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Campobasso G. F., Diritto commerciale – 1.

Diritto dell’impresa, UTET giuridica

DIRITTO INDUSTRIALE (Campobasso)

CAP. 5: L’AZIENDA
 La nozione di azienda. Organizzazione ed avviamento:

Secondo l’art. 2555 c.c. “l’azienda è il complesso di beni organizzati dall’imprenditore


per l’esercizio dell’impresa”. (Azienda-impresa -> Rapporto di mezzo a fine.)
L’azienda costituisce l’apparato strumentale (locali, macchinari, merci, ecc…) di cui
l’imprenditore si avvale per lo (e nello) svolgimento della propria attività.

UNITA’ FUNZIONALE DELL’AZIENDA: L’azienda è un insieme di beni eterogenei (mobili


e immobili, materiali e immateriali, fungibili e infungibili), non necessariamente di
proprietà dell’imprenditore, che subisce modificazioni qualitative e quantitative
durante il corso dell’attività; è un complesso caratterizzato da unità funzionale, per il
coordinamento ed il rapporto di complementarietà fra i diversi elementi costitutivi
istaurato dall’imprenditore e per l’unitaria destinazione ad uno specifico fine
produttivo.

RILIEVO ECONOMICO: Organizzazione e destinazione ad un fine produttivo sono dati


che attribuiscono ai beni costituiti in azienda e all’azienda nel suo complesso specifico
e particolare rilievo economico, prima ancora che giuridico. I beni organizzati ad
azienda consentono infatti la produzione di utilità nuove, diverse e maggiori di quelle
ricavabili dai singoli beni isolatamente considerati.

AVVIAMENTO: Il rapporto di strumentalità e di complementarietà fra i singoli


elementi costitutivi dell’azienda, fa si che il complesso unitario acquisti di regola un
valore di scambio maggiore della somma dei valori dei singoli beni che in un dato
momento lo costituiscono. Tale maggior valore si definisce AVVIAMENTO.
L’avviamento di un’azienda è in sostanza rappresentato dalla sua attitudine a
consentire la realizzazione di un profitto (ricavi eccedenti i costi) e può dipendere di
regola sia da fattori oggettivi (qualità degli impianti e ubicazione dell’azienda), sia da
fattori soggettivi. È AVVIAMENTO OGGETTIVO quello ricollegabile a fattori suscettibili
di permanere anche se muta il titolare dell’azienda in quanto insisti nel
coordinamento funzionale esistente fra i diversi beni. E’ AVVIAMENTO SOGGETTIVO
quello dovuto all’abilità operativa dell’imprenditore sul mercato, ed in particolare alla
sua abilità nel formarsi, conservare ed accrescere la clientela.

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RILIEVO NORMATIVO: L’unità economica dell’azienda e gli interessi, sia individuali sia
generali, al mantenimento di tale unità trovano oggi significativo riconoscimento nella
disciplina dettata dal C.C. per il trasferimento dell’azienda (art. 2556-2562).
Il trasferimento a titolo definitivo (es. vendita) o temporaneo (es. usufrutto ed affitto)
dell’azienda comporta infatti peculiari effetti ex lege (divieto di concorrenza del
cedente, successione nei contratti aziendali, ecc…) per favorire la conservazione
dell’unità economica e del valore di avviamento dell’azienda, a tutela di quanti su tale
misura e su tale valore hanno fatto affidamento (acquirente dell’azienda, lavoratori e
creditori in primo luogo).

 Gli elementi costitutivi dell’azienda.

Elementi costitutivi dell’azienda sono tutti i beni, di qualsiasi natura (cose mobili ed
immobili, materiali ed immateriali, fungibili ed infungibili) organizzati
dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa (art.2555c.c.)

BENI AZIENDALI E PROPRIETA’: Per qualificare un dato bene come aziendale rilevante
è perciò solo la destinazione funzionale impresagli dall’imprenditore. Irrilevante è
invece il titolo giuridico che legittima l’imprenditore ad utilizzare un dato bene nel
processo produttivo. Non possono essere considerati beni aziendali i beni di proprietà
dell’imprenditore che non siano da questi effettivamente destinati allo svolgimento
dell’attività d’impresa (es. abitazione di proprietà dell’imprenditore). Viceversa, sono
beni aziendali anche i beni di proprietà di terzi di cui l’imprenditore può disporre in
base ad un valido titolo giuridico, purché attualmente impiegati nell’attività d’impresa
(es. locali dell’impresa presi in affitto).

