CAP. 5: L’AZIENDA
La nozione di azienda. Organizzazione ed avviamento:
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Campobasso G. F., Diritto commerciale – 1. Diritto dell’impresa, UTET giuridica
RILIEVO NORMATIVO: L’unità economica dell’azienda e gli interessi, sia individuali sia
generali, al mantenimento di tale unità trovano oggi significativo riconoscimento nella
disciplina dettata dal C.C. per il trasferimento dell’azienda (art. 2556-2562).
Il trasferimento a titolo definitivo (es. vendita) o temporaneo (es. usufrutto ed affitto)
dell’azienda comporta infatti peculiari effetti ex lege (divieto di concorrenza del
cedente, successione nei contratti aziendali, ecc…) per favorire la conservazione
dell’unità economica e del valore di avviamento dell’azienda, a tutela di quanti su tale
misura e su tale valore hanno fatto affidamento (acquirente dell’azienda, lavoratori e
creditori in primo luogo).
Elementi costitutivi dell’azienda sono tutti i beni, di qualsiasi natura (cose mobili ed
immobili, materiali ed immateriali, fungibili ed infungibili) organizzati
dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa (art.2555c.c.)
BENI AZIENDALI E PROPRIETA’: Per qualificare un dato bene come aziendale rilevante
è perciò solo la destinazione funzionale impresagli dall’imprenditore. Irrilevante è
invece il titolo giuridico che legittima l’imprenditore ad utilizzare un dato bene nel
processo produttivo. Non possono essere considerati beni aziendali i beni di proprietà
dell’imprenditore che non siano da questi effettivamente destinati allo svolgimento
dell’attività d’impresa (es. abitazione di proprietà dell’imprenditore). Viceversa, sono
beni aziendali anche i beni di proprietà di terzi di cui l’imprenditore può disporre in
base ad un valido titolo giuridico, purché attualmente impiegati nell’attività d’impresa
(es. locali dell’impresa presi in affitto).
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Natura giuridica dell’azienda -> contrasto tra teorie unitarie e teorie atomistiche.
La teoria atomistica concepisce invece l’azienda come una semplice pluralità di beni
tra loro funzionalmente collegati e sui quali l’imprenditore può vantare diritti diversi
(proprietà, diritti reali, diritti personali di godimento…). Si esclude perciò che esista un
“bene” azienda formante oggetto di autonomo diritto di proprietà o di altro diritto
reale unitario e quindi si attribuisce significato atecnico alle norme che parlano di
proprietà o di proprietario dell’azienda e di usufrutto della stessa.
La possibilità quindi di concepire l’azienda come un nuovo bene sotto ogni profilo ed a
tutti gli effetti fa emergere con chiarezza che l’unificazione giuridica dei beni aziendali
è solo relativa e funzionale, dato che per il trasferimento del complesso aziendale
dovranno essere necessariamente osservate le “forme stabilite dalla legge per il
trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda”.
CAMPOBASSO afferma che l’assenza di una legge di circolazione propria dell’azienda
è sufficiente per negare la piena unità giuridica e la natura di nuovo bene della stessa.
La concezione atomistica si lascia perciò preferire come scelta di base.
L’azienda può formare oggetto di atti di disposizione di diversa natura: può essere
venduta, conferita in società, donata e su di essa possono essere costituiti diritti reali
(usufrutto) o personali (affitto) di godimento a favore di terzi. Inoltre l’imprenditore
può compiere anche atti di disposizione che riguardano uno o più beni aziendali.
Oltre gli effetti dedotti in contratto, l’alienazione dell’azienda produce ex lege effetti
ulteriori che riguardano il divieto di concorrenza dell’alienante (art. 2557), i contratti
(art. 2558), i crediti (art. 2559) e i debiti aziendali (art. 2560).
Perciò si applica il divieto di concorrenza a favore dell’erede o del socio che subentra
nell’azienda ed a carico degli altri eredi o degli altri soci. È indubbio altresì che la
vendita dell’intero pacchetto azionario o di una partecipazione di controllo
permettano di raggiungere un risultato economico sostanzialmente coincidente con la
vendita dell’azienda, quindi si applica il divieto di concorrenza per il socio alienante
quando possa dar inizio ad attività idonea a determinare uno sviamento della
clientela.
Ci sono DEROGHE alla disciplina generale della cessione dei contratti (art. 1406 e ss)
[Cessione del contratto -> negozio mediante il quale la parte di un rapporto contrattuale sinallagmatico
ineseguito sostituisce un’altra parte a sé con il consenso del contraente originario]:
“Se non è pattuito diversamente, l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti
stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale”.
Al terzo contraente è riconosciuto il diritto di recedere dal contratto “entro 3 MESI
dalla notizia del trasferimento, se sussiste una giusta causa, salvo in questo caso la
responsabilità dell’alienante”.
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DIRITTO DI RECESSO => Estinzione del contratto: Il terzo contraente ha una tutela
legislativa limitata. È vero che il terzo contraente può recedere dal contratto (entro 3
mesi dalla notizia del trasferimento dell’azienda) e sciogliersi (effetto ex nunc) dal
vincolo contrattuale con l’acquirente. Però il recesso potrà essere esercitato solo se vi
è una giusta causa e spetterà quindi al terzo contraente provare che l’acquirente
dell’azienda si trova in una situazione oggettiva tale da non dare affidamento sulla
regolare esecuzione del contratto. In caso di recesso il contratto non ritorna in testa
all’alienante ma si estingue; il terzo contraente può solo chiedere il risarcimento dei
danni all’alienante dando prova che questi non ha osservato la normale cautela nella
scelta dell’acquirente dell’azienda.
