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ECONOMIA DI MERCATO

Modello che presuppone:

a) La tendenziale libertà dei privati di dedicarsi alla produzione e alla distribuzione di


quanto necessario per il soddisfacimento dei bisogni materiali della collettività,

b) La tendenza a modellare secondo la logica del soddisfacimento personale ossia del


massimo guadagno il proprio comportamento sul mercato

c) La libertà di coesistenza di una pluralità di operatori economici (privati e pubblici)

d) La libertà di competizione economica fra quanti sul mercato operano

Libertà indirizzate, coordinate e controllate dagli interventi pubblici nella vita economica,
legittimati dalla stessa Costituzione
art.41 Costituzione
L'iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza,
alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica
e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
Il fenomeno imprenditoriale costituisce perciò l’asse portante dello sviluppo economico e
del processo di razionale utilizzazione delle risorse produttive per il miglioramento del
benessere della collettività.
Il sistema imprenditoriale trova fondamento nel diritto privato volto per un verso a creare
un ambiente giuridico propizio allo sviluppo dell’impresa e per altro verso nel contempo ad
assicurare un ordinato e razionale funzionamento delle stesse.
Obiettivo perseguito attraverso una normativa che riguarda sia i singoli rapporti economici
in cui si sviluppa l’attività di impresa sia l’attività di impresa unitariamente considerata.
- Sotto il primo profilo vi è una disciplina di autonomia privata a contenuto
patrimoniale (obbligazioni contratti) fondata su scelte normative che conferiscono
celerità e sicurezza alla circolazione dei beni e garantiscono un’adeguata tutela del
credito. Ciò stimola la dinamica degli scambi e la propensione al credito fattori
essenziali perché le imprese possono operare sul mercato. L’attività di impresa è
un’attività tipicamente fondata su una fitta ed articolata serie di rapporti di scambio
con gli altri attori del ciclo economico: fornitori di materie prime, banche, laboratori,
intermediari commerciali, consumatori.

- Sotto il secondo profilo notiamo invece che è stato predisposto un sistema di norme
che regola l’organizzazione e l’esercizio dell’attività d’impresa unitariamente
considerata. Gli imprenditori sono infatti assoggettati a un particolare status
professionale fonte di diritti e di obblighi peculiari e diversi da quelli riconosciuti o
imposti a chi imprenditore non è, il tutto nell’interesse diretto ed immediato di
quanti sono i rapporti di affari con le imprese in primo luogo i creditori delle stesse
ma altresì nel generale interesse ad un ordinato e corretto funzionamento
dell’economia di mercato.
Il diritto commerciale moderno è appunto una parte del diritto privato che ha per
oggetto regola l’attività e gli atti di impresa. Il diritto privato delle imprese.
Non è dunque il diritto del commercio e dei commercianti perché imprese
giuridicamente commerciali non sono solo quelle dedite al commercio, tali sono tutte le
imprese:
- industriali,
- bancarie,
- assicurative,
- di trasporto,
- eccetera
ad eccezione di quelle agricole
Se il diritto privato si continua ad etichettare come diritto commerciale la ragione è
essenzialmente storica in quanto proprio la prospettiva storica consente di cogliere con
chiarezza i caratteri fondamentali del diritto commerciale che lo distinguono dagli altri parti
del diritto privato, e cioè:
- il carattere di diritto speciale in quanto costituito da norme diverse da quelle valevoli
per la generalità dei consociati e fondate su propri ed unitari principi ispiratori
- Il carattere di diritto tendente all’uniformità internazionale per la sostanziale
identità delle Esigenze giuridiche della vita economica in tutti paesi ad economia di
mercato e per la progressiva liberalizzazione dei rapporti commerciali internazionali.
L’IMPRENDITORE
ARTIVOLO 2082 cc

“È imprenditore chi esercita professionalmente un'attività economica


organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi “
Secondo tale definizione esistono dunque requisiti minimi necessari e sufficienti che devono
ricorrere perché un dato soggetto acquisti la qualità dell’imprenditore:

1° REQUISITO: LA PROFESSIONALITA’
(stabilità, non occasionalità, continuità dell’attività)

Professionalità significa esercizio ABITUALE e NON OCCASIONALE di una data attività


produttiva.

Per professionale dunque intendersi una attività

ABITUALE E CONTINUA  non è imprenditore chi organizza UNA TANTUM


Non è imprenditore perciò chi compie un’isolata operazione di
acquisto e rivendita
È imprenditore colui che si operi per il compimento di un unico
affare che per la sua rilevanza implica una molteplicità di
operazioni complesse con l’utilizzo di un apparato produttivo
idoneo ad escludere il carattere occasionale.
È imprenditore il costruttore di un singolo edificio o colui che
acquista allo stato grezzo un’immobile per completarlo e rivendere
i singoli appartamenti.
Ancora, può essere valido per un solo affare anche nel caso in cui
l’operazione che si voglia svolgere implichi molto tempo per la sua
realizzazione (costruzione del canale di Suez)

Il requisito della Professionalità implica ancora altri due principi:


 NON INTERRUZIONE  il concetto di continuità non implica quello di NON
INTERRUZIONE.
Per le attività cicliche o stagionali (ALBERGHI, LOCALITA’
DI VILLEGGIATURA, STABILIMENTI BALNEARI, RIFUGI ALPINI) è
sufficiente il costante ripetersi di atti di impresa
secondo le cadenze proprie di quel dato tipo di
attività. È sufficiente dunque il costante ripetersi
dell’atto di impresa.
 ESCLUSIVITA’  È imprenditore anche chi oltre all’impresa abbia altra
attività.
È imprenditore anche il professore o l’impiegato che
collateralmente alla sua professione principale gestisce un
negozio o un albergo. È dunque possibile anche il
contemporaneo esercizio di più attività d’impresa (agricola e
commerciale) da parte dello stesso soggetto.
Attenzione però NON E’ imprenditore chi compie una
pluralità di atti economici coordinati ma NON ABITUALI
(singolo servizio di trasporto, singolo spettacolo sportivo)

2° REQUISITO: L’ATTIVITA’ (PRODUTTIVA)


L’impresa è attività (serie di atti coordinati) finalizzata alla produzione o allo scambio di
beni o servizi (art 810 cc: sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti).

È in sintesi attività produttiva anche l’attività di scambio in quanto volto ad incrementare


l’utilità dei beni spostandoli nel tempo e nello spazio.

Per qualificare una data attività come produttiva è irrilevante la natura dei beni o servizi
prodotti o scambiati ed il tipo di bisogno che essi sono destinati a soddisfare. È impresa
dunque anche la produzione di servizi di natura assistenziale, culturale o ricreativa (case di
cura, convinti, istituti di istruzione privata, imprese di pubblici spettacoli teatrali o sportivi).

È altresì rilevante che l’attività produttiva possa qualificarsi come attività di godimento o di
amministrazione di determinati beni o del patrimonio del soggetto agente.

Certo non è impresa l’attività di mero godimento, l’attività cioè che non dà luogo alla
produzione di nuovi beni o servizi classico è l’esempio del proprietario di immobili che ne
gode i frutti concedendoli in locazione.

L’attività di godimento può considerarsi produttiva qualora essa generi oltre al godimento
anche la produzione di nuovi beni e/o servizi

 È attività di godimento e produttiva di nuovi beni quella del proprietario di un fondo


agricolo che destini lo stesso alla coltivazione.

 È di godimento e produzione anche l’attività del proprietario di un immobile che


adibisca lo stesso ad albergo, pensione o residence. In tal caso le prestazioni locative
sono accompagnate dall’erogazione di servizi collaterali (pulizia locali, cambio
biancheria eccetera) che eccedono il mero godimento del bene.
 È godimento o amministrazione del proprio patrimonio e attività di produzione
l’impiego di proprie disponibilità finanziarie nella compravendita di strumenti
finanziari e dunque azioni, obbligazioni o titoli di stato con intenti di investimento o di
speculazione o nella concessione di finanziamenti a terzi.

Perciò gli atti di investimento, di speculazione di finanziamento quando siano


coordinati in serie in modo da configurare un’attività unitaria possono dar vita ad
un’impresa commerciale se ricorrono interiori requisiti dell’organizzazione della
professionalità.

Così sono certamente imprese commerciali le società di investimento: società che


hanno per oggetto l’impiego del proprio patrimonio nella compravendita di titoli
secondo il criterio della diversificazione degli investimenti e del frazionamento dei
rischi.

Sono altresì imprese commerciali le cosiddette Holding società che hanno per
oggetto esclusivo l’acquisto e la gestione di partecipazioni di controllo in altre società
con finalità di direzione, di coordinamento e di finanziamento della loro attività
dando così vita al fenomeno del gruppo di società di cui sono a capo.

3° REQUISITO: L’ATTIVITA’ ECONOMICA


L’attività imprenditoriale consiste in una serie di atti coordinati diretti al conseguimento di
uno stesso fine : IL FINE ECONOMICO

Ciò che qualifica un’attività come economica non è solo il fine(produttivo) cui è indirizzata.
Anche il modo, il metodo con cui essa è svolta.

Il fine economico consiste dunque nella creazione di una nuova ricchezza i tipi di attività che
generano ricchezza sono

- la produzione di beni

- la produzione di servizi

- e lo scambio di beni e servizi.

È attività economica e quindi è attività imprenditoriale solo quell’attività che mira coprire
con i ricavi e costi e quindi a pareggiare il bilancio.
L’espressione mirare indica una tendenza ovvero se non si riesce a pareggiare i costi con i
ricavi e non vuol dire che cessa di essere definita tale, quello che conta è lo scopo,
l’intenzione.
Per aversi impresa è pertanto essenziale che l’attività produttiva sia condotta con metodo
economico, secondo modalità che consentano quantomeno la copertura dei costi con i
ricavi e ed assicurino l’autosufficienza economica.
- Non è perciò imprenditore chi (soggetto privato o pubblico) produca beni o servizi
che vengono erogati gratuitamente o a prezzo politico, tale cioè da far
oggettivamente escludere la possibilità di coprire i costi con i ricavi.
- Così non è imprenditore l’ente pubblico l’associazione privata che gestiscono
gratuitamente o a prezzo simbolico un ospedale, un istituto di istruzione, una mezza
o uno ospizio per i poveri. E invece imprenditore chi gestisce i medesimi servizi con
metodo economico anche se ispirato da un fine pubblico o ideale.
- Non è imprenditore l’attività di mero godimento o di amministrazione ad esempio il
proprietario dello stabile che tragga profitto dando dei locali in affitto,
- l’attività di speculazione
- l’attività dei professionisti intellettuali e degli artisti.

4° REQUISITO: L’ORGANIZZAZIONE: L’ATTIVITA’ ORGANIZZATA


L’organizzazione è un concetto insito nel concetto stesso di impresa intesa come:
complesso di mezzi e persone.
- Le persone  sono coloro che collaborano alle dipendenze dell’imprenditore e
costituiscono i suoi ausiliari .
- I mezzi  di cui si serve l’imprenditore e che costituiscono l’azienda.

È organizzata quell’attività che fa da intermediario tra il lavoro e il capitale da un lato e chi


domanda beni e servizi da tanto.

Non è concepibile vita senza programmazione coordinamento della serie di atti in cui essa si
sviluppa.
Non è concepibile attività d’impresa senza l’impiego coordinato di fattori produttivi
(capitale e lavoro) propri e/o altrui.
La funzione organizzativa si concretizza nella creazione di un apparato produttivo stabile e
complesso formato da persone e beni strumentali (macchinari, locali,materie prime e
merci).
Così il legislatore quando qualifica l’impresa come attività organizzata e pone rilievo al
potere direttivo e la supremazia gerarchica dell’imprenditore quando definisce l’azienda
come il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa
(art2555).
[altri articoli su cui si fonda tale principio :

art 2086
“L'imprenditore è il capo dell'impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi
collaboratori .”
Art 2094
“È prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a
collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle
dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore “ ]

Non è necessario che l’imprenditore abbia per oggetto anche altrui prestazioni lavorative
autonome o subordinate.
Imprenditore è anche chi opera utilizzando solo il fattore capitale e lavoro proprio senza dar
vita ad alcune organizzazioni Intermediatrice del lavoro.
- Si pensi ad esempio ad una gioielleria gestita da solo titolare alle imprese produttrici
di servizi automatizzati (lavanderia automatica gettoni, sale videogiochi) che possono
operare senza alcun dipendente.

La conclusione è che l’organizzazione imprenditoriale può essere anche organizzazione di


soli capitali e del proprio lavoro intellettuale o manuale.
Non è necessario inoltre che l’attività organizzativa dell’imprenditore si concretizzi nella
creazione di un apparato strumentale fisicamente percepibile (locali, macchinari, immobili,
eccetera).
È ben vero che non vi può essere impresa senza impegno di organizzazione di mezzi
materiali ma questi possono ben ridursi al sole impiego di mezzi finanziari propri o altrui
come per le attività di finanziamento o di investimento.
Né si può affermare che in tali casi manca un’organizzazione di tipo imprenditoriale solo
perché manca un apparato aziendale composto da beni mobili ed immobili.

Ciò che qualifica l’impresa e l’utilizzazione dei fattori produttivi (anche il capitale
finanziario è un fattore produttivo) ed il loro coordinamento da parte dell’imprenditore
per un fine produttivo.

In definitiva la qualità di imprenditore non può essere negata sia quando l’attività esercitata
senza l’ausilio di collaboratori, sia quando il coordinamento degli altri fattori produttivi
capitale lavoro proprio non si concretizzi nella creazione di un complesso aziendale
materialmente percepibile.
IMPRESA E LAVORO AUTONOMO

Il lavoro autonomo consiste nel compimento verso un corrispettivo di un’opera o di un


servizio con lavoro prevalentemente proprio, che il lavoratore svolge senza vincolo di
subordinazione nei confronti del committente.
Tale definizione discende dall’articolo 2222 che disciplina il contratto d’opera.

Si è posto il problema se si possa parlare di impresa anche quando il processo produttivo si


fonda esclusivamente sul lavoro personale del soggetto agente.
Quando cioè non vengono utilizzati direttamente o indirettamente ne il lavoro altrui ne i
capitali propri o altrui e perciò faccia difetto la cosiddetta ETEROORGANIZZAZIONE.

Facciamo dunque riferimento ai prestatori autonomi d’opera manuale e quindi:


- elettricisti,
- idraulici,
- lustrascarpe
o di servizi fortemente personalizzati:
- mediatori,
- agenti di commercio.
Due domande sorgono a questo punto spontanee
1) Questi operatori economici sono sempre comunque imprenditori sia pure piccoli dato
che tale è chi svolge attività di impresa organizzata prevalentemente con il proprio
lavoro (art 2083)?
2) È perciò da escludersi la possibilità di stabilire una linea di confine fra semplice
lavoratore autonomo il piccolo imprenditore?

A questi quesiti si dà dunque una risposta negativa (seppur non mancando dibattiti al
riguardo) in quanto la semplice organizzazione a fini produttivi del proprio lavoro non può
essere considerata organizzazione di tipo imprenditoriale ed in mancanza di coefficiente
minimo di etero organizzazione deve negarsi l’esistenza di impresa sia pure piccola.

Parte della dottrina tuttavia giunge alla conclusione di far leva sulla nozione codicistica di
piccolo imprenditore.
“Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e
coloro che esercitano un'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro
proprio e dei componenti della famiglia”.

Ciò sostiene che è imprenditore anche colui che si limita ad organizzare il proprio lavoro
senza impiegare nel lavoro altrui nei capitali. Imprenditore sarebbe perciò sempre
comunque il lavoratore autonomo e il requisito dell’organizzazione richiesto dall’articolo
2082 andrebbe perciò considerato una pseudo requisito.
Tuttavia la tesi non è condivisibile viene comunque confermato il principio secondo il quale
per essere imprenditori è necessario un minimo di organizzazione di lavoro altrui o di
capitale. In mancanza si avrà semplice lavoro autonomo non imprenditoriale e dunque
semplici lavoratori autonomi restano i prestatori d’opera manuale fino a quando si limitano
ad utilizzare mezzi materiali inespressivi in quanto strumentale allo svolgimento di ogni
attività (telefono, macchina da scrivere, automobile) o strettamente necessaria
l’applicazione delle proprie energie lavorative (la borsa degli attrezzi dell’idraulico
dell’elettricista).
Un esempio pratico potrebbe essere il tecnico della tv che nonostante abbia un suo capitale
composto dal furgoncino e dalla sua valigia degli attrezzi, questi utilizza il furgoncino ed i
suoi attrezzi per mettere in atto il proprio lavoro.

Tutto ciò sempre ricordando che piccola impresa è quella organizzata prevalentemente con
il lavoro proprio e dei familiari e del resto l’organizzazione del lavoro dei familiari è pur
sempre organizzazione del lavoro altrui.
Infatti il requisito delle dell’organizzazione è richiesto per l’imprenditore e piccolo
imprenditore ma non per il lavoratore autonomo articolo 2222.

L’eteroorganizzazione costituisce l'elemento di distinzione fra imprenditore e lavoratore


autonomo. Per diventare piccolo imprenditore diventa necessario intrecciare un serie di
relazioni organizzative tra il proprio capitale o quello di terzi, o il lavoro di terzi con il
proprio lavoro.

ATTIVITA’ D’IMPRESA E SCOPO DI LUCRO

Esaurita l’esposizione dei requisiti espressamente richiesti dal legislatore resta da vedere se
anche ne debbano ricorrere per qualificare un soggetto come imprenditore.
Un primo controverso punto è quello se costituisca requisito essenziale dell’attività
d’impresa l’intento di conseguire un guadagno o profitto personale: lo scopo di lucro.

Bisogna dunque chiedersi se giuridicamente tale movente sia necessario e quindi se debba
essere negata la qualità di imprenditore e l’applicabilità della relativa disciplina qualora
ricorrano tutti requisiti fissati dall’articolo 2082 ma manchi lo scopo di lucro.
La risposta è negativa se lo scopo di lucro si intende come movente psicologico
dell’imprenditore cosiddetto lucro soggettivo, perché è incontestabile che il movente che
anima l’imprenditore è lo scopo di lucro tuttavia non si può far dipendere dal movente e
dalle variabili dizioni di chi opera sul mercato la disciplina dell’imprenditore.
Sì è però già visto che l’attività di impresa è solo quella condotta con metodo economico.
I termini della controversia si risolvono nel seguente interrogativo:
- è sufficiente che l’attività venga svolta secondo modalità oggettive tendenti al
pareggio fra costi ricavi (metodo economico) o è ulteriormente necessario che le
modalità di gestione tendano alla realizzazione di ricavi eccedenti costi (metodo
lucrativo)?
La distinzione tra i due metodi è netta nella teoria ma nella pratica è sfuggente.

Possiamo risolvere dunque tale problematica osservando che la nozione di imprenditore è


una nozione unitaria comprensiva dunque sia dell’impresa privata sia dell’impresa pubblica
e ciò implica che requisito essenziale può essere considerato solo ciò che è comune a tutte
le imprese e a tutti gli imprenditori.

L’impresa pubblica per essere tale è si tenuta ad operare secondo criteri di economicità ma
non è né necessariamente non è di regola preordinata alla realizzazione di un profitto.

Analoghe considerazioni possono essere ripetute per il settore delle imprese private con il
riferimento alle società. È vero infatti che lo scopo di lucro caratterizza il contratto di
società articolo 2247.
Le società sono tenute ad operare con metodo lucrativo, l’attività deve essere rivolta al
conseguimento di utili utile deve essere devoluto ai soci.
- Società però sono anche le società cooperative, la cui attività di impresa è
caratterizzata dallo scopo mutualistico. L’impresa mutualistica rivolte a realizzare un
vantaggio patrimoniale dei soci in quanto tendenzialmente opera per fornire beni o
servizi od occasioni di lavoro direttamente ai membri dell’organizzazione a condizioni
più vantaggiose di quelle che otterrebbero sul mercato.
In virtù di tal motivo non si può ritenere finalizzata al conseguimento di ricavi
eccedenti costi.

- ancor più significativa e poi la disciplina dell’impresa sociale a questo tipo di impresa
è fatto esplicito divieto di distribuire utili in qualsiasi forma ai soci, amministratori,
partecipanti, lavoratori e collaboratori. Nel contempo però si chiede pur sempre che
si svolga un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di
beni o servizi.

In conclusione di fronte alla realtà normativa di impresa pubblica, l’impresa cooperativa,


di impresa sociale, risulta evidente definire requisito minimo essenziale dell’attività
d’impresa l’economicità della gestione e non lo scopo di lucro.
IL PROBLEMA DELL’IMPRESA PER CONTO PROPRIO
Le imprese operano di regola per il mercato, destinano cioè allo scambio i beni o i servizi
prodotti.
- Ma può essere considerato imprenditore anche chi produce beni o servizi destinati ad
uso consumo personale?
- È impresa anche la cosiddetta impresa per conto proprio?

La destinazione al mercato della produzione non è in verità richiesta di alcun dato


legislativo. L’articolo 2082 afferma che è imprenditore chi esercita attività organizzata al
fine della produzione o dello scambio ed offre perciò un argomento letterale per sostenere
che è imprenditore anche l’imprenditore per conto proprio.

È tuttavia largamente prevalente l’opinione contraria che trae origine dalla concezione
economica dell’imprenditore come soggetto che svolge funzione intermediaria fra
proprietari dei fattori produttivi e consumatori.
Ciò induce a ritenere che la destinazione allo scambio della produzione sia implicitamente
richiesta dal carattere professionale dell’attività d’impresa

È più corretta in realtà la tesi minoritaria che non considera la destinazione al mercato un
requisito essenziale dell’attività d’impresa.

Sono dunque imprese per conto proprio


- la coltivazione del fondo finalizzata al soddisfacimento dei bisogni dell’agricoltore
della sua famiglia,
- la costruzione di appartamenti non destinati alla rivendita la cosiddetta costruzione
in economia.

Per poter essere imprenditore requisito essenziale è l’attività produttiva svolta con metodo
economico dunque per quanto detto evidenzia che non vi è incompatibilità fra imprese per
conto proprio ed economicità dato che l’attività produttiva può considerarsi svolta con
metodo economico anche quando i costi sono coperti da un risparmio di spesa o da un
incremento del patrimonio produttivo.

La verità è che l’applicazione della disciplina dell’impresa deve fondarsi su caratteri


oggettivi fissati dall’articolo 2082 DUNQUE LA DESTINAZIONE AL MERCATO NON È UN
ELEMENTO ESSENZIALE per la qualifica di imprenditore.
- Il costruttore in economia deve perciò essere qualificato come imprenditore dato che
è tale di regola anche chi costruisce un singolo immobile, è irrilevante accertare se la
sua intenzione sia quella di vendere l’immobile, di locarlo o di destinarlo a propria
abitazione.
- Analogamente il coltivatore del proprio fondo sarà o meno imprenditore agricolo
quale che sia la destinazione dei prodotti (vendita o consumo personale) a seconda
che ricorrono meno i requisiti oggettivi dell’attività d’impresa.

Non sono imprese per conto proprio


- le aziende costituite dallo Stato da altri enti pubblici per la produzione di beni o
servizi da fornire dietro corrispettivo esclusivamente all’ente di pertinenza
- le società cooperative che producono esclusivamente per i propri soci. Le società
cooperative sono un soggetto di diritto e dunque persona giuridica distinta dei Soci
che la compongono, i soci fruiscono dei beni prodotti dalle società.

IL PROBLEMA DELL’IMPRESA ILLECITA


Una impresa si definisce illecita qualora sia contraria
- A norme imperative,
- All’ordine pubblico
- o al buon costume.

Costituiscono casi classici di impresa illecita


- il contrabbando di sigarette,
- la fabbricazione e lo smercio di droga,
- la gestione organizzata della prostituzione
- l’attività bancaria esercitata senza la prescritta autorizzazione della Banca d’Italia,
- il commercio all’ingrosso senza licenza amministrativa

1) la qualità di imprenditore è riconosciuta anche quando l’attività svolta è illecita?


2) l’illecita dell’impresa preclude L’applicazione della relativa disciplina?

Indubbiamente l’illecito va ripreso e sanzionato non vi è forma di protezione giuridica per


chi svolge attività illecita.
Tuttavia non si può trascurare che anche un’attività di impresa illecita può dar luogo al
compimento di una serie di atti leciti e validi.
È certamente illecito è nullo il contratto con cui il fabbricante di droga acquista la materia
prima necessaria. Ma leciti e validi devono invece ritenersi contratti che lo stesso stipula
con terzi del tutto ignari ad esempio acquisto di macchinari o di mezzi di trasporto.
Ne possono sussistere dubbi in merito alla validità degli atti di acquisto di merci da parte di
un commerciante senza licenza.
In breve, terzi creditori meritevoli di tutela possono esistere anche quando l’attività di
impresa è illecita e perciò l’esposizione al fallimento di chi esercita attività commerciale
illecita non appare più del tutto ingiustificata.
È ormai pacifico che tale tipo di illecito non impedisce l’acquisto della qualità di
imprenditore e con pianezza di effetti fermo restando l’applicazione delle previste sanzioni
amministrative e penali.
In particolare è pacifico che il titolare di un’impresa illegale sia esposto al fallimento.

Tra le imprese illecite troviamo:

 IMPRESA ILLEGALE  il caso in cui l’illiceità consista nello svolgimento di un’attività in


mancanza dell’autorizzazione eventualmente richiesta dalla legge,
in violazione a norme imperative che ne subordini l’esercizio a
concessione o autorizzazione amministrativa (banca di fatto,
commercio senza licenza)

 IMPRESA IMMORALE  qualora l’illecito sia l’oggetto stesso dell’attività


Temendo che per tutelare i terzi e strani all’illecito si finisca col
dover tutelare anche chi dell’illecito è stato autore o complice si
esorcizza negando l’esistenza dell’impresa.
Tuttavia vale anche in questo caso il principio generale
dell’ordinamento ovvero che da un comportamento illecito non
possono mai derivare effetti favorevoli per l’autore dell’illecito ma
da esso possono derivare atti validi e leciti meritevoli di tutela.
Perciò anche chi esercita attività commerciale illecita È
imprenditore ed in quanto tale potrà fallire al pari di tutti gli altri.

 IMPRESA MAFIOSA  qualora l’oggetto sia lecito ma vi è alle spalle un’organizzazione


Criminale.
Identici principi possono e debbono essere applicati quando
nonostante la liceità dell’oggetto dell’attività, l’impresa costituisca
lo strumento per il perseguimento di un disegno criminoso, come
accade, ad esempio, quando essa costituisca mezzo per riciclare
denaro di provenienza illecita.
IMPRESA E PROFESSIONI INTELLETTUALI
Esistono attività produttive per le quali la qualifica imprenditoriale è esclusa in via di
principio dal legislatore. E questo il caso delle professioni intellettuali.
Libri professionisti
- avvocati,
- ingegneri,
- notai,
- artisti
- inventori
- …
non sono mai in quanto tali imprenditori.
Si desume dall’articolo 2238 prima comma codice civile in quanto stabilisce che le
disposizioni in tema di impresa si applicano alle professioni intellettuali solo se l’esercizio
della professione costituisce elemento di un’attività organizzata in forma d’impresa.

- È il caso del medico che gestisce una clinica privata nella quale opera,
- del professore titolare di una scuola privata nella quale insegna,
- dell’artista titolare del teatro nella quale recita,
- dell’inventore che sfrutta commercialmente il proprio ritrovato,
- del cantante che organizza i propri concerti.

In tutti questi casi siamo in presenza di due distinte attività, INTELLETTUALE E DI IMPRESA,
e troveranno applicazione nei confronti dello stesso soggetto sia la disciplina specifica
dettata per la professione intellettuale (ad esempio necessità di iscrizione in albi
professionali) sia la disciplina dell’impresa.

Il professionista intellettuale che si limita a svolgere la propria attività non è mai


imprenditore.
Non lo diventa né nel caso in cui si avvalga di mezzi necessari all’esplicazione delle proprie
energie intellettuali ne qualora si avvalga di una vasta schiera di collaboratori e di un
complesso apparato di mezzi materiali dando così vita ad un’organizzazione complessa di
capitale e lavoro.
Che professionista intellettuale non lo diventi in entrambi casi lo si desume dall’articolo
2238. Il secondo comma specifica infatti che al professionista intellettuale che impieghi
sostituti o ausiliari si applicano le disposizioni delle sezioni in materia.
Vale a dire solo le norme che disciplinano il lavoro nell’impresa, ma non la restante
disciplina dell’impresa.
Il codice puntualizza che l’esercizio di una professione non costituisce esercizio di impresa
neppure quando l’espletamento dell’attività professionale richiede l’impiego di mezzi
materiali e dell’opera di qualche ausiliario.
Non è facile trovare una soddisfacente spiegazione del perché i professionisti intellettuali
non diventi in alcun caso imprenditori.
È giocoforza perciò concludere che i professionisti non sono imprenditori per libera opzione
del legislatore ispirata dalla particolare considerazione sociale che tradizionalmente
circonda le professioni intellettuali e che si traduce sul piano legislativo e si concretizza
innanzitutto in una particolare regolamentazione dell’accesso alla professione e del suo
esercizio:
- iscrizione negli albi professionali,
- potere disciplinare degli ordini professionali anche per quanto riguarda le tariffe e gli
onorari,
- divieto di esercizio per i non iscritti agli albi professionali.
Si parla perciò di professioni protette riservate.

In questo caso si inserisce anche l’esonero dei professionisti intellettuali dallo statuto
dell’imprenditore con i suoi vantaggi ovvero la sottrazione al fallimento.

È pacifico che sia imprenditore commerciale il farmacista, benché qualificato per legge
come professionista intellettuale in quanto oggetto prevalente dell’attività del farmacista e
la vendita al pubblico di specialità farmaceutiche acquistate delle case produttrici la
farmacista e clienti intercorrono pertanto rapporti di compravendita e non di prestazione
d’opera intellettuale.
LE CATEGORIE DI IMPRENDITORI

Nel nostro sistema giuridico la disciplina delle attività economiche ruota intorno alla figura
dell’imprenditore per quale legislatore dà una definizione generale nell’articolo 2082.
La disciplina dettata non è però identica per tutti gli imprenditori.
La fattispecie impresa non è fattispecie a disciplina unitaria.
Il codice di civile distingue infatti diversi imprese imprenditori in base a tre criteri di
selezione:

1) all’oggetto dell’impresa,
A. imprenditore AGRICOLO (art 2135cc)
B. imprenditore COMMERCIALE (si ricava in negativo dall’imprenditore agricolo)

2) alle dimensioni dell’impresa,


C. PICCOLO IMPRENDITORE (art 2083cc)
D. MEDIO-GRANDE (si ricava in negativo dal piccolo imprenditore)

3) alla natura del soggetto che esercita l’impresa


E. IMPRESA INDIVIDUALE
F. COLLETTIVA (società)
G. PUBBLICA

I tre criteri si fondano quindi su dati diversi oggetto, dimensione, natura del soggetto che
possono essere appunto cumulati adesso empio nel contempo un’impresa può essere
commerciale non piccola ed individuale.
Tali diverse categorie sono soggette a diversi obblighi è quindi importante stabilirne la
natura.
A. IMPRENDITORE AGRICOLO
Art 2135 cc
“È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività:
- coltivazione del fondo, (semina, cura, raccolta floricultura)
- selvicoltura, (legname)
- allevamento di animali
- e attività connesse .

Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le
attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del
ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il
bosco o le acque dolci, salmastre o marine .
Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore
agricolo, dirette alla
- manipolazione, - trasformazione, - valorizzazione
- conservazione, - commercializzazione
che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o
del bosco o dall'allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o
servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda
normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di
valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, o di ricezione ed ospitalità
come definite dalla legge” (agriturismo)

Le attività agricole possono perciò essere distinte in due grandi categorie:


- attività agricole essenziali
- attività agricole per connessione.

 ATTIVITA’ AGRICOLE ESSENZIALI


Le attività agricole essenziali sono
o la coltivazione del fondo Per coltivazione del fondo si intende l’attività di
sfruttamento delle risorse naturali della terra ed è un’attività
tipica in agricoltura.
È necessario lo svolgimento di un’effettiva opera di
coltivazione del fondo anche utilizzando macchinari o
dipendenti.
Non è sufficiente la raccolta dei frutti che la terra produce
spontaneamente.
Rientrano quindi nella coltivazione del fondo: L’orticoltura,
le coltivazioni in serra o in vivai, la floricoltura, le coltivazioni
fuori terra di ortaggi e frutta.
o La selvicoltura o coltivazione del bosco  Essa deve essere concepita come attività
caratterizzata dalla cura del bosco per ricavarne
i relativi prodotti.
Non costituisce perciò l’attività agricola
l’estrazione di legname disgiunta dalla
coltivazione del bosco.
Non è sufficiente quindi solo la raccolta del
legname ma ci deve essere anche la produzione
del legname. (Il soggetto che svolge un’attività
di taglio e vendita della legna non si qualifica
come agricolo ma come commerciale)

o l’allevamento di animali  è la forma di attività agricola essenziale più ricca ed è


perciò quella che ha determinato in passato i più vivaci
contrasti.
Per allevamento di animali si deve intendere non solo
l’allevamento diretto ad ottenere prodotti tipicamente
agricoli come la carne, il latte, la lana, animali da lavoro, ma
anche allevamento di cavalli da corsa o di animali da pelliccia
nonché l’attività cinotecnica, cioè volta all’allevamento, alla
selezione e all’addestramento delle razze canine e
ovviamente anche l’allevamento di gatti.
(Legge 23/8/1993 numero 349).
Con la sostituzione del termine bestiame con quello più
ampio di animali tronca ogni incertezza sulla possibilità di
qualificare come impresa agricola essenziale non solo
l’allevamento di animali tradizionali (bovini ovini caprini
equini e sugli) ma anche allevamento di animali da cortile
(polli, conigli, eccetera) e persino l’apicoltura. Nessun dubbio
può sussistere in merito alla natura della attività di
acquacoltura (pesce mitili), infine all’imprenditore agricolo
essenziale è stato equiparato l’imprenditore ittico ovvero chi
esercita l’attività di pesca professionale nonché le attività a
questa connesse.

N.B. Appare evidente quanto il progresso tecnologico abbia notevolmente influenzato


l’imprenditore agricolo in quanto non pochi sono stati i contrasti su di esso.
Il progresso tecnologico ha consentito di ottenere prodotti merceologicamente agricoli con
metodi che prescindono del tutto dallo sfruttamento della terra e dei suoi prodotti.
Si pensi alle coltivazioni artificiali o fuori terra, si pensi agli allevamenti in batteria condotti
in capannoni industriali e con mangimi chimici.
L’impresa agricola fondata sul semplice sfruttamento della produttività naturale della terra
permane ancora in certe zone del nostro paese ma cede sempre più il passo ad un altro tipo
di agricoltura: l’agricoltura industrializzata ovvero altamente meccanizzata.
In breve anche oggi l’attività agricola può dar luogo ad ingenti investimenti di capitali e
sollevare sul piano giuridico esigenze di tutela del credito non diverse da quelle che sono
alla base della disciplina delle imprese commerciali.
Questa situazione ha fatto sì che vi siano non pochi contrasti nell’interpretazione della
nozione in quanto era necessario stabilire fino a che punto l’evoluzione tecnologica
dell’agricoltura fosse compatibile con la qualificazione agricola dell’impresa agli effetti del
codice civile.
Vi era infatti chi riteneva che l’impresa impresa agricola fosse ogni impresa che producesse
specie vegetali o animali, ogni forma di produzione fondata sullo svolgimento di un ciclo
biologico naturale.
All’opposto vi era chi riteneva che doveva essere dato rilievo anche al modo di produzione
tipico dell’agricoltura e quindi doveva essere qualificato imprenditore commerciale chi
producesse specie vegetali o animali in modo del tutto svincolato dal fondo agricolo e dello
sfruttamento della terra.

Con la recente riforma il legislatore ha decisamente optato per la prima impostazione e in


base alla nuova nozione si deve perciò ritenere che la produzione di specie vegetali e/o
animali è sempre qualificabile giuridicamente come attività agricola essenziale anche se
realizzata con metodi che prescindono del tutto dallo sfruttamento della terra e dei suoi
prodotti.

 ATTIVITA’ AGRICOLE CONNESSE


La seconda categoria di attività agricole è costituita dalle attività agricole per connessione.
In base al terzo comma dell’attuale articolo 2135 si intendono attività connesse:

a) Le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione,


commercializzazione e valorizzazione di prodotti ottenuti prevalentemente da una
attività agricola essenziale

b) le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione prevalente di


attrezzature o risorse dell'azienda normalmente impiegate nell'attività agricola
esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio
rurale e forestale, o di ricezione ed ospitalità.
Le une e le altre sono attività oggettivamente commerciali sono però considerate per legge
attività agricole quando sono esercitate in connessione con una delle tre attività agricole
essenziali.
La presenza di tale legame neutralizza la qualifica oggettiva di imprenditore commerciale e
impedisce ad esempio che il viticoltore assommi in sé la duplice qualità di imprenditore
agricolo e imprenditore commerciale per il fatto di trasformare l’uva prodotta in vino.

Dunque possiamo notare che vi sono due condizioni necessarie riguardo:

- la connessione soggettiva  quando il soggetto che esercita attività sia già


qualificabile come imprenditore agricolo e inoltre
L’attività è coerente con quella connessa.
Quindi è certamente imprenditore commerciale chi
trasforma o commercializza prodotti agricoli altrui ed è
parimenti imprenditore commerciale il viticoltore che
produce formaggi.

- la connessione oggettiva  È necessario che si tratti di attività aventi ad oggetto


prodotti ottenuti prevalentemente dall’esercizio
dell’attività agricola essenziale ovvero di beni o servizi
forniti mediante l’utilizzazione prevalente di
attrezzature o risorse dell’azienda agricola.
In breve è sufficiente che le attività connesse non
prevalgano per rilievo economico sull’attività agricola
essenziale.

LA DISCIPLINA DELL’IMPRENDITORE AGRICOLO

La disciplina dell’imprenditore agricolo si differenzia sotto molteplici aspetti da quella


propria dell’imprenditore commerciale.
In generale si tratta di un regime giuridico semplificato per via del maggior rischio
sopportato (condizioni climatiche, ciclo di vita annuale)
È sottoposta a un regime giuridico semplificato in quanto

- non è obbligato alla tenuta delle scritture contabili,


- non è soggetto alle procedure del fallimento e del concordato preventivo,
- non è soggetto all’obbligo di iscrizione registro delle imprese ma in una sezione
speciale del registro con efficacia di opponibilità ai terzi.

(decreto legislativo 29 marzo 2004 numero 99)


Si definisce imprenditore professionale agricolo chi, in possesso di conoscenze e
competenze professionali dedichi alle attività agricole direttamente o in qualità di socio
almeno 50% del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dalle attività medesime
almeno il 50% del proprio reddito globale.

L’articolo 2136 cc dispone che:


“Le norme relative alla iscrizione nel registro delle imprese non si applicano agli
imprenditori agricoli, salvo quanto è disposto dall'articolo 2200”.

Art 2200 Stabilisce che sono soggette all’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese le
società cooperative anche se non esercitano un’attività commerciale dunque
anche le società cooperative agricole.

Il registro delle imprese  è lo strumento di pubblicità prevista dal legislatore sia per le
imprese individuali che collettive.
Chiunque può prendere visione per valutare l’affidabilità e la
consistenza economica dell’impresa.

SPECIFICAZIONI
Questa norma ha subito una modifica radicale, nel 2001 legislatore è intervenuto perché la
vecchia disposizione forniva una serie di problemi E nel tentativo di risolverli è finito per
allargare la definizione di imprenditore agricolo.
- Quali erano i problemi?
- Come sono stati risolti?
La vecchia disposizione era molto più scarna:
“è imprenditore agricolo colui che si dedica alla coltivazione del fondo, alla selvicoltura,
allevamento del bestiame e ad ogni altra attività connessa.”
Le prime le prime tre sono attività essenziali, le attività connesse sono invece quelle dirette
alla trasformazione e alienazione dei prodotti agricoli qualora rientrino nell’esercizio
normale dell’agricoltura.

Questa vecchia disposizione individua dunque due categorie:


- coloro che svolgevano un’attività agricola essenziale
- e coloro che la eseguivano per connessione.

problematica: per essere considerata attività agricola e quindi per giustificarne la tutela
rispetto all’imprenditore commerciale anche se la norma non lo dice occorreva un
collegamento con il fondo.
Questo portava escludere tutte le attività svolte fuori terra e quindi
- le attività in serra,
- allevamento di animali batteria
- o allevati per via di mangimi.

Secondo problema
Cosa si intende per allevamento di bestiame?
Comprende tutti quegli animali di grossa o media taglia da carne, da latte o da lavoro
allevati sul fondo.
Restano fuori gli animali da cortile si pensi
- ai conigli,
- alle galline,
- alla apicoltura,
- cavalli da corsa,
- cambi razza,
- gatti.
Erano tutti fuori dalla definizione di imprenditore agricolo.
E se per i cani di razza e cavalli da corsa si poteva applicare la disciplina dell’imprenditore
commerciale per gli altri no.
Fecero dunque rientrare quelle attività tra le attività connesse atipiche
Nella articolo 2135 la norma dice
“si reputano attività connesse”
lascia quindi intendere che vi è una presunzione, lasciando la porta aperta ad altre attività
non rientranti nella norma.
Per capire inoltre se una attività è connessa devo capire i parametri di riferimento.
La dottrina ha individuato due criteri se sussistono questi due criteri allora risulta essere
un’attività connessa: connessione soggettiva e connessione oggettiva.

Nel 2001 la norma viene completamente stravolta innanzitutto non si parla più di bestiame
ma di animali e dunque in questo modo si possono far rientrare anche tutte quelle
categorie inizialmente fatte rientrare tra le attività connesse atipiche e quindi cani di razza ,
cavalli da corsa, montataurina.

Il secondo comma specifica anche che rientrano tra imprenditori agricoli anche quelle
attività connesse alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico.
Questo vuol dire che non devo occuparmi della bonifica del terreno fino alla fine
l’importante è che mi dedichi una parte necessaria.
Cosa vuol dire? ci sono terreni che prima di essere seminati periodicamente devono essere
bonificati quindi gli agricoltori chiamano un terzo per svolgere questa attività di bonifica del
terreno.
Questa norma ci dice che adesso anche l’imprenditore che fa l’attività di bonifica è un
imprenditore agricolo perché è una pratica necessaria per lo sviluppo del ciclo biologico.

Se semino il grano devo chiamare chi si occupa della trebbiatura che taglia imballa e pesa il
grano e poi il grano parte per i vari mercati, secondo tale disposizione anche chi si occupa
della trebbia è un imprenditore agricolo perché essa è una fase necessaria.

Sempre nel secondo comma il legislatore utilizza la frase :


“utilizzano o possono utilizzare il fondo il bosco o le acque salmastre dolci o salate”
dunque questo ci dice che può anche non esserci il collegamento con il fondo e quindi
vanno compresi tutti gli allevamenti in batteria, tutti i vivai, le serre e anche chi alleva trote
nelle vasche.

La definizione di imprenditore agricolo è stata talmente allargata che la differenza con


l’imprenditore commerciale è minima e lo dimostra il sistema di pubblicità.

Nel registro delle imprese vi è una sezione ordinaria che produce effetti legali all’interno
della quale è tenuto ad iscriversi l’imprenditore commerciale e una sezione speciale che
non produce effetti legali ma serve per la pubblicità e per una questione anagrafica per
capire quali imprese sono sul territorio e quindi la certificazione anagrafica.

Nel 2001 l’imprenditore agricolo resta iscritto nella sezione speciale ma con gli effetti della
sezione ordinaria per quanto riguarda l’opponibilità ai terzi.

B. IMPRENDITORE COMMERCIALE
L’imprenditore commerciale non è espressamente disciplinato dal codice civile ma viene
ricavato per differenza.
Una norma di riferimento tuttavia, benché non riferite all’imprenditore commerciale ma
abbiamo ovvero l’articolo 2195 c.c.