La concezione estensiva dell’azienda che ricomprendeva nell’organizzazione non solo i


beni ma anche i servizi, è stata ritenuta non condivisibile, in quanto più fedele ai dati
normativi e più corretta è l’opinione che considera elementi costitutivi dell’azienda
solo le cose in senso proprio di cui l’imprenditore attualmente si avvale per l’esercizio
dell’impresa. Beni, sono le cose che possono formare oggetto di diritti. Non possono
essere considerati elementi essenziali dell’azienda quelli che le parti possono
eliminare senza compromettere la qualificazione come azienda da residuo.

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 L’azienda fra concezione atomistica e concezione unitaria. Azienda e


universalità di beni.

Natura giuridica dell’azienda -> contrasto tra teorie unitarie e teorie atomistiche.

Le teorie unitarie considerano l’azienda un bene unico; un bene nuovo e distinto


rispetto ai singoli beni che la compongono. Si è così affermato che l’azienda è un bene
immateriale, rappresentato dall’organizzazione stessa. E sempre nella stessa
prospettiva l’azienda è stata qualificata come una universalità di beni. Si ritiene perciò
che il titolare dell’azienda abbia sulla testa un vero e proprio diritto di proprietà
unitario.

La teoria atomistica concepisce invece l’azienda come una semplice pluralità di beni
tra loro funzionalmente collegati e sui quali l’imprenditore può vantare diritti diversi
(proprietà, diritti reali, diritti personali di godimento…). Si esclude perciò che esista un
“bene” azienda formante oggetto di autonomo diritto di proprietà o di altro diritto
reale unitario e quindi si attribuisce significato atecnico alle norme che parlano di
proprietà o di proprietario dell’azienda e di usufrutto della stessa.
La possibilità quindi di concepire l’azienda come un nuovo bene sotto ogni profilo ed a
tutti gli effetti fa emergere con chiarezza che l’unificazione giuridica dei beni aziendali
è solo relativa e funzionale, dato che per il trasferimento del complesso aziendale
dovranno essere necessariamente osservate le “forme stabilite dalla legge per il
trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda”.
CAMPOBASSO afferma che l’assenza di una legge di circolazione propria dell’azienda
è sufficiente per negare la piena unità giuridica e la natura di nuovo bene della stessa.
La concezione atomistica si lascia perciò preferire come scelta di base.

AZIENDA E UNIVERSALITA’: l’azienda è espressamente equiparata alle universalità di


beni (art.670c.p.c.) che prevede il sequestro di aziende o di altre universalità di beni.
È altrettanto vero che il considerare l’azienda un’universalità di beni non offre
argomenti per concepire la stessa come un bene nuovo ed unitario. Norme specifiche
sono dettate solo per le universalità di mobili (art.816c.c.) definite come la pluralità di
cose che appartengono alla stessa persona e hanno una destinazione unitaria. Si
arriva così a domandarsi se la disciplina dettata per le universalità di mobili è
applicabile all’azienda. L’applicabilità diretta ed integrale è certamente da escludere,
in quanto l’azienda è di regola costituita da beni eterogenei e può comprendere
anche beni che non sono di proprietà dell’imprenditore. Questo però non implica che
debba ritenersi preclusa anche l’applicazione per analogia, dato che sia l’azienda sia
le universalità di mobili costituiscono aggregati di cose a destinazione unitaria e
finalizzati alla produzione di un’utilità complessiva nuova e diversa rispetto a quella
offerta dalla semplice somma dei singoli beni.
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 La circolazione dell’azienda. Oggetto e forma dei negozi traslativi:

L’azienda può formare oggetto di atti di disposizione di diversa natura: può essere
venduta, conferita in società, donata e su di essa possono essere costituiti diritti reali
(usufrutto) o personali (affitto) di godimento a favore di terzi. Inoltre l’imprenditore
può compiere anche atti di disposizione che riguardano uno o più beni aziendali.

TRASFERIMENTO DI AZIENDA E DEI SINGOLI BENI: è rilevante stabilire se un certo


atto di disposizione dell’imprenditore sia da qualificare come trasferimento di azienda
o come trasferimento di singoli beni aziendali -> solo nel primo caso troverà
applicazione la disciplina della circolazione di un complesso aziendale.