CREDITI: Limitata è la deroga introdotta per i crediti aziendali dall’art. 2559. Per
semplificare le formalità necessarie per rendere opponibile la cessione di tali crediti ai
terzi, la notifica al debitore ceduto o l’accettazione da parte di questi (richiesti dalla
disciplina di diritto comune) è sostituita da una sorta di notifica collettiva: l’iscrizione
del trasferimento dell’azienda nel registro delle imprese. Da tale momento, la
(eventuale) cessione dei crediti relativi all’azienda ceduta ha effetto nei confronti dei
terzi, anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione. Tuttavia, il
debitore ceduto è libero se paga in buona fede all’alienante. Questa disciplina è
circoscritta alle imprese soggette a registrazione con effetti di pubblicità legare, negli
altri casi si applica la disciplina generale della cessione dei crediti.
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DEBITI: Più vistosa è la deviazione dai principi di diritto comune in relazione ai debiti
inerenti all’azienda ceduta sorti prima del trasferimento; ciò per evitare che la
modificazione del patrimonio dell’alienante (ad un complesso produttivo si sostituisce
denaro o altri beni) pregiudichi le aspettative di soddisfacimento dei creditori
aziendali. Rimane il principio generale per cui non è ammesso il mutamento del
debitore senza il consenso del creditore, ed infatti, l’alienante non è liberato da tali
debiti se non risulta che i creditori vi hanno acconsentito. E’ invece derogato, per le
sole aziende commerciali, l’altro principio secondo cui ciascuno risponde solo delle
obbligazioni da lui assunte. È infatti previsto che “nel trasferimento di un’azienda
commerciale risponde dei debiti suddetti anche l’acquirente dell’azienda, se essi
risultano dai libri contabili obbligatori”. Perciò, anche se manca un patto di accollo,
l’acquirente di un’azienda commerciale risponde in solido con l’alienante nei confronti
dei creditori che non abbiano consentito alla liberazione di quest’ultimo.
L’usufruttuario:
Deve esercitare l’azienda sotto la ditta che la contraddistingue;
Deve condurre l’azienda senza modificarne la destinazione ed in modo da
conservare l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di
scorte.
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Ciascun imprenditore utilizza di regola uno o più segni distintivi che consentono di
individuarlo sul mercato e distinguerlo dagli altri imprenditori concorrenti.
La ditta, l’insegna ed il marchio sono i tre principali segni distintivi dell’imprenditore:
A. La DITTA contraddistingue la persona dell’imprenditore nell’esercizio dell’attività
d’impresa (c.d. nome commerciale);
B. L’INSEGNA individua i locali in cui l’attività d’impresa è esercitata;
C. Il MARCHIO individua e distingue i beni o i servizi prodotti.
(Acquista rilievo il nome a dominio aziendale che individua il sito internet aziendale.)
PRINCIPI COMUNI: Dalle tre discipline è possibile desumere taluni principi comuni
applicabili per analogia agli altri simboli di identificazione sul mercato utilizzati
dall’imprenditore (cd. segni distintivi atipici) quali, ad es., lo slogan pubblicitario:
a. L’imprenditore gode di ampia libertà nella formazione dei propri segni distintivi. È
tenuto però a rispettare determinate regole, volte ad evitare inganno e confusione sul
mercato: verità, novità e capacità distintiva;
b. L’imprenditore ha diritto all’uso esclusivo dei propri segni distintivi. Si tratta però di
un diritto non assoluto ma RELATIVO e STRUMENTALE, alla realizzazione della
funzione distintiva rispetto agli imprenditori concorrenti. Il titolare di un segno
distintivo non può perciò impedire che altri adottino il medesimo segno distintivo
quando, per la diversità delle attività d’impresa o per la diversità dei mercati serviti,
non vi è pericolo di confusione e di sviamento della clientela.
c. L’imprenditore può trasferire ad altri i propri segni distintivi. L’ordinamento tende
ad evitare che la circolazione dei segni distintivi possa trarre in inganno il pubblico.
Da tutto ciò emerge che i tre segni distintivi tipici dell’imprenditore sono sì tutelati sul
piano patrimoniale, ma in modo non pieno ed assoluto ed infatti il carattere relativo e
funzionale della tutela rende controverso se i segni distintivi possono essere
inquadrati nella categoria dei beni immateriali e, quindi, se si possa parlare di un vero
e proprio diritto di proprietà su un bene immateriale. (Il CAMPOBASSO è per il
concetto di proprietà limitata e funzionale, cioè per una proprietà industriale).
P.S. Esistono segni distintivi ATIPICI: i segni distintivi non costituiscono un numero
chiuso e l’imprenditore può avvalersi di altri simboli di identificazione sul mercato.