“Sono soggetti all'obbligo dell'iscrizione, nel registro delle imprese gli imprenditori che
esercitano :
1) un'attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi ;
2) un'attività intermediaria nella circolazione dei beni ;
3) un'attività di trasporto per terra, per acqua o per aria;
4) un'attività bancaria [1834] o assicurativa;
5) altre attività ausiliarie delle precedenti.

Le disposizioni della legge che fanno riferimento alle attività e alle imprese
commerciali si applicano, se non risulta diversamente, a tutte le attività indicate in
questo articolo e alle imprese che le esercitano”.
1) un'attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi
Parliamo del settore delle imprese INDUSTRIALI:

- Automobilistiche,
- chimiche,
- edili,
- tessili.
Darà dunque vita dunque ad un’impresa commerciale industriale ogni attività di impresa nel
settore della produzione che sia qualificabile come attività industriale.

2) un'attività intermediaria nella circolazione dei beni ;


Parliamo del settore del commercio.
Il commerciante acquista beni e li rivende agli altri intermediari (commercio all’ingrosso) o
ai consumatori (commercio al minuto) dando vita ad una serie di operazioni di scambio.

3) un'attività di trasporto per terra, per acqua o per aria;


Sono specifici servizi che consistono nello spostare persone o cose da un luogo all’altro.

4) un'attività bancaria [1834] o assicurativa;


L’impresa bancaria ha per oggetto tipico la raccolta del risparmio tra il pubblico e l’esercizio
del credito.
Attività bancaria è un’attività di intermediazione nella circolazione di quel particolare bene
che il denaro.

5) altre attività ausiliarie delle precedenti.


È questa la categoria di imprese commerciali dai contorni più elastici data la generalità del
criterio di identificazione: ausiliarietà.
Rientrano certamente le imprese di agenzia, di mediazione, di deposito, di commissione, di
spedizione, di pubblicità commerciale, di marketing.

Tutte queste attività possono in realtà ridursi in due categorie perché:


- L’attività di trasporto per aria acqua e terra altro non è che una produzione di un
servizio;
- l’attività bancaria oltre ad essere un’attività di intermediazione del bene denaro è
anche un servizio ( cassaforte o deposito titoli)
- l’attività assicurativa che consiste nell’assumersi un rischio dietro pagamento di un
premio è una produzione di un servizio
- l’ attività ausiliaria caratterizzata dal fatto di essere esercitata da un imprenditore a
favore di un altro rientra nella produzione di beni servizi.
Come abbiamo ben potuto constatare le cinque attività possono sintetizzarsi in due sole
categorie che guarda caso risultano essere quelle definite dall’articolo 2082 nella
definizione di imprenditore.
L’unico elemento dunque che differenzia l’attività propria di ogni imprenditore e l’attività
svolta dall’imprenditore commerciale a ben vedere risulta quindi essere il requisito
dell’industrialità.
- Quando un’attività e industriale?
- Cosa si intende per industriale?

È imprenditore industriale colui che utilizza materie prime e le trasforma in prodotti finiti
che li vende sul mercato. È industriale anche l’attività di chi semplicemente fornisce un
servizio come ti gestisce un ristorante o una scuola privata.

Ma secondo questa definizione posso inserire all’interno quelle attività di estrazione del
petrolio, o la vendita di semilavorati?
I semilavorati non sono una trasformazione e non sono neanche un prodotto finito mentre
le attività di estrazione del petrolio non sono secondo a questa definizione ne commerciali
nell’attività agricole.

Dove dunque vengono collocate queste attività?

PRIMA INTERPRETAZIONE: IMPRESA CIVILE


Nasce la teoria dell’impresa civile formulata dalla dottrina.
Tutte quelle attività che non trasformano la materia prima in prodotto finito e dunque non
sono né commerciali né agricole (Perché chi estrae il petrolio non è un’attività di
coltivazione del fondo) rientrano tra le IMPRESE CIVILI.
LE IMPRESE CIVILI sono dunque individuate in base ad un criterio meramente negativo
ovvero quello di non poter essere qualificate né come agricole né come commerciali.
L’IMPRENDITORE CIVILE sarebbe soggetto solo allo statuto generale dell’imprenditore
quello dell’imprenditore commerciale. Perciò non fallirebbe.
Sarebbero dunque imprese non commerciali e perciò civili:
- le imprese che producono beni senza trasformare materie prime quali le imprese
minerarie,
- le imprese che producono servizi senza trasformare materie prime che non rientrino
fra le imprese produttrici di servizi disciplinati dall’articolo 2195 ad esempio
 imprese di pubblici spettacoli,
 agenzie matrimoniali,
 investigative,
 per il collocamento di domestici.
La tesi in esame ritiene inoltre che si parla di attività intermediaria qualora ricorra sia
l’acquisto sia la vendita di beni.
Imprenditore non commerciale e perciò civile sarebbe chi aliena dietro corrispettivo i propri
beni, in tal caso si avrebbe attività di scambio ma non attività intermediaria.

La teoria dell’impresa civile non è però condivisa dalla dottrina prevalente in quanto si
ritiene che altro sia il significato da attribuire ai requisiti dell’industrialità e
dell’intermediazione.
Il problema della non applicabilità dell’impresa civile nasce appunto come conseguenza
pratica: quale disciplina applicare all’impresa civile?
La legislatura non ha previsto alcuna disciplina al riguardo se non quelle di carattere
generale 2082 e 2083.

L’obiettivo per risolvere tale discrepanza era reinterpretare il requisito dell’industrialità e


qui entra in gioco la seconda interpretazione.

SECONDA INTERPRETAZIONE
che cos’è dunque un’impresa industriale?
Sono industriali tutte quelle attività non annoverabili nell’ambito delle attività artigiane.
È industriale quell’ attività che non è artigiana.
Interpretazione nota quando era in vigore ancora la legge 860 del 1956 dove effettivamente
vi era una nozione di attività artigiana perché l’articolo primo della vecchia legge diceva che
si doveva trattare di un’attività di natura artistica o usuale che riportava l’impronta del
suo titolare quindi tutto ciò che non ha queste caratteristiche è attività industriale e
dunque commerciale.
Tutto questo andava bene fino a quando non è stata riformulata la nozione di impresa
artigiana.
Oggi infatti non si è più la natura artistica e usuale dei prodotti perché si possono produrre
anche semilavorati.
Dunque ancora non riusciamo a risolvere il problema con questa definizione.

TERZA INTERPRETAZIONE
Terza ed ultima interpretazione accolta da tutti è la seguente:
È IMPRENDITORE COMMERCIALE COLUI CHE NON SVOLGE UN’ATTIVITÀ AGRICOLA.
E industriale dunque e quindi commerciale un’attività non agricola.
Se sappiamo chi è imprenditore agricolo sappiamo in negativo chi è l’imprenditore
commerciale e sappiamo quindi quale disciplina applicare.
RICAPITOLANDO
1. abbiamo una norma di riferimento la 2195 per definire l’imprenditore commerciale in
quanto tali imprese hanno l’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese.
2. In questa norma abbiamo cinque categorie ridotte a due in quanto ricordano
l’articolo 2082 dove si parla di produzione o scambio di beni o servizi aggiungendo il
requisito dell’industrialità.
3. Qual è quindi il significato di industriale? Vi sono tre teorie
a) la prima riguarda l’impresa civile
b) la seconda paragona l’attività industriale a
quell’attività che non è un artigiano
c) l’ultima teoria quella accolta da tutti.

C. PICCOLO IMPRENDITORE
La dimensione dell’impresa è il secondo criterio di differenziazione della disciplina degli
imprenditori.
Il piccolo imprenditore
- È sottoposto allo statuto generale dell’imprenditore.
- È esonerato anche se esercita attività commerciale della tenuta delle scritture
contabili.
- È altresì esonerato dal fallimento e dalle altre procedure concorsuali
dell’imprenditore commerciale.
- L’iscrizione nel registro delle imprese originariamente scusa alla funzione di pubblicità
notizia.

Certo è però che individuare chi sia piccolo imprenditore ai fini del codice civile non è stato
fino a qualche anno fa problema di agevole soluzione.
E ciò perché il piccolo imprenditore era definito con criteri non coincidenti sia dal codice
civile sia dalla legge fallimentare.

 IL PICCOLO IMPRENDITORE NEL CODICE CIVILE


Art 2083 cc
“Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli
commercianti e coloro che esercitano un'attività professionale organizzata
prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia.”

Tale norma enuncia il criterio generale di individuazione della categoria: la prevalenza del
lavoro proprio e familiare costituisce il carattere distintivo di tutti i piccoli imprenditori.
Dunque per aversi piccola impresa è necessario che l’imprenditore presti il proprio lavoro
nell’impresa, il suo lavoro e quello degli eventuali familiari che collaborano nell’impresa
prevalgano sia rispetto al lavoro altrui sia rispetto al capitale investito nell’impresa.

La prevalenza del lavoro familiare sugli altri fattori produttivi deve intendersi in senso
qualitativo-funzionale e non come prevalenza quantitativo-aritmetica.

È necessario cioè accertare se l’apporto personale dell’imprenditore e dei suoi familiari


abbiano rilievo preminente nell’organizzazione dell’impresa e caratterizzino i beni o servizi
prodotti.

o ANALIZZIAMO BENE LA NORMA

Abbiamo un primo problema:


comprendere quante figure di piccolo imprenditore elenca la norma

da un punto di vista letterario le figure sono quattro di cui tre nominate e quindi
- i coltivatori diretti del fondo
- gli artigiani
- e piccoli commercianti
una categoria generale
- la prevalenza del lavoro proprio e familiare.

Dunque stando a quanto detto quale criterio devo utilizzare per sapere se un artigiano è un
piccolo imprenditore, se un coltivatore è un piccolo imprenditore?

1) Prima interpretazione
L’articolo 2083 individua un’unica categoria: quella generale.
Sono piccoli imprenditori coloro che rispettano il criterio della prevalenza.
Le prime tre categorie hanno carattere meramente esemplificativo.

Tale interpretazione non è accolta dalla maggioranza della dottrina e giurisprudenza


essenzialmente perché essendo il nostro ordinamento un sistema di civil Law ogni parola
utilizzata dal legislatore ha un suo significato.

2) Seconda interpretazione
abbiamo si tre figure nominate ma la categoria generale serve a delimitare le prime
tre.
Il criterio della prevalenza dunque serve ad individuare le prime tre cioè a capire
quando queste tre sono piccoli imprenditori.
L’elemento fondamentale è dunque il criterio di prevalenza perché serve a farti capire
quando una categoria è definibile come piccolo imprenditore.

Cosa si intende per prevalenza?


Stando all’interpretazione letterale della norma la prevalenza è riferita alla prevalenza del
lavoro proprio e dei propri familiari rispetto al lavoro altrui, ma non solo, tale criterio va
interpretato non solo in termini quantitativi , ma anche secondo un criterio qualitativo
funzionale
Il lavoro proprio e dei propri familiari deve prevalere non solo sul lavoro altrui ma anche sul
capitale investito.
Non può qualificarsi piccolo imprenditore chi pur non avendo alcun dipendente è titolare di
un grande complesso industriale completamente industrializzato, né è piccolo imprenditore
chi si occupa personalmente della lavorazione e vendita di diamanti di enorme valore.

 IL PICCOLO IMPRENDITORE NELLA LEGGE FALLIMENTARE


Anche la legge fallimentare fissava una definizione di piccolo imprenditore definizione che
allungo ha costituito un vero rompicapo per interpreti e che è stata più volte radicalmente
formulata

La versione originaria dell’articolo uno secondo comma della legge fallimentare del 1942
stabiliva:

“Sono considerati piccoli imprenditori

- gli imprenditori commerciali, i quali sono stati riconosciuti in siede di


accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, titolare di un
reddito inferiore al minimo imponibile.
erano da considerare piccoli imprenditori commerciali coloro che non erano
assoggettati all’imposta di ricchezza mobile

- sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori commerciali nella cui


azienda risulta essere stato investito un capitale non superiore a 900mila
lire.

- In nessun caso sono considerati imprenditori (le società commerciali in quanto le


forme societarie davano una presunzione di non piccolezza).”
Il piccolo imprenditore era quindi individuato in base esclusivamente a parametri monetari
e quindi con criterio palesemente non coincidente con quello fissato dal codice civile della
prevalenza funzionale del lavoro familiare.
Da qui la necessità di trovare un coordinamento fra le due norme.

Nella formulazione originale di questa norma erano da considerare piccoli imprenditori


quelli non assoggettati a procedure del fallimento e alle procedure concorsuali norma 2221
codice civile
È un piccolo imprenditore se rispetta il criterio di prevalenza come riportato dalla articolo
2083 e quindi in caso di insolvenza stando all’articolo 2221 non è soggetto alle procedure
concorsuali.

Quindi coloro che non dovevano pagare l’imposta di ricchezza mobile e chi non aveva
investito un capitale maggiore 900 mila lire non venivano inclusi nella legge fallimentare e
dunque risultavano essere piccoli imprenditori.

Questa norma introduce un criterio diverso da quello disposto dell’articolo 2083 tuttavia
negli anni 70 e precisamente nel 1973 l’imposta di ricchezza mobile è stata eliminata ed è
stata sostituita dall’Irpef (imposta sul reddito delle persone fisiche) che tutti pagano a
prescindere dal lavoro svolto.
Il criterio del reddito fissato dalla legge fallimentare non era perciò più applicabile per
implicita abrogazione della relativa previsione normativa.

Eliminato l’imposta di ricchezza mobile viene meno un criterio, restano dunque altri due:

1) PRESUNZIONE DI NON PICCOLEZZA DELLE SOCIETA’ COMMERCIALI


2) IL CRITERIO DEL CAPITALE INVESTITO INFERIORE A 900.000 LIRE
Da sempre considerato inefficiente perché negli anni 70 e 900.000 lire sono da
considerarsi oggi circa 400 € ciò dunque porta a considerare tutti imprenditori medio-
grandi.
Inoltre tale criterio era sussidiario a quello della ricchezza mobile dunque, caduto il
criterio generale cade anche il criterio sussidiario che viene implicitamente abrogato
insieme alla ricchezza mobile.

Per molti anni per la legge fallimentare vi era solo un criterio ovvero quella della
presunzione di piccolezza quindi per l’imprenditore valeva solo il criterio definito
dall’articolo 2083.
Il permanere il valore della sola definizione codicistica di piccolo imprenditore individuale
chiama però non trascurabili inconvenienti pratici in sede di dichiarazione di fallimento.
Accertare in concreto una prevalenza del lavoro familiare sugli altri fattori produttivi non è
sempre agevole. Far dipendere da un requisito così sfuggente le gravi conseguenze anche
penali del fallimento suscitava un diffuso senso di insoddisfazione. Per queste ragioni la
riforma del diritto fallimentare del 2006 a sua volta modificata dal decreto correttivo del
2007 ha reintrodotto un sistema di regole basato su criteri esclusivamente quantitativi e
monetari.

A partire da 2005 ci sono state numerose riforme riguardanti la legge fallimentare.

- Viene reintrodotta la nozione di piccolo imprenditore


- eliminato il riferimento della presunzione di non piccolezza delle società commerciali.
- Vengono inseriti due criteri per individuare i piccoli imprenditori:
o PRIMO CRITERIO: piccoli imprenditori sono coloro che nei tre anni antecedenti
alla dichiarazione di fallimento avevano effettuato
investimenti con un attivo patrimoniale non superiore a 300
mila euro
o SECONDO CRITERIO: aver realizzato nei tre anni antecedenti alla dichiarazione
di fallimento ricavi lordi superiori a 200.000 €.

La riforma del 2005 avuto vita breve perché nel 2007 l’articolo 1 della legge fallimentare
subisce un’ulteriore modifica che apparentemente risolve il problema ma di fatto individua
in maniera definitiva una distinzione tra
- piccolo imprenditore dal punto di vista fallimentare e
- piccolo imprenditore dal punto di vista civilistico.

La riforma del 2005 diceva  “ai fini fallimentari sono da considerarsi imprenditori”
La riforma del 2007  elimina il riferimento al piccolo imprenditore

La nuova disposizione fallimentare non definisce più chi è piccolo imprenditore ma


semplicemente individua alcuni parametri dimensionali dell’impresa al di sotto dei quali
l’imprenditore commerciale non fallisce.

In base all’attuale disciplina non è soggetto al fallimento l’imprenditore commerciale che


dimostri il possesso congiunto dei seguenti requisiti

- Aver avuto nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento un
attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore a euro 300.000

- Aver realizzato in qualunque modo nei tre esercizi antecedenti la data di deposito
dell’istanza di fallimento ricavi lordi per ammontare complessivo annuo non
superiore a 200.000 euro

- Avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore a euro 500.000
Basta aver superato anche solo uno degli indicati limiti dimensionali per essere esposti a
fallimento.
L’onere della prova è a carico del debitore costui dovrà dimostrare di essere sempre stato al
di sotto della soglia di fallibilità se intende contrastare la richiesta di fallimento.

La riforma del 2007 elimina riferimento ai piccoli imprenditori ma di fatto è come se ci fosse
in quanto dispone che non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento l’imprenditore
commerciale che dimostri il possesso congiunto dei requisiti.

Con tale riforma sappiamo quali sono gli imprenditori commerciali che non sono soggetti al
fallimento e quindi i piccoli imprenditori perché essi non sono soggetti a fallimento 2221.

Da qui si deduce quindi che anche la figura dell’artigiano può assumere la connotazione di
imprenditore commerciale e non più solo di piccolo imprenditore, sarà fallibile come
qualsiasi altro imprenditore commerciale solo se risulta in possesso dei tre requisiti, dunque
anche le società commerciali che in precedenza avevano la presunzione di non piccolezza
possono essere esonerati.
Tale legge è valida indipendentemente dalla loro qualifica o meglio ai fini civilistici di piccolo
imprenditore
 IMPRESA ARTIGIANA
L’artigiano è anch’esso menzionato nell’art.2083 c.c. e quindi inquadrato come piccolo
imprenditore.
Prima di tale momento si è assistito a un processo di esclusione dell’artigiano dal panorama
economico, dovuto al fatto che con la Rivoluzione Industriale si erano affermate i
commercianti e i medi e grandi produttori.

Ciò è dimostrato dall’assenza di questa figura nei codici del commercio ottocenteschi.
Con la legge 20 luglio 1862 si istituiva le camere di commercio e arti andando a marcare la
distinzione tra “arti”, da una parte, e “manifatture” e “industria” dall’altra, poi però la legge
20 marzo 1910 n. 120 ha ridefinito in “camera di commercio e industria” incorporando
l’artigianato nella categoria industria.

La legislazione corporativa del 1925 ha sensibilmente rilanciato il settore dell’artigianato e


ne consegue una disciplina più organica dello stesso; inizia quindi a prendere corpo la
concezione di artigiano come piccolo industriale.

L’artigiano inteso come produttore di beni di natura artistica o usuale e di specifiche


tipologie di servizi, il quale assume la funzione di direzione e gestione di un’attività a
struttura organizzativa famigliare è stato qualificato nel codice civile come piccolo
imprenditore dal legislatore nel 1942 con l’emanazione del Codice Civile.

La legge 25 luglio 1956 n. 860


Con questa legge viene per la prima volta definito giuridicamente il concetto di
impresa artigiana.

La prima parte dell’art. 1 individua tutti i tratti caratteristici:

“è artigiana, a tutti gli effetti di legge, l’impresa che risponde ai seguenti requisiti
fondamentali:
a) che abbia per scopo la produzione di beni o la prestazione di servizi, di natura artistica
od usuale;
b) che sia organizzata ed operi con il lavoro professionale, anche manuale, del suo titolare
e, eventualmente, con quello dei suoi familiari;
c) che il titolare abbia la piena responsabilità dell’azienda ed assuma tutti gli oneri e i rischi
inerenti alla sua direzione ed alla sua gestione.”
Le novità che sono state introdotte da questa legge sono:
 l’uso di personale dipendente i fini dell’attività con il vincolo della direzione del titolare,
 la mancanza di limiti ai capitali da impiegare e ai mezzi di produzione da utilizzare,
 la diretta partecipazione del titolare sul piano della prestazione,
 la possibilità di esercitare l’attività in forma di cooperativa o di società , con esclusione
di quella in accomandita semplice, della società per azioni, di quella a responsabilità li-
mitata e della società in accomandita per azioni.

La nozione speciale sostituiva quella del codice e della legge fondamentale, il dato
caratterizzante l’impresa artigiana risiedeva nella natura artistica e usuale dei beni o servizi
prodotti e non più nella prevalenza del lavoro familiare nel processo produttivo.
Perciò rispettati i limiti per il personale dipendente l’impresa doveva ritenersi artigiana e
sottratta al fallimento anche quando per gli ingenti investimenti di capitale e manodopera
impiegata non era più rispettato il criterio della prevalenza.

La qualifica artigiana era riconosciuta anche articolo 3 suddetta legge

E' considerata artigiana l'impresa costituita in forma di cooperativa o di


società, escluse le società per azioni, a responsabilità limitata e in
accomandita semplice e per azioni, purché' la maggioranza dei soci partecipi
personalmente al lavoro e, nell'impresa, il lavoro abbia funzione preminente sul
capitale.

Perciò in deroga al vecchio articolo 1 2°comma legge fallimentare le società artigiane


dovevano essere considerate fuori dal fallimento.
Questa situazione e i problemi che aveva sollevato devono ritenersi oggi superati.

LA LEGGE 860 DEL 1956 è STATA ABROGATA DALLA LEGGE QUADRO PER L’ARTIGIANATO
DELL’8/8/1985 n.443

Anche la nuova legge contiene una propria definizione di impresa artigiana, definizione
basata:
a) sull’oggetto dell’impresa  che oggi può essere costituito da qualsiasi attività di
produzione di beni, anche semilavorati, o di prestazioni di
servizi sia pure con alcune limitazioni o esclusioni

b) sul ruolo dell’artigiano nell’impresa  richiedendosi che esso svolga in misura


prevalente il proprio lavoro anche manuale
(ritorna il criterio della prevalenza, criterio soggettivo
alla propria capacità produttiva-lavorativa a differenza
del criterio di prevalenza oggettiva dell’articolo
2083cc)

La legge quadro per l’artigianato

“È imprenditore artigiano colui che esercita personalmente, professionalmente e in qualità


di titolare, l'impresa artigiana, assumendone la piena responsabilità con tutti gli oneri ed i
rischi inerenti alla sua direzione e gestione e svolgendo in misura prevalente il proprio lavo-
ro, anche manuale, nel processo produttivo.”

“è artigiana l’impresa che, esercitata dall’imprenditore artigiano nei limiti dimensionali di


cui alla presente legge, abbia per scopo prevalente lo svolgimento di un’attività di
produzione di beni o di prestazione di servizi, escluse le attività agricole e le attività di
prestazioni di servizi commerciali di intermediazione nella circolazione dei beni o ausiliarie di
queste ultime, di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, salvo il caso che siano
solamente strumentali e accessorie all'esercizio dell'impresa”.

Continuano ad essere imposti per quanto riguarda i dipendenti utilizzabili, ma il personale


dipendente deve essere personalmente diretto dall’artigiano ed è stabilito che
l’imprenditore artigiano può essere titolare di una sola impresa artigiana.

La legge 1985 riafferma la qualifica artigiana alle imprese costituite in forma di società
cooperative o in nome collettivo.
“a condizione che la maggioranza dei soci, ovvero uno nel caso di due soci, svolga in
prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e che nell'impresa il
lavoro abbia funzione preminente sul capitale”
Si badi, il lavoro in genere (proprio o altrui) non quello prestato dai soci.

Tale legge connette all’iscrizione in un apposito albo delle imprese artigiane una serie di
agevolazioni e trattamenti preferenziali.
Come mai dunque per l’imprenditore artigiano esiste una normativa a parte e delle
agevolazioni contributive e fiscali?
Per rispondere a questo quesito dobbiamo dire che la legge 443 ha preso il posto della
legge 860 del 1956 emanata a termine del secondo conflitto mondiale per incrementare
quelle attività che erano state abbattute puntando sulla figura dell’artigiano cercando di
ridurgli i costi in quanto fino a più o meno gli anni 60 la nostra economia era fondata
sull’artigianato, dove il prodotto artigianale era quel prodotto di natura artistico o usuale
che riportava l’impronta dell’imprenditore artigiano (PRODOTTI TIPICI) a loro dunque
venivano concesse delle agevolazioni.

Tale legge è stata poi successivamente sostituita con la legge quadro per l’artigianato che
delinea una figura di imprenditore artigiano differente da quella della legge precedente
tanto è vero che alla luce della nuova legge l’imprenditore artigiano può produrre
semilavorati (quindi sicuramente prodotti che non avranno mai l’impronta dell’artigiano) e
può avere fino a 20 dipendenti.

Viene dunque fuori una figura di artigiano che non giustifica più tali agevolazioni di
carattere fiscale-contributivo ancora concessi agli artigiani. (esistono ancora artigiani nel
senso in cui possiami intenderci e dunque magari creatori di prodotti tipici ma sono pochi )

IMPRENDITORE ARTIGIANO  dalla legge 443 emerge un carattere circolatorio


dell’imprenditore artigiano
ARTICOLO 2 “è imprenditore artigiano chi esercita una impresa artigiana”

ARTICOLO 3 “è artigiana l’impresa esercitata dall’ imprenditore artigiano”

Difatti non emerge una vera e propria definizione ma dall’articolo 2 emergono alcune
caratteristiche, riprendiamo la legge,
è imprenditore artigiano colui che esercita PERSONALMENTE, PROFESSIONALMENTE E IN
QUALITA’ DI TITOLARE, l’impresa artigiana:

PERSONALE PROFESSIONALE IN QUALITA’ DI


TITOLARE
Effettivo esercizio manuale da parte Richiama l’articolo 2082 Titolarità non implica
dell’imprenditore artigiano ma: nella definizione necessariamente
- può generale di proprietà dei beni
avvalersi di dipendenti (fino a 20) imprenditore aziendali perché tale
- può intendendosi come requisito è riferito
essere svolto sotto forma attività da svolgersi in all’impresa artigiana
societaria (srl o sas) modo abituale e non non all’azienda.
dettaglio storico rimasto dalla vecchia occasionale. Un imprenditore per
legge ma non ha valore ai fini della essere artigiano non si
definizione può avvalere di un altro
l’italia vive di dati storici soggetto posto a
dirigere l’impresa (un
istitore), solo
l’imprenditore può
dirigere l’attività
d’impresa una e una
sola!
Inutile Inutile requisito già
presente
L’imprenditore deve svolgere in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel
processo produttivo.

Ritorna il criterio della prevalenza prima analizzato nel 2083 ma non va interpretato come il
2083 cioè come un criterio oggettivo-qualitativo-funzionale, prevalenza del lavoro proprio
o familiare sul lavoro altrui e sul capitale investito.
Nella legge quadro per l’artigianato è un criterio si dice soggettivo ovvero prevalenza del
proprio lavoro nel processo produttivo rispetto (non al lavoro altrui) alla propria capacità
produttiva generale, cioè se io nell’impresa artigiana dedico 10 ore al giorno la mia capacità
produttiva generale è prevalente o sicuramente destinata all’attività artigiana, cioè
raffronto tra il lavoro prestato nell’impresa artigiana e la complessiva capacità lavorativa di
quell’imprenditore.

Ulteriore differenza rispetto alla prevalenza dell’articolo 2082 è la prevalenza del proprio
lavoro “ANCHE MANUALE”.
Il requisito della manualità si dice che non è collegato a quello della prevalenza ma
semplicemente vuol dire che nell’apporto lavorativo che do all’impresa artigiana deve
essere computato anche il lavoro manuale, tuttavia non è un elemento essenziale ai fini
dell’assunzione della qualifica dell’imprenditore artigiano.
L’impresa artigiana può essere costituita in forma di società artigiana e l’articolo 3 al comma
3 della legge quadro per l’artigianato dispone che :

È altresì artigiana l'impresa che, nei limiti dimensionali di cui alla presente legge e con gli
scopi di cui al primo comma:
- è costituita ed esercitata in forma di società a responsabilità limitata con unico socio
- è costituita ed esercitata in forma di società in accomandita semplice (almeno un
accomandatario deve avere i requisiti dell’articolo 2)

si cerca di garantire la personalizzazione dell’attività.

Art.5 legge artigianato : albo


Ricaviamo che può essere costituita anche una srl pluripersonale.
Abbiamo dunque tre forme di società che può assumere l’impresa artigiana:
- srl unipersonale
- srl unipersonale
- sas
L'iscrizione all'albo è costitutiva e condizione per la concessione delle agevolazioni a favore
delle imprese artigiane.

L’imprenditore artigiano è tale se iscritto all’albo, siccome l’imprenditore artigiano è


considerato piccolo imprenditore dall’articolo 2083 non è soggetto a fallimento.
Quindi per l’imprenditore artigiano non varrebbe il principio della prevalenza di cui l’articolo
2083.
Corte costituzionale  il carattere costitutivo cui fa riferimento l’articolo 5 della legge
artigiana va interpretata nel senso che l’iscrizione all’albo è
costitutiva ai fini dell’ottenimento delle agevolazioni di cui ancora
oggi può avvalersi l’imprenditore artigiano

l’imprenditore artigione sarà piccolo imprenditore solo se rispetta il criterio civilistico della
prevalenza così come interpretato ovvero criterio oggettivo qualitativo funzionale
(prevalenza lavoro proprio e dei propri familiari sul lavoro altrui e sul capitale investito)

l’imprenditore artigiano che rispetterà il criterio della prevalenza di cui all’art 2 della legge
artigiana che abbiamo interpretato come prevalenza soggettiva del lavoro nell’impresa
artigiana rispetto alla complessiva capacità lavorativa del soggetto, non è ragione
sufficiente per considerarlo piccolo imprenditore.

La categoria delle imprese artigiane risulta quindi notevolmente ampliata rispetto alla legge
precedente.
- È scomparso ogni riferimento alla natura artistica o usuale dei beni o servizi prodotti
- si qualificano artigiane anche le imprese di costruzioni edili.
- Inoltre la generale elevazione del numero massimo di dipendenti consente di
conservare la qualifica artigiana anche raggiungendo le dimensioni di una piccola
industria di qualità.
L’impresa artigiana certamente si caratterizza ancora per il rilievo del lavoro personale
dell’imprenditore nel processo produttivo.
Da nessuna norma della legge speciale invece consentito desumere che si debba
necessariamente ricorrere anche la prevalenza del lavoro proprio o dei componenti della
sua famiglia sul lavoro altrui sul capitale investito come invece richiesto dall’articolo 2083.

Ne consegue che una società artigiana godrà delle provvidenze di cui godono le altre
imprese artigiane ma in caso di dissesto fallirà al pari di ogni altra società che esercita
attività commerciale se supera i limiti imposti dalla legge fallimentare.
Oggi dunque l’imprenditore artigiano non è che un piccolo industriale e quindi rientra nella
categoria degli imprenditori commerciali perciò al pari di ogni imprenditore commerciale
saranno esonerati dal fallimento sono se in concreto ricorrono i presupposti .

[LA DISTINZIONE TRA PICCOLO E MEDIO GRANDE IMPRENDITORE ci serve a dire che colui
che non rientra nel 2083 sarà sottoposto ove svolga una attività commerciale e/o artigiana
(perché l’impresa artigiana è una particolare forma di impresa commerciale) allo statuto
dell’imprenditore commerciale medio grande da cui però restano escluse le procedure
concorsuali. Perché ai fini fallimentari varranno i criteri quantitativi delineati nel secondo
comma dell’articolo 1 della legge fallimentare. ]
 IMPRESA FAMILIARE

È impresa familiare l’impresa nella quale collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo
grado (fino ai nipoti) e gli affini entro il secondo grado (fino ai cognati) dell’imprenditore:
cosiddetta famiglia nucleare.

Disciplinata dall’articolo 230 bis del codice civile


Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo
continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare ha
diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e
partecipa agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché
agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla
quantità e qualità del lavoro prestato.

Le decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle


inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione
dell'impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano
all'impresa stessa. I familiari partecipanti all'impresa che non hanno la piena
capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi.

Il diritto di partecipazione di cui al primo comma è intrasferibile, salvo che il


trasferimento avvenga a favore di familiari indicati nel comma precedente col
consenso di tutti i partecipi .
Esso può essere liquidato in danaro alla cessazione, per qualsiasi causa, della
prestazione del lavoro, ed altresì in caso di alienazione dell'azienda.
In caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell'azienda i partecipi di cui al
primo comma hanno diritto di prelazione sull'azienda.

Impresa familiare non va confusa con la piccola impresa perché può aversi piccola impresa
senza che l’impresa sia familiare e viceversa. È frequente che la piccola impresa sia anche
familiare fra le due fattispecie non vi è coincidenza. Può aversi piccola impresa che non sia
familiare perché l’imprenditore non abbia familiari o non si avvale della loro collaborazione.

Il lavoro familiare nell’impresa era ed è fenomeno largamente diffuso in precedenza non


era riconosciuto a chi lavorava nell’impresa nessun diritto particolare sia nei confronti del
congiunto imprenditore sia rispetto agli altri membri della famiglia.
Il legislatore ha voluto perciò predisporre una tutela minima ed inderogabile al lavoro
familiare nell’impresa destinata trovare applicazione quando non sia configurabile un
diverso rapporto giuridico (lavoro subordinato, società) e non azionabile altro mezzo di
tutela.
La tutela è realizzata riconoscendo ai membri della famiglia nucleare che lavorino in modo
continuato nella famiglia o nell’impresa determinati diritti patrimoniali e amministrativi.

Sul piano patrimoniale sono conosciuti i seguenti diritti:


- diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia

- diritto di partecipazione agli utili dell’impresa in proporzione alla quantità del lavoro
prestato nell’impresa o nella famiglia,
- diritto sui beni acquistati con gli utili e sugli incrementi di valore dell’azienda
sempre in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato.
- Diritto di prelazione sull’azienda in caso di divisione ereditaria o di trasferimento
della stessa
- Diritto di partecipazione alla gestione dell’impresa è previsto che le decisioni in
merito alla gestione straordinaria e su talune decisioni di
maggior rilievo siano adottate a maggioranza dei familiari
che partecipano all’impresa stessa mentre la gestione
ordinaria spetta all’imprenditore esclusivamente.
- È previsto che il diritto di partecipazione sia trasferibile solo a favore degli altri
membri della famiglia nucleare e con il consenso unanime dei familiari già
partecipanti. Inoltre liquidabile in denaro qualora cessi la prestazione di lavoro (ad
esempio il figlio si sposa e va a vivere altrove) in caso di alienazione dell’azienda.
ESEMPIO:
- Due coniugi possono costituire una società avente per oggetto la produzione la
vendita di scarpe. In questo caso essendo una società troveranno applicazione le
norme in materia di società e quindi si possono assumere come dipendenti figli e
parenti
- Se invece avviano un’attività senza alcun accordo iniziale in cui il marito che si occupa
a tempo pieno dell’impresa e la moglie di collabora saltuariamente con mansioni non
rifinite allora impresa familiare e in questo caso solo all’imprenditore saranno
imputabili gli effetti degli atti posti in essere nell’esercizio dell’impresa e solo lui sarà
responsabile nei confronti dei terzi delle relative obbligazioni contratte infine se
l’impresa commerciale non piccola sono il capo famiglia sarà esposto al fallimento in
caso di dissesto
 NATURA DEL SOGGETTO CHE ESERCITA L’IMPRESA

Il terzo ed ultimo criterio di differenziazione della disciplina dell’impresa è rappresentato


dalla natura giuridica del soggetto titolare dell’impresa. Tre sono le figure espressamente
contemplate legislatore: impresa individuale, impresa societaria ed impresa pubblica.

IMPRESA INDIVIDUALE IMPRESA COLLETTIVA IMPRESA PUBBLICA


Ha il suo vertice in una sola Al suo vertice in più persone Cioè gestito dagli pubblici
persona e su di essa grava il tra le quali viene ripartito il (persone giuridiche che
rischio d’impresa rischio di impresa. attraverso le quali la
L’impresa può essere pubblica amministrazione
composta a sua volta da più esplica la propria attività
imprese (multinazionali) amministrativa) attività di
possono essere private o produzione di beni e servizi
gesti credito in bici con lo scopo di realizzare un
utile da destinare a finalità
istituzionali (aziende
municipali che gestiscono le
rogazione dell’acqua poi la
raccolta dei rifiuti)

LE IMPRESE PUBBLICHE
L’attività di impresa può essere svolta anche dallo Stato e dagli altri enti pubblici.

Ai fini dell’applicazione è tutta via rilevante distinguere fra tre possibili forme di intervento
dei pubblici poteri nel settore dell’economia:

- IMPRESE-ORGANO  Quando lo Stato o altro ente territoriale (regioni, province e


comuni) possono svolgere direttamente attività di impresa
avvalendosi di proprie strutture organizzative prive di
distinta soggettività ma dotate di una più o meno ampia
autonomia decisionale e contabile
In questi casi l’attività di impresa è secondaria ed
accessoria rispetto ai fini istituzionali dell’ente pubblico.
Esempi sono le varie aziende municipalizzate erogatrici di
servizi pubblici acqua gas e trasporti urbani.
- ENTI PUBBLICI ECONOMICI  La pubblica amministrazione può altresì dar vita ad
enti di diritto pubblico il cui compito istituzionale
esclusivo o principale è l’esercizio di attività d’impresa.
Sono questi cosiddetti enti pubblici economici.
Avevano tale veste giuridica numerose banche ad
esempio il banco di Napoli e del Banco di Sicilia, l’Enel
e vari enti di gestione delle partecipazioni statali.
Tuttavia partire dall’inizio degli anni 90 è stato avviato
un radicale processo di ristrutturazione del settore
degli enti pubblici economici per cercare di garantire
una gestione imprenditoriale più efficiente e di ridurre
la spesa pubblica attraverso l’apertura al concorso
finanziario del capitale di rischio privato. Con questi
interventi quasi tutti gli enti pubblici economici sono
stati trasformati in società per azioni a partecipazione
statale e in tempi più recenti è stata avviata la
dismissione delle partecipazioni pubbliche di controllo
in molte di tali società.

- SOCIETA’ A PARTECIPAZIONE PUBBLICA Lo Stato e gli enti pubblici possono infine
svolgere attività di impresa servendosi di strutture di
diritto privato: attraverso la costituzione di società
generalmente per azioni.
Qualora un soggetto pubblico eserciti attività di
impresa in forma societaria si applica lo statuto di
diritto privato dell’imprenditore commerciale.
In tal caso infatti l’impresa si presenta formalmente
come un’impresa societaria privata anche quando
tutte le azioni appartengono allo Stato o ad altro ente
pubblico.

Gli enti pubblici economici sono sottoposti allo statuto generale dell’imprenditore e allo
statuto proprio dell’imprenditore commerciale con una sola eccezione: l’esonero dal
fallimento e del concordato preventivo, sostituiti dalla liquidazione coatta amministrativa o
da altre procedure previste nelle leggi speciali.

Meno agevole è stabilire se e quanta parte dello statuto dell’imprenditore commerciale si


applichi agli enti titolari di imprese-organo.
Gli enti pubblici in via accessoria
- non sono soggetti alla disciplina civilistica,
- non sono imprese commerciali,
- non sono obbligata iscrizione ai registri,
- non sono obbligate alle scritture contabili,
- non sono soggetti a fallimento e alle procedure concorsuali

art 2201
Gli enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo o principale un'attività commerciale sono
soggetti all'obbligo dell'iscrizione nel registro delle imprese.
Art 2221
Gli imprenditori che esercitano un'attività commerciale, esclusi gli enti pubblici e i piccoli
imprenditori, sono soggetti, in caso di insolvenza alle procedure del fallimento e del
concordato preventivo, salve le disposizioni delle leggi speciali.
L’ACQUISTO DELLA QUALITA’ DELL’IMPRENDITORE

L’acquisto della qualità di imprenditore è presupposto per l’applicazione ad un dato


soggetto il complesso di norme dell’ordinamento.

Ma quando si diventa imprenditore?


Per poter affermare che un dato soggetto è diventato imprenditore è necessario che
l’esercizio dell’attività dell’impresa sia a lui giuridicamente riferibile cioè a lui imputabile.
Tuttavia l’articolo 2082 nulla dice in merito al momento in cui deve ritenersi iniziato
l’esercizio dell’impresa con conseguente acquisto della qualità di imprenditore.

ESERCIZIO DIRETTO DELL’ATTIVITÀ D’IMPRESA

È principio generale del nostro ordinamento che centro di imputazione degli effetti dei
singoli atti giuridici posti in essere è il soggetto il cui nome è stato validamente speso nel
traffico giuridico. Solo questi e obbligati nei confronti del terzo contraente.

Se un soggetto opera nell’interesse di un altro soggetto ponendo in essere i relativi atti


giuridici spendendo il nome del mandante gli effetti negoziali si producono direttamente
nella sfera giuridica di quest’ultimo.

Per contro il mandatario che agisce in proprio nome acquista i diritti e assume gli obblighi
derivanti dagli atti compiuti con i terzi anche se questi hanno avuto conoscenza del
mandato. I terzi non hanno alcun rapporto con il mandante.

Il principio formale della splendida del nome domina il nostro ordinamento

È principio generale del nostro ordinamento che gli effetti degli atti giuridici
ricadono sul soggetto e solo sul soggetto il cui nome è stato validamente speso
nel traffico giuridico. Solo questi è obbligato nei confronti del contraente.

La qualità di imprenditore è acquistata con pienezza di effetti dal soggetto il cui nome è
stato speso nel compimento di singoli atti di impresa.

Diventa imprenditore colui che esercita personalmente l’attività di impresa compiendo il


proprio nome gli atti relativi. Non diventa imprenditore il soggetto che gestisce l’altrui
impresa quando operi spendendo il nome dell’imprenditore per effetto del potere della
rappresentanza conferito dall’interessato o riconosciutogli dalla legge.
Perciò quando gli atti di impresa sono compiuti tramite rappresentante l’imprenditore
diventa il rappresentato e non il rappresentante e ciò quand’anche il rappresentante abbia
ampi poteri di decisione e di tali poteri sia invece privo il rappresentato come nel caso del
genitore che gestisce l’impresa quale rappresentante legale del figlio minore in seguito ad
autorizzazione del tribunale.

ESERCIZIO INDIRETTO DELL’ATTIVITÀ D’IMPRESA:


L’IMPRENDITORE OCCULTO

L’esercizio di attività d’impresa può dar luogo ad un fenomeno analogo a quello del
mandatario senza rappresentanza, può cioè da rogo ad una dissociazione fra il soggetto cui
è formalmente imputabile la qualità di imprenditore ed il reale interessato.

È questo il fenomeno dell’esercizio dell’impresa tramite interposta persona.


Altro è il soggetto che compie il proprio nome i singoli atti di impresa: Prestanome, altro è
il soggetto che somministra al primo i necessari mezzi finanziari, dirige di fatto l’impresa e fa
propri tutti guadagni: Il cosiddetto imprenditore occulto in quanto risulta essere il Dominus
dell’impresa pur non palesandosi come imprenditore di fronte ai terzi.

Questo modo di operare non solleva particolari problemi fin quando gli affari prosperano i
creditori sono regolarmente pagati dall’imprenditore.
Quando invece gli affari vanno male e il soggetto utilizzato dal Dominus sia una persona
fisica nullatenente o una società per azioni o a responsabilità limitata con capitale irrisorio
cosiddetta società di comodo, il problema merita una soluzione nei confronti dei creditori
dell’imprenditore occulto.

È fuori dubbio che i creditori potranno provocare il fallimento del prestanome tuttavia data
l’insufficienza del relativo patrimonio i creditori ben poco potranno ricavare dal fallimento
di questi, dunque il rischio di impresa non sarà supportato dal reale Dominos.

Quali sono i rimedi?