TRASFERIMENTO DI AZIENDA: Per aversi TRASFERIMENTO di azienda non è


necessario che l’atto di disposizione comprenda l’intero complesso aziendale (cioè
tutti i beni attualmente usati dal trasferente nella propria azienda); a tal proposito
distinguiamo il trasferimento di azienda come complesso di beni organizzati ed il
trasferimento dei singoli beni aziendali che deve essere operata in base al risultato
che si intende perseguire e realizzare. In particolare la disciplina del trasferimento di
azienda è applicabile anche quando l’imprenditore trasferisca un ramo particolare
della sua azienda, purché dotato di organicità operativa. NECESSARIO e SUFFICIENTE
è che sia trasferito un insieme di beni POTENZIALMENTE IDONEO ad essere utilizzato
per l’esercizio di una determinata attività d’impresa (non necessariamente la stessa
svolta del trasferente); e ciò quand’anche il nuovo titolare debba integrare il
complesso con ulteriori fattori produttivi (es. materie prime) per farlo funzionare. È
però necessario che i beni esclusi dal trasferimento non alterino l’unità economica e
funzionale di quella data azienda come, ad esempio, si verificherebbe qualora si
escludesse dal trasferimento il brevetto industriale su cui si fonda l’attività d’impresa.

FORMA NEGOZIALE: Le FORME NEGOZIALI da osservare nel trasferimento di azienda


sono fissate dall’art. 2556. Bisogna distinguere fra forma necessaria per la validità del
trasferimento e forma richiesta ai fini probatori e per l’opponibilità ai terzi:

- Forme per la validità del trasferimento


E’ dettata una disciplina identica per ogni tipo di azienda (agricola e commerciale). I
contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o la concessione in
godimento dell’azienda, sono validi solo se stipulati con l’osservanza “delle forme
stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda o
per la particolare natura del contratto”. Manca quindi un’autonoma ed unitaria legge
di circolazione dell’azienda e il trasferimento di ciascun bene aziendale segue il
regime dettato in via generale. E dovranno essere anche rispettate le regole di forma
previste per il particolare tipo di negozio traslativo posto in essere.
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- Forma per fini probatori e per l’opponibilità ai terzi


Solo per le imprese soggette a registrazione con effetti di pubblicità legale, è previsto
che ogni atto di disposizione dell’azienda deve essere PROVATO PER ISCRITTO (art.
2556, 1° comma). La scrittura è richiesta solo ad probationem. Per tutte le imprese
soggette a registrazione è previsto che i relativi contratti di trasferimento devono
essere iscritti nel registro delle imprese nel termine di 30 giorni. Per ottenere la
registrazione è necessario che il contratto sia redatto per atto pubblico o per scrittura
privata autenticata. Solo l’iscrizione nella sezione ordinaria, se dovuta, produce gli
effetti di pubblicità legale (funzione dichiarativa - opponibilità ai terzi).

 La vendita dell’azienda. Il divieto di concorrenza dell’alienante:

Oltre gli effetti dedotti in contratto, l’alienazione dell’azienda produce ex lege effetti
ulteriori che riguardano il divieto di concorrenza dell’alienante (art. 2557), i contratti
(art. 2558), i crediti (art. 2559) e i debiti aziendali (art. 2560).

DIVIETO DI CONCORRENZA DELL’ALIENANTE (ART. 2557): Chi aliena un’azienda


commerciale deve astenersi, per un periodo massimo di 5 anni dal trasferimento,
dall’iniziare una nuova impresa che possa sviare la clientela dell’azienda ceduta. Se
l’azienda è agricola, il divieto opera solo per le attività ad essa connesse e se rispetto
a tali attività sia possibile lo sviamento della clientela. Le RAGIONI sono 2:
1. Quella dell’acquirente dell’azienda di trattenere la clientela dell’impresa e quindi di
godere dell’avviamento (soggettivo) del quale di regola si è tenuto conto nella
pattuizione del prezzo di vendita;
2. Quella dell’alienante a non vedere compressa la propria libertà di iniziativa
economica oltre un determinato arco di tempo, ritenuto sufficiente per consentire
all’acquirente di consolidare la propria clientela.

Il divieto di concorrenza è derogabile ed ha carattere relativo: sussiste nei limiti in cui


la nuova attività di impresa dell’alienante sia potenzialmente idonea a sottrarre
clientela all’azienda ceduta. Le parti possono anche ampliare la portata dell’obbligo di
astensione, purché non sia impedita ogni attività professionale all’alienante (art.
2557, 2°comma). È in ogni caso vietato prolungare oltre i 5 anni la durata del divieto.