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A. LA DITTA:
NOVITA’: (Art. 2564 c.c.). La ditta non deve essere uguale o simile a quella usata da
altro imprenditore e tale da creare confusione per l’oggetto dell’impresa o per il luogo
in cui questa è esercitata. Chi ha adottato per primo una data ditta ha perciò diritto
all’uso esclusivo della stessa, e tale diritto è acquisito per il solo fatto dell’uso della
ditta. Chi successivamente adotti ditta uguale o simile può essere costretto ad
integrarla o modificarla con indicazioni idonee a differenziarla, e ciò quand’anche la
ditta utilizzata corrisponde al nome civile dell’imprenditore (c.d. ditta patronimica).
Il principio della novità opera anche nei rapporti con altri segni distintivi.
Segnatamente, è fatto divieto adottare il marchio altrui come propria ditta se sussiste
pericolo di confusione tra i segni.
L’imprenditore individuale ha, al pari di ogni altra persona fisica, un nome civile, che
lo individua come soggetto di diritto. Il NOME CIVILE è attribuito per legge ed è a
struttura fissa, risultando composto dal prenome e dal cognome; è inoltre unico e
non liberamente modificabile. Il nome civile è un attributo della personalità e come
tale è tutelato nei limiti fissati dagli art. 7/9 c.c. (è indisponibile e intrasmissibile).
La distinzione fra NOME CIVILE e NOME COMMERCIALE (DITTA) è valida anche per le
società (art. 2567 c.c.): la norma stabilisce che la ragione sociale della società di
persone e la denominazione sociale delle società di capitali e delle cooperative, sono
regolate dalle norme specificamente dettate per le società. Tuttavia si applicano
anche ad esse le disposizioni dell’art. 2564, vale a dire il DIVIETO di utilizzare ditta
uguale o simile a quella di altro imprenditore concorrente. Non sono invece
richiamati gli art. 2563 (scelta della ditta) e 2565 (trasferimento della ditta) c.c.
CONCLUSIONI:
1) Le società devono avere una ragione sociale o denominazione sociale formata
rispettando le norme specificatamente dettate;
2) Il nome di una società non può essere uguale o simile a quello prescelto da altra
società concorrente e non è trasferibile;
3) Le società possono avere una ditta originaria formata rispettando le norme sulla
ditta (dovrà includere la ragione e la denominazione sociale);
4) Ditte che rimangono distinte dal nome e potranno essere trasferite con l’azienda.
B. IL MARCHIO:
Il marchio è il segno distintivo dei prodotti o dei servizi d’impresa. Esso è disciplinato
sia dall’ordinamento nazionale, sia dall’ordinamento comunitario ed internazionale. Il
marchio nazionale :
Il marchio nazionale è regolato dagli art. 2569-2574 del c.c. e dal codice della
proprietà industriale (d.lgs 30/05). La disciplina dei marchi è stata più volte modificata
in attuazione di direttive comunitarie e accordi internazionali in materia.
Al marchio nazionale si è di recente affiancato il marchio comunitario istituito con
il regolamento Ce 40/94 del 1993. La relativa disciplina consente di ottenere un
marchio che produce gli stessi effetti in tutta l’Unione Europea.
Nell’ordinamento internazionale il marchio è disciplinato dalla Convenzione
dell’Unione di Parigi del 1883 per la protezione della proprietà industriale e
dall’Accordo di Madrid del 1891 sulla registrazione internazionale dei marchi.
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Il marchio è di regola anche indicatore della provenienza del prodotto da una fonte
unitaria di produzione; anche se dopo il ’92 tale funzione sembra ridimensionata.
Infatti non esiste il divieto di circolazione del marchio separatamente dall’azienda e
soprattutto è riconosciuta la legittimità del CO-USO di uno stesso marchio da parte di
più imprenditori concorrenti, sulla base di una licenza di marchio NON esclusiva
concessa dal titolare stesso.
Fra le funzioni del marchio giuridicamente riconosciute e protette non può
riconoscersi quella di garanzia della qualità dei prodotti. Il legislatore si preoccupa
solo di evitare che il pubblico sia tratto in inganno sull’origine e qualità del prodotto.
I tipi di marchio:
I marchi possono essere classificati secondo diversi criteri ed una prima distinzione si
basa sulla natura dell’attività svolta dal titolare del marchio:
MARCHIO DI FABBRICA: marchio di cui si serve il fabbricante del prodotto. I beni che
subiscono diverse fasi di lavorazione o risultano dall’assemblaggio di parti
distintamente prodotte (es. automobile) possono presentare più marchi di fabbrica.
MARCHIO DI COMMERCIO: è quello apposto dal commerciante, sia esso un
distributore intermedio (grossista) o il rivenditore finale. Su uno stesso prodotto
possono perciò coesistere più marchi (di fabbrica e/o commercio). Il rivenditore però
non può sopprimere il marchio del produttore.
MARCHIO DI SERVIZIO: marchio utilizzato da imprese che producono servizi (imprese
di trasporto, bancarie, assicurative). La forma tipica di uso di tali marchi è quella
pubblicitaria, essendo essi apposti sui materiali che servono per la produzione del
servizio o sulle divise del personale.
MARCHIO GENERALE E SPECIALE: l’imprenditore può utilizzare un solo marchio per
tutti i suoi prodotti (marchio generale), ma può anche servirsi di più marchi. E ciò farà
quando vuole differenziare i diversi prodotti dalla propria impresa o anche tipi diversi
dello stesso prodotto per sottolineare ai consumatori le relative diversità qualitative
(marchi speciali). È possibile l’uso contemporaneo di un marchio generale e di più
marchi speciali, quando si vuole evidenziare al tempo steso l’unità della fonte di
produzione e la diversità dei prodotti (es. Fiat-Panda, Fiat-Punto).