 TEORIA DEL POTERE D’IMPRESA


Parte della dottrina ha ritenuto di poter neutralizzare tali pericoli insiti nell’applicazione del
principio della spendita del nome escludendo che la stessa sia requisito necessario ai fini
dell’imputazione della responsabilità per i debiti dell’impresa.
La responsabilità comulativa dell’imprenditore palese e del Dominos è stata affermata
muovendo dall’idea che nel nostro ordinamento giuridico è espressamente sanzionata
l’inscindibilità del rapporto potere-responsabilità.
Chi esercita il potere di direzione dell’impresa se ne assume necessariamente anche il
rischio risponde alle relative obbligazioni.
Ciò consente dunque di affermare che quando l’attività di impresa è esercitata tramite
prestanome i responsabili verso i creditori sono sia il prestanome sia il dominus.

 TEORIA DELL’IMPRENDITORE OCCULTO

Un ulteriore e definitivo passo avanti è la teoria dell’imprenditore occulto.


Secondo tale teoria il Dominus di un’impresa formalmente altrui non solo risponderà
insieme a questi ma fallirà sempre comunque qualora fallisca il prestanome.

- È affermata anche la responsabilità del socio tiranno di una società per azioni.
Un socio tiranno è un azionista che di fatto usa la società come cosa propria e
dispone a suo piacimento con l’assoluto disprezzo delle regole fondamentali del
diritto societario.
Il socio inoltre utilizza il patrimonio della società per scopi personali e viceversa
impiega il proprio patrimonio per pagare i debiti della società o per finanziarla.

- È affermata anche la responsabilità dell’azionista o degli azionisti sovrani.


L’azionista cioè che pur rispettando le regole di funzionamento della società infarto
Dominga impresa societaria in forza del possesso di un pacchetto azionario Di
controllo.

L’IMPUTAZIONE DEI DEBITI DI IMPRESA


Entrambe le tesi esposte si fondano sulla presunta esistenza nel nostro ordinamento di due
caratteri generali di imputazione della responsabilità per debiti di impresa:

- il criterio formale della splendida del nome


in base al quale acquista la qualità di imprenditore in pienezza di effetti la persona
fisica o una società nel cui nome l’attività di impresa è svolta,

- il criterio sostanziale del potere di direzione


- in base al quale risponderebbe e fallirebbe anche il reale interessato.

Quest’ultima affermazione non può essere condivisa né per le norme societarie ne secondo
la legge fallimentare.
Questa teoria dell’imprenditore occulto ha suscitato scarsi consensi poiché la premesse su
cui si fonda non solo non hanno un solido fondamento normativo ma è anche smentita dal
principio che regola all’interno nostro codice civile per le società di capitali.

Poiché nelle società di capitali è sempre individuabile un socio o un gruppo di soci che di
fatto controlla e dirige la società, ma l’azionista o gli azionisti di comando comunque non
sono in quanto tali chiamati dal legislatore a rispondere personalmente dei debiti della
società e non possono essere chiamati a rispondere dall’interprete senza sovvertire quello
che e uno dei cardini dell’attuale sistema cioè la liceità dell’esercizio dell’attività d’impresa
in regime di responsabilità limitata attraverso l’utilizzo della società di capitali.

Oggettivamente dunque c’è un problema per quanto riguarda l’imprenditore occulto ne


consegue quindi che nel nostro ordinamento il dominio di fatto dell’impresa individuale o
anche di una società di capitali non è condizione sufficiente per esporre a responsabilità e
fallimento ne di per sé a determinare l’acquisto della qualità di imprenditore.

Dunque la teoria dell’imprenditore occulto fonda tale conclusione sull’estensione analogica


derivante
- dal fallimento del socio occulto di società palese
- e dal fallimento del socio occulto di società occulta
e quindi per analogia si passa al fallimento dell’imprenditore occulto

Nel fallimento adesso ci occulto di società palese


è fuori contestazione che esiste una società con soci a responsabilità illimitata e che il
soggetto scoperto sia socio di tale società e che gli atti di impresa siano stati posti in essere
in nome della società.
Ciò che stato occultato è solo il reale numero di soci e il socio occulto risponde fallisce
esattamente per lo stesso motivo per cui rispondono e falliscono i soci palesi: perché fa
parte della società.

Nel fallimento del socio occulto di società occulta


è fuori contestazione che esista una società responsabilità illimitata e che i soggetti
successivamente scoperti ne facciano parte.
I soci occulti sono chiamati a rispondere di atti che non sono stati posti in essere in nome
della loro società.
Tale deroga al principio della spendita del nome può essere spiegata osservando che i soci
occulti mediante la non esteriorizzazione del vincolo sociale perseguono al disegno di
sottrarsi al fallimento personale ed alla responsabilità illimitata per i debiti dell’impresa
comune che sono invece regole inderogabili del tipo societario.
Resta fermo però che anche i soci occulti di società occulta rispondono e falliscono sulla
base di un criterio formale ed oggettivo: far parte di una società di persone con soci
illimitatamente responsabili.

È invece strano affermare la responsabilità del Dominus di un’impresa gestita sotto altrui
nome .
Dall’articolo 147 quarto e quinto comma si può desumere il principio che chi è socio di una
Società a responsabilità illimitata risponde verso i terzi anche se la sua partecipazione alla
società non è stata esteriorizzata o anche se non è stata esteriorizzata all’esistenza stessa di
una società.

Nella fattispecie imprenditore occulto-imprenditore palese nessuna società esiste fra


Dominus e prestanome dato che nel rapporto che si instaaura fra tali soggetti mancano tutti
gli elementi costitutivi del contratto di società:
- fondo comune,
- esercizio in comune dell’attività,
- divisione degli utili.

Il prestanome è infatti mandatario senza rappresentanza del Dominus e non socio dello
stesso.
La situazione giuridica è quindi qualitativamente diversa.

Dunque non è consentito affermare per analogia la responsabilità illimitata del Dominus
di altrui impresa individuale o di una società di capitali.

Perciò il dominio di fatto non è condizione sufficiente per esporre a responsabilità e


fallimento, nè determina l’acquisto della qualità di imprenditore.

È vero che non chiamando a rispondere chi comanda dietro le quinte si danneggiano i
creditori dell’imprenditore palese ma è altrettanto vero che con l’opposta soluzione tali
creditori sarebbero avvantaggiati oltre limiti della tutela dell’affidamento perché
finirebbero col giovarsi di un patrimonio su cui non potevano fare affidamento quando
concessero credito al prestanome a scapito dei creditori personali del Dominus che
vedrebbero concorrere sul patrimonio del loro debitore anche i creditori del prestanome un
altrettanto ingiusta lesione dell’oro affidamento.
UNA TECNICA PER REPRIMERE GLI ABUSI
Il dominio di fatto su impresa individuale o societaria formalmente imputabile ad altro
soggetto non implica di per sé responsabilità illimitata per i debiti di impresa.

Vari rimedi legislativi sono stati introdotti con la riforma del diritto societario del 2003 e con
la riforma del diritto fallimentare del 2006.
Diverse tecniche sono state proposte in applicazione e non interroga ai criteri di
imputazione previsti dall’ordinamento.

In questa Sede è sufficiente ricordare la tecnica prevalentemente seguita dalla


giurisprudenza.

È frequente che il socio di comando di una società di capitali non si limiti ad esercitare i
poteri sociali riconosciuti dalla legge ma tratti la società come una cosa propria, cioè lui ne
dispone a suo piacimento con assoluto disprezzo delle regole societarie attraverso una serie
di comportamenti tipici.

La giurisprudenza ritiene che Tali comportamenti possono dar vita ad un’autonoma attività
di impresa diversa e distinta dall’attività di impresa della o delle società di capitali del
dominante quindi che significa che il socio che ha abusato dello schermo societario
risponderà lui come titolare di un’autonoma impresa commerciale individuale per le
obbligazioni che ha contratto nello svolgimento della attività di impresa fiancheggiatrice
della società di capitali ed in quanto tali potranno fallire sempre che si accerti l’insolvenza
della loro impresa. Socio tiranno che confonde la società come cosa propria.

Questa è una tecnica che tutela in modo pieno e diretto solo i creditori della società di
capitali che hanno titolo per agire anche contro il socio e quindi i creditori più forti le
banche in primo luogo.
INIZIO IMPRESA

La qualità di imprenditore si acquista con l’effettivo inizio dell’esercizio dell’attività


d’impresa.
Non è sufficiente l’intenzione di dare inizio all’attività anche se esternata con la richiesta
dell’eventuale autorizzazione amministrative necessarie o con l’iscrizione in albi o registri.

La stessa iscrizione nel registro delle imprese non è condizione necessaria né sufficiente per
l’attribuzione della qualità di imprenditore commerciale.

Che si diventa imprenditori con l’effettivo esercizio è principio pacifico per le persone
fisiche e per gli enti pubblici e privati il cui scopo istituzionale non è nello svolgimento di
attività di impresa.

Diverso principio vale per le società e per gli enti pubblici economici.
Le società acquisterebbero la loro qualità di imprenditori fin dal momento della loro
costituzione :
- stipula del contratto per le società di persone,
- iscrizione nel registro imprese per le società di capitali
Quindi prima ed indipendentemente dall’effettivo inizio dell’attività produttiva.

Fin dalla costituzione si applicherebbero nei loro confronti tutta la disciplina


dell’imprenditore.
Per le società lo svolgimento di attività di impresa costituisce la ragione stessa della loro
costituzione e ciò rende superfluo l’accertamento del concreto inizio dell’attività
programmata.
Accertamento invece necessario per le persone fisiche data la molteplicità di attività che
queste possono svolgere.

Questa ipotizzata diversità di trattamento non è però da condividere infatti è vero che lo
scopo tipico di una società è l’esercizio di una attività di impresa e può essere anche vero
che per le società non è necessario uno specifico accertamento dei requisiti
dell’organizzazione e del requisito della professionalità che invece è richiesto per l’articolo
2082.
Però è altrettanto vero che la costituzione di una società vale come semplice
manifestazione dell’intenzione di dare vita ad attività di impresa e tale resta fin quando non
si da inizio all’effettivo esercizio.
QUINDI IL PRINCIPIO DELL’EFFETTIVITÀ PUÒ E DEVE TROVARE APPLICAZIONE ANCHE PER
LE SOCIETA’.
ATTIVITÀ DI ORGANIZZAZIONE E ATTIVITÀ DI ESERCIZIO

Resta dunque da definire quando sia l’effettivo inizio dell’attività d’impresa.


La risposta non può essere univoca.

Dobbiamo fare una prima distinzione tra:


- ATTI TIPICI DI IMPRESA : che consiste nella produzione e scambio di beni o servizi
- FASE ORGANIZZATIVA : fase che precede gli atti tipici

In particolare è da tener presente che l’effettivo inizio dell’attività di impresa è spesso


preceduto da una fase preliminare di organizzazione che è più o meno lunga e più o meno
complessa (acquisto di macchinari, affitto del locale, assunzione di lavoratori, acquisto di
attrezzature)

È necessario distinguere a seconda che il compimento di atti tipici di impresa sia o meno
preceduta da una fase organizzativa oggettivamente percepibile .

- Se manca la fase organizzativa per l’inizio dell’impresa è necessaria la ripetizione nel


tempo degli atti di impresa che siano omogenei e coordinati che fanno intendere che
non si tratta di atti occasionali. (attività del mediatore, agente di commercio)

- Quando invece venga preventivamente creata una stabile organizzazione aziendale (si
pensi ad uno stabilimento industriale o ad un esercizio commerciale) anche un solo
atto di esercizio sarà sufficiente per affermare che l’attività è iniziata.
Non è necessario che sia portata a compimento il primo ciclo operativo con la vendita
a terzi di beni prodotti o con la rivendita delle merci acquistate.

Da qui quindi la domanda :


si diventa imprenditori già durante la fase di PRELIMINARE DI ORGANIZZAZIONE ? e
quindi prima del primo atto di gestione?

La risposta affermativa è preferibile.


Dato che anche l’attività di organizzazione è una attività indirizzata ad un fine produttivo e
pone esigenze di tutela del credito non diverse da quelle che sorgono durante l’esercizio (si
pensi ai fornitori di macchinari o ai primi finanziatori).
In definitiva anche gli atti di organizzazione sono atti di impresa e possono essere equiparati
agli atti di gestione e faranno acquistare la qualità di imprenditore.
QUANDO PERO’?
Quando per il loro per il loro numero e/o per la loro significatività manifestano in modo non
equivoco lo stabile orientamento dell’attività verso un fine produttivo determinato sia pure
non ancora realizzato.
un singolo atto di organizzazione non è sufficiente perché la persona fisica acquisti la qualità
di imprenditore
Anche più atti potrebbero non bastare se inespressivi ad esempio:
- l’affitto di un locale
- o l’acquisto di un’automobile
- o non coordinati funzionalmente.
La valutazione può essere diversa quando gli stessi atti vengono compiuti da una società, in
tal caso anche un solo atto di organizzazione imprenditoriale soprattutto se particolarmente
qualificato potrà essere sufficiente per affermare che l’attività di impresa è iniziata.
Si pensi ad esempio ad una società alberghiera che acquista un’area fabbricabili.(un solo
atto ma significativo).

FINE IMPRESA
Mentre per l’imprenditore individuale era pacifico che la qualità di imprenditore si perdesse
solo con l’effettiva cessazione dell’attività (dominata quindi dal principio di effettività)
per le società il punto è assai controverso.

La versione originaria dell’articolo 10 della legge fallimentare disponeva che


- l’imprenditore commerciale poteva essere dichiarato fallito entro un anno dalla
cessazione dell’impresa.

La fine dell’impresa è di regola preceduta da una fase di liquidazione durante la quale


l’imprenditore completa i cicli produttivi iniziati, vende le giacenze di magazzino e gli
impianti, licenze dipendenti, definisce i rapporti pendenti. Nessuno dubitava che la fase di
liquidazione costituisse ancora esercizio dell’impresa e perciò la qualità di imprenditore si
perdesse solo con la chiusura della liquidazione. Chiusura che non si verifica fin quando non
vengono concluse tutte le operazioni intrinsecamente identiche a quelle poste in essere
durante l’esercizio d’impresa (vendita merci, licenziamenti…).

La fase liquidativa può ritenersi chiusa solo con la definitiva disgregazione del complesso
aziendale che rende irrevocabile la cessazione.

Ma per l’imprenditore individuale la Giurisprudenza riconosceva correttamente che non era


necessaria la completa definizione dei rapporti sorti durante l’esercizio dell’impresa non era
dunque necessario che fossero stati riscossi tutti crediti e pagati tutti debiti.
Ed invero se l’impresa dovesse ritenersi ancora in vita fino a quando sopravvivono le
passività l’articolo 10 della legge fallimentare sarebbe stato una norma pressoché priva di
significato: l’anno per la dichiarazione di fallimento avrebbe cominciato infatti a decorrere
da quando l’insolvenza in pratica non era più utile a nessuno essendo stati soddisfatti tutti
creditori di impresa.

Per le società la giurisprudenza un chiaro atteggiamento di favore per i creditori ritardatari


(parliamo solitamente del fisco e degli enti previdenziali o assistenziali).

Era infatti irremovibile nell’affermare che non rilevasse il momento di effettiva cessazione
dell’attività d’impresa bensì fosse necessaria la cancellazione dal registro delle imprese e
anche la concreta definizione dei rapporti pendenti.

In altri termini la società benché fosse stata cancellata dal registro delle imprese doveva
ritenersi ancora esistente e quindi esposta al fallimento fin quando non fosse stato
pagato l’ultimo debito è una società quindi poteva essere dichiarata fallita anche a distanza
di anni dalla definitiva cessazione di ogni attività di impresa e dalla cancellazione del
registro delle imprese e quindi l’articolo 10 della legge fallimentare era di fatto cancellato
per le società perché diceva invece entro un anno dalla cessazione dell’impresa.

Quali sono stati dunque gli interventi della corte costituzionale in particolare questa
irragionevole disparità di trattamento che si era venuta a creare fine sotto le mani della
corte costituzionale che dapprima dichiarò incostituzionale l’articolo 10 della legge
fallimentare perché non prevedeva che il termine annuale decorre se per le società dal
momento della cancellazione.

Successivamente poi la corte manifestò un altro orientamento cioè che analogo principio
dovesse valere anche per l’imprenditore individuale facendo salva la possibilità per i
creditori di dimostrare la prosecuzione dell’attività d’impresa anche dopo la cancellazione.

(L’esito di questo ragionamento era che se si verificava che i creditori ritardatari quasi
sempre fisco ed enti previdenziali avanzassero pretese dopo la cancellazione della società
dal registro delle imprese )

Tali interventi sono stati il preludio della riforma del 2006 ulteriormente corretta con il
decreto legislativo del 2007.
oggi il nuovo articolo definisce l’imprenditore individuale e collettivo (a differenza
dell’articolo precedente ricomprende anche le società) e definisce che gli imprenditori
individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione del
registro delle imprese.
Quindi la cancellazione dal registro delle imprese è proprio la condizione necessaria
affinché si possa effettivamente dichiarare quello che è il fallimento.

Il nuovo articolo dispone che

Gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla
cancellazione dal registro delle imprese se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla
medesima o entro l’anno successivo.

L’attuale dato normativo consente di affermare che oggi la cancellazione dal registro delle
imprese è condizione necessaria affinché l’imprenditore individuale o collettivo benefici del
termine annuale per la dichiarazione di fallimento il debitore non può dimostrare di aver
cessato l’attività di impresa prima della cancellazione per anticipare il decorso di tale
termine. Ne consegue che le società irregolari cioè quelle non iscritte nel registro delle
imprese e le società occulte potranno essere dichiarate fallite senza limiti di tempo finché
sussistono debiti insoluti in quanto per loro il termine annuale non decorre.

In caso di impresa individuale o di cancellazione d’ufficio degli imprenditori collettivi è fatta


salva la facoltà per il creditore o per il pubblico ministero dimostrare il momento
dell’effettiva cessazione dell’attività da cui poi decorre il termine del primo comma (lo dice
il secondo comma).
la cancellazione è quindi in questo caso una condizione necessaria ma non sufficiente, ad
essa si deve accompagnare anche l’effettività cioè l’effettiva cessazione dell’attività
d’impresa mediante la disgregazione del complesso aziendale altrimenti il termine annuale
non decorre da quel momento e per ragioni di certezza del diritto si presume che al
momento della cancellazione dell’attività di impresa sia già terminata ma al creditore o al
pubblico ministero è ammesso di provare il contrario per ottenere la dichiarazione di
fallimento del debitore dopo e quindi l’anno di cancellazione della stessa non decorre dal
momento della scrittura su registro delle imprese della reale cessazione.
CAPACITA’ E IMPRESA

La capacità dell’esercizio di attività d’impresa si acquista con la piena capacità di agire e


quindi al compimento del 18º anno di età.
Si perde in seguito ad interdizione o inabilitazione.

La capacità di agire è il presupposto per l’acquisto della qualità di imprenditore in quanto le


norme che regolano le relazioni giuridiche di incapaci sono disposte a tutela degli stessi.

Il minore o l’incapace che esercita l’attività di impresa non acquista la qualità di


imprenditore ferma restando l’applicazione delle norme che regolano la sorte dei singoli
atti dallo stesso compiuti.
Il minore che con dei raggiri ha occultato la sua minore età non diventa imprenditore anche
se i contratti conclusi non sono annullabili. 1426

così che un minore che con un raggiro ha occultato la sua minore età non diventa
imprenditore anche se contratti conclusi non sono annullabili.

Non costituisce limitazione della capacità di agire ma delle semplici incompatibilità i divieti
posti a carico di coloro che esercitano determinati uffici o determinate professioni.

Ad esempio gli impiegati dello stato non possono essere contemporaneamente sia
impiegati statali che imprenditori commerciali o anche avvocati e notai.
La violazione di questi divieti non impedisce l’acquisizione della qualità di imprenditore ma
li espone a sanzioni amministrative o ad un aggravamento di sanzioni penali in casi di
bancarotta e fallimento.

Analogamente non impedisce l’acquisto o il riacquisto della qualità di imprenditore


commerciale l’inabilitazione temporanea all’esercizio di attività commerciale che consegue
alla condanna per bancarotta o per ricorso abusivo al credito in caso di fallimento.

INCAPACE
Per quanto riguarda l’impresa commerciale degli incapaci dobbiamo dire che è possibile
l’esercizio di attività d’impresa da parte di un incapace.
Quando parliamo di incapace intendiamo
- Un minore
- un interdetto
È possibile l’esercizio di attività d’impresa da parte di un incapace da parte dei rispettivi
rappresentanti legali:
- quindi per il minore il genitore esercente la potestà familiare
- oppure il tutore,
- oppure da parte di soggetti limitatamente capaci di agire (l’inabilitato, minore
emancipato) con l’osservanza delle disposizioni che sono legate al riguardo.

Il codice non prevede regole particolari per le attività agricola sicché troveranno
applicazione in materia le norme di diritto comune che regolano il compimento di atti
giuridici da parte degli incapaci.

Una specifica disciplina è invece prevista per l’attività commerciale disciplina che ha
carattere derogativo a quella del diritto comune.

L’attività commerciale è per sua natura un’attività rischiosa e quindi:

- per quanto riguarda L’INIZIO DI UNA NUOVA ATTIVITÀ COMMERCIALE


il legislatore considera con sfavore l’impiego del patrimonio dell’incapace in
un’attività commerciale e stabilisce che in nessun caso è consentito l’inizio di una
nuova attività di impresa commerciale in nome e nell’interesse del minore per
l’interdetto e l’inabilitato.

- Per quanto riguarda invece LA CONTINUAZIONE DI UN’ATTIVITÀ DI IMPRESA, salvo


che per il minore emancipato è consentita solo la continuazione dell’esercizio di
impresa commerciale esistente quando ciò sia utile per l’incapace e purché
comunque la continuazione sia autorizzata sempre dal tribunale.
Si pensi al minore che eredita l’azienda del padre è più agevole valutare i rischi cui
l’incapace esposto. D’altro canto la cessazione dell’attività e la conseguente vendita o
affitto dell’azienda potrebbe invece rappresentare un sicuro e grave danno per
l’incapace stesso.
L’esercizio di impresa commerciale altro verso richiede comunque scioltezza e
rapidità di decisioni ciò spiega perché l’autorizzazione del tribunale all’esercizio di
impresa commerciale ha un carattere generale e comporta quindi un sensibile
ampliamento dei poteri del rappresentante legale dell’incapace o del limitatamente
capace in quanto esso può compiere tutti gli atti che rientrano nell’esercizio
dell’impresa siano essi di ordinaria o di straordinaria amministrazione.
o Potranno quindi contrarre mutui
o potranno acquistare o vendere attrezzature o le merci.
La richiesta di una specifica autorizzazione sarà necessaria solo per quei contratti che
non sono in rapporto di mezzo affine per la gestione dell’impresa quindi possiamo
pensare alla vendita dell’immobile cui ha sede dell’impresa
INABILITATO

Per quanto riguarda l’inabilitato, intervenuta l’autorizzazione alla continuazione potrà


esercitare lui personalmente l’impresa se pur con l’assistenza del curatore o il consenso di
questi per gli atti che esulano dall’esercizio dell’impresa.

MINORE EMANCIPATO

Per quanto riguarda invece il minore emancipato diversamente che per gli altri incapaci il
minore emancipato può essere autorizzato dal tribunale anche ad iniziare una nuova
impresa commerciale come dice l’articolo 397.
“Il minore emancipato può esercitare un'impresa commerciale senza l'assistenza
del curatore, se è autorizzato dal tribunale, previo parere del giudice tutelare e
sentito il curatore”
Con l’autorizzazione il minore emancipato acquista la piena capacità di agire e può
esercitare l’impresa senza l’assistenza del curatore e può compiere da solo gli atti che
eccedono l’ordinaria amministrazione anche se estranei all’esercizio dell’impresa 397.

Tale disciplina ha perso gran parte del suo rilievo pratico con la fissazione della maggiorità
all’anno 18º quindi oggi non viene tanto usato il minore emancipato

AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO

il beneficiario dell’amministrazione di sostegno conserva capacità di agire per tutti gli atti
che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza dell’amministratore di
sostegno di conseguenza potrà iniziare o proseguire un’attività di impresa senza assistenza
salvo che il giudice tutelare disponga diversamente nel decreto di nomina
dell’amministratore di sostegno.

MINORI, INTERDETTI, INABILITATI


Art2198
“I provvedimenti di autorizzazione all'esercizio di un'impresa commerciale da
parte di un minore emancipato o di un inabilitato o nell'interesse di un minore
non emancipato o di un interdetto e i provvedimenti con i quali l'autorizzazione
viene revocata devono essere comunicati senza indugio a cura del cancelliere
all'ufficio del registro delle imprese per l'iscrizione”.
FALLIMENTO DELL’INCAPACE
L’esercizio autorizzato dell’impresa determina l’acquisto la qualità di imprenditore
commerciale da parte dell’incapace. L’incapace resta perciò esposto a tutte le conseguenze
che derivano dalla titolarità di un’impresa commerciale ivi compreso il fallimento in caso di
insolvenza.
Il fallimento del minore e dell’interdetto solleva delicati problemi di giustizia sostanziale
per quanto concerne l’applicazione delle norme fallimentari che stabiliscono incapacità
personali e sanzioni penali per il fallito.
È iniquo far ricadere tali effetti su minori dato che il dissesto è imputabile esclusivamente
alla condotta del genitore o del tutore. È possibile quindi evitare che le sanzioni penali
colpiscono il minore fallito e nel contempo far ricadere le stesse su rappresentante legale
sebbene questi non possa essere qualificato imprenditore.
Al minore imprenditore non possono essere imputati reati da altri commessi e che egli
non poteva impedire.
D’altro canto nei confronti del genitore e del tutore è applicabile l’articolo 227 della legge
fallimentare che punisce reati fallimentari dell’institore.
Più ardo è invece sottrarre il minore fallito alle incapacità personali ad esempio esclusione
della professione di avvocato, di dottore commercialista, di notaio. Ciò in quanto tale
incapacità conseguono automaticamente alla dichiarazione di fallimento e solo il minore in
quanto imprenditore commerciale può essere dichiarato fallito.

L’AMMINISTRAZIONE DEL PATRIMONIO


L’amministrazione del patrimonio dell’incapace è regolata in modo da garantire la
conservazione e l’integrità impedendo che lo stesso venga impiegato in operazioni aleatorie
o di pura sorte.
Perciò il rappresentante legale del minore o dell’interdetto (genitore o tutore) è legittimato
a compiere solo gli atti di ordinaria amministrazione mentre quelli di straordinaria
amministrazione possono essere compiuti solo in caso di necessità o di utilità evidente
accertata dall’autorità giudiziaria con autorizzazione di regola concessa adoperato.

Principi identici reggono il compimento di atti giuridici da parte dell’inabilitato o del minore
emancipato, soggetti limitatamente capaci che agiscono personalmente ma con l’assistenza
di un curatore.
LO STATUTO DELL’IMPRENDITORE COMMERCIALE
L’imprenditore commerciale è destinatario di una peculiare disciplina dell’attività, in parte
comune agli altri imprenditori (statuto generale dell’imprenditore) in parte propria e
specifica (statuto dell’imprenditore commerciale).
Lo statuto dell’imprenditore commerciale viene fornito dall’articolo 2195 i cui punti
fondamentali sono:
- gli obblighi pubblicitari,
- obbligo di tenere le scritture contabili,
- soggezione all’imprenditore al fallimento e alle procedure concorsuali.

LA PUBBLICITÀ DELLE IMPRESE COMMERCIALI


Per soddisfare la sempre e più crescente necessità di poter disporre con facilità di
informazioni su fatti e situazioni delle imprese il legislatore per le imprese commerciali e più
in generale per le imprese a struttura societaria ha introdotto un sistema di pubblicità
legale
È previsto l’obbligo di rendere di pubblico dominio determinati atti o fatti della vita
dell’impresa, secondo forme modalità più determinati per legge.
In tal modo le informazioni legislativamente ritenute rilevanti non solo sono resi accessibili
ai terzi interessati (cosiddetta pubblicità notizia) ma producono l’effetto tipico proprio di
ogni forma di pubblicità legale: l’opponibilità a chiunque degli atti o dei fatti così resi
conoscibili: cosiddetta conoscibilità legale.

o IL REGISTRO DELLE IMPRESE

È lo strumento di pubblicità legale delle imprese commerciali non piccole e delle società
commerciali.
Costituisce un sistema di pubblicità legale per le imprese che operano sul mercato
attraverso i quali parti possono conoscere:
- chi è l’imprenditore,
- l’oggetto dell’impresa,
- chi sono gli ausiliari che hanno il potere di rappresentanza,
- chi è responsabile per le obbligazioni assunte.
L’informazione deve essere attendibile e tutela l’interesse delle imprese nel diffondere
informazioni corrette e rilevanti sulla propria struttura organizzativa, sulla propria attività
nell’interesse dei terzi a pretendere informazioni corrette e rilevanti.

Nel 1942 quando venne emanato il codice civile fu previsto dall’articolo 2188 attuazione del
registro delle imprese.
“È istituito il registro delle imprese per le iscrizioni previste dalla legge.
Il registro è tenuto dall'ufficio del registro delle imprese sotto la vigilanza di un giudice
delegato dal presidente del tribunale.
Il registro è pubblico”

L’entrata in funzione del registro delle imprese è tuttavia subordinata all’emanazione del
relativo regolamento di attuazione che a lungo si è fatto attendere.
Durante gli anni di attesa vi era un regime transitorio che fintanto che il registro delle
imprese non fosse stato istituito sì suppliva con due diversi strumenti:
- per le imprese individuali quindi esercitate da persone fisiche si sostituiva il registro
delle imprese con il registro delle ditte tenuto dalle camere di commercio, disposta a
carico di chiunque si eccitava l’industria, il commercio o l’agricoltura e quindi anche
per i piccoli imprenditori per libri si agricole.

- Per le società di capitali con il deposito delle cancellerie dei tribunali.

Vi era innanzitutto un problema di disorganicità e complessità del sistema di pubblicità ma


vi era anche un enorme problema che riguardava la pubblicità di alcune categorie che non
rientravano in nessuno di questi sistemi.

Inizialmente non ci si era posto il problema del perché in quanto entro un anno
dall’emanazione del codice civile si sarebbe dovuto istituire il registro delle imprese tuttavia
è stato attuato dopo circa cinquant’anni con la legge 580 del 1993 che all’articolo otto
dedica allo spazio registro delle imprese.

Tale registro è divenuto finalmente operante agli inizi del 1997 ponendo così fine al regime
transitorio.
Articolo 8, 1° comma.
È istituito presso la camera di commercio l'ufficio del registro delle imprese di cui
all'articolo 2188 del codice civile.
Viene scelta come sede quella delle camere di commercio che ha quindi una competenza
provinciale.

L’attuale registro delle imprese non è più solo strumento di pubblicità legale delle imprese
commerciali ma è anche lo strumento di informazione sui dati organizzativi di tutte le altre
imprese.
L’iscrizione è stata estesa:
- agli imprenditori agricoli,
- ai piccoli imprenditori,
- alle società semplici
dapprima con effetti di sola pubblicità notizia ma oggi anche con effetti di pubblicità legale
per gli imprenditori agricoli.
 CARATTERISTICHE

1. La tenuta del registro delle imprese è affidata alle camere di commercio con
conseguente cessazione dei compiti di pubblicità legale delle imprese in passato svolti
dalle cancellerie dei tribunali.

2. Il registro delle imprese è tenuto con tecniche informatiche in modo da assicurare


completezza ed organicità della pubblicità e da garantire la tempestività
dell’informazione su tutto il territorio nazionale.

3. Il registro delle imprese è pubblico. Chiunque può consultarne i dati sui terminali
degli elaboratori elettronici installati presso l’ufficio.

4. L’ufficio del registro delle imprese è istituito in ciascuna provincia presso le camere di
commercio ed è retto da un conservatore (segretario generale o altro dirigente della
Camera di Commercio) nominato dalla giunta.

5. L’attività dell’ufficio è svolta sotto la vigilanza di un giudice delegato dal presidente


del tribunale del capoluogo di provincia.

6. Il registro è attualmente articolato in una sezione ordinaria e una sezione speciale.

SEZIONE ORDINARIA
Nella sezione ordinaria sono iscritti gli imprenditori per i quali l’iscrizione nel registro delle
imprese era originariamente previste nel codice civile, categoria che non coincide
puntualmente con quella degli imprenditori commerciali.

Sono tenuti all’iscrizione nella sezione ordinaria:


- gli imprenditori individuali commerciali non piccoli,
- tutte le società tranne la società semplice, anche se non svolgono attività
commerciale,
- i consorzi fra imprenditori con attività esterna,
- i gruppi europei di interesse economico con sede in Italia,
- gli enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo principale un’attività commerciale,
- le reti di imprese dotate di soggettività giuridica,
- le società estere che hanno in Italia la sede dell’amministrazione o l’oggetto
principale della loro attività.

Tale sezione ordinaria ha funzione di pubblicità legale produce dunque effetti legali nei
confronti dei terzi.
Di regola l’iscrizione nella sezione ordinaria ha sempre funzione DI PUBBLICITA’ LEGALE
serve cioè non solo a rendere conoscibili dati pubblicati ma ha anche a seconda dei casi
efficacia dichiarativa, costitutiva o normativa.
Dunque l’iscrizione di questi soggetti produzione efficacia legale diversa a seconda del
soggetto.
- Per l’imprenditore commerciale non piccolo, il GEIE e consorzi con attività esterna
l’iscrizione ha EFFICACIA DICHIARATIVA
- per le società di persone ha EFFICACIA NORMATIVA
- per le società di capitali e cooperative ha EFFICACIA COSTITUTIVA.

 EFFICACIA DICHIARATIVA

Di regola l’iscrizione nella sezione ordinaria ha efficacia semplicemente dichiarativa, cioè sul
piano dell’opponibilità dell’atto o del fatto iscritto.
- EFFICACIA POSITIVA IMMEDIATA
I fatti e gli atti soggetti ad iscrizione ed iscritti sono opponibili a chiunque e lo sono
dal momento stesso della loro registrazione

- EFFICACIA NEGATIVA
L’omessa iscrizione impedisce che il fatto possa essere opposto ai terzi .
Per gli atti che avrei dovuto iscrivere e che non ho iscritto vi è una PRESUNZIONE DI
NON CONOSCENZA DELL’ATTO O DEL FATTO che non è iscritto (PRESUNZIONE
RELATIVA)
L’imprenditore ad esempio non può far valere nei confronti di un suo fornitore il fatto
di aver cessato l’attività se la cessazione non è iscritta nel registro.
Può farlo, cioè è ammessa prova contraria, solo se dimostra che i terzi nonostante
l’assenza di pubblicità prevista dalla legge sono comunque venuti a conoscenza del
fatto in altro modo (ad esempio perché direttamente comunicato loro con lettera).
(presunzione relativa ammette prova contraria)

- PRESUNZIONE DI CONOSCENZA ASSOLUTA


l’efficacia dichiarativa fa presumere è non è ammessa prova contraria che i terzi
conoscono quel lato quel fatto iscritto.
Es. se una impresa ha registrato il suo fallimento un qualsiasi terzo che non ha saputo
di tale fallimento perché magari fuori Italia non può dire di non esserne venuto a
conoscenza.
 EFFICACIA COSTITUTIVA

In alcune ipotesi tassativamente previste l’iscrizione produce effetti più rilevanti.


Se non si iscrive la società nel registro delle imprese tale società non viene ad esistenza e
dunque non esiste come soggetto giuridico nel nostro ordinamento.

L’efficacia costitutiva è presupposto perché l’atto sia produttivo di effetti, sia fra le parti che
per i terzi (efficacia costitutiva totale) o solo nei confronti dei terzi (efficacia costitutiva
parziale).

 EFFICACIA NORMATIVA

In altri casi infine l’iscrizione nella sezione ordinaria pur non avendo efficacia costitutiva è
presupposto per la piena applicazione di un determinato regime giuridico.
È questo il caso delle società in nome collettivo e della società in accomandita semplice.
Tali società vengono ad esistenza anche se non registrate ma la mancata registrazione
impedisce che operi il regime di autonomia patrimoniale proprio per tali società.
La società in tal caso si definisce irregolare

L’iscrizione nel registro delle imprese non è dunque elemento necessario ai fini
dell’esistenza della società.
La mancata iscrizione comporterà per quella società delle deroghe rispetto alla disciplina
ordinaria in particolare la società non iscritta nel registro delle imprese avrà una riduzione
dell’autonomia patrimoniale.

Si applicherà dunque regime di autonomia patrimoniale delle società semplici regime in


virtù del quale il creditore della società semplice può aggredire indifferentemente il
patrimonio della società e il patrimonio del singolo socio.

Per le altre società di persone iscritte nel registro delle imprese il creditore dovrà prima
aggredire il patrimonio della società e solo qualora dimostrasse che il patrimonio non sia
sufficiente potrà aggredire il patrimonio del singolo socio.
SEZIONI SPECIALI

Oltre alla sezione ordinaria il registro delle imprese presenta varie sezioni speciali in cui
devono iscriversi tutti quei soggetti che non hanno obbligo di iscrizione per il codice civile,
a questa sezione viene data una finalità diversa non ha effetti legali ma serve come
pubblicità-notizia e certificazione anagrafica dunque la mera conoscibilità dell’atto o fatto
iscritto che non produce effetti legali.
L’iscrizione nelle sezioni speciali del registro non produce quindi nessuno degli effetti fin qui
esposti in quanto ha solo funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia.
L’iscrizione consente perciò di prendere conoscenza dell’atto o del fatto iscritto ma non lo
rende di per sé opponibile ai terzi dovendosi a tal fine sempre provare l’effettiva
conoscenza. Questa disciplina è stata però di recente modificata per gli imprenditori agricoli
anche piccoli e per le società semplici esercenti attività agricola. In quanto l’iscrizione nella
sezione speciale anche efficacia di pubblicità legale.

Nella sezione speciale appartengono:

- sezione speciale degli imprenditori agricoli e dei piccoli imprenditori.


In questa sezione sono iscritti gli imprenditori che secondo il codice civile ne erano
esonerati e per i quali l’iscrizione (introdotta dalla riforma del 93) aveva
originariamente solo funzione di pubblicità notizia.
Vale a dire :
I. gli imprenditori agricoli individuali,
II. i piccoli imprenditori,
III. le società semplici.
Nella stessa sezione speciale sono poi annotati gli imprenditori artigiani già iscritti nel
relativo albo. È da sottolineare tuttavia che gli artigiani non qualificabili come piccoli
imprenditori siano tenuti anche all’iscrizione nella sezione ordinaria come
imprenditori commerciali.

NB.Imprenditori agricoli  a seguito dell’ampliamento della nozione di imprenditore


agricolo del 2001 il legislatore ha dichiarato che gli
imprenditori agricoli continuano ad iscriversi nella
sezione speciale ma con gli effetti dell’EFFICACIA
DICHIARATIVA della sezione ordinaria. (luogo sempre
lo stesso, efficacia differente)
- Sezione speciale delle società tra professionisti
si scrivono le società tra avvocati e le altre società tra professionisti con efficacia di
pubblicità notizia

- Sezione speciale dei soggetti che esercitano attività di direzione e coordinamento.


Rientrano in questa sezione le società o gli enti che esercitano attività di direzione
coordinamento e quelle che vi sono soggette.

- Sezione speciale delle imprese sociali

- Sezione speciale degli atti di società di capitali in lingua straniera.

- Sezione speciale delle start-up innovative e degli incubatori certificati.


Sono tali le società di capitali e cooperative costituite da non più di quattro anni
aventi ad oggetto lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o
servizi innovativi ad alto valore tecnologico e che rispettino i requisiti fissati dalla
legge.

L’iscrizione nella sezione speciale è condizione per poter accedere alla disciplina speciale di
favore di carattere civilistico, tributario e laburistico prevista dalla legge per questo tipo di
società.

 FATTI E ATTI DA REGISTRARE

I fatti e gli atti da registrare sono specificati da una serie di norme e sono diversi a seconda
della struttura soggettiva dell’impresa.
Riguardano essenzialmente gli elementi di individuazione dell’imprenditore e dell’impresa:
- dati anagrafici dell’imprenditore,
- ditta,
- oggetto,
- sede principale e secondarie,
- inizio e fine dell’impresa.
la struttura e l’organizzazione della società
- atto costitutivo sue modificazioni,
- nomina e revoca e degli amministratori, dei sindaci, dei liquidatori
Sono poi soggette a registrazione tutte le modificazioni di elementi già iscritti.

Nel registro vige il PRINCIPIO DI TIPICITÀ: vanno iscritti solo quegli atti o i fatti per i quali la
legge richiede l’iscrizione.
Principio non derogabile se non nel senso di una tipicità allargata: cioè anche se non è
previsto espressamente dalla legge vanno iscritti anche quegli che sono contrari a quelli per
i quali è prevista l’iscrizione.

ESEMPIO:

il legislatore prevede l’iscrizione della nomina di un amministratore ma non la revoca


questo produrrà nel caso di revoca dell’amministratore una notizia non corretta nei
confronti dei terzi quindi anche se non espressamente previsto si iscrive anche la revoca.
Solo in questo caso è tassativo.

Per il resto non è consentita l’iscrizione di atti non previsti dalla legge.

 PROCEDIMENTO DI ISCRIZIONE NEL REGISTRO DELLE IMPRESE

Le iscrizioni devono essere fatte nel registro delle imprese della provincia in cui l’impresa ha
sede e negli atti e nella corrispondenza deve essere indicato il registro presso il quale
l’iscrizione è avvenuta.
L’iscrizione è eseguita su domanda dell’interessato ma può avvenire anche di ufficio se
l’iscrizione è obbligatoria e l’interessato non vi provvede.
- D’ufficio può essere anche disposta la cancellazione di un’iscrizione avvenuta senza
che esistano le condizioni richieste dalla legge
- D’ufficio può essere disposta anche la cancellazione dell’impresa che ha cessato
l’attività quando l’imprenditore non vi provveda.
- Alla cancellazione d’ufficio si perviene quando l’ufficio del registro rileva talune
circostanze determinate dalla legge.

L’iscrizione è eseguita senza indugio entro 10 giorni dalla data di protocollazione della
domanda.
Contro il provvedimento motivato di rifiuto dell’iscrizione il richiedente può ricorrere entro
otto giorni al giudice del registro che provvede con decreto
L’inosservanza dell’obbligo di registrazione è punita con sanzioni amministrative pecuniarie.
 CONTROLLO DELL’UFFICIO

L’articolo 11 DPR 581 del 1995 esplica il procedimento di iscrizione nel registro delle
imprese precisamente il comma 6 delinea i compiti dell’ufficio del registro delle imprese
che riceve la domanda il quale deve accertare:
- che il fatto o l’atto è soggetto a iscrizione,
- l’autenticità della sottoscrizione della domanda (che la documentazione è formalmente e
regolare )
- la regolarità della compilazione del modello di domanda,
- la corrispondenza dell’atto fatto per il quale è richiesta l’iscrizione a quello previsto
dalla legge (controllo di corrispondenza)
- allegazione documenti per i quali La legge prescrive la documentazione,
- altre condizioni previste dalla legge
- nonché l’esistenza e la veridicità dell’atto o del fatto (legalità formale).

È invece da escludersi (ma il punto è controverso)che controllo possa investire anche la


validità dell’atto (legalità sostanziale) e quindi che l’ufficio possa rilevare eventuali cause di
nullità dello stesso.
Cosa dunque deve fare registro delle imprese?
Quali sono i controlli di iscrivibilità di un atto?

