAZIONE Il verbale documenta lo svolgimento della riunione ed è obbligatorio e necessario,


infatti la sua assoluta mancanza rende nulla la deliberazione (ART. 2379 CC). Le irregolarità della sua
redazione, invece, rendono annullabile la delibera (ART. 2377 CC). Nell’assemblea ordinaria, il verbale è
redatto e sottoscritto dal presidente e dal segretario, mentre nell’assemblea straordinaria è redatto da un
notaio, che assume il ruolo di segretario, e sottoscritto anche dal presidente. Non occorre che sia sottoscritto
dai presenti né che il testo sia approvato nelle successive assemblee. Il notaio è presente perché deve
controllare la legalità della deliberazione: stanti le competenze dell’assemblea straordinaria, le delibere
hanno ad oggetto il più delle volte una modifica dello statuto, quindi quelle regole fondamentali che in sede
di costituzione già sono soggette al controllo notarile di legalità. Se il notaio ravvisa nella decisione adottata
un profilo di nullità della delibera assunta, deve redigere comunque il verbale (non può non redigerlo, dato
che deve documentare lo svolgimento dei lavori e della votazione, secondo i risultati proclamati dal
presidente, non può interdire preventivamente il deliberato assembleare), ma poi non iscriverà la delibera
nel registro delle imprese, bloccando quindi l’operatività della delibera (che acquista efficacia solo dopo
l’iscrizione). Il verbale deve essere analitico (ART. 2375, CO. 1 CC), deve indicare l’identità dei partecipanti,
il capitale rappresentato in assemblea, le modalità ed il risultato delle votazioni, e deve consentire di
identificare i soci favorevoli, astenuti o dissenzienti. Tranne l’indicazione delle modalità e del risultato della
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deliberazione, gli altri elementi possono risultare da allegati (es. il foglio firme, che indica i presenti alla
seduta). Se richiesto dagli intervenienti, nel verbale devono essere riassunte le relative dichiarazioni, purché
pertinenti all’ordine del giorno (i soci non hanno il diritto di pretendere un’integrale verbalizzazione di tutte
le dichiarazioni, né di ottenere il deposito e l’allegazione di documenti predisposti ad hoc). Infine, il verbale
può essere redatto anche dopo la seduta assembleare, purché senza ritardo e in tempo utile per gli obblighi
di deposito e pubblicazione.

IL CONFLITTO D’INTERESSI IN ASSEMBLEA L’esercizio del diritto di voto nelle SPA è espressione di un
diritto di partecipazione del singolo ed è rimesso in linea di principio al libero apprezzamento del socio, che
può scegliere se partecipare o meno all’assemblea e se votare a favore o contro le singole proposte
deliberative. Se una deliberazione assembleare viene impugnata, l’autorità giudiziaria non può sindacare il
merito della deliberazione, può solo verificare se la delibera è illegittima. Ciò non vuol dire che l’esercizio del
diritto di voto sia assolutamente libero ed insindacabile, dato che le SPA perseguono un predeterminato fine,
rappresentato dall’interesse sociale. La regola della funzionalizzazione del voto (per cui il voto deve essere
rivolte a perseguire tale interesse) vale per le deliberazioni dell’organo amministrativo (gli amministratori
hanno il dovere di perseguire l’interesse sociale), mentre il voto dell’azionista di regola incontra in tale
interesse solo un limite esterno, costituito dalla disciplina del conflitto d’interessi.
L’ART. 2373 CC rimodula nei confronti dell’azionista una regola generale dei procedimenti collegiali:
il componente dell’organo, che si trova in conflitto d’interesse con l’ente, non può, con il proprio voto sulla
materia oggetto del conflitto, arrecare un danno all’ente. Tale conflitto si verifica quando l’interesse
personale del socio, di natura patrimoniale, è contrapposto all’interesse della società, ossia quando il socio
deve scegliere se privilegiare il proprio interesse o quello sociale (es. il socio, proprietario di uno
stabilimento, è chiamato a votare l’autorizzazione all’acquisto del cespite da parte della società, per un
prezzo più elevato rispetto a quello di mercato). L’interesse personale non rileva se non è in oggettivo
contrasto con quello della società: per questo le delibere di nomina a critiche sociali sono valide, anche nel
caso in cui determinati azionisti abbiano votato per se stessi (lo stesso vale per le delibere che determinano
i compensi degli amministratori, assunte con il voto determinante degli interessati, se la misura dei compensi
non è irragionevole e pregiudizievole per la società). La legge non impone all’azionista di votare in modo da
perseguire l’oggettivo interesse sociale, dopo aver valutato diligentemente tale interesse (il voto e la delibera
non sono impugnabili perché frutto di una scelta negligente o dannosa per la società – es. nomina ad
amministratore di un soggetto privo di adeguate competenze professionali). Né al socio è imposto di
partecipare alle assemblee e di votare. La legge non si occupa neanche del caso in cui l’azionista persegua,
con il proprio voto, un interesse extrasociale (es. il socio vota alla carica di amministratore un soggetto con
cui intrattiene ulteriori rapporti d’affari), finché questo non contrasta con quello sociale. La legge interviene
solo in caso di conflitto, di oggettiva incompatibilità tra l’interesse personale e quello sociale. La legge non
impone un obbligo generale di astensione all’azionista in conflitto d’interessi, ma il suo voto è causa di
annullabilità della deliberazione se il suo voto è stato determinante per l’adozione della delibera (cd. prova
di resistenza) o se la deliberazione è idonea a danneggiare la società.
È rimessa al socio la decisione se astenersi o votare. Il presidente dell’assemblea non può
estrometterlo dalla riunione: si corre il rischio di annullamento della deliberazione solo se il voto viene poi
esercitato in direzione contraria all’interesse della società. Il gruppo di controllo, in situazioni anche rilevanti
di conflitto di interessi, può deliberare legittimamente, a condizione di non assumere decisioni che
danneggino il patrimonio sociale. Con ciò si evita che il controllo dell’assemblea transiti in capo alla
minoranza. La disciplina incide sul piano sostanziale: rileva che la decisione sia oggettivamente conforme con
l’interesse sociale e non con l’interesse esterno del socio.

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L’unico caso in cui è vietato preventivamente ed in via assoluta il voto è relativo ai soci-
amministratori nelle deliberazioni riguardanti la propria responsabilità (ART. 2373, CO. 2 CC). In linea
generale l’amministratore titolare di azioni con diritto di voto emesse dalla società può intervenire alle
assemblee nella sua qualità di socio e votare anche a favore delle proposte che egli stesso avanza nella qualità
di amministratore. Nel caso di deliberazioni riguardanti la propria responsabilità, però, egli non ha la
legittimazione al voto, per cui il presidente dell’assemblea deve escluderlo dalla votazione (il socio-
amministratore presente alla seduta va però computato nel quorum costitutivo).

L’ABUSO DEL DIRITTO DI VOTO (L’ABUSO DI MAGGIORANZA) Quando la maggioranza assume una
deliberazione per danneggiare i soci di minoranza si ha il cd. abuso di maggioranza (es. la maggioranza
delibera un aumento di capitale, anche se la società non ne ha specifico interesse, al solo fine di ridurre la
quota di partecipazione dei soci di minoranza, che non hanno la disponibilità finanziaria per sottoscrivere le
azioni di nuova emissione). La deliberazione assembleare, in quanto atto negoziale che si inquadra in un
rapporto privatistico patrimoniale (rapporto societario), deve rispettare il principio di buona fede, pertanto
è annullabile per non conformità alla legge in caso di sua violazione. Nell’esercitare il proprio diritto di voto
l’azionista ha, quale limite esterno, un dovere di correttezza: è sanzionato il comportamento del socio che,
pur non pregiudicando l’interesse sociale, cerca strumentalmente con il voto di danneggiare gli altri soci (es.
ripetuta decisione della maggioranza di non distribuire mai gli utili annuali, nonostante la società non abbia
esigenze finanziarie, allo scopo di indurre la minoranza a cedere a basso prezzo le proprie azioni). In questi
casi la società non subisce un danno, e difatti non si applica la disciplina sul conflitto di interessi, il voto è
piegato a soddisfare solo scopi lesivi degli altri soci. La sanzione è l’annullamento della delibera e, se la
rimozione dell’atto non basta, il risarcimento del danno a carico dell’azionista e a favore dei soci danneggiati.

L’OSTRUZIONISMO DELLA MINORANZA Alcuni soci potrebbero tenere un comportamento


ostruzionistico ed impedire l’adozione di una delibera. Solitamente ciò accade quando le partecipazioni sono
divise tra due soci, o due gruppi di soci, in parti uguali, tale che l’abuso di voto negativo di ciascuno paralizza
l’assemblea (o nelle assemblee straordinarie di società aperte, in cui si delibera con il voto favorevole di
almeno 2/3 del capitale presente, tale che il socio detentore di più di 1/3 dello stesso può far rigettare, con
il proprio voto, qualsiasi proposta). Anche qui l’azionista potrebbe essere tentato a perseguire un interesse
personale in danno di quello sociale (es. ostacolando un aumento di capitale necessario per lo sviluppo della
società, a vantaggio di altra impresa concorrente nella quale detenga partecipazioni) o a danneggiare gli altri
soci contro il principio di buona fede (es. impedendo sistematicamente l’adozione di qualsiasi decisione, così
da determinare lo scioglimento della società per impossibilità di funzionamento dell’assemblea). L’azionista
che tiene una condotta abusiva ha una responsabilità civile. L’annullamento della delibera negativa, per
conflitto di interessi o per violazione del dovere di correttezza, non è tuttavia utile alla società.

L’INVALIDITÀ DELLE DELIBERAZIONI ASSEMBLEARI Le deliberazioni assembleari possono essere viziate


per violazione di norme che disciplinano il procedimento deliberativo o riguardanti il contenuto della
delibera, determinandone l’invalidità. Il codice prevede due figure: annullabilità e nullità. Nel diritto
societario la categoria generale e residuale, ossia quella che si applica per tutte le violazioni non
espressamente assistite da una sanzione diverse, è l’annullabilità. Essa si determina sia quando si viola una
norma imperativa sia quando si viola una norma dispositiva (le norme dispositive possono essere derogate
solo dallo statuto) o una clausola statutaria. L’ART. 2377, CO. 2 CC stabilisce infatti che possono essere
impugnate per annullabilità le deliberazioni che non sono prese in conformità della legge o dello statuto.
La nullità, invece, vi è solo in presenza di una delle 3 cause tipiche previste dall’ART. 2379 CC: illiceità o
impossibilità dell’oggetto, mancanza di convocazione, mancanza di verbalizzazione. Nonostante la
deliberazione sia un atto negoziale, i cui vizi potrebbero essere regolamentati dalle disposizioni sui contratti,
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il legislatore prevede una disciplina apposita, tendenzialmente autonoma rispetto a quelle disposizioni, in
quanto occorre tutelare interessi e perseguire obiettivi diversi da quelli sottesi alla disciplina delle invalidità
contrattuali. Il legislatore cerca di tutelare adeguatamente l’esigenza di stabilità degli atti societari,
equilibrando questa istanza e quella di assicurare il rispetto della disciplina societaria. Per questo, la forma
generale di invalidità è l’annullabilità, che richiede un’impugnazione tempestiva entro 90 giorni, e la nullità
deve essere fatta valere entro 3 anni. Vi sono addirittura delibere che, una volta eseguite, diventano non più
impugnabili (e l’impugnazione eventualmente già promossa diventa improcedibile), allo scopo di assicurare
definitività del riassetto organizzativo che esse implicano. Per lo stesso motivo in linea di principio è
legittimato ad impugnare per annullabilità solo il socio che detiene almeno il 5% del capitale sociale.

INESISTENZA E INEFFICACIA DELLA DELIBERA Le deliberazioni assembleari possono essere contestate anche
per inesistenza e inefficacia. È inesistente la deliberazione solo apparente e che manca dei requisiti essenziali
e minimi della fattispecie. Chiunque vi ha interesse, e senza limiti di tempo, è legittimato ad accertare
l’assenza di qualsiasi atto qualificabile come deliberazione di una certa assemblea. Ci si limita però
all’inesistenza materiale, ossia verbalizzazione di un’assemblea mai convocata dagli amministratori e mai
tenutasi. Anche vizi particolarmente gravi (mancata convocazione o verbalizzazione) sono espressamente
previsti dalla legge e trattati come autonome cause di nullità, mentre altri vizi (mancato raggiungimento delle
maggioranze) sono considerati semplici cause di annullabilità.
L’inefficacia è un vizio derivante dalla carenza di legittimazione rispetto al potere deliberativo
dell’assemblea (mancanza di titolarità dei diritti di cui si dispone – es. delibera che dispone l’esclusione del
socio dalla società, carenza di una condicio iuris – es. delibera di revoca per giusta causa di un amministratore
già dimessosi dalla carica). L’inefficacia può essere fatta valere in giudizio senza limiti di tempo e da parte di
chiunque vi abbia interesse.

L’ANNULLABILITÀ Sono annullabili le deliberazioni non prese in conformità della legge o dello statuto.
La difformità della delibera dalla legge o dallo statuto può determinarsi per violazione di norme sia sostanziali
sia procedimentali. I vizi di contenuto (o sostanziali) attengono all’oggetto della decisione. Se il vizio consiste
nella violazione di norme imperative (non derogabili dallo statuto), bisogna distinguere il caso con l’illiceità
dell’oggetto che dà invece luogo a nullità. Se invece la disposizione sostanziale è statutaria (es. nomina di
amministratori privi di requisiti statutari di professionalità) o se la norma di legge violata è derogabile (es.
esclusione immotivata del diritto di opzione dei soci in caso di aumento del capitale sociale), l’oggetto non è
illecito. Anche l’annullabilità per vizi di procedimento può derivare dalla violazione di norme aventi fonte
legale (es. emanazione dell’avviso di convocazione senza il rispetto del termine di preavviso) o statutaria (es.
convocazione con mezzi diversi da quelli previsti nello statuto). Qualunque violazione di norme
procedimentali (eccetto l’omessa convocazione o verbalizzazione, che sono cause di nullità), anche
particolarmente grave, rende la deliberazione annullabile (e non nulla). Tra i vizi comportanti l’annullabilità
rientra anche la delibera assunta con il voto determinante di un socio in conflitto di interesse o espresso in
violazione del dovere di correttezza.
Ci sono casi in cui la mera sussistenza del vizio non è sufficiente a determinare l’annullabilità della
deliberazione, ma occorre che il vizio superi una determinata soglia di rilevanza sostanziale (ART. 2377, CO.
5 CC):
1 la partecipazione all’assemblea di persone non legittimate (prive della qualifica di socio o di altri
requisiti di legittimazione – es. delegato la cui procura è stata rilasciata in violazione dell’ART. 2372 CC) è
causa di annullamento solo se, a seguito della prova di resistenza, la partecipazione è risultata determinante
per il raggiungimento del quorum costitutivo

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2 in caso di invalidità di singoli voti (voto espresso in presenza di vizi della volontà, come violenza,
dolo o errore) o del loro errato conteggio da parte del presidente dell’assemblea, occorre accertare se la
violazione è stata determinante per il raggiungimento della maggioranza
3 l’incompletezza o l’inesattezza del verbale sono cause di annullamento solo se impediscono
l’accertamento del contenuto, degli effetti o della validità della delibera (non costituisce causa di
annullabilità il fatto che l’intervento di un socio nella discussione sia riportato in maniera non fedele allo
svolgimento dei lavori)
Al di fuori di questi casi, la violazione delle regole del procedimento collegiale comporta l’annullabilità
della deliberazione. Ci sono però casi in cui la violazione ha una rilevanza marginale tale da non incidere
sull’esito della successiva deliberazione, quindi la delibera non è annullabile (es. gli amministratori negano
immotivatamente alcune informazioni richieste dal socio in sede di approvazione del bilancio: tali
informazioni devono avere rilevanza sostanziale ai fini della regolarità del bilancio o del possibile
orientamento dei soci circa la sua approvazione). L’interesse protetto dalla norma deve essere leso
concretamente ed in modo non trascurabile, ma non si tratta di una regola di resistenza (non occorre provare
che il socio avrebbe votato diversamente se avesse avuto l’informazione richiesta o che il suo voto sia
risultato determinante per l’esito della votazione).

La legittimazione ad impugnare le deliberazioni annullabili spetta in primis ai soci assenti,


dissenzienti o astenuti. La deliberazione può essere impugnata anche dal socio che ha ottenuto, o chiede
contestualmente, l’annullamento del proprio voto positivo (es. per vizi del consenso). Tale legittimazione
spetta però solo ai soci che avevano diritto di voto sulle materie oggetto della deliberazione (ART. 2377,
CO. 3 CC). Le impugnative dei piccoli soci incontrano tuttavia un forte limite, in quanto al legittimazione ad
impugnare spetta solo a minoranza qualificate, ossia a coloro che detengono almeno il 5% del capitale
sociale, ridotto all’uno per mille nelle società che ricorrono al mercato del capitale di rischio. Lo statuto può
escludere o ridurre tale requisito. La soglia minima può essere raggiunta anche sommando più domande
presentate separatamente. Tale limite evita impugnative promosse da soci marginali che, subendo in modo
modesto le conseguenze che un’impugnativa potrebbe provocare sul valore della partecipazione, potrebbero
utilizzare questo strumento giudiziale per azioni di disturbo e di turbativa (per esercitare pressioni sulla
maggioranza e/o sugli amministratori). I soci che non rappresentano la parte di capitale necessaria per
essere legittimati a impugnare la deliberazione hanno diritto al risarcimento del danno loro cagionato dalla
non conformità della deliberazione alla legge o allo statuto (ART. 2377, CO. 4 CC). Sono legittimati ad
esercitare l’azione d’annullamento anche gli amministratori (previa deliberazione del c.d.a.) e il collegio
sindacale (e il consiglio di sorveglianza, nel sistema dualistico).

Il termine per l’impugnativa è di 90 giorni decorrenti dalla data della deliberazione, o dall’iscrizione
nel registro delle imprese o dal deposito nel registro se la delibera è soggetta solo a tale obbligo (ART. 2377,
CO. 6 CC).

L’azione d’impugnazione si propone con atto di citazione notificato alla società, l’unica controparte
processuale necessaria dell’impugnante, dinanzi al tribunale del luogo in cui è stabilita la sede legale (ART.
2378, CO. 1 CC). L’attore ha l’onere di dimostrare la propria legittimazione attiva (la qualifica di organo
amministrativo o di controllo, il possesso del numero minimo di azioni). Se la legittimazione viene meno nel
corso del processo, a seguito di trasferimenti azioni per atto tra vivi (e sempre che gli acquirenti non
intendano proseguire il giudizio, subentrando nell’azione), il giudice può pronunciare solo sulla domanda di
risarcimento del danno, ed a condizione che sia stata promossa tempestivamente dal socio (ART. 2378, CO.
2 CC).

133
La proposizione dell’azione non sospende l’esecuzione della delibera da parte degli amministratori.
La sospensione cautelare può essere però disposta dal tribunale su richiesta degli attori, se l’impugnazione
appare sorretta da valide ragioni (fumus boni iuris) e se vi è il rischio di grave pregiudizio per le ragioni
dell’istante nel periodo che occorre per definire il giudizio di merito con sentenza (periculum in mora). Il
giudice valuterà comparativamente il pregiudizio che riceverebbe la società dall’eventuale sospensione
cautelare (es. mancato afflusso di risorse in caso di sospensione della deliberazione di aumento di capitale)
con il pregiudizio che riceverebbe il ricorrente dall’esecuzione della delibera (es. perdita di titolarità delle
azioni, in caso di riduzione illegittima del capitale sociale, deliberata sulla base di una falsa rappresentazione
delle perdite di esercizio), che può essere anche indiretto, per il danno che la società, e pro quota il socio,
possono subire dalla deliberazione impugnata (es. in caso di illegittima autorizzazione all’acquisto di
partecipazioni in imprese a responsabilità illimitata ex ART. 2361, CO. 2 CC, per il danno derivante dal peso
dei debiti della partecipata).

L’annullamento non può pronunciarsi se la società ha sanato il vizio, con apposita sostituzione della
delibera impugnata con altra presa in conformità alla legge o allo statuto (ART. 2377, CO. 8 CC). Il giudizio
eventualmente già introdotto potrà proseguire solo per provvedere sulle spese di lite, che verranno poste di
norma a carico della società e sul risarcimento dell’eventuale danno. L’effetto retroattivo non pregiudica i
diritti eventualmente acquisiti da terzi (anche se non sono in buona fede) sulla base della deliberazione
sostituita.

Se la deliberazione è annullata (o sospesa), l’annullamento ha effetto rispetto a tutti i soci ed obbliga


gli amministratori, sotto la propria responsabilità, a prendere i conseguenti provvedimenti. L’annullamento
ha quindi immediata efficacia giuridica (l’annullamento, o la sospensione cautelare, della deliberazione di
nomina degli amministratori ripristina automaticamente in carica il precedente organo amministrativo). Se è
necessario un provvedimento esecutivo degli amministratori (es. vengono ritirate azioni emesse a seguito di
un aumento di capitale annullato), questi devono provvedere nel più breve tempo possibile, compiendo gli
atti necessari, ad attuare la sentenza. L’annullamento non pregiudica però i diritti acquistati in buona fede
dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione: la tutela riguarda però solo i terzi di buona
fede, non gli azionisti.

LA NULLITÀ Le 3 cause di nullità delle deliberazioni assembleari sono tassativamente previste dall’ART.
2379, CO. 1 CC:
1 illiceità o impossibilità dell’oggetto (causa sostanziale). Qui si pone il problema di distinguere tale
figura da quella della non conformità della deliberazione alla legge prevista come causa di annullabilità. Il
criterio generale per distinguere tra delibere nulle e annullabili per vizi sostanziali è l’interesse tutelato
dalla norma violata: sono nulle le delibere che violano norme inderogabili poste nell’interesse generale (es.
violazione dei criteri di redazione del bilancio per l’approvazione di bilanci affetti da falsità o non chiari),
mentre sono annullabili quelle che violano norme, anche inderogabili, ma poste nell’interesse e a tutela dei
soli soci (es. violazione delle disposizioni inderogabili in materia di diritto di opzione o di recesso).
2 mancata convocazione dell’assemblea (causa procedimentale). Il vizio causa nullità solo se
assoluto e sostanziale. Il vizio si verifica quando anche uno solo dei soci, aventi diritto di voto, non è stato
avvertito nelle forme minime previste. La convocazione è invece solo irregolare (quindi la delibera non è
nulla), e quindi annullabile, se l’avviso non rispetta i termini minimi di convocazione o se manca di alcuni suoi
contenuti tipici secondo la legge o lo statuto. Affinché la convocazione sia solo irregolare e non mancante
occorre che, prima dello svolgimento dell’assemblea, ciascuno degli aventi diritto al voto riceva un avviso,
proveniente da almeno un componente dell’organo di amministrazione o di controllo in carica (non basta un
avviso proveniente da un socio o da un terzo) e contenente almeno la data dell’assemblea (la mancata
134
indicazione dell’ordine del giorno non è causa di nullità, ma di annullabilità). Il vizio di nullità non può essere
fatto valere da quei soci che, anche dopo l’assemblea, hanno dato (anche tacitamente – es. partecipando
all’assemblea senza contestare la mancata convocazione) il proprio assenso allo svolgimento dell’assemblea
(ma non necessariamente alla deliberazione assunta, - es. il socio partecipa all’assemblea, ma risulta in
minoranza nella votazione).
3 mancata verbalizzazione della deliberazione (causa procedimentale). È causa di nullità solo se
manca in assoluto un documento, sottoscritto da presidente dell’assemblea (o dal presidente del consiglio
d’amministrazione o dal consiglio di sorveglianza e dal segretario o dal notaio) e contenente almeno
l’indicazione della data e dell’oggetto, quindi delle materie trattate e della deliberazione assunta
dall’assemblea. La delibera, il cui verbale è stato sottoscritto dal solo presidente dell’assemblea (e non dal
segretario), è annullabile. È annullabile anche la delibera il cui verbale è stato sottoscritto dal presidente di
altro organo (a prescindere che vi sia o no la sottoscrizione pure del segretario). La delibera, il cui verbale è
sottoscritto solo dal segretario, non notaio, è nulla, mentre la delibera, il cui verbale è sottoscritto solo dal
segretario notaio, è annullabile. Se il verbale ha un contenuto insufficiente, quindi non siano indicati tutti gli
elementi ex ART. 2375 CC, la delibera è annullabile, sempre che il vizio infici l’accertamento del contenuto,
degli effetti o della validità della delibera. In ogni caso la nullità è sanata con effetto retroattivo se la
verbalizzazione interviene prima dell’assemblea successiva, salvi i diritti acquisiti dai terzi che in buona fede
ignoravano l’esistenza della deliberazione (ART. 2379 BIS, CO. 2 CC).

È legittimato all’impugnazione chiunque vi ha interesse, compresi i soci che hanno votato a favore
della deliberazione. La nullità può essere rilevata anche dal giudice d’ufficio.

Le deliberazioni nulle possono essere impugnate nel termine di 3 anni dall’iscrizione o dal deposito
nel registro delle imprese, se previsti dalla legge, o, in caso contrario, dalla trascrizione nel libro delle
adunanze dell’assemblea (ART. 2379, CO. 1 CC). Il termine non vale per il solo caso di deliberazioni che hanno
modificato l’oggetto della società, prevedendo lo svolgimento di attività illecite o impossibili: in questo caso
l’azione è imprescrittibile. Per tutelare il mercato azionario in tutte le SPA, anche non quotate, c’è un termine
di 180 giorni per le deliberazioni di aumento del capitale sociale, di riduzione facoltativa del capitale sociale
e di emissione delle obbligazioni (ART. 2379 TER, CO. 1 CC). In caso di nullità per omessa convocazione
dell’assemblea, il termine è di 90 giorni decorrente dall’approvazione del bilancio dell’esercizio in cui la
deliberazione nulla sia stata anche parzialmente eseguita. Per tali delibere, però, se la società ricorre al
capitale del mercato di rischio l’impugnazione è preclusa, e la sentenza non può essere pronunciata anche se
la deliberazione sia stata tempestivamente impugnata, se la delibera ha avuto esecuzione anche parziale
mediante l’emissione o l’annullamento dei relativi titoli (ART. 2379 TER, CO. 2 CC), fermo il diritto al
risarcimento dei danni eventualmente spettante ai soci e ai terzi. Ulteriori preclusioni sono previste per le
deliberazioni di approvazione del bilancio (una volta intervenuta l’approvazione del bilancio successivo) e per
le deliberazioni di trasformazione, fusione e scissione (una volta perfezionata l’iscrizione nel registro delle
imprese della delibera di trasformazione e degli atti di fusione e scissione), fermo restando il diritto al
risarcimento del danno.