COMPOSIZIONE DEL MARCHIO: Requisiti di validità del marchio -> possono essere
utilizzati come tali tutti i nuovi segni suscettibili di essere rappresentati graficamente:
1) LICEITA’: il marchio non deve contenere segni contrari alla legge, all’ordine
pubblico o al buon costume; stemmi o altri segni protetti da convenzioni
internazionali; segni lesivi di un altrui diritto d’autore o di proprietà industriale. È fatto
divieto di utilizzare come marchio l’altrui ritratto senza il consenso dell’interessato. E
il consenso dell’interessato è necessario anche per poter usare come marchio il nome
o lo pseudonimo di persona che ha acquistato notorietà. Per le persone non note
resta la regola originale: il nome altrui può essere inscritto nel marchio anche senza il
consenso dell’interessato (purché non sia lesivo).
2) VERITA’: Questo principio vieta di inserire nel marchio segni idonei ad ingannare il
pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei
prodotti o servizi. Ad esempio, è stato ritenuto ingannevole il marchio “New England”
per prodotti di abbigliamento fabbricati in Italia.
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Non possono essere perciò utilizzati come marchi, perché privi di capacità distintiva:
a. Le denominazioni generiche del prodotto o del servizio o la loro figura generica (ad
esempio un marchio di calzature non potrà essere esclusivamente costituito dalla
parola “scarpe” o dalla figura di una scarpa);
b. Le indicazioni descrittive dei caratteri essenziali e della provenienza geografica del
prodotto (ad esempio, si è escluso che l’espressione “brillo” possa essere usata come
marchio per prodotti lucidanti);
c. I segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente, come le parole “super”,
“extra”, “lusso”.
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Il difetto dei requisiti fin qui esposti comporta la nullità del marchio che può
riguardare anche solo parte dei prodotti o servizi per i quali è stato registrato.
Il marchio registrato:
Il marchio registrato può essere ottenuto non solo dall’imprenditore che intende
utilizzarlo ma anche da chi si proponga di utilizzarlo in altre imprese di cui abbia il
controllo. La registrazione attribuisce al titolare del marchio il diritto all’uso esclusivo
dello stesso su tutto il territorio nazionale, quale che sia l’effettiva diffusione
territoriale dei suoi prodotti. Il diritto di esclusiva sul marchio registrato copre non
solo i prodotti identici, ma anche quelli affini, qualora possa determinarsi un rischio di
confusione per il pubblico. Vale a dire, tutti i prodotti in fatto destinati alla stessa
clientela (ed es. frigoriferi e lavatrici) o al soddisfacimento di bisogni identici o
complementari (ad es. prodotti caseari e conserve alimentari). La tutela del marchio
registrato contro l’altrui usurpazione o contraffazione non impedisce però che l’altro
imprenditore registri o usi lo stesso marchio per prodotti diversi.
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L’ordinamento tutela anche chi usi un marchio senza registrarlo (tutela minore di
quella di cui gode il marchio registrato): secondo l’art. 2571 “chi ha fatto uso di un
marchio non registrato ha la facoltà di continuare ad usarne, nonostante la
registrazione da altri ottenuta, nei limiti in cui anteriormente se ne è avvalso”.
La tutela del diritto di esclusiva sul marchio non registrato si fonda perciò sull’USO DI
FATTO dello stesso e sull’effettivo grado di notorietà raggiunto.
NOTORIETA’ LOCALE: il titolare di un marchio non registrato con notorietà locale non
potrà impedire che altro imprenditore usi di fatto lo stesso marchio per gli stessi
prodotti in altra zona del territorio nazionale. Non potrà inoltre impedire che un
concorrente registri validamente lo stesso marchio ed in questo caso potrà solo
continuare ad usare il proprio marchio nei limiti della diffusione locale.
Il marchio è TRASFERIBILE, e può essere trasferito sia a titolo definitivo sia a titolo
temporaneo (c.d. LICENZA di MARCHIO). Il marchio può essere trasferito o concesso
in licenza, per tutti o per parte dei prodotti per i quali è stato registrato, senza che sia
necessario il contemporaneo trasferimento dell’azienda o del corrispondente ramo
produttivo. Resta però ferma la regola che il trasferimento del marchio non costituito
dalla ditta originaria si presume quando è trasferita l’azienda.
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C. L’INSEGNA:
Nozione e disciplina:
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1. Le creazioni intellettuali.
2. consentire che tutti possano fruire del progresso raggiunto -> obiettivo perseguito
escludendo che una posizione di esclusiva possa essere riconosciuta rispetto a talune
creazioni intellettuali particolarmente significative per la collettività.
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Opere dell’ingegno -> il diritto d’autore si acquista per il solo fatto della creazione.
Invenzioni industriali -> il diritto di esclusiva sorge in seguito alla loro brevettazione.
Essa serve a rendere di pubblico dominio il contenuto dell’invenzione stessa.