1. Innanzitutto deve verificare se l’atto è fra quelli da iscrivere nel registro: PRINCIPIO DI
TIPICITÀ OGGETTIVA
2. Deve verificare l’idoneità della domanda: PRINCIPIO DI TIPICITÀ SOGGETTIVA
3. La domanda deve essere presentata nel rispetto della modulistica: REGOLARITÀ
DELLA COMPILAZIONE DEL MODELLO DI DOMANDA
4. se la domanda è incompleta o il leggibile l’ufficio del registro delle imprese è
legittimato a rifiutare la domanda
5. Deve controllare la legittimazione del soggetto che richiede la domanda che è
indicato nella norma stessa, ma nel silenzio della norma chi può presentare la
domanda?
- Per quanto riguarda l’imprenditore individuale la domanda può essere
presentata dall’imprenditore stesso o da un suo istitutore (soggetto
preposto dall’imprenditore all’esercizio dell’attività d’impresa:
rappresentanza commerciale)
- per quanto riguarda le società può presentare la domanda l’amministratore
che ha la rappresentanza e dunque si applicano i principi generali.
Per procedere all’iscrizione nel registro delle imprese occorre essere legittimati a chiedere
l’iscrizione e quindi ad avere il potere di procedere per conto dell’imprenditore o per conto
della società l’iscrizione.

Chi mi dice chi è legittimato? La norma mi dice che all’obbligo di provvedere all’iscrizione.
Principio di tipicità: nella stessa norma in cui è previsto che quell’atto deve essere iscritto
mi dice i termini con il quale deve essere richiesta l’iscrizione e chi lo può fare quindi nelle
singole norme è indicato chi è legittimato a presentare la domanda di iscrizione.

I controlli di corrispondenza sono di vario genere:


A. tipicità,
B. validità,
C. liceità dell’atto,
D. verità del fatto (esistenza materiale)

CONTROLLO DI TIPICITÀ il controllo di corrispondenza dell’atto del fatto rispetto a


quello previsto dalla legge.
Vige il principio di tipicità ovvero posso iscrivere solo gli atti
fatti per i quali è prevista l’iscrizione.
In senso oggettivo: l’atto deve essere iscrivibile,
in senso soggettivo: deve provenire da soggetto legittimato
a chiedere l’iscrizione

CONTROLLO DI VALIDITÀ l’ufficio del registro delle imprese non è tenuto al controllo
della validità come dice il comma due dell’articolo 2189
anche perché nell’articolo avrebbe previsto un controllo di
conformità. Il registro delle imprese deve solo accertare
l’autenticità della sottoscrizione e il concorso delle
condizioni richieste dalla legge per l’iscrizione.

L’ufficio del registro delle imprese non è inoltre tenuto a verificare la legalità sostanziale:
non deve effettuare un controllo di conformità dell’atto rispetto a quello prescritto dalla
legge.
Il soggetto che ha ricevuto rifiuto può rivolgersi al Conservatore dell’ufficio del registro delle
prese per l’iscrizione dell’atto e attraverso il suo provvedimento può andare al giudice del
registro delle imprese (giudice ordinario a cui vengono attribuite competenze anche in
materia del registro delle imprese).
Le iscrizioni sono obbligatorie. Cosa succede se un imprenditore non procede ad una
iscrizione obbligatoria?
L’ufficio del registro delle imprese invia una raccomandata o Pec all’imprenditore
richiedendo che proceda all’iscrizione entro un termine congruo.
Una volta decorso il termine sarà il giudice del registro ad ordinare un decreto.

Se viene effettuata una iscrizione senza che esistano le condizioni previste per legge per
quell’atto il giudice del registro con decreto potrà procedere alla cancellazione d’ufficio.

Oltre all’iscrizione abbiamo i depositi non si tratta di iscrizione quindi non producono effetti
legali ma producono effetti di pubblicità.
I bilanci non si scrivono al registro delle imprese si depositano in modo che tutti i terzi
possano prendere visione.
Se non si depositano i bilanci per tre anni consecutivi L’ufficio del registro all’obbligo di
procedere la cancellazione della società

o LE SCRITTURE CONTABILI

Le scritture contabili sono i documenti che contengono la rappresentazione, in termini


quantitativi e/o monetari
- dei singoli atti di impresa (quantità merce acquistata e il prezzo pagato)
- della situazione del patrimonio dell’imprenditore
- e del risultato economico dell’attività svolta.

Le scritture contabili contribuiscono a rendere razionale ed efficiente l’organizzazione


dell’impresa e perciò sono di regola spontaneamente tenute da un qualsiasi imprenditore
La tenuta delle scritture contabili è tuttavia elevata ad obbligo ed è legislativamente
disciplinata per gli imprenditori che esercitano attività commerciale.

Le società commerciali (tutte tranne la società semplice) devono ritenersi obbligati alla
tenuta delle scritture contabili anche se non esercitano attività commerciale.

L’obbligo di tenere le scritture contabili è espressamente previsto per le organizzazioni che


assumere la qualifica di impresa sociale indipendentemente dalla natura commerciale o
agricola dell’attività esercitata.
Punto controverso è se l’obbligo civilistico di tenuta delle scritture contabili gravi sugli enti
pubblici e sugli enti di diritto privato diversi dalle società che svolgono attività
commerciale in via secondaria ed accessoria.
Articolo 2214
“L'imprenditore che esercita un'attività commerciale deve tenere
- il libro giornale
- e il libro degli inventari.

Deve altresì tenere le altre scritture che siano richieste dalla natura e dalle
dimensioni dell'impresa e conservare ordinatamente per ciascun affare gli
originali delle lettere, dei telegrammi e delle fatture ricevute, nonché le copie
delle lettere, dei telegrammi e delle fatture spedite.
Le disposizioni di questo paragrafo non si applicano ai piccoli imprenditori.”

LIBRO GIORNALE
Art 2216
“Il libro giornale deve indicare giorno per giorno le operazioni relative
all'esercizio dell'impresa”.

Il libro giornale è un registro cronologico-analitico in esso devono essere indicate giorno


per giorno le operazioni relative all’esercizio dell’impresa.

Indica dunque tutti gli atti posti in essere dall’imprenditore rispettando due principi:
- cronologicità
- e immediatezza

l’immediatezza è un criterio che può essere interpretato in senso più elastico.


Basta che le operazioni siano registrate nell’ordine in cui sono compiute e non
necessariamente il giorno stesso del loro compimento.
Non è altresì necessario registrare separatamente ciascun operazione purché le singole
registrazioni riguardino operazioni omogenee compiute nella giornata (ad esempio si può
registrare importo complessivo delle merci vendute in un giorno).
Il libro giornale può essere anche articolato in libri parziali in relazione alle articolazioni
dell’impresa.
LIBRO DEGLI INVENTARI
Art 2217
“L'inventario deve redigersi all'inizio dell'esercizio dell'impresa e
successivamente ogni anno, e deve contenere l'indicazione e la valutazione delle
attività e delle passività relative all'impresa, nonché delle attività e delle
passività dell'imprenditore estranee alla medesima.

L'inventario si chiude con il bilancio e con il conto dei profitti e delle perdite, il
quale deve dimostrare con evidenza e verità gli utili conseguiti o le perdite
subite.

Nelle valutazioni di bilancio l'imprenditore deve attenersi ai criteri stabiliti per i


bilanci delle società per azioni, in quanto applicabili.

L'inventario deve essere sottoscritto dall'imprenditore entro tre mesi dal termine
per la presentazione della dichiarazione dei redditi ai fini delle imposte dirette.”
Il libro degli inventari è invece un registro periodico-sistematico.
Deve essere redatto all’inizio dell’esercizio dell’impresa e successivamente ogni anno.

L’inventario ha la funzione di fornire il quadro della situazione patrimoniale


dell’imprenditore.

Dunque con il bilancio comprensivo dello stato patrimoniale del conto economico.
Il bilancio è un prospetto contabile riassuntivo dal quale devono risultare con evidenza e
verità
- la situazione complessiva del patrimonio (stato patrimoniale) alla fine di ciascun
anno,
- nonché gli utili conseguiti o le perdite sofferte (conto economico) nel medesimo arco
di tempo.

Relazione del bilancio e analiticamente disciplinata in tema di società per azioni con norme
che fissano sia il contenuto del bilancio sia i caratteri che devono essere seguiti nella
valutazione delle singole voci.

N.B. nel bilancio compaiono attività e passività relative all’impresa,


nel libro degli inventari anche quelle personali dell’imprenditore.
L’inventario contiene:

 L’indicazione e la valutazione delle attività (beni, crediti, denaro in cassa)


 L’indicazione e la valutazione delle passività (debiti verso i finanziatori o fornitori)
 Attività o passività dell’imprenditore
(perché l’imprenditore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutto il suo
patrimonio e quindi è importante conoscere la situazione patrimoniale complessiva)
 Si chiude con il bilancio

Deve essere sottoscritto dall’imprenditore entro tre mesi dal termine per la presentazione
della dichiarazione del reddito.

ALTRE SCRITTURE
il rispetto del principio generale cioè quello che l’imprenditore deve tenere tutte le scritture
contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa impone la tenuta di
altre scritture contabili.
Ad esempio:
- libro maestro nel quale le singole operazioni sono registrate non cronologicamente
ma sistematicamente (per tipo di operazione, per cliente, eccetera),
- libro cassa che contiene le entrate e le uscite di denaro,
- libro magazzino che registra le entrate e le uscite di merci.

REGOLARITA’ E CONTROLLO
Art 2215

I libri contabili, prima di essere messi in uso, devono essere numerati progressivamente in
ogni pagina e, qualora sia previsto l'obbligo della bollatura o della vidimazione, bollati in
ogni foglio dall'ufficio del registro delle imprese o da un notaio secondo le disposizioni delle
leggi speciali.
L'ufficio del registro o il notaio deve dichiarare nell'ultima pagina dei libri il numero dei fogli
che li compongono.
Il libro giornale e il libro degli inventari devono essere numerati progressivamente e non
sono soggetti a bollatura né a vidimazione.

La bollatura è la stampa dei singoli fogli con numerazione. È fatta dall’ufficio del registro
delle imprese, dichiarazione finale che certifica il numero di pagine e l’integrità
dei registri. Abolita nel 2001
La vidimazione e l’attestazione posta in fondo all’ultima scrittura che ha lo scopo di
affermare la regolarità delle registrazioni effettuate e di certificare la
data. Abolita nel 1994
Per garantire la veridicità delle scritture contabili ed in particolare per impedire che le
stesse siano successivamente alterate è imposta l’osservanza di determinate regole formali
e sostanziali nella loro tenuta.
Le regole formali sono state progressivamente ridotte, in base all’attuale disciplina il libro
giornale e libro degli inventari devono essere:

- solo numerati progressivamente in ogni pagina prima di essere messi in uso


essendo stati soppressi dapprima la vidimazione annuale e poi anche l’obbligo della
bollatura foglio per foglio da parte dell’ufficio delle imprese o da un notaio.

Tutte le scritture contabili devono essere poi tenute secondo le norme di una ordinata
contabilità e in particolare
- senza spazi in bianco,
- senza interlinee,
- senza abrasioni e di modo che le parole cancellate restino leggibili.
Oltre che in formato cartaceo è inoltre oggi consentito formare e conservare scritture
contabili con i sistemi informatici purché le registrazioni possano in ogni momento essere
rese consultabili con mezzi messi a disposizione dall’imprenditore.
In questo caso le formalità di tenuta dei libri sono assolti mediante apposizione una volta
l’anno della marcatura temporale e della firma digitale dell’imprenditore.

L’inosservanza delle formalità prescritte dalla legge rende le scritture irregolari e quindi
giuridicamente irrilevanti.

Le scritture contabili e la corrispondenza commerciale devono essere conservate per 10


anni.

Le scritture contabili non sono di regola soggette ad alcuna forma di controllo esterno volto
ad accertare la regolarità della tenuta e la verità dei fatti.

A partire dal 1975 la contabilità delle società per azioni quotate in borsa è sottoposta al
controllo esterno di apposite società di revisione.
A partire dal 2003 anche le società per azioni non quotate devono sottoporre la contabilità
al controllo esterno di un revisore.

L’obbligo di tenuta delle scritture contabili non è assistito da alcuna sanzione generale
diretta salvo quelle previste dalla legislazione tributaria.
Non mancano però sanzioni eventuali ed indirette.
L’imprenditore che non tiene regolarmente le scritture contabili non può utilizzarle come
mezzo di prova suo favore.
È inoltre assoggettato a sanzioni penali per i reati di bancarotta semplice o fraudolenta in
caso di fallimento.
EFFICACIA PROBATORIA
Le scritture contabili sono destinate in via di principio a restare nella sfera interna
dell’imprenditore.
Le informazioni sulla vita dell’impresa desumibili dalle scritture contabili non sono
accessibili ai terzi in quanto l’interesse dell’imprenditore al segreto riceve la tutela
preferenziale tale principio non è tuttavia senza eccezioni.

Il bilancio delle società di capitali e delle società cooperative (ma non quello degli
imprenditori individuali e le società di persone) deve essere reso pubblico mediante
deposito presso l’ufficio del registro delle imprese.
Inoltre per le imprese soggette a controllo pubblico il diritto al segreto non sussiste nei
confronti dell’organo pubblico preposto alla vigilanza parliamo dunque di società con
azioni quotate in borsa, imprese bancarie, imprese assicurative.

Il diritto al segreto contabile cede di fronte alle esigenze conoscitive della pubblica
amministrazione, finalizzati alla certamente di carattere tributario o alla repressione dei
reati anche di natura economica.

ART 2709 :
EFFICACIA PROBATORIA CONTRO L'IMPRENDITORE
I libri e le altre scritture contabili delle imprese soggette a registrazione fanno prova contro
l'imprenditore. Tuttavia chi vuol trarne vantaggio non può scinderne il contenuto.

Sul piano processuale le scritture contabili possono essere utilizzate come mezzo di prova
sia favore sia contro l’imprenditore.
Le scritture contabili siano o meno regolarmente tenute possono sempre essere utilizzate
dai terzi come mezzo processuale di prova contro l’imprenditore che le tiene.

Il terzo che vuole trarre vantaggio dalle scritture contabili non può però scinderne il
contenuto: non può azione cioè avvalersi solo della parte a lui favorevole.
Imprenditore potrà dimostrare con qualsiasi mezzo che le proprie scritture non rispondono
a verità.
Se chiedo l’esibizione della scrittura contabile per provare il mio credito nei confronti
dell’imprenditore non posso chiederne una singola pagina ma l’esibizione dell’intera
scrittura contabile perché a pagina 10 può risultare il credito ma pagina 13 esso può essere
stato risolto.
Vi sono casi in cui le scritture contabili fanno prova a favore dell’imprenditore quando
ricorrano congiuntamente alcuni presupposti:
- si deve trattare di controversie fra imprenditori,
- la controversia per oggetto l’attività di impresa,
- le scritture contabili devono essere regolarmente tenute da entrambi.

In ogni caso è rimesso all’apprezzamento del giudice riconoscere il valore probatorio delle
scritture contabili.
Danno prova a favore perché nel momento in cui io chiedo l’esibizione della scrittura
contabile di un altro imprenditore per dimostrare il mio credito nei suoi confronti dall’altra
parte sulla scrittura contabile dell’altro imprenditore dovrà risultare che io sono il suo
debitore e quindi una prova crociata se questo incrocio non avviene quella scrittura
contabile non può essere utilizzata come prova per dimostrare il fondamento del mio diritto
di credito.

L’IMPRENDITORE E I SUOI AUSILIARI

Nello svolgimento delle sue attività l’imprenditore ha normalmente bisogno di servizi forniti
da altre persone:
- Lavoratore subordinato detto ausiliare interno
sono quei soggetti assunti affinché lavorino all’interno dell’azienda, alle sue
dipendenze e sotto la sua direzione.
Sono legati all’imprenditore da un rapporto di subordinazione gerarchica e inseriti
nell’organizzazione dell’impresa.
Essi sono i quadri, impiegati, institori, procuratori e commessi.

- Lavoratore autonomo detto ausiliare esterno


sono legati all’imprenditore da un rapporto di prestazione d’opera ed esterni
all’organizzazione dell’impresa.
Si obbligano a compiere per conto dell’imprenditore un’opera o un servizio senza
alcun vincolo di subordinazione. Molto spesso sono anch’essi imprenditori.
Essi sono gli agenti di commercio o i mandatari, commissione, spedizione, agenzia,
mediazione

Tra gli ausiliari subordinati assumono particolare rilievo


- l’institore
- il procuratore
- e il commesso.
Ricordano molto la disciplina del mandato e a loro è attribuito il compito di entrare
stabilmente in contatto con i terzi e di concludere affari per conto dell’imprenditore.
La legge riconosce uno speciale potere di rappresentanza senza un formale atto di procura
da parte dell’imprenditore.

 RAPPRESENTANZA:
La rappresentanza è regolato dagli articoli 1387 a 1400 consiste nel potere di compiere uno
o più atti giuridici in nome per conto di un altro soggetto. Tale potere è conferito
dall’interessato con ulteriore specifica dichiarazione di volontà tramite un negozio giuridico
che prende il nome di procura.

Il terzo che contratta con chi dichiara di agire in veste di rappresentante è tenuto ad
accertare esistenza, contenuto e regolarità formale della procura esigendo che
rappresentante giustifichi i suoi poteri ciò in quanto è sul terzo contraente che ricade il
rischio della mancanza o del difetto di potere rappresentativo della controparte.
Il contratto concluso dal falso procuratore è improduttivo di effetti ed il terzo non potrà
vantare alcun diritto nei confronti del preteso rappresentante.
L’articolo 1398 riconosce solo la possibilità di chiedere al falso procuratore il risarcimento
del danno che ho sofferto per avere confidato senza sua colpa nella validità del contratto.

In ambito commerciale via una deroga alla disciplina del mandato ovvero l’attribuzione del
potere rappresentativo.
La procura non è necessaria in quanto acquistano il potere di agire in nome per conto
dell’imprenditore automaticamente in virtù della loro collocazione all’interno dell’impresa.
È previsto dalla legge come effetto una naturale del ruolo che essi ricoprono.

Nella rappresentanza e nel mandato l’elemento chiave è la procura in cui deve essere
specificato l’oggetto dei poteri del mandatario è rilasciato nella stessa forma giuridica degli
atti che il mandatario potrà compiere: forma scritta e atto pubblico.

 INSTITORE
È institore colui che è preposto dal titolare all’esercizio dell’impresa o di una sede
secondaria o di un ramo particolare della stessa.
Nel linguaggio comune: il direttore generale dell’impresa o di una filiale o di un settore
produttivo.
L’institore è di regola un lavoratore subordinato con la qualifica di dirigente.

Il potere dell’institore è un effetto naturale della sua nomina e non ho bisogno di alcuna
procura al contrario del mandatario.
È un soggetto che si pone al vertice della gerarchia dei dipendenti che ha poteri di gestione
molto più ampi e che risponde del suo operato solo all’imprenditore.
È dunque colui che è stato preposto dal titolare all’esercizio dell’intera impresa
commerciale e (vertice assoluto) oppure a una sua filiale o ad un ramo dell’impresa (vertice
relativo).
L’institore è investito dall’imprenditore di un potere di gestione generale che abbraccia
tutte le operazioni della struttura alla quale è preposto.
È l’alter ego dell’imprenditore.

Un imprenditore può nominare più institore che possono agire disgiuntamente salvo che
nella procura sia diversamente disposto.
Se nell’atto di nomina non dico nulla ciascun istituto opera disgiuntamente dall’altro.

OBBLIGHI
L’institore è tenuto congiuntamente con l’imprenditore all’adempimento degli obblighi di
iscrizione nel registro delle imprese e di tenuta delle scritture contabili dell’impresa o della
sede cui è preposto.

In caso di in fallimento dell’imprenditore troveranno applicazione anche nei confronti


dell’istituto le sanzioni penali a carico del fallito fermo restando che solo l’imprenditore
potrà essere dichiarato fallito e solo l’imprenditore sarà esposto agli effetti personali e
patrimoniali del fallimento.

Si dice che l’institore è un AlterEgo dell’imprenditore ed è quello che può sostituire


l’imprenditore in tutto ed è per questo che agli stessi obblighi dell’imprenditore:
- Deve provvedere all’iscrizione di tutti gli atti nel registro delle imprese,
- deve provvedere alla tenuta delle scritture contabili,
- in caso di fallimento dell’imprenditore institore non fallisce mai viene condannato a
sanzioni penali.
- Deve dichiarare che agisce in nome dell’imprenditore

POTERI
I poteri sono dunque dati allestitore per effetto naturale della sua nomina e dunque è la
legge a stabilirle tuttavia ha due limiti:
art 2208
“L'institore può compiere tutti gli atti pertinenti all'esercizio dell'impresa a cui è
preposto, salve le limitazioni contenute nella procura.
Tuttavia non può alienare o ipotecare i beni immobili del preponente, se non è stato
a ciò espressamente autorizzato.
L'institore può stare in giudizio in nome del preponente per le obbligazioni dipendenti
da atti compiuti nell'esercizio dell'impresa a cui è preposto”.
- Può svolgere atti pertinenti all’impresa senza alcuna distinzione tra ordinaria
straordinaria amministrazione,
- può vendere acquistare beni e materie prime,
- può assumere o licenziare il personale,
- può concludere contratti con i clienti.

L’institore non è legittimato a compiere atti che esorbitano dall’esercizio dell’impresa quali
ad esempio:
- la vendita o l’affitto dell’azienda,
- il cambiamento dell’oggetto dell’attività.
Inoltre gli espressamente vietato di alienare o ipotecare i beni immobili del preponente se
non è stato specificatamente autorizzato.

Per quanto riguarda poi la rappresentanza processuale l’institore può stare in giudizio
- sia come attore può quindi promuovere un’azione (rappresentanza processuale
attiva)
- sia come convenuto per le obbligazioni dipendenti dati compiuti nell’esercizio
dell’impresa a cui è preposto quindi si badi non solo per gli atti da lui compiuti ma
anche per quelli posti in essere direttamente dall’imprenditore dunque l’institore può
stare al posto dell’imprenditore. (rappresentanza processuale passiva)

I poteri dell’institore possono essere ampliati o limitati dall’imprenditore saranno


opponibili ai terzi solo se la procura originaria o il successivo atto di limitazione siano
stati pubblicati nel registro delle imprese.
Principi analoghi valgono anche per la revoca della procura è opponibile ai terzi solo se
pubblicata o se l’imprenditore prova la loro effettiva conoscenza.

RESPONSABILITÀ DELL’INSTITORE
È principio generale che il rappresentante deve rendere palese al terzo la sua veste affinché
l’atto compiuto e relativi effetti ricadono direttamente sul rappresentato, deve dunque
rendere palese che ha agito nel nome del rappresentato.
Il rappresentante che non osservi tale regola obbliga solo se stesso ed il terzo non si può
rivolgere al rappresentato.

È personalmente obbligato anche il preponente quando gli atti compiuti dall’institore siano
pertinenti all’esercizio dell’impresa cui è preposto
Prima differenza rispetto la disciplina del mandato:
- nella disciplina del mandato: l’atto posto in essere dal soggetto che non ha poteri
non vincola nessuno nei confronti del terzo ma il
mandatario deve risarcire il danno al terzo per aver
confidato in lui.
- Per quanto riguarda l’institore: se l’institore non dice al terzo di agire per conto
dell’imprenditore è il istituire stesso responsabile nei
confronti del terzo, il terzo può agire anche contro
l’imprenditore qualora dimostri che l’atto posto in
essere dall’institore sia pertinente l’esercizio
dell’impresa

 PROCURATORE
Egli pur non essendo un rappresentante dell’imprenditore è incaricato a specifiche mansioni
e non alla gestione generale dell’impresa o di un suo ramo.

Sono dunque degli ausiliari subordinati di grado inferiore rispetto all’institore in quanto a
differenza di questo:
- non sono posti a capo dell’impresa o di un ramo di essa,
- pur essendo degli ausiliari con funzioni direttive il loro potere decisionale è
circoscritto ad un determinato settore operativo dell’impresa o una serie specifica di
atti.

Sono procuratori:
- il direttore del settore acquisti,
- il dirigente del personale,
- il direttore del settore pubblicità,
- il direttore del settore vendite,
- ecc

I procuratori sono ex legge investiti di un potere di rappresentanza generale


dell’imprenditore, generale, però rispetto alla specie di operazioni per le quali essi sono
stati investiti di autonomo potere decisionale.

Il dirigente del settore acquisti potrà compiere in nome dell’imprenditore tutti gli atti che
tipicamente rientrano in tale funzione ma non ha potere decisionale ne potere di
rappresentanza per quanto riguarda il settore pubblicità o il settore del personale.
Il procuratore
- non ha la rappresentanza processuale neppure per gli atti da lui posti in essere se tale
potere non gli è stato espressamente conferito,
- non è soggetto agli obblighi di iscrizione nel registro dell’impresa e di tenuta delle
scritture contabili,
- l’imprenditore non risponderà per gli atti seppur pertinenti all’esercizio dell’impresa
compiuti da un procuratore senza spendita del nome dell’imprenditore.

PUBBLICITA’ DELLA PROCURA art 2206


La procura con sottoscrizione del preponente autenticata deve essere
depositata per l'iscrizione presso il competente ufficio del registro delle imprese.
In mancanza dell'iscrizione, la rappresentanza si reputa generale e le limitazioni
di essa non sono opponibili ai terzi, se non si prova che questi le conoscevano al
momento della conclusione dell'affare.

 I COMMESSI
Articolo 2210
I commessi dell'imprenditore, salve le limitazioni contenute nell'atto di
conferimento della rappresentanza, possono compiere gli atti che
ordinariamente comporta la specie delle operazioni di cui sono incaricati.
Non possono tuttavia esigere il prezzo delle merci delle quali non facciano la
consegna, né concedere dilazioni o sconti che non sono d'uso, salvo che siano a
ciò espressamente autorizzati.

Sono soggetti privi di poteri generali cui sono affidate mansioni esecutive o materiali che li
pongono in contatto con i terzi:

- commesso di negozio,
- commesso viaggiatore,
- impiegato di banca detto gli sportelli,
- cameriere di bar o un ristorante

hanno un potere di rappresentanza molto ridotto: possono agire per conto


dell’imprenditore anche senza un formale atto di preposizione ma limitatamente agli atti
che sono ordinari per la qualifica che rivestono.

Eseguono dunque l’operazione a cui sono stati preposti.


Salvo espressa autorizzazione di commessi:
- non possono esigere il prezzo delle merci delle quali non facciano la consegna,
- né concedere dilazioni o sconti che non siano d’uso,
- non hanno il potere di derogare alle condizioni generali di contratto predisposte
dall’imprenditore,
- se preposti alla vendita nei locali dell’impresa non possono esigere il prezzo fuori dei
locali stessi ne possono esigerlo all’interno dell’impresa se alla riscossione è destinata
un’apposita cassa

L’imprenditore può ampliare o limitare tali poteri non è tuttavia previsto un sistema di
pubblicità legale perciò le limitazioni saranno punibili terzi solo se portate a conoscenza
degli stessi con mezzi ad esempio affissi nei locali di vendita o se prova l’effettiva
conoscenza

Quando vengo nominato commesso? Con un atto di conferimento della rappresentanza.


Se non dico nulla alcune vige quello che sta scritto nella norma ma nella nomina possono
anche limitare i poteri.
L’AZIENDA
Art 2555
L’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio
dell’impresa.

Nonostante i termini impresa e azienda siano spesso utilizzati come sinonimi hanno un
significato giuridico profondamente diverso in quanto

- L’IMPRESA  indica l’attività svolta, attività professionalmente organizzata allo


scopo di produrre o scambiare beni e/o servizi
- L’AZIENDA  individua tutti beni (macchinari, materie prime, locali commerciali, …)
che vengono utilizzati dall’imprenditore per esercitare l’attività stessa.

Tra azienda e impresa esiste quindi un rapporto di mezzo a fine:


l’azienda è il mezzo adoperato per produrre o scambiare beni o servizi cioè per realizzare
l’impresa.

Non è necessario che l’imprenditore sia titolare del diritto di proprietà su tutti beni che
compongono il complesso aziendale, egli può avere sugli stessi anche un diritto di
godimento di carattere personale (locazione) o reale (usufrutto).

Ciò che è importante è l’organizzazione di beni da parte dell’imprenditore.


Beni che fanno parte dell’azienda possono essere i più vari disparati:
- Beni mobili,
- immobili,
- crediti,
- beni fruttiferi e infruttiferi
- eccetera.

Ma la più diffusa distinzione tra i beni aziendali è quella:


- BENI MATERIALI che sono gli immobili, impianti, gli arredi, ma anche le merci e le
scorte.
- BENI IMMATERIALI  comprendono i segni distintivi dell’azienda:
 ditta  concessione in esclusiva,
 insegna  ma anche le opere e i servizi dei
 marchi collaboratori dei dipendenti ,
 brevetti  l’avviamento
 diritti d’autore  e la clientela.
Se si considerano singolarmente i beni che compongono l’azienda può attribuirsi a ciascuno
di essi un determinato valore, macchinari utilizzati ad esempio hanno un prezzo e a quel
prezzo vengono acquistati dall’imprenditore.
Ugualmente può dirsi per i beni immateriali come i segni distintivi dell’impresa che hanno
sempre un loro valore quantizzabile in denaro.

Ma l’azienda nel suo complesso cioè tutti beni che la compongono e che sono organizzati
dall’imprenditore ha sempre un valore maggiore rispetto alla somma dei valori dei singoli
beni.
I beni organizzati ad azienda consentono la produzione di utilità nuove, diverse e maggiori
di quelle traibili dai beni isolatamente considerati.

Questo maggior valore e ho detto avviamento il quale può definirsi come attitudine
dell’azienda a realizzare un profitto (ricavi eccedenti costi) e può dipendere da:

- FATTORI OGGETTIVI cioè inerenti al modo in cui l’azienda è organizzata (si pensi
alla capacità di un grosso complesso industriale di produrre
beni a costi competitivi), al luogo in cui si trova (ad esempio
un negozio di gioielli situato in un elegante via del centro
attitudine a produrre reddito rispetto allo stesso negozio se
posto in periferia), Alla forza di attrazione del marchio o
all’utilizzabilità di un brevetto.
- FATTORI SOGGETTIVI cioè relativi al prestigio e alla capacità personali
dell’imprenditore di creare e consolidare una clientela
(questo vale soprattutto per le imprese più piccole).
Dunque è dovuto all’abilità operativa dell’imprenditore sul
mercato ed in particolare alla sua abilità nel formarsi,
conservare ed accrescere la clientela.
Clientela essenziale perché l’imprenditore possa conseguire
necessari ricavi e realizzare un profitto.

Nel primo caso parliamo di avviamento oggettivo nel secondo di avviamento soggettivo.

L’avviamento è quindi una qualità dell’azienda che può essere valutata economicamente
esso costituisce anche un valore patrimoniale autonomo che può essere inserito in bilancio.

L’imprenditore può trasferire ad altri l’azienda, può cioè decidere di venderla oppure di
darla in affitto o in usufrutto.
Il codice civile disciplina il trasferimento dell’azienda e tale disciplina intesa sostanzialmente
a conservare l’unità economica dell’azienda e salvaguardare l’integrità dell’avviamento
nel passaggio tra un imprenditore e l’altro
È tutelato anche l’interesse generale alla circolazione dell’azienda come complesso unitario
e quindi al mantenimento dell’efficienza e funzionalità dei complessi produttivi. Tutela
anche quanti su tali unità e su tale valore hanno fatto specifico affidamento parliamo
dunque dell’acquirente dell’azienda, dei lavoratori e dei creditori.

GLI ELEMENTI COSTITUTIVI DELL’AZIENDA

Elementi costitutivi dell’azienda sono tutti beni, di qualsiasi natura organizzati


dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa.

Un bene è un bene aziendale rilevante in quanto l’imprenditore gli ha predisposto una


destinazione funzionale.
È rilevante il titolo giuridico che legittima l’imprenditore ad utilizzare un dato bene nel
processo produttivo.
Non possono essere perciò considerati beni aziendali i beni di proprietà dell’imprenditore
che non siano da questi effettivamente destinati allo svolgimento dell’impresa

La qualifica di bene aziendale compete anche ai beni di terzi di cui l’imprenditore ne


dispone in base ad un valido titolo giuridico purché impiegati nell’attività di impresa (locali
in affitto o macchina in leasing).

È largamente diffusa tendenza ad ampliare la nozione di bene aziendale e da ricomprendere


fra gli elementi costitutivi dell’azienda ogni elemento patrimoniale facente capo
all’imprenditore nell’esercizio della propria attività e più in generale tutto ciò che può
costituire oggetto di tutela giuridica.
Si afferma perciò che l’azienda è organizzazione non solo di beni ma anche di servizi e della
stessa fanno parte integrante i rapporti di lavoro col personale nonché tutti rapporti
contrattuali stipulati per l’esercizio dell’impresa ed elementi costitutivi dell’azienda sono
considerati anche
- i crediti verso la clientela,
- i debiti verso i fornitori
- e lo stesso avviamento
che non è né un bene è un diritto ma una semplice qualità dell’azienda sia pure valutabile
patrimonialmente e dunque giuridicamente tutelata.
Questa concezione onnicomprensiva non è però condivisibile.
Più corretta è l’opinione che considera elementi costitutivi dell’azienda solo le cose in
senso proprio cui l’imprenditore attualmente si avvale per l’esercizio dell’impresa.

Bene infatti sono le cose che possono formare oggetto di diritti.


Nella disciplina dell’azienda non vi è alcun valido argomento per affermare che nell’articolo
2555 il termine bene sia stato utilizzato con un significato diverso e più ampio.
Dunque non possono essere considerati elementi essenziali dell’azienda quelli che le parti
possono eliminare senza compromettere la qualificazione come azienda del residuo.

Perciò manca qualsiasi appiglio testuale che possa considerare i crediti verso clienti i debiti
verso fornitori come elementi costitutivi dell’azienda.

In definitiva l’azienda è un complesso di soli beni e non è concepibile come un complesso


di beni e di rapporti giuridici.
Il che comporta che di trasferimento di azienda si potrà parlare anche quand’anche le parti
abbiano espressamente escluso dal trasferimento i contratti aventi ad oggetto prestazioni
di cose future di servizi, i crediti e i debiti

L’AZIENDA E UNIVERSALITÀ DEI BENI

Molto si è discusso sulla natura giuridica dell’azienda e vivo è stato il contrasto fra teorie
unitarie e teorie atomistiche.

- Le teorie unitarie considerano l’azienda come un bene unico; un bene nuovo e


distinto rispetto ai singoli beni che la compongono. L’azienda è un bene immateriale,
rappresentato dall’organizzazione stessa. E sempre nella stessa prospettiva l’azienda
è stata qualificata come una universalità di beni.
Si ritiene che il titolare dell’azienda abbia un vero e proprio diritto di proprietà
unitario destinato a coesistere con i diritti che vanta sui singoli beni. Potrebbe perciò
tutelare il suo diritto sul complesso aziendale con gli strumenti che l’ordinamento
concede al titolare del diritto di proprietà anche se tale diritto non vale su taluni beni
aziendali.

- La teoria atomistica concepisce invece l’azienda come una semplice pluralità di


beni tra loro funzionalmente collegati e sui quali l’imprenditore può vantare diritti
diversi.
L’unificazione giuridica dei beni aziendali è solo relativa e funzionale, dato che per il
trasferimento del complesso aziendale dovranno essere necessariamente osservate le
forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda.
(2556)

L’assenza di una legge di circolazione propria dell’azienda è sufficiente per negare la piena
unità giuridica e la natura di nuovo bene della stessa.
Considerare l’azienda un’universalità di beni non offre argomenti per concepire la stessa
come un bene nuovo ed unitario, né consente alcuna sicura integrazione della disciplina
dell’azienda.

Norme specifiche sono dettate solo per le universalità di mobili che sono definite come la
pluralità di cose che appartengono alla stessa persona e hanno una destinazione unitaria.
Sono sottoposte ad un regime normativo parzialmente coincidente con quello previsto per i
beni immobili.
Al pari delle universalità di mobili:
- l’insieme dei beni mobili aziendali di proprietà dell’imprenditore è sottratto
all’applicazione della regola possesso di buona fede vale titolo valida per i singoli
beni mobili, mentre ovviamente il problema non si pone neppure per gli immobili
aziendali e i beni mobili registrati;

- il complesso mobiliare aziendale può essere acquistato per usucapione solo in virtù
del possesso continuato per venti anni, in luogo del termine decennale previsto per i
singoli beni mobili;

- il titolo di un’azienda può avvalersi dell’azione di manutenzione, oltre che per gli
immobili, anche per tutelare il possesso dell’insieme dei beni mobili aziendali.

CIRCOLAZIONE DELL’AZIENDA

L’azienda può formare oggetto di atti di disposizione di diversa natura:


- può essere venduta,
- conferita in società,
- donata
- e sulla stessa possono essere altresì costituiti diritti reali (usufrutto)
- o personale (affitto) di godimento a favore di terzi.
È importante stabilire se un atto di disposizione sia da qualificare
- come trasferimento di azienda
- o come trasferimento di singoli beni aziendali
dato che solo nel primo caso potrà trovare applicazione la disciplina ricollegata la
circolazione di un complesso aziendale.

È pacifico che per aversi trasferimento di azienda non è necessario che l’atto di disposizione
comprenda l’intero complesso aziendale e nell’ambito della disciplina del trasferimento di
azienda si resta anche quando l’imprenditore trasferisca un ramo particolare della sua
azienda.
Necessario e sufficiente è che sia trasferito un insieme di beni di per sé potenzialmente
idoneo ad essere utilizzato per l’esercizio di una determinata attività d’impresa.

È però necessario che i beni esclusi dal trasferimento non alterino l’unità economica e
funzionale di quella data azienda come ad esempio si verificherebbe qualora si escludesse
dal trasferimento il brevetto industriale su cui si fonda l’attività di impresa.

Accertato con criteri oggettivi che si è in presenza di un trasferimento di azienda l’atto di


disposizione comprenderà tutti beni presenti in quel dato momento nell’azienda anche se
non specificamente menzionati in contratto.
I vari beni passeranno all’acquirente nella medesima situazione giuridica in cui si trovavano
presso il trasferente, se nulla espressamente pattuito a riguardo.
Le forme da osservare nel trasferimento dell’azienda sono fissate dall’articolo 2556 nel
testo modificato della legge 310 del 1993.

Art 2556
“Per le imprese soggette a registrazione i contratti che hanno per oggetto il
trasferimento della proprietà o il godimento dell'azienda devono essere provati
per iscritto, salva l'osservanza delle forme stabilite dalla legge per il
trasferimento dei singoli beni che compongono l'azienda o per la particolare
natura del contratto.
I contratti di cui al primo comma, in forma pubblica o per scrittura privata
autenticata, devono essere depositati per l'iscrizione nel registro delle imprese,
nel termine di trenta giorni, a cura del notaio rogante o autenticante.”

La forma scritta è richiesta ad probationem, ossia quale mezzo di prova del contratto.
Essa non è richiesta per il trasferimento di una azienda di piccolo commercio o di una
azienda mobiliare.
Ai fini del trasferimento dell'azienda non è necessario che vengano trasferiti tutti i beni
aziendali, ma è sufficiente il trasferimento di alcuni di essi, purché nel complesso di questi
ultimi permanga un residuo di organizzazione che ne dimostri l'attitudine all'esercizio
dell'impresa, sia pure con la successiva integrazione ad opera del cessionario.

Cass. n. 301/1981

L'azienda è un complesso di beni materiali ed immateriali economicamente collegati per


l'esercizio dell'impresa che si distingue nettamente dai beni che la compongono, onde
l'alienazione totale o parziale di questi ultimi non comporta sempre e necessariamente il
contemporaneo trasferimento dell'azienda, la quale ben può perseguire i suoi scopi con
altri beni e servizi.
Ne consegue che, nel caso di trasferimento dei vari elementi concorrenti alla formazione di
un'azienda, il giudice del merito deve accertare, con indagine di fatto sottratta al controllo
di legittimità, quale sia, secondo la volontà dei contraenti, l'oggetto specifico del contratto,
allo scopo di stabilire se quei determinati beni siano stati considerati nella loro autonomia
unitaria e strumentale, in modo da comportare, al tempo stesso, l'alienazione dell'azienda
cui essi si ricollegano.
(Nella specie, i giudici del merito hanno escluso il trasferimento di azienda nella
successione cronologica di due diverse concessionarie nella rappresentanza di determinati
materiali, mediante trapasso di singoli beni dall'una all'altra concessionaria).

È da operare una netta distinzione fra


 forma necessaria per la validità del trasferimento
 e forma richiesta ai fini probatori e per l’opponibilità ai terzi.
In merito al primo punto è dettata una disciplina identica per ogni tipo di azienda.
I contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o la concessione in
godimento dell’azienda sono validi solo se stipulati con l’osservanza delle forme stabilite
dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda o per la
particolare natura del contratto.

Manca quindi una autonoma ed unitaria legge di circolazione dell’azienda e il trasferimento


di ciascun bene aziendale segue il regime dettato in via generale.
Così per il trasferimento in proprietà dell’acquirente degli immobili aziendali di proprietà
dell’alienante sarà necessaria la forma scritta appena di nullità.

Solo per le imprese soggette registrazione secondo il sistema originario del codice civile
(quindi non per le piccole imprese e per le imprese agricole individuali o società semplici) è
poi previsto che ogni atto di disposizione dell’azienda deve essere provato per iscritto.
La scrittura è richiesta ai fini probatori e la sua mancanza comporterà come unico effetto
che in un eventuale controversia giudiziaria le parti non potranno avvalersi della prova per i
testimoni per dimostrare l’esistenza del contratto.

Sempre per le imprese soggette registrazione l’articolo 2556 stabilisce che i relativi
contratti sono soggetti ad iscrizione nel registro dell’impresa.
E nel nuovo testo introdotto dalla legge 310 la norma prescrive che il contratto di
trasferimento deve essere sempre redatto per atto pubblico o per scrittura privata
autenticata e deve essere depositato a cura del notaio per l’iscrizione nel termine di 30
giorni.
Si tende a riconoscere che l’obbligo di registrazione sussiste anche quando sia l’alienante sia
l’acquirente siano imprenditori tenuti solo all’iscrizione nelle sezioni speciali del registro
delle imprese.
Resta fermo che solo l’iscrizione nella sezione ordinaria del registro produce la funzione
dichiarativa opponibilità del trasferimento nei confronti dei terzi.

L’art 2556 fissa due principi:


1. NECESSITA’ DELLA FORMA SCRITTA
(ad probationem, ai fini della prova per le imprese soggette ad iscrizione)
2. OSSERVANZA DELLE NORME
(ad substantia, per il trasferimento dei singoli beni)

la legge dunque non dispone una forma particolare per il trasferimento dei singoli beni che
compongono l’azienda o per la particolare natura del contratto. Per poter essere utilizzato
come prova deve essere provato per iscritto e successivamente trascritto nel registro delle
imprese.

N.B.
GLI EFFETTI DEL TRASFERIMENTO DI AZIENDA SONO I SEGUENTI:

1) DIVIETO DI CONCORRENZA
2) SUCCESSIONE NEI CONTRATTI
3) CREDITI E DEBITI AZIENDALI
LA VENDITA DELL’AZIENDA:
IL DIVIETO DI CONCORRENZA DELL’ALIENANTE

La linea azione dell’azienda produce effetti ex lege ulteriori che riguardano


- il divieto della concorrenza dell’alienante,
- i contratti,
- i crediti e i debiti aziendali.

Effetto naturale del trasferimento dell’azienda è il divieto posto a carico dell’alienante di


iniziare una nuova impresa che
- per l’oggetto,
- L’ubicazione
- o altre circostanze
sia idoneo a sviare la clientela dell’azienda ceduta.
Articolo 2557.
Chi aliena un’azienda commerciale deve astenersi per un periodo massimo di
cinque anni dal trasferimento dall’iniziare una nuova impresa che possa sviare la
clientela dell’azienda ceduta.
Il patto di astenersi dalla concorrenza in limiti più ampi di quelli previsti dal
comma precedente è valido, purché non impedisca ogni attività professionale
dell'alienante. Esso non può eccedere la durata di cinque anni dal trasferimento

Chi trasferisce ad esempio un negozio di alimenti non può immediatamente dopo aprire un
negozio di alimenti nella stessa zona della città perché finirebbe per sottrarre clienti
all’acquirente, può invece iniziare un’attività diversa come un bar di fronte al suo vecchio
negozio o continuare la stessa attività svolta in precedenza ma in un luogo diverso.