Quanto agli effetti, la sentenza di nullità non pregiudica i diritti acquisiti dai terzi di buona fede. La
nullità è sanabile con apposita sostituzione con altra delibera assembleare.

GLI AMMINISTRATORI

LE COMPETENZE DEGLI AMMINISTRATORI Nel sistema tradizionale di amministrazione e controllo


l’impresa societaria è gestita dall’organo amministrativo, che può essere unipersonale, ed abbiamo un
amministratore unico, o pluripersonale, e si ha il c.d.a.. Gli amministratori hanno competenza esclusiva
135
sull’attività di gestione, quindi per compiere tutte le operazioni volte ad attuare l’oggetto sociale: questa è
una regola inderogabile (ART. 2380 BIS, CO. 1 CC) per l’organizzazione interna della società suscettibile di
essere limitata solo nei casi espressamente previsti dalla legge. È nulla la clausola statutaria che attribuisce
competenze gestorie agli altri organi sociali o quella che attribuisce ad un soggetto esterno alla società il
potere di amministrazione. L’assemblea non ha poteri decisionali in materia gestoria, sulla quale essa può
indirettamente incidere solo grazie alle seguenti competente tassative: 1 potere di scelta degli
amministratori, 2 potere latu sensu di controllo (approvazione del bilancio), 3 potere normativo (determina
le norme statutarie, anche rispetto ai modelli di amministrazione e controllo). Lo statuto può attribuire
all’assemblea solo un potere autorizzatorio su singoli atti di competenza degli amministratori (ART. 2364, N.
5 CC). Questa divisione dei poteri nell’organizzazione societaria è imperativa, solo così si può dare certezza
ed efficienza al governo dell’impresa societaria, rafforzando il potere esecutivo interno. I soci possono
scegliere tra diversi modelli di governo, ma sono tutti modelli legalmente tipici, rispetto ai quali l’autonomia
statutaria ha potere di scelta, ma non può creare varianti atipiche.

NOMINA DEGLI AMMINISTRATORI E COSTITUZIONE DEL RAPPORTO DI AMMINISTRAZIONE: COMPETENZA


SULLA NOMINA. GLI AMMINISTRATORI DI MINORANZA L’assemblea ordinaria nomina con propria deliberazione
i preposti alla carica gestoria, il cui organo (nel modello di amministrazione e controllo tradizionale) può
essere monocratico (amministratore unico) o pluripersonale (c.d.a.). Nelle società quotate l’organo di
amministrazione è sempre pluripersonale. Lo statuto, ossia l’assemblea, fissa la composizione numerica
dell’organo. La competenza dell’assemblea per la nomina è un principio fondamentale, inderogabile dagli
statuti (ARTT. 2364, N. 2 e 2383, CO. 1 CC). Il CC fissa alcune deroghe espresse e tassative che prevedono
possibilità di nomine separate:
A lo statuto può attribuire il potere di nomina di un consigliere indipendente ai portatori di
strumenti finanziari partecipativi (ART. 2351, ULTIMO COMMA CC)
B lo statuto può assegnare il potere di nomina esterna di un numero di amministratori, purché
proporzionale alla partecipazione al capitale sociale, ad enti pubblici titolari di partecipazioni in SPA che non
ricorrono al mercato del capitale di rischio (ART. 2449 CC). Per le società che ricorrono al mercato del
capitale di rischio tale possibilità è ammessa solo a favore dell’ente che sia portatore di tali strumenti
finanziari partecipativi.
Non vi sono norme generali che tutelano le minoranze, la maggioranza assembleare può nominare
l’intero c.d.a..
Ex ART. 2368, CO. 1 CC per la nomina alle cariche sociali lo statuto può stabilire norme particolari.
Fermo il divieto di prevedere modalità di nomina extra-assembleare ed il rispetto del principio di
maggioranza, gli statuti possono stabilire norme che garantiscono la rappresentanza delle minoranze, con
diverse tecniche: a riservando a diverse categorie di azioni la nomina di uno o più amministratori (es. azioni
di categoria A e azioni di categoria B intestate rispettivamente a soci di due distinti nuclei familiari), con
designazioni o votazioni separate espresse da parte di ciascuna categoria nell’assemblea generale degli
azionisti convocata per deliberare la nomina degli amministratori, purché a nessuna categoria di azioni
minoritaria per partecipazione al capitale sociale si riservi la maggior parte dei seggi consiliari, oppure b
introducendo sistemi che temperano la regola di maggioranza con criteri proporzionalistici (es. lo scrutinio
di lista). L’elezione con voto di lista è la tecnica più diffusa per consentire la nomina di rappresentanti di
minoranza, tanto che la legge ne impone l’adozione alle società quotate sia per l’organo amministrativo sia
per quello di controllo. Tale tecnica, prevedendo la presentazione di più liste di candidati, consente di trarre
gli amministratori da eleggere dalla lista più votata e da quella seconda per numeri di voti ricevuti, purché si
tratti di lista non riconducibile al gruppi di maggioranza. Nelle società quotate almeno un componente del

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c.d.a. deve essere espresso da una lista di minoranza, salva la facoltà dello statuto di accentuare il criterio
proporzionalistico dello scrutinio di lista assegnando a liste minoritarie più seggi consiliari.

I REQUISITI PER LA NOMINA. L’AMMINISTRATORE INDIPENDENTE Possono essere nominati amministratori


di SPA sia soci sia terzi non soci (ART. 2380 BIS, CO. 2 CC), ma lo statuto può scegliere di limitare l’eleggibilità
ai soli soci. Una persona giuridica non può essere nominata come amministratore. Gli azionisti hanno limiti
imperativi nella scelta degli amministratori. Vi sono cause legali espresse di ineleggibilità e di decadenza
dalla carica, quali l’incapacità legale, il fallimento e le condanne penali che comportino interdizione dagli
uffici pubblici o privati. La nomina di un soggetto ineleggibile è nulla (ART. 2379 CC) e se la causa di
ineleggibilità sopravviene l’amministratore decade automaticamente dall’ufficio. Il modello legale prevede
requisiti di professionalità e onorabilità degli amministratori solo per le società quotate (dove c’è un regime
più severo di incompatibilità anche per condanne penali minori o per misure di prevenzione della disciplina
antimafia) o per alcune società a statuto speciale (società bancarie e assicurative). Dato che gli statuti
possono introdurre norme particolari per la nomina alle cariche sociali (ART. 2368, CO. 1 CC), essi oltre che
prevedere i sistemi di nomina di amministratori di minoranza, possono anche 1 richiedere che la
composizione interna dell’organo amministrativo rispetti determinati requisiti di professionalità dei singoli
membri, 2 fissare norme che garantiscano l’indipendenza di parte dei componenti del c.d.a.. Lo statuto può
così stabilire ulteriori requisiti di professionalità e/o onorabilità in tutte le SPA, diversificando anche i requisiti
in relazione alle funzioni (presidente, amministratore delegato) che l’amministratore è destinato a svolgere
una volta eletto. Oltre alla professionalità e all’onorabilità per alcuni amministratori può richiedersi anche
l’indipendenza nei confronti degli azionisti di controllo e del management. Tali requisiti sono volti a
migliorare l’affidabilità sulla correttezza dei gestori, tramite la vigilanza di amministratori con autonomia di
giudizio, sia per l’assenza di relazioni con la società o con soggetti ad essa legati, sia per la capacità
professionale e socio-economica di esprimere posizioni autonome, soprattutto a fronte di conflitti di interessi
in cui sono coinvolti il gruppo di controllo o gli amministratori. Tali requisiti sono imposti per legge in alcune
società a statuto speciale e in tutte le società quotate i cui consigli di amministrazione devono comprendere
almeno un consigliere indipendente, o due consiglieri indipendenti se il consiglio è composto da più di 7
componenti. In tutte le SPA, peraltro, gli statuti possono prevedere che uno o più amministratori siano
indipendenti dagli azionisti e/o dagli altri amministratori. L’amministratore indipendente deve rimanere tale
per tutta la durata della carica. L’amministratore indipendente che, dopo la nomina, perde i requisiti di
indipendenza, deve comunicarlo immediatamente al c.d.a. e in ogni caso decade dalla carica.

IL DIVIETO DI CONCORRENZA Gli amministratori hanno il divieto di concorrenza ex lege (ART. 2390
CC), divieto che rileva solo con riferimento ad un’attività svolta in altra impresa in rapporto di concorrenza
attuale o potenziale con quella svolta dalla società. L’amministratore ha il divieto di esercitare un’impresa
individuale o un’attività concorrente per conto altrui e il divieto di assumere la qualità di socio illimitatamente
responsabile o di amministratore o direttore generale di altra società concorrente. Il divieto può però essere
derogato da un’autorizzazione assunta da una delibera formale dell’assemblea ordinaria, e non è necessaria
una specifica motivazione. L’eventuale violazione del divieto può esporre l’amministratore a revoca per
giusta causa (salva un’autorizzazione ex post) e a risarcimento dei danni (salve, ricorrendone i presupposti,
le azioni di concorrenza sleale ex ART. 2598 CC contro l’impresa che si sia avvalsa del contributo
dell’amministratore inadempiente).

L’ACCETTAZIONE DELLA CARICA. L’AMMINISTRATORE DI FATTO Per assumere la carica di amministratore


è necessario un atto di accettazione, anche tacito. La nomina è soggetta ad adempimenti pubblicitari nel
registro delle imprese (ART. 2383, CO. 4 CC): ciascun amministratore (o in mancanza ex officio) deve iscrivere
i propri dati anagrafici entro 30 giorni dall’accettazione della nomina da parte dell’eletto. La stessa pubblicità
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è necessaria in caso di cessazione dalla carica (ART. 2383, CO. 5 CC). Ciò vale anche per l’amministratore di
fatto, ossia quel soggetto non investito formalmente della carica con un atto di nomina seguito da debita
accettazione. Tale soggetto, pur privo di investitura formale (spesso l’azionista di maggioranza), s’ingerisce
sistematicamente nella gestione della società (tipicamente con investitura tacita, cioè con piena
consapevolezza e consenso da parte degli azionisti), svolgendo compiti amministrativi (a volte
rappresentativi, se munito di procure speciali provenienti dagli amministratori di diritto della società). In tale
caso l’amministratore di fatto ha gli stessi poteri e le stesse responsabilità (civile e penale)
dell’amministratore di diritto.

LA CESSAZIONE DEGLI AMMINISTRATORI: DURATA DELLA CARICA E CAUSE DI CESSAZIONE La carica dura al
massimo 3 anni (ART. 2383, CO. 2 CC), inderogabilmente, quindi sono inammissibili amministratori a vita o
in posizione privilegiata quanto al mantenimento della carica (minerebbero l’equilibrio dei poteri interni
nella società, equilibrio che esige che l’assemblea confermi periodicamente la fiducia ai gestori). Non c’è una
regola che stabilisca la necessaria contemporaneità della data di cessazione delle cariche, ma lo statuto può
imporre la sincronicità dei mandati gestori, per garantire l’effettività dei sistemi di nomina di amministratori
di minoranza. L’amministratore cessa dalla carica per: 1 scadenza del termine, 2 rinuncia (cd. dimissioni), 3
revoca, 4 cause di decadenza previste ex lege (ART. 2382 CC) o dallo statuto, 5 decesso. Se cessano dalla
carica uno o più amministratori per una di tali cause, per salvaguardare l’efficienza dell’organizzazione
societaria, quando è possibile si danno soluzioni di continuità nell’esercizio della funzione amministrativa.
Tale esigenza rileva soprattutto nelle seguenti cause di cessazione:
1 in caso di scadenza del termine, ex ART. 2385, CO. 2 CC l’organo amministrativo è prorogato
illimitatamente, quindi permane in carica con pieni poteri, finché l’assemblea non lo sostituisce.
2 la rinuncia alla carica non richiede la forma scritta ad substantiam, non è necessaria un
giustificazione, ed essa non comporta un obbligo di indennizzo verso la società. Sono previsti meccanismi per
ovviare a pericolose vacanze dalla carica. La rinuncia ha effetto immediato, non necessita di accettazione, e,
una volta comunicata, non può essere revocata. Tuttavia, se con essa l’organo amministrativo si paralizza
(viene meno la maggioranza dei componenti in carica, soprattutto se il dimissionario è l’amministratore
unico), può derogarsi al suo effetto immediato: in questo caso la rinuncia ha effetto solo al momento della
sostituzione dell’organo, quando la maggioranza degli amministratori è ricostituita.
3 la revoca dell’amministratore può essere disposta senza limiti da parte dell’assemblea ordinaria
(ART. 2383, CO. 3 CC), che provvederà alla relativa contestuale sostituzione. Vi sono ipotesi di revoca di
diritto (ART. 2393, CO. 5 CC) e di revoca giudiziale (ART. 2409, CO. 4 CC). Eccezionalmente il potere di revoca
dell’amministratore nominato da enti pubblici (ART. 2449 CC) è attribuito allo stesso ente pubblico che ha
effettuato la nomina (e non all’assemblea). La revoca è in generale di competenza dell’assemblea che nomina
gli amministratori, la quale può procedervi ad nutum in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo. La delibera
di revoca non richiede alcuna motivazione e la sua efficacia non è subordinata alla sussistenza di una giusta
causa. La mancanza di giusta causa dà solo luogo al diritto al risarcimento del danno a favore
dell’amministratore revocato. La giusta causa che esenta la società dal risarcimento ricorre sia in presenza di
un grave inadempimento degli obblighi gestori da parte del revocato sia se ricorre un giustificato motivo
oggettivo che, minando il rapporto fiduciario tra l’amministratore e la società, manifesta la sua sopravvenuta
inidoneità all’esercizio della funzione. Non c’è giusta causa di revoca quando l’assemblea ha revocato gli
amministratori (per limitare i costi inerenti all’organo riducendo il numero degli amministratori, o perché il
nuovo azionista di controllo, che ha acquistato la partecipazione maggioritaria, intende sostituire gli attuali
gestori con persone di sua fiducia).

138
LA SOSTITUZIONE DEGLI AMMINISTRATORI CESSATI. LA COOPTAZIONE Se durante il mandato vengono a
mancare uno o più amministratori, per cause diverse dalla revoca assembleare (l’assemblea che ha
deliberato la revoca in questo caso sostituisce il revocato), quindi per rinuncia, decadenza e decesso,
l’organo va integrato sostituendo gli amministratori venuti a mancare, evitando soluzioni di continuità della
funzione amministrativa. In caso di cessazione di uno o più consiglieri, ma solo se rimane in carica la
maggioranza degli amministratori di nomina assembleare, ex ART. 2386 CC i membri del c.d.a. (composto
dagli amministratori rimasti in carica) hanno il potere di cooptazione da esercitare tramite una deliberazione
che deve essere approvata dai sindaci. L’amministratore cooptato dura in carica fino all’assemblea
immediatamente successiva alla sua nomina, che potrà confermarlo, anche implicitamente. Se però viene
meno, per fatti successivi, la maggioranza degli amministratori nominati dall’assemblea, quelli rimasti in
carica devono convocare prontamente l’assemblea, per sostituire gli amministratori mancanti. In mancanza
di diversa disposizione statutaria o dell’assemblea, il componente cooptato, e confermato dall’assemblea,
scadrà dalla carica contemporaneamente alla scadenza del mandato di quei consiglieri che si trovavano in
carica all’atto della sua nomina (ART. 2386, CO. 3 CC). Se invece vengono meno tutti gli amministratori e
non è un caso di prorogatio (es. morte dell’amministratore unico), il collegio sindacale dovrà convocare
urgentemente l’assemblea e nel frattempo potrà esercitare i poteri di amministrazione ordinaria (ART. 2386,
ULTIMO COMMA CC). In linea di principio, quindi, il venir meno di uno o più amministratori lascia in carica i
restanti, aprendo alla sostituzione dei soli consiglio venuti meno per cooptazione o da parte dell’assemblea.
I soci possono introdurre in statuto la clausola simul stabunt simul cadent, per mantenere nel tempo gli
equilibri tra le diverse componenti consiliari: se vengono a mancare nel corso del mandato uno o più
amministratori (per qualsiasi causa), cesserà l’intero consiglio e gli altri amministratori dovranno convocare
d’urgenza l’assemblea per rinnovare l’intero consiglio. I soci potranno anche prevedere che in tal caso la
cessazione del consiglio abbia effetti immediati, tali che, venuti a cessare tutti gli amministratori, saranno i
sindaci a dover convocare d’urgenza l’assemblea e ad assumere nel frattempo i poteri di ordinaria
amministrazione della società (ART. 2386, CO. 4 CC).

STRUTTURA E FUNZIONAMENTO DELL’ORGANO DI AMMINISTRAZIONE Nell’organo tradizionale di


amministrazione e controllo l’organo amministrativo può essere composto da una a più persone
(amministratore unico o c.d.a.), secondo le indicazioni dello statuto, il quale può limitarsi anche a fissare un
numero minimo e massimo, demandandone all’assemblea ordinaria la determinazione (ART. 2380 BIS, CO. 4
CC). Il numero minimo degli amministratori indicato in statuto può anche essere uno, lasciando così
all’assemblea la scelta tra amministrazione monocratica o collegiale. Nelle SPA quotate deve esserci
necessariamente un c.d.a., con un amministratore di minoranza e/o indipendente. Per tutte le società non
c’è invece un numero massimo.

CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE E PRESIDENTE Se gli amministratori sono più d’uno, essi costituiscono
il consiglio di amministrazione e l’amministrazione sarà attuata con metodo collegiale. Le deliberazioni
dovranno rispettare tale metodo (convocazione, riunione, discussione, votazione, proclamazione,
verbalizzazione) e il criterio decisionale sarà la maggioranza.
Il presidente del c.d.a. è titolare di una serie di poteri cardine per coordinare l’attività collegiale, ma
anche stimolare e tutelare l’effettività del ruolo del consiglio. Egli può essere nominato direttamente
dall’assemblea o essere eletto dal consiglio (ART. 2380 BIS, CO. 5 CC), sempre tra i suoi componenti. Quanto
alle sue competenze, egli ha un ruolo centrale, poiché 1 convoca l’organo, 2 fissa l’ordine del giorno, 3 dirige
la discussione e sottopone a votazione le deliberazioni, 4 proclama i risultati della votazione, 5 verbalizza (se
non è previsto l’intervento del notaio), 6 cura la corretta informazione di tutti i componenti dell’organo, per
adottare le deliberazioni in modo ponderato (ART. 2381, CO. 1 CC).

139
Vediamo ora le fasi del procedimento deliberativo consiliare. La convocazione di tutti i consiglieri è
essenziale per la legittimità della deliberazione (anche se presa con schiacciante maggioranza o all’unanimità
dei presenti), nelle forme previste dallo statuto (o in mancanza per iscritto dal presidente). Il presidente
dispone la convocazione emanandone il relativo avviso, ma ciascun componente ha il potere di richiedere
che il c.d.a. venga convocato dal presidente. L’avviso deve contenere l’ordine del giorno, inderogabile dal
c.d.a. Il presidente fissa le materie all’ordine del giorno e, per congruo tempo in anticipo, somministra le
adeguate informazioni sulle materie iscritte all’ordine del giorno, sotto la propria responsabilità. Nelle società
quotate, al fine di garantire che gli amministratori ricevano informazioni complete e tempestive, specie se lo
stesso consigliere è sia presidente sia amministratore delegato, con il presidente collabora il cd. lead
independent director: amministratore indipendente, punto di riferimento degli altri consiglieri non esecutivi,
che può convocare anche apposite riunioni di soli amministratori indipendenti per discutere dei temi di
interesse rispetto al funzionamento del c.d.a. o alla gestione sociale. Il presidente poi coordina i lavori del
c.d.a. (ART. 2381, CO. 1 CC), in particolare egli ha i seguenti compiti: dichiara aperta la seduta e ne regola la
discussione secondo l’ordine delle materie da trattare, dà e toglie la parola ai singoli componenti, pone in
votazione i diversi deliberandi proposti, procede allo scrutinio e proclama il risultato. Il consiglio adotta le
proprie deliberazioni con i quorum fissati dall’ART. 2388, CO. 1 CC: la maggioranza degli amministratori in
carica (quorum costitutivo) e la maggioranza assoluta dei presenti (computando anche il consigliere astenuto
- quorum deliberativo). Lo statuto di SPA può prevedere maggioranze qualificate, ma non l’unanimità.

L’IMPUGNAZIONE DELLE DELIBERE CONSILIARI Le delibere del c.d.a. sono impugnabili in caso di non
conformità alla legge o allo statuto (ART. 2388, CO. 4 CC). Vi è così una tutela incisiva sugli atti degli
amministratori, quasi a contrappeso del potere esclusivo dell’organo di amministrazione nella gestione. Tutti
i possibili vizi delle deliberazioni consiliari integrano sempre una causa di annullabilità, da far valere entro
90 giorni dalla data della deliberazione, anche se si tratta di vizi che in relazione alle deliberazioni
dell’assemblea sono invece ex ART. 2379 CC causa di nullità. Sono legittimati ad impugnare gli amministratori
assenti o dissenzienti (o astenuti) ed il collegio sindacale, obbligato ad impugnare se necessario ad impedire
un danno alla società (ART. 2407, CO. 2 CC). Anche il singolo socio ha una speciale legittimazione ad
impugnare, ma solo quando la deliberazione lede i suoi diritti, ossia pregiudica situazioni soggettive che
nascono nell’organizzazione societaria (es. il singolo socio può impugnare la delibera consiliare di aumento
del capitale che esclude il diritto d’opzione dei soci in assenza dei presupposti di legge). Sono fatti salvi i
diritti acquistati dai terzi di buona fede per atti compiuti in esecuzione della delibera (ART. 2388, ULTIMO
COMMA CC): per poter opporre il vizio deliberativo al terzo è necessario impugnare tempestivamente la
deliberazione e la società dovrà provare la mala fede del terzo.

L’AMMINISTRAZIONE DELEGATA Il consiglio può delegare le funzioni amministrative ad uno o più dei
propri componenti (cd. amministratori delegati, che può essere uno o più e le deleghe possono avere ad
oggetto materie uguali o distinte) o ad un collegio ristretto composto da propri componenti denominato
comitato esecutivo. L’organo amministrativo si articola quindi in un plenum, con funzioni di controllo e
indirizzo pieno, e in un nucleo delegato. All’organo viene delegata la gestione complessiva, ma anche la
predisposizione delle linee strategiche dell’impresa, che dovranno però essere esaminate dal consiglio.
L’organo delegato ha un ruolo fondamentale nella gestione dell’impresa societaria, con ricadute sia sulle
modalità di esercizio della funzione gestoria sia sulle responsabilità degli amministratori. La delega attribuisce
all’amministratore delegato (o comitato esecutivo) il potere di gestire le materie delegate, mentre il plenum
del c.d.a., rimanendo titolare della funzione amministrativa nel suo complesso, anche se non eserciterà la
gestione in quelle stesse materie, dovrà comunque vigilare sull’operato del delegato ed intervenire ove
occorra.

140
La delega di potere amministrativo, ad amministratori delegati o al comitato esecutivo, è soggetta
all’autorizzazione di un’apposita clausola statutaria o di una deliberazione dell’assemblea ordinaria (ART.
2381, CO. 2 CC) ed è attribuita con delibera consiliare, che deve determinare il contenuto e i limiti della
delega. Non è ammissibile una delega generica, attribuita cioè senza determinare puntualmente i poteri
delegati. È invece ammissibile una delega generale, avente cioè ad oggetto l’intera gestione della società.
Alcune competenze sono però non delegabili (es. redazione del progetto di bilancio, aumento del capitale
delegato dall’assemblea) e restano pertanto ex lege riservate al c.d.a., senza possibilità di deroghe statutarie
(ART. 2381, CO. 4 CC). Agli organi delegati, comunque, la legge attribuisce automaticamente delle
competenze (derogabili a favore della competenza del c.d.a.). Gli organi delegati curano che l’assetto
organizzativo, amministrativo e contabile sia adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa (ART. 2381,
CO. 5 CC). In base alle informazioni ricevute dagli organi delegati, che hanno al riguardo un obbligo di
reporting, il c.d.a. valuta l’adeguatezza di tale assetto (ART. 2381, CO. 3 CC). L’organo delegato è competente
a deliberare sui piani strategici industriali e finanziari della società, che il c.d.a. esamina, quando elaborati:
fatta salva diversa disposizione statutaria, il c.d.a. potrebbe limitarsi a prendere atto, ad esprimere un parere
o procedere all’approvazione/modifica dei piani dell’amministratore delegato (dato che il c.d.a. rimane
titolare pieno delle competenze di gestione nel loro complesso)
Il consiglio mantiene una competenza concorrente e sovraordinata sulle materie delegate. Esso ha
il potere di impartire direttive ai delegati, di avocare a sé la decisione su singole operazioni rientranti in
materie delegate e di revocare la delega in qualsiasi momento, senza dare giustificazioni. Nel suo insieme il
c.d.a. conserva i seguenti poteri/doveri: indirizzo, avocazione (sospensione della delega per singoli atti),
sostituzione, controllo. All’interno del consiglio le informazioni devono circolare in maniera corretta (ART.
2381 CC). Almeno ogni 6 mesi (3 mesi nelle società quotate) gli amministratori delegati devono fornire
regolarmente agli altri organi sociali (c.d.a. e collegio sindacale) le informazioni essenziali sul generale
andamento della gestione, sulla sua prevedibile evoluzione e sulle operazioni più rilevanti, per dimensioni o
caratteristiche, effettuate dalla società e dalle sue controllate. Ogni delegato deve adempiere a tale obbligo
di reporting nell’area gestionale affidata alla sua cura. Il c.d.a. ha un obbligo di vigilanza, tale per cui esso
valuta, sulla base della relazione degli organi delegati, il generale andamento della gestione (ART. 2381, CO.
3 CC). Il consiglio valuta tutti gli elementi fattuali contenuti nei rapporti periodici degli organi delegati, nonché
gli aspetti prospettici (il c.d.a. è un organo di governo che dovrà eventualmente intervenire con atti di
indirizzo e correttivi). Tutti gli amministratori hanno un più generale obbligo di agire in modo informato, il
che li rende responsabili per non aver assunto le iniziative opportune, in relazione alle informazioni
possedute, avendo il singolo amministratore l’obbligo di attivarsi per impedire eventi dannosi (ART. 2392,
CO. 2 CC). Ogni deliberazione del c.d.a. deve pertanto essere assunta con adeguata istruttoria. Non è mai
giustificabile un atteggiamento passivo da parte del singolo consigliere, quando risultano necessarie più
informazioni, soprattutto in presenza di lacune e contraddizioni nei rapporti informativi dei delegati. A tal
fine ciascun consigliere, delegato o meno, ha il diritto di chiedere agli organi delegati che in consiglio siano
fornite informazioni relative alla gestione della società (ART. 2381, ULTIMO COMMA CC), sollecitando
eventualmente il presidente alla convocazione del consiglio.
Con riguardo alle diverse articolazioni interne del consiglio, la delega può essere fatta anche ad un
organo collegiale (composto da componenti del c.d.a.), chiamato comitato esecutivo. Possono esserci
(soprattutto nelle società quotate) anche più compitati interni (composti da amministratori non esecutivi e/o
indipendenti), formalmente non titolari di deleghe amministrative, ma con funzioni solo istruttorie e
prodromiche all’attività deliberativa consiliare. A tutti i comitati, in quanto organi collegiali, si applicano le
regole del procedimento deliberativo del c.d.a.