Il diritto di esclusiva è limitato nel tempo. Dura fino a 70 anni dopo la morte
dell’autore per le opere dell’ingegno; 20, 10 e 5 anni dalla domanda di brevetto,
rispettivamente per invenzioni industriali, per i modelli di utilità e per i disegni e
modelli. Decorsi questi periodi, l’opera dell’ingegno è liberamente riproducibile e
l’invenzione liberamente sfruttabile. L’invenzione deve essere attuata nel territorio
dello Stato in misura tale da non risultare in grave sproporzione con i bisogni del
Paese. In definitiva, il diritto patrimoniale su una creazione intellettuale è un diritto
funzionale e limitato. Si parla di proprietà “letteraria”, “artistica”, “industriale”, per
scolpire il particolare atteggiarsi del diritto di proprietà su tali beni.
A. IL DIRITTO D’AUTORE.
Il diritto d’autore è disciplinato dagli artt. 2575-2583 c.c. e dalla legge n. 633/1941,
più volte modificata negli ultimi anni per adeguarla all’evoluzione tecnologica e per
dare attuazione alle direttive comunitarie e agli accordi internazionali.
Formano oggetto del diritto d’autore le opere dell’ingegno scientifiche, letterarie,
musicali, figurative, architettoniche, teatrali e cinematografiche, qualunque ne sia il
modo e la forma di espressione (romanzi, poesie, canzoni, quadri, sculture…).
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L’opera dell’ingegno può essere frutto dell’attività creativa di una sola persona e in tal
caso il diritto morale e patrimoniale d’autore è acquistato a titolo originario
dall’autore stesso, anche se l’opera è stata realizzata su commissione o in esecuzione
di un rapporto di lavoro subordinato.
DIFESA DEL DIRITTO D’AUTORE: Il diritto d’autore è protetto con sanzioni civili,
amministrative pecuniarie e penali a carico di chi ponga in essere comportamenti
lesivi. Il titolare di uno dei diritti di utilizzazione economica e il titolare del diritto
morale (eventualmente diverso dal primo) che temono la violazione del proprio
diritto possono adire l’autorità giudiziaria per chiedere l’accertamento del proprio
diritto e l’inibizione della violazione temuta o in atto. In questo secondo caso è
possibile chiedere che vengano applicate le sanzioni tipiche della distruzione e della
rimozione di quanto è stato strumento materiale della lesione, salvo in ogni caso il
diritto al risarcimento dei danni subiti.
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B. LE INVENZIONI INDUSTRIALI.
Le invenzioni industriali sono disciplinate dagli artt. 2584-2591 c.c. e dal codice della
proprietà industriale. Le invenzioni industriali sono idee creative che appartengono al
campo della tecnica. Esse consistono nella soluzione originale di un problema
tecnico. Netta è perciò la distinzione rispetto alle opere dell’ingegno (tutelate dal
diritto d’autore), dalle quali le invenzioni industriali si differenziano anche per il
diverso modo di acquisto del diritto di utilizzazione economica: la concessione del
corrispondente brevetto da parte dell’ufficio italiano brevetti e marchi.
REQUISITI: I trovati che non ricadono in uno di questi divieti, per poter formare
oggetto di brevetto, devono rispondere a determinati requisiti:
- leciti; - nuovi: è nuova l’invenzione che non è compresa nello stato della tecnica
(per stato della tecnica s’intende tutto ciò che è accessibile al pubblico, in Italia o
all’estero, prima della data di deposito della domanda di brevetto). In sostanza,
manca del requisito della novità l’invenzione già divulgata; - devono implicare
un’attività inventiva: L’invenzione implica attività inventiva se per una persona
esperta del ramo, essa non risulta in modo evidente dallo stato della tecnica.
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6. Il diritto al brevetto.
7. L’invenzione brevettata
DURATA: Il brevetto per invenzioni industriali dura 20 anni dalla data di deposito
della domanda e non c’è possibilità di rinnovo. Il diritto di esclusiva si può perdere
prima della scadenza qualora sia dichiarata la nullità del brevetto o sopravvenga una
causa di decadenza, quale, ad es., la mancata attuazione dell’invenzione brevettata.
TRASFERIMENTO DEL BREVETTO: Il brevetto è liberamente trasferibile sia tra vivi sia
mortis causa, indipendentemente dal trasferimento dell’azienda. Su di esso possono
essere costituiti diritti reali di godimento o di garanzia, e lo stesso può anche formare
oggetto di esecuzione forzata e di espropriazione per pubblica utilità.
LICENZA DEL BREVETTO: Il titolare del brevetto può concedere licenza d’uso dello
stesso, con o senza esclusiva di fabbricazione a favore del licenziatario.
[La licenza di brevetto non è espressamente regolata.] La licenza di brevetto senza
esclusiva è il tipico contratto di cui si avvale la grande industria dei paesi ad alto
sviluppo tecnologico per mettere a disposizione di imprese di altri paesi i brevetti
fondamentali, dando luogo a forme di dipendenza tecnica ed economica e di
controllo monopolistico del mercato mondiale facilmente intuibili.
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TUTELA: L’invenzione brevettata è tutelata con sanzioni civili e penali. Il titolare del
brevetto e anche il licenziatario possono esercitare azione di contraffazione nei
confronti di chi sfrutti abusivamente l’invenzione. La sentenza che accerta la
contraffazione ordina l’inibitoria per il futuro della fabbricazione o dell’uso di quanto
forma oggetto del brevetto. Sono altresì previste sanzioni volte ad eliminare dal
mercato gli oggetti realizzati in violazione del brevetto: sequestro, distruzione…
Il titolare del brevetto ha in ogni caso diritto al risarcimento dei danni subiti.