Se l’azienda è agricola il divieto opera solo per le attività ad essa connesse e sempre che
rispetto a tale attività sia possibile sviamento della clientela.

La norma contempera due opposte esigenze.


- Quella dell’acquirente dell’azienda di trattenere la clientela dell’impresa e quindi di
godere dell’avviamento (soggettivo) nel quale di regola si è tenuto conto nella
pattuizione del prezzo di vendita.

- Quella dell’alienante a non vedere compromessa la propria libertà di iniziativa


economica oltre un determinato arco di tempo sufficiente per consentire
all’acquirente di consolidare la propria clientela.
Il divieto di concorrenza è derogabile ed ha carattere relativo: sussiste nei limiti in cui la
nuova attività d’impresa dell’alienante sia potenzialmente idonea a sottrarre clienti
all’azienda ceduta.
Le parti possono anche ampliare la portata dell’obbligo di astensione purché non sia
impedita ogni attività professionale all’alienante.

È in ogni caso vietato prolungare oltre cinque anni la durata del divieto.
Le parti dunque possono solo accordarsi per stabilire che vi sia una durata inferiore fino ad
escludere del tutto il divieto.

Il divieto è da ritenersi applicabile non solo alla vendita volontaria di azienda ma altresì
quando la vendita e coattiva. Il divieto graverà perciò in testa all’imprenditore fallito nel
caso di vendita in blocco dell’azienda da parte degli organi fallimentari.

Maggiori incertezze sono sollevate per l’applicazione del divieto per quanto riguarda le
ipotesi non espressamente regolate:

1. Divisione ereditaria con assegnazione dell’azienda caduta in successione ad uno


degli eredi
2. Scioglimento di una società con assegnazione dell’azienda ad uno dei soci quale
quota di liquidazione
3. Vendita dell’intera partecipazione sociale o di una partecipazione sociale di
controllo in una società di persone o di capitali.

Nei primi due casi non si può affermare che vi è stato trasferimento di azienda da un erede
all’altro o da un socio all’altro sicché sembrerebbe da escludersi che gli altri eredi o gli altri
soci siano tenuti a rispettare il divieto di concorrenza.

Nel terzo caso poi un negozio traslativo c’è ma ha per oggetto le quote o le azioni della
società e non l’azienda. Non ricorre quindi il presupposto ovvero la vendita di azienda per
l’applicazione dell’articolo 2557.

È indubbio però che in sede di divisione ereditaria o nello stabilire la quota di liquidazione
spettante a ciascun socio si tiene di regola conto anche del valore di avviamento dovuto alla
clientela. Non è perciò senza fondamento applicare il divieto di concorrenza a favore
dell’erede o del socio.
Dunque socio alienante è soggetto al divieto di concorrenza purché ricorrano i presupposti
su cui si fonda l’articolo 2557 ed è in particolare la specifica attitudine dell’alienante a
sviare la clientela per la posizione rivestita nell’impresa sociale.
Tale divieto di concorrenza non è puntualmente rispettato dall’alienante e frequenti sono i
tentativi di eludere il divieto attraverso diversi espedienti ad esempio
- si vende l’azienda e si inizia una attività concorrente avvalendosi di un prestanome o
costituendo una società di comodo
- oppure si aliena l’azienda e si entra come dirigente in un’impresa concorrente o si
diventa amministratore unico di una società

Il divieto dovrà ritenersi violato ogniqualvolta si sia avuto sviamento di clientela


dell’azienda ceduta per fatto concorrenziale direttamente o indirettamente imputabile
all’alienante.
Il che però non è sempre agevole da provare e perciò è opportuno che l’atto di alienazione
contenga specifiche e ben congegnate clausole a riguardo rese possibili dalla consentita
estensione pattizia del divieto di concorrenza.

Perché chi trasferisce l’azienda non può fare concorrenza al nuovo titolare?
Prima abbiamo parlato di avviamento e abbiamo detto che la capacità dell’azienda di
produrre reddito dipende anche da fattori soggettivi cioè dalla capacità dell’imprenditore di
creare conservare una propria clientela.
Quando l’azienda viene ceduta l’avviamento soggettivo non può trasferirsi
automaticamente al nuovo titolare essendo necessario il trascorrere di un certo periodo di
tempo perché la clientela si leghi al nuovo imprenditore.
Se l’alienante creasse una nuova impresa analoga alla precedente probabilmente molti
vecchi clienti continuerebbero a rivolgersi a lui.
Il legislatore allora ha previsto divieto di concorrenza per tutelare l’acquirente di assicurare
il godimento anche di quella particolare qualità dell’azienda consistente nell’avviamento
per il quale ha probabilmente pagato un prezzo.

Nel caso di usufrutto o di affitto dell’azienda il divieto di concorrenza grava sul proprietario
o sul locatore per tutta la durata dell’usufrutto o dell’affitto.
LA SUCCESSIONE NEI CONTRATTI AZIENDALI

Successione nei contratti art 2558.


“Se non è pattuito diversamente, l'acquirente dell'azienda subentra nei contratti stipulati
per l'esercizio dell'azienda stessa che non abbiano carattere personale.

Il terzo contraente può tuttavia recedere dal contratto entro tre mesi dalla notizia del
trasferimento, se sussiste una giusta causa, salvo in questo caso la responsabilità
dell'alienante .

Le stesse disposizioni si applicano anche nei confronti dell'usufruttuario e dell'affittuario per


la durata dell'usufrutto e dell'affitto.”

La successione nei contratti è una norma supplettiva che prevede, in mancanza di patto
contrario, il subentro dell'acquirente dell'azienda nei contratti stipulati per l'esercizio della
stessa, purchè non abbiano carattere personale.

SUCCESSIONE Ai sensi dell’articolo 1406 del codice civile ciascuna parte può sostituire a
sé un terzo nei rapporti derivanti da un contratto a prestazioni corrispettive se queste non
sono state ancora eseguite. La cessione del contratto è però efficace solo se vi è consenso
del contraente ceduto. La disciplina in materia della cessione dei contratti nel caso di
trasferimento d’azienda è diversa dal momento che essa opera automaticamente senza
necessità del consenso del contraente ceduto.

Hanno carattere personale tutti quei contratti che anche se stipulati nell’esercizio
dell’impresa si fondano sostanzialmente ed esclusivamente sulla fiducia esistente tra le
parti nei quali l’identità e le qualità personali dell’imprenditore sono state determinanti per
il consenso del terzo contraente.

La disciplina del trasferimento dell’azienda si preoccupa di favorire il mantenimento


dell’unità economica della stessa.

A tal fine è agevolato il subingresso dell’acquirente nella trama di rapporti contrattuali in


corso di esecuzione che l’alienante ha stipulato con i fornitori, finanziatori, lavoratori e
clienti per assicurarsi i fattori produttivi
- necessari all’organizzazione dell’impresa (ad esempio contratto di locazione
dell’immobile, affitto di macchinari)
- e allo svolgimento dei cicli produttivi (ad esempio contratto di somministrazione di
materie prime)
- nonché per dare sbocco ai suoi prodotti (ad esempio contratti di somministrazione
stipulati con i clienti)
Il legislatore introduce significative deroghe alla disciplina generale della cessione dei
contratti deroghe che investono sia il rapporto alienante-acquirente sia la posizione del
terzo contraente.

È infatti previsto che se non è pattuito diversamente l’acquirente dell’azienda subentra nei
contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale
articolo 2558.
Al terzo contraente è riconosciuto il diritto di recedere dal contratto entro tre mesi dalla
notizia del trasferimento se sussiste una giusta causa salvo in questo caso la responsabilità
dell’alienante.

Il subingresso dell’acquirente nei contratti in corso di esecuzione prescinde da


un’esplicita manifestazione di volontà in tal senso nell’atto di alienazione dell’azienda.
Si produce quindi anche se l’alienante e acquirente nulla hanno previsto al riguardo e quindi
hanno effetto ex lege.
Una espressa pattuizione è necessaria solo se si vuole escludere la successione in uno o più
contratti in corso di esecuzione.

 La posizione del terzo contraente


Per il diritto comune la cessione del contratto non può avvenire senza il consenso del
contraente ceduto. Articolo 1406.
La situazione muta radicalmente quando il contratto è stipulato con un imprenditore ed ha
per oggetto prestazioni inerenti all’esercizio dell’impresa.
Il consenso del terzo contraente non è più necessario per il trasferimento del contratto e
l’effetto successorio si produce dal momento stesso in cui diventa efficace il trasferimento
di azienda.
Il terzo contraente non resta senza tutela.
Può recedere dal contratto entro tre mesi dalla notizia del trasferimento dell’azienda e può
quindi sciogliersi dal vincolo contrattuale con l’acquirente.
Il recesso potrà essere validamente esercitato solo se sussiste una giusta causa e spetterà
quindi al terzo contraente provare che l’acquirente dell’azienda si trova in una situazione
oggettiva: personale, patrimoniale o aziendale tale da non fare affidamento sulla regolare
esecuzione del contratto.

Inoltre il recesso non determina il ritorno del contratto in testa all’alienante bensì la
definitiva estinzione dello stesso. Resta al terzo contraente la possibilità di chiedere
risarcimento dei danni all’alienante dando la prova non facile che questi non ha osservato
la normale cautela nella scelta dell’acquirente dell’azienda.
 I contratti personali
Tale disciplina non trova applicazione ai contratti stipulati per l’esercizio dell’impresa che
hanno carattere personale. Per tali contratti sarà necessaria un’espressa pattuizione
contrattuale ed il consenso del contraente ceduto. I contratti personali sono quei contratti
nei quali l’identità e le qualità personali dell’imprenditore alienante sono stato in concreto
determinanti del consenso del terzo contraente.

I CREDITI E DEBITI AZIENDALI

La disciplina esposta nel paragrafo precedente si applica ai contratti a prestazioni


corrispettive non integralmente eseguiti da entrambe le parti al momento del trasferimento
dell’azienda, ai contratti cioè nei quali prestazioni promesse e non ancora eseguite da
parte dell’imprenditore alienante si contrappongono prestazioni promesse non ancora
eseguite dalla controparte.

- Nel caso in cui l’imprenditore ha già adempiuto alle obbligazioni a suo carico e quindi
una delle prestazioni del contratto sia stata già eseguita (ad esempio nel caso di una
vendita, vi è stato un trasferimento di beni ma il prezzo non è stato ancora pagato)
risulterà nei confronti del terzo un credito a suo favore.

- Viceversa residuerà un debito dell’imprenditore qualora il terzo contraente abbia


integralmente eseguito le proprie prestazioni (ad esempio l’imprenditore ha
acquistato materie prime ma non le ancora pagate).

In tali casi in sede di vendita dell’azienda troverà applicazione la disciplina dettata


dall’articolo 2559 e 2560 per i crediti e i debiti aziendali e non quella prevista dall’articolo
2558 che riguarda la successione nei contratti.

Entrambe le disposizioni introducono deroghe ai principi di diritto comune in quanto gli


articoli 2558 didattico 2559 derogano l’articolo 1264.

 CREDITI AZIENDALI
La cessione dei crediti relativi all'azienda ceduta, anche in mancanza di notifica
al debitore o di sua accettazione, ha effetto, nei confronti dei terzi, dal momento
dell'iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese. Tuttavia il debitore
ceduto è liberato se paga in buona fede all'alienante.
Le stesse disposizioni si applicano anche nel caso di usufrutto dell'azienda, se
esso si estende ai crediti relativi alla medesima.
Limitata è la deroga introdotta per i crediti aziendali dell’articolo 2559.

Al nuovo titolare dell’azienda si trasferiscono i crediti che facevano capo al precedente


titolare il quale diviene dunque titolare di un diritto di credito.
Viene quindi trasferito anche il diritto di ricevere pagamento.

Normalmente dall’articolo 1264 la cessione del credito ha effetto nei confronti del debitore
dal momento in cui questi la accettata o dal momento in cui è stata notificata e quindi il
debitore è tenuto ad adempiere al nuovo creditore.
L’articolo 2559 stabilisce che la cessione del credito ha effetto nei confronti di terzi, anche
in mancanza di accettazione del debitore o di notifica, dal momento dell’iscrizione del
trasferimento nel registro delle imprese.
L’iscrizione opera qui come una sorta di notifica collettiva.
Tuttavia il debitore ceduto è liberato se paga in buona fede all’alienante.
Questa disciplina è circoscritta alle imprese soggette a registrazione nella sezione ordinaria
e dunque anche all’imprese agricole che sono iscritte nella sezione speciale.
Negli altri casi trova invece applicazione la disciplina generale della cessione dei crediti
articolo 1264.

 DEBITI AZIENDALI

L’articolo 2560 del codice civile disciplina invece la sorte dei debiti aziendali.

“L'alienante non è liberato dai debiti, inerenti all'esercizio dell'azienda ceduta


anteriori al trasferimento, se non risulta che i creditori vi hanno consentito .
Nel trasferimento di un'azienda commerciale risponde dei debiti suddetti anche
l'acquirente dell'azienda, se essi risultano dai libri contabili obbligatori.”

La norma dispone che l’alienante rimane obbligato all’adempimento dei debiti inerenti
all’esercizio dell’azienda ceduta anteriori al trasferimento, salvo che il creditore manifesti il
suo consenso alla cessione del debito.
Il principio generale è che non è ammesso un cambiamento della persona del debitore se
non con il consenso del creditore.
L’alienante dunque non è liberato dai debiti se non risulta che i creditori vi hanno
consentito.

Se si tratta di un trasferimento di azienda commerciale è obbligato all’adempimento anche


l’acquirente sei debiti risultano dei libri contabili obbligatori.
Se manca un patto di accollo l’acquirente risponde in solido con l’alienante nei confronti dei
creditori che non abbiano consentito alla liberazione di quest’ultimo.
È dunque derogato il principio secondo cui ciascuno risponde solo delle obbligazioni da lui
assunte.

I creditori dunque possono rivolgersi solo all’alienante nel caso di trasferimento di azienda
non commerciale, nell’ipotesi di trasferimento di azienda commerciale potranno rivalersi sia
sull’alienante che sull’acquirente.

Dai due articoli si emerge che le conseguenze del trasferimento dell’azienda non trattano le
sorti di tali crediti di tali debiti nel rapporto fra alienante ed acquirente.
Prevale negli orientamenti più recenti la tesi che i debiti e i crediti non passano
automaticamente in testa all’acquirente ma è necessaria una espressa pattuizione.
In mancanza l’acquirente riceverà il pagamento dei crediti anteriori come semplice
legittimato a riscuotere per conto dell’alienante e sarà tenuto a trasferirgli quanto riscosso
nonché pagherà debiti anteriori al trasferimento dell’azienda quale garante ex lege
dell’alienante e avrà diritto di rivalsa per l’intero nei confronti di questo.

USUFRUTTO E AFFITTO DELL’AZIENDA

Il titolare dell’azienda può trasferire anche solo il godimento della stessa attribuendo ad un
terzo il diritto di usufrutto o concludendo un contratto di affitto.

- L’USUFRUTTO  è un diritto reale su cosa altrui che attribuisce al titolare il potere di


godere di un bene e trarre dallo stesso tutte le utilità che può dare.
I diritti reali assicurano un potere assoluto cioè che può essere
fatto valere nei confronti di tutti e immediato sulla cosa.

- L’AFFITTO invece è un particolare contratto di locazione avente ad oggetto una


cosa produttiva ed attribuisce all’affittuario un semplice diritto
personale di godimento del bene.
Art 2561
L'usufruttuario dell'azienda deve esercitarla sotto la ditta che la
contraddistingue.
Egli deve gestire l'azienda senza modificarne la destinazione e in modo da
conservare l'efficienza dell'organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni
di scorte.
Se non adempie a tale obbligo o cessa arbitrariamente dalla gestione
dell'azienda, si applica l'articolo 1015.
La differenza tra le consistenze d'inventario all'inizio e al termine dell'usufrutto è
regolata in danaro, sulla base dei valori correnti al termine dell'usufrutto.

La disciplina dell'usufrutto considera l'azienda come una universitas rerum, cioè un


complesso di beni organizzati in vista di una finalità produttiva.
Pertanto tutti i beni eventualmente immessi dall'usufruttuario entrano a far parte
integrante del complesso aziendale, ed il nudo proprietario ne acquista la proprietà mentre
l'usufruttuario avrà diritto alla differenza in denaro tra la consistenza dell'inventario
all'inizio e al termine dell'usufrutto.

L’usufruttuario subentra nei rapporti giuridici preesistenti:


- succede nei contratti in corso di esecuzione per tutta la durata dell’usufrutto (2558) e
nei crediti (2559)
- non è però responsabile per i debiti aziendali, al contrario dell’acquirente di azienda
commerciale.

L’usufruttuario deve gestire l’azienda senza modificarne la trasformazione (non può


trasformare un’officina meccanica in una macelleria).
Ed in modo da conservare l’efficienza dell’organizzazione degli impianti e le normali
dotazioni di scorte, e inoltre deve utilizzare la ditta che contraddistingue l’azienda e non
può cambiarla. Ciò al fine di tutelare l’avviamento.

L’usufruttuario ha poi un vero e proprio obbligo di gestire l’azienda, di continuare cioè


l’esercizio dell’impresa: non è sufficiente che si limiti a conservare il complesso aziendale
senza mutarne la destinazione economica ma deve adoperarsi per gestirla meglio ed
evitare che possa perdere di competitività sul mercato.

L’usufruttuario ha dunque particolari poteri-doveri per consentire di avere la libertà


operativa necessaria per gestire proficuamente l’impresa ma anche per tutelare l’interesse
del concedente che non sia menomata l’efficienza del complesso aziendale.
La violazione di tali obblighi o la cessazione arbitraria della gestione determinano la
cessazione dell’usufrutto per abuso dell’usufruttuario.

Il potere-dovere di gestione dell’usufruttuario comporta che lo stesso non solo può godere
dei beni aziendali ma anche il potere di disporre .
Tale potere di disposizione sussiste non solo rispetto alle scorte più generale rispetto al
cosiddetto capitale, tante, ma anche rispetto al capitale fisso immobili, impianti,
macchinari, purché non alterino l’identità e l’efficienza dell’azienda.

L’usufruttuario potrà acquistare ed immettere nell’azienda nuovi beni che diventano di


proprietà del nudo proprietario e sui quali usufruttuario avrà diritto di godimento e potere
di disposizione.
È previsto che venga redatto un inventario all’inizio ed alla fine dell’usufrutto e che la
differenza fra le due consistenze sia regolata in denaro sulla base dei valori correnti al
termine dell’usufrutto.

La disciplina prevista per l’usufrutto si applica anche per l’affitto di azienda per l’espresso
rinvio dell’articolo 2562.

Si applicano ad entrambe le fattispecie gli articoli 2557 (DIVIETO DI NON CONCORRENZA) e


2558(SUCCESSIONE NEI CONTRATTI AZIENDALI).
Il nudo proprietario e il lavoratore sono perciò tenuti a non iniziare una nuova impresa
idonea a sviare la clientela per la durata dell’usufrutto e dell’affitto.
Inoltre l’usufruttuario e l’affittuario subentrano automaticamente nei contratti aziendali per
la durata dell’usufrutto o dell’affitto.
Si applica all’usufrutto ma non all’affitto la disciplina dei crediti aziendali.
Non si applica ad alcuna delle due fattispecie l’articolo 2560 mancando un espresso
richiamo. Perciò i debiti aziendali anteriori all’usufrutto e all’affitto risponderanno
esclusivamente il nudo proprietario o il locatore salvo che per i debiti di lavoro
espressamente accollati anche al titolare del diritto di godimento.

In sintesi:
- devono conservare l’identità dell’azienda
- deve essere mantenuta la destinazione economica
- subentrano nei contratti aziendali per la durata dell’affitto/usufrutto
- sono tenuti a non iniziare una nuova attività idonea a sviare la clientela (divieto di
concorrenza)
- è riconosciuto all’usufruttuario/affittuario un diritto di gestione
- non si applica la disciplina dei debiti aziendali
I SEGNI DISTINTIVI

IL SISTEMA DEI SEGNI DISTINTIVI

Gli imprenditori operano normalmente sul mercato che vede coesistere più imprenditori
che producono beni o servizi identici o similari.
È quindi particolarmente importante per l’imprenditore che la sua impresa, i locali in cui
essa opera, i prodotti o servizi forniti siano immediatamente riconoscibili e distinguibili da
tutti gli altri, perché in questo modo si favorisce la formazione e il mantenimento della
clientela.
Anche i consumatori hanno un rilevante interesse ad essere correttamente informati su chi
sia l’imprenditore sulle caratteristiche dei prodotti perché solo in questo caso possono fare
consapevolmente le proprie scelte.
Esiste infine un generale interesse all’ordinato leale svolgimento della concorrenza.

Ciascun imprenditore perciò utilizza uno o più fattori di individuazione, uno più segni
distintivi che consentono di individuarlo sul mercato e di distinguerlo dagli altri imprenditori
concorrenti.
La ditta, l’insegna ed il marchio sono i tre principali segni distintivi dell’imprenditore.

- LA DITTA contraddistingue la persona dell’imprenditore nell’esercizio dell’attività


d’impresa. Individua dunque l’imprenditore

- L’INSEGNA individua i locali in cui l’attività di impresa è esercitata

- IL MARCHIO individua e distingue i beni o i servizi prodotti è dunque il segno


distintivo del prodotto del servizio fornito.

Crescente rilievo ha acquistato il nome a dominio in un sito Internet usato nell’attività


economica

Tali segni distintivi favoriscono la formazione ed il mantenimento della clientela in quanto


consentono al pubblico di effettuare scelte consapevoli.
Viene dunque tutelato l’interesse degli imprenditori a dotarsi di segni che abbiano spiccata
forza distintiva ed attrattiva precludendo ai concorrenti l’uso di segni similari idonea sviare
la propria clientela.
Sono inoltre tutelati gli interessi degli stessi imprenditori a poter liberare i propri segni
distintivi in modo da monetizzare l’autonomo valore economico.
Dalle tre discipline è tuttavia possibile desumere taluni principi ispiratori comuni:

I. L’imprenditore gode di ampia libertà nella formazione dei propri segni distintivi.
È tenuto però a rispettare determinate regole volte ad evitare inganno e confusione
sul mercato.

II. L’imprenditore ha diritto all’uso esclusivo dei propri segni distintivi.


Si tratta però di un diritto non assoluto ma relativo e strumentale alla realizzazione
della funzione distintiva rispetto agli imprenditori concorrenti.
Il titolare di un segno distintivo non può impedire che altri adotti il medesimo segno
distintivo quando per la diversità delle attività d’impresa o per le diversità dei mercati
serviti non vi è pericolo di diffusione e di sviamento della clientela.

III. L’imprenditore può trasferire ad altri i propri segni distintivi


ma l’ordinamento tende ad evitare che la circolazione dei segni distintivi possa trarre
in inganno il pubblico.

Favoriscono la formazione e il mantenimento della clientela

LA DITTA
La ditta:
- è il nome commerciale dell’imprenditore.
- È il segno distintivo che contraddistingue la persona dell’imprenditore nell’esercizio
della sua attività e pertanto può definirsi come il suo nome commerciale
- Lo individua come soggetto di diritto nell’esercizio dell’attività d’impresa.
- È segno distintivo necessario nel senso che in mancanza di diversa scelta essa
coincide con il nome civile dell’imprenditore.
- Non è necessario tuttavia che la ditta corrisponda al nome civile: essa può essere
liberamente prescelta dall’imprenditore.

- È il nome sotto il quale l’imprenditore svolge la sua attività concludendo con i terzi
rapporti di affari inerenti all’impresa.

Articolo 2563.
L'imprenditore ha diritto all'uso esclusivo della ditta da lui prescelta.
La ditta, comunque sia formata, deve contenere almeno il cognome o la sigla
dell'imprenditore, salvo quanto è disposto all'articolo.
L’imprenditore è libero di utilizzare la ditta che preferisce, che ritiene maggiormente idonea
ad individuarlo e a fare presa sul pubblico.
Nella scelta della propria ditta l’imprenditore incontra però due limiti specifici
espressamente enunciati rappresentati dal rispetto dei principi della verità e della novità.

 IL PRINCIPIO DELLA VERITÀ DELLA DITTA


la ditta, comunque sia formata, deve contenere almeno il cognome o la sigla
dell’imprenditore
Tuttavia il principio di verità ha un contenuto diverso a seconda che si tratti di ditta
originaria o di ditta derivata.

- La ditta originaria è quella formata dall’imprenditore che la utilizza.


Deve contenere almeno il cognome o la sigla di esso.
Tanto è necessario per rispettare il principio di verità, può poi
completarla come preferisce.
Si ritiene che l’imprenditore non è tenuto a modificare la ditta
qualora intervengano mutamenti del suo nome civile ad esempio
per matrimonio divorzio o adozione.

Esempi di ditta originaria regolare sono: arte mobili di Mario russo, bar Empoli di M.E.
Non è regolare una ditta priva del cognome o della sigla dell’imprenditore.

- Si parla di ditta derivata quando la ditta è stata trasferita, insieme all’azienda, da un


imprenditore all’altro, in questo caso il nuovo titolare
dell’azienda può continuare ad utilizzare la ditta precedente
che conterrà il cognome o la sigla dell’alienante senza
necessità di integrarla con il proprio cognome o la propria
sigla.

 PRINCIPIO DI NOVITÀ

Art 2564
Quando la ditta è uguale o simile a quella usata da altro imprenditore e può
creare confusione per l'oggetto dell'impresa e per il luogo in cui questa è
esercitata, deve essere integrata o modificata con indicazioni idonee a
differenziarla.
Per le imprese commerciali l'obbligo dell'integrazione o modificazione spetta a
chi ha iscritto la propria ditta nel registro delle imprese in epoca posteriore.
Così come sancito dall’articolo 2564 la ditta non deve essere uguale o simile a quella usata
da un altro imprenditore e tale da creare confusione per l’oggetto dell’impresa o per il
luogo in cui è esercitata.
L’imprenditore che ha adottato per primo una determinata ditta o se si tratta di
imprenditore commerciale che ha iscritto per primo la ditta nel registro delle imprese ha
diritto all’uso esclusivo della ditta stessa cioè il diritto di pretendere che nessun altro
imprenditore concorrente utilizzi lo stesso nome commerciale.

A tutela del proprio diritto l’imprenditore può esercitare l’azione di usurpazione e


contraffazione con la quale chiede al giudice di impedire all’usurpatore e al contraffattore
di continuare a utilizzare quella ditta e al risarcimento dei danni subiti.
La ditta registrata per prima prevale solo quando chi ha preusato la stessa ditta senza
registrarla non riesca a provare la conoscenza del proprio preuso da parte dell’altro
imprenditore.
Chi successivamente adotti una ditta uguale o simile può essere costretto ad integrarlo o a
modificarla con indicazioni idonee a differenziarla.

Che differenza c’è tra usurpazione contraffazione?

- L’usurpazione consiste nell’uso della stessa ditta usata da un imprenditore


concorrente.
- La contraffazione consiste nell’uso di una ditta simile ad altra già esistente al fine di
indurre in errore i consumatori circa la provenienza del bene o del servizio.
È il caso di chi produce e vende zaini new oleari evidentemente confondibile con
quelli Nay Oleari

 Obbligo di differenziazione
il principio di novità va inteso in senso relativo.
L’obbligo di differenziazione sussiste solo se i due imprenditori sono in concorrenza tra di
loro e quindi l’uso di una ditta uguale o simile può creare confusione tra i consumatori.
È invece possibile che due imprenditori che svolgono attività diverse o che operano in
luoghi diversi utilizzino una ditta uguale o simile perché in questo caso non può crearsi
alcuna conclusione.
TRASFERIMENTO DELLA DITTA
Il legislatore ha poi espressamente disciplinato il trasferimento della ditta da un
imprenditore all’altro.

Art 2565
La ditta non può essere trasferita separatamente dall'azienda.
Nel trasferimento dell'azienda per atto tra vivi la ditta non passa all'acquirente
senza il consenso dell'alienante.
Nella successione nell'azienda per causa di morte la ditta si trasmette al
successore, salvo diversa disposizione testamentaria.

L’articolo 2565 stabilisce che la ditta può essere trasferita solo insieme all’azienda.

In questo modo si tutelano in una certa misura i consumatori perché anche se è cambiata la
persona dell’imprenditore, gli stessi hanno almeno la certezza che alle spalle di quella ditta
c’è pur sempre il medesimo complesso produttivo e che quindi livello qualitativo del bene o
del prodotto fornito non è almeno tendenzialmente troppo diverso rispetto al passato.
Inoltre consente al titolare della ditta di monetizzare il valore di avviamento alla stessa
connesso.
La norma in particolare distingue due ipotesi:
- in caso di trasferimento dell’azienda per atto tra vivi è necessario che risulti
espressamente la volontà dell’alienante di trasferire anche la ditta. In caso contrario
questa non passa all’acquirente.

- In caso di successione a causa di morte il trasferimento della ditta si produce


automaticamente in capo al successore ma può essere impedito anche attraverso la
manifestazione di una volontà contraria all’interno del testamento.

La circostanza che la ditta derivata non deve essere integrata con indicazioni idonee ad
individuare l’attuale imprenditore titolare dell’impresa e il ritardo nel attuazione del
registro delle imprese ha reso per lungo tempo inoperante il sistema di pubblicità legale del
trasferimento dell’azienda.

Il pericolo che chi entri in rapporto di affari con l’imprenditore concedendogli credito sia
tratto in inganno dall’uso di una ditta derivata perciò esiste ed è reale.
A costoro offre soccorso la giurisprudenza attraverso l’applicazione del principio
dell’apparenza di diritto e della tutela dell’affidamento incolpevole.
Si ritiene infatti che chi ha trasferito l’azienda è responsabile in solido con l’acquirente per
i debiti da questo contratti spendendo la ditta derivata, qualora il terzo contraente abbia
potuto ragionevolmente ritenere di trattare con il cedente.
Si addossa dunque all’alienante l’onere di portare a conoscenza dei terzi con mezzi idonei
l’avvenuto trasferimento dell’azienda e della ditta, se si tratta di impresa non commerciale,
o comunque imporre all’acquirente di integrare la ditta con indicazioni non equivoche.

DITTA E IL NOME CIVILE.


DITTA E IL NOME DELLA SOCIETÀ.

L’imprenditore individuale ha un nome civile c. ha o può avere altresì una ditta che lo
individua nella specifica veste.
Ditta individuale e nome civile assolvono ad una diversa funzione e sono diversamente
disciplinati.
- IL NOME CIVILE è attribuito per legge, è unico e non è liberamente modificabile.

Principio opposti regolano la formazione della ditta.


L’imprenditore se ha un solo nome civile può però avere più ditte .
Ad esempio : una ditta originaria ed una o più ditte derivate di cui è divenuto titolare in
sede di trasferimento.

Ditta e nome civile sono diversamente tutelati e formano oggetto di diritti diversi.
- IL NOME CIVILE è attribuito alla personalità e come tale è tutelato nei limiti fissati
dagli articoli 7-9 del codice civile.
- LA DITTA è invece tutelata come mezzo di attrazione della clientela e come valore
patrimoniale.

Perciò l’omonimia fra nomi civili è sempre ammessa non è invece consentita omonimia fra
ditte di imprenditori il rapporto di concorrenza.

La distinzione fra nome civile e nome commerciale è da ritenersi valida anche per le società.
La norma stabilisce che la ragione sociale della società di persone e la denominazione
sociale delle società di capitali e delle cooperative sono regolate da norme specificatamente
dettate in sede di disciplina dei singoli tipi di società.
Anche ad esse si applica il divieto di utilizzare ditta uguale o simile a quella di altro
imprenditore concorrente.
Ragione sociale e denominazione sociale non vanno identificate con la ditta.
Ragione sociale e denominazione sociale costituiscono il nome necessario della società e
vanno poste sullo stesso piano del nome civile della persona civile in quanto servono ad
individuarle come soggetti di diritto.

Quindi la disciplina dettata dall’articolo 2567 regola solo il nome della società e non
impedisce affatto la formazione e utilizzo di una ditta distinta dalla ragione o
denominazione sociale.

Le società devono avere una ragione sociale o una denominazione sociale.


Il nome di una società non può essere perciò uguale o simile a quello prescelto l’altra
società concorrente e non è trasferibile.
Le società possono inoltre avere anche una ditta originaria formata rispettando le norme
sulla ditta. Ditte che rimangono distinte dal nome e che a differenza di questo potranno
essere trasferite con l’azienda.

IL MARCHIO
Il marchio è il segno distintivo dei prodotti o dei servizi forniti dall’imprenditore ed è
particolarmente importante in quanto:
- Differenzia i prodotti o servizi da altri simili presenti sul mercato,
- indica la loro provenienza da una determinata fonte di produzione,
- esercita una rilevante funzione attrattiva per il pubblico.

Il marchio può essere costituito da


- parole,
- disegni,
- lettere,
- cifre,
- addirittura da suoni (per esempio la sigla di una trasmissione)
- o dalla forma del prodotto
- o della sua particolare confezione

Purché siano in grado di distinguere i prodotti di un’impresa da quelli di altre imprese.


Sono esempi di marchio il baffo presente sui prodotti della Nike, la M sui prodotti di Motta,
il cavallino rampante della Ferrari, il coccodrillo della Lacoste.

La disciplina del marchio è contenuta nel codice civile agli articoli 2569-2574 e in un
apposita normativa speciale comunemente definita legge marchi.
Esiste inoltre una disciplina internazionale del marchio contenute nella convenzione di
Unione di Parigi del 1883, nell’accordo di Madrid del 1891 sulla registrazione internazionale
dei marchi, nel regolamento della comunità europea che hai istituito il marchio
comunitario.
Dunque è disciplinato sia dall’ordinamento nazionale sia da quello comunitario ed
internazionale.

MARCHIO COMUNITARIO
La relativa disciplina consente di ottenere con un’unica procedura un marchio unico,
unitariamente regolato e tutelato in tutti paesi dell’Unione Europea.
Tali normative imperniate sull’istituto della registrazione del marchio.
Riconoscono al titolare del marchio, rispondente ai determinati requisiti di validità, il
diritto all’uso esclusivo dello stesso così permettendo che il marchio assolva la sua
funzione di identificazione e differenziazione dei prodotti similari esistenti sul mercato.

INDICE DI PROVENIENZA
Il marchio è anche indicatore della provenienza del prodotto da una fonte unitaria di
produzione: al marchio di camice alfa il pubblico associa sia quelle determinate camice sia
un determinato fabbricante delle stesse.

Dopo la riforma del 1992 questa funzione giuridica è stata ridimensionata,


- è infatti caduto il divieto di circolazione del marchio separatamente dall’azienda

- si è riconosciuta la legittimità dell’uso dello stesso marchio da parte di più


imprenditori concorrenti Sulla base di una licenza di marchio non esclusiva concessa
dal titolare dello stesso.
È perciò oggi consentito che prodotti uguali contraddistinti dallo stesso marchio siano
immessi in commercio da produttori diversi.
Il che non significa però che il marchio sia divenuto un semplice simbolo di
identificazione del prodotto in sé per se e che quindi abbia perso una funzione
l’indicatore di provenienza.
Infatti imprenditori aventi lo stesso marchio sono tenuti ad assicurare l’omogeneità
dei caratteri essenziali e della qualità dei prodotti dello stesso tipo contraddistinti
da marchio comune in modo da evitare che il pubblico sia tratto in inganno. Devono
dunque presentare un identico standard qualitativo.

Fra le funzioni del marchio giuridicamente riconosciute e protette non può tuttavia
ricomprendersi quella della garanzia della qualità dei prodotti.
Molto spesso il pubblico associa al marchio l’idea di un certo livello qualitativo dei prodotti
e l’aspettativa che tale qualità rimanga costante nel tempo.
Nella disciplina dei marchi non vi è alcuna norma che assolva funzioni di garanzia della
qualità dei prodotti o che vieti al produttore variazioni qualitative della propria produzione.
Il legislatore si preoccupa solo di evitare che il pubblico sia tratto in inganno sull’origine e
sulla qualità del prodotto.

Certi marchi finiscono con l’assumere un’autonoma forza attrattiva dei consumatori.
Ed il massiccio impiego di macchine la pubblicità commerciale esalta la loro capacità di
richiamo del pubblico.
È comprensibile dunque l’interesse dei titolari di marchi celebri a contrastare l’uso degli
stessi da parte di altri produttori anche per prodotti affatto diversi da quelli da loro immessi
sul mercato.
L’attuale disciplina infatti ha recepito la distinzione tra marchi ordinari e marchi celebri e
ha esteso la tutela di questi ultimi oltre i limiti segnati dalla necessità di evitare la
confusione dei prodotti affini danno così riconoscimento giuridico alla funzione attrattiva
degli stessi.

TIPI DI MARCHIO
I marchi possono essere classificati e raggruppati secondo diversi criteri,una prima classica
distinzione si basa sulla natura dell’attività svolta dal titolare del marchio.

 MARCHIO DI FABBRICA
È quello apposto sul prodotto di chi lo ha fabbricato.
Del marchio può servirsi innanzitutto il fabbricante del prodotto. I beni che subiscono
successive fasi di lavorazione o risultano dall’assemblaggio di parti distintamente prodotte
possono presentare anche più marchi di fabbrica.
Il marchio può essere apposto anche dal commerciante, sia esso un distributore intermedio
o rivenditore finale. Su uno stesso prodotto possono perciò coesistere più marchi di
fabbricazione e o di commercio. Il rivenditore può apporre il proprio marchio ai prodotti che
mette in vendita ma non può sopprimere il marchio del produttore.

 MARCHIO DI SERVIZIO
È quello che contraddistingue un servizio al pubblico e quindi non può essere apposto sul
prodotto (si pensi ad esempio al marchio infostrada e a tutti gli altri gestori di servizi di
telefonia) esso in genere si identifica con la ditta e viene utilizzato soprattutto in ambito
pubblicitario.

 IL MARCHIO DI COMMERCIO
Il marchio di commercio è invece quello posto dalla rivenditore,è il caso del marchio coop
presente su alcuni prodotti venduti in questa catena di grandi magazzini.
Il marchio di commercio può essere aggiunto a quello di fabbrica ma non posso opprimerlo.
Altra classica distinzione è quella fra
- MARCHIO GENERALE  L’imprenditore può utilizzare un solo marchio per tutti i
propri prodotti (FIAT)
- E MARCHI SPECIALI ma può anche servirsi di più marchi e ciò lo fa quando vuole
differenziare i prodotti della propria impresa o anche tipi
diversi dello stesso prodotto per sottolineare ai consumatori
le relative diversità qualitative (FIAT PUNTO, FIAT PANDA..)

È altresì possibile l’uso contemporaneo di un marchio generale e di più marchi speciali


quando si vuole evidenziare al tempo stesso l’unità della fonte di produzione e la diversità
dei prodotti.
Un esempio può essere quella del produttore di automobili adesso empio Fiat Panda, Fiat.
oppure di cosmetici.

Il marchio può essere costituito


- solo da parole (marchio di nominativo),
- oppure dai esclusivamente da figure, lettere, cifre, disegni o colori e anche da suoni
(marchio figurativo)
- Il marchio può infine consistere nella combinazione di parole di uno o più altri simboli
(marchio misto).
- Il marchio può essere costituito anche dalla forma del prodotto o dalla confezione
dello stesso o tridimensionale (marchio di forma)
ad esempio la particolare forma di bottiglia di un liquore o di un flacone per i
profumi.

Il codice della proprietà Industriale puntualizza che non possono essere registrati come
marchio le forme imposte dalla natura stessa del prodotto, quelle necessarie per ottenere
un risultato tecnico e quelle che danno valore sostanziale al prodotto vale a dire le forme
necessarie, funzionali ed ornamentali.
Per costituire oggetto di diritto si deve trattare di una forma arbitraria o capricciosa la cui
funzione esclusiva sia quella di consentire l’individuazione del prodotto.

Si distinguono infine il
- MARCHIO INDIVIDUALE è quello usato da un singolo imprenditore
- IL MARCHIO COLLETTIVO è quello usato da più imprenditori ed ha la funzione di
garantire l’origine, la natura o la qualità di un prodotto o
servizio
si pensi al marchio pura lana vergine o quello parmigiano
reggiano. In genere l’uso del marchio collettivo è
subordinato ad una concessione rilasciata dall’imprenditore
per l’uso del marchio in concessione, subordinata al rispetto
di alcuni regolamenti interni che garantiscono determinate
caratteristiche di qualità del prodotto.

Il marchio collettivo si distingue dai marchi di impresa in quanto titolare del marchio
collettivo è un soggetto che svolge la funzione di garante l’origine, la natura o la qualità di
determinati prodotti o servizi.
Tale marchio non viene utilizzato dall’ente che ne ottenuto la registrazione ma è concesso
in uso a produttori o commercianti consociati. Questi si impegnano a rispettare la loro
attività le norme statutarie fissate dall’ente e a consentire i relativi controlli.
Tali marchi sono utilizzati in aggiunta a quelli individuali

I REQUISITI DI VALIDITÀ DEL MARCHIO

Per essere tutelato giuridicamente, il marchio deve rispondere a determinati requisiti di


liceità, di verità, di originalità e novità.

 LICEITÀ

marchio non deve contenere: segni contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon
costume, stemmi o altri segni protetti da convenzioni internazionali senza l’autorizzazione
dell’autorità competente, segni lesivi di altrui diritto di autore o di proprietà industriale.

È altresì fatto divieto di utilizzare come marchio l’altrui ritratto senza il consenso
dell’interessato o dopo la morte di questi dagli eredi.

Per quanto riguarda la tutela dell’altrui diritto al nome è oggi introdotta una distinzione
fondata sulla diverse capacità di attrattiva che il nome può avere:

- se si tratta di una persona che ha acquisito notorietà ad esempio un famoso


calciatore o un’attrice è necessario il consenso dell’interessato o dei suoi eredi, se si
vuole usare come marchio il nome della stessa o anche lo pseudonimo.
- Per le persone non note la disciplina dispone che il nome altrui può essere inserito
nel marchio anche senza il consenso dell’interessato purché l’uso non sia tale da
ledere la fama, il credito o il decoro dell’avente diritto al nome. L’Ufficio brevetti ha
tuttavia la facoltà di subordinare la registrazione al consenso dell’interessato.
 VERITÀ

Il principio della verità vieta di inserire nel marchio segni idonei ad ingannare il pubblico, in
particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o servizi.
Ad esempio è stato ritenuto decettivo(ingannevole) il marchio new England per i prodotti di
abbigliamento fabbricati in Italia.
Non deve dunque ingannare i consumatori circa la qualità, la provenienza e la natura del
prodotto.

 ORIGINALITÀ

Il marchio deve essere composto in modo da consentire l’individuazione dei prodotti


contrassegnati fra tutti prodotti dello stesso genere immessi sul mercato.
Il legislatore predetermina i tipi di segni privi di tale capacità distintiva:

1) le denominazioni generiche del prodotto del servizio o la loro figura generica.


Un marchio per calzature non potrà essere costituito esclusivamente dalle parole
scarpe o calzature o dalla figura di una scarpa.

2) Le indicazioni descrittive dei caratteri essenziali, delle prestazioni e della


provenienza geografica del prodotto.
Così ad esempio si è escluso che l’espressione “brillo” possa essere usata come
marchio per prodotti lucidanti.

3) I segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente


come le parole super, extra, lusso ed in genere tutti i prefissi ed i suffissi.

La ratio di questi divieti è quella di impedire l’acquisto di posizioni di monopolio sui simboli
che nel lessico comune individuano genericamente quel dato prodotto.