VENDITA COATTIVA: Il divieto è da ritenersi applicabile non solo alla vendita


volontaria di azienda, ma anche quando la vendita è coattiva. Il divieto graverà perciò
in testa all’imprenditore fallito nel caso di vendita in blocco dell’azienda da parte di
organi fallimentari. Pur essendoci dei casi controversi, è indubbio che in sede di
divisione ereditaria o nello stabilire la quota di liquidazione spettante a ciascun socio
(in sede di scioglimento della società), si tiene di regola conto anche del valore di
avviamento dovuto alla clientela.
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Perciò si applica il divieto di concorrenza a favore dell’erede o del socio che subentra
nell’azienda ed a carico degli altri eredi o degli altri soci. È indubbio altresì che la
vendita dell’intero pacchetto azionario o di una partecipazione di controllo
permettano di raggiungere un risultato economico sostanzialmente coincidente con la
vendita dell’azienda, quindi si applica il divieto di concorrenza per il socio alienante
quando possa dar inizio ad attività idonea a determinare uno sviamento della
clientela.

 La successione nei contratti aziendali:

Per il mantenimento dell’unità economica dell’azienda, è agevolato il subingresso


dell’acquirente nei contratti in corso di esecuzione, che l’alienante ha stipulato con
fornitori, finanziatori, lavoratori e clienti per assicurarsi i fattori produttivi necessari
allo svolgimento dell’attività d’impresa, nonché per dare sbocco ai suoi prodotti.

Ci sono DEROGHE alla disciplina generale della cessione dei contratti (art. 1406 e ss)
[Cessione del contratto -> negozio mediante il quale la parte di un rapporto contrattuale sinallagmatico
ineseguito sostituisce un’altra parte a sé con il consenso del contraente originario]:
 “Se non è pattuito diversamente, l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti
stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale”.
 Al terzo contraente è riconosciuto il diritto di recedere dal contratto “entro 3 MESI
dalla notizia del trasferimento, se sussiste una giusta causa, salvo in questo caso la
responsabilità dell’alienante”.

IL RAPPORTO ALIENANTE-ACQUIRENTE: Il subingresso dell’acquirente nei contratti in


corso di esecuzione, e in tutti i contratti inerenti all’organizzazione e all’esercizio
dell’impresa non aventi carattere personale, prescinde perciò da un’esplicita
manifestazione di volontà nell’atto di alienazione dell’azienda. Un’espressa
pattuizione fra alienante ed acquirente è perciò necessaria solo se si vuole escludere
la successione in uno o più contratti in corso di esecuzione.

LA POSIZIONE DEL TERZO CONTRAENTE: Per diritto comune la cessazione del


contratto non può avvenire senza il consenso del contraente ceduto (art. 1406). Ma,
quando il contratto è stipulato con un imprenditore ed ha per oggetto prestazioni
(non personali) inerenti all’esercizio dell’impresa, il consenso del terzo contraente
non è più necessario per il trasferimento del contratto e l’effetto successorio si
produce ex lege dal momento in cui diventa efficace il trasferimento dell’azienda. Da
questo momento il terzo contraente dovrà eseguire le prestazioni nei confronti del
nuovo titolare dell’azienda.

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DIRITTO DI RECESSO => Estinzione del contratto: Il terzo contraente ha una tutela
legislativa limitata. È vero che il terzo contraente può recedere dal contratto (entro 3
mesi dalla notizia del trasferimento dell’azienda) e sciogliersi (effetto ex nunc) dal
vincolo contrattuale con l’acquirente. Però il recesso potrà essere esercitato solo se vi
è una giusta causa e spetterà quindi al terzo contraente provare che l’acquirente
dell’azienda si trova in una situazione oggettiva tale da non dare affidamento sulla
regolare esecuzione del contratto. In caso di recesso il contratto non ritorna in testa
all’alienante ma si estingue; il terzo contraente può solo chiedere il risarcimento dei
danni all’alienante dando prova che questi non ha osservato la normale cautela nella
scelta dell’acquirente dell’azienda.