Il rilascio del brevetto per invenzione attribuisce diritto di esclusiva solo sul territorio
nazionale. L’esclusiva può essere però conseguita anche in altri Stati.
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L’inventore può anche non brevettare il proprio trovato e sfruttarlo in segreto. Corre
però il rischio che altri pervenga al medesimo risultato inventivo, lo brevetti e acquisti
il diritto di esclusiva.
E’ riconosciuta una limitata tutela anche a chi ha utilizzato un’invenzione senza
brevettarla. E’ previsto che chiunque, inventore o terzo avente causa, ha fatto uso
dell’invenzione nella propria azienda, nei 12 mesi anteriori al deposito dell’altrui
domanda di brevetto, può continuare a sfruttare l’invenzione stessa nel limiti del
preuso. Il preutente può altresì trasferire tale facoltà, ma solo insieme all’azienda in
cui l’invenzione è utilizzata, restando a suo carico la prova del preuso e dell’ampiezza
dello stesso. Si vuole tutelare chi in buona fede ha già dato attuazione all’invenzione.
Tale tutela minima opererà peraltro nel caso di preuso segreto, la cui abusiva
violazione configura anche atto di concorrenza sleale. Se invece l’inventore o il
preutente hanno divulgato l’invenzione, il successivo brevetto difetterà del requisito
della novità e quindi potrà essere esperita azione di nullità dello stesso. Dichiarato
nullo il brevetto, chiunque potrà liberamente sfruttare l’invenzione.
C. I MODELLI INDUSTRIALI.
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La tutela dei disegni e modelli (oggi estesa anche ai componenti destinati ad essere
assemblati in un prodotto complesso, ad es., pezzi di ricambio di automobili) avviene
mediante registrazione presso l’Ufficio Italiano brevetti e marchi, che è subordinata al
ricorrere dei requisiti della novità e del carattere individuale. Cioè, il disegno o
modello da registrare non deve essere identico ad un disegno o modello già divulgato
in precedenza e deve suscitare nell’utilizzatore informato un’impressione generale
diversa da quella suscitata da qualsiasi altro disegno o modello precedentemente
divulgato. Non possono essere registrati disegni o modelli contrari all’ordine pubblico
o al buon costume. La registrazione dura 5 anni dalla domanda, ma può essere
prorogata per periodi di cinque anni, fino ad un massino di 25 anni. La registrazione
di un disegno o di un modello conferisce al titolare il diritto esclusivo di utilizzarlo e di
vietare ai terzi di usarlo senza il suo consenso. Disegni e modelli sono anche tutelati
dal diritto d’autore quando presentino carattere creativo e valore artistico.
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=> differenza tra “modello utopico” (della piena e perfetta concorrenza) e “realtà”
(orientata verso situazioni di oligopolio o di monopolio).
L’art. 2595 c.c. dispone che “la concorrenza deve svolgersi in modo da non ledere gli
interessi dell’economia nazionale”, mentre l’art. 41 cost. ribadisce che l’iniziativa
economica privata è si libera, ma “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale”.
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Consente limitazioni legali della stessa per fini di “utilità sociale” ad anche la
creazione di monopoli legali in specifici settori di interesse generale;
UNA VISTOSA LACUNA COLMATA: Per lungo tempo il sistema italiano della
concorrenza si era contraddistinto per una vistosa lacuna: la mancanza di una
normativa antimonopolistica. A partire dalla metà degli anni ‘50 tale lacuna è stata
parzialmente colmata dalla diretta applicabilità nel nostro ordinamento della
disciplina antitrust dettata dai Trattati istitutivi della Comunità Economica Europea.
Questa normativa, però, consentiva e consente di colpire solo le pratiche che possono
pregiudicare il regime concorrenziale del mercato comune europeo, non quelle che
incidono esclusivamente sul mercato italiano. Da qui l’esigenza di colmare tale vuoto
affiancando alla normativa comunitaria una normativa antimonopolistica nazionale.
Tale vuoto è stato colmato dalla LEGGE 287/1990, recante norme per la tutela della
concorrenza e del mercato e che ha introdotto una disciplina antimonopolistica
nazionale a carattere generale.
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A. LA LEGISLAZIONE ANTIMONOPOLISTICA:
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Non tutte le intese anticoncorrenziali sono però vietate. VIETATE sono solo le intese
che “abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera
consistente il gioco della concorrenza” all’interno del mercato (nazionale o
comunitario) o in una sua parte rilevante. Sono quindi lecite le cosiddette “intese
minori”, quelle intese cioè che per la struttura del mercato interessato, le
caratteristiche delle imprese operanti e gli effetti sull’andamento dell’offerta non
incidono in modo rilevante sull’assetto concorrenziale del mercato.
SANZIONI: Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto. Chiunque può agire in giudizio
per farne accettare la nullità. L’Autorità accerta con apposita istruttoria le infrazioni
commesse, adotta i provvedimenti per la rimozione degli effetti anticoncorrenziali già
prodottisi ed irroga le sanzioni pecuniarie.