Perciò il requisito dell’originalità è rispettato quando si utilizzano denominazioni anche


geografiche che non abbiano alcuna relazione con il prodotto contraddistinto il cosiddetto
marchio di fantasia.
Ad esempio la parola è “aeroplano” e/o la figura di un aeroplano per un marchio di
calzature.
La denominazione geografica Capri per una marca di sigarette.

Per lo stesso motivo parole straniere descrittive o generiche possono considerarsi dotati di
capacità distintiva quando non sono note nel loro significato al consumatore medio italiano.
Ad esempio le parole Cynar e Ginger Per un aperitivo al carciofo o allo zenzero.
È infine possibile usare come marchio denominazioni generiche o parole di uso comune
modificate o combinate fra loro in modo fantasioso: Amplifon, vetro lux eccetera.

In questi casi però la capacità distintiva del marchio è affidata alla combinazione di
fantasia e solo entro tali limiti il titolare del marchio è tutelato contro l’altrui imitazione.
Il marchio è definito marchio debole e basteranno lievi modifiche o aggiunte per escludere
la confondibili con altri marchi
Così è stata esclusa la confondibilità fra i marchi amplifon e udifon fra Swatch e j-Watch fra
bergamon e bergasol.

Si definiscono MARCHI FORTI quelli dotati di accentuata capacità distintiva e sono tali i
marchi di pura fantasia. Per tali marchi modifiche anche notevoli non basteranno ad evitare
la contraffazione. Così si è ritenuto che costituisca contraffazione del marchio buondì il
marchio bonnj.

Si può anche verificare che un marchio inizialmente dotato di scarsa capacità distintiva
diventi poi forte a seguito dell’uso e della notorietà che ha acquisito presso il pubblico
anche grazie ad una accorta pubblicità. (SECONDARY MEANING)

Il codice della proprietà industriale distingue fra marchi ordinari e marchi celebri.

Se il marchio già registrato è un marchio celebre, risulta essere non nuovo il marchio
confondibile da altri successivamente utilizzato per prodotto o servizio non affine se chi lo
usa trarrebbe indebito vantaggio dal carattere distintivo e dalla rinomanza del marchio.
Sono marchi che godono di una particolare rinomanza e che hanno acquisito una celebrità
tale da indurre il consumatore in errore se usati per prodotti diversi, essi godono di una più
ampia tutela perché non possono essere sfruttati da nessuno e in nessun caso senza il
consenso del titolare.
Ad esempio il marchio delle auto da corsa Ferrari utilizzato da un produttore di orologi.
 NULLITÀ

Il difetto dei requisiti fin qui esposti comporta la nullità del marchio che può riguardare
anche solo parte dei prodotti o servizi per i quali il marchio è stato registrato.
Sono tuttavia previste due significative eccezioni:

- la nullità del marchio per difetto di novità


non può essere più dichiarata quando chi ha richiesto la registrazione non era in
malafede e il titolare del marchio anteriore ne abbia tollerato l’uso per cinque anni.
Questo è l’istituto della convalida del marchio ed è applicabile anche al conflitto fra
due marchi entrambi registrati e comporta in ogni caso la coesistenza dei due marchi
confondibili

- La nullità del marchio per difetto di originalità


non può essere dichiarata quando a seguito dell’uso che ne è stato fatto ha
acquistato capacità distintiva prima della proposizione della domanda o
dell’eccezione di nullità cioè nel caso di sopravvenuto secondary Meaning.

IL MARCHIO REGISTRATO

Il titolare del marchio rispondente requisiti di validità indicati in precedenza ha diritto


all’uso esclusivo del marchio prescelto.
Il contenuto del diritto sul marchio e la relativa tutela sono diversi a seconda che il marchio
sia stato meno registrato presso l’ufficio Italiano brevetti e marchi, istituito presso il
ministero delle attività produttive.
Inoltre per gli stessi marchi registrati la disciplina è diversa seconda che si tratti di marchi
ordinari o di marchi celebri.

 MARCHIO REGISTRATO

Il marchio registrato può essere ottenuto non solo dall’imprenditore che intende utilizzarlo
direttamente della propria impresa ma anche da chi si proponga di utilizzarlo in altre
imprese di cui abbia il controllo.
La registrazione attribuisce al titolare del marchio il diritto all’uso esclusivo dello stesso su
tutto il territorio nazionale quale che sia l’effettiva diffusione territoriale dei suoi prodotti.
Un imprenditore che opera solo in Sicilia può impedire che il suo marchio venga utilizzato
da un altro imprenditore dello stesso settore che opera in Lombardia.
In particolare il titolare di un marchio registrato può impedire a terzi di mettere in
commercio, di importare o di esportare prodotti contrassegnati con il proprio marchio
nonché di utilizzare lo stesso nella pubblicità quando ciò possa determinare un rischio di
confusione per il pubblico.

Il diritto di esclusiva sul marchio registrato copre i prodotti identici e quelli affini qualora
possano determinare un rischio di confusione per il pubblico.
Cioè tutti quei prodotti che a causa della loro vicinanza merceologica possono ritenersi in
fatto destinati alla stessa clientela (ad esempio frigoriferi e lavatrici) o al soddisfacimento di
bisogni identici o complementari (ad esempio prodotti caseari e conserve alimentari).

La tutela del marchio non impedisce che altro imprenditore registri o usi lo stesso marchio
per prodotti diversi.

 MARCHI CELEBRI

Quando si tratta di marchi celebri dotati cioè di una forte capacità attrattiva e
suggestiva(Cartier, coca cola, malboro, eccetera) vi sono conseguenze particolarmente
gravi.
L’uso di tali marchi da parte di altri imprenditori anche per merci del tutto diverse (ad
esempio l’uso del marchio coca-cola per articoli di abbigliamento), oltre a costituire
l’usurpazione dell’altrui fama può determinare equivoci sulla reale fonte di produzione
per la tendenza a riferire qualsiasi prodotto contrassegnato da un marchio celebre allo
stesso fabbricante.
Con la riforma del 1992La tutela dei marchi celebri è stata svincolata dal criterio dell’affinità
merceologica.
Il titolare di un marchio registrato celebre può vietare ai terzi di usare un marchio identico
o simile al proprio anche per prodotti o servizi non affini quando l’uso del segno senza
giustificato motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o
reca pregiudizio agli stessi. Soprattutto quando è utilizzato per prodotto scadente.

Il diritto di esclusiva sul marchio registrato decorre dalla data di presentazione della
relativa domanda dell’ufficio brevetti. Una volta presentata la domanda di registrazione,
una volta concessa, ogni marchio uguale o simile, successivamente presentato per la
registrazione è nullo per difetto di requisito di novità.
La registrazione nazionale è poi presupposto per poter estendere la tutela del marchio in
ambito internazionale attraverso la successiva registrazione presso l’organizzazione
mondiale per la proprietà industriale di Ginevra.
Per il marchio comunitario la registrazione è indipendente da quella nazionale. La
registrazione va situata presso l’ufficio per l’armonizzazione del mercato interno ad Alicante
Spagna.

La registrazione nazionale dura 10 anni, è rinnovabile per un numero illimitato di volte


sempre con efficacia decennale.
La registrazione assicura una tutela pressoché perpetua salvo che non sia successivamente
dichiarata la nullità del marchio per difetto originario di uno dei requisiti essenziali o non
sopravvenga una causa di decadenza.

Dal marchio si ricade anche parzialmente per:


1. volgarizzazione,

2. sopravvenuta ingannevolezza dello stesso,

3. mancata utilizzazione entro cinque anni dalla registrazione o se l’utilizzazione è stata


sospesa per uguale periodo salvo che l’inerzia non sia dovuta ad un motivo legittimo.

4. Mancato pagamento dei diritti di rinnovo trascorsi sei mesi dalla scadenza.

5. Se il titolare omette i controlli previsti dalle disposizioni destinate a regolarne l’uso.

VOLGARIZZAZIONE
Sì ha volgarizzazione del marchio quando lo stesso è divenuto nel commercio
denominazione generica di quel dato prodotto perdendo la propria capacità distintiva.
Tipico è il caso di marchi cellofan, nylon e biro passati ormai a designare genericamente un
involucro di plastica, un filato tessile artificiale ed una penna sfera.

Non basta il dato oggettivo che il marchio sia diventato denominazione generica del
prodotto ma è necessario un comportamento del titolare.
Questi non perderà il diritto di esclusiva qualora ne difenda la propria capacità distintiva,
diffidando o agendo giudizialmente contro i concorrenti che utilizzerà il proprio marchio
come denominazione generica del prodotto. È il caso ad esempio di aspirina

Il marchio registrato è tutelato civilmente e penalmente.


Il titolare del marchio il cui diritto di esclusiva sia stato leso da un concorrente può
promuovere contro questi l’azione di contraffazione.
L’azione di contraffazione è rivolta ad ottenere l’inibitoria alla continuazione degli atti
lesivi del proprio diritto e la rimozione degli effetti degli stessi attraverso la distruzione
delle cose materiali: etichette, cartelloni pubblicitari ecc per mezzo delle quali è stata
attuata la contraffazione.
Il giudice può ordinare su domanda di parte la pubblicazione della sentenza di condanna in
uno o più giornali. Resta fermo il diritto del titolare del marchio al risarcimento dei danni se
sussiste dolo o colpa del contraffattore

L’attuale disciplina consente al titolare stesso di ottenere mediante azione di rivendica la


cancellazione o il trasferimento di un nome a dominio lesivo del proprio diritto o registrato
da altri malafede.

MARCHI PROTETTIVI
Il titolare di un marchio registrato può crearsi una rete di difesa del proprio marchio contro
le altrui contraffazioni registrando uno o più marchi protettivi: marchi simili a quello
effettivamente usato e che sono registrati al fine di precostituire la prova della
confondibilità. Potrà essere dunque usata l’azione di contraffazione anche nei confronti di
chi utilizza un marchio coincidente con un proprio marchio protettivo.

DIRITTO ALL’USO ESCLUSIVO DEL MARCHIO

Con la registrazione il titolare acquista il diritto all’uso esclusivo del marchio: da ciò
consegue che può vietare a chiunque di usare senza il suo consenso:

- un segno identico al suo marchio per prodotti o servizi identici a quello per cui esso
è registrato
Se ad esempio produco computer non potrei usare un marchio con una mela come la
Apple.

- Un segno identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o


affini, se esiste un pericolo di confusione per il pubblico.
Se ad esempio sono un editore di romanzi non potrei usare come marchio una
statuetta Oscar simile alla Mondadori.

- Un segno identico o affine al marchio registrato per prodotti o servizi non affini se il
marchio registrato gode nello stato di rinomanza e se l’uso del segno consente
indebitamente di trarre vantaggio dal carattere distintivo o della rinomanza del
marchio o reca pregiudizio per gli stessi: marchi celebri .
IL MARCHIO DI FATTO
L’ordinamento tutela anche chi usi un marchio senza registrarlo ma si tratta di una tutela
minore.
L’articolo 2571 dispone che chi ha fatto uso di un marchio non registrato ha la
facoltà di continuare ad usarne, nonostante la registrazione da altri ottenuta,
nei limiti in cui anteriormente se ne é avvalso.

In questo caso quindi la tutela del marchio è minore perché l’imprenditore:


- è costretto a provare il preuso (mentre in caso di registrazione gode della
presunzione assoluta di titolarità del diritto)

- può continuare ad usare il marchio solo nei limiti in cui lo usava in precedenza.

La tutela del diritto di esclusiva sul marchio non registrato si fonda sull’uso di fatto dello
stesso e sull’effettivo grado di notorietà raggiunto.

NOTORIETA’ NAZIONALE
Il titolare di un marchio non registrato, diventato noto su tutto il territorio nazionale, potrà
impedire che altri usi in fatto lo stesso marchio per gli stessi prodotti, ma non per prodotti
affini.
Potrà altresì ottenere che sia dichiarato nullo per difetto di requisiti della novità un marchio
confondibile successivamente registrato.
La relativa azione dovrebbe essere esercitata nel termine di cinque anni per evitare la
convalida del marchio successivamente registrato.

NOTORIETA’ LOCALE
Ben più modesta è la protezione che riceve il titolare di un marchio non registrato con
notorietà locale.
- Non potrà impedire che altro imprenditore usi di fatto lo stesso marchio per gli stessi
prodotti in altra zona del territorio nazionale.
- Non potrà impedire che un concorrente registri validamente lo stesso marchio ed in
tal caso potrà solo continuare ad usare il proprio marchio nei limiti della diffusione
locale. Il che significa che non potrà diffondere i prodotti contrassegnati fuori
dell’ambito territoriale precedentemente praticato, a lui spetta inoltre l’onere di
provare l’estensione del preluso.

È incerto se nella zona di preuso il titolare del marchio di fatto abbia diritto di esclusiva.
È fuori dubbio invece che il titolare del marchio registrato avrà diritto di esclusiva in ogni
altra zona del paese.
Infine le azioni esercitabili a tutela di un marchio non registrato non sono quelle tipiche del
codice della proprietà industriale ma solo quelle previste in via generale in tema di
disciplina della concorrenza sleale.

IL TRASFERIMENTO DEL MARCHIO


Il marchio è trasferibile e può essere trasferito sia a titolo definitivo sia a titolo
temporaneo (cosiddetta licenza di marchio).
Così è consentito al titolare del marchio di monetizzare il valore commerciale dello stesso
determinato dalla capacità attrattiva della clientela.

Con la riforma del 92 è stato abolito il precedente collegamento fra circolazione dell’azienda
o di un ramo di essa e circolazione del marchio, ispirata dall’esigenza di evitare inganno e
confusione per il pubblico, ma l’attuale disciplina opta per una più libera circolazione del
marchio.
Oggi infatti il marchio può essere trasferito o concesso in licenza, per tutti o per parte dei
prodotti per i quali è stato registrato senza che sia necessario il contemporaneo
trasferimento dell’azienda o del corrispondente ramo di essa.

La novità più significativa è però costituita dall’espresso riconoscimento dell’ammissibilità


della licenza di marchio non esclusiva.
È cioè espressamente consentito che lo stesso marchio sia contemporaneamente utilizzato
dal titolare originario e da uno o più concessionari, sia per la totalità sia per una parte dei
prodotti per i quali il marchio è stato registrato.
È quindi consentito che in base ad accordi contrattuali vengono immessi sul mercato
prodotti dello stesso genere contraddistinti dallo stesso marchio ma con fonte di
provenienza diversa.

 LIMITI
Il legislatore si preoccupa di prevenire e reprimere i pericoli di inganno per il pubblico cui
può dar luogo la libera circolazione del marchio e soprattutto la licenza non esclusiva
utilizzata per lo sfruttamento economico di marchi celebri attraverso i contratti di
franchising e merchandising.
È al riguardo fissato il principio cardine che dal trasferimento o dalla licenza del marchio non
deve derivare inganno nei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali
nell’apprezzamento del pubblico.

La licenza non esclusiva è subordinata alla condizione che il licenziatario si obbliga ad


utilizzare il marchio per prodotti con caratteristiche qualitative uguali a quelle
corrispondenti al prodotto messo in commercio dal concedente o da altri licenziatari.
Il titolare del marchio può avvalersi degli strumenti di tutela previsti dalla legge Marchi:
Inibitoria, azione di rimozione, nei confronti del licenziatario che violi le disposizioni al
riguardo contenute nel contratto di licenza che di regola prevede clausole di controllo
sull’attività del licenziatario.
La violazione di tali regole espone alla sanzione della decadenza eventualmente parziale del
marchio per sopravvenuto uso ingannevole dello stesso, sanzione che potrà colpire anche il
concedente ove comportamenti ingannevoli del licenziatario siano avvenuti col suo
consenso.

L’INSEGNA
L’insegna contraddistingue i locali dell’impresa:
- stabilimento industriale,
- negozio di vendita
- o l’intero complesso aziendale.
È il segno distintivo dei locali all’interno dei quali è esercitata l’impresa (si pensi all’insegna
di un negozio)

Anche per questo segno distintivo opera il principio della novità e ad esso si applicano
alcune norme sancite per la ditta.
L’insegna di conseguenza non può essere uguale o simile a quella che contraddistingue
locali dell’imprenditore concorrente e sussiste, nel caso possa creare confusione, l’obbligo
di differenziarla opportunamente.

Non è richiamato per l’insegna il principio di verità e quindi non è necessario che essa
contenga il cognome o la sigla dell’imprenditore.

L’insegna deve essere lecita, non deve contenere indicazioni che possono trarre in inganno
il pubblico (veridicità), deve avere sufficiente capacità distintiva (originalità).

Non è quindi tutelato contro limitazione altrui chi utilizza un’insegna del tutto generica e
priva di originalità si pensi ad un esercizio commerciale che reca al suo esterno
semplicemente l’insegna bar o pizzeria.
Salvo che l’originalità non derivi dalla composizione grafica o dei colori utilizzati.
In tal caso si potrà ottenere solo la modificazione di tali elementi.
È pacifico che il diritto all’insegna può essere trasferito.
Deve ritenersi lecita anche la licenza non esclusiva e il conseguente uso della stessa insegna
da parte di più imprenditori collegati come avviene negli accordi di franchising di
distribuzione.
L’insegna può essere nominativa o emblematica, cioè essere composta solo da parole o da
numeri, altrimenti mista
LA DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA
 Concorrenza perfetta e monopolio

Art 41 Costituzione

L'iniziativa economica privata è libera.


Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno
alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività
economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini
sociali.

Con questa norma il costituente ha voluto realizzare una sintesi tra la libertà di iniziativa
economica e la necessità che questa non sia assoluta ma tenga conto dei limiti di legge e
venga esercitata in un'ottica solidaristica.

La costituzione riconosce e garantisce nell'economia italiana l'iniziativa e la libertà privata, e


la proprietà privata dei beni di consumo e dei mezzi di produzione. Il progetto pone in luce
la coesistenza di attività pubbliche e private che debbono ciascuna proporsi di provvedere
insieme ai bisogni individuali ed ai collettivi.
Limitazioni della proprietà sono ormai comuni a tutte le costituzioni; e la coscienza
moderna richiede che la proprietà adempia la sua funzione sociale e sia accessibile a tutti
mediante il lavoro e il risparmio.

Si ha concorrenza in quei mercati dove compratori e venditori interagiscono per stabilire


prezzi e scambiare beni e servizi.
Gli economisti hanno teorizzato un modello di concorrenza perfetta difficilmente
realizzabile in pratica.

La teoria della concorrenza perfetta consiste: nella contemporanea presenza sul mercato
di una pluralità di operatori economici in competizione fra loro per rispondere alla domanda
di beni e servizi provenienti dalla collettività, con conseguente frazionamento dell’offerta
fra più imprese nessuna delle quali sia singolarmente in grado di condizionare il prezzo delle
merci vendute.
- Piena mobilità della domanda da parte dei consumatori liberi di orientare le proprie
scelte verso i prodotti più convenienti per qualità e prezzo.
- Assenza di ostacoli all’ingresso di nuovi operatori in ogni settore della produzione
della distribuzione nonché di accordi fra le imprese operanti che falsino la libertà di
competizione economica.
È un modello perfetto in quanto
- assicura la naturale eliminazione del mercato delle imprese meno competitive,
- stimola il progresso tecnologico,
- l’efficienza produttiva delle imprese,
- determina la più razionale utilizzazione delle limitate risorse
- e il raggiungimento del grado più elevato possibile di benessere economico e sociale.

Ma il modello concorrenziale perfetto è utopico, utopico per la disomogenea distribuzione


delle risorse naturali sul territorio, per l’impossibilità di alcuni settori di produrre se non a
costo di enormi investimenti iniziali, per la naturale lievitazione delle dimensioni delle
imprese, per la scarsa mobilità della manodopera.
Ciò di fatto determina la creazione di barriere all’ingresso di mercati per cui i nuovi
operatori possono penetrarvi solo a costi ingenti per gli investimenti iniziali e per
l’accrescimento delle imprese che tendono così a concentrarsi tra di loro o a stipulare intese
con le quali delimitare i mercati e determinare i prezzi e le quantità di merci da produrre
Limitando di fatto la concorrenza.

I regimi di monopolio determinano una inefficiente distribuzione delle risorse e quindi


offrono scarse quantità di prodotto a prezzi elevati che generano elevati profitti per il
monopolista.

Dunque in realtà la linea di tendenza è verso un regime di mercato sempre più lontano dalla
concorrenza perfetta.
La non omogenea distribuzione territoriale delle risorse naturali, gli ingenti investimenti di
capitali richiesti dalla moderna produzione industriale di massa, sono fattori che limitano la
libertà di accesso al mercato di nuovi operatori e spingono le imprese già operanti ad
accrescere le proprie dimensioni a concentrarsi a collegarsi.

Nella realtà quindi soprattutto per alcuni settori di produzione di massa, si pensi ad
esempio al mercato delle automobili, le imprese tendono ad essere molto grandi e poco
numerose dando vita a situazioni di oligopolio: un mercato cioè caratterizzato dal controllo
dell’offerta da parte di poche grandi imprese.

Fra concentrazioni ed intese anticoncorrenziali si può arrivare fino al punto che tutta
l’offerta di un dato prodotto è controllata da una sola impresa o da poche grandi imprese
coalizzate: monopolio di fatto, libere di fissare a piacimento il relativo prezzo e di
conseguire elevati margini di profitto a scapito degli interessi generali della collettività.

Monopolio di fatto : quando un imprenditore è così importante e potente sul mercato da


controllare di fatto il settore in cui opera.
È evidente che il riconoscimento legislativo della libertà di iniziativa economica privata e
della conseguente libertà di concorrenza è presupposto necessario ma non sufficiente
perché si instauri un regime oggettivo di mercato caratterizzato da un sufficiente grado di
concorrenza effettiva.
Necessaria è anche una regolamentazione giuridica della concorrenza che impedisca il
formarsi del perpetuarsi di situazioni di monopolio o di quasi monopolio.
La salvaguardia del regime di concorrenza non può essere perseguita attraverso una rigida
ed aprioristica preclusione delle situazioni e delle pratiche limitative della concorrenza.
È fuori dubbio però che tali fenomeni vanno tenuti sotto controllo nonché ostacolati e
repressi quando degenerano in situazioni monopolistiche palesemente in contrasto con
l’interesse generale.
Non può inoltre essere trascurato tutto ciò che comporta compressione della libertà
iniziativa economica privata e del modello concorrenziale del mercato.
L’una e l’altra trovano fondamento e limiti nel pubblico interesse disciplinata dall’articolo
2595 il quale dispone che” la concorrenza deve svolgersi in modo da non ledere
gli interessi dell’economia nazionale”.
È l’articolo 41 secondo comma della costituzione ribadisce che l’iniziativa economica privata
è si libera ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale.

Dunque l’articolo 41 della costituzione stabilisce espressamente che l’iniziativa economica


privata è libera, di conseguenza sul mercato si possono creare numerosi imprenditori tra i
quali si instaura un rapporto di concorrenza.

Questa situazione è a vantaggio dei consumatori in quanto un imprenditore proprio perché


costretto ad essere concorrenziale cioè in grado di spingere il pubblico a preferire la sua
impresa alle altre deve tenere alta la qualità dei prodotti o servizi forniti e basso per quanto
possibile il prezzo degli stessi.
Per tradurre la teoria in pratica è necessario:
1. Che la concorrenza sia esercitata in modo corretto, perché altrimenti un
imprenditore potrebbe sviare a proprio vantaggio la clientela di altre imprese
utilizzando comportamenti sleali
2. Che non si creino situazioni di monopolio o oligopolio che rendono difficile
impossibile ad altri imprenditori l’accesso al mercato e limitano così la libertà di
concorrenza. Se infatti quest’ultima è senz’altro un vantaggio per il consumatore
lo è un po’ meno per gli imprenditori i quali in situazione di concorrenza non
possono alzare liberamente il prezzo dei propri prodotti perché altrimenti il
pubblico tenderebbe a rivolgersi ad altre imprese.
Può accadere quindi che più imprenditori si accordino tra di loro al fine di ridurre
o eliminare la concorrenza tra le rispettive imprese e conseguire così profitti più
alti a danno dei consumatori.
Il legislatore quindi è intervenuto sia ad individuare e sanzionare gli atti di concorrenza
sleale sia contrastare il fenomeno monopolistico attraverso quella che viene
comunemente definita come disciplina antitrust.
Tuttavia per lungo tempo il sistema italiano della concorrenza si era contraddistinto per una
vistosa lacuna: la mancanza di una normativa antimonopolistica, finalizzata al controllo dei
fenomeni che possono determinare posizioni di potere economico sul mercato e dalla
repressione degli abusi che esse possono generare.

A partire dagli anni 50 la lacuna era parzialmente colmata dalla diretta applicabilità nel
nostro ordinamento della disciplina antitrust dettata dai trattati istitutivi della comunità
europea economica.
Tale normativa consente di colpire solo le pratiche che possono pregiudicare il regime
concorrenziale del mercato comune europeo.
Da qui l’esigenza di colmare tale vuoto affiancando la normativa comunitaria una normativa
antimonopolistica nazionale, vuoto colmato dopo lunghi anni dalla legge 10 ottobre 1990 n.
287 recante norme per la tutela della concorrenza e del mercato.
Tale legge ha infatti introdotto una disciplina antimonopolistica nazionale a carattere
generale che si affianca quella comunitaria e integra la normativa specifica
precedentemente emanata per i settori dell’editoria.

 LA DISCIPLINA ITALIANA E COMUNITARIA

La libertà di iniziativa economica e la competizione fra imprese non possono tradursi in atti
e comportamenti che pregiudicano in modo rilevante e durevole la struttura concorrenziale
del mercato.
È questo il principio cardine della legislazione antimonopolistica dell’Unione Europea.

La relativa disciplina direttamente applicabili alle imprese italiane è volta a preservare il


regime concorrenziale del mercato comunitario e a reprimere le pratiche
anticoncorrenziali:
- intesi anticoncorrenziali,
- abuso di posizione dominante
- e concentrazioni
che pregiudicano il commercio fra Stati membri.
La commissione della comunità europea vigila sul rispetto di tali normative, adotta i
provvedimenti necessari per reprimere i comportamenti anticoncorrenziali vietati e impone
sanzioni pecuniarie previste dalla legislazione comunitaria.
Tali principi sono stati recepiti anche dalla legislazione italiana volta a preservare il regime
concorrenziale del mercato nazionale e reprimere i comportamenti anticoncorrenziali che
incidono sul mercato italiano.

La legge 287 del 1990 ha istituito un apposito organo pubblico indipendente:


L’AUTORITÀ GARANTE DELLA CONCORRENZA DEL MERCATO
che vigila sul rispetto della normativa antimonopolistica oggi con competenza estesa a tutti
settori economici.
L’autorità garante è investita di ampi poteri di indagine e ispettivi e adotta i provvedimenti
antimonopolistici necessari imponendo le sanzioni amministrative pecuniarie previste dalla
legge.
Contro i provvedimenti amministrativi dell’autorità può essere proposto ricorso giudiziario
per il quale è competente esclusivamente il Tar Lazio.

Le azioni di nullità e di risarcimento dei danni nonché i ricorsi diretti ad ottenere


provvedimenti di urgenza vanno invece promossi dinanzi al tribunale delle imprese
competente per territorio.

Vi è comunque un’esigenza di coordinamento fra normativa comunitaria e normativa


nazionale per il quale legislatore italiano ha realizzato riconoscendo la posizione
preminente e sovraordinata della disciplina comunitaria.

La disciplina italiana perciò carattere residuale ed è circoscritta alle pratiche


anticoncorrenziali che hanno rilievo esclusivamente locale e non incidono sulla concorrenza
del mercato comunitario.

I principi dell’ordinamento comunitario sono inoltre destinati a prevalere anche


nell’interpretazione dell’articolo otto della legge 287 del 1990 che definisce l’ambito
soggettivo di applicazione della disciplina antimonopolistica italiana:
- imprese private,
- imprese pubbliche e a prevalente partecipazione statale,
con esclusione delle imprese in posizione di monopolio legale e di quelle che gestiscono
servizi di interesse economico generale.

In particolare va segnalato che nell’ampia nozione di impresa elaborata dalla giurisprudenza


comunitaria rientrano anche gli esercenti professioni intellettuali che nel nostro
ordinamento sono gli imprenditori.
Ne consegue che gli stessi devono essere compresi fra i soggetti ai quali è applicabile la
disciplina antimonopolistica italiana e comunitaria.
 LE SINGOLE FATTISPECIE.
LE INTESE RESTRITTIVE DELLA CONCORRENZA.

Tre sono i fenomeni rilevanti per la disciplina antimonopolistica nazionale e comunitaria:


1) Le intese restrittive della concorrenza,
2) gli abusi di posizione dominante,
3) le concentrazioni

 LE INTESE

Le intese sono comportamenti concordati fra imprese volti a limitare la propria libertà di
azione sul mercato ad esempio accordi con cui si fissano prezzi uniformi o si contingenta la
produzione.
In particolare sono considerate intese:
- gli accordi fra imprese anche se non vincolanti,

- Le deliberazioni di consorzi, di associazioni di imprese e di altri organismi similari,


anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie e regolamentari,

- Le pratiche concordate tra imprese, volte ad evitare che sfuggano al divieto di intese
restrittive della concorrenza i comportamenti concertati che non derivano da accordi
espressi.
Ad esempio aumento simultaneo dei prezzi o uniformità delle condizioni di vendita
praticate, O scambio sistematico di informazioni riservate, incontri informali
periodici.

Dunque spesso le imprese piuttosto che competere tra loro si mettono d’accordo e
stipulando accordi, esse per esempio possono fissare insieme i prezzi i quali non verranno
più determinati liberamente dal mercato con l’incontro di domanda e offerta.

L’art 2 della legge 287/1990 vieta perciò le intese che anche solo POTENZIALMENTE sono
in grado di ledere la concorrenza.

Esempio di intese: l’impresa sonni tranquilli produce porte blindate e il suo titolare si
accorda con altri imprenditori che svolgono la stessa attività e insieme decidono di ripartire
il mercato nazionale in varie zone e di operare ciascuno solo in una determinata regione.
In questo modo le rispettive imprese non si faranno concorrenza e acquisteranno ognuna
nella propria regione una posizione di monopolio
Non tutte le intese anticoncorrenziali sono però vietate.
Vietate sono solo le intese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o
falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato.

Sono quindi lecite le cosiddette INTESE MINORI, l’intesa cioè che per la struttura del
mercato interessato, le caratteristiche delle imprese operanti e gli effetti sull’andamento
dell’offerta non incidono sull’assetto concorrenziale del mercato.

La legge elenca cinque tipi di intese espressamente vietate ma l’elencazione ha valore


esemplificativo. Rientrano fra le intese vietate

- quelle fra produttori (INTESE ORIZZONTALI),


- ma anche gli accordi commerciali fra produttori e distributori che prevedono
clausole di esclusività idonea a produrre un effetto di chiusura del mercato (INTESE
VERTICALI)

Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto.


Chiunque può agire in giudizio per farne accertare la nullità.
L’autorità a sua volta accertata l’infrazione commessa adotta i provvedimenti per la
rimozione degli effetti anticoncorrenziali già prodottisi ed irroga le sanzioni pecuniarie.
Può però chiudere l’istruttoria senza accertare l’infrazione quando l’impresa assume
impegni tali da far cessare profili anticoncorrenziali contestati.
Può ridurre o non applicare la sanzione alle imprese che forniscono Informazioni decisive
utili per la scoperta di un’intesa illecita di cui fanno parte.

Il divieto di intese anticoncorrenziali non ha carattere assoluto l’autorità può infatti


concedere esenzioni temporanee purché ricorrano le condizioni specificate dalla legge, in
particolare si deve trattare di intese che migliorano le condizioni di offerta sul mercato e
producono un sostanziale beneficio per i consumatori in termini di aumento della
produzione, di miglioramento qualitativo e di progresso tecnologico.
ARTICOLO 2 LEGGE 287/1990

Intese restrittive della libertà di concorrenza


1. Sono considerati intese gli accordi e/o le pratiche concordate tra imprese nonché le
deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di
consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari.
2. Sono vietate le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire,
restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all'interno del
mercato nazionale o in una sua parte rilevante, anche attraverso attività consistenti nel:
a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d'acquisto o di vendita ovvero altre
condizioni contrattuali;
b) impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, gli
investimenti, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico;
c) ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento;
d) applicare, nei rapporti commerciali con altri contraenti, condizioni oggettivamente
diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare per essi ingiustificati
svantaggi nella concorrenza;
e) subordinare la conclusione di contratti all'accettazione da parte degli altri contraenti
di prestazioni supplementari che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non
abbiano alcun rapporto con l'oggetto dei contratti stessi.

3. Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto.


 ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTE
 E ABUSO DI DIPENDENZA ECONOMICA.

Si parla di posizione dominante quando un’impresa acquista sul mercato un potere


economico maggiore rispetto a tutte le altre ed è così in grado di ostacolare l’effettiva
concorrenza tenendo comportamenti che non risentono della presenza delle altre imprese.

Può ad esempio determinare liberamente il prezzo del bene prodotto o del servizio fornito
senza temere uno spostamento dei propri clienti verso altre imprese

Vietato non è il fatto in sé dell’acquisizione di una posizione dominante sul mercato, dal
momento che la concorrenza non viene meno se un’impresa raggiunge dimensioni superiori
alle altre, ma vietato è solo lo sfruttamento abusivo di tale posizione dominante con
comportamenti lesivi dei concorrenti e dei consumatori capaci di pregiudicare la
concorrenza effettiva.

Nella valutazione della posizione dominante un ruolo decisivo gioca perciò individuazione
merceologica e geografica del mercato rilevante.
Questo comprende tutti prodotti e servizi che sono considerati intercambiabili o sostituibili
dal consumatore, in ragione delle caratteristiche dei prodotti del loro prezzo e dell’uso al
quale sono destinati e abbraccia quella zona geograficamente circoscritta in cui le imprese
fornitrici si pongono fra loro in rapporto di concorrenza.

I comportamenti tipici che possono dar luogo ad abuso di posizione dominante sono
identificati, a titolo esemplificativo, dagli stessi comportamenti che possono formare
oggetto di intese vietate.
Perciò ad un’impresa in posizione dominante è vietato:

a) Di imporre direttamente o indirettamente prezzi o altre condizioni contrattuali


ingiustificatamente gravosi come ad esempio l’approvvigionamento per l’intero
fabbisogno, anche se la clausola prevede sconti di fedeltà

b) Di impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, lo sviluppo


tecnologico a danno dei consumatori come ad esempio il rifiuto di vendere pezzi di
ricambio all’imprese che non fanno parte della propria rete distributiva.

c) Di applicare nei rapporti commerciali condizioni oggettivamente diverse per


prestazioni equivalenti
d) Di subordinare la conclusione di contratti all’accettazione di prestazioni
supplementari che non abbiano alcuna connessione con l’oggetto del contratto
stesso.
Trattandosi di una elencazione esemplificativa vuol dire che sono vietati anche
comportamenti diversi e non espressamente previsti quando permettono all’impresa in
posizione dominante di conseguire vantaggi ingiusti.

 Sanzioni

Il divieto di abuso di posizione dominante non ammette eccezioni, accertata l’infrazione


l’autorità competente ne ordina la cessazione prendendo le misure necessarie.
Infligge sanzioni pecuniarie identiche a quelle stabilite per le imprese e in caso di reiterata
inottemperanza, l’autorità italiana può anche disporre la sospensione dell’attività
dell’impresa fino a 30 giorni.

 Abuso di dipendenza economica

Oggi è vietato nell’ordinamento nazionale l’abuso dello stato di dipendenza economica


nella quale si trova un’impresa, cliente o fornitrice, rispetto ad una o più altre imprese
anche in posizione non dominante sul mercato.
Si intende per dipendenza economica la situazione in cui una impresa sia in grado di
determinare nei rapporti commerciali con un’altra impresa un eccessivo squilibrio di diritti e
di obblighi.
Essa è valutata tenendo conto delle reali possibilità per la parte che ha subito l’abuso di
reperire sul mercato alternative soddisfacenti.

Il patto attraverso il quale si realizza l’abuso di dipendenza economica è nullo ed espone


al risarcimento dei danni nei confronti dell’impresa che ha subito l’abuso inoltre l’autorità
garante applica le sanzioni previste per l’abuso di posizione dominante qualora ravvisi che
l’abuso di dipendenza economica abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del
mercato.
 LE CONCENTRAZIONI

Sì ha concentrazione quando
- due o più imprese si fondono divenendo così una unica impresa.

- Due o più imprese pur restando giuridicamente distinte diventano un’unica entità
economica, sono cioè sottoposte a un controllo unitario che consente di esercitare
anche congiuntamente un’influenza determinante sull’attività produttiva delle
imprese controllate.
- Due o più imprese indipendenti costituiscono un’impresa societaria comune.

Le imprese comuni sono però sottratte alla disciplina della concentrazione quando abbiano
come scopo principale il coordinamento dei comportamenti concorrenziali delle imprese
partecipanti.

Anche la concentrazione non è di per sé è vietata.


Essa anzi può essere uno strumento utile per aumentare la competitività delle imprese e
per effettuare ristrutturazione aziendale.

Sono vietate solo le concentrazioni che comportano la costituzione o il rafforzamento di


una posizione dominante sul mercato in modo da eliminare o ridurre in modo sostanziale
durevole la concorrenza.

Per questo motivo la legge sancisce che tutte le operazioni di concentrazione il cui fatturato
delle imprese interessate supera determinate soglie devono essere comunicate all’autorità
antitrust prima di essere realizzate.

Le concentrazione quindi non sono di per sé vietate in quanto rispondono all’esigenza di


accrescere la competitività delle imprese. Diventano illecite e vietate quando danno luogo a
gravi alterazioni del regime concorrenziale del mercato.
Se l’autorità riscontra l’esistenza di un pericolo per la concorrenza ne vieta la realizzazione.

L’autorità può ritenere di dover indagare sulla liceità della concentrazione e apre un
apposita istruttoria che deve essere conclusa nel termine perentorio di 45 giorni.
Nel frattempo può ordinare alle imprese interessate di sospendere la realizzazione della
concentrazione.
Terminata l’istruttoria l’autorità può vietare la concentrazione se ritiene che la stessa
comporta la costituzione e il rafforzamento di una posizione dominante con effetti distorsivi
per la concorrenza.
In alternativa può autorizzarla prescrivendo le misure necessarie per impedire tali
conseguenze ad esempio la cessione di determinati settori di attività.
Qualora la concentrazione sia stata già realizzata prescrive le misure necessarie a
ripristinare condizioni di concorrenza effettiva ed eliminare gli effetti distorsivi.

L’autorità in presenza di rilevanti interessi generali dell’economia nazionale può in via


eccezionale autorizzare anche concentrazioni vietate in conformità dei criteri generali
fissati presenti veramente dal Governo.

Pesanti sanzioni pecuniarie sono inflitte dall’autorità se la concentrazione vietata viene


ugualmente eseguita o se le imprese non si adeguano a quanto prescritto per eliminare gli
effetti anticoncorrenziali.

Diversamente dalle intese non è però sancita la nullità delle operazioni che hanno dato
luogo ad una concentrazione vietata.
Ai terzi resta solo la possibilità di richiedere il risarcimento dei danni in via giudiziaria
fermo restando che l’autorità può imporre il compimento di operazioni inverse a quelle che
hanno determinato la concentrazione vietata.
Ad esempio l’attuazione di una scissione o la vendita totale o parziale della partecipazione
azionaria

Diversi sono dunque gli strumenti giuridici che possono dar luogo ad un’operazione di
concentrazione:
- fusione,
- scissione,
- acquisto di azienda,
- di una partecipazione azionaria di controllo
- e così via.
Identico è però il risultato economico ultimo: l’ampliamento della quota di mercato
detenuta dall’impresa, realizzata attraverso operazioni che comportano la stabile
riduzione del numero delle imprese indipendenti operanti nel settore.

È inoltre espressamente escluso che si abbia concentrazione quando una banca o un istituto
finanziario acquista una partecipazione di controllo in un’impresa al fine di rivenderla sul
mercato. Purché non esercitino il diritto di voto per tutto il periodo di possesso delle azioni
che non deve durare oltre 24 mesi.
LE LIMITAZIONI DELLA CONCORRENZA

 limitazioni pubblicistiche e monopoli legali

Il principio della libera concorrenza non è comunque un principio assoluto dal momento che
una concorrenza sfrenata può causare danni ai consumatori e alla collettività maggiori di
quanto possano produrre situazioni di Oligopolio o singole concentrazioni tra imprese
realizzate per fronteggiare una crisi economica.

La libertà di iniziativa economica privata e la conseguente libertà di concorrenza sono


libertà disposte nell’interesse generale e non possono svolgersi in contrasto con l’utilità
sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
Sia la costituzione sia il codice civile consentono che tali libertà possano essere compresse e
limitate dai pubblici poteri.

 INTERVENTI LEGISLATIVI

Gli interventi legislativi in tale direzione sono i seguenti:

A. I controlli sull’accesso al mercato di nuovi imprenditori, attuati subordinando


l’esercizio di determinate attività a concessione o ad autorizzazione amministrativa.
È questo il caso delle imprese bancarie, delle imprese assicurative, delle imprese
minerarie, delle emittenti radio derisi televisive private

B. Gli ampi poteri di indirizzo e di controllo dell’attività riconosciuti alla pubblica


amministrazione nei confronti delle imprese che operano in settori di particolare
rilievo economico è un sociale.
Esempio è l’attività bancaria e creditizia sottoposta ad un particolare ordinamento
settoriale che si caratterizza per gli ampi poteri di indirizzo e di vigilanza riconosciuti
agli organi di governo del credito.

C. L’articolato sistema di controllo pubblico dei prezzi di vendita che per beni o servizi
strategici e di largo consumo può giungere fino alla fissazione di prezzi di imperio da
parte del comitato interministeriale prezzi (CIP).
Così sono sottoposti ad un regime di prezzi amministrati i medicinali, i giornali, i
servizi pubblici essenziali.
 MONOPOLI LEGALI

In certi casi, e solo a tutela di interessi pubblici, la concorrenza può essere esclusa del tutto
impedendo l’accesso agli imprenditori privati in determinati settori riservando lo
svolgimento di una determinata attività o la prestazione di un certo servizio allo Stato o
ad altro ente pubblico.
L’interesse generale può dunque legittimare anche la radicale soppressione della libertà di
iniziativa economica privata e di concorrenza.
L’articolo 43 della costituzione pone una serie di limiti formali e sostanziali al riconosciuto
potere statale di creare monopoli pubblici.
I monopoli pubblici sono determinati anche per lo scopo di procurare entrate allo Stato.
Esempi di monopolio fiscale sono quelli tabacchi, del lotto, delle lotterie nazionali e dei
concorsi pronostici e quindi toto calcio tototip.

In questo caso dunque si è creato un monopolio legale in virtù del quale l’offerta di un bene
o di un servizio è effettuata da un unico soggetto e in assenza di concorrenza.
Si ha monopolio legale quando la produzione di beni o servizi è attuata dallo stato o da un
altro ente pubblico oppure da privati che operano su concessione rilasciata dallo Stato.

Art 43 Costituzione
A fini di utilità generale1 la legge2 può riservare originariamente o trasferire,
mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a
comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese,
che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni
di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale .

1. Il sacrificio della libertà di iniziativa economica e della corrispondente libertà della


concorrenza può essere ammesso solo se ciò risponde ad un fine di utilità generale. Lo
Stato può ritenere ad esempio che un determinato servizio sia di particolare interesse
per i cittadini e che se lo stesso fosse gestito da privati avrebbe un costo maggiore per il
pubblico: in questo caso la fornitura di quel servizio piò essere riservata ad un ente
pubblico

2. Il monopolio legale può essere disposto solo con una legge ordinaria, cioè una legge
deliberata dal parlamento , e non con un provvedimento di altro tipo (es riserva di
legge)
 OBBLIGO DI CONTRARRE DEL MONOPOLISTA

Quando la produzione di determinati beni o servizi è attuata in regime di monopolio legale


non trova applicazione nei confronti dell’impresa monopolistica la normativa antitrust.