TRASFERIMENTO DI CONTRATTI PERSONALI: La disciplina fin qui esposta non trova


applicazione ai contratti stipulati per l’esercizio dell’impresa che abbiano carattere
personale. Per il trasferimento di tali contratti occorre espressa pattuizione
contrattuale tra alienante ed acquirente dell’azienda, più il consenso del contraente
ceduto. Si ritorna cioè alla disciplina di diritto comune della cessione del contratto.
Contratti personali -> contratti nei quali l’identità e le qualità personali dell’imprenditore
alienante sono state in concreto determinanti del consenso del terzo contraente (art.2558 c.c.)

 I crediti e i debiti aziendali (art. 2559 e 2560):


La disciplina esposta nel paragrafo precedente si applica ai contratti a prestazioni
corrispettive non integralmente eseguiti da entrambe le parti (imprenditore alienante
e terzo contraente) al momento del trasferimento dell’azienda. Se invece
l’imprenditore ha già adempiuto le obbligazioni a suo carico, residuerà un credito a
suo favore nei confronti del terzo (es. ha venduto merci con pagamento differito).
Viceversa, residuerà un debito dell’imprenditore qualora il terzo contraente abbia
integralmente eseguito le proprie prestazioni (es. l’imprenditore ha acquistato
materie prime ma non ha ancora pagato). In tali casi, in sede di vendita dell’azienda,
troverà applicazione la disciplina degli art. 2559 e 2560 per i crediti e i debiti aziendali
e non quella prevista dall’art. 2558 (successione nei contratti).

CREDITI: Limitata è la deroga introdotta per i crediti aziendali dall’art. 2559. Per
semplificare le formalità necessarie per rendere opponibile la cessione di tali crediti ai
terzi, la notifica al debitore ceduto o l’accettazione da parte di questi (richiesti dalla
disciplina di diritto comune) è sostituita da una sorta di notifica collettiva: l’iscrizione
del trasferimento dell’azienda nel registro delle imprese. Da tale momento, la
(eventuale) cessione dei crediti relativi all’azienda ceduta ha effetto nei confronti dei
terzi, anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione. Tuttavia, il
debitore ceduto è libero se paga in buona fede all’alienante. Questa disciplina è
circoscritta alle imprese soggette a registrazione con effetti di pubblicità legare, negli
altri casi si applica la disciplina generale della cessione dei crediti.

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DEBITI: Più vistosa è la deviazione dai principi di diritto comune in relazione ai debiti
inerenti all’azienda ceduta sorti prima del trasferimento; ciò per evitare che la
modificazione del patrimonio dell’alienante (ad un complesso produttivo si sostituisce
denaro o altri beni) pregiudichi le aspettative di soddisfacimento dei creditori
aziendali. Rimane il principio generale per cui non è ammesso il mutamento del
debitore senza il consenso del creditore, ed infatti, l’alienante non è liberato da tali
debiti se non risulta che i creditori vi hanno acconsentito. E’ invece derogato, per le
sole aziende commerciali, l’altro principio secondo cui ciascuno risponde solo delle
obbligazioni da lui assunte. È infatti previsto che “nel trasferimento di un’azienda
commerciale risponde dei debiti suddetti anche l’acquirente dell’azienda, se essi
risultano dai libri contabili obbligatori”. Perciò, anche se manca un patto di accollo,
l’acquirente di un’azienda commerciale risponde in solido con l’alienante nei confronti
dei creditori che non abbiano consentito alla liberazione di quest’ultimo.

DEBITI DI LAVORO: Disciplina diversa e più favorevole per i lavoratori è invece


prevista per i debiti di lavoro. Di questi, l’acquirente dell’azienda risponde, in solido
con l’alienante, anche se non risultano dalle scritture contabili; ed oggi anche se
l’acquirente non ne ha avuto conoscenza all’atto del trasferimento (nuovo art. 2112)
(anche per aziende o ramo d’azienda non commerciale). Si noti che gli artt. 2559 e
2560 si limitano a regolare le conseguenze del trasferimento dell’azienda per i
creditori ed i debitori aziendali. Non essendo disposto null’altro, prevale comunque
negli orientamenti più recenti la tesi che crediti e debiti non passino
automaticamente in testa all’acquirente, ma sia a tal fine necessaria un’espressa
pattuizione. In mancanza, l’acquirente riceverà il pagamento dei crediti anteriori come
semplice legittimato a riscuotere per conto dell’alienante e sarà tenuto a trasferirgli
quanto riscosso; nonché pagherà i debiti anteriori al trasferimento dell’azienda quale
garante dell’alienante stesso e avrà diritto di rivalsa per l’intero nei confronti di
questo.