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2) ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTE (da parte di una o più imprese): vietato non è
il fatto in sé dell’acquisizione di una posizione dominante sul mercato (nazionale o
comunitario) o in una parte rilevante dello stesso; la circostanza cioè che un’impresa
sia in grado di esercitare un’influenza preponderante sul mercato e di agire senza
dovere tener conto delle reazioni dei concorrenti.
Vietato è solo lo sfruttamento abusivo di tale posizione dominante, individuale o
collettiva, con comportamenti capaci di pregiudicare la concorrenza effettiva.
È oggi vietato anche l’ABUSO DELLO STATO DI DIPENDENZA ECONOMICA nel quale si
trova un’impresa cliente o fornitrice rispetto ad una o più altre imprese anche in
posizione non dominante sul mercato. Per dipendenza economica si intende “la
situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con
un'altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi”. Il patto attraverso il
quale si realizza l’abuso di dipendenza economica è nullo ed espone al risarcimento
dei danni nei confronti dell’impresa che ha subito l’abuso. Inoltre, l’autorità garante
applica le sanzioni previste per l’abuso di posizione dominante qualora ravvisi che
l’abuso di dipendenza economica abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del
mercato.
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In tutti questi casi, identico è il risultato economico ultimo: l’ampliamento della quota
di mercato detenuta da un’impresa, realizzato attraverso operazioni che comportano
la riduzione del numero delle imprese indipendenti operanti nel settore.
Non sono NULLE le operazioni svolte dalle imprese. I terzi possono richiedere il
risarcimento dei danni in via giudiziaria. L’Autorità può imporre il compimento di
operazioni inverse a quelle che hanno determinato una concentrazione vietata (es.
scissione o vendita totale o parziale della partecipazione azionaria).
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L’art. 2597 c.c. pone un duplice obbligo a carico di chi opera in regime di monopolio:
La disciplina fin qui esposta è riferita a chi opera in condizione di monopolio legale
(e perciò che la produzione ed il commercio di quel dato bene o servizio siano
riservati per legge ad un singolo imprenditore).
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Nel codice civile si rinvengono norme che pongono a carico di soggetti legati da
particolari rapporti contrattuali l’obbligo di astenersi dal far concorrenza alla
controparte (c.d. DIVIETI LEGALI DI CONCORRENZA). Rientrano fra tali divieti:
- OBBLIGO DI FEDELTA’: a carico dei prestatori di lavoro, fa divieto agli stessi di
trattare affari in concorrenza con l’impresa fino a quando dura il rapporto di lavoro;
- DIVIETO DI ESERCITARE direttamente o indirettamente ATTIVITA’ CONCORRENTE
CON QUELLA DELLA SOCIETA’: posto a carico dei soci a responsabilità illimitata di
società di persone e degli amministratori di società di capitali;
- DIRITTO DI ESCLUSIVA RECIPROCA NEL CONTRATTO DI GARANZIA: in base al quale
né il proponente può servirsi contemporaneamente di più agenti per la stessa zona e
per lo stesso ramo di attività, né l’agente può assumere l’incarico in una stessa zona
per più imprese in concorrenza fra loro.
L’art. 2596 c.c. consente la stipulazione di accordi restrittivi della concorrenza e detta
una disciplina di carattere generale degli stessi fondata su 3 regole:
1. Il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto;
2. Il patto stesso è valido solo se circoscritto ad un determinato ambito territoriale o
ad un determinato tipo di attività (questo perché il patto non può precludere al
soggetto che si vincola lo svolgimento di ogni attività professionale);
3. Limite di durata massima di 5 anni; i patti di durata maggiore o di durata
indeterminata sono validi per lo stesso periodo.
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1) PATTI AUTONOMI: Sono autonomi contratti che hanno come oggetto e funzione
esclusivi la restrizione della libertà di concorrenza. Un tale contratto può porre
obblighi di non concorrenza a carico di una sola delle parti (c.d. RESTRIZIONI
UNILATERALI), oppure obblighi di non concorrenza a carico di tutti gli imprenditori
partecipanti all’impresa (c.d. RESTRIZIONI RECIPROCHE). Questi ultimi contratti si
definiscono CARTELLI o INTESE e prevedono impegni reciproci di vario tipo. La loro
durata non potrà in alcun caso superare i 5 anni. Le finalità di un cartello possono
essere realizzate anche attraverso la stipulazione di un contratto di CONSORZIO.
Il consorzio si caratterizza per la creazione di una organizzazione comune fra gli
imprenditori partecipanti; per esso è disposto che se le parti non prevedono alcun
limite di tempo, il contratto è valido per dieci anni.
* Il limite di 5 anni posto dall’art. 2596 si applica solo alle clausole innominate che
comportano limitazioni della concorrenza non funzionali al tipo di contratto cui accedono *
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C. LA CONCORRENZA SLEALE:
Questa esigenza è soddisfatta dalla disciplina della concorrenza sleale (art. 2598-
2601), i cui principi base possono essere così fissati:
nello svolgimento della competizione fra imprenditori concorrenti è vietato servirsi di
mezzi e tecniche non conformi ai “principi della correttezza professionale”.
Tali atti sono repressi e sanzionati anche se compiuti senza dolo o colpa e anche se
non hanno ancora arrecato un danno ai concorrenti. Basta infatti il c.d. danno
potenziale, vale a dire che “l’atto sia idoneo a danneggiare l’altrui azienda”. Tanto è
necessario e sufficiente perché scattino le sanzioni tipiche dell’inibitoria alla
continuazione degli atti di concorrenza sleale e della rimozione degli effetti prodotti
(art. 2599), salvo il diritto al risarcimento dei danni in presenza dell’elemento
psicologico (dolo o colpa) e di un danno patrimoniale attuale.