Il legislatore si preoccupa però di tutelare gli utenti contro possibili comportamenti arbitrari
del monopolista.

Art 2597
“Chi esercita un'impresa in condizione di monopolio legale ha l'obbligo di
contrattare con chiunque richieda le prestazioni che formano oggetto
dell'impresa, osservando la parità di trattamento”.

L’art 2597 pone dunque un duplice obbligo a carico di chi opera in regime di monopolio:
1) l’obbligo di contrarre con chiunque richieda la prestazione che formano oggetto
dell’impresa,
2) Obbligo di rispettare la parità di trattamento fra i diversi richiedenti.

Identici principi sono previsti dall’articolo 1679 a carico di chi esercita, in regime di
concessione amministrativa, pubblici servizi di linea per il trasporto di persone o cose.

L’obbligo di contrarre del monopolista ed il corrispondente diritto soggettivo dell’utente


sussistono per le richieste che siano compatibili con i mezzi ordinari dell’impresa.

Inoltre le richieste dovranno essere soddisfatte secondo il loro ordine cronologico e qualora
ci siano più richieste simultanee che non possono essere soddisfatti per intero il
monopolista dovrebbe ripartire proporzionalmente la quantità disponibile fai diversi utenti.

Il rispetto del principio della parità di trattamento comporta a sua volta che il monopolista
deve predeterminare e rendere note al pubblico le proprie condizioni contrattuali che di
regola sono fissate in via legislativa o sottoposte a una preventiva approvazione
amministrativa.
La parità di trattamento non implica che le condizioni contrattuali debbano essere
necessariamente le stesse per tutti gli utenti.
Il monopolista potrà prevedere anche modalità e tariffe differenziate purché predetermini i
relativi presupposti di applicazione e ne faccia godere chiunque si trovi nelle condizioni
richieste.
Ogni altra deroga alle condizioni generali di contratto è nulla e la singola clausola difforme è
sostituita ex lege da quella prevista per le condizioni generali.
 MONOPOLIO LEGALE E DI FATTO

Monopolio legale: presupposto per la sua applicazione è che la produzione e il commercio


di quel dato bene o servizio siano riservati per legge ad un solo
imprenditore
Monopolista di fatto: è quell’imprenditore che pur non godendo di un regime di esclusiva
abbia una posizione dominante sul mercato ed in fatto controlli la
produzione del commercio di un bene o di un servizio non
facilmente sostituibili dal consumatore.

Monopolio di fatto : quando un imprenditore è così importante e potente sul mercato da


controllare di fatto il settore in cui opera.

La disciplina esposta precedentemente per il monopolio legale non può essere applicata
per il monopolista di fatto.
Al monopolista di fatto è però applicabile la normativa a tutela della concorrenza introdotta
dalla legge 287 del 1990 e ciò consente di reprimere per altra via le pratiche discriminatorie
e vessatorie poste in essere dallo stesso nei confronti di altri imprenditori.
- L’ingiustificato rifiuto di vendere i propri prodotti a determinati commercianti o
- l’impostazione di condizioni vessatorie arbitraria (boicottaggio)
configurano un classico abuso di posizione dominante e può dunque essere sanzionata con
gli strumenti normativa antimonopolistica.

 I DIVIETI LEGALI DI CONCORRENZA

Oltre le limitazioni di natura pubblicistica, la libertà di concorrenza subisce un ulteriore


ordine di limitazioni a tutela degli interessi patrimoniali e privati.
Nel codice civile ci sono infatti norme che pongono a carico di soggetti legati da particolari
rapporti contrattuali l’obbligo di astenersi dal fare concorrenza alla controparte.
E ciò al fine di assicurare il corretto svolgimento o la corretta esecuzione di quel
determinato contratto: divieti legali di concorrenza.

La loro durata coincide con quella del rapporto di collaborazione cui accedono.
Tali divieti hanno carattere dispositivo: operano senza che ci sia una pattuizione espressa.
Rientrano fra i divieti legali di concorrenza:

- l’obbligo di fedeltà a carico dei prestatori di lavoro che fa divieto agli stessi di
trattare affari in concorrenza con l’imprenditore fino a quando durerà porto di lavoro.

- Il divieto di esercitare attività concorrente con quella della società posto a carico dei
soci a responsabilità illimitata e degli amministratori di società di capitali e
cooperative.

- Il divieto di esclusiva reciproca nel contratto di agenzia.


- Il divieto di concorrenza posto a carico di chi aliena un’azienda commerciale.

 LIMITAZIONI CONVENZIONALI DELLA CONCORRENZA

Art 2596
Il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto.
Esso è valido se circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata
attività, e non può eccedere la durata di cinque anni.
Se la durata del patto non è determinata o è stabilita per un periodo superiore
a cinque anni, il patto è valido per la durata di un quinquennio.

La forma scritta è prescritta ad probationem.


La norma disciplina il patto di non concorrenza, ponendo un limite alla libertà di iniziativa
economica. Si concreta una violazione della norma quando l'obbligato intraprenda
un'attività economica nell'ambito dello stesso mercato in cui opera l'imprenditore, idonea a
rivolgersi alla clientele di quest'ultimo, offrendo servizi, se pur diversi, comunque idonei a
soddisfare l'esigenza della domanda.

Il patto inoltre non può precludere al soggetto che si vincola lo svolgimento di ogni attività
professionale in quanto è espressamente previsto che il patto stesso è valido solo se
circoscritto ad un determinato ambito territoriale o ad un determinato tipo di attività.

La durata del quinquennio evita una eccessiva compressione della libertà del soggetto di
iniziativa economica.

Nell’ambito dei limiti convenzionali alla concorrenza rientrano due distinte categorie di patti
anticoncorrenziali:
- i patti autonomi
- i patti accessori
 PATTI AUTONOMI:
l’accordo limitativo della concorrenza può presentarsi come un autonomo contratto che ha
come oggetto e funzione esclusivi la restrizione della libertà di concorrenza.
1) Un tale contratto può porre obblighi di non concorrenza a carico di una sola delle
parti come si verifica ad esempio qualora un fabbricante di tessuti si obblighi nei
confronti dei concorrenti a non vendere in certe zone i suoi prodotti.

2) È altresì possibile che l’accordo preveda obblighi di non concorrenza a carico di tutti
gli imprenditori partecipanti all’intesa.
Ad esempio più fabbricante di tessuti concordano la quantità globale da produrre e la
quota spettante a ciascuno di essi oppure si ripartiscono le zone da distribuire o
predeterminano i prezzi di vendita da praticare.
I CARTELLI : sono accordi mediante i quali più imprenditori disciplinano la reciproca
concorrenza .
Gli imprenditori possono ad esempio
- decidere di non vendere i loro prodotti al di sotto di un determinato prezzo,
- possono obbligarsi a operare solo in una determinata zona e non in un'altra
perché riservata ad un altro imprenditore,
- possono stabilire un limite massimo per le rispettive produzioni.

È fuori contestazione che i contratti che prevedono obblighi unilaterali di concorrenza


ricadono nell’ambito di applicazione dell’articolo 2596. La loro durata non potrà perciò
superare i cinque anni.

La soluzione non è ugualmente pacifica per tutti contratti che prevedano restrizioni
reciproche della concorrenza.
Come ogni accordo tra imprenditori avente ad oggetto la reciproca concorrenza, i cartelli
sono leciti se NON VIOLINO le disposizioni antimonopolistiche contenute nella legge
ANTITRUST.

Il problema nasce dal fatto che le finalità di un cartello possono essere utilizzate anche
attraverso la stipulazione del consorzio.
Ne consegue dunque che il limite di durata quinquennale è applicabile solo alle restrizioni
reciproche della concorrenza che non prevedano la costituzione di un’organizzazione
comune per la realizzazione del loro oggetto.
Basterà dunque stipulare un contratto di consorzio per evitare le restrizioni di durata
quinquennale.
 PATTI ACCESSORI:

Le restrizioni negoziali della concorrenza possono atteggiarsi anche come una clausola
accessoria di un altro contratto avente un diverso oggetto.
Possono intercorrere sia fra imprenditori in diretta concorrenza tra loro in quanto operano
al medesimo livello del processo produttivo commerciale, sia fra imprenditori operanti a
livelli diversi fra i quali manca un rapporto diretto di concorrenza perché ad esempio l’uno è
il produttore l’altro è il rivenditore.

 PATTI ACCESSORI NOMINATI


Alcuni patti accessori formano oggetto di specifica disciplina legislativa infatti il codice
regola distintamente:
a) La clausola di esclusiva, unilaterale o reciproca, che può essere convenzionalmente
inserita in un contratto di somministrazione.
Clausola per la quale è espressamente prevista una durata corrispondente a quella
del contratto base. Articoli 1567 e 1568.

b) Il patto di preferenza a favore del somministrante inseribile nello stesso contratto di


somministrazione.
Il somministrato si obbliga a preferire, a parità di condizioni, lo stesso somministrante
qualora intenda stipulare un successivo contratto di somministrazione dello stesso
oggetto. Durata max 5 anni.

c) Il patto di non concorrenza con il quale si limita l’attività del prestatore di lavoro per
il tempo successivo alla cessazione del contratto.
Per questo patto sono richiesti requisiti di validità più rigorosi al fine di tutelare le
libertà del lavoratore. Il patto è nullo se non risulta da atto scritto e se non è
previsto un corrispettivo a favore del lavoratore. Infine salvo che per i dirigenti il
vincolo non può incidere 3 anni dalla fine del rapporto di lavoro.

d) Il patto con cui si limita la concorrenza dell’agente dopo lo scioglimento del


contratto di agenzia, deve farsi per iscritto, non può avere durata superiore a 2 anni
e deve riguardare la stessa zona, clientela e generi di beni o servizi oggetto del
contratto di agenzia.
 PATTI ACCESSORI INNOMINATI
I patti accessori innominati sono patti di esclusiva e di preferenza inseriti in altri contratti.
Anche per i pacchi innominati deve essere operata una distinzione.
Si ritiene che il limite quinquennale si applichi sono alle clausole innominate che
comportano limitazioni della concorrenza non funzionali al tipo di contratto cui accedono,
non invece quando tra il patto e il contratto sussiste un collegamento causale in modo che il
primo adempia alla stessa funzione economica del secondo.
Perciò anche le clausole di esclusiva inserite in contratti di collaborazione economica diversi
dall’agenzia o dalla somministrazione avranno validità per tutta la durata del contratto
principale e non la durata massima quinquennale.
LA CONCORRENZA SLEALE

 Libertà di concorrenza e disciplina della concorrenza sleale

La libertà di iniziativa economica implica la normale presenza sul mercato di una pluralità di
imprenditori che offrono beni o servizi identici o similari e che conseguentemente sono in
competizione fra loro per conquistare il potenziale pubblico dei consumatori e conseguire il
maggior successo economico.
Nel perseguimento di questi obiettivi ciascun imprenditore gode di ampia libertà di azione e
può porre in atto le tecniche e le strategie che ritiene più proficuo, non solo per attrarre a
sé la clientela ma anche per sottrarla alla concorrenza.

Se procurarsi un vantaggio sul mercato, a scapito di quanti altri sullo stesso mercato
operano, rientra nelle regole della concorrenza, è tuttavia interesse generale che la
competizione fra imprenditori si svolga in modo corretto e leale.

La competizione non regolamentata spesso porta a colpi bassi o a comportamenti scorretti


per questo motivo il codice sancisce alcune regole di comportamento dirette ad evitare atti
di concorrenza sleale da parte delle imprese.
Tali regole non costituiscono delle limitazioni alla libertà di iniziativa economica ma al
contrario sono una garanzia di questa dal momento che garantiscono e tutelano tutti gli
imprenditori per far si che la competizione avvenga nella legalità.

Nello svolgimento della competizione fra imprenditori concorrenti è vietato servirsi di


mezzi e tecniche non conformi ai principi della correttezza professionale.
I fatti, gli atti e comportamenti che violino tale regola sono atti di concorrenza sleale, il
cosiddetto illecito concorrenziale.
Tali atti sono repressi e sanzionati anche se compiuti senza dolo o colpa.
Inoltre essi sono repressi e sanzionati anche se non hanno ancora arrecato un danno ai
concorrenti basta infatti il cosiddetto danno potenziale vale a dire l’atto che sia idoneo a
danneggiare l’altrui azienda.

Concorrenza sleale ed illecito civile sono quindi istituti che posti a raffronto presentano nel
contempo affinità e divergenze.

La disciplina della concorrenza sleale assolve la funzione di prevenire e reprimere atti


suscettibili di arrecare un danno ingiusto.
Funzione quindi sostanzialmente identica a quella che l’ordinamento assegna all’illecito
civile ma perseguita con gli adattamenti imposti dalla specificità del tipo di illecito che si
vuole reprimere, specificità che determina non trascurabili differenze di disciplina.
E ciò in quanto la repressione degli atti di concorrenza sleale:
- è svincolata dalla ricorrente dell’elemento soggettivo del dolo della colpa,
- È svincolata dalla presenza di un danno patrimoniale attuale in quanto basta il danno
potenziale,
- è attuata attraverso sanzioni tipiche che non si esauriscono nel risarcimento dei
danni.

Si tratta in definitiva di una disciplina speciale rispetto a quella generale dell’illecito civile e
che offre agli una tutela sotto più profili più energica e quindi privilegiata nelle relazioni con
i concorrenti al fine di evitare pratiche scorrette.

L’interesse tutelato dalla disciplina della concorrenza sleale non è perciò esauribile
nell’interesse degli imprenditori a non vedere alterate le proprie probabilità di guadagno
per effetto di comportamenti sleali dei concorrenti.
Tutelato è anche l’interesse che non vengano falsati gli elementi di valutazione di giudizio
del pubblico e che non siano tratti in inganno i destinatari finali della produzione.

Gli interessi diffusi dei consumatori devono essere tenuti presente nel valutare la realtà
delle pratiche concorrenziali. Non possono essere però elevati ad interessi direttamente
tutelati da tale disciplina.

Legittimati a reagire contro gli atti di concorrenza sleale sono solo gli imprenditori
concorrenti non invece il singolo consumatore, il che implica che l’interesse dei
consumatori a non essere tratti in inganno nelle loro scelte è tutelato dalla disciplina della
concorrenza sleale solo in modo mediato e riflesso.

 Ambito di applicazione della disciplina della concorrenza sleale

La disciplina della concorrenza sleale regola i rapporti di coesistenza sul mercato fra
imprenditori concorrenti.
La sua applicazione postula un duplice presupposto

1. La qualità di imprenditore sia del soggetto che pone in essere l’atto di concorrenza
vietato sia del soggetto che ne subisce le conseguenze.
2. L’esistenza di un rapporto di concorrenza
Per contro chi è leso nella propria attività di impresa da un altro soggetto che non è
imprenditore o non è un suo corrente potrà reagire avvalendosi della meno favorevole
disciplina generale dell’illecito civile sempre che ne ricorrano i presupposti:
- colpa o dolo del soggetto attivo
- e danno attuale.

Come abbiamo già detto i presupposti per l’applicazione della disciplina della concorrenza
sleale sono:
- la qualità di imprenditore da parte di entrambi soggetti
- e il rapporto di concorrenza fra imprenditori e di concorrenza prossima o effettiva.

Per quanto concerne quest’ultima soggetto attivo e soggetto passivo devono offrire nello
stesso ambito di mercato beni o servizi che siano destinati a soddisfare lo stesso bisogno dei
consumatori o bisogni similari o complementari.

Dunque, nel valutare l’esistenza di un rapporto di concorrenza, si deve tener conto anche
della prevedibile espansione territoriale e del prevedibile sviluppo merceologico in
prodotti complementari o affini dell’attività dell’imprenditore che subisce l’atto di
concorrenza: cosiddetta concorrenza potenziale.
Perciò dovranno considerarsi in rapporto di concorrenza un produttore di acque minerali
ed un produttore di bibite.

La giurisprudenza ammette inoltre che la disciplina della concorrenza sleale è applicabile


anche fra operatori che agiscono a livelli economici diversi:
- produttore-rivenditore,
- grossista-dettagliante.

Necessario ma al tempo stesso sufficiente e che il risultato ultimo di entrambe le attività


incida sulla stessa categoria di consumatori anche se diversa è la cerchia di clientela
direttamente servita: concorrenza verticale
 Gli atti di concorrenza sleale.
Le fattispecie tipiche
I comportamenti che costituiscono gli atti di concorrenza sleale sono definiti dall’articolo
2598.

Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti
di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque:
1. usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i

segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i


prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti
idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un
concorrente;

2. diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un


concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi
dei prodotti o dell'impresa di un concorrente;

3. si avvale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non


conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a
danneggiare l'altrui azienda.

La ratio della norma è quella di imporre alle imprese operanti nel mercato regole di
correttezza e di lealtà, in modo che nessuna si avvantaggi, nella diffusione e collocazione dei
propri prodotti, con l'utilizzo di metodi contrari all'etica commerciale

La norma quindi individua due ampie fattispecie tipica:


1) atti di confusione,
2) atti di denigrazione e appropriazione di pregi altrui.

Enuncia poi una regola generale di chiusura disponendo che costituisce atto di concorrenza
sleale ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idonei a
danneggiare l’altrui azienda.

Questi caratteri ritenersi sempre presenti, per valutazione legislativa tipica, negli atti
inquadrabili nelle due fattispecie tipiche.
Perciò chi reagisce contro gli stessi non sarà tenuto a provare che il comportamento del
concorrente è idoneo a danneggiare la propria azienda.
Inoltre il giudice non sarà tenuto a valutare se l’atto contrasta con il parametro della
correttezza professionale. Tale valutazione è stata già compiuta dal legislatore in via
preventiva.

o Tipi di concorrenza sleale

 ATTI DI CONFUSIONE
È atto di concorrenza sleale ogni atto idoneo a creare confusione con i prodotti o con
l’attività di un concorrente.
È lecito attrarre a sé l’altrui clientela ma non è lecito farlo avvalendosi di mezzi che possono
trarre in inganno il pubblico sulla provenienza dei prodotti e sull’identità personale
dell’imprenditore.
Si tratta dunque dei cosiddetti atti di concorrenza sleale per confusione ed il legislatore ne
individua diversi:

1) Innanzitutto l’uso di nomi o di segni distintivi idonei a produrre confusione con i


nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri imprenditori concorrenti.

- La confondibilità può riguardare segni distintivi tipici: ditta, insegna e marchio


ed in tal caso la tutela offerta dalla disciplina della concorrenza sleale
integrerà quello offerta della disciplina dei segni distintivi.

- La confondibilità può riguardare segni non protetti da altre disposizioni ad


esempio uno slogan pubblicitario ed in tal caso di applicazione della
disciplina della concorrenza sleale.
È necessario che si tratti di segni distintivi legittimamente usati il che significa ad
esempio che chi adotta un marchio privo di capacità distintiva non è tutelato da tale
disciplina.

2) Imitazione servile
Altre ipotesi di concorrenza sleale per confusione è costituita dall’imitazione servile dei
prodotti di un concorrente.
È tale la riproduzione di forme esteriori dei prodotti altrui ad esempio
- involucro,
- confezione,
- rivestimento
- o anche l’aspetto complessivo del prodotto
Attuata in modo da indurre il pubblico a supporre che i due prodotti, l’originale e l’imitato,
provengono dalla stessa impresa.
L’imitazione deve però riguardare elementi formali non necessari e caratterizzanti idonei
cioè a differenziare esteriormente quel dato prodotto dagli altri dello stesso genere agli
occhi della specifica clientela cui sono diretti, ad esempio la particolare forma di particolare
colore di una penna biro.

Non si ha perciò imitazione servile quando vengono imitate forme comuni ormai
standardizzate ad esempio la forma di una bombola del gas per cucina.

Rientra in questa categoria anche l’imitazione dei mezzi pubblicitari, di listini, di cataloghi,
dell’aspetto esteriore dei locali di vendita quando ciò può creare equivoci nel pubblico.
Si pensi alla sempre più pratica diffusione delle grandi imprese di allestire in modo identico i
diversi punti vendita.

La seconda vasta categoria di concorrenza sleale ricomprende:

1) GLI ATTI DI DENIGRAZIONE

che consistono nel diffondere notizie e apprezzamenti sui prodotti e sulle attività di un
concorrente idonei a determinare il discredito.
La denigrazione di un concorrente può essere attuata dei esempio attraverso la diffusione
presso il pubblico o presso specifici soggetti (Banche, fornitori, clienti particolarmente
importanti) di notizie infondate: si pensi al caso dell’imprenditore che diffonde la voce
secondo la quale l’imprenditore suo concorrente naviga in cattive acque e non è in grado di
pagare i suoi debiti con i fornitori.
Per denigrare un concorrente può essere usato anche lo strumento della pubblicità.
Non è dunque corretto diffondere un messaggio pubblicitario quale: il detersivo alfa è
ecologico mentre il detersivo beta è tossico.
Con la denigrazione si tende a mettere in cattiva luce i concorrenti danneggiando la loro
reputazione commerciale.

2) L’APPROPRIAZIONE DI PREGI DEI PRODOTTI O DELL’IMPRESA DI UN CONCORRENTE

Essa può essere realizzata in vari modi.


Ad esempio attraverso la pubblicità per riferimento, consistente nel far credere che i
prodotti venduti hanno le stesse caratteristiche di quelli di un concorrente: si pensi ad una
pubblicità quale: “vendiamo scarpe tipo Timberland” o “produciamo macchine modello
Fiat”.
Comune ad entrambe le fattispecie è la finalità di falsare gli elementi di valutazione
comparativa del pubblico attraverso comunicazioni indirizzate a terzi.
Diverse sono però nei due casi le modalità con cui tale finalità è perseguita.
- La denigrazione mette in cattiva luce i concorrenti danneggiando la riputazione
- L’appropriazione tende ad incrementare artificiosamente il proprio prestigio
attribuendo ai propri prodotti o alla propria attività pregi e qualità che in realtà
appartengono a uno o più concorrenti.

Diverse sono le pratiche utilizzate nello schema della concorrenza sleale per denigrazione:

1. le denunzie al pubblico di pratiche concorrenziali illecite da parte di concorrenti


specifici (violazione di un proprio brevetto industriale).
Più in generale la divulgazione di notizie che possono screditare la reputazione
commerciale di un concorrente (difficoltà finanziarie, scarsa esperienza, scarta
puntualità..).
2. la pubblicità iperbolica.
Si tende ad accreditare l’idea che il proprio prodotto sia il solo a possedere specifiche
qualità o determinati pregi che invece vengono implicitamente negati ai prodotti
concorrenti ad esempio il caffè decaffeinato X è il solo che non fa male al cuore.
Lecito è invece il cosiddetto Paffing che consiste nella generica ed innocua
affermazione di superiorità dei propri prodotti ad esempio il panettone S non è un
panettone ma il panettone.

Anche l’appropriazione di pregi altrui può essere realizzata con modalità e tecniche
differenti. Ne costituiscono forme tipiche:

- la pubblicità parassitaria o per sottrazione  consiste nella ingannevole attribuzione


a se stessi di qualità pregi e
riconoscimenti di caratteristiche positive
che realtà appartengono ad altri
imprenditori del settore

- e la pubblicità per riferimento o per agganciamento  tende a far credere che i


propri prodotti siano simili a quelli di un
concorrente attraverso l’utilizzazione di
espressioni come tipo, modello, sistema e ciò al
fine di avvantaggiarsi indebitamente dell’altrui
rinomanza commerciale
Non sempre costituisce atto di concorrenza sleale la pubblicità comparativa oggi
specificamente disciplinata insieme la pubblicità ingannevole.

Costituisce pubblicità comparativa ogni pubblicità che identifichi in modo esplicito o


implicito un concorrente o beni e servizi offerti da un concorrente.
Essa consiste perciò nel confronto fra la propria attività o dei propri prodotti e quelli di
uno più concorrenti fatto in modo da gettare discredito sugli altri prodotti o sull’altrui
attività.

La comparazione è lecita quando non è ingannevole, quando cioè confronta oggettivamente


caratteristiche essenziali e verificabili di beni o servizi omogenei, non crea confusione sul
mercato e non causa discredito o denigrazione del concorrente.
Non deve inoltre procurare all’autore della pubblicità un indebito vantaggio tratto della
notorietà dei segni distintivi del concorrente.

 ALTRI ATTI DI CONCORRENZA SLEALE


L’articolo 2598 chiude l’elencazione degli atti di concorrenza sleale affermando che è tale
ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a
danneggiare l’altrui azienda.

Fra gli atti contrari al parametro della correttezza professionale rientra la


- PUBBLICITÀ MENZOGNERA: falsa attribuzione ai propri prodotti di qualità o pregi
non appartenenti ad alcun concorrente. Costituisce
certamente illecito concorrenziale la pubblicità
menzognera diretta screditare i prodotti di altro
imprenditore. Ma illecita deve considerarsi anche la
pubblicità menzognera non specificamente lesiva di
un determinato concorrente quando il messaggio
pubblicitario sia tale da trarre in inganno il pubblico
alzandone gli elementi di giudizio con danno
potenziale per tutti concorrenti del settore.

Ogni forma di pubblicità ingannevole è contraria alla correttezza imprenditoriale.


Ai sensi dell’articolo 1 del dL 25/01/1992 n. 74:
“la pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta ed è vietata ogni forma
di pubblicità ingannevole ossia ogni forma di pubblicità che in qualunque
modo induca in errore o possa indurre in errore le persone alle quali è rivolta,
pregiudicandone il comportamento economico, oppure che sia in grado di
ledere un concorrente”.

È stata ad esempio considerata ingannevole la pubblicità che utilizzava l’espressione


ecologico o naturale per evidenziare l’innocuità di un prodotto, innocuità che però non era
assoluta, come pure la falsa offerta di lavoro che si risolveva nell’invito ad iscriversi a corsi
professionali a pagamento.

Una particolare attenzione è posta soprattutto i messaggi pubblicitari che possono mettere
in pericolo la salute dei consumatori, che possono raggiungere i bambini e adolescenti.

Il compito di vigilare sul rispetto delle norme in materia di pubblicità ingannevole e


comparativa spetta all’autorità antitrust.

Dalle altre forme di concorrenza sleale ricondotte dalla giurisprudenza nella categoria
residuale vanno ricordate:

A. LA CONCORRENZA PARASSITARIA.
Essa consiste nella sistematica imitazione, anche non integrale, delle altrui iniziative
imprenditoriali (prodotti, marchi, campagne pubblicitarie).
Imitazione attuata con accorgimenti tali da evitare la piena confondibilità delle
attività (e quindi non reprimibile in base alla fattispecie tipica degli atti di confusione)
e con un disegno complessivo che denota lo sfruttamento dell’altrui creatività.
Celebre è stato in passato il caso Motta-Alemagna.

B. IL BOICOTTAGGIO ECONOMICO.
È tale il rifiuto ingiustificato ed arbitrario di un’impresa in posizione dominante sul
mercato o di un gruppo di imprese associate di fornire i propri prodotti a determinati
rivenditori in modo da escluderli dal mercato o anche di acquistare i prodotti di un
determinato imprenditore.
Il boicottaggio è illecito quando avviene in forma concordata da parte degli altri
imprenditori, non quando è portato avanti dal pubblico, individualmente.
C. LA SISTEMATICA VENDITA SOTTOCOSTO DEI PROPRI PRODOTTI (DUMPING)
È tuttavia controverso se costituisca atto di concorrenza sleale in ogni caso o solo
quando sia finalizzato all’eliminazione dei concorrenti e all’acquisizione di una
posizione monopolistica.

D. LA SOTTRAZIONE AD UN CONCORRENTE DI DIPENDENTI O ANCHE DI


COLLABORATORI AUTONOMI PARTICOLARMENTE QUALIFICATI
quando venga attuata con modalità tali da manifestare il deliberato proposito di
danneggiare l’altrui azienda avvantaggiandosi in modo parassitario degli investimenti
formativi e delle conoscenze aziendali delle concorrente.

E. LA SOTTRAZIONE SI SEGRETI IMPRENDITORIALI (spionaggio industriale)


Fra gli atti di concorrenza sleale è compresa anche la violazione di segreti aziendali
cioè la rivelazione a terzi l’acquisizione e l’utilizzazione da parte di terzi in modo
contrario alla correttezza professionale delle informazioni aziendali segrete.

 LE SANZIONI

L’imprenditore può rivolgersi al giudice quando ritiene di essere stato danneggiato da uno o
più atti di concorrenza sleale posti in essere da un imprenditore.
Il giudice una volta accertato il compimento di un atto di concorrenza sleale, può:

- vietare all’imprenditore concorrente la continuazione del comportamento sleale, la


cosiddetta TUTELA INIBITORIA.

- Prendere tutti i provvedimenti che ritiene opportuni per eliminare gli effetti, TUTELA
RIPARATORIA.
Ad esempio può ordinare la distruzione dei manifesti pubblicitari serviti per attuare la
concorrenza sleale oppure può imporre all’imprenditore concorrente di rettificare
pubblicamente quanto in precedenza affermato.

Le sanzioni tipiche sono due:


- l’inibitoria,
- e quella comune all’illecito civile del risarcimento dei danni.
Art 2599
“La sentenza che accerta atti di concorrenza sleale ne inibisce la
continuazione e dà gli opportuni provvedimenti affinché ne vengano eliminati
gli effetti”.

La concorrenza sleale è contrastata con un'azione inibitori la cui funzione essenziale è quella
di accordare una tutela preventiva mediante la pronuncia al soggetto responsabile di
astenersi per il futuro dal ripetere determinati atti commessi in violazione di obblighi di no
fare previsti dall'art. 2598.

La sentenza è il provvedimento con il quale il giudice conclude un procedimento accertando


l’esistenza determinata situazione e condannando una delle parti ad un determinato
comportamento.

 INIBITORIA
Interesse primario dell’imprenditore che subisce un atto di concorrenza sleale è quello di
ottenere la cessazione delle turbative alla propria attività e di ottenerla ancor prima che
l’atto gli abbia causato un danno patrimoniale.

A tal fine risponde l’azione inibitoria che è diretta ad ottenere una sentenza che accerti
l’illecito e ne inibisca la continuazione per il futuro e disponga a carico della controparte i
provvedimenti reintegrativi necessari per far cessare gli effetti della concorrenza sleale.
Ad esempio rimozione o distruzione delle cose che sono servite per attuare l’illecito
concorrenziale.
L’azione inibitoria e le relative sanzioni prescindono dal dolo o dalla colpa del soggetto
attivo della concorrenza sleale e dall’esistenza di un danno patrimoniale attuale per la
controparte.

Non è necessario che l’imprenditore convenuto in giudizio abbia agito con leggerezza o con
l’intenzione di causare danno all’impresa altrui.
Può essere condannato anche l’imprenditore che non è a conoscenza del fatto che i suoi
prodotti imitano servilmente quelli di un altro imprenditore essendo sufficiente che esista
il fatto anche se non consapevolmente.
 RISARCIMENTO DEI DANNI

Art 2600
“Se gli atti di concorrenza sleale sono compiuti con dolo o con colpa, l'autore
è tenuto al risarcimento dei danni.
In tale ipotesi può essere ordinata la pubblicazione della sentenza.
Accertati gli atti di concorrenza, la colpa si presume.”

Il concorrente leso, potrà dunque ottenere anche il risarcimento dei danni.


L’esercizio di azione è facilitata dal fatto che la colpa del danneggiante si presume una
volta accertato l’atto di concorrenza sleale.
Questo significa che sarà l’imprenditore che ha tenuto il comportamento sleale a dover
provare l’assenza di colpa per evitare di essere obbligato al risarcimento dei danni.
Fra le misure risarcitorie il giudice può disporre anche la pubblicazione della sentenza in uno
o più giornali a spese del soccombente.

 SOGGETTI LEGITTIMATI
L’azione per la repressione della concorrenza sleale può essere promossa dall’imprenditore
o dagli imprenditori lesi.
La legittimazione è poi espressamente riconosciuta anche alle associazioni professionali
degli imprenditori e agli enti rappresentativi di categoria quando gli atti di concorrenza
sleale pregiudicano gli interessi di una categoria professionale nonché anche alle camere di
commercio.
Il che induce a ritenere che le associazioni professionali possono agire in giudizio anche se
l’atto non danneggi specificamente alcun associato.
Fra i soggetti legittimati non sono invece menzionati i singoli consumatori ne le associazioni
rappresentative dei loro interessi.

Sintesi
Queste forme di tutela prescindono dal dolo e dalla colpa non è dunque necessario che
l’imprenditore convenuto in giudizio abbia agito con leggerezza o con intenzione di causare
un danno all’altra impresa. Ciò significa che può essere condannato anche l’imprenditore
che non è a conoscenza del fatto che sui prodotti imitano servilmente quelli di un altro
imprenditore essendo sufficiente che esista di fatto l’imitazione servile. Quando tuttavia
esiste anche il dolo o la colpa imprenditore scorretto può essere condannato a risarcire i
danni causati. In base all’articolo 2600 Una volta accertato il compimento di un atto di
concorrenza sleale la colpa si presume questo significa che sarà l’imprenditore che ha
tenuto il comportamento sleale a dover provare l’assenza di colpa per evitare di essere
obbligato al risarcimento.
CONSORZIO
 Nozione e tipologia
Art 2602
“Con il contratto di consorzio più imprenditori istituiscono un'organizzazione
comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle
rispettive imprese.
Il contratto di cui al precedente comma è regolato dalle norme seguenti, salve
le diverse disposizioni delle leggi speciali.”

Il consorzio è un istituto giuridico che disciplina un'aggregazione volontaria legalmente


riconosciuta, volta a coordinare e regolare le iniziative comuni per lo svolgimento di
determinate attività di impresa, sia da parte di enti privati che di enti pubblici.

Esso può essere costituito per svariate finalità, a seconda dell'oggetto:

a. anticoncorrenziali: costituiti con lo scopo prevalente o esclusivo di disciplinare la


reciproca concorrenza sul mercato;

b. di coordinamento: per conseguire un fine parzialmente o totalmente diverso, ovvero


per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese
consortili, con conseguente riduzione dei costi di gestione e di
produzione.

c. di servizio: per svolgere attività di servizio nell'interesse comune delle imprese


consorziate, come ad esempio acquisti collettivi oppure l'organizzazione
di servizi nell'interesse dei consorziati.

Il consorzio dunque è un contratto con il quale due o più imprenditori istituiscono


un’organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle
rispettive imprese.

Il consorzio è schema associativo tra imprenditori idoneo a ricomprendere due distinti


fenomeni
1) CONSORZIO CON FUNZIONE ANTICONCORRENZIALE
Un consorzio può essere costituito al fine prevalente o esclusivo di disciplinare,
limitandola, la reciproca concorrenza sul mercato fra imprenditori che svolgono la
stessa attività o attività similari.
In tal caso il contratto di consorzio si caratterizza per la reciprocità delle limitazioni,
per la creazione di un’organizzazione comune cui è demandato il compito di dare
attuazione al patto restrittivo della concorrenza.
Esempio classico di Consorzio Anticoncorrenziale è quello costituito per il
contingentamento della produzione o degli scambi fra imprenditori concorrenti.

2) IL CONSORZIO DI COORDINAMENTO.
Un consorzio può essere anche costituito per conseguire un fine parzialmente o
totalmente diverso ovvero per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive
imprese.
In tal caso il consorzio rappresenta anche uno strumento di cooperazione
Interaziendale finalizzato alla riduzione dei costi di gestione delle singole imprese
consorziate.Ad esempio più imprenditori non necessariamente concorrenti si
consorziano per
- acquistare in comune determinate materie prime necessarie alle rispettive
imprese,
- o creano l’ufficio vendite in comune dei propri prodotti anche del tutto diversi,
- oppure costituiscono un centro contabile comune per la tenuta della contabilità
delle rispettive imprese
- o un ufficio comune per la gestione della pubblicità.

Queste forme di cooperazione ricorrono soprattutto per le piccole e medie imprese


per raggiungere e recuperare competitività sul mercato attraverso la riduzione di
spese generali di esercizio.

I consorzi anticoncorrenziali sollecitano controlli volti ad impedire che per loro tramite si
instaurino situazioni di monopolio di fatto contrastanti con l’interesse generale.

Differente è invece la situazione dei CONSORZI DI COOPERAZIONE INTERNAZIONALE in


quanto rispondono all’esigenza di conservare di accrescere la competitività delle imprese
e, in quanto favoriscono la sopravvivenza delle piccole e medie imprese, concorrono a
preservare la struttura concorrenziale del mercato.
Tali consorzi sono perciò guardati con favore dal legislatore che ne agevola la costituzione
ed il funzionamento con una serie di provvidenze creditizie e tributarie a favore dei consorzi
e delle società consortili fra piccole e medie imprese che rispondono a determinati requisiti.

Sul piano della disciplina di diritto privato consorzi anticoncorrenziali e consorzi di


cooperazione aziendale sono regolati in modo tendenzialmente uniforme.
Caratteristica principale è che il consorzio ha carattere di stabilità a differenza di dell’intesa
che hanno carattere occasionale.
Tipico esempio di cartello (raccordo fra più imprese in funzione anticoncorrenziale ma con
carattere occasionale non stabile) è quello che vediamo tra i vari supermercati sulle offerte
che sono sempre in periodi diversi e se sono gli stessi periodi sono per prodotti diversi.

Ciò che comunque lo differenzia dalle intese e dai cartelli è la creazione di


un’organizzazione comune, cioè di appositi organi che svolgono una determinata funzione
nell’interesse comune.
Che cos’è una fase? Nel concetto di fase vanno ricomprese tutte le operazioni in cui è
scomponibile in attività di un’impresa che conserva la sua individualità. Sono quindi un
gruppo di operazioni che afferiscono ad un determinato settore di quell’impresa.

Altra distinzione rilevante sul piano civilistico è quella fra:

- CONSORZIO CON ATTIVITÀ INTERNA


In entrambi casi si dà luogo alla creazione di un’organizzazione comune ma nei consorzi con
attività interna il compito di tale organizzazione si esaurisce nel regolare i rapporti reciproci
fra i consorziati e nel controllare il rispetto di quanto convenuto.
Il consorzio in quanto tale non entra in contatto e non opera con i terzi.
Dunque il contratto di consorzio con attività interna può quindi rilevare solo i rapporti
interni tra gli imprenditori.
Questi ultimi possono ad esempio prendere l’impegno di scambiarsi periodicamente i
materiali necessari in alcune fasi del processo produttivo, in tale ipotesi l’organizzazione
comune avrà il solo scopo di vigilare sul rispetto degli obblighi assunti e il consorzio in
quanto tale non entra in contatto con i terzi.

- CONSORZIO CON ATTIVITÀ ESTERNA


Il contratto di consorzio però può anche prevedere la creazione di un ufficio comune
destinato a svolgere la propria attività con i terzi cioè con soggetti estranei al concorso e
nell’interesse di questo.
È questa la struttura più diffusa dei consorzi di cooperazione Interaziendale mentre i
consorzi limitativi della concorrenza possono in concreto assumere entrambe le forme.

Il codice civile tieni in considerazione questa distinzione e contiene alcune disposizioni che
si applicano a tutti i tipi di consorzio e altri che si riferiscono specificamente ai consorzi con
attività esterna in quanto regolano proprio rapporti tra il consorzio e di terzi.

I consorzi anticoncorrenziali solitamente coincidono con i consorzi con attività interna


mentre i consorzi con funzioni di cooperazione Interaziendale coincidono con i consorzi con
attività esterna.
IL CONTRATTO DI CONSORZIO.

Art 2603
“Il contratto deve essere fatto per iscritto sotto pena di nullità .
Esso deve indicare:
1) l'oggetto e la durata del consorzio;
2) la sede dell'ufficio eventualmente costituito;
3) gli obblighi assunti e i contributi dovuti dai consorziati;
4) le attribuzioni e i poteri degli organi consortili anche in ordine alla
rappresentanza in giudizio
5) le condizioni di ammissione di nuovi consorziati;
6) i casi di recesso e di esclusione;
7) le sanzioni per l'inadempimento degli obblighi dei consorziati.

Se il consorzio ha per oggetto il contingentamento della produzione o degli


scambi, il contratto deve inoltre stabilire le quote dei singoli consorziati o i
criteri per la determinazione di esse.
Se l'atto costitutivo deferisce la risoluzione di questioni relative alla
determinazione delle quote ad una o più persone, le decisioni di queste
possono essere impugnate innanzi all'autorità giudiziaria, se sono
manifestamente inique, od erronee, entro trenta giorni dalla notizia”

Il contratto di consorzio può essere stipulato solo fra imprenditori, non sono richiesti
ulteriori requisiti soggettivi ne è necessario che i partecipanti svolgano la medesima attività
o attività similari, benché questa sia la regola quando il consorzio ha finalità limitative della
concorrenza.

Il consorzio è un contratto formale deve essere stipulato per iscritto a pena di nullità.
Deve inoltre contenere
- la determinazione dell’oggetto del consorzio,
- degli obblighi assunti dai consorziati
- e eventuali contributi in denaro da essi dovuti per il funzionamento del consorzio.

Se si tratta di consorzio di contingentamento il contratto deve stabilire le quote dei singoli


consorziati o almeno i criteri per la loro determinazione.

DURATA
Il contratto di consorzio è per sua natura un contratto di durata che può essere liberamente
fissata dalle parti ma nel silenzio il contratto è valido per 10 anni.
L’attuale articolo 2604 non opera distinzione fra consorzi di cooperazione e
anticoncorrenziali perciò la nuova regola della durata è da ritenersi applicabile anche a
questi ultimi, in deroga all’articolo 2596 che prefissa cinque anni, la durata per entramabi i
tipi di consorzio è dunque di 10 anni

AMMISSIONE DI NUOVI CONSORZIATI


Il contratto di consorzio è un contratto tendenzialmente aperto è perciò possibile la
partecipazione al concorso nuovi imprenditori senza che sia necessario il consenso di tutti
gli attuali consorziati.
Le condizioni per l’ammissione di nuovi consorziati devono però essere predeterminate nel
contratto.
L’indicazione non è essenziale dunque se il contratto non prevede nulla riguardo è da
ritenersi che il consorzio abbia struttura chiusa. Nuovi imprenditori potranno aderire solo
con il consenso di tutti consorziati
Il contratto di consorzio, dunque, è un contratto di adesione a cui possono,
successivamente alla sua stipula, aderire altri soggetti, purché non venga modificato il
contenuto del contratto.
Esso deve rispettare il dispositivo di cui all'art. 1332.
“Se ad un contratto possono aderire altre parti e non sono determinate le
modalità dell'adesione, questa deve essere diretta all'organo che sia stato
costituito per l'attuazione del contratto o, in mancanza di esso, a tutti i
contraenti originari”.

L’articolo 2610
“Salvo patto contrario, in caso di trasferimento a qualunque titolo
dell'azienda l'acquirente subentra nel contratto di consorzio.
Tuttavia, se sussiste una giusta causa, in caso di trasferimento dell'azienda
per atto fra vivi, gli altri consorziati possono deliberare, entro un mese dalla
notizia dell'avvenuto trasferimento, l'esclusione dell'acquirente dal
consorzio”

La regola di subentro automatico nel caso di trasferimento di azienda si applica solo ai


contratti di azienda, cioè aventi ad oggetto il godimento di beni aziendali non appartenenti
all'imprenditore e da lui acquistati per lo svolgimento della attività imprenditoriale, nonchè
ai contratti di impresa, attinenti alla organizzazione dell'impresa (es. contratti di
somministrazione, contratti di assicurazione).
L'articolo 2610 trova applicazione anche in caso di cessione di un solo ramo dell'azienda.

SCIOGLIMENTO DEL CONSORZIO


Il contratto di consorzio al pari degli altri contratti associativi può sciogliersi limitatamente
ad un consorziato
- per volontà di questo (recesso)
- o per decisione degli altri consorziati (esclusione).

Le cause di recesso e di esclusione devono essere indicate nel contratto.