141
INTERESSE SOCIALE, INTERESSI DEGLI AMMINISTRATORI E LE PARTI CORRELATE: GLI INTERESSI DEGLI
AMMINISTRATORI Gli amministratori sono gestori di un interesse altrui, pertanto, quali regole di
comportamento, essi hanno l’obbligo di diligente gestione e di perseguire l’interesse sociale. Può accadere
tuttavia che, per una data decisione, l’amministratore abbia interessi, per conto proprio o altrui (soprattutto
per conto del gruppo di soci che lo ha eletto), diversi da quello sociale. Per prevenire distorsioni nell’esercizio
della discrezionalità amministrativa, vige una disciplina (ART. 2391 CC), inderogabile dagli statuti, e rafforzata
dalla tutela penale (ART. 2634 CC), che impone obblighi di trasparenza a carico degli amministratori, i quali
dovranno informare sia tutti gli altri componenti dell’organo di gestione sia i sindaci in tutti i casi in cui siano
portatori di interessi personali, per conto proprio o di terzi, interferenti (ma non necessariamente in conflitto)
in una data operazione della società (es. l’amministratore sta negoziando una locazione di un immobile,
funzionale all’esercizio dell’impresa, ma di cui è proprietaria un’altra società cui egli partecipa come azionista
qualificato), oggetto di decisione monocratica (amministratore unico o delegato) o collegiale (comitato
esecutivo e/o c.d.a.). L’obbligo di comunicazione agli altri amministratori e ai sindaci diviene un obbligo di
astensione quando la situazione si presenta in capo ad un amministratore delegato, il quale in tal caso deve
investire l’organo collegiale, alla cui decisione dovrà conformarsi. Se portatore di un interesse in una certa
operazione è invece l’amministratore unico, questi non è obbligato ad astenersi, ma solo a comunicare ai
sindaci la situazione in cui versa per poi darne notizia anche alla prima assemblea utile. Il consigliere portatore
di tale interesse, oltre all’obbligo di informare, ha anche quello di votare in modo non pregiudizievole
all’interesse della società; non è invece obbligato ad astenersi dal voto.
Una volta informato, per deliberare in presenza di un interesse di un amministratore, il consiglio ha
l’obbligo di adeguata motivazione della deliberazione, ossia di esplicitare ragioni e convenienza della
deliberazione per la società, di indicare i presupposti della deliberazione (la sua base istruttoria) e le sue
finalità. La delibera assunta in violazione di tale disciplina è invalida. In caso di mancato adempimento degli
obblighi sia di comunicazione sia di motivazione, o di voto determinante dell’amministratore interessato, la
delibera è impugnabile entro 90 giorni, ma solo se può danneggiare la società. Qui si richiede l’accertamento
dell’idoneità a danneggiare la società per una logica di stabilità delle decisioni dell’organo amministrativo: si
garantisce che la pronuncia d’invalidità sia supportata dall’interesse concreto e attuale della società a
rimuovere gli effetti di una decisione su una data operazione, assunta violando tale disciplina.
Rileva a proposito ogni deviazione da parte degli organi interni della società, nell’esercizio delle
proprie funzioni, dal perseguimento dell’interesse sociale, deviazione che legittima la sanzione dell’invalidità
contro gli atti degli amministratori viziati da eccesso di potere. Il vizio di eccesso di potere ricorre dove le
scelte gestionali sono irrazionali, incompatibili con qualunque strategia imprenditoriale ed inconciliabili con
il fine lucrativo della società. Pertanto, se ogni decisione presa dagli amministratori è giudizialmente
insindacabile nel merito sotto il profilo dell’opportunità o del rischio che dalle stessa possa discendere, allora,
quando una decisione del c.d.a. implica scelte gestorie irrazionali potrà essere impugnata e la sanzione, in tal
caso, sarà l’annullabilità della delibera consiliare.
Rimane ferma la tutela risarcitoria per violazione della disciplina sugli interessi degli
amministratori, anche per il danno da lucro cessante, tutela che riguarda anche il compimento di operazioni
viziate da eccesso di potere. La tutela risarcitoria c’è anche se l’amministratore si approfitta, nell’interesse
personale o di terzi, di informazioni che abbia acquisito nell’esercizio delle sue funzioni all’interno della
società.

LE OPERAZIONI CON PARTI CORRELATE Alle società che ricorrono al mercato del capitale di rischio si
applica una disciplina speciale, che rafforza le cautele disposte da quella generale sugli interessi degli
amministratori. Vigono un obbligo di informazione al mercato e un obbligo di istruttoria accurata per i casi
in cui è maggiore il rischio di decisioni in conflitto di interessi, rischio che ricorre quando l’organo

142
amministrativo delibera di realizzare una certa operazione economica che ha come controparti soggetti
prossimi alla società, ossia parti correlate (ART. 2391 BIS CC). Sono parti correlate i soggetti che
appartengono all’area del controllo e del collegamento societario, i dirigenti con responsabilità strategiche
e i soggetti vicini ai precedenti per legami personali. Tali operazioni devono avvenire secondo i principi di
trasparenza e correttezza sostanziale e procedurale. Un regolamento interno dell’organo amministrativo,
approvato previo parere motivato favorevole di un comitato composto solo da amministratori indipendenti,
concretizza le regole. Il sistema procedurale prevede generali obblighi di approfondita istruzione
sull’interesse della società al compimento dell’operazione nonché sulla convenienza e sulla correttezza
sostanziale delle relative condizioni. Alcune regole procedurali si applicano alle sole operazioni più rilevanti,
le quali sono riservate alla competenza del c.d.a. e decise previo parere motivato favorevole da parte di un
comitato, composto solo da amministratori indipendenti. Agli amministratori indipendenti devono
assicurarsi tempestivi flussi informativi sull’andamento delle relative trattative. Il regolamento interno
dell’emittente può rendere meno rigorosa la procedura, stabilendo che il parere contrario degli
amministratori indipendenti rimanga non vincolante e possa essere superato da un’autorizzazione
assembleare (se prevista dallo statuto): in tal caso l’assemblea delibera con il voto favorevole della
maggioranza dei soci diversi dalle parti correlate, restando sterilizzato il voto dei soci correlati.

I COMPENSI DEGLI AMMINISTRATORI Le funzioni gestorie vengono esercitate normalmente a titolo


oneroso. In mancanza di diversa clausola statutaria, la competenza a determinare i compensi è così ripartita:
A i compensi degli amministratori sono stabiliti in via generale dall’assemblea ordinaria,
B i compensi del comitato esecutivo possono essere stabiliti direttamente dall’assemblea o, in
mancanza di determinazione di questa, dal consiglio all’atto della nomina,
C i compensi degli amministratori investiti di particolari cariche in conformità allo statuto, ossia i
compensi del presidente e degli amministratori delegati, sono stabiliti dal c.d.a. (e non dall’assemblea),
all’atto della nomina o della delega, previo parere del collegio sindacale (ART. 2389, CO. 3 CC). Tuttavia può
esserci una clausola statutaria che attribuisce all’assemblea il potere di stabilire un tetto per la
remunerazione di tutti gli amministratori, compresi quelli investiti di particolari cariche.
La determinazione assembleare (o consiliare) dei compensi, tuttavia, non incontra tetti minimi e
massimi di legge e le situazioni concrete sono tra loro molto diverse. Solo però le remunerazioni palesemente
eccessive (rispetto al compenso corrente nel mercato in società di analoghe dimensioni) sono illegittime per
lesione dell’interesse sociale, e la relativa deliberazione, se presa con il voto determinante
dell’amministratore interessato, sarà annullabile per conflitto d’interessi se la determinazione del compenso
è irragionevole o sproporzionata quale indice di danno potenziale per la società.
Si esige un pregnante grado di trasparenza: nelle società non quotate, la trasparenza è moderata,
dovendosi solo indicare nella nota integrativa l’ammontare cumulativo dei compensi degli amministratori,
mentre non si deve indicare nulla se il bilancio è redatto in forma abbreviata. L’esigenza di trasparenza è
maggiormente tutelata nelle società quotate, dove il consiglio deve approvare una relazione sulla
remunerazione, messa a disposizione del pubblica, relazione che deve indicare sia le politiche di
remunerazione nel successivo esercizio sia i compensi percepiti da ciascun componente nel precedente
esercizio. L’assemblea delibera poi esprimendo, con voto consultivo, un parere sulle politiche di
remunerazione da pubblicarsi a sua volta sul sito internet della società.
L’oggetto del compenso, che di regola consiste in un corrispettivo in denaro, può essere anche
costituito, in tutto o in parte, da una partecipazione agli utili conseguiti dalla società, o dal diritto di opzione
sulla sottoscrizione o sull’acquisto di azioni, con parametri che dovrebbero incentivare i gestori a migliori
performance. Il diritto al compenso dell’amministratore nasce direttamente ex lege, quindi non sono
necessarie né un’apposita clausola statutaria né deliberazioni assembleari di impegno, tale che, in assenza di
143
determinazione da parte dell’organo competente, l’amministratore avrà diritto ad ottenere in via giudiziale
la condanna della società al pagamento di un compenso, da determinarsi dal giudice secondo le regole
relative alle prestazioni d’opera intellettuale.

LA RAPPRESENTANZA All’esterno la società opera attraverso persone fisiche, titolari del potere di
agire in nome e per conto della società. Si distinguono la rappresentanza volontaria e la rappresentanza
organica (o statutaria, o legale).
La rappresentanza volontaria è eventuale e di secondo grado, può cioè essere conferita con procura
speciale da parte del rappresentante statutario, ma non può avere carattere generale (es. collaboratore
occasionale che, incaricato di curare l’acquisto di un macchinario, viene munito a tal fine di una
corrispondente procura). Se la società è anche titolare di impresa commerciale, oltre alla rappresentanza
fondata su procura speciale può avere anche la rappresentanza derivante dalla preposizione institoria o dalle
altre regole relative alla rappresentanza commerciale.
La rappresentanza organica è, invece, necessaria affinché la società possa agire nel traffico giuridico
(ART. 2384 CC). Il potere di rappresentanza può essere attribuito solo ad uno o più amministratori, indicati
nello statuto. Di frequente il potere di rappresentanza viene attribuito al presidente del c.d.a. e/o
all’amministratore delegato. Se più amministratori sono individuali quali rappresentanti, lo statuto, o in
mancanza l’assemblea, precisa se il potere di rappresentanza è attribuito in via congiuntiva o disgiuntiva. La
disciplina tutela i terzi contraenti. Il rappresentante legale è un rappresentante generale (anche processuale),
può compiere quindi qualsiasi atto in nome della società. Lo statuto (o una delibera assembleare, con
riguarda a determinate operazioni) può limitare i poteri degli amministratori: sono limitazioni riguardanti
specifiche deroghe alla generalità della procura che prevedono, per categorie di atti particolarmente
importanti, formalità aggiuntive, come la firma congiunta di due o più soggetti.
Gli eventuali limiti statutari dell’ambito della rappresentanza che fossero violati dal rappresentante
legale della società nello spendere il nome della società non sono opponibili ai terzi che hanno contratto
con la società, anche se tali limiti sono stati previamente pubblicati nel registro delle imprese. Vi è un’unica
eccezione alla regola dell’inopponibilità: la violazione di tali limiti potrà sempre opporsi solo a quel terzo che
abbia intenzionalmente agito a danno della società (cd. exceptio doli). Affinché possa opporre al terzo che
ha contrattato con la società l’inefficacia dell’atto compiuto dall’amministratore violando il limite al potere
di rappresentanza fissato dallo statuto, la società dovrà poter invocare l’eccezione di dolo: a tal fine dovrà
dimostrare la mala fede del terzo, che conosceva o ignorava colpevolmente il superamento di tale limite, e
dovrà offrire in giudizio la specifica prova di un atteggiamento di dolo, ossia di coscienza e volontà di quel
terzo di danneggiare la società. Per essere sicuri dell’efficacia dell’atto nei confronti della società, ai terzi
basterà verificare, attraverso il registro delle imprese, che colui che agisce in nome della società ne risulti
rappresentante legale, a prescindere dal fatto che agendo il rappresentante si sia mantenuto o meno nei
limiti del potere che gli spetta. Tale disciplina è dettata a protezione dei terzi nei confronti delle clausole
limitative del potere di rappresentanza.
Un caso diverso (non rientrante in quest’ultima disciplina) è il difetto di titolarità del potere
individuale del rappresentante, difetto che deriva da una clausola che attribuisce congiuntamente a diversi
amministratori l’intero potere di rappresentanza (e non la sola rappresentanza relativa al compimento di
alcune determinate categorie di atti). Se lo statuto fissa la titolarità del potere di rappresentanza legale per
tutti gli atti congiuntamente in capo sia al presidente del c.d.a. sia all’amministratore delegato, l’inefficacia
dell’atto compiuto da parte del solo presidente, o del solo delegato, sarà sempre opponibile al terzo.
Rientra invece nella regola dell’inopponibilità della violazione delle limitazioni ai poteri degli
amministratori ex ART. 2384 CC il caso in cui l’atto compiuto dal rappresentante risulta estraneo all’oggetto
sociale (cd. atto ultra vires). L’oggetto sociale costituisce un limite implicito e generale ai poteri di
144
rappresentanza statutari, poiché traccia il perimetro del potere gestorio degli amministratori, e la società ne
potrà opporre il superamento al terzo solo nella misura in cui sarà in grado di invocare nel caso di specie
l’exceptio doli. L’estraneità dell’atto all’oggetto sociale potrà determinarsi solo in concreto: un’operazione
economica, pur estranea all’attività tipica d’impresa indicata nello statuto come oggetto sociale, potrebbe
essere collegata a quest’ultimo per funzionalità (es. la fideiussione prestata dalla società a favore di un terzo).
La regola dell’inopponibilità ai terzi delle violazioni alle limitazioni al potere di rappresentanza degli
amministratori (salva l’invocazione dell’exceptio doli) si applica sia nel caso di vizio del potere rappresentativo
derivante dalla violazione di clausole statutarie (o da deliberazioni assembleari) sia nel caso in cui
l’amministratore abbia speso il nome della società senza osservare i limiti legali ed il vizio del suo potere
rappresentativo sarà allora costituito dalla violazione di una norma di legge (es. assunzione di partecipazioni
in altre imprese in assenza della prescritta autorizzazione assembleare). Il potere di rappresentanza degli
amministratori ha carattere generale tale che anche i limiti fissati dalla legge vanno compresi nella regole
dell’inopponibilità dei limiti ai terzi, salvo exceptio doli.
La stessa regola si applica anche ai casi di dissociazione tra potere gestorio e di rappresentanza,
ossia quando il rappresentante agisce nell’ambito del suo generale potere, ma spende il nome della società
senza avere un previo e valido atto deliberativo interno dell’organo sociale competente (es. il potere di
decidere l’atto appartiene al c.d.a., che non ha rilasciato deleghe amministrative, e solo il presidente ha il
potere di rappresentanza). Il rispetto dei diversi passaggi decisionali costituisce un limite del potere di
rappresentanza legale, limite cui si applica l’ART. 2384 CC, che renderà inopponibile al terzo (salvo exceptio
doli) la mancanza, a monte, dell’atto decisionale interno che sarebbe stato necessario affinché il
rappresentante potesse spendere il nome della società.
L’applicazione della regola ex ART. 2384 CC è quindi generale. Le diverse disposizioni che, per i casi
di invalidità di un atto deliberativo interno, proteggono solo gli acquisti dei terzi di buona fede (rendendo
quindi la loro posizione meno garantita), si applicano solo alle delibere automaticamente esecutive, ossia che
non necessitano del successivo compimento di un atto esterno di spendita del nome della società, e che
determinano direttamente effetti nei confronti di terzi.
In caso il rappresentante, invece, compia l’atto in situazione di conflitto d’interessi, si applica la
disciplina dell’annullabilità ex ART. 1394 CC. Quest’ultima si applica ogni volta che il rappresentante agisce in
conflitto d’interessi sena il supporto di una delibera autorizzativa del c.d.a. In tal caso, anche nelle SPA si
applica l’ART. 1394 CC, per cui l’atto compiuto è immediatamente efficace, ma annullabile su domanda del
rappresentato (la società), se il conflitto era noto o riconoscibile dal terzo contraente. Se, invece, una delibera
consiliare esiste, ed ha predeterminato gli elementi essenziali dell’atto compiuto in conflitto d’interessi, si
applica la più favorevole per il terzo disciplina dell’ART. 2391, CO. 3 CC, quindi la delibera dell’organo
amministrativo è annullabile, ma potrà consolidarsi per decadenza del termine di impugnazione (ART. 2388,
CO. 4 CC): solo quindi in caso di tempestiva impugnazione la società potrà ottenere l’annullamento del
negozio concluso con il terzo in esecuzione della deliberazione annullata, se riesce a dimostrare previamente
la malafede del terzo. L’ART. 1394 CC e l’ART. 2391 CC si escludono reciprocamente.

LE AZIONI DI RESPONSABILITÀ CONTRO GLI AMMINISTRATORI Vediamo ora le regole generali sulla
responsabilità civile degli amministratori per violazione di obblighi inerenti al proprio ufficio. Vi sono 3
ipotesi di responsabilità civile degli amministratori: A verso la società, B verso i creditori sociali, C verso
singoli soggetti (soci e terzi estranei).

LA RESPONSABILITÀ VERSO LA SOCIETÀ: PRESUPPOSTI La più importante è la responsabilità verso la


società, che spesso assorbe le altre se il danno dei creditori o dei terzi è un danno indiretto. Si tratta di una
responsabilità contrattuale, per inadempimento dell’obbligo di corretta amministrazione, in particolare per
145
violazione dei doveri ad essi imposti dalla legge o dallo statuto, cui gli amministratori devono adempiere con
la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze (ART. 2392, CO. 1 CC). Gli
amministratori non hanno poteri nel proprio interesse, ma nell’interesse della società, pertanto essi devono
esercitare la loro funzione (anche l’amministratore che si astiene dal curare la gestione viola gli obblighi della
propria carica) ed esercitarla nell’interesse della società. C’è un danno risarcibile in tutti i casi in cui la cattiva
gestione deteriora lo stato patrimoniale o il conto economico della società.

La responsabilità contrattuale degli amministratori è fondata su un criterio soggettivo di


colpevolezza: viene valutata cioè la loro diligenza in una prospettiva ex ante rispetto agli eventi successivi
con cui può concretizzarsi il pregiudizio (si guarda non al risultato negativo, che potrebbe essere dipeso anche
da fatto indipendenti dall’operato degli amministratori, ma al risultato dipeso da una condotta degli
amministratori diversa da quella esigibile da un gestore diligente). C’è una distinzione tra l’obbligo generale
di diligenza, in cui il comportamento dovuto non è tipizzato dalla legge, ma da determinarsi sulla base dei
criteri della negligenza, imprudenza ed imperizia, e gli obblighi specifici. Per quest’ultimi, il comportamento
dovuto è tipizzato dalla legge, quindi la colpa dell’amministratore si integra per il solo fatto di non aver
adempiuto al comportamento imposto (es. apertura della liquidazione se ricorre una causa di scioglimento
della società). Tale distinzione ha ricadute sull’onere della prova in giudizio. La colpa dell’amministratore
nella violazione dell’obbligo generale di diligenza va valutata secondo i tre criteri tradizionali della imperizia,
negligenza e imprudenza:
A con riguardo alla perizia professionale, l’amministratore deve avere attitudini adeguate alla natura
dell’incarico, oltre a requisiti particolari di professionalità che gli statuti possono richiedere ulteriormente. La
valutazione dell’adempimento degli obblighi deve essere fatta sulla base della diligenza professionale, e non
del criterio del buon padre di famiglia. La responsabilità è poi commisurata alle specifiche competenze
dell’amministratore, il quale ha l’obbligo di mettere a frutto, nell’esercizio della funzione, la perizia
professionale di cui è dotato, senza che la natura dell’incarico possa esimerlo. Inoltre l’amministratore deve
sempre agire in modo informato (ART. 2381, ULTIMO COMMA CC), con l’obbligo di ponderare le deliberazioni
da adottare e con l’obbligo di informazione, con finalità di vigilanza, sulle attività gestorie compiute da altri
soggetti (ART. 2381, CO. 3 e 5 CC).
B quanto alla diligenza, da intendersi come misura dell’impegno versato nell’adempimento,
l’espressione “natura dell’incarico” ex ART. 2392, CO. 1 CC da un lato consente di ritenere necessaria una
certa preparazione professionale, dall’altro permette di graduare la misura dell’impegno richiesto (in termini
di tempo e energie dedicate), in relazione all’eventuale diversità di specifici compiti ripartiti nel consiglio.
C quanto all’imprudenza, l’amministratore violerà l’obbligo di diligente gestione solo se gli si può
imputare di avere fatto scelte assolutamente irrazionali ed incompatibili con qualsiasi logica di impresa. Il
compito dell’amministratore è gestire un’attività produttiva, ed il rischio è una sua componente essenziale,
pertanto non può imputarsi all’amministratore di avere intrapreso operazioni rischiose, rinunciando ad altre
più prudenti. Valutazioni di merito sull’esercizio della discrezionalità gestoria sono precluse sul piano
giudiziale, salvo che le scelte risultino o irrazionali o adottate senza adeguata istruttoria (ART. 2381 CC) o
adottate violando la disciplina sugli interessi.

Se rileva la violazione dell’obbligo generale di diligenza degli amministratori, la prova della colpa (o
del dolo) deve essere data dalla società attrice, essendo la diligenza criterio di determinazione dell’oggetto
dell’obbligazione gestoria, quindi misura dell’inadempimento. Se invece rileva la violazione di un obbligo
specifico, l’onere della prova da parte della società attrice è facilitato: rimane a suo carico solo la prova del
fatto dell’inadempimento (es. la mancata rilevazione di una perdita del capitale che avrebbe dovuto
determinare l’apertura della liquidazione della società) e del nesso di causalità (ma non della colpevolezza).

146
Resta sempre salva la prova dell’errore scusabile da parte dell’amministratore convenuto, il quale sarà esente
da responsabilità se dimostra una causa che ha reso impossibile l’adempimento, un fatto impeditivo
dell’adempimento (es. impossibilità non imputabile di rilevare la perdita del capitale sociale che avrebbe
imposto l’apertura della liquidazione della società).

La responsabilità degli amministratori è solidale (ART. 2392, CO. 1 CC) e si estende anche agli
amministratori di fatto. La disciplina distingue tra responsabilità diretta di ciascun consigliere di
amministrazione, responsabilità che può sorgere soprattutto per gli atti di competenza del consiglio di cui
egli è componente e per atti direttamente imputabili al singolo amministratore (es. per violazione del divieto
di concorrenza), e responsabilità per omessa o difettosa vigilanza, che può addebitarsi al singolo consigliere
non delegato rispetto ad atti di competenza di amministratori delegati. A ciascun amministratore è imposto
un obbligo di intervento quando è a conoscenza di fatti pregiudizievoli, per impedirne il compimento o
eliminarne o attenuarne i danni (ART. 2392, CO. 2 CC). Tale obbligo grava anche sui nuovi amministratori, che
dovranno adoperarsi per rimuovere le conseguenze delle irregolarità compiute dai loro predecessori. Il
singolo amministratore può sottrarsi al vincolo di solidarietà. Gli amministratori devono adempiere i doveri
della carica con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze, ma essi
non sono solidalmente responsabili in caso di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori
(ART. 2392, CO. 1 CC). La regola della solidarietà nella responsabilità vale solo come criterio presuntivo: il
singolo amministratore potrà sempre dare la prova contraria dimostrando di essere estraneo al vincolo di
solidarietà in ragione della lontananza che separa il singolo comportamento dannoso compiuto da altro
amministratore rispetto alle funzioni attribuitegli nell’organo di amministrazione o al proprio ambito di
competenze professionali. Rimane fermo l’obbligo generale di agire in modo informato, che non permetterà
ad un amministratore di sottrarsi al vincolo di solidarietà (anche quando l’operazione o la decisione
pregiudizievole non rientri tra le sue specifiche abilità o tra le funzioni attribuitegli) assumendo un
comportamento passivo, invece che contestare l’eventuale carenza di adeguata istruttoria e chiedere
eventualmente un supplemento di informazioni. Anche se l’amministratore non è in grado di sottrarsi al
vincolo di solidarietà, egli può comunque separare la propria posizione rispetto agli atti produttivi di
responsabilità tramite la procedura di dissociazione ex ART. 2392, CO. 3 CC. Tale procedura esonererà
l’amministratore da responsabilità a 3 condizioni: 1 egli deve far annotare il suo dissenso senza ritardo nel
libro delle adunanze del consiglio, 2 egli deve informare immediatamente del suo dissenso il presidente del
collegio sindacale, 3 egli deve risultare esente da colpe. Non deve quindi essere rimasto inadempiuto né
l’obbligo di agire in formati né l’obbligo di vigilanza e di intervento dei consiglieri non delegati sugli organi
delegati. Per potersi sottrarre alla responsabilità solidale discendente dalle decisioni assunti a maggioranza
dagli altri consiglieri, ciascun amministratore, dopo aver richiesto un’adeguata istruttoria della deliberazione
ed eventualmente un supplemento di informazioni in consiglio, dovrà osservare la procedura di
dissociazione, la quale richiama gli altri amministratori a ponderare maggiormente la situazione in cui si è
determinato il dissenso, segnalando le criticità anche all’organo di controllo, senza che egli possa invocare a
propria discolpa il mero fatto di non aver concorso con il proprio voto alla decisione.