 Usufrutto e affitto dell’azienda:

L’azienda può formare oggetto di un diritto reale o personale di godimento. Può


essere costituita in usufrutto o può essere concessa in affitto.

USUFRUTTO: La costituzione in usufrutto di un complesso di beni destinati allo


svolgimento di attività d’impresa, comporta il riconoscimento in testa all’usufruttuario
di particolari POTERI-DOVERI (art. 2561). E ciò, sia per consentire all’usufruttuario la
libertà operativa necessaria per gestire proficuamente l’impresa, sia per tutelare
l’interesse del concedente a che non sia menomata l’efficienza del complesso
aziendale, che dovrà a lui tornare alla fine del rapporto.
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L’usufruttuario:
 Deve esercitare l’azienda sotto la ditta che la contraddistingue;
 Deve condurre l’azienda senza modificarne la destinazione ed in modo da
conservare l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di
scorte.

La violazione di tali obblighi o la cessazione arbitraria della gestione dell’azienda


determinano la cessazione dell’usufrutto per abuso dell’usufruttuario.
L’usufruttuario non solo può godere dei beni aziendali, ma ha anche il potere di
disporne nei limiti delle esigenze di gestione. L’usufruttuario potrà acquistare e
immettere nell’azienda nuovi beni; beni che diventeranno di proprietà del nudo
proprietario e sui quali l’usufruttuario avrà diritto di godimento e potere di
disposizione. Al termine dell’usufrutto, l’azienda perciò risulterà composta, in tutto o
in parte, da beni diversi da quelli originari => È prevista la redazione di un inventario
all’inizio ed alla fine dell’usufrutto e che la differenza fra le due consistenze venga
regolata in denaro, sulla base dei valori correnti al termine dell’usufrutto.

AFFITTO: L’affitto di azienda è contratto diverso dalla locazione di un immobile


destinato all’esercizio di attività d’impresa: nel primo caso, oggetto del contratto è un
complesso di beni organizzati, eventualmente comprensivo dell’immobile; nel
secondo caso, il contratto ha per oggetto il locale in quanto tale.
La disciplina prevista per l’usufrutto si applica anche all’affitto di azienda (art. 2562).
Usufrutto ed affitto d’azienda sono poi parzialmente regolati dalle norme in tema di
vendita. Si applicano ad entrambi il divieto di concorrenza (art. 2557) e la disciplina
della successione nei contratti aziendali (art. 2558). Il nudo proprietario ed il locatore
sono perciò tenuti a non iniziare una nuova impresa idonea a sviare la clientela per la
durata dell’usufrutto e dell’affitto. Inoltre, l’usufruttuario o l’affittuario subentrano
automaticamente nei contratti aziendali per la durata dell’usufrutto o dell’affitto.
Si applica solo all’usufrutto la disciplina dei crediti aziendali (in base all’art. 2559).
Non si applica né all’usufrutto né all’affitto di azienda la disciplina dettata per i debiti
dall’art. 2560, mancando un espresso richiamo. Perciò, dei debiti aziendali anteriori
alla costituzione dell’usufrutto o dell’affitto risponderanno esclusivamente il nudo
proprietario o il locatore, salvo che per i debiti di lavoro espressamente accollati
anche al titolare del diritto di godimento (art. 2112,4).

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CAP. 6: I SEGNI DISTINTIVI


 Il sistema dei segni distintivi:

Ciascun imprenditore utilizza di regola uno o più segni distintivi che consentono di
individuarlo sul mercato e distinguerlo dagli altri imprenditori concorrenti.
La ditta, l’insegna ed il marchio sono i tre principali segni distintivi dell’imprenditore:
A. La DITTA contraddistingue la persona dell’imprenditore nell’esercizio dell’attività
d’impresa (c.d. nome commerciale);
B. L’INSEGNA individua i locali in cui l’attività d’impresa è esercitata;
C. Il MARCHIO individua e distingue i beni o i servizi prodotti.
(Acquista rilievo il nome a dominio aziendale che individua il sito internet aziendale.)

LA FUNZIONE DEI SEGNI DISTINTIVI: I segni distintivi favoriscono la formazione ed il


mantenimento della clientela in quanto consentono ai consumatori di distinguere fra i
vari operatori economici e di effettuare scelte consapevoli.