Anche l’indicazione di recesso e di esclusione non è clausola essenziale del contratto
dunque se nulla è pattuito opererà la causa di esclusione prevista dall’articolo 2610 a carico
dell’acquirente dell’azienda di un consorziato.

L’esclusione potrà essere sempre deliberata in caso di gravi inadempienze e quando un


consorziato cessa di essere imprenditore. E ciò in quanto la qualità dell’imprenditore è uno
dei requisiti essenziali del contratto di consorzio.
LIQUIDAZIONE DELLA QUOTA
Al receduto o all’escluso comporterà la liquidazione della quota di partecipazione al fondo
patrimoniale consortile.
Art 2609
Nei casi di recesso e di esclusione previsti dal contratto, la quota di
partecipazione del consorziato receduto o escluso si accresce
proporzionalmente a quelle degli altri.
Il mandato conferito dai consorziati per l'attuazione degli scopi del consorzio,
ancorché dato con unico atto, cessa nei confronti del consorziato receduto o
escluso.

Tale situazione tuttavia non è pacifica in quanto l’articolo 2609 dispone che la quota di
partecipazione del consorziato receduto o escluso si accresce proporzionalmente a quella
degli altri consorziati.
È tuttavia opinione prevalente che tale disposizione non si riferisca alla quota di
partecipazione al fondo consortile bensì solo ai diritti e gli obblighi assunti dalle parti nei
consorzi di contingentamento.
In altri termini l’accrescimento a favore degli altri consorziati riguarderà solo la quota,
eventuale, di produzione riservata a quel dato consorziato e non la quota di partecipazione
dello stesso al patrimonio del consorzio in quanto quest’ultima va liquidata al consorziato
receduto o escluso.

Dalle cause di recesso e di esclusione vanno tenute distinte le cause di scioglimento


dell’intero contratto di consorzio.
Queste sono elencate dall’articolo 2611 che consente lo scioglimento con delibera
maggioritaria dei consorziati quando sussiste una giusta causa.
In mancanza lo scioglimento anticipato dovrà essere deciso dall’unanimità.
Art 2611 cause di scioglimento
Il contratto di consorzio si scioglie:
1) per il decorso del tempo stabilito per la sua durata;
2) per il conseguimento dell'oggetto o per l'impossibilità di conseguirlo;
3) per volontà unanime dei consorziati ;
4) per deliberazione dei consorziati, presa a norma dell'articolo 2606, se
sussiste una giusta causa;
5) per provvedimento dell'autorità governativa, nei casi ammessi dalla
legge;
6) per le altre cause previste nel contratto.
I CONSORZI CON ATTIVITÀ INTERNA

Il contratto di consorzio può contenere un accordo che rileva solo nei rapporti interni tra
imprenditori consorziati.
Questi ultimi possono adesso empio prendere l’impegno di scambiarsi periodicamente i
materiali necessari in alcune fasi del processo produttivo, in tale ipotesi l’organizzazione
comuna ha il solo scopo di vigilare sul rispetto degli obblighi assunti e il consorzio in quanto
tale non entra mai in contatto con i terzi, si parla quindi di consorzi interni

Carattere strutturale essenziale dei consorzi dunque è la creazione di un’organizzazione


comune cui è demandato il compito di attuare il contratto assumendo e portando ad
esecuzione le decisioni a tal fine necessarie.

Nei consorzi come in altri fenomeni associativi vi è la necessità di determinare gli organi
preposti all’attuazione del contratto, nonché le rispettive funzioni e le modalità di
funzionamento.
La disciplina legislativa è largamente lacunosa essendo prevalsa l’idea di lasciare ampia
libertà all’autonomia contrattuale dei consorziati.
Dai dati normativi emerge comunque che la struttura organizzativa di ogni consorzio si
fonda sulla presenza:
- di un organo con funzioni deliberativi composto da tutti consorziati (ASSEMBLEA)
- e di un organo con funzioni gestori ed esecutive (ORGANO DIRETTIVO).

 ASSEMBLEA
È estremamente sintetica la disciplina dell’assemblea, si prevede a riguardo che le delibere
relative all’attuazione dell’oggetto del consorzio sono prese con voto favorevole della
maggioranza dei consorziati articolo 2606 primo comma.

Art 2606 delibere consortili


Se il contratto non dispone diversamente, le deliberazioni relative
all'attuazione dell'oggetto del consorzio sono prese col voto favorevole della
maggioranza dei consorziati.
Le deliberazioni che non sono prese in conformità alle disposizioni di questo
articolo o a quelle del contratto possono essere impugnate davanti
all'autorità giudiziaria entro 30 giorni. Per i consorziati assenti il termine
decorre dalla comunicazione o, se si tratta di deliberazione soggetta ad
iscrizione, dalla data di questa.
È invece richiesto il consenso di tutti consorziati per le modifiche del contratto

Art 2607 Modificazioni del contratto


Il contratto, se non è diversamente convenuto, non può essere modificato
senza il consenso di tutti i consorziati.
Le modificazioni devono essere fatte per iscritto sotto pena di nullità.

Entrambe le regole hanno peraltro carattere dispositivo poiché è fatta salva la possibilità
delle parti di disporre diversamente nel contratto.

Nulla è disposto circa le regole procedurali da osservare durante le deliberazioni.


È ragionevole pensare che le deliberazioni a maggioranza debbano essere adottate
rispettando le cadenze che reggono il funzionamento di un organo collegiale:
- preventiva convocazione,
- riunione ,
- discussione,
- votazione.

 Organo direttivo
Ancor più ampio è lo spazio riservato all’autonomia privata per quanto riguarda l’organo
direttivo nei consorzi con attività interna nei quali la funzione tipica di tale organo è quella
di controllare l’attività dei consorziati al fine di accertare l’esatto adempimento delle
obbligazioni assunte.
- Articolazione dell’organo direttivo,
- attribuzioni ulteriori a quella di controllo,
- modalità di nomina,
- di revoca
- e di esercizio delle funzioni
sono invece rimesse all’autonomia contrattuale.

È comunque disposto che la Responsabilità verso i consorziati degli organi preposti al


consorzio è regolata dalle norme sul mandato.
I CONSORZI CON ATTIVITÀ ESTERNA

Una specifica disciplina integrativa è prevista per i consorzi con attività esterna, disciplina
che trova fondamento sia nell’esigenza di regolare i rapporti patrimoniali consorzio-terzi,
sia nel carattere tipicamente imprenditoriale dell’attività di tali consorzi.

Lo svolgimento di fasi dell’attività delle imprese consorziate è esso stesso attività di impresa
ed attività commerciale inquadrabile fra le attività ausiliari previsti dall’articolo 2195.

I consorzi con attività esterna costituiscono perciò una delle possibili forme organizzative
per l’esercizio collettivo dell’attività d’impresa.

Per essi è innanzitutto previsto un regime di pubblicità legale destinato a portare a


conoscenza dei terzi i dati essenziali della struttura consortile.

Articolo 2612 : Iscrizione nel registro delle imprese


“Se il contratto prevede l'istituzione di un ufficio destinato a svolgere
un'attività con i terzi, un estratto del contratto deve, a cura degli
amministratori, entro trenta giorni dalla stipulazione, essere depositato per
l'iscrizione presso l'ufficio del registro delle imprese del luogo dove l'ufficio
ha sede.
L'estratto deve indicare:
1) la denominazione e l'oggetto del consorzio e la sede dell'ufficio;
2) il cognome e il nome dei consorziati;
3) la durata del consorzio;
4) le persone a cui vengono attribuite la presidenza, la direzione e la
rappresentanza del consorzio ed i rispettivi poteri
5) il modo di formazione del fondo consortile e le norme relative alla
liquidazione.
Del pari devono essere iscritte nel registro delle imprese le modificazioni del
contratto concernenti gli elementi sopra indicati”.

Dunque non deve essere iscritto nel registro delle imprese il contratto di consorzio ma un
estratto di esso.
Ad analoga forma di pubblicità sono soggette le modificazioni degli elementi iscritti.
Le persone che hanno la direzione del consorzio sono tenute a redigere annualmente la
situazione patrimoniale del consorzio e a depositarla presso l’ufficio del registro delle
imprese articolo 2615 bis
Devono essere rese pubbliche solo le notizie che hanno un impatto con i terzi, le altre
notizie non è necessario che vengono pubblicizzate anche perché potrebbero essere
controproducenti per il consorzio renderle pubbliche e non sono utili per i terzi.

Chi deve procedere all’iscrizione?


Gli amministratori del consorzio che potrà anche essere il presidente o direttore, esso dovrà
procedere entro 30 giorni dalla stipula del contratto di consorzio al deposito dell’estratto al
registro delle imprese.

 RAPPRESENTANZA.
È disposto che il contratto specifichi le persone cui è attribuita
- la presidenza,
- la direzione,
- la rappresentanza del consorzio
- e i relativi poteri dati che devono essere iscritti nel registro delle imprese.

 RAPPRESENTANZA PASSIVA PROCESSUALE


Il consorzio può essere chiamato in giudizio nelle persone del presidente e del direttore
anche se la rappresentanza è attribuita ad altre persone.
In deroga agli effetti propri della pubblicità legale la mancanza di rappresentanza
processuale passiva del presidente e o dei direttori è inopponibile ai terzi anche se è iscritta
nel registro delle imprese.

 IL FONDO CONSORTILE
È poi espressamente prevista la formazione di un fondo patrimoniale cosiddetto FONDO
CONSORTILE costituito dai contributi iniziali e successivi dei consorziati e dai beni acquistati
con tali contributi.

Articolo 2614
“I contributi dei consorziati e i beni acquistati con questi contributi
costituiscono il fondo consortile.
Per la durata del consorzio i consorziati non possono chiedere la divisione del
fondo, e i creditori particolari dei consorziati non possono far valere i loro
diritti sul fondo medesimo”.

Tale fondo consortile è un patrimonio autonomo rispetto al patrimonio dei singoli


consorziati, è destinato a garantire il soddisfacimento dei creditori del consorzio e solo da
questi è aggredibile fino alla durata del consorzio.
Per la durata del consorzio i consorziati non possono chiedere la divisione del fondo, salvo il
caso di recesso di esclusione, ed i creditori particolari dei consorziati non possono far valere
i loro diritti sul fondo medesimo.

Si ritiene che il fondo può essere accresciuto con dei versamenti periodici da parte dei
consorziati o con il corrispettivo pagato dai consorziati per il servizio di cui usufruisce.

È importante definire i contenuti del fondo perché sul fondo incombe un vincolo di
destinazione ovvero per tutta la durata non possono chiederne la divisione perché il fondo
consortile è l’unica garanzia che hanno i creditori del consorzio.

Per tutta la durata i creditori dei singoli consorziati non possono aggredire il fondo perché
ha un vincolo di destinazione.

L’articolo 2614 non prevede una sanzione in caso di violazione del divieto (Una norma
senza sanzione può essere agevolmente violata senza incombere a grosse responsabilità).

Il fondo consortile dunque corrisponde nella sostanza ma non nella forma al capitale
sociale delle società di capitali con la differenza che non è previsto un fondo minimo per i
consorzi.

Per il consorzio si realizza una AUTONOMIA PATRIMONIALE PERFETTA in quanto il fondo è


destinato solo alle obbligazioni del consorzio ma non a quelle dei singoli consorziati ecco
perché è paragonabile da questo punto di vista al capitale sociale di una S.p.A. o di una Srl
con delle limitazioni a discapito dei creditori del consorzio perché non è prevista una
consistenza minima del fondo consortile mentre vi è un capitale minimo obbligatorio per le
società di capitali e non è neanche prevista la disciplina della riduzione del capitale per le
perdite.

 Obbligazioni consortili
Le obbligazioni gravanti sul fondo le stabilisce l’articolo 2615: responsabilità verso i terzi

“Per le obbligazioni assunte in nome del consorzio dalle persone che ne


hanno la rappresentanza, i terzi possono far valere i loro diritti
esclusivamente sul fondo consortile.
Per le obbligazioni assunte dagli organi del consorzio per conto dei singoli
consorziati rispondono questi ultimi solidalmente col fondo consortile. In
caso di insolvenza nei rapporti tra i consorziati il debito dell'insolvente si
ripartisce tra tutti in proporzione delle quote”.
La norma dunque distingue fra
1) obbligazioni assunte in nome del consorzio dei suoi rappresentanti
2) e obbligazioni assunte dagli organi del consorzio per conto dei singoli consorziati.

1. obbligazioni assunte in nome del consorzio dei suoi rappresentanti

Per le prime come ad esempio le spese degli uffici e degli impianti del consorzio risponde
esclusivamente il consorzio e creditori possono far valere i loro diritti solo sul fondo
consortile.
La riforma del 1976 ha soppresso la responsabilità illimitata e solidale per tali obbligazioni
delle persone che hanno agito in nome del consorzio.
I terzi quindi possono fare affidamento solo sul patrimonio del consorzio per le
obbligazioni assunte in nome del consorzio e nell’interesse di tutti consorziati.

Quanti contrattano con un consorzio sono perciò esposti a non pochi pericoli dato che non
è prevista alcuna forma di controllo sulla consistenza del patrimonio consortile, sulla
rispondenza al vero della situazione patrimoniale.
La tutela dei terzi è affidata solo all’estensione agli amministratori del consorzio delle
sanzioni penali previste per l’amministratore della società.

2. obbligazioni assunte dagli organi del consorzio per conto dei singoli
consorziati

Maggiormente tutelati sono invece i terzi quando si tratta di obbligazioni assunte dagli
organi del consorzio per conto dei singoli consorziati.

Ad esempio acquisto di materie prime per conto di una delle imprese consorziate.

Per tali obbligazioni rispondono solidalmente sia il consorziato interessato sia il fondo
consortile.

In caso di insolvenza del consorziato interessato il debito dell’insolvenza si ripartisce fra


tutti gli altri consorziati in proporzione delle loro quote il che significa che per tali
obbligazioni la responsabilità del fondo consortile ha funzione di garanzia.

Il consorzio se costretto a pagare avrà azione di rivalsa per l’intero nei confronti del
consorziato interessato e qualora questi sia insolvente l’azione di rivalsa ruota verso gli altri
consorziati.
Quest’ultimo regime di responsabilità trova applicazione:
- sia quando gli organi del consorzio hanno operato il nome del consorzio e per conto
del singolo consorziato,

- sia quando l’operazione è stata compiuta in nome e per conto del consorziato,
- sia quando il singolo consorziato ha stipulato direttamente il contratto con il terzo ma
avvalendosi dell’opera di intermediazione del consorzio.

Rivedendo l’articolo 2615


“Per le obbligazioni assunte in nome del consorzio dalle persone che ne
hanno la rappresentanza, i terzi possono far valere i loro diritti
esclusivamente sul fondo consortile”.

il primo comma si occupa dunque della responsabilità delle obbligazioni assunte in nome
del consorzio da chi ha la rappresentanza quindi in questo caso risponde il consorzio con il
fondo consortile, i consorziati non sono mai chiamati a rispondere delle obbligazioni con il
proprio patrimonio.

“Per le obbligazioni assunte dagli organi del consorzio per conto dei singoli
consorziati rispondono questi ultimi solidalmente col fondo consortile. In
caso di insolvenza nei rapporti tra i consorziati il debito dell'insolvente si
ripartisce tra tutti in proporzione delle quote”.

Il secondo comma parla invece di obbligazioni assunte dagli organi del consorzio per conto
dei singoli consociati a prescindere che abbiano o no la rappresenta e in questo caso la
responsabilità è solidale sia del fondo sia dei singoli consorziati per conto dei quali è stato
assunta l’obbligazione.
Risponde anche il fondo perché sono comunque obbligazioni assunte da organi del
consorzio e non in nome dei consorziati ma per conto dei consorziati quindi spendendo il
nome del consorzio.
Dunque il terzo è tutelato rivalendosi indifferentemente sul fondo o sul patrimonio del
singolo consorziato per conto del quale l’obbligazione è stata assunta.
Cosa succede se il singolo non adempie l’obbligazione?
La responsabilità è suddivisa pro quota fra i vari consorziati.
 Situazione patrimoniale

Articolo 2615 Bis


“Entro due mesi dalla chiusura dell'esercizio annuale le persone che hanno la
direzione del consorzio redigono la situazione patrimoniale osservando le
norme relative al bilancio di esercizio delle società per azioni e la depositano
presso l'ufficio del registro delle imprese.
Negli atti e nella corrispondenza del consorzio devono essere indicati la sede
di questo, l'ufficio del registro delle imprese presso il quale esso è iscritto e il
numero di iscrizione “.

Dunque entro due mesi dalla chiusura dell’esercizio annuale deve essere redatta la
situazione patrimoniale del consorzio.
- Chi sono i soggetti tenuti a redigere la situazione patrimoniale?
Coloro che hanno la direzione del consorzio anche senza la rappresentanza.

- Quali regole devono essere rispettate nel redigere una situazione patrimoniale?
Quelle relative al bilancio di esercizio dell’S.p.A. depositate nel registro delle imprese.

- Qual è la natura giuridica di questa situazione patrimoniale? E perché è importante


capirla?
Serve per comprendere quali delle norme della società per azioni devono essere
applicate. A differenza del bilancio in cui la situazione patrimoniale deve essere
approvata dall’assemblea ordinaria per essere depositata, non serve il consenso.
È per questo che la funzione della situazione patrimoniale serve per tutelare i terzi.
Se fosse a favore dei consorziati avrebbe previsto l’approvazione.
Alcuni ritengono sia sufficiente un inventario della situazione di attività e passività del
consorzio.

Sanzioni penali
In caso di bilancio falso si applicano le stesse sanzioni per le S.p.A. quindi gli articoli 2621 e
2626. Questo ci dice che in realtà non è un inventario ma un vero e proprio bilancio.
 SCIOGLIMENTO DEL CONSORZIO
Il consorzio si scioglie per le cause indicate dall’articolo 2611 e precisamente:
Il contratto di consorzio si scioglie:
1) per il decorso del tempo stabilito per la sua durata;
2) per il conseguimento dell'oggetto o per l'impossibilità di conseguirlo;
3) per volontà unanime dei consorziati ;
4) per deliberazione dei consorziati, presa a norma dell'articolo, se sussiste una giusta
causa;
5) per provvedimento dell'autorità governativa, nei casi ammessi dalla legge (ad
esempio quando l’attività del consorzio risulta non conforme agli scopi per cui è stato
costituito);
6) per le altre cause previste nel contratto.

 EFFETTI DELLO SCIOGLIMENTO

Non è previsto un procedimento di liquidazione e quindi dobbiamo applicare


analogicamente le disposizioni in tema di società oppure sarà il contratto stesso ad
indicarci i termini previsti per la liquidazione.
Potrà per esempio essere indicato che sia l’organo direttivo a nominare i liquidatori così
come dovrà essere iscritta nel registro tale nomina perché modifica di fatto il contratto di
consorzio e con esso l’estratto di consorzio.

Che succede se il contratto non prevede nulla sulla liquidazione?


Si applicano le regole di liquidazione della società semplice.

Tale procedimento serve anche per i consorzi con attività interna pur non avendo una
situazione patrimoniale e quindi un fondo consortile?
In realtà nell’articolo 2602 i consorziati si dettano un’organizzazione comune e nell’ipotesi
in cui interviene una causa di scioglimento del consorzio si dovrà necessariamente
procedere ad una liquidazione benché minima per sciogliere quell’organizzazione comune
quindi anche per loro si procede alla liquidazione se pure semplice e minima
 Organi del consorzio

Essa è una disciplina destrutturata in quanto tutto viene rimesso al contratto di consorzio
occorre dunque capire quali sono le regole da applicare
- per la nomina,
- per le regole
- e per il funzionamento degli organi
nel caso in cui il contratto si limiti a dire poco a riguardo.
Si chiameranno in soccorso le norme in tema di società di persone perché sebbene il
consorzio abbia alcune caratteristiche in comune con le società di capitale, come ad
esempio l’economia patrimoniale e le norme in tema di bilancio, d’altra parte parliamo di
una organizzazione che non crea un soggetto giuridico distinto perché il consorzio non è un
soggetto giuridico bensì un contratto.

Ricordati in questo capitolo di guardare quaderno per quanto riguarda l’articolo 2603
LE SOCIETÀ CONSORTILI

La funzione di un consorzio con attività esterna è quella di produrre beni o servizi necessari
alle imprese consorziate al fine di ridurre i costi di produzione e aumentare i ricavi delle
stesse.
Identico scopo può essere perseguito piuttosto che con la creazione di un consorzio con la
costituzione di una società consortile.
Ai sensi dell’articolo 2615 ter del codice civile le società lucrative, ad eccezione della società
semplice, possono perseguire anche uno scopo consortile.

Dunque le società consortili, pur essendo costituite in una delle forme previste per le
società lucrative, non perseguono uno scopo lucrativo (lo scopo di conseguire utili da
dividere tra i soci) ma perseguono uno scopo consortile, ossia diretto a disciplinare o
svolgere determinate fasi delle singole imprese dei consorziati

Consorzi e società sono istituti diversi.


Tale diversità è netta quando il consorzio svolge attività interna in quanto manca in tal caso
l’esercizio in comune di un’attività economica da parte dei consorziati che invece
costituisce elemento essenziale della società.
Meno evidente è la differenza tra le società e consorzi con attività esterna in quanto sono
fenomeni associativi che presentano in comune sia il normale carattere imprenditoriale
dell’attività esercitata, sia il fine di realizzare attraverso tale attività un interesse economico
dei partecipanti.

In cosa consiste lo scopo consortile dettato dall’articolo 2602?


Il consorzio si caratterizza per un duplice dato:
1) la qualità di imprenditore di tutti partecipanti al consorzio,
2) lo stretto nesso funzionale che esiste fra l’attività di consorzio e l’attività svolta dei
singoli imprenditori consorziati dato che l’organizzazione comune è costituita per la
disciplina e lo svolgimento di determinate fasi rispettive dell’impresa.

Da questi dati è possibile desumere che la funzione tipica di un consorzio con attività
esterna è quella di produrre beni o servizi necessari alle imprese consorziate e almeno
tendenzialmente destinati ad essere assorbiti dalle stesse.

L’attività d’impresa del consorzio non si può ritenere tipicamente finalizzata né alla
produzione di beni o servizi destinati ad essere ceduti ai terzi né al conseguimento di utili.
Si può quindi affermare che l’intento tipico non è lo scopo di ricavare un inutile ma quello
di usufruire di beni e servizi prodotti e messi a loro disposizione dall’impresa consortile in
modo da conseguire un vantaggio patrimoniale diretto nelle rispettive economie sotto
forma di minori costi sopportati o di maggiori ricavi conseguiti nella gestione delle proprie
imprese.

Dunque come abbiamo visto lo scopo dei consorzi è diverso da quello delle società
lucrative in cui la finalità tipica è quella di produrre utili da distribuire fra i soci.

Di regola una società per azioni acquista merci per rivenderli sul mercato e ricavarne un
gran guadagno da dividere fra i giudici.
Un consorzio invece di regola acquista merci che servono alle imprese dei consorziati per
rivenderle ai consorziati stessi ad un prezzo calcolato in modo da coprire i costi di gestione e
non di più.

Lo scopo consortile presenta caratteristiche più affini allo scopo tipicamente perseguito
dalle società cooperative: LO SCOPO MUTUALISTICO.

Anche l’impresa mutualistica tende a procurare ai soci un vantaggio patrimoniale diretto


sotto forma di un risparmio di spesa oppure un maggior guadagno personale.

La mutualità consortile si differenzia però dalla generica mutualità delle cooperative.


In quanto specifico e tipico è il vantaggio mutualistico perseguito dai partecipanti ad un
consorzio: Riduzione dei costi di produzione o aumento dei ricavi delle rispettive imprese.
L’interesse economico dei consorziati è un interesse tipicamente imprenditoriale:
migliorare l’efficienza e la capacità di profitto delle rispettive preesistenti imprese.

Se consorzi e società sono forme associative tipiche previste dal legislatore per la
realizzazione di finalità non coincidenti è però da dire che prima della modifica della
disciplina dei consorzi era largamente diffusa la prassi di perseguire gli obiettivi propri del
contratto di un consorzio costituendo una società, in quanto si preferiva dar vita ad una
società per azioni o ad una società cooperativa perché potevano beneficiare di un regime
di responsabilità limitata che allora era negato i consorzi e l’opportunità di disporre di una
struttura organizzativa in cui funzionamento è dettagliatamente disciplinato dal legislatore
e quindi presenta minori pericoli interni.

La prassi ha poi trovato riconoscimento legislativo con la riforma Dei consorzi del 1976.
L’articolo 2615 ter dispone che tutte le società lucrative ad eccezione della società
semplice possono assumere come oggetto sociale gli scopi di un consorzio.
È quindi oggi lecito costituire una società per azioni nel cui atto costitutivo si dichiari
espressamente l’esclusiva finalità consortile perseguita, e altrettanto espressamente si
dichiari che la società non persegue lo scopo di conseguire utili da dividere fra i soci.
Resta tuttora aperto e dibattuto un problema:

una società consortile è integralmente regolata dalle norme che il codice detta
per il tipo societario prescelto o si deve ritenere sottoposta ad una disciplina
mista?

In breve una società per azioni consortile è regolata solo dalla disciplina della
società per azioni o in parte da questa e in parte dalle disposizioni in tema di
consorzi?

I sostenitori della disciplina mista fanno osservare che in una società consortile sono
presenti la forma della società e la sostanza del consorzio.
Perciò sarebbero regolati da norme societarie per quanto riguarda i profili formali:
- articolazione degli organi,
- competenze e funzionamento degli stessi,
- maggioranze necessarie.

Restano invece regolati dalla disciplina dei consorzi i profili sostanziali:


- rapporti fra i soci
- e fra questi e di terzi
- e le relative disposizioni prevarrebbero su quelle societaria.

Così ad esempio in una società consortile per azioni opererebbero sempre le cause di
recesso di esclusione previste in tema di consorzi e si continuerebbe ad applicare il regime
di responsabilità previsto dall’articolo 2615 con la conseguenza che i soci risponderebbero
personalmente per le obbligazioni assunte da questa nel loro interesse.

Questa impostazione sebbene condivisa da una parte della giurisprudenza non merita di
essere accolta in quanto la disciplina mista non trova fondamento nel sistema legislativo in
quanto rende incerta la disciplina delle società consortili.

Esigenze di certezza del diritto inducono a preferire l’impostazione che vede nelle società
consortili vere proprie società integralmente assoggettate alla disciplina del tipo societario
prescelto.
Gli imprenditori potranno inserire nell’atto costitutivo attuazione volte ad adattare la
struttura societaria a specifica finalità consortile perseguita purché tali clausole non siano
incompatibili con norme inderogabili del tipo societario prescelto.
In mancanza di specifiche disposizioni di legge o dell’atto costitutivo troverà integrale
applicazione la disciplina legale del tipo societario prescelto.
IL GEIE
Il gruppo europeo di interesse economico è un istituto giuridico predisposto dall’Unione
Europea per favorire la cooperazione fra imprese appartenenti a diversi Stati membri.

La disciplina base del GEIE è fissata dal regolamento comunitario del 25 luglio 1985 n. 2137,
direttamente applicabile in tutti gli Stati membri.

Ciascun legislatore nazionale ha poi provveduto ad emanare specifiche norme integrative.


L’Italia ha provveduto al riguardo con il decreto legislativo del 23 luglio 1991 n. 240
rendendo fruibile l’istituto anche nel nostro ordinamento.

I gruppi con sede legale in Italia sono disciplinati dal regolamento comunitario e dalle
norme integrative dettate dalla legge italiana.
Struttura e funzione del GEIE coincidono con quelle dei consorzi di cooperazione con
attività esterna.
Parti del contratto costitutivo possono infatti essere solo persone fisiche o giuridiche che
svolgono attività economica non è necessario però che si tratti di imprenditore.

È invece necessario che almeno due membri abbiano l’amministrazione centrale e/o
esercitino la loro attività economica in Stati diversi della comunità.

Il GEIE è un’altra forma di cooperazione fra imprese, attraverso la costituzione di tale


gruppo di imprenditori possono partecipare congiuntamente a gare d’appalto e possono di
fatto ampliare i loro livelli dimensionali accrescendo la loro competitività sul mercato
europeo e internazionale.

Il GEIE è un organismo associativo a rilievo esterno ha la capacità di essere titolare di diritti


e di obbligazioni di qualsiasi natura ed è dotato anche di capacità processuale.

Costituisce quindi un centro autonomo di imputazione di rapporti giuridici distinto dei suoi
membri.
La finalità è quella di agevolare sviluppare l’attività economica dei suoi membri.
La sua attività deve collegarsi, con funzione ausiliare, a quella dei partecipanti.
consegue che il gruppo non ha scopo di realizzare profitti per se stesso.
In ciò il GEIE si differenzia dalle società ed assolve in campo transnazionale funzione
identica a quella dei consorzi di coordinamento con attività esterna.

È un organismo associativo finalizzato a consentire agli imprenditori e ad altri enti che


hanno sede in diversi paesi dell’Unione Europea lo svolgimento di iniziative economiche
comuni.
- Non è una società perché : non ha lo scopo di realizzare profitti per se stesso.
- Non è un’associazione perché: la sua attività è strumentale rispetto allo sviluppo
dell’attività economica dei partecipanti.

LA DISCIPLINA
Il contratto costitutivo deve essere redatto per iscritto a pena di nullità come previsto per i
consorzi.
Nel contratto devono essere indicati:
- la denominazione del gruppo preceduta o seguita dall’espressione gruppo europeo di
interesse economico o dalla sigla GEIE,
- la sede che deve essere situata nell’Unione Europea,
- l’oggetto,
- il nome dei membri,
- la durata che può anche essere a tempo indeterminato.

Il contratto è soggetto a pubblicità legale mediante iscrizione nel registro delle imprese e
successiva pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.
Dall’intervenuta pubblicazione deve essere poi data comunicazione nella Gazzetta Ufficiale
della comunità europea.

La pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica ha efficacia dichiarativa mentre


l’iscrizione della registro delle imprese ha efficacia costitutiva in quanto solo con l’iscrizione
il gruppo acquista la capacità di essere titolare di diritti ed obbligazioni.

Per gli atti compiuti in nome del gruppo prima dell’iscrizione sono responsabili solidalmente
ed illimitatamente coloro che li hanno compiuti qualora il gruppo non assuma dopo
l’iscrizione gli obblighi che derivano da tali atti.

NULLITÀ
Le cause di nullità sono quelle previste dei singoli ordinamenti nazionali.
In Italia opereranno perciò le cause di nullità di diritto comune fissate dalla disciplina
generale dei contratti associativi.

EFFETTI DELLA NULLITÀ


Svincolata dai diritti nazionali ed uniforme è invece la disciplina degli effetti della nullità,
infatti la dichiarazione di nullità del gruppo non ha effetto retroattivo, non pregiudica la
validità degli atti precedentemente compiuti e, opera come causa di scioglimento ex lege
del gruppo e la sentenza che dichiara la nullità provvede alla nomina dei liquidatori
determinandone i poteri.
La nullità infine è sanabile ed il tribunale se ritiene possibile la regolarizzazione della
situazione del gruppo deve concedere un termine che consenta di provvedervi.

ORGANIZZAZIONE
L’organizzazione interna e le regole di funzionamento del GEIE sono in larga parte rimesse
all’autonomia privata.
Sono espressamente previsti due organi:
- un organo collegiale composto da tutti membri
- ed un organo amministrativo.

ASSEMBLEA
I membri del gruppo possono adottare collegialmente qualsiasi decisione per la
realizzazione dell’oggetto, le decisioni più importanti ad esempio
- la modifica dell’oggetto
- o la durata del gruppo
- o lo scioglimento anticipato
devono essere prese all’unanimità.
Per le altre il contratto fissa la maggioranza. In mancanza tutte le decisioni sono prese
all’unanimità.
Ciascun membro dispone di un solo voto.
Il contratto può tuttavia attribuire più voti ad alcuni membri a condizione che nessuno
disponga da solo della maggioranza dei voti.
Nulla è disposto circa l’invalidità delle delibere assembleari ma si applica per analogia la
disciplina dettata per i consorzi.

AMMINISTRATORI
La gestione è affidata a uno o più amministratori, nominati con il contratto costitutivo o con
decisione dei membri.
Può essere nominato amministratore anche una persona giuridica la quale esercita le
relative funzioni tramite un proprio rappresentante, persona fisica.
I poteri degli amministratori sono fissati dal contratto, tuttavia soltanto ad essi spetta per
legge la rappresentanza del gruppo verso i terzi.
Se gli amministratori sono di più la rappresentanza spetta a ciascuno disgiuntamente salvo
che il contratto preveda la rappresentanza congiunta.

Il GEIE deve tenere le scritture contabili previste per gli imprenditori commerciali
indipendentemente dalla natura commerciale o meno dell’attività esercitata.
Gli amministratori redigono il bilancio lo sottopongo all’approvazione dei membri e
provvedono a depositarlo nel registro delle imprese entro 4 mesi dalla chiusura
dell’esercizio.
I profitti risultanti dall’attività del gruppo sono considerati direttamente profitti dei membri
e ripartiti secondo la proporzione prevista nel contratto o nel silenzio in parti uguali.

RESPONSABILITÀ
La disciplina non prevede la formazione obbligatoria di un fondo patrimoniale iniziale, né
eleva il fondo patrimoniale eventualmente costituito a patrimonio autonomo.
Vi è dunque un regime di responsabilità per le obbligazioni particolarmente rigoroso.

Delle obbligazioni di qualsiasi natura assunte dal GEIE rispondono infatti solidalmente ed
illimitatamente tutti membri del gruppo col proprio col proprio patrimonio.

Tale disciplina ha costituito un ostacolo alla diffusione dell’istituto.


La responsabilità dei membri è tuttavia sussidiaria rispetto a quella del GEIE: i creditori
possono agire nei confronti dei membri soltanto dopo aver chiesto al gruppo di pagare e
qualora il pagamento non sia stato effettuato entro un congruo termine.
Ogni nuovo membro risponde delle obbligazioni anteriori al suo ingresso salvo patto
contrario opponibile ai terzi solo se pubblicato.
Inoltre i membri che cessano di far parte del gruppo continuano a rispondere delle
obbligazioni anteriori e la responsabilità permane anche dopo lo scioglimento del gruppo
per un termine massimo di cinque anni.

NUOVE AMMISSIONI
L’ammissione di nuovi membri deve essere decisa all’unanimità e l’unanimità è necessaria
anche per l’efficacia della cessione della quota di partecipazione sia ad un terzo sia ad altro
membro.

RECESSO ED ESCLUSIONE
Le cause di recesso e di esclusione sono fissate nel contratto.
Il recesso è tuttavia sempre possibile se sussiste una giusta causa o con l’accordo unanime
dei componenti, inoltre in caso di gravi inadempienze l’esclusione può essere pronunciata
dal giudice su richiesta della maggioranza degli altri membri.
Sono poi esclusi di diritto:
- il componente che perda i requisiti soggettivi per la partecipazione al gruppo,
- il membro insolvente che sia assoggettato a procedura concorsuale.

Il componente che cessa di far parte del gruppo ha diritto alla liquidazione del valore della
sua quota di partecipazione.
SCIOGLIMENTO
Sono cause obbligatorie di scioglimento:
- la scadenza del termine,
- il conseguimento dell’oggetto o la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo,
- il venir meno della pluralità dei membri o della diversa nazionalità degli stessi.
Il giudice può sempre pronunciare lo scioglimento per giusta causa.
Il verificarsi di una causa di scioglimento apre il procedimento di liquidazione che è regolato
dalle disposizioni in tema di società di persone.

FALLIMENTO

Il gruppo che esercita attività commerciale è esposto al fallimento in caso di insolvenza.


Il fallimento del gruppo non determina l’automatico fallimento dei suoi membri benché
responsabili illimitatamente.
Tuttavia gli organi del fallimento potranno chiedere ai membri il versamento delle somme
necessarie per estinguere i debiti secondo la proporzione prevista nel contratto o nel
silenzio in parti uguali.
ASSOCIAZIONI TEMPORANEE DI IMPRESE

Sono forme di cooperazione temporanea ed occasionale fra imprese poste in essere per
realizzare congiuntamente un’opera o un affare complesso.
Si tratta perlopiù di grandi opere pubbliche o private:
- la realizzazione di strade
- ponti
- dighe
- centrali elettriche
- stabilimenti industriali
che superano le capacità operative della singola impresa ma che presentano caratteristiche
tali da consentire il concorso di più imprese distinte nella loro organizzazione.
Si pensi alla costruzione di un’autostrada.
È un fenomeno largamente diffuso in campo internazionale ed è un’esigenza operativa che
non sempre si presta ad essere soddisfatta attraverso la costituzione di una società o di un
consorzio tra le imprese interessate.

La costituzione di tali organismi comporta infatti spese preventive che potrebbero risultare
inutili qualora la gara di appalto non venga vinta, inoltre saranno tali organismi a risultare
giuridicamente aggiudicataria dell’appalto e non le singole imprese che intendono
cooperare nell’esecuzione dell’opera, saranno dunque la società o il consorzio ad assumere
l’obbligo di costruire l’opera complessiva ed acquistare tutti i diritti relativi nei confronti del
committente.

Le imprese interessate vogliono unire le loro forze e cooperare reciprocamente nella fase
esecutiva dell’opera, ma vogliono al tempo stesso conservare la loro autonomia.

Vogliono eseguire ciascuna direttamente con i propri mezzi e con la propria organizzazione
una parte dell’opera pur assicurando al committente il coordinamento imposto dal
carattere unitario dell’opera.
In base a tali convenzioni le imprese interessate si presentano alla controparte come
imprese distinte ma collegate.
Presentano un’offerta congiunta e si obbligano congiuntamente ad eseguire l’opera
complessiva affidando ad una di esse, impresa capogruppo, il compito di gestire
unitariamente i rapporti col committente e di coordinare i lavori nella fase esecutiva.

Nel contempo ciascuna impresa conserva piena autonomia giuridica ed economica del
compimento della parte dell’opera assunta e risponde direttamente nei confronti del
committente per la propria parte di competenza.
Le forme di cooperazione tra imprese così strutturate presentano caratteristiche tali da
rendere difficile il loro inquadramento tra i tipi contrattuali legislativamente previsti
regolati.
Esse costituiscono, secondo la giurisprudenza, contratti associativi innominati non hanno
ancora ricevuto nel nostro ordinamento una disciplina organica ed unitaria.
La nostra legislazione si limita a regolare taluni aspetti di alcune forme tipiche di
cooperazione temporanea:
- gli accordi di cooperazione internazionale per la produzione di opere
cinematografiche
- Le associazioni temporanee di imprese per la partecipazione agli appalti pubblici di
lavori, forniture e servizi disciplinate dal codice degli appalti pubblici.

Le associazioni temporanee per la partecipazione agli appalti pubblici

Il raggruppamento temporaneo di imprese disciplinato dal codice degli appalti pubblici si


fonda su un mandato collettivo con rappresentanza, articolo 1726, conferito dalle imprese
che intendono partecipare alla gara di appalto ad una di esse qualificata come
capogruppo.
Il mandato deve risultare da scrittura privata autenticata ed è per legge gratuito.
In base a tale mandato la capogruppo è ammessa a formulare un’unica offerta in nome e
per conto delle altre imprese riunite.

La capogruppo conserva la veste di rappresentante per tutto il periodo.


Il mandato conferito alla capogruppo è irrevocabile e la revoca anche per giusta causa non
ha effetto nei confronti del soggetto appaltante.
Questa è una deroga rispetto alla disciplina del diritto comune per questo la revoca del
mandato collettivo è sempre possibile se proviene da tutti mandanti e può essere provocata
anche dal singolo mandante se sussiste giusta causa.

È altresì espressamente stabilito che la capogruppo ha la rappresentanza esclusiva anche


processuale delle imprese mandanti nei confronti della stazione appaltante per tutte le
operazioni e gli atti di qualsiasi natura, dipendenti dall’appalto, fino all’estinzione di ogni
rapporto.

La posizione di rappresentante ex legge della capogruppo opera solo a favore dell’ente


committente in quanto conserva il diritto di far valere direttamente le responsabilità facenti
capo ai mandanti.
La finalità di tutela dell’ente emerge anche dalla disciplina della responsabilità nei suoi
confronti, diversamente articolato a seconda che l’opera comprende o meno parti
dichiarate SCORPORABILI dall’ente stesso, vale a dire parti che possono essere assunte
separatamente dalle imprese raggruppate.

Gli appalti NON SCORPORABILI danno vita ai cosiddetti raggruppamenti orizzontali ad


esempio, costruzione di un’autostrada.
In tali raggruppamenti tutte le imprese rispondono solidalmente per l’intera opera anche
nei confronti delle imprese subappaltati e dei fornitori.
L’ente committente potrà chiedere il risarcimento dei danni per l’intero ad una qualsiasi
delle imprese riunite.

Gli appalti SCORPORABILI danno vita ai cosiddetti raggruppamenti verticali ad esempio la


costruzione di un edificio completo delle infrastrutture.
In essi responsabile per l’intera opera è solo la capogruppo le altre imprese rispondono
esclusivamente per l’esecuzione della parte di propria competenza in solido con la
capogruppo.

FALLIMENTO
Per l’ipotesi di fallimento delle imprese riunite e di morte, interdizione o inabilitazione del
suo titolare trova conferma la posizione particolare assegnata alla capogruppo.
- Se tali eventi riguardano la capogruppo l’ente committente ha la facoltà di
proseguire il rapporto di appalto con un’altra capogruppo designata dall’imprese che
sia di suo gradimento oppure di ricedere dall’appalto.

- Più modeste sono invece le conseguenze se tali eventi colpiscono un’altra impresa.
L’appalto prosegue e la capogruppo ha la facoltà ma non l’obbligo di sostituire
l’impresa venuta meno con un’altra impresa in possesso dei prescritti requisiti di
idoneità. Qualora non provveda alla sostituzione la capogruppo sarà tenuta ad
eseguire direttamente o a mezzo di altra impresa del raggruppamento la parte
rimasta scoperta.
RAPPORTI FRA LE IMPRESE

Il legislatore lascia piena libertà alle imprese riunite per quanto riguarda l’assetto dei
rapporti reciproci e di quelli con i terzi diversi dal committente.

Le imprese sono libere di mantenere il collegamento funzionale minimo determinato dal


mandato collettivo o di dotarsi di un’organizzazione comune di tipo consortile destinata a
coordinare e regolamentare l’esecuzione dell’appalto.

È inoltre consentito che le imprese costituiscono fra loro una società anche consortile dopo
l’aggiudicazione dell’appalto per l’esecuzione unitaria totale o parziale dei lavori.
Tale società subentra automaticamente nell’esecuzione dei lavori.
È mantenuto fermo il regime di responsabilità delle imprese riunite perciò per l’esecuzione
dell’opera unitaria risponderanno sia la società costituita sia le imprese del raggruppamento
e ciò induce a pensare che l’originario raggruppamento non cessi di esistere anche nel caso
di subingresso della società nell’esecuzione dell’intera opera.

La cooperazione temporanea tra imprese è un fenomeno mutato dall’esperienza


internazionale soprattutto anglosassone, joint-ventures, ma ha trovato grande diffusione
anche in Italia.
Nel nostro ordinamento manca ancora una disciplina organica relativa alle associazioni tra
imprese, se non relativamente alla realizzazione di opere pubbliche, dove peraltro trova in
genere più ampia applicazione.
La normativa in materia di appalti pubblici riconosce infatti tra i soggetti ammessi a
partecipare alle procedure di affidamento di lavori pubblici, non solo imprenditori
individuali e collettivi, ma anche consorzi e imprese riunite, intendendo per esse più
imprese che si riuniscono conferendo mandato collettivo ad un’impresa capogruppo che
può presentare offerte di appalti in nome e per conto di tutte le imprese mandanti.

L’associazione temporanea tra imprese non è dunque, come il consorzio, un contratto


previsto dalla legge, ma è un contratto atipico caratterizzato dalla temporaneità e
occasionalità, avendo per oggetto solo l’esecuzione di determinate opere

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