INTERESSI TUTELATI: Si tratta di una disciplina volta ad evitare che pratiche scorrette
alterino il corretto funzionamento del mercato. Tutelato è anche il più generale
interesse a che non vengano falsati gli elementi di valutazione e di giudizio del
pubblico e non siano tratti in inganno i consumatori. Questi ultimi però non sono
tutelati direttamente dalla disciplina della concorrenza sleale, dato che legittimati a
reagire contro gli atti di concorrenza sleale sono solo gli imprenditori concorrenti e le
loro associazioni di categoria, non invece i consumatori o le loro associazioni.
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L’art. 2598 c.c. prevede che l’atto di concorrenza sleale può essere compiuto anche
indirettamente, quindi l’imprenditore (soggetto passivo dell’atto di concorrenza
sleale) risponde a titolo di concorrenza sleale non solo per gli atti da lui direttamente
compiuti ma anche per quelli posti in essere da altri (ausiliari, subordinati).
Nel valutare l’esistenza del rapporto di concorrenza, si deve tenere conto anche della
prevedibile espansione territoriale e del prevedibile sviluppo merceologico in prodotti
complementari o affini dell’attività dell’imprenditore che subisce l’atto di concorrenza
sleale (c.d. concorrenza potenziale).
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La disciplina della concorrenza sleale è applicabile anche fra operatori che agiscono a
livelli economici diversi. Necessario e sufficiente è che il risultato di entrambe le
attività incida sulla stessa categoria di consumatori, anche se diversa è la cerchia di
clientela direttamente servita (c.d. CONCORRENZA VERTICALE).
Rientra infine nella categoria in esame ogni altro mezzo idoneo a creare confusione
con i prodotti o con l’attività di un concorrente (es. imitazione dei mezzi pubblicitari,
dei listini, dei cataloghi, dell’aspetto esteriore dei locali di vendita).
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L’appropriazione di pregi altrui può essere realizzata con modalità e tecniche diverse.
Ne costituiscono forme tipiche la pubblicità parassitaria (consiste nell’attribuzione a
se stessi di qualità, pregi, riconoscimenti, premi e comunque caratteristiche positive
che in realtà appartengono ad altri imprenditori) e la pubblicità per riferimento
(tende a far credere che i propri prodotti siano simili a quelli di un concorrente,
attraverso l’utilizzazione di espressioni come tipo, modello, sistema, cioè al fine di
avvantaggiarsi indebitamente dell’altrui rinomanza commerciale).
L’art. 2598 chiude l’elencazione degli atti di concorrenza sleale affermando che è tale
“ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a
danneggiare l’altrui azienda”.
DUMPING: sistematica vendita sotto costo dei propri prodotti, costituisce atto di
concorrenza sleale solo però quando sia finalizzato all’eliminazione dei concorrenti [e
all’acquisizione di una posizione monopolistica].
Fra gli atti di concorrenza sleale è oggi compresa e vietata la c.d. VIOLAZIONE DI
SEGRETI AZIENDALI, vale a dire le rivelazioni ai terzi e l’acquisizione o l’utilizzazione da
parte di terzi, in modo contrario alla correttezza professionale, delle informazioni
aziendali segrete.
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Le sanzioni:
A partire dalla metà degli anni ‘60, i più importanti mezzi di pubblicità hanno dato vita
ad un sistema di autodisciplina pubblicitaria, che li impegna a non diffondere
messaggi pubblicitari che contrastino con le regole di comportamento fissate in un
apposito codice privato, che fra l’altro espressamente vieta la pubblicità ingannevole.
Un organismo di giustizia privata (il Giurì di autodisciplina) con sede a Milano, vigila
sul rispetto del codice e funge da organo giudicante. L’azione dinnanzi al Giurì può
essere promossa da chiunque si ritenga pregiudicato da attività pubblicitarie contrarie
al codice o su iniziativa del Comitato di controllo dallo stesso previsto. Le decisioni del
Giurì sono insindacabili.
Enunciato il principio che la pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta, nonché
chiaramente riconoscibile come tale, la legge vieta qualsiasi forma di pubblicità
ingannevole (è ingannevole “qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la
sua presentazione, induce in errore o può indurre in errore” le persone alle quali è
rivolta e che “possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero ledere un
concorrente”).
Norme specifiche sono poi dettate per la pubblicità dei prodotti pericolosi per i
consumatori, per quella suscettibile di raggiungere bambini ed adolescenti ed infine è
vietata ogni forma di pubblicità subliminale (cioè che stimoli l’inconscio).
Ogni interessato può chiedere all’Autorità garante che siano inibiti gli atti di pubblicità
ingannevole o comparativa ritenuta illecita e che ne siano eliminati gli effetti. Se
ritiene fondato il ricorso, l’Autorità può anche disporre la pubblicazione della
pronuncia, nonché di un’apposita dichiarazione rettificativa in modo da impedire che
la pubblicità ingannevole o comparativa illecita continuino a produrre effetti. In caso
di urgenza, l’autorità può disporre anche la sospensione provvisoria della pubblicità.
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