L’AZIONE DI RESPONSABILITÀ Per promuovere l’azione sociale di responsabilità, disciplinata dall’ART.


2393 CC, è necessaria la deliberazione dell’assemblea ordinaria (salvo quanto disposto per l’azione
promossa dalla minoranza). L’esercizio dell’azione può essere deliberato, nell’assemblea ordinaria di
approvazione del bilancio, anche se non indicato tra le materie da trattare (derogando così eccezionalmente
al principio dei procedimenti collegiali per cui l’oggetto della deliberazione deve essere preventivamente
indicato nell’ordine del giorno). Oltre all’assemblea, anche il collegio sindacale è competente a deliberare in
materia, con la maggioranza qualificata dei 2/3 dei componenti. La deliberazione di esercizio dell’azione

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comporta la revoca ope legis degli amministratori, purché approvata con il voto favorevole di una
maggioranza dei presenti, rappresentativa almeno di 1/5 del capitale. La revoca automatica comporta anche
(con ulteriore integrazione implicita dell’ordine del giorno) l’obbligo dell’assemblea di nominare nuovi
amministratori. L’assemblea può poi deliberare espressamente la rinuncia all’azione o una transazione con
gli amministratori, senza motivazioni necessarie. La delibera di rinuncia o transazione può essere però
impedita dall’esercizio di un diritto di veto con voto contrario da esprimersi in assemblea da parte di una
minoranza qualificata (la stessa legittimata ad esercitare in proprio l’azione di responsabilità). L’azione sociale
di responsabilità ha un termine di prescrizione di 5 anni dalla cessazione dell’amministratore dalla carica, ma
la prescrizione non decorre dalla cessazione della carica finché l’azione risarcitoria non può essere promossa
dalla società che non ha ancora visto verificarsi il danno.

L’AZIONE SOCIALE ESERCITATA DALLA MINORANZA Anche una minoranza qualificata è legittimata ad
esercitare l’azione sociale di responsabilità, disciplinata in questo caso dall’ART. 2393 BIS CC. Affinché possa
esercitare l’azione la minoranza deve avere una quota di capitale pari a 1/5 (20%) nelle società chiuse e 1/40
(25%) nelle società aperte. L’azione esercitata dagli azionisti di minoranza ha carattere in senso lato
surrogatorio: essa è infatti pur sempre un’azione sociale di responsabilità, tale che le somme dovute per
effetto dell’eventuale sentenza di condanna (o per l’eventuale transazione) vanno alla società (e non ai soci
che hanno agito). È poi previsto un litisconsorzio necessario con la società, che deve essere citata in giudizio
dagli attori, con gli amministratori di cui si chiede la condanna. Data la natura surrogatoria dell’azione, questa
sarà preclusa quando l’azione sociale è già pendente o la società ne ha già disposto: l’assemblea ne ha
deliberato direttamente l’esercizio, avviando il relativo giudizio, o ha deliberato di transigere. La società potrà
sempre rinunciare o transigere l’azione incardinata dalla minoranza, mentre ai soci minoritari potranno solo
rinunciare o transigere circa il giudizio intrapreso (la società potrebbe quindi ricominciare in proprio una
nuova azione), eventualmente disponendo del proprio diritto a proporre (o proseguire l’esercizio del)
l’azione: in tale caso la minoranza attrice deve restituire alla società ogni corrispettivo eventualmente
ricevuto per rinunciare o transigere. Per avviare e supportare, sul piano probatorio, l’azione è necessario che
le minoranze accedano alle informazioni. Il sistema però non consente agli azionisti indagini esplorative
nell’organizzazione societaria, è loro precluso l’accesso a tutti i libri sociali (ART. 2422 CC) e alla
documentazione relativa all’amministrazione. Inoltre, in caso di accoglimento della domanda, la società, che
gode del ricavato della condanna, dovrà rimborsare delle spese i soci che hanno agito in giudizi solo quando
essi non hanno potuto soddisfarsi sulla parte soccombente. La regola non è quindi molto favorevoli alle
minoranze agenti: oltre a porre a loro carico il rischio della soccombenza, presuppone l’infruttuosa
escussione dei soccombenti.

LA RESPONSABILITÀ VERSO I CREDITORI SOCIALI L’azione di responsabilità dei creditori sociali si fonda
su due presupposti (ART. 2394 CC): 1 deve essere addebitabile agli amministratori l’inosservanza degli
obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale (si avrà tale inosservanza con
riferimento ad ogni atto commissivo o omissivo negligente che abbia determinato un depauperamento di
tale patrimonio), 2 l’azione può essere proposta dai creditori solo in via sussidiaria, ossia quando il
patrimonio sociale è insufficiente a soddisfare i loro crediti. La fonte di responsabilità degli amministratori
non riguarda mai i debiti della società rimasti inadempiuti (per i quali gli amministratori non rispondono), ma
il pregiudizio subito dai creditori a causa dell’incapienza del patrimonio sociale, determinata dalla violazione
di obblighi gestori da parte degli amministratori. Si ritiene che l’azione di responsabilità dei creditori sociali
abbia natura autonoma, pertanto sono inopponibili ai creditori le eccezioni che gli amministratori potrebbero
invocare verso la società (es. in materia di prescrizione dell’azione sociale di responsabilità) e il risultato utile
dell’azione non verrà acquisito al patrimonio della società, ma solo a quello di chi agisce (e legittimato ad

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agire è ogni singolo creditore). La prescrizione di 5 anni decorre da quando si è manifestato l’evento dannoso,
ossia l’insufficienza del patrimonio sociale (in caso di fallimento, l’insolvenza). In pratica il termine decorrerà
dalla dichiarazione di fallimento che (secondo l’id quod plerumque accidit) fa presumere che il deficit
patrimoniale si sia in quel momento rivelato, salvo che l’amministratore interessato dia prova contraria circa
il fatto che l’insufficienza del patrimonio a soddisfare i creditori si sia manifestata prima del fallimento.
Nonostante l’azione dei creditori possa ritenersi giuridicamente autonoma rispetto a quella promossa dalla
società, è possibile che le due azioni interferiscano tra loro, dato che il danno subito dai creditori è il riflesso
di quello subito dalla società. L’eventuale rinuncia o transazione dell’azione sociale di responsabilità ha
ricadute sull’azione di responsabilità dei creditori: la rinuncia è inopponibile ai creditori, mentre la
transazione produce effetto anche nei loro confronti. Tuttavia, se l’accordo transattivo è frutto di collusione
tra vecchi e nuovi amministratori, i creditori possono impugnare la transazione con l’azione revocatoria.

LE AZIONI DI RESPONSABILITÀ NELLE PROCEDURE CONCORSUALI Gli amministratori sono espressione


della stessa maggioranza che dovrebbe deliberare la promozione dell’azione sociale. Per questo è raro che
l’azione sociale venga promossa dalla società o dalle minoranze, come è raro che i creditori promuovano
l’azione di responsabilità, dato che il pregiudizio patrimoniale emerge quando l’insolvenza della società è
conclamata nell’ambito di una procedura concorsuale. È proprio in quest’ultima che sono più frequenti le
azioni di responsabilità: con il fallimento, la legittimazione a promuovere le azioni sopra esaminate spetta
non più alla società ed ai creditori, ma in via esclusiva al curatore (ART. 2394 BIS CC). In caso di fallimento
della società, l’azione del curatore costituisce sintesi delle azioni ex ARTT. 2393 e 2394 CC. Il curatore può
avvalersi della disciplina più favorevole. Per quanto riguarda il dies a quo del termine di prescrizione, questo
decorrerà dal momento della conoscibilità per i creditori dell’insufficienza patrimoniale (disciplina più
favorevole per la curatela). L’apertura di una procedura concorsuale sul presupposto dello stato di insolvenza
della società non può però mai configurare presuntivamente una responsabilità dell’amministratore: il
curatore ha i medesimi oneri della prova relativamente ad allegazione e prova degli specifici fatti su cui si
fonda la responsabilità dell’amministratore, il nesso causale e il danno risarcibile. È ammessa una sola
eccezione nei casi in cui, essendo stato violato l’obbligo di tenere le scritture contabili della società, risulta
impossibile ricostruire le specifiche conseguenze sul patrimonio sociale dell’operare illegittimo degli organi
sociali: solo in tali casi la domanda risarcitoria avanzata dal curatore potrebbe essere accolta dal giudice
applicando il criterio della liquidazione equitativa del danno (ART. 1226 CC), che rileva solo se il danno non
può essere provato nel suo preciso ammontare, con quantificazione che tenga conto del deficit fallimentare
(differenza tra attivo e passivo patrimoniale della società accertato nella procedura concorsuale), ma sempre
a condizione che siano indicate in sentenza le ragioni che non hanno permesso al curatore di provare gli
specifici effetti dannosi conseguenti alle condotte dell’amministratore.

L’AZIONE INDIVIDUALE DEL SOCIO E DEL TERZO Il singolo azionista e i terzi direttamente danneggiati
dagli amministratori (ART. 2395 CC), per atti relativi alla gestione della società, sono legittimati a promuovere
nei loro confronti un’azione diretta di responsabilità. L’azione non può avere ad oggetto i danni riflessi, che
l’azionista può subire per la perdita di valore delle sue azioni a seguito di atti di mala gestio degli
amministratori che abbiano depauperato il patrimonio sociale: in tal caso, in presenza di un medesimo
pregiudizio subito dal patrimonio sociale e, indirettamente, dal singolo socio, quest’ultimo non può esercitare
l’azione, perché esporrebbe gli amministratori alla duplice riparazione dello stesso danno. Il danno risarcibile
è distinto e va ricondotto alla perdita patrimoniale derivante da una specifica vicenda, in cui l’azionista o il
terzo si siano trovati coinvolti uti singuli (es. la sottoscrizione di un aumento di capitale o l’acquisto di azioni
a prezzo eccessivo, indotti da un bilancio falso). Il comportamento doloso o colposo dell’amministratore, che
ha causato pregiudizio al singolo socio o al terzo, è solitamente la comunicazione di informazioni false. Altri

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fatti produttivi di danno risarcibile possono essere azioni discriminatorie compiute dagli amministratori a
danno di un singolo azionista. Nell’azione individuale di responsabilità il socio o il terzo che agisce deve dare
la prova specifica del fatto doloso o colposo dell’amministratore, e del nesso di causalità con il danno
direttamente subito. In caso di falsa informazione, contenuta nel bilancio o in altra informazione pubblica,
bisognerà provare che il deprezzamento delle relative azioni non sia una mera conseguenza dell’andamento
del mercato, e che la stessa informazione abbia determinato il processo motivazionale che ha indotto
l’azionista a disporre in un certo modo delle azioni. L’azione si prescrive in 5 anni ed il termine decorre dal
momento in cui il danneggiato, con l’impiego dell’ordinaria diligenza, sia stato in grado di venire a conoscenza
dell’evento dannoso (ciò per tutelare il diritto di difesa ex ART. 24 COST., nonostante l’ART. 2395 CC indichi
come dies a quo quello del compimento dell’atto).

I DIRETTORI GENERALI Nelle imprese medio-grandi è frequente che vi sia un funzionario dirigente (o
più di uno), posto in posizione apicale nella struttura aziendale, e che opera in relazione diretta con l’organo
amministrativo, costituendo il tramite tra l’attività deliberativa dell’organo e l’organizzazione degli uffici
interni. È un direttore generale (ART. 2396 CC) con mansioni di alta gestione o limitate alla gestione
esecutiva quotidiana, a seconda delle scelte organizzative della società. Ad esso è esteso il regime speciale
di responsabilità civile dettato per gli amministratori, sempre sul presupposto che egli sia nominato
dall’assemblea o dall’organo di amministrazione (in quest’ultimo caso sulla base di autorizzazione statutaria).
Se tale presupposto manca, la figura nominata dagli amministratori non sarà soggetto a tale regime speciale,
ma sarà esposta a responsabilità nei confronti della società e dei creditori secondo le regole di diritto comune.
Il direttore generale è subordinato gerarchicamente agli amministratori: potrà rifiutarsi di eseguire una
deliberazione dell’organo amministrativo solo quando, da tale esecuzione, possa derivare una responsabilità
a suo carico e se, prestando la propria opera, integrerebbe un illecito civile o penale. Sono fatte salve le azioni
esercitabili in base al rapporto di lavoro con la società, che rimangono azioni autonome: anche se la società
ha licenziato il direttore generale, e gli amministratori hanno agito in base al rapporto di lavoro per il
risarcimento dei danni, o rinunciato alla relativa azione o l’hanno poi transatta, l’assemblea potrà deliberare
di agire ex novo contro il direttore generale.

IL CONTROLLO SULLA GESTIONE E CONTABILE

Nella SPA la funzione di controllo interno è assegnata sia ad organi o uffici interni all’organizzazione
societaria sia a soggetti esterni. Nel modello di amministrazione tradizionale, la funzione di controllo è in
linea di principio suddivisa tra un organo sociale, il collegio sindacale, e un soggetto esterno per i profili
contabili, il revisore legale dei conti.

I SINDACI: LE FUNZIONI DEL COLLEGIO SINDACALE Il collegio sindacale è l’organo al vertice dei sistemi
di controllo. La funzione di controllo però non è estranea alla funzione gestoria di attuare le decisioni assunte
dall’organo d’amministrazione. Il collegio sindacale anzitutto vigila sull’osservanza della legge e dello statuto
(controllo di legalità formale). Il controllo di legalità sulle deliberazioni assunte dall’assemblea, dal c.d.a. e
dall’eventuale comitato esecutivo è anche sostanziale: il collegio vigila anche sul rispetto dei principi di
corretta amministrazione. Tale controllo sostanziale sulla corretta gestione comprende la vigilanza
sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società e sul suo
funzionamento. È una vigilanza complessiva sull’attività, che si estende fino a valutare l’adeguatezza
tecnico-produttiva, finanziaria, del personale, e che può implicare la creazione di uffici di controllo interno.
Ragioni di adeguatezza organizzativa possono richiede di istituire sistemi formalizzati di controlli interni su
cui il collegio sindacale vigila e verifica la corretta attuazione di eventuali regolamenti interni. Nel vigilare
sulla correttezza dell’amministrazione i sindaci non possono estendersi fino ad un controllo di merito,

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valutare la convenienza, l’opportunità, il rischio delle decisioni di gestione: rispetto a tali decisioni essi
possono solo rilevare se la scelta gestionale viola le regole di comportamento degli amministratori, in
quanto manifestamente irragionevole o non supportata da adeguatezza organizzativa o finanziaria. Il
controllo dei sindaci deve essere continuativo e può essere a campione, se imposto da criteri di razionalità
aziendale. Essendo un controllo sull’attività, non deve essere verificato ogni atto: l’organo di controllo
seleziona gli atti che richiedono particolare attenzione nell’ambito di un’attività di vigilanza sulla gestione,
anche considerando le caratteristiche strutturali della società.
Il collegio sindacale effettua un’alta sorveglianza sul complessivo sistema societario dei controlli
interni, curati dall’organo di amministrazione o dal revisore legale esterno. La funzione di controllo, nelle
articolazioni interne dell’organizzazione societaria, può essere attribuita dalla legge anche all’organo
gestorio. Nelle società quotate il collegio sindacale ha il potere di vigilare sia sull’adeguatezza organizzativa
dei sistemi di controllo interno, predisposti dall’organo gestorio, sia sull’attività di revisione legale dei conti,
affidata al revisore esterno. Quale criterio di valutazione dell’adeguatezza dei sistemi di controllo interno
sono istituite procedure idonee al governo e al controllo dei rischi operativi e della regolarità gestoria. Per
saggiare l’adeguatezza dell’assetto contabile e del suo funzionamento, il collegio sindacale non potrà esimersi
da indagini a campione, per verificare adeguatezza e affidabilità del sistema.
Per prevenire i rischi, soprattutto il compimento di reati, il collegio sindacale può essere investito
delle funzioni dell’organismo di vigilanza.
I sindaci non hanno però funzioni dirette di controllo contabile, ossia sulla regolare tenuta della
contabilità sociale e la corretta rivelazione nelle scritture contabili dei fatti di gestione. Tali funzioni sono
demandate a soggetti professionali esterne, ossia i revisori legali dei conti. Tuttavia, ma solo nelle SPA chiuse
(ossia le SPA le cui azioni non sono quotate né diffuse tra il pubblico in modo rilevante) non tenute a redigere
il bilancio consolidato (quindi SPA non al vertice di un gruppo) e che non controllino società non chiuse o che
non siano da quest’ultime controllate, gli statuti possono assegnare al collegio sindacale anche la funzione di
controllo contabile, ed in tal caso i sindaci dovranno tutti possedere la qualifica di revisori legali dei conti.
Il collegio sindacale ha anche compiti di informazione dell’assemblea e consultivi obbligatori,
anzitutto con riguardo alla relazione che, in occasione dell’approvazione del bilancio di esercizio, deve essere
depositata. Tale relazione è centrale per l’informazione dei soci, in essa il collegio sindacale deve riferire: A
sull’attività svolta nell’adempimento dei propri doveri, B sulla valutazione dei risultati dell’esercizio sociale,
C su osservazioni e proposte in ordine al bilancio e alla sua approvazione. Fermo il dovere di segnalare
eventuali irregolarità o criticità riscontrate nell’esercizio delle proprie funzioni di controllo sull’attività sociale,
il collegio sindacale, nella relazione resa in occasione del bilancio, se non ha anche poteri di controllo
contabile, non esprime un giudizio tecnico-professionale sul bilancio, giudizio riservato al revisore legale
esterno.
Eccezionalmente il collegio sindacale ha poteri di amministrazione attiva e di approvazione di atti
degli amministratori (in caso di cooptazione), e in alcuni casi esso deve anche rendere pareri obbligatori (es.
in materia di remunerazione degli amministratori che rivestano particolari cariche). I sindaci possono anche
esprimere pareri facoltativi riguardo all’esigenza di una leale cooperazione tra organi societari.
I sindaci infine hanno poteri reattivi, potendo così far fronte alle irregolarità degli amministratori, tra
cui 1 convocare con urgenza l’assemblea, 2 presentare la denuncia al tribunale, 3 promuovere contro gli
amministratori l’azione sociale di responsabilità.

NOMINA E REQUISITI. CAUSE DI CESSAZIONE DELLA CARICA L’organo di controllo ha composizione


numerica rigida, lo statuto può scegliere solo tra 3 o 5 membri effettivi, e devono essere comunque nominati
due supplenti. Solo nelle società quotate, fatto salvo il numero minimo, è consentita una deroga verso l’alto.

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I sindaci devono avere determinati requisiti di professionalità, previsti a pena di nullità della
nomina, o di successiva decadenza ope legis in caso di perdita sopravvenuta (ART. 2399, ULTIMO COMMA
CC). Almeno uno di essi deve essere revisore legale dei conti, e gli altri devono essere iscritti in appositi albi
professionali individuati da regolamento (avvocati, dottori commercialisti ed esperti contabili, consulenti
del lavoro), o scelti tra professori universitari in materie economiche o giuridiche. Solo nelle società che
hanno scelto di attribuire per statuto le funzioni di controllo contabile al collegio sindacale, l’organo deve
essere composto solo da revisori legali dei conti. Nelle società quotate valgono regole speciali circa la
professionalità e onorabilità dei sindaci.
La nomina del collegio sindacale è di competenza inderogabile dell’assemblea ordinaria (salvo per i
primi sindaci, da indicare nell’atto costitutivo. Una deroga alla competenza assembleare è prevista, su
disposizione statutaria, solo per la nomina da parte di ente pubblico purché proporzionale alla
partecipazione dello stesso al capitale sociale (ART. 2449 CC), e per la nomina di un sindaco da parte dei
portatori di strumenti finanziari partecipativi (ART. 2351, CO. 5 CC). Ferme queste attribuzioni, gli statuti
possono poi introdurre sistemi statutari di nomina di sindaci di minoranza; nelle società quotate la legge
impone che lo statuto preveda il cd. voto di lista per la nomina di un sindaco di minoranza ed il presidente
deve poi essere scelto tra i sindaci di minoranza, mentre per tutte le altre SPA la scelta è riservata liberamente
all’assemblea (ART. 2398 CC). Alla nomina segue l’accettazione, anche per comportamenti concludenti per i
sindaci titolari, che va iscritta nel registro delle imprese entro 30 giorni dalla delibera, a pena di sanzioni
amministrative. L’accettazione del sindaco supplente deve essere espressa, poiché deve subentrare
automaticamente in caso venga meno un sindaco titolare.
Le cause di cessazione del rapporto, oltre al 1 decesso, attengono alle seguenti ragioni:
2 scadenza del termine. Il termine è inderogabile dagli statuti. I sindaci restano in carica per 3 esercizi
e scadono alla data dell’assemblea convocata per l’approvazione del bilancio relativo al terzo esercizio della
carica. La scadenza è simultanea per l’intero collegio, anche se uno o più componenti è stato sostituito in
corso di mandato. Fino alla nomina del nuovo collegio, i precedenti sindaci rimangono in carica in regime di
prorogatio, senza limitazioni di poteri (ART. 2400, CO. 1 CC).
3 decadenza. Le cause di decadenza possono riguardare:
3.1 la sopravvenuta perdita di un requisito di eleggibilità. Il sindaco perde, dopo la nomina, i
necessari requisiti di professionalità o l’indipendenza richiestagli. Per le società quotate la Consob dichiara la
decadenza dei sindaci che hanno superato il limite di cumulo degli incarichi di controllo, ma anche di
amministrazione in altre società.
3.2 l’inadempimento di un dovere dei sindaci (sanzionato appunto con la decadenza). Sono cause di
natura sanzionatoria che scattano in caso di assenza ingiustificata, nell’arco di uno stesso esercizio sociale, a
due riunioni del collegio sindacale, alle assemblee, o a due adunanze consecutive del c.d.a. o del comitato
esecutivo, se presente.
4 rinuncia. È sempre ammissibile, la società non può avanzare pretese risarcitorie verso il sindaco
dimissionario. La rinuncia deve essere comunicata al presidente del collegio sindacale e di regola ha effetto
immediato, ma, se è impossibile integrare il collegio con membri supplenti, i dimissionari restano in carica in
prorogatio.
5 revoca.
In tutti i casi, quando viene meno un componente del collegio sindacale, a salvaguardia dell’integrità
della composizione dell’organo e della sua continuità di funzionamento, è prevista la supplenza. Nella prima
assemblea possibile deve ricomporsi l’organo collegiale, nominando i sindaci effettivi e supplenti necessari
per integrare il collegio (ART. 2401, CO. 1 CC). Il subentro dei supplenti, in ordine di età, è automatico ope
legis e non necessita di accettazione (il supplente aveva già accettato la nomina a suo tempo), ed ha effetto
dal momento della causa di sostituzione. Il subentro ha luogo solo se il supplente gode della stesa qualifica
152
del sindaco cessato (revisore dei conti, requisito professionale statutario, sindaco di minoranza);
diversamente va convocata l’assemblea per la nomina del nuovo sindaco.

L’INDIPENDENZA E L’INAMOVIBILITÀ DEI SINDACI Ai fini dell’effettività della funzione di controllo i


componenti dell’organo sindacale sono indipendenti e inamovibili, se pur la nomina è affidata alla
competenza dell’assemblea, secondo la regola di maggioranza. Nel modello legale (nelle società quotate,
invece, un sindaco deve essere espressione della minoranza) la maggioranza può scegliere tutti i componenti
dell’organo di controllo, nonostante essa nomini pur gli amministratori, ossia i destinatari di tale controllo.
C’è così un potenziale intreccio di interessi tra controllanti e controllati che indebolisce l’esercizio della
funzione di controllo. L’inevitabile accesso ad informazioni aziendali riservate da parte di chi eserciti funzioni
di controllo interno spiega la regola della nomina assembleare. A fronte di tale regola, per rafforzare
l’effettività delle funzioni dei sindaci, quest’ultimi sono indipendenti. La loro indipendenza ha ricadute sia
sui requisiti di eleggibilità alla carica sia sulla rimozione dalla carica.