PRINCIPI COMUNI: Dalle tre discipline è possibile desumere taluni principi comuni
applicabili per analogia agli altri simboli di identificazione sul mercato utilizzati
dall’imprenditore (cd. segni distintivi atipici) quali, ad es., lo slogan pubblicitario:
a. L’imprenditore gode di ampia libertà nella formazione dei propri segni distintivi. È
tenuto però a rispettare determinate regole, volte ad evitare inganno e confusione sul
mercato: verità, novità e capacità distintiva;
b. L’imprenditore ha diritto all’uso esclusivo dei propri segni distintivi. Si tratta però di
un diritto non assoluto ma RELATIVO e STRUMENTALE, alla realizzazione della
funzione distintiva rispetto agli imprenditori concorrenti. Il titolare di un segno
distintivo non può perciò impedire che altri adottino il medesimo segno distintivo
quando, per la diversità delle attività d’impresa o per la diversità dei mercati serviti,
non vi è pericolo di confusione e di sviamento della clientela.
c. L’imprenditore può trasferire ad altri i propri segni distintivi. L’ordinamento tende
ad evitare che la circolazione dei segni distintivi possa trarre in inganno il pubblico.

Da tutto ciò emerge che i tre segni distintivi tipici dell’imprenditore sono sì tutelati sul
piano patrimoniale, ma in modo non pieno ed assoluto ed infatti il carattere relativo e
funzionale della tutela rende controverso se i segni distintivi possono essere
inquadrati nella categoria dei beni immateriali e, quindi, se si possa parlare di un vero
e proprio diritto di proprietà su un bene immateriale. (Il CAMPOBASSO è per il
concetto di proprietà limitata e funzionale, cioè per una proprietà industriale).

P.S. Esistono segni distintivi ATIPICI: i segni distintivi non costituiscono un numero
chiuso e l’imprenditore può avvalersi di altri simboli di identificazione sul mercato.
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A. LA DITTA:

 Formazione della ditta e contenuto del diritto sulla ditta:


La DITTA è il nome commerciale dell’imprenditore, lo individua come soggetto di
diritto nell’attività d’impresa. Ed è segno distintivo NECESSARIO in quanto in
mancanza di diversa scelta essa coincide con il nome civile dell’imprenditore.
Non è però necessario che la ditta corrisponda al nome civile: essa può essere
liberamente prescelta dall’imprenditore (art. 2563). Nella scelta della ditta,
l’imprenditore incontra due limiti -> il rispetto dei principi di verità e novità:

VERITA’: Il principio di verità della ditta, ha un contenuto limitato e assume un


contenuto diverso a seconda che si tratti di DITTA ORIGINARIA o DITTA DERIVATA.
La DITTA ORIGINARIA è quella formata dall’imprenditore che la utilizza. Essa deve
contenere almeno il cognome o la sigla dell’imprenditore. Tanto è necessario e
sufficiente perché sia soddisfatto il requisito della verità, restando poi l’imprenditore
libero di completare come vuole la propria ditta;
La DITTA DERIVATA è quella formata da un dato imprenditore e poi trasferita ad un
altro imprenditore insieme all’azienda. Nessuna disposizione impone a chi utilizzi una
ditta derivata di integrarla col proprio cognome o con la propria sigla. La verità, in tal
caso, si riduce ad una pura “verità storica”.

NOVITA’: (Art. 2564 c.c.). La ditta non deve essere uguale o simile a quella usata da
altro imprenditore e tale da creare confusione per l’oggetto dell’impresa o per il luogo
in cui questa è esercitata. Chi ha adottato per primo una data ditta ha perciò diritto
all’uso esclusivo della stessa, e tale diritto è acquisito per il solo fatto dell’uso della
ditta. Chi successivamente adotti ditta uguale o simile può essere costretto ad
integrarla o modificarla con indicazioni idonee a differenziarla, e ciò quand’anche la
ditta utilizzata corrisponde al nome civile dell’imprenditore (c.d. ditta patronimica).