Quanto ai requisiti di eleggibilità alla carica, l’ART. 2399 CC fissa ipotesi che fanno presumere iuris
et de iure la carenza del requisito dell’indipendenza, con conseguente nullità (per oggetto illecito) della
delibera di nomina, o, in caso di loro sopravvenienza, di decadenza ope legis dalle funzioni. Sono cause legali
di ineleggibilità e decadenza, non derogabili dagli statuti: A incapacità legale, fallimento, pene accessorie, B
il coniugio, la parentela o l’affinità entro il IV grado con amministratori della società o di altre società del
gruppo, C i rapporti di lavoro (subordinato o autonomo) continuativi con la società o con altre società del
gruppo, D gli altri rapporti patrimoniali che compromettono l’indipendenza del sindaco, ossia rapporti non
continuativi (es. un’importante consulenza occasionale). Sempre a salvaguardia dell’indipendenza del
sindaco, i compensi sono invariabili: essi devono essere fissati contestualmente alla nomina da parte
dell’assemblea, in misura equa nel quantum, e a scadenza periodica annuale, senza che possano essere
modificati nel corso del mandato (ART. 2402 CC), per evitare incentivi alla collusione. Il diritto al compenso è
irrinunciabile. Infine, il sindaco è soggetto a revoca solo per giusta causa con deliberazione dell’assemblea
ordinaria (regola indisponibile), la quale, per avere efficacia, deve poi essere approvata con decreto del
tribunale (ART. 2400, CO. 2 CC). La deliberazione di revoca deve essere motivata in ordine alla giusta causa,
che può consistere sia in un inadempimento ai doveri d’ufficio sia in un giustificato motivo oggettivo legato
al deterioramento dei rapporti tra sindaco e società (es. controversia giudiziaria) o a vicende personali del
sindaco che ne screditino il ruolo facendone venir meno l’affidabilità (es. eccessivo numero di incarichi in
altre società, specie se concorrenti). La giusta causa va valutata sempre dal tribunale, per evitare abusi.

IL COLLEGIO SINDACALE: FUNZIONAMENTO E POTERI L’organo sindacale è collegiale, quindi delibera


secondo le fasi tipiche collegiali (convocazione con indicazione dell’ordine del giorno, riunione, discussione,
votazione, proclamazione e verbalizzazione). Deve riunirsi almeno ogni 90 giorni, salvo la diligenza
professionale imponga riunioni più ravvicinate. Non è un collegio perfetto (che funzionerebbe solo con la
presenza di tutti i suoi componenti), esso è regolarmente costituito con la maggioranza dei sindaci (quorum
costitutivo) e delibera a maggioranza assoluta dei presenti (quorum deliberativo). Nell’esercizio delle
proprie funzioni l’attività dei sindaci si articola in tre fasi: 1 istruttoria, 2 valutativa e 3 reattiva. In ciascuna di
queste fasi i poteri dell’organo sono individuali, ossia attribuiti disgiuntamente a ciascun sindaco, o collegiali,
quindi esercitabili solo in forma collegiale (e senza possibilità di deleghe interne). Sono tutti poteri-doveri, il
cui mancato esercizio dà luogo a responsabilità dei sindaci, i quali sono investiti di poteri non nell’interesse
proprio, ma nell’interesse della società.
Nella fase istruttoria, i sindaci hanno poteri ispettivi individuali (ART. 2043 BIS, CO. 1 CC), ossia
esaminano i documenti sociali, ispezionano gli stabilimenti, interrogano i dipendenti. La richiesta di
informazioni agli amministratori è di competenza del collegio. Nelle società quotate, però, i sindaci hanno
153
anche poteri di informazione individuali. Gli amministratori devono fornire le informazioni richieste, a pena
di integrazione anche del reato di impedito controllo (ART. 2625 CC). Per le attività ispettive i sindaci possono
avvalersi a proprie spese di propri collaboratori indipendenti (o nelle società quotate anche di dipendenti
della società), ma gli amministratori possono rifiutarsi di fornire informazioni a tali soggetti, se riservate. Per
i sindaci non vi sono invece limiti di riservatezza per l’accesso personale ad informazioni aziendali, salvo che
per i segreti industriali. Nella fase istruttoria può esserci anche il potere-dovere di scambiare informazioni
con il revisore legale e quello di collaborare con organi di controllo delle società controllate. Nella
circolazione delle informazioni infra-gruppo, il collegio sindacale di una società-holding dovrà tener conto
dell’andamento complessivo del gruppo, e i sindaci della controllata potranno chiedere informazioni agli
amministratori della controllante. Di tutti gli accertamenti eseguiti, collegialmente o individualmente, deve
restar traccia nel libro delle adunanze del collegio sindacale, che così non conterrà solo i relativi verbali delle
riunioni.
La fase valutativa deve essere esercitata collegialmente. Il sindaco dissenziente può usare strumenti
residuali di reazione, che rimangono nella sua disponibilità individuale.
La fase reattiva può concretizzarsi in diverse iniziative, secondo una graduazione di situazioni.
Per quanto riguarda i poteri da esercitarsi collegialmente, i sindaci possono-devono direttamente
convocare l’assemblea in caso di omissione o ingiustificato ritardo degli amministratori nella convocazione
obbligatorio dell’assemblea (ART. 2406, CO. 1 CC). Dandone previo avviso al presidente del c.d.a. il collegio
sindacale convocherà pure l’assemblea per adottare i provvedimenti urgenti, in caso di fatti censurabili di
rilevante gravità, commessi dagli amministratori o rilevati in uffici della società in violazione dei rispettivi
doveri, purché tali fatti non attengano al merito delle scelte di gestione (sottratto al potere di controllo dei
sindaci). In caso di gravi irregolarità nella gestione, i sindaci potranno presentare denuncia al tribunale per il
procedimento ex ART. 2409 CC. Il collegio sindacale è legittimato ad impugnare poi le deliberazioni
assembleari o consiliari illegittime, se ritiene nell’interesse sociale che tali deliberazioni siano da eliminare.
Infine esso ha il potere-dovere di promuovere l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità nei confronti
degli amministratori, con la maggioranza dei 2/3 dei componenti (ART. 2393, CO. 1 CC).
Il singolo sindaco può reagire poi individualmente rispetto ad accertare irregolarità formulando
rilievi in collegio, intervenendo nella discussione in assemblea o in c.d.a., convocando il c.d.a. o il comitato
esecutivo o l’assemblea se la convocazione è congiunta da parte di almeno due sindaci (solo nelle società
quotate) o denunciando al PM gravi irregolarità rilevanti ex ART. 2409 CC, nonostante il collegio abbia
deliberato di desistere.
L’intervento dei sindaci può essere sollecitato dagli azionisti, tramite apposita denuncia. Ogni socio
può compulsare il collegio sindacale ad indagare su fatti censurabili, che il collegio avrebbe dovuto già rilevare
nell’esercizio delle funzioni di controllo (cd. denuncia semplice). In tal caso il collegio dovrà tener conto di
tale denuncia nella relazione annuale dell’assemblea (ART. 2408, CO. 1 CC). Se la denuncia proviene però da
una maggioranza qualificata (1/20 del capitale sociale o 1/50 nelle quotate), il collegio sindacale, dopo aver
indagato senza ritardo, dovrà riferirne alla prima assemblea utile. In ogni caso, e a prescindere che la
denuncia sia semplice o qualificata, i sindaci dovranno sollecitamente convocare l’assemblea se, a seguito
della relativa indagine, ravvisano fatti censurabili di rilevante gravità e vi sia urgenza di provvedere.

LA RESPONSABILITÀ DEI SINDACI I sindaci devono adempiere ai propri doveri con diligenza
professionale, il che implica una certa perizia. Essi sono solidalmente responsabili con gli amministratori
colpevoli di mala gestio, se il danno non si sarebbe prodotto se avessero vigilato in conformità dei propri
doveri (ART. 2407, CO. 2 CC). All’azione di responsabilità nei confronti dei sindaci si applica la compatibile
disciplina sull’azione contro gli amministratori (ART. 2407, CO. 3 CC). È una responsabilità per fatto proprio:
il sindaco non risponde automaticamente in caso di accertata responsabilità degli amministratori, ma solo
154
se gli si può imputare la violazione degli obblighi di vigilanza propri della carica (es. omesso esercizio dei
poteri reattivi: mancata impugnativa di deliberazioni illegittime) e se si dà prova del nesso di causalità tra il
comportamento, commissivo o omissivo del sindaco, in violazione dei suoi doveri, e la produzione dell’evento
dannoso a seguito del comportamento di mala gestio degli amministratori. In alcuni casi il danno potrebbe
essere determinato anche solo dal comportamento dei sindaci, che ne saranno i soli responsabili: è la
violazione di segreti, con danno della società, o di false attestazioni date agli azionisti o al pubblico, causa
di danno per singoli soci o terzi (i quali, direttamente danneggiati dal comportamento dei sindaci, potranno
promuovere un’azione individuale contro di essi). La responsabilità dei sindaci si prescrive in 5 anni.

LA REVISIONE LEGALE DEI CONTI: LA FUNZIONE DI CONTROLLO CONTABILE E IL GIUDIZIO SUL BILANCIO La
funzione di controllo contabile è attribuito ad un revisore esterno. Nel Registro dei revisori legali sono iscritti,
sotto la vigilanza del Ministero dell’economia, i soggetti (revisori legali e società di revisione legale) abilitati
alla revisione legale dei conti. Regole speciali valgono per i cd. enti di interesse pubblico (EIP), ossia quelle
società emittenti azioni o strumenti finanziari quotati o diffusi in maniera rilevante, oltre che in alcune società
a regime speciale (società bancarie, assicurative). La funzione di controllo contabile esercitata dal revisore ha
come contenuto tipico anzitutto il compito di verificare la regolare tenuta della contabilità sociale e la
corretta rilevazione nelle scritture contabili dei fatti di gestione. Oggetto ultimo di revisione sono gli eventi
di gestione e la relativa contabilizzazione. Dei risultati di tali controllo occorre che siano messi a parte i
soggetti interessati con apposita relazione. All’occorrenza il revisore giudica sul bilancio di esercizio e, se
presente, sul bilancio consolidato: il revisore non deve garantire che il bilancio sia vero, ma ha l’obbligo di
ricercare il vero, ossia l’esistenza di possibili frodi contabili, secondo metodi, anche a campione, con
razionalità aziendale. Il revisore deve formulare un giudizio, che potrà essere:
- positivo. Il revisore attesta la conformità del bilancio alle norme che ne disciplinano la redazione e
se il bilancio rappresenta in modo veritiero e corretto sia la situazione patrimoniale e finanziaria della
società sia il risultato economico di esercizio.
- positivo con rilievi, negativo o impossibile da emettere. Il revisore dovrà analiticamente illustrare i
motivi. In ogni caso non varrà la regola di legittimazione speciale all’impugnativa della delibera che
approva il bilancio di esercizio, che si applica solo in caso di giudizio senza rilievi.
Il controllo contabile deve esercitarsi nel corso dell’esercizio e con continuità, e non solo a ridosso del giudizio
da esprimersi sul bilancio. Al fine di ottimizzare i controlli sia il revisore sia il collegio sindacale hanno obblighi
di tempestiva, reciproca informazione in ordine ad informazioni rilevanti per lo svolgimento delle relative
funzioni. Il revisore dovrà segnalare al collegio sindacale eventuali fatti censurabili, data l’intestazione di
compiti di supervisione sui sistemi di controllo interno, quindi anche sulla regolarità contabile, in capo al
collegio sindacale, quale organo di vertice dei controlli.

DISCIPLINA E RESPONSABILITÀ DEL REVISORE In punto di nomina del revisore, per non lasciare al gruppo
di maggioranza completa autonomia sulla scelta, la nomina da parte dell’assemblea è su proposta motivata
dell’organo di controllo. L’assemblea rimane libera di non nominare il soggetto designato dall’organo di
controllo, ma non di nominare un revisore diverso da quello proposto. Quanto alla durata dell’incarico, vi
sono 3 esercizi. In caso di EIP la durata è più lunga, potendo essere fissata per 7 o 9 esercizi. Sempre solo
negli EIP c’è una rotazione degli incarichi, con un necessario periodo di raffreddamento tra un incarico e
l’altro, per garantire la distanza del revisore dalla società revisionata: l’incarico non può essere infatti
rinnovato o nuovamente conferito se non sono decorsi almeno 3 esercizi dalla cessazione del precedente
incarico. Il corrispettivo deve essere adeguato all’incarico, va previsto in sede di nomina, non è variabile,
salvo siano previamente indicati criteri per l’adeguamento durante l’incarico. Rimane fermo il divieto per il
revisore di sollecitare o accettare qualsiasi regalo/favore dalla società revisionata o da un ente ad essa legata.

155
La revoca del revisore può essere deliberata dall'assemblea solo per giusta causa ed è soggetta al
parere dell'organo di controllo. Il Ministero dell'Economia (e per gli EIP la Consob) ha un potere di revoca
d'ufficio: in caso di accertate irregolarità, nell'ambito dei poteri sanzionatori generali, può revocare uno o
più incarichi di revisione. I poteri sanzionatori generali vanno dal divieto temporaneo di assunzione di
incarichi alla cancellazione dal registro dei revisori legali.
Il revisore non deve essere coinvolto nei processi decisionali della società revisionata (cd. obiettività
del revisore). Il revisore non deve detenere strumenti finanziari emessi e/o garantiti dalla società revisionata
né intrattenere rapporti lavorativi o rivestire cariche sociali negli organi della società revisionata, che
potrebbero essere percepiti come causa di un conflitto di interessi. Il revisore ha un'auto-responsabilità, deve
adottare tutte le misure atte ad ovviare ai fattori che possono minare la sua indipendenza, nonché a non
effettuare la revisione legale se vi sono circostanze per le quali razionalmente l'indipendenza del revisore
legale o della società di revisione legale risulti compromessa.
A salvaguardia dell'indipendenza e obiettività della revisione, anche i soci e l'organo amministrativo
della società revisionata non possono ingerire nell'espletamento della revisione legale. Solo per gli EIP si
tende ad evitare che l'indipendenza del revisore possa essere compromessa dalla minaccia da parte della
società revisionata di non avvalersi più di servizi, diversi dalla revisione, ma resi sempre dal revisore. Alcuni
di tali servizi sono proibiti al revisore e la Consob può individuare le ulteriori. Sempre per rafforzare
l'indipendenza del revisore degli EIP vige il divieto della porta girevole: prima che siano trascorsi 2 anni il
responsabile della revisione, e chi ha diretto/supervisionato la revisione, non può entrare nel gruppo della
società revisionata con cariche sociali o funzioni dirigenziali. I componenti, cessati da meno di 2 anni, degli
organi della società revisionata (amministratori, controllori, etc.) non possono esercitare la revisione legale
di tale società, o di società controllate o che la controllano o che non siano EIP (per quest'ultime, per 1 anno).
Il revisore, che deve rispettare i principi di deontologia professionale (elaborati da associazioni, ordini
professionali, Ministero dell'Economia e Consob), nel corso dell'intera revisione deve esercitare anche il cd.
scetticismo professionale: deve cioè tenere un approccio dubitativo, deve costantemente tenere
monitorate le condizioni che potrebbero indicare una potenziale inesattezza dovuta a errore o frode, e deve
valutare criticamente la documentazione inerente alla revisione. Per esercitare le funzioni di controllo
contabile il revisore esterno ha poteri informativi, quindi il diritto di ottenere dagli amministratori documenti
e notizie utili alla revisione legale, e poteri ispettivi, con i quali può compiere accertamenti ed esaminare atti
e documentazioni. L'attività del revisore deve essere documentata, i documenti relativi all'attività svolta
devono essere conservati per 10 anni (ciò sarà utile in caso venga promossa l'azione di responsabilità). Il
revisore ha una responsabilità solidale con gli amministratori verso la società, i soci e i terzi per i danni
cagionati in violazione dei propri doveri, secondo criteri di diligenza professionale. Se il revisore legale è una
società di revisione sono responsabili in solido anche il responsabile della revisione, ossia la persona che
sottoscrive il giudizio sul bilancio, ed i dipendenti che hanno collaborato alla revisione. Tutte le azioni di
responsabilità contro il revisore vanno in prescrizione in 5 anni a decorrere dalla data della relazione di
revisione che rilevi nell’invocata responsabilità del revisore.

I SISTEMI ALTERNATIVI DI AMMINISTRAZIONE E CONTROLLO: IL SISTEMA DUALISTICO E IL SISTEMA


MONISTICO

Invece del sistema tradizionale di amministrazione e controllo, basato sulla compresenza dell'organo
amministrativo e del collegio sindacale, si possono adottare altri due sistemi: 1 il sistema dualistico e 2 il
Etfs
sistema monistico (entrambi poco diffusi). La possibilità di scegliere questi altri due sistemi favorisce
investimenti in Italia da parte di imprese straniere, abituate a sistemi organizzativi diversi da quello previsto
nel CC, e offre alle società vari modelli che possono soddisfare esigenze diverse. Il sistema dualistico, di

156
LA SOCIETÀ A RESPONSABILITÀ LIMITATA
LA SRL: CARATTERISTICHE TIPOLOGICHE E STRUTTURA FORMALE

IL TIPO SRL La SRL è uno dei tipi societari più diffusi, in quanto adattabile ed utilizzabile sia in contesti
ristretti (es. società familiari) sia in contesti più ampi (es. gruppi di società). Oltre a ciò, le SRL, pur pensate
per le piccole-medie imprese, possono essere utilizzate anche per imprese più grandi. I soci sono di norma
un numero limitato e hanno un ruolo attivo nella società (cd. soci imprenditori), sono interessati ad
interloquire anche su aspetti di gestione (differenza con la SPA, dove i soci possono essere anche molto
numerosi – es. società quotate – e la gestione spetta solo agli amministratori), infatti ciascun socio ha ampi
poteri di controllo e ingerenza nella gestione societaria. Le partecipazioni dei soci non possono essere
rappresentate da azioni. Ai soci è riconosciuta un’ampia autonomia negoziale, la quale trova dei limiti
principalmente per tutelare i terzi. La SRL è dotata di autonomia patrimoniale perfetta e i soci hanno una
responsabilità limitata. Con l’autonomia negoziale si possono prospettare, anche sotto il profilo
organizzativo, soluzioni differenti. La SRL può presentare elementi personalistici ed avvicinarsi alle società di
persone: essa può adottare sistemi di amministrazione disgiuntivi o congiuntivi, può introdurre nell’atto
costitutivo clausole di esclusione per giusta causa, può attribuire diritti particolari individualmente a singoli
soci, può avere come conferimenti prestazioni d’opera o di servizi. La disciplina della SRL in molte parti
richiama quella delle SPA, ma in altre se ne discosta, dettando regole più vicine a quelle delle società di
persone. In caso di lacune non è sempre corretto rinviare alle norme della SPA: in alcuni casi è più opportuno
rivolgersi alla disciplina prevista per le società di persone. C’è una marcata differenza tra SPA e SRL,
differenza dovuta alla diversa visione del legislatore. La SPA è concepita a servizio dell’impresa che può
rivolgersi al mercato per reperire risorse utili per il proprio esercizio; da qui deriva la struttura finanziaria e
organizzativa idonea ad interagire con il mercato (partecipazioni seriali e standardizzate, possibilità di
emettere titoli obbligazioni o altri strumenti finanziari, rigida ripartizione delle competenze tra gli organi con
l’esclusione delle prerogative gestorie a favore degli azionisti). La SRL, invece, è concepita a servizio
dell’impresa promossa e partecipata da pochi soci, che intervengono direttamente nella sua vita, impresa
che non interagisce con il mercato. Recentemente, tuttavia, alcuni interventi normativi hanno rimodulato le
regole della SRL PMI (SRL le cui dimensioni non superano le soglie comunitarie qualificanti la piccola-media
impresa), dando a quest’ultima più spazi di accesso al mercato, riducendo così la distanza rispetto alla SPA.
Oggi la SRL PMI può emettere categorie di quote, anche prive del diritto di voto, quindi standardizzate e
pensate per investitori che non intervengono direttamente nella vita della società; o può collocare tali quote
presso il pubblico, attraverso portali telematici. Anche tali SRL presentano sempre uno o più soci imprenditori
con poteri di voice (soci non equiparabili agli azionisti di una SPA) e una struttura organizzativa in cui esaltano
alcuni soci. Infine, la SRL ha una struttura finanziaria che ben la distingue dalla SPA. La struttura finanziaria
della SRL permette a quest’ultima di esercitare un’attività produttiva con limitazione del rischio d’impresa
al capitale conferito con modesti investimenti (il capitale minimo è pari normalmente a 10.000 €). Il
legislatore è più volte intervenuto riducendo gli oneri e gli investimenti necessari per costituire una SRL,
introducendo la SRL semplificata e la SRL con capitale sociale inferiore a 10.000 €, ma di almeno 1 €. Il fine
del legislatore è incentivare la creazione delle SRL anche per l’esercizio della micro-impresa o dell’impresa di
piccole dimensioni. Il risultato è stato un progressivo incremento percentuale delle SRL.

LA COSTITUZIONE Per la costituzione di una SRL è necessaria una costituzione simultanea.

LA SRL UNIPERSONALE La SRL può essere costituita con contratto o con atto unilaterale. È possibile,
quindi, costituire una SRL unipersonale, ossia con un unico socio (persona fisica o persona giuridica). L’unicità
del socio potrebbe essere negativa per i terzi, poiché manca un controllo interno. Per questo vi sono
169
disposizioni dirette a tutelare i creditori, soprattutto sotto il profilo informativo. Anzitutto, se l’intera
partecipazione appartiene ad un solo socio, o se muta la persona dell’unico socio, gli amministratori (o il
socio stesso), entro 30 giorni dall’avvenuta variazione dei soci, devono depositare, per l’iscrizione nel registro
delle imprese, una dichiarazione contenente tutte le generalità del socio; anche nel caso in verso, in cui si
costituisce o ricostituisce la pluralità dei soci, deve essere depositata una dichiarazione. Per tutelare
l’integrità del capitale sociale, in presenza di un unico socio fondatore, deve essere versato immediatamente
l’intero ammontare del capitale sottoscritto; se la pluralità dei soci viene invece meno successivamente, i
versamenti ancora dovuti devono essere effettuati entro 90 giorni da tale evento. In caso di violazione di tali
obblighi, se la società risulta insolvente, il socio risponde personalmente e illimitatamente delle
obbligazioni sociali sorte nel periodo in cui è stato unico socio (unica deroga alla generale responsabilità
limitata dei soci, per cui per le obbligazioni sociali risponde solo la società con il suo patrimonio). Infine, negli
atti e nella corrispondenza deve essere indicata l’esistenza dell’unico socio. I contratti delle società con
l’unico socio o le operazioni a favore dell’unico socio sono opponibili ai creditori della società solo se risultano
dal libro delle decisioni degli amministratori o da un atto scritto avente data certa anteriore al pagamento.

L’ATTO COSTITUTIVO E L’ISCRIZIONE DELLA SRL NEL REGISTRO DELLE IMPRESE L’atto costitutivo della SRL,
da redigere in forma di atto pubblico, contiene i dati storici relativi alla costituzione della società. Esso deve
necessariamente indicare: gli elementi identificativi di ciascun socio fondatore; gli elementi essenziali e
identificativi della SRL (denominazione con l’indicazione di “SRL”, comune ove e posta ed eventuali sede
secondarie, attività che costituisce l’oggetto sociale); gli elementi identificativi delle risorse destinate alla
società e delle corrispondenti partecipazioni assunte dai soci fondatori (ossia l’ammontare del capitale
sottoscritto e del capitale versato, i conferimenti di ciascun socio e il valore attribuito ai crediti e ai beni
conferiti in natura, la quota di partecipazione di ogni socio); le norme relative al funzionamento della SRL,
comprese quelle sull’amministrazione e sulla rappresentanza (in mancanza di tale indicazione nell’atto
costitutivo, si applica la normativa legale, eventualmente integrata estendendo analogicamente la normativa
relativa ad altri tipi societari); le persone cui è affidata l’amministrazione; l’organo di controllo (o il revisore,
nel caso in cui la sua presenza sia richiesta dalla legge o prevista dall’atto costitutivo). Le parti possono
decidere di inserire nell’atto costitutivo altre previsioni (es. durata della SRL, introduzione di vincoli alla
circolazione delle partecipazioni, attribuzione di diritti particolari a singoli soci, etc.). Il legislatore non
menziona lo statuto, tuttavia esso può essere previsto per inserirvi le regole organizzative; anche se forma
oggetto di atto separato, lo statuto è parte integrante dell’atto costitutivo e, in caso di contrasto tra le
clausole dell’atto costitutivo e quelle dello statuto, prevalgono quelle dello statuto. Nonostante la disciplina
non ne parli, i soci o alcuni di essi possono stipulare dei patti parasociali, i quali hanno efficacia meramente
obbligatoria. Per costituire una SRL è necessaria un’organizzazione capitalistica con personalità giuridica,
nonché una costituzione legale e un capitale effettivo. Il capitale sociale deve essere sottoscritto per intero
e devono essere rispettate le previsioni relative ai conferimenti; devono inoltre esserci le autorizzazioni e le
altre condizioni richieste dalle leggi speciali per la costituzione della SRL in relazione al suo particolare
oggetto. Il notaio, dopo aver predisposto l’atto costitutivo ed effettuato un controllo di legalità del
medesimo, deve depositarlo entro 20 giorni presso l’ufficio del registro delle imprese, allegando i documenti
comprovanti la sussistenza delle condizioni richieste dalla legge, e contestualmente richiedere l’iscrizione
della SRL nel registro. L’ufficio del registro, verificata la regolarità formale della documentazione, iscrive la
società. Con l’iscrizione la società acquista la personalità giuridica. Per i casi che possono dar luogo a nullità
della SRL, dopo l’iscrizione nel registro delle imprese, si rinvia all’ART. 2332 CC.

LE MODIFICHE DELL’ATTO COSTITUTIVO Le due modifiche dell’atto costitutivo (1 aumento del capitale
sociale e 2 riduzione del capitale sociale) sono generalmente riservate alla competenza dei soci, i quali

170
devono esprimersi in assemblea con il voto favorevole di tanti soci in grado di rappresentare almeno la
metà del capitale sociale. La deliberazione modificativa deve essere verbalizzata da un notaio che, entro 30
giorni, verificato l’adempimento delle condizioni stabilite dalla legge, deve depositare la deliberazione
modificativa e richiederne l’iscrizione nel registro delle imprese. L’ufficio del registro, verificata la regolarità
formale della documentazione, iscrive la delibera nel registro. Se il notaio non ritiene adempiute le condizioni
stabilite dalla legge, lo comunica tempestivamente agli amministratori, i quali possono convocare
l’assemblea per gli opportuni provvedimenti (es. adottare le modifiche rispetto alla deliberazione assunta in
grado di superare le obiezioni notarili) oppure ricorrere al tribunale. Se ritiene adempiute le condizioni
richieste dalla legge, il tribunale, sentito il PM, ordina l’iscrizione nel registro delle imprese. Solo con
l’iscrizione la delibera modificativa dell’atto costitutivo acquista piena efficacia.

LE SRL SEMPLIFICATE Per agevolare la nascita di iniziative imprenditoriali che non necessitano di un
capitale sociale minimo elevato, il legislatore ha introdotto le SRL semplificate, la cui fase esecutiva (oltre al
capitale sociale) è soggetta ad una disciplina particolare. Esse possono essere costituite da uno o più soci
persone fisiche (non sono ammessi soci persone giuridiche). I costi di creazione sono ridotti: non sono dovuti
l’imposta di bollo, i diritti di segreteria e gli onorari notarili; occorre versare però l’imposta di registro. La
costituzione avviene mediante contratto o atto unilaterale (in quest’ultimo caso si ha una SRL unipersonale),
redatto da un notaio, a titolo gratuito, conformemente ad un modello standard. Tale modello è scarno, non
prevede la possibilità di indicare una durata, o di optare per un’amministrazione congiuntiva o disgiuntiva,
né di nominare (in via facoltativa) un organo di controllo o di prevedere casi di recesso ulteriori a quelli legali.
Le parti non possono modificare tale modello (forte limite all’autonomia negoziale). Il fatto di risparmiare
nei costi impone di aderire ad un modello di atto costitutivo preconfezionato ed elementare: le regole di
funzionamento della società non possono essere modellate secondo le proprie esigenze. Sotto il profilo
patrimoniale, per quanto minimo, il capitale sociale è sempre presente ed è soggetto alla disciplina generale.
Esso deve essere pari almeno ad 1 € ed inferiore a 10.000 €, e deve essere sottoscritto e interamente versato.
Può essere conferito solamente denaro (non sono ammessi conferimenti di beni in natura, crediti, o di opera
e servizi), il quale deve essere versato all’organo amministrativo. In caso di perdite che riducano il capitale
sociale al di sotto di 1 €, la SRL, per sopravvivere, deve reintegrare le risorse aumentando il capitale o
trasformandosi in una società di persone (perdendo il beneficio della responsabilità limitata). Le SRL
semplificate sono quindi SRL con autonomia patrimoniale perfetta (essendo società di capitali), ma con un
capitale irrisorio. Questo tipo di SRL è stato fortemente criticato. Il capitale irrisorio può rendere più difficile
per tali SRL il ricorso al credito e può creare problemi ai creditori sociali: ai creditori deboli, che non sono
riusciti a farsi rilasciare garanzie personali dai soci (es. i dipendenti), ed ai creditori involontari, che possono
trovarsi loro malgrado a vantare pretese nei confronti di soggetti con un capitale insufficiente. Le SRL
semplificate sono riconducibili al tipo SRL, non costituiscono un tipo societario autonomo (quindi, in caso di
passaggio da una SRL semplificata ad una SRL ordinaria non si applica la disciplina in tema di trasformazione,
ma è sufficiente modificare l’atto costitutivo eliminando dalla denominazione l’aggettivo “semplificata”), e
difatti sono soggette alla disciplina prevista per le SRL, in quanto compatibile. La SRL semplificata può
evolversi in una SRL ordinaria o trasformarsi in un altro tipo societario, o ancora partecipare a fusioni e
scissioni con società diverse. Solitamente i soci fondatori costituiscono la SRL in forma semplificata solo per
la fase di avvio dell’attività e poi passano ad una SRL ordinaria (anche per la maggiore autonomia riconosciuta
in quest’ultima) o ad un altro tipo di società. Quanto al passaggio inverso, ossia alla possibilità che una SRL
ordinaria divenga una SRL semplificata, riducendo pertanto il capitale, vi sono due orientamenti in dottrina.
Secondo una parte della dottrina, non è possibile, sulla base del fatto che è possibile accedere alla disciplina
della SRL semplificata solo in fase di costituzione. Altra parte della dottrina ritiene, invece, che sia possibile,

171
sulla base del principio di conservazione delle imprese e di autonomia statutaria dei soci, e che pertanto il
nuovo limite di 1 € sia in generale il nuovo limite minimo del capitale sociale nelle SRL.

LA SRL: LA STRUTTURA FINANZIARIA

I CONFERIMENTI La disciplina dei conferimenti, volta a garantire che la SRL operi in una situazione di
equilibrio economico-finanziario, è meno restrittiva rispetto a quella prevista per la SPA, proprio per
incentivare l’utilizzo della SRL per iniziative anche di minore dimensione. Il capitale sociale minimo non può
essere inferiore a 10.000 € (nella SPA, non può essere minore di 50.000 €). Possono essere oggetto di
conferimento tutti gli elementi dell’attivo suscettibili di valutazione economica. È possibile effettuare molti
conferimenti, purché abbiano un valore misurabile secondo parametri oggettivi. I conferimenti possono
avvenire A in denaro, B tramite beni in natura e crediti, o C sotto forma di prestazioni d’opera o di servizi. I
conferimenti in denaro: modalità preferita dal legislatore, tale che se i soci intendono effettuare
conferimenti diversi dal denaro, devono espressamente prevederlo nell’atto costitutivo. In caso di
conferimenti in denaro, il socio, già alla sottoscrizione, deve versare agli amministratori nominati nell’atto
costitutivo (nella SPA il versamento avviene presso una banca) almeno il 25% del capitale sottoscritto (o
l’intero ammontare in caso di unico socio). Il versamento può essere sostituito dalla stipula, per un importo
analogo, di una polizza assicurativa o di una fideiussione bancaria. Quanto ai conferimenti di beni in natura
e di crediti, le partecipazioni corrispondenti a tali conferimenti devono essere integralmente liberate al
momento della sottoscrizione; è richiesta una relazione giurata (da allegare all’atto costitutivo) predisposta
da un revisore legale o da una società di revisione legale (la scelta tra quest’ultimi spetta al socio – mentre
nella SPA al tribunale). Non è previsto che gli amministratori controllino le valutazioni contenute nella
relazione (nelle SPA, invece, sì), tuttavia si ritiene necessario che essi compiano un controllo di merito ed in
caso di differenza tra valore accertato e quello effettivo, si ipotizza l’applicabilità della disciplina prevista per
la SPA. Infine, è possibile effettuare conferimenti sotto forma di prestazioni d’opera o di servizi (nella SPA
non è possibile, mentre nelle società di persone sì). A tutela dei terzi e per garantire l’effettiva formazione
del capitale sociale, il socio conferente deve fornire alla SRL una polizza di assicurazione o una fideiussione
bancaria con cui garantisce, per l’intero valore ad essi assegnato, gli obblighi assunti. Nell’atto costitutivo si
può prevedere la facoltà per il socio conferente di sostituire la polizza (o la fideiussione) con il versamento, a
titolo di cauzione, del corrispondente importo in denaro presso la SRL. Non è richiesta una stima delle
prestazioni d’opera o di servizi, ma essa sembra necessaria, almeno per evitare il rischio (collegato alla libertà
di valutazione) che si pregiudichi l’effettività del capitale. Se il socio non adempie l’obbligo di effettuare i
conferimenti promessi, il socio è moroso e gli amministratori devono diffidarlo ad adempiere entro 30
giorni. Decorso inutilmente tale termine, se non ritengono utile promuovere azione per l’adempimento, gli
amministratori possono vendere la partecipazione agli altri soci, in proporzione alla loro partecipazione, per
il valore risultante dall’ultimo bilancio approvato (e soddisfarsi con il ricavato). Se l’atto costitutivo lo
consente, in mancanza di offerte la partecipazione può essere venduta all’incanto. Se la vendita non ha luogo
per mancanza di compratori, gli amministratori escludono il socio, trattenendo le somme già riscosse e il
capitale sociale deve essere ridotto in misura corrispondente. Il socio moroso non può partecipare alle
decisioni dei soci. Infine, in caso di venga ceduta una partecipazione non ancora interamente liberata,
l’alienante è obbligato solidalmente con l’acquirente, per i versamenti ancora dovuti, per 3 anni dall’iscrizione
del trasferimento nel registro delle imprese; il pagamento può essere chiesto all’alienante solo se la richiesta
al socio moroso è rimasta infruttuosa.

L’AUMENTO E LA RIDUZIONE DEL CAPITALE SOCIALE Costituita la società, il capitale sociale nominale può
subire modifiche nel corso del tempo, esso può aumentare o ridursi.

172
Ci sono due forme di aumento del capitale: 1 aumento nominale e gratuito e 2 aumento reale e
oneroso. L’aumento nominale non dà vita ad un aumento reale dell’attivo patrimoniale. Esso consiste in una
variazione meramente contabile: riserve e/o altri fondi iscritti in bilancio in quanto disponibili semplicemente
passano a capitale, ampliando così gli ammontari soggetti al vincolo di destinazione del capitale. A seguito
della variazione contabile connessa all’aumento del capitale, il valore nominale delle quote si accresce, ma il
rapporto aritmetico tra partecipazione e capitale deve restare immutato (es. il socio che detiene una quota
di valore nominale 1.000 e pari al 10% del capitale sociale, in presenza di un aumento del capitale, avrà una
quota dal valore nominale maggiore, ma che rappresenta sempre il 10% del capitale). L’aumento di capitale
è invece reale quando si ha un effettivo incremento dell’attivo patrimoniale: il capitale viene aumentato
mediante nuovi conferimenti effettuati dai soci o dai terzi. La decisione di aumentare il capitale sociale,
trattandosi di modifica dell’atto costitutivo, spetta di norma ai soci, ma l’atto costitutivo può attribuire anche
agli amministratori tale decisione. La decisione di aumento del capitale non può essere attuata però finché i
conferimenti precedentemente dovuti non sono stati integralmente eseguito, così da evitare che la società
possa ottenere nuovo capitale di rischio finché non ha interamente ricevuto quello già promesso. L’aumento
deve essere integralmente sottoscritto, a meno che la delibera abbia espressamente consentito un aumento
scindibile, ed in questo caso il capitale è innalzato di un importo pari alle sole sottoscrizioni raccolte.
I soci hanno il diritto di sottoscrivere il capitale in proporzione alle partecipazioni possedute,
mantenendo così invariata la propria posizione nella società. L’atto costitutivo può prevedere che l’aumento
possa essere attuato anche mediante offerta di partecipazioni di nuova emissione a terzi e senza che sia
necessario introdurre un sovrapprezzo (fa eccezione il caso in cui il capitale sociale si sia ridotto al di sotto
del minimo legale e si proceda ad una riduzione e contestuale aumento del capitale: in questo caso, il diritto
di sottoscrizione non può essere escluso, altrimenti il socio potrebbe anche rischiare di perdere lo status di
socio nella società). L’esclusione del diritto di sottoscrizione è permessa non dalla legge, ma da un’apposita
clausola dell’atto costitutivo. A causa dell’esclusione i soci possono vedere modificati i precedenti equilibri
partecipativi, pertanto hanno il diritto di recesso i soci che non hanno consentito alla decisione di aumento.
Se il diritto di sottoscrizione non viene escluso, la decisione di emissione deve prevedere modalità e termini
(non inferiori a 30 giorni) entro cui esso può essere esercitato. La decisione può anche consentire che la parte
dell’aumento di capitale non sottoscritta da uno o più soci sia sottoscritta dagli altri soci o da terzi. In
definitiva, l’aumento reale può comportare l’accrescimento delle quote preesistenti, se viene sottoscritto
dai vecchi soci (e un accrescimento non proporzionale se alcuni soci sottoscrivono anche la parte di capitale
non sottoscritta dagli altri), oppure la creazione di nuove quote, se i sottoscrittori sono nuovi soci.

Anche la riduzione del capitale può essere reale oppure nominale. La riduzione reale del capitale
comporta un’effettiva diminuzione del patrimonio sociale e può avere luogo (nel rispetto del limite minimo
del capitale) rimborsando ai soci le quote pagate o liberando i soci dall’obbligo dei versamenti ancora dovuti,
senza che sia necessario indicare le ragioni di tale riduzione (di norma sono ragioni corrispondenti
all’interesse dei soci a non tenere sottoposte alla rigida disciplina del capitela sociale le risorse non necessarie
per attuare l’oggetto sociale). La decisione di riduzione reale del capitale è assunta dai soci con deliberazione
assembleare e con verbale redatto da notaio. Tale decisione può essere eseguita solo dopo 90 giorni dalla
sua iscrizione nel registro delle imprese, purché entro tale termine nessun creditore sociale anteriore
all’iscrizione si sia opposto. In caso di opposizione, il tribunale può disporre che la riduzione abbia luogo
comunque, se ritiene infondato il pericolo di pregiudizio per i creditore o se la società ha prestato un’idonea
garanzia. La riduzione nominale del capitale consiste, invece, in una semplice operazione contabile
attraverso cui si adegua (nell’apposita voce di bilancio) il capitale sociale a fronte di una perdita già
verificatasi.

173
Vi possono essere poi dei casi di riduzione del capitale per perdite facoltativi, ossia rimessi alla
decisione dei soci, e casi di riduzione del capitale per perdite obbligatori, ossia imposti dalla legge. La legge
prevede due ipotesi di quest’ultime:
1 se si verifica una perdita superiore ad 1/3 del capitale sociale, gli amministratori devono convocare
l’assemblea dei soci e sottoporre loro una relazione sulla situazione patrimoniale della società, con le
osservazioni dell’organo di controllo o del revisore, se nominati. L’assemblea assume gli opportuni
provvedimenti, ma non è tenuta a ridurre immediatamente il capitale sociale. Se però entro l’esercizio
successivo la perdita non risulta diminuita a meno di 1/3, l’assemblea deve essere nuovamente convocata
per l’approvazione del bilancio e per la riduzione del capita in proporzione delle perdite accertate. In
mancanza, gli amministratori (e, se nominati, l’organo di controllo o il revisore) devono chiedere al tribunale
che venga disposta la riduzione del capitale in ragione delle perdite risultati dal bilancio. Il tribunale provvede
con decreto, che gli amministratori devono iscrivere nel registro delle imprese.
2 se si verifica una perdita superiore ad 1/3 del capitale sociale tale che quest’ultimo scende al di
sotto del minimo legale, gli amministratori devono convocare l’assemblea per deliberare A la riduzione del
capitale e il contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore al minimo (in questo caso non
si può escludere il diritto di sottoscrizione dei soci), o B la riduzione del capitale e la trasformazione (ad
esempio in una società di persone che non ha minimi di capitale), o C la nomina dei liquidatori e ogni altro
provvedimento relativo allo svolgimento della fase di liquidazione. Se l’assemblea non opta per alcuna delle
alternative possibili, si determina ex lege lo scioglimento.
In tutti i casi di riduzione del capitale per perdite è esclusa ogni modificazione delle quote di
partecipazione e dei diritti spettanti ai soci: le perdite devono incidere proporzionalmente su tutti i soci, in
modo che ogni socio possa conservare invariato il valore percentuale della sua partecipazione, come i
connessi diritti.

LE SOCIETÀ CON CAPITALE SOCIALE INFERIORE A 10.000 € È possibile costituire una SRL con un capitale
sociale inferiore a 10.000 €, purché pari almeno ad 1 €. Ci sono specifiche regole in tema di conferimenti,
capitale sociale e formazione della riserva legale, mentre per gli altri aspetti si applica in toto la disciplina
generale fissata per le SRL. C’è quindi libertà di definire nell’atto costitutivo le regole organizzative e di far
partecipare, in qualità di soci, sia persone fisiche sia persone giuridiche. I conferimenti devono essere
effettuati in denaro e devono essere versati per intero agli amministratori. Relativamente alla riserva legale
vige una disciplina più rigorosa rispetto a quella generale, allo scopo di garantire che la società, con le sue
forze, raggiunga velocemente le dimensioni di patrimonio indisponibile proprie delle SRL ordinarie. Bisogna
dedurre dagli utili netti risultati dal bilancio una somma pari almeno ad 1/5 degli utili, finché tale riserva e il
capitale sociale non abbiano raggiunto l’ammontare di 10.000 €. Raggiunto tale ammontare,
all’accantonamento si applica la disciplina generale. La citata riserva può essere utilizzata solo per
imputazione a capitale (ossia in caso di aumento gratuito del capitale) e per coprire eventuali perdite con
obbligo di sua reintegrazione se essa è diminuita. Tali regole permettono agli operatori economici di avviare
un’attività d’impresa senza investirvi risorse proprie (o investendo risorse modestissime) e ciò nonostante
garantirsi il beneficio di limitazione del rischio d’impresa.

LE PARTECIPAZIONI DEI SOCI Le partecipazioni dei soci nella SRL non possono essere rappresentate
da azioni, non possono essere incorporate in titoli di credito, né possono essere suddivise in frazioni
omogenee del capitale (fanno eccezione le SRL PMI, che possono emettere categorie di quote anche
standardizzate). Ciascun socio deve risultare titolare di una sola partecipazione, rappresentativa di un
complesso di situazioni giuridiche partecipative, di qualsiasi ammontare e il cui peso nella società (specie in
sede di esercizio dei diritti) si determina in valore nominale (es. partecipazione di 1.000 €) e/o in termini

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percentuali (es. partecipazioni del 10% rispetto al capitale sociale). Le partecipazioni dei soci non possono
essere offerte al pubblico di prodotti finanziari; così si impedisce alla SRL di ricorrere al mercato dei capitali
di rischio e si conferma la SRL quale società tendenzialmente con un numero ristretto di soci (fanno eccezione
le SRL PMI, che possono offrire al pubblico le partecipazioni). La partecipazione è quindi unitaria, ma non
indivisibile: il socio può cedere ad esempio metà della propria quota, formando così due partecipazioni di
peso dimezzato rispetto alla precedente (es. in caso di socio moroso o recedente, è lo stesso legislatore a
precisare che la partecipazione è divisibile, stabilendo che la partecipazione può essere acquistata dagli altri
soci in proporzione alle rispettive partecipazioni). Le partecipazioni dei soci sono determinate in misura
proporzionale al conferimento effettuato; i soci però possono accordarsi ed introdurre nell’atto costitutivo
una diversa disposizione (es. previsione in base alla quale due soci conferiscono entrambi una stessa somma,
ma ad uno di essi è attribuita una partecipazione maggiore considerando il suo ruolo privilegiato e i suoi
intensi rapporti con clienti e fornitori).
Anche i diritti sociali spettano ai soci in misura proporzionale alla partecipazione posseduta da
ciascuno; ciò nonostante possono esservi diritti sociali che competono ai soci indipendentemente
dall’entità della partecipazione detenuta (es. il diritto di impugnare le decisioni dei soci e il diritto di esperire
l’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori sono attribuiti a ciascun socio).

I DIRITTI PARTICOLARI DEL SOCIO L’atto costitutivo può prevedere anche di attribuire a singoli soci
diritti particolari. Da qui si comprende come la SRL sia un tipo societario in cui può essere enfatizzata la
rilevanza personale dei singoli soci (a differenza di quanto accade nel modello azionario, dove tutte le azioni
attribuiscono diritti uguali e si può solo creare categorie diverse di azioni per soddisfare le diverse esigenze
di classi distinte di investitori). Un diritto particolare può essere assegnato ad un socio, nominativamente
individuato, per premiare alcune sue peculiarità personali (es. socio in grado di apportare alla SRL
competenze e conoscenze specifiche in un determinato settore). I diritti particolari possono riguardare
l’amministrazione della società o la distribuzione degli utili. Relativamente all’amministrazione della società
possono essere attribuiti particolari privilegi: 1 la facoltà di scegliere alcuni amministratori o di esprimere il
proprio gradimento sulle persone designate dagli altri soci, 2 la riserva a favore del socio stesso della
funzione di amministratore, 3 il diritto di veto o di decisione su determinati atti gestori. Relativamente,
invece, alla distribuzione degli utili possono prevedersi clausole che riservino ad uno o più soci percentuali
qualificate, quindi disancorate dalla misura della partecipazione sociale, degli utili di cui si è deliberata la
distribuzione o di quelli semplicemente conseguiti (il socio ha diritto a vedersi liquidata la percentuale di utili
a lui assegnata, a prescindere dalla generale decisione, spettante alla maggioranza dei soci, in merito alla loro
distribuzione); il privilegio sulla distribuzione degli utili può consistere in una priorità nel prelievo del
dividendo (es. al singolo socio spetta il 10 % prima di ogni ulteriore distribuzione). È possibile poi attribuire
diritti particolari, cd. diritti atipici, anche al di fuori dell’amministrazione e della ripartizione degli utili (es.
un ampio diritto di recesso o uno specifico diritto di prelazione quando un altro socio vuole cedere la propria
partecipazione).
Al socio, e non alla sua partecipazione, sono poi attribuiti dei diritti particolari tali che, in caso di
trasferimento della partecipazione, tali diritti non circolano con essa, ma si estinguono. Tali diritti possono
essere direttamente modificati, ed anche eliminati, solo con il consenso unanime dei soci (quindi anche con
il consenso dei soci ordinari); lo stesso vale in caso essi vengano introdotti successivamente nell’atto
costitutivo. È fatta salva, però, una diversa disposizione dell’atto costitutivo, tale che i soci possono
reintrodurre per le modifiche dirette la regola maggioritaria (tipica delle società di capitali). Il diritto di
recesso spetta poi al socio non consenziente ad una modifica indiretta, attuata cioè non attraverso una
formale e specifica variazione dell’atto costitutivo, ma compiendo un’operazione gestoria approvata dai soci
a maggioranza, suscettibile di incidere indirettamente sul diritto particolare.
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LE CATEGORIE DI QUOTE NELLE SRL PMI Le SRL PMI possono creare delle categorie di quote, ossia delle
serie di partecipazioni dotate oggettivamente di diritti diversi da quelli spettanti alle altre partecipazioni e
quindi attributive di questi diritti in modo indifferenziato a chiunque detenga tali partecipazioni. Le SRL PMI
possono quindi emettere anche categorie di quote dotate di diritti propri, pure di rango inferiore ai diritti
ordinariamente spettanti ai soci. Tali quote possono essere collocate sul mercato attraverso appositi portali
telematici, appellandosi dunque al pubblico risparmio per la raccolta del relativo capitale di rischio. Le quote
possono essere sottoscritte tramite un intermediario abilitato, che effettua la sottoscrizione in nome proprio
e per conto di coloro i quali hanno aderito all’offerta e deposita al registro delle imprese una certificazione
che attesta la sua titolarità di socio per conto di terzi. Ciò accosta le SRL PMI ai mercati degli investimenti e
avvicina il tipo SRL alla SPA.

IL TRASFERIMENTO DELLE PARTECIPAZIONI Le partecipazioni nella SRL sono liberamente trasferibili


per atto tra viti e per successione a causa di morte, salvo contraria disposizione dell’atto costitutivo.
Quest’ultimo può limitare il trasferimento delle partecipazioni introducendo clausole di gradimento o di
prelazione oppure escludendo del tutto la trasferibilità delle partecipazioni. La SRL può quindi essere una
società chiusa, ossia una società in cui le partecipazioni non sono liberamente trasferibili. A tutela
dell’interesse del socio, o dei suoi eredi, a non restare prigioni nella SRL, è stabilito che se l’atto costitutivo
introduce l’intrasferibilità della partecipazione, o ne subordina il trasferimento al gradimento di organi sociali
(o di soci, o di terzi) senza prevederne condizioni e limiti (cd. clausole di mero gradimento), o pone
condizioni/limiti che impediscono il trasferimento a causa di morte, il socio o i suoi eredi possono esercitare
il diritto di recesso. In questo caso l’atto costitutivo può stabilire solo un termine non superiore a 2 anni,
dalla costituzione della SRL o dalla sottoscrizione della partecipazione, prima del quale il recesso non può
essere esercitato. L’atto di trasferimento della partecipazione deve essere redatto per iscritto con atto
pubblico o sottoscrizione autenticata da un notaio (o con sottoscrizione effettuata mediante firma digitale
e senza notaio). L’atto di trasferimento per le parti è valido ed efficace per effetto del semplice consenso,
mentre per la società è efficace dal momento del deposito a cura del notaio rogante/autenticante (o di un
intermediario abilitato, ossia un soggetto iscritto negli albi dei dottori commercialisti e degli esperti contabili,
nel caso di sottoscrizione digitale non notarile) presso l’ufficio del registro delle imprese nella cui
circoscrizione è stabilita la sede sociale. Ai fini dell’adempimento per la società rileva il deposito (e non la
successiva ed eventuale iscrizione nel registro delle imprese). In caso di contrato tra più acquirenti, di fronte
ad una doppia alienazione della stessa partecipazione, è preferito colui che, per primo, ha effettuato in buona
fede l’iscrizione nel registro delle imprese, anche se il suo titolo è di data posteriore. Infine, per le quote
collocate attraverso portali telematici, quindi ad esempio quelle emesse da SRL PMI, vige una terzo modalità
di circolazione, cd. circolazione intermediaria: l’alienazione delle quote avviene semplicemente annotando il
trasferimento nel registro tenuto dall’intermediario finanziario (senza deposito e iscrizione nel registro delle
imprese) e il nuovo acquirente si legittima nei confronti della società esibendo un’apposita certificazione
rilasciata dall’intermediario. È un modello ispirato alla circolazione delle azioni dematerializzate.

LE OPERAZIONI SULLE PROPRIE PARTECIPAZIONI E I VINCOLI SULLE STESSE La SRL non può
acquistare o accettare in garanzia partecipazioni proprie, o accordare prestiti o fornire garanzia per il loro
acquisto o la loro sottoscrizione. In caso di violazione di tali divieti, l’atto è nullo (es. l’atto di compravendita
con cui la SRL ha acquistato le proprie partecipazioni). Tale divieto non vale per le SRL PMI se l’operazione è
compiuta in attuazione dei piani d’incentivazione che prevedono l’assegnazione di partecipazioni a
dipendenti, collaboratori o componenti dell’organo amministrativo, prestatori d’opera e servizi anche
professionali. La partecipazione può essere oggetto di espropriazione: il pignoramento si esegue tramite
notificazione al debitore e alla società e successiva iscrizione nel registro delle imprese; il creditore deve

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notificare alla società l’ordinanza del giudice dell’esecuzione che dispone la vendita delle partecipazione. In
caso di partecipazione non liberamente trasferibile si applica una particolare disciplina (volta a tutelare sia
l’interesse della società ad evitare l’ingresso tra i soci di estranei non graditi, sia l’interesse dei creditori a
soddisfarsi sulla partecipazione). È prevista una fase preordinata al raggiungimento di un accordo sulla
cessione della partecipazione tra creditore, debitore e società. Se l’accordo non si raggiunge, la vendita è
all’incanto. Tuttavia, per impedire che la partecipazione venga trasferita a soggetti non graditi, la società può
rendere la vendita inefficace se, entro 10 giorni dall’aggiudicazione, essa presenta un altro acquirente in
grado di offrire lo stesso prezzo. Infine, la partecipazione può essere oggetto di pegno, usufrutto e sequestro
(conservativo e giudiziario).

I FINANZIAMENTI DEI SOCI (ART. 2467 CC) Se la società necessita di capitali, invece che effettuare
conferimenti (ossia fornire nuovi capitali di rischio), i soci possono elargirle dei finanziamenti, divenendo così
creditori della società. In questi casi la società si trova in una situazione di sottocapitalizzazione nominale,
poiché le sue esigenze finanziarie vengono soddisfatte mediante (non capitale di rischio, ma) capitale di
credito (mentre la sottocapitalizzazione reale si ha quando la società non ha né un capitale sociale adeguato
né ha ricevuto finanziamenti dai soci). I creditori sociali potrebbero venire pregiudicati da ciò, poiché si
trovano a concorrere con i soci per i finanziamenti effettuati da quest’ultimi, e quindi vedono ridotte le
prospettive di soddisfarsi nei confronti della società. Per questo è stabilito che il rimborso dei finanziamenti
effettuati dai soci a favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori. Tale
postergazione si applica solo se i finanziamenti sono stati elargiti dal socio (quindi la qualità di socio deve
esserci quando è concesso il prestito) in un momento in cui c’era un eccessivo squilibrio dell’indebitamento
rispetto al patrimonio netto oppure una situazione finanziaria tale che sarebbe stato ragionevole un
conferimento (piuttosto che un finanziamento). Solo in presenza di tali circostanze può attuarsi la
postergazione. Negli altri casi il finanziamento è fisiologico, permette alla società di ottenere capitale di
credito da parte dei soci (invece che ricorrere a terzi, come ad esempio le banche, che potrebbero fornire
prestiti a condizioni più onerose). Se la società fallisce e il finanziamento è già stato rimborsato al socio
nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento, il finanziamento deve essere restituito. Tale disciplina
vale per qualsiasi forma di finanziamento, la norma si estende a qualsiasi atto che comporti un’attribuzione
patrimoniale compatibile con l’obbligo di doverla rimborsare in futuro (es. mutuo). La regola della
postergazione sembra trovare applicazione solo in fase di liquidazione (volontaria o concorsuale), e non
anche durante la vita della società. Infine, tale disciplina si ritiene possa applicarsi anche alle altre società di
capitali, per lo meno alle società con base azionaria ristretta e con soci che partecipano attivamente alla vita
della società.

I TITOLI DI DEBITO (ART. 2483 CC) La SRL può emettere titoli di debito, ossia titoli di massa ciascuno
dei quali rappresenta la frazione predeterminata di un debito pecuniario. In tal modo la SRL può ricorrere,
sia pure indirettamente e con certi limiti, al mercato del capitale di credito. Per poter procedere all’emissione
è necessaria un’apposita previsione nell’atto costitutivo, il quale deve individuare chi (se i soci o gli
amministratori) deve decidere sull’emissione, le modalità e le maggioranze necessarie, oltre che determinare
eventuali limiti all’emissione (limiti, quindi, non individuati dalla legge, ma rimessi interamente all’autonomia
delle parti). Nella decisione di emissione dei titoli il soggetto individuato nell’atto costitutivo deve stabilire le
condizioni del prestito e le modalità del rimborso. Gli amministratori devono iscrivere la decisione di
emissione presso il registro delle imprese. Per modificare le condizioni del prestito e le modalità di rimborso,
la società deve ottenere l’assenso di tutti i possessori dei titoli, a meno che la decisione di emissione preveda
il sufficiente previo consenso della maggioranza dei possessori. I titoli di debito possono essere sottoscritti
solo da investitori professionali, soggetti a vigilanza; tali investitori, una volta sottoscritti i titoli, possono

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immetterli nel mercato secondario vendendoli ad altri soggetti. Al fine di tutelare i successivi acquirenti
contro il rischio economico consistente nella possibilità che la società risulti insolvente e non possa
rimborsare il debito contratto, in caso di successiva circolazione chi li trasferisce deve rispondere della
solvenza della società. Tale garanzia opera a condizione che l’acquirente non sia anch’esso un investitore
professionale o un socio della stessa società.

L’USCITA DEL SOCIO DALLA SOCIETÀ Il socio di SRL può uscire dalla società, estinguendo così il rapporto
con essa, tramite recesso o esclusione. La SRL attinge sia alla disciplina delle società di persone (per
l’esclusione) sia a quella delle società di capitali (per il recesso). Di regola il socio esce cedendo la propria
quota agli altri soci, o ad un terzo (l’estinzione della quota, con conseguente riduzione del capitale, è solo
eventuale).

Il recesso (ART. 2473 CC) è previsto a difesa del socio non assenziente, come contrappeso al potere
della maggioranza di mutare gli elementi fondanti della società. Esso ha anzitutto questa funzione di
bilanciare il potere della maggioranza con gli interessi della minoranza dissenziente, di fronte alle scelte più
radicali assunte dalla maggioranza. Soprattutto per questo motivo la legge prevede delle cause legali
inderogabili di recesso, ineliminabili dall’atto costitutivo (una clausola che le eliminasse darebbe nulla). Il
diritto di abbandonare la società realizzando il valore effettivo dell’investimento è, entro certi limiti,
inderogabile dall’autonomia statutaria, la quale può invece intervenire per accrescere le occasioni di esercizio
del diritto di recesso. Quindi l’atto costitutivo può ampliare i casi in cui il socio può porre fine alla sua
permanenza in società: lo statuto può introdurre nuove cause di recesso estendendo il meccanismo di
bilanciamento a materie non interessate dal recesso ex lege. Hanno diritto di recesso ex lege i soci che non
hanno acconsentito a:
1 cambiare l’oggetto sociale. Il cambiamento deve essere significativo, cioè tale da determinare,
almeno potenzialmente, una sensibile alterazione del rischio dell’investimento
2 cambiare il tipo di società. Ogni trasformazione, anche quella non eterogenea in ente non
societario, legittima al recesso
3 una fusione o scissione
4 la revoca dello stato di liquidazione
5 trasferire la sede all’estero
6 eliminare una o più cause di recesso statutarie. Ciò vale anche se il recesso viene subordinato a
condizioni ulteriori prima non presenti, o se si introducono criteri di calcolo della quota di liquidazione meno
favorevoli al recedente.
7 compiere operazioni che comportano una sostanziale modifica dell’oggetto sociale statutario (es.
conversione della società da ente operativo a società di godimento, mediante l’affitto dell’azienda) o dei
diritti particolari dei soci (es. ridimensionamento degli investimenti e dell’attività nel settore cui sia
ricollegato, a favore di un socio, un diritto particolare sugli utili), se pur oggetto e diritti restino formalmente
invariati. Sono operazioni gestorie di competenza esclusiva dei soci.
Inoltre, 8 se la società è costituita a tempo indeterminato, ciascun socio può recedere liberamente
e in qualsiasi momento, con un preavviso di almeno 180 giorni, elevabile dall’atto costitutivo al massimo
fino a 1 anno (generale principio per cui i vincoli giuridici patrimoniali, contratti senza limite di tempo,
possono essere sciolti unilateralmente ed in qualsiasi momento da parte di ciascun contraente).
L’atto costitutivo può introdurre ulteriori cause convenzionali di recesso: 1 il socio ha diritto di
recesso se non vengono raggiunti certi risultati aziendali (in questo modo il socio può dismettere un
investimento dal rendimento non più apprezzato), 2 il socio ha diritto di recesso se trasferisce la propria

178
residenza all’estero o in un’altra regione (qui si valorizza l’interesse del socio a mantenere la partecipazione
solo se può avere un ruolo attivo costante nella vita dell’ente).
Quando la causa del recesso è una decisione dei soci, sono legittimati ad esercitare il diritto di
recesso i soci non consenzienti, comprendenti i soci assenti, astenuti e contrari; in caso di società a tempo
indeterminato, sono invece legittimati ad esercitare il diritto di recesso tutti i soci (recesso ad nutum). Se si
tratta di cause di recesso convenzionali, ossia stabilite dall’atto costitutivo, la legittimazione dipende dal
tipo di causa (es. se il recesso è consentito a chi trasferisce la propria residenza, tutti i soci sono
astrattamente legittimati ad esercitare il diritto di recesso, ma in concreto è legittimato ad esercitarlo solo il
socio che si trasferisce) e l’atto costitutivo potrebbe, rispetto a certe fattispecie, attribuire la legittimazione
solo ad alcuni soci, come diritto particolare (es. si prevede che solo uno specifico socio può recedere se la
società non raggiunge un certo fatturato); se l’atto costitutivo lo prevede, il recesso può essere anche
parziale, nel senso che si può recedere per una parte soltanto della partecipazione.
Le modalità di esercizio del diritto di recesso sono stabilite dall’atto costitutivo, che definisce
termini e forme entro cui la dichiarazione di recesso deve essere comunicata alla società. Per i casi legali,
l’autonomia statutaria non può stabilire condizioni e termini che rendano eccessivamente gravoso l’esercizio
del diritto di recesso (es. imponendo che esso sia dichiarato in assemblea). Se l’atto costitutivo non dice nulla,
entro 15 giorni dall’iscrizione nel registro delle imprese della delibera legittimante (o dalla sua trascrizione
nel libro delle decisioni dei soci, se non è prevista iscrizione) deve spedirsi una dichiarazione mediante
raccomandata alla società; se invece la causa non è una decisione dei soci, la dichiarazione deve essere
spedita entro 30 giorni dalla conoscenza del fatto legittimante.
Anche le modalità di attuazione del disinvestimento e di rimborso del recedente sono affidate
all’atto costitutivo. Non si estingue il rapporto partecipativo, ma in primis si procede a cedere la quota ad
altri soggetti. I cessionari possono essere gli altri soci, proporzionalmente alle rispettive partecipazioni, o uno
o più terzi, individuati concordemente dai soci (eccetto il socio recedente). In mancanza di interessati, la
quota è liquidata ricorrente alle riserve disponibili (o agli utili) della società (in tal caso l’ente non acquista
una partecipazione, perché c’è il divieto, ma si accrescono proporzionalmente le quote dei soci restanti). Solo
se tali riserve non sono sufficienti, si riduce il capitale, estinguendo la partecipazione; trattandosi di una
riduzione reale, i creditori possono opporsi, e se per effetto dell’opposizione la riduzione e il rimborso
vengono impediti, la società viene posta in liquidazione. Questa è l’ipotesi estrema per conciliare l’interesse
del recedente con la tutela dei creditori: il socio recedente partecipa, con gli altri, alla liquidazione e viene
rimborsato solo al termine di questa secondo il valore che la sua quota ha al termine della procedura di
liquidazione.
Il rimborso deve essere effettuato entro 180 giorni dalla comunicazione del recesso. Decorso
inutilmente tale termine, il recedente può agire contro la società essendo titolare di un diritto di credito nei
confronti della società. Il valore della somma in denaro spettante al recedente (a titolo di corrispettivo in
caso di cessione della partecipazione, e a titolo di rimborso in caso di pagamento mediante riserve disponibili
o riduzione del capitale) deve essere determinato proporzionalmente al patrimonio sociale, applicando
criteri di valutazione non contabili, ma tali da riflettere il valore reale del patrimonio nel momento in cui il
recesso diventa efficace.

L’esclusione (ART. 2473 BIS CC) è un rimedio al verificarsi di fatti che rendono inopportuna la
permanenza in società di un socio. Il socio viene espulso indipendentemente dalla sua volontà e si giustifica
proprio perché le vicende riguardanti il socio, se le parti lo vogliono, possono non restare irrilevanti. Ma,
essendo le parti (quindi l’autonomia statutaria) a dover decidere se, ed in quale misura, valorizzare
l’elemento personalistico, sono sempre le parti (e non la legge) a disporre eventualmente l’introduzione
dell’istituto dell’esclusione. L’atto costitutivo può prevedere specifiche ipotesi di esclusione per giusta causa
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del socio. Eccetto il caso di esclusione del socio moroso, l’espulsione è eventuale e rimessa all’autonomia
statutaria: in assenza di un’apposita disposizione dell’atto costitutivo nessun socio può essere escluso,
neppure in presenza di gravi motivi, né può invocarsi la risoluzione del contratto (non si può risolvere un
contratto sociale). L’autonomia negoziale individua le cause di esclusione, col solo limite della giusta causa.
L’esclusione è legittima solo al verificarsi di fatti, relativi alla persona di un socio, che rendono oggettivamente
non più opportuna la sua permanenza in società, alla luce di interessi meritevoli di tutela cui i soci,
nell’esercitare la loro autonomia negoziale, hanno dato rilevanza. Vi è giusta causa nei seguenti casi:
1 il socio viola gli obblighi nascenti dal rapporto sociale, diversi dall’obbligo di conferimento
(l’inadempimento di questo è già causa legale di esclusione): abuso del diritto di voto in assemblea,
divulgazione di notizie riservate apprese nell’esercizio dei propri diritti di controllo
2 il socio tiene comportamenti incompatibili con l’attività sociale: esercita un’impresa concorrente,
stipula contratti con soggetti predeterminati e sgraditi alla società
3 il socio perde taluni requisiti soggettivi (es. l’iscrizione ad un albo)
4 sopravvengono altri fatti relativi alla persona del socio: fallimento personale, interdizione,
condanne penali.
Il requisito della giusta causa opera a due livelli. Anzitutto la giusta causa è condizione di legittimità
della clausola dell’atto costitutivo: non è sufficiente che una vicenda sia enunciata nell’atto costitutivo per
giustificare l’esclusione, l’espulsione del socio deve perseguire anche un interesse obiettivamente meritevole
dei soci. Inoltre, quando la fattispecie prevista fa riferimento ad una vicenda che richiede una valutazione
discrezionale (es. il carattere riservato delle notizie divulgate dal socio), la giusta causa è anche il criterio sulla
base del quale valutare la gravità e la rilevanza del fatto verificatosi in concreto, ancora in rapporto
all’interesse perseguito dalla clausola.
L’esclusione può realizzare obiettivi tra loro molto diversi, non è solo un rimedio sanzionatorio
contro gli inadempimenti del socio, è in generale uno strumento per interrompere il rapporto sociale al
verificarsi di eventi riferibili alla persona del socio ma che non sono inadempimenti.
Le ipotesi di esclusione, per essere valide, devono essere specifiche, ossia enunciate nell’atto
costitutivo in modo preciso. Tale requisito di specificità tutela l’interesse di ciascun socio a poter conoscere
ex ante le conseguenze del proprio comportamento o dei fatti che lo riguardano. L’accadimento rilevante
deve essere individuato previamente in termini puntuali, se pur l’accertamento del suo verificarsi e della sua
gravità può richiedere una valutazione discrezionale. L’elencazione statutaria è, pertanto, sempre tassativa.
Anche la procedura di esclusione è determinata dall’autonomia statutaria. L’atto costitutivo può
prevedere casi di esclusione automatica (cioè immediatamente conseguente al verificarsi della causa)
oppure attribuire alla collettività dei soci (o agli amministratori, o al sindaco se presente) il potere di decidere
se escludere o no il socio in relazione a cui si sia realizzato l’evento che legittima l’estromissione (esclusione
facoltativa). La decisione motivata deve essere comunicata all’escluso, il quale ha diritto di opporsi davanti
al tribunale entro 60 giorni e può chiedere la sospensione dell’esecuzione. Per l’attuazione dell’esclusione,
ossia le forme attraverso cui l’escluso viene privato della titolarità della quota e riceve la liquidazione del suo
valore, vale la disciplina del recesso. Il valore della quota di liquidazione è determinato secondo il valore
reale della partecipazione.

LA STRUTTURA ORGANIZZATIVA

Il sistema di governo dell’impresa è estremamente flessibile ed i soci hanno un ruolo attivo e centrale
nella vita della società. Essi sono un numero ristretto, sono coinvolti in prima persona nella conduzione
dell’attività, hanno un’estesa libertà statutaria nel definire le regole di amministrazione e incisivi poteri di
ingerenza e controllo sulla gestione. Il modello legale, che opera se l’atto costitutivo non dispone

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diversamente, prevede: i soci, che decidono sulle modifiche strutturali dell’ente (ossia dell’atto costitutivo)
e nominano gli amministratori; un organo amministrativo unipersonale o collegiale che gestisce l’impresa;
un sindaco, per il controllo amministrativo e contabile (o un sindaco e un revisore), se le dimensioni
finanziarie e patrimoniali della società superano una certa soglia. I soci, sia singolarmente sia come
collettività, sono parte attiva della società: essi non sono esclusi dalla gestione, ma anzi possono assumere
ogni relativa decisione se lo richieda la minoranza o uno degli amministratori. Ciascun socio ha inoltre accesso
a tutte le informazioni ed ai documenti societari, potendo promuovere individualmente l’azione di
responsabilità e chiedere la revoca degli amministratori infedeli.
Nella SPA, invece, la struttura è organizzata per uffici e le competenze sono distribuite in modo
rigoroso tra gli organi: l’azionista non ha poteri gestori né di controllo diretto, egli aderisce o disapprova le
strategie imprenditoriali adottate dall’organo amministrativo investendo o disinvestendo dalla società. La
SPA è un organismo spersonalizzato a forte connotazione capitalistica.
I soci possono ricorrere alla propria autonomia negoziale per personalizzare ancora di più il modello
organizzativo della SRL. I soci possono distribuire in modo diverso le competenze e i poteri: l’atto costitutivo
può arricchire le competenze gestorie della collettività dei soci, spostando l’equilibrio di poteri con l’organo
amministrativo, e può assegnare a singoli soci specifiche prerogative (potere di nomina dei componenti di
tale organo, diritto di assumere le funzioni, potere di veto su alcune operazioni imprenditoriali). I soci
possono anche introdurre forme e procedure decisionali più agili, e persino adottare regimi di
amministrazione disgiuntiva o congiuntiva (tipici delle società di persone).
In caso di SRL PMI, con l’autonomia statutaria si può innestare una struttura partecipativa più
capitalistica; si possono avere soci investitori, titolari di quote standardizzate prive di significativi diritti
amministrativo o con diritti amministrativi depotenziati (fino all’integrale esclusione del diritto di voto). I soci
sono mossi da finalità di mero investimento e sono statutariamente esclusi da ogni coinvolgimento attivo
nella vita dell’ente. In ogni caso non può mancare almeno una partecipazione dotata della pienezza dei diritti
amministrativi summenzionati, sicché la componente partecipativa dei soci meri investitori può al più
coesistere, ma mai sostituirsi integralmente ai soci con diritti inerenti alla gestione, di informazione e di
controllo completi.
È chiaro che vadano osservati i principi di corretta amministrazione, ma la vigilanza e l’attivazione
dei consueti meccanismi reattivi (azione di responsabilità, revoca degli amministratori) sono affidate alla
dialettica tra soci e alla loro iniziativa: l’intervento dell’autorità giudiziaria su istanza dei soci è escluso ed
anche il controllo contabile e amministrativo è assente (ma indispensabile quando la società super certi
livelli dimensionali o si trova al vertice di un gruppo).

LE COMPETENZE DEI SOCI La collettività dei soci ha un ruolo centrale nella struttura organizzativa, è
competente su tutta la gestione imprenditoriale, in concorrenza con la competenza degli amministratori. Il
coinvolgimento dei soci nella gestione è istituzionalizzato; per gli atti di mala gestio rispondono, in solido
con gli amministratori, i soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato tali atti. La competenza della
collettività dei soci può essere rafforzata dall’autonomia statutaria, ma non compressa, se non a favore di
prerogative riconosciute a singoli soci. Per collettività dei soci s’intende quella formata dai soci con diritto di
voto, qualora la società, in quanto PMI, abbia emesso anche quote standardizzate senza diritto di voto. Le
competenze della collettività dei soci si distinguono in:
A competenze necessarie. È l’area di riserva legale delle materie affidate inderogabilmente alla
decisione del gruppo dei soci. Si tratta di materie concernenti l’assetto fondamentale dell’ente: modifiche
dell’atto costitutivo; operazioni gestorie che comportano una sostanziale modifica dell’oggetto statutario
o una rilevante modifica dei diritti dei soci. Oppure, la competenza è dovuta alla necessità di rispettare

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l’equilibrio di poteri e funzioni tra gli organi: approvazione del bilancio; nomina del titolare del controllo o
del revisore e relativa revoca (quest’ultima subordinata all’esistenza di una giusta causa).
B competenze normali, ma derogabili:
- la nomina degli amministratori. L’atto costitutivo può attribuire ai singoli soci un diritto
particolare che, investendoli individualmente della carica di amministratore (anche a tempo
indeterminato) o del potere di nomina, esclude la competenza del gruppo, in parte o totalmente,
a seconda che l’organo gestorio così formato debba o meno essere integrato da componenti
designati dal gruppo.
- la distribuzione degli utili. L’atto costitutivo può assegnare a singoli soci un diritto di percepire
gli utili risultanti dal bilancio, o parte di essi, a prescindere da ogni decisione dei soci.
Anche la revoca degli amministratori spetta alla collettività, se a questa compete la designazione.
C competenze legali eventuali. I soci decidono sugli argomenti che uno o più amministratori (o i soci
che rappresentano almeno 1/3 del capitale) sottopongono alla loro approvazione. È una competenza
gestoria illimitata, nel senso che potrebbe comprendere qualsiasi operazione imprenditoriale, ma
concorrente con quella degli amministratori, nonché eventuale, ossia attivabile solo su richiesta dei soggetti
indicati. La decisione della collettività dei soci è vincolante per gli amministratori, salvo che l’operazione
deliberata non li esponga a responsabilità nei confronti della società o dei terzi, in quanto potenzialmente
dannosa.
D competenze esclusive statutarie. L’atto costitutivo può attribuire ai soci ulteriori e rafforzate
competenze in ambito gestorio, come ad esempio il potere di emettere titoli di debito. In generale i soci
decidono su tutte le materie che l’atto costitutivo riserva alla loro competenza. L’autonomia statutaria non
incontra alcun limite di materia: può assegnare ai soci il potere decisionale, vincolante per gli amministratori,
su qualsiasi argomento, comprimendo a piacere la competenza degli amministratori. In questo modo si
calibrano gli equilibri organizzativi interni (es. specifici soci hanno il diritto di amministrare in via esclusiva la
società e i restanti soci hanno il potere di decidere le operazioni economicamente più significative).

I PROCEDIMENTI DECISIONALI: LE ALTERNATIVE E I VINCOLI La collettività dei soci non deve assumere le
proprie decisioni necessariamente con un procedimento assembleare. L’atto costitutivo può prevedere che
le decisioni dei soci siano adottate mediante consultazione scritta o sulla base del consenso espresso per
iscritto. Il termine “decisione” indica ogni atto del gruppo dei soci, mentre il termine “deliberazioni” indica
le decisioni specificamente adottate in assemblea. Possono esserci anche “decisioni non assembleari” (che
non sono, pertanto, deliberazioni). Il metodo assembleare collegiale, per il quale la delibera è assunta nel
corso di una riunione, che garantisce che le dichiarazioni di voto avvengano nello stesso tempo e luogo, è il
più adatto ad assumere scelte equilibrate, in quanto caratterizzato dal dibattito e dal confronto tra i soci. Le
materie più importanti (modifiche dell’atto costitutivo, operazioni gestorie fondamentali) devono essere
inderogabilmente trattate in assemblea. Per le altre materie, se non vi è una corrispondente clausola
dell’atto costitutivo non si possono adottare procedure non collegiali. I procedimenti non assembleari
(consultazione scritta e consenso espresso per iscritto), invece, consentono di assumere decisioni con più
agilità. Ci sono varie tecniche (sottoposizione ai soci di una proposta, inviata loro con qualsiasi mezzo,
sollecitandoli a dichiarare il loro voto con mezzo analogo; circolazione tra i soci di un documento contenente
la proposta di decisione, sottoscritto in calce da coloro che vi aderiscono). Il confronto tra i votanti è lasciato
eventualmente all’iniziativa dei singoli. In ogni caso, anche se l’atto costitutivo prevede procedimenti non
assembleari, tali metodi soccombono di fronte alla richiesta, avanzata da uno o più amministratori (o dai
soci che rappresentano almeno 1/3 del capitale), di sottoporre l’argomento alla discussione in assemblea.

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LE DELIBERAZIONI ASSEMBLEARI Il procedimento assembleare consta delle seguenti fasi:
convocazione, intervento dei soci, discussione, votazione, proclamazione dei risultati, verbalizzazione. Si
fa ricorso alla disciplina per l’assemblea delle SPA, tuttavia l’applicazione in via analogica di tale disciplina
non è automatica e generalizzata, poiché la SRL ha proprie specificità dovute sia al maggiore spazio concesso
all’autonomia statutaria sia alla centralità che i soci hanno nella struttura organizzativa. Se il legislatore non
ha dettato alcuna regola su un determinato profilo non significa necessariamente che vi sia una lacuna
normativa: potrebbe essere un’apertura alla libertà negoziale dei soci.
La convocazione avviene nelle forme indicate nell’atto costitutivo e tali da assicurare la tempestiva
informazione di tutti i soci sugli argomenti da trattare. Se l’atto costitutivo non dice nulla, si procede con
lettera raccomandata spedita almeno 8 giorni prima della riunione, la quale è svolta presso la sede della
società. Sono legittimati a procedere alla convocazione gli amministratori (collegialmente, disgiuntamente o
congiuntamente a seconda della forma di esercizio delle funzioni gestorie prescelta dall’atto costitutivo) e
eventualmente l’organo di controllo, se nominato.
Tutti i soci hanno diritto di intervenire personalmente o, se l’atto costitutivo non lo vieta, tramite
rappresentante. Ogni socio ha diritto a partecipare alle decisioni. La SRL PMI può però emettere categorie di
quote senza diritto di voto o con diritto di voto condizionato o limitato a particolari argomenti; di fronte
all’opportunità di intercettare risparmiatori interessati alla sola redditività del proprio investimento, il diritto
di intervento è riconosciuto ai soli soci con diritto di voto sugli argomenti all’ordine del giorno.
L’assemblea, presieduta dalla persone indicata nell’atto costitutivo (presidente del c.d.a. o
amministratore unico) o designata dagli intervenuti, è validamente costituita se sono presenti tanti soci che
rappresentano almeno la metà del capitale (quorum costitutivo, s’intende la metà del capitale avente diritto
di voto). L’assemblea delibera con il voto favorevole della maggioranza del capitale presente o, in materia di
modifiche dell’atto costitutivo e operazioni gestorie fondamentali, con una maggioranza rafforzata che
rappresenti almeno la metà del capitale sociale (quorum deliberativo, sempre del capitale con diritto di voto).
Il voto espresso da ciascun socio ha un peso proporzionale alla sua partecipazione. L’atto costitutivo può
modificare i quorum legali, per tutte o solo alcune decisioni: i quorum legali possono essere ridotti (es. il
quorum costitutivo può essere azzerato; il quorum deliberativo può richiedere per le modifiche statutarie la
sola maggioranza prevista per le altre materie) o aumentati, fino a chiedere il consenso unanime dei soci. Per
le elezioni delle cariche sociali potrebbero essere previsti sistemi particolari (es. voto per liste bloccate, voto
cumulativo). Formalmente l’assemblea non è articolata in ordinaria e straordinaria, ma le deliberazioni più
rilevanti richiedono maggioranze più elevate e sono soggette a regole formali più rigide (es. verbalizzazione
notarile per le modifiche dell’atto costitutivo). Se non si raggiunge il quorum costitutivo nella prima, ed unica,
riunione prevista, occorre riavviare ex novo l’iter procedimentale con una nuova convocazione. L’atto
costitutivo può, però, introdurre un’assemblea di seconda convocazione, riducendo l’aliquota di capitale
prevista dalla norma.
È necessario redigere il verbale (per atto pubblico, se si tratta di deliberazioni modificative dell’atto
costitutivo), il quale va trascritto nel libro delle decisioni dei soci. Esso deve essere formato senza ritardo e
deve indicare, almeno in allegato, l’identità dei partecipanti e il voto espresso da ciascuno di essi (verbale
analitico).
Una volta adottate, con la proclamazione presidenziale dei risultati, le delibere sono
immediatamente efficaci, tranne quelle modificative dell’atto costitutivo, che acquistano piena efficacia con
l’iscrizione nel registro delle imprese.

LE DECISIONI NON ASSEMBLEARI Quanto alle tecniche non collegiali, c’è ampia libertà nella
determinazione dell’iter procedimentale. In tutte manca la collegialità, l’atto è assunto al di fuori di qualsiasi
riunione tra soci, con benefici in termini di speditezza e costi. L’atto costitutivo è libero di optare per una
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procedura scandita in fasi regolamentate nelle forme e nei tempi (es. si prevede che gli amministratori
inviino ai soci con un mezzo specifico la sollecitazione a pronunciarsi su una determinata proposta ed i soci
hanno un termine entro cui devono far pervenire presso la sede della società il proprio voto scritto o una
copia tramite lo stesso mezzo) oppure per una procedura con forme destrutturate (es. si prevede che
chiunque può assumere l’iniziativa di redigere un documento scritto contenente la decisione, da sottoporre
poi all’approvazione scritta e separata da parte di ciascuno dei soci). Ci sono però dei principi inderogabili,
come ad esempio il fatto che tutti i soci devono essere informati in tempo utile dell’avvio del procedimento
e tutti devono potervi prendere parte (fanno eccezione i soci titolari delle quote senza voto eventualmente
emesse dalla SRL PMI); non basterebbe quindi la raccolta dei consensi della sola maggioranza, senza
interpellare la minoranza. Ogni voto, necessariamente scritto, è revocabile fino alla chiusura del
procedimento, tale che ogni socio può cercare di orientare il convincimento degli altri. Finché non si chiude
il procedimento ciascun amministratore (o il terzo del capitale) può chiedere che la procedura venga
interrotta o che venga convocata l’assemblea. La decisione non assembleare ha un quorum diverso: essa è
presa con il voto favorevole di una maggioranza che rappresenti almeno la metà del capitale; lo statuto può
però disporre diversamente, sia innalzando il quorum, sia riducendolo (rendendo sufficiente l’adesione della
maggioranza dei votanti, così che il capitale di chi decide di non esprimersi viene escluso dal computo).

L’INVALIDITÀ DELLE DECISIONI Il regime d’invalidità delle decisioni è lo stesso sia per le decisioni
assembleari sia per quelle non collegiali. L’ordinamento societario prevede sì la conformità dell’azione
collettiva alla legge e all’atto costitutivo, ma al contempo, nel predisporre i rimedi attivabili in presenza di
vizi, deve assicurare la stabilità delle operazioni economiche. Il procedimento di impugnazione coincide con
quello previsto per la SPA e la legittimazione del socio all’impugnazione non dipende dalle dimensioni della
sua partecipazione. I vizi invalidanti, che determinano l’impugnabilità della decisione, sono i seguenti:
A assenza assoluta di informazione. Ad uno o più soci non è stato comunicato l’avvio del
procedimento decisionale: vizio di “mancata convocazione” (in caso di decisione non collegiale, il
coinvolgimento dei soci non avviene tramite una convocazione, ma informandoli dell’inizio della procedura).
Chiunque vi abbia interesse è legittimato ad impugnare la decisione entro 3 anni dalla trascrizione della
decisione nel libro delle decisioni dei soci.
B oggetto sociale illecito o impossibile. L’oggetto sociale è contrario a norme imperative, ordine
pubblico o buon costume, oppure il contenuto della decisione è materialmente o giuridicamente impossibile.
Chiunque vi abbia interesse è legittimato ad impugnare la decisione e non incontra limiti di tempo.
C non conformità alla legge o all’atto costitutivo. Vi rientra ogni altro vizio: irregolarità
procedimentali, compresa la mancata verbalizzazione della delibera assembleare; conflitto d’interessi del
socio il cui voto sia stato determinante per l’assunzione di una decisione potenzialmente dannosa per la
società; abuso del diritto di voto a danno degli altri soci. Non ogni violazione, però, inficia la decisione, ma
solo quella che ha concretamente e significativamente leso l’interesse protetto dalla norma (di legge o
statutaria) violata (es. un ritardo minimo nella convocazione di un socio che non ha condizionato la possibilità
della sua partecipazione informata alla riunione non è una violazione che inficia la decisione). Legittimato
all’impugnazione, entro 90 giorni dalla trascrizione della decisione nel libro delle decisioni dei soci, è ciascun
socio che non ha consentito alla decisione, ciascun amministratore e l’organo di controllo (se presente).

L’AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ

LE COMPETENZE GESTORIE. IL RAPPORTO DI AMMINISTRAZIONE L’amministrazione della società è


affidata ad uno o più soci nominati con decisione dei soci, se l’atto costitutivo non dispone diversamente.
Nell’ambito dell’oggetto sociale gli amministratori hanno una competenza gestoria generale (elaborano i
piani strategici imprenditoriali e ne danno attuazione), ma non esclusiva. La collettività dei soci conserva
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una competenza legale concorrente sull’intera gestione e l’atto costitutivo può sottrarre alcune prerogative
agli amministratori per attribuirle in via esclusiva ai soci, introducendo così limiti ai poteri degli
amministratori vincolandoli ad eseguire la decisione presa dai soci. L’atto costitutivo può fare ciò anche con
riguardo ad una porzione molto ampia degli atti d’impresa (es. i soci sono competenti per tutte le operazioni
di valore superiore ad una data soglia).
Possono assumere la carica di amministratore sia i soci sia, se consentito dall’atto costitutivo,
soggetti esterni. La nomina ad amministratore avviene con decisione presa dai soci, ma l’autonomia
negoziale può disporre diversamente. Ad esempio, l’autonomia negoziale può attribuire ad uno o più soci
individualmente il potere (diritto particolare) di designare degli amministratori (uno, più o tutti), o il potere
di indicare una rosa di nomi tra cui la collettività dovrà poi scegliere, o addirittura può attribuire la carica di
amministratore (unico o no) a tempo indeterminato. Ciò dimostra come i soci abbiano un ruolo attivo
nell’esercizio dell’impresa, nonché la loro rilevanza a prescindere dall’entità della loro partecipazione.
Avendo carattere sociale, tali pattuizioni dell’atto costitutivo sono vincolanti nei confronti di qualunque
eventuale nuovo socio. La nomina deve essere accettata dall’amministratore, il quale dovrà poi iscriverla
nel registro delle imprese, e l’invalidità dell’atto di nomina non è opponibile ai terzi che non ne fossero a
conoscenza. La legge non indica la durata della carica, la quale è determinata dall’atto costitutivo o dall’atto
di nomina. La nomina può essere anche a tempo indeterminato e gli amministratori sono rieleggibili. Gli
amministratori che sono tali in forza di un atto di nomina della collettività dei soci, o di uno di essi, sono
revocabili in qualunque momento dai titolari del potere di nomina; in assenza di giusta causa la SRL deve
risarcire il danno, ma se la carica era a tempo indeterminato il risarcimento è dovuto solo se non viene dato
un congruo preavviso. Se l’amministratore compie gravi irregolarità, ogni socio può chiederne la revoca in
via giudiziaria. Coloro la cui carica è attribuita come diritto particolare, invece, sono revocabili solo se
compiono gravi irregolarità, dato che il loro diritto è immodificabile senza il consenso unanime dei soci.

I SISTEMI DI AMMINISTRAZIONE Il potere gestorio può essere esercitato sotto varie forme. Lo statuto
o i soci al momento della nomina possono decidere di affidare il potere gestorio ad un amministratore unico
o a più soggetti. In caso di più amministratori, il modello legale prevede che le funzioni vengano esercitate
in forma consiliare, ossia mediante la costituzione di un consiglio di amministrazione. L’atto costitutivo può
tuttavia optare per l’amministrazione disgiuntiva o congiuntiva (tipica delle società di persone) oppure per
un sistema misto (es. disgiuntivo per le operazioni al di sotto di un certo valore e consiliare per quelle
superiori). La redazione del progetto di bilancio e dei progetti di fusione e scissione, nonché l’aumento di
capitale delegato, devono essere però decisi in forma collegiale. Il ricorso ai modelli delle società di persone
andrà di pari passo con la riserva della carica amministrativa ai soci. Ciò assicura, nel sistema disgiuntivo, una
gestione più agile e informale (in cui però è fortissima la componente fiduciaria insita nel rapporto tra i soci)
e, nel sistema congiuntivo all’unanimità, una gestione totalmente condivisa. In ogni momento è possibile
passare da un sistema all’altro, ma è necessaria una modifica dell’atto costitutivo.
Quanto all’amministrazione consiliare, l’atto costitutivo ha ampia libertà nel determinare il
procedimento deliberativo. È possibile conferire deleghe a singoli consiglieri o ad un comitato esecutivo. In
caso di conflitto d’interessi la decisione consiliare è invalida: ciascun amministratore (ignaro del conflitto o
non consenziente), il sindaco e il revisore legale, se presenti, possono impugnare entro 90 giorni dalla sua
adozione la decisione dannosa per la società, assunta con il voto determinante del consigliere in conflitto.
In caso di amministrazione disgiuntiva, ciascun amministratore può compiere in piena autonomia
ogni atto, salvo il reciproco potere di opposizione, che devolve la decisione su quest’ultima alla collettività di
soci, la quale vota secondo il criterio del voto proporzionale alla partecipazione.
L’amministrazione congiuntiva può essere a maggioranza o all’unanimità. Quella a maggioranza può
servire a snellire le procedure decisionali, perché consente alla maggioranza degli amministratori di compiere
185
direttamente ogni operazione, senza dover necessariamente interpellare preventivamente gli altri; rimane
però quel controllo reciproco tra i singoli componenti. Si può ricorrere all’amministrazione congiuntiva a
maggioranza sia nel caso in cui gli amministratori siano tutti soci, ed in questo caso la maggioranza si calcola
in base alle rispettive quote di partecipazione, sia nel caso in cui tra gli amministratori vi siano soggetti
estranei ai soci, ed in questo caso la maggioranza si calcola attribuendo egual peso a ciascun amministratore.
L’amministrazione congiuntiva all’unanimità, invece, assicura a ciascun gestore un insuperabile potere di
veto nei confronti di qualsiasi operazione, pertanto, quando la carica è assunta dai soci, è un forte strumento
difensivo a beneficio del singolo, ma può compromettere l’efficienza dell’impresa se viene meno l’armonia
del gruppo.

LA RAPPRESENTANZA LEGALE La rappresentanza legale è attribuita agli amministratori secondo i


criteri indicati nell’atto costitutivo. Nel sistema consiliare, essa è collegate a cariche come “presidente del
consiglio” o “amministratore delegato”. Nell’amministrazione disgiuntiva, essa è attribuita disgiuntamente
a ciascun amministratore, mentre in quella congiuntiva – specie all’unanimità – è attribuita a tutti con firma
congiunta. È una rappresentanza generale ed i relativi limiti, anche se risultati dall’atto costitutivo iscritto
nel registro delle imprese, non sono opponibili ai terzi, a meno che non si provi che essi hanno agito
intenzionalmente a danno della società (cd. exceptio doli). Tra i limiti inopponibili rientrano il difetto di
potere gestorio dipendente dalla struttura organizzativa prescelta dai soci (mancanza della necessaria e
preventiva decisione del c.d.a. o della collettività dei soci) e l’estraneità dell’atto all’oggetto sociale. Sono
invece opponibili i limiti legali, come ad esempio la mancanza della preventiva delibera assembleare richiesta
dalla legge e il conflitto di interessi del rappresentante. In quest’ultimo caso, il contratto stipulato dal
rappresentante è annullabile se il conflitto era conosciuto o conoscibile dal terzo: ciò vale per gli atti posti in
essere dall’amministratore unico, dal consigliere delegato, in caso di amministrazione disgiuntiva o
congiuntiva (insomma, in tutti i casi in cui l’atto non sia meramente esecutivo di una decisione consiliare: in
quest’ultimo caso sarebbe la decisione consiliare a dover essere annullata).

MALA GESTIO E RESPONSABILITÀ “Gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società
dei danni derivanti dall’inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo per
l’amministrazione della società” (ART. 2476, CO. 1 CC). Gli amministratori hanno l’obbligo di gestire
diligentemente l’impresa per l’attuazione dell’oggetto sociale. È un obbligo a contenuto aperto. Nell’ambito
della discrezionalità tecnica, presente in ogni attività imprenditoriale, gli amministratori sono liberi di
determinare tempi, strategie e modalità del suo esercizio, realizzando le operazioni in cui essa si snoda;
proprio per la natura tecnica della loro discrezionalità, la gestione deve svolgersi secondo il criterio della
diligenza professionale: anche gli amministratori di SRL devono adempiere ai loro doversi con la diligenza
richiesta dalla natura dell’incarico. La responsabilità degli amministratori è solidale, ciascuno risponde
dell’intero danno nei confronti della società, salvo il diritto di regresso nei confronti degli altri nella misura e
secondo il grado della rispettiva colpa. La responsabilità non si estende, però, a chi è immune da colpa e,
conoscendo il fatto dannoso, abbia fatto constare il proprio dissenso. Chi intende sottrarsi all’onere
risarcitorio ha l’onere di segnalare la propria contrarietà all’operazione di cui è a conoscenza. Le modalità di
comunicare il dissenso e le funzioni che esso deve esplicare variano nei diversi sistemi di governo: in senso al
c.d.a. è sufficiente il voto negativo, mentre in caso di amministrazione disgiuntiva è necessaria l’opposizione
al compimento dell’atto, e nell’amministrazione congiuntiva all’unanimità l’esercizio del potere di veto. In
generale, tuttavia, l’amministratore deve essere anche immune da colpa. Anche l’amministratore di SRL ha
l’obbligo di agire in modo informato e l’obbligo di intervento. Risponde pertanto dei danni chi non ha avuto
conoscenza del fatto lesivo per avere violato il dovere di vigilanza (che incombe sul consiglio, nei confronti
dell’attività dei membri delegati, e su ciascun amministratore, nell’amministrazione disgiuntiva) e chi,

186
conosciutolo, non si è attivato per impedirne il compimento o attenuarne gli effetti. La responsabilità, inoltre,
grava senza distinzioni a prescindere dal titolo in forza del quale l’amministratore riveste la carica, e quindi
anche sul socio cui il potere gestorio è accordato come diritto particolare: tale diritto è anche dovere di
amministrare con la diligenza professionale consueta e nell’interesse della società. Lo stesso principio vale
per il socio cui l’atto costitutivo attribuisce diritti particolari sempre inerenti all’amministrazione, ma
circoscritti.
Qualunque socio, a prescindere dalla propria partecipazione, può proporre individualmente l’azione
di responsabilità (a dimostrazione del carattere personalistico della SRL). Tale legittimazione individuale è
inderogabile e permette a ciascun socio di controllare la gestione della società. Anche la SRL, previa decisione
dei soci, può promuovere l’azione, ma ciascun partecipante ha un penetrante potere di monitoraggio e di
reazione. L’azione del socio è comunque promossa nell’interesse della società, nel cui patrimonio
confluiranno le somme che eventualmente gli amministratori siano condannati a risarcire.
Gli amministratori sono responsabili anche verso i singoli soci o terzi che siano stati direttamente
danneggiati da un loro comportamento colposo. Anche i creditori della società hanno azione nei loro
confronti, per la violazione degli obblighi di conservazione del patrimonio che ne abbia determinato
l’insufficienza.
La responsabilità non coinvolge solo gli amministratori e il sindaco, se presente, ma ex ART. 2476,
CO. 7 CC sono responsabili solidalmente anche i soci che abbiano intenzionalmente deciso o autorizzato il
fatto dannoso (d’altra parte i soci sono direttamente e istituzionalmente coinvolti nell’amministrazione). I
soci hanno una competenza gestoria generale in concorrenza con gli amministratori, competenza che l’atto
costitutivo può ulteriormente rafforzare rendendola esclusiva. È responsabile, se pur in forza ad un’altra
norma, anche l’amministratore di fatto, ossia colui che, pur senza nomina formale, si ingerisce in concreto
stabilmente nella gestione: gli obblighi inerenti alla carica gravano su chiunque di fatto assuma non
episodicamente la gestione, a prescindere dall’esistenza di un valido atto d’investitura. La responsabilità
solidale dei soci ex ART. 2476, CO. 7 CC riguarda tutti i soci che consentano al compimento di un’operazione
dannosa (per la società, per i creditori, per i terzi) nell’esercizio, anche occasionale, del potere gestorio di
cui essi istituzionalmente (ex lege o per statuto) dispongono. La minoranza del capitale può avocare alla
collettività dei soci la decisione su qualunque operazione, costringendo così la maggioranza che
quell’operazione voglia realizzare ad assumersene personalmente la responsabilità.
Si tratta di una responsabilità senz’altro oggettiva (infatti è solidale con quella degli amministratori,
che presuppone la colpa). Inoltre, la decisione o l’autorizzazione al compimento dell’atto devono essere
intenzionali; tuttavia non basta la scontata volontarietà del voto, ma non serve neanche la volontà del danno
(dolo): il socio deve valutare le potenziali conseguenze dell’operazione con una diligenza variabile a seconda
del contesto (es. se il coinvolgimento è episodico, per avere gli amministratori sollecitato la decisione della
compagine sociale, basta la diligenza del buon padre di famiglia; se il coinvolgimento è più stabile, perché
l’atto costitutivo affida ai soci buona parte della gestione, la diligenza deve essere di grado analogo a quella
degli amministratori).

I DIRITTI DI CONTROLLO DEL SOCIO Il controllo si svolge all’interno della compagine sociale e su
iniziativa dei soci. Ciascun socio individualmente ha il diritto di controllo. I soci amministratori, in forza della
loro carica, hanno un dovere di controllo. I soci non amministratori, invece, ossia coloro che non partecipano
all’amministrazione, hanno il diritto di avere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali
(informazioni e dati relativi a singole operazioni, alle linee strategiche o all’andamento generale dell’impresa)
e di consultare, anche tramite professionisti di loro fiducia, i libri sociali e i documenti relativi
all’amministrazione (sono consultabili tutti i documenti riguardanti le vicende della gestione). Tali diritti
spettano ai soci non amministratori in ogni caso, anche quando è presente il sindaco. Gli amministratori non
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possono respingere la richiesta del socio per riservatezza o per segreto aziendale. L’unico limite al diritto di
controllo è che quest’ultimo sia esercitato secondo buona fede e in modo da non intralciare la conduzione
dell’impresa. Ciascun socio è legittimato a promuovere l’azione di responsabilità nei confronti degli
amministratori e a domandarne la revoca in presenza di gravi irregolarità nella gestione. L’atto costitutivo
non può né eliminare né comprimere il diritto di controllo di ciascun socio (tuttavia le quote standardizzate
fornite di diritti diversi, emettibili dalla SRL PMI, potrebbero esserne prive o esserne dotate in misura ridotta),
ma può accrescerne il contenuto e di regolarne le modalità di esercizio.

L’ORGANO DI CONTROLLO E IL REVISORE Non in tutte le SRL deve necessariamente esserci un organo
di vigilanza indipendente. Solo superate certe soglie dimensionali la SRL ha l’obbligo di avere un soggetto
indipendente e professionalmente qualificato che svolga una funzione di controllo. È necessario nominare
un tale soggetto se 1 la società è obbligata a redigere il bilancio consolidato, quindi è al vertice di un gruppo;
2 se la società controlla un’altra società obbligata alla revisione legale dei conti (es. una SPA); 3 se la società
supera, per due esercizi consecutivi, due dei limiti, relativi all’ammontare dell’attivo dello stato patrimoniale
e dei ricavi e al numero medio dei dipendenti, ex ART. 2435 BIS CC. In una SRL che rispecchia queste tre
condizioni l’interesse alla corretta gestione dell’impresa non è più solo una questione interna alla società, ed
essa va protetta anche all’esterno. I soci non amministratori conservano i loro diritti di controllo, ma al loro
controllo si affianca quello dell’ufficio di controllo costituito. Il controllo obbligatorio deve riguardare
inderogabilmente sia il profilo gestorio sia quello contabile. Se l’atto costitutivo non dispone diversamente,
l’organo di controllo è monocratico (per risparmiare i costi); tuttavia l’autonomia statutaria può optare per
un organo pluripersonale o può attribuire a soggetti diversi la funzione di controllo sull’amministrazione e la
funzione di revisione dei conti. A tale organo si applica la disciplina sui sindaci di SPA, quindi la SRL non può
modificare le funzioni e i poteri attribuiti al titolare del controllo, in forza del carattere generale ed
indisponibile degli interessi protetti. Tale soggetto ha il compito di vigilare sull’osservanza della legge e dello
statuto, sul rispetto d principi di corretta amministrazione e sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo,
amministrativo e contabile adottato dalla società, avvalendosi allo scopo delle prerogative e dei poteri di
intervento. Se non è nominato un revisore, l’organo di controllo deve inoltre verificare la corretta rilevazione
dei fatti di gestione nelle scritture contabili, nonché esprimere in un’apposita relazione il giudizio sul bilancio.
Ogni socio è legittimato ad agire nei confronti di tale organo. L’organo di controllo è nominato dalla
collettività dei soci che può procedere anche, se lo statuto lo consente, non collegialmente. La collettività
dei soci che approva il bilancio deve provvedere alla nomina, che diventa in questo momento obbligatoria,
entro 30 giorni, termine decorso il quale la designazione è fatta dal tribunale su istanza di qualunque
interessato.
Fuori dei casi di nomina obbligatori, l’atto costitutivo può prevedere un organo di controllo
monocratico (sindaco) o pluripersonale (collegio sindacale) e/o un revisore, determinandone le competenze
con libertà (controllo facoltativo). Affidare la vigilanza a soggetti esterni, indipendenti e professionalmente
qualificati, può incrementare le garanzie per i soci non amministratori e favorire l’immagine della società sul
mercato. La presenza, sia pure facoltativa, di un ufficio di controllo suscita nei terzi un affidamento che limita
parzialmente l’autonomia dei soci nelle decisioni relative alle sorti ed ai poteri di tale ufficio. La legge affida
all’atto costitutivo il compite di definirne i poteri, ma la libertà negoziale deve rispettare il criterio della
coerenza rispetto alle funzioni tipiche dell’ufficio (al sindaco potrà affidarsi il controllo sulla gestione e
contabile, o solo sulla gestione, ma non la revisione dei conti; ed al revisore potrà affidarsi la revisione e non
altro).
Infine, secondo l’opinione prevalente il controllo giudiziario non è applicabile.

DOMANDE RACCOLTE DA PRECEDENTI SCRITTI

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- Esclusione del socio nella SRL
- SRL semplificate
- Il recesso parziale in SRL (16 luglio 2019)
- Azione di responsabilità
- La tutela dei terzi nelle SRL (secondo alcuni si riferisce all’azione di responsabilità dei soggetti terzi
che abbiano subito un danno a seguito della mala gestio degli amministratori - stessa disciplina per
SPA)
- Diritti particolari del socio nella SRL (28 maggio 2019 – 2° parziale)
- Finanziamenti dei soci
- Decisioni dei soci
- Controllo
- Controllo dei soci SRL (18 giugno 2019)
- SRL a capitale marginale
- Responsabilità gestoria del socio
- Aumento a pagamento SRL
- SRL ordinaria con capitale sociale inferiore a 10 mila € (5 settembre 2019)

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