Per le IMPRESE COMMERCIALI si applica il criterio della priorità dell’iscrizione nel


registro delle imprese. L’obbligo dell’integrazione e modificazione spetta a chi ha
iscritto la propria ditta nel registro delle imprese in epoca posteriore (art. 2564,2)

OBBLIGO DI DIFFERENZIAZIONE: Il diritto all’uso esclusivo della ditta ed il


corrispondente obbligo di differenzazione sussistono però solo se i due imprenditori
sono in rapporto concorrenziale fra loro e quindi possa determinarsi confusione per
l’oggetto d’impresa e/o per il luogo in cui questa è esercitata. Perciò è possibile
l’omonimia fra ditte che non creano confusione sul mercato, non potendosi imporre
la differenziazione a chi produce beni e servizi destinati a soddisfare bisogni diversi
dei consumatori, né a chi opera in un diverso ambito territoriale. Il diritto all’uso
esclusivo è quindi diritto relativo.
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Campobasso G. F., Diritto commerciale – 1. Diritto dell’impresa, UTET giuridica

Il principio della novità opera anche nei rapporti con altri segni distintivi.
Segnatamente, è fatto divieto adottare il marchio altrui come propria ditta se sussiste
pericolo di confusione tra i segni.

 Il trasferimento della ditta:

La ditta è trasferibile, ma solo insieme all’AZIENDA (art. 2565 c.c.). Se il trasferimento


avviene per atto fra vivi, è necessario il consenso espresso dell’alienante. Regola
opposta vale se l’azienda è acquisita per successione a causa di morte: la ditta si
trasmette al successore, salvo diversa disposizione testamentaria.
Si ritiene che chi ha trasferito l’azienda è responsabile in solido con l’acquirente per i
debiti da questo contratti spendendo la ditta derivata, qualora il 3° contraente abbia
potuto ragionevolmente ritenere di trattare con il cedente.
Il risultato pratico è che si addossa all’alienante l’onere di portare a conoscenza dei
terzi, con mezzi idonei, l’avvenuto trasferimento dell’azienda e della ditta se si tratta
di impresa non commerciale, ovvero e comunque di imporre all’acquirente di
integrare la ditta con indicazioni non equivoche.

 Ditta e nome civile. Ditta e nome delle società:

L’imprenditore individuale ha, al pari di ogni altra persona fisica, un nome civile, che
lo individua come soggetto di diritto. Il NOME CIVILE è attribuito per legge ed è a
struttura fissa, risultando composto dal prenome e dal cognome; è inoltre unico e
non liberamente modificabile. Il nome civile è un attributo della personalità e come
tale è tutelato nei limiti fissati dagli art. 7/9 c.c. (è indisponibile e intrasmissibile).

La DITTA è tutelata come mezzo di attrazione della clientela e come valore


patrimoniale (bene immateriale). Perciò mentre l’omonimia fra nomi civili è sempre
ammessa, non è invece consentita fra ditte di imprenditori in rapporto di
concorrenza, quand’anche entrambe corrispondenti ai rispettivi nomi civili.

La distinzione fra NOME CIVILE e NOME COMMERCIALE (DITTA) è valida anche per le
società (art. 2567 c.c.): la norma stabilisce che la ragione sociale della società di
persone e la denominazione sociale delle società di capitali e delle cooperative, sono
regolate dalle norme specificamente dettate per le società. Tuttavia si applicano
anche ad esse le disposizioni dell’art. 2564, vale a dire il DIVIETO di utilizzare ditta
uguale o simile a quella di altro imprenditore concorrente. Non sono invece
richiamati gli art. 2563 (scelta della ditta) e 2565 (trasferimento della ditta) c.c.

RAGIONE SOCIALE e DENOMINAZIONE SOCIALE non vanno identificate con la DITTA,


ma vanno poste sullo stesso piano del NOME CIVILE.
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Campobasso G. F., Diritto commerciale – 1. Diritto dell’impresa, UTET giuridica

CONCLUSIONI:
1) Le società devono avere una ragione sociale o denominazione sociale formata
rispettando le norme specificatamente dettate;
2) Il nome di una società non può essere uguale o simile a quello prescelto da altra
società concorrente e non è trasferibile;
3) Le società possono avere una ditta originaria formata rispettando le norme sulla
ditta (dovrà includere la ragione e la denominazione sociale);
4) Ditte che rimangono distinte dal nome e potranno essere trasferite con l’azienda.

B. IL MARCHIO:

 Nozione e funzioni del marchio:

Il marchio è il segno distintivo dei prodotti o dei servizi d’impresa. Esso è disciplinato
sia dall’ordinamento nazionale, sia dall’ordinamento comunitario ed internazionale. Il
marchio nazionale :
 Il marchio nazionale è regolato dagli art. 2569-2574 del c.c. e dal codice della
proprietà industriale (d.lgs 30/05). La disciplina dei marchi è stata più volte modificata
in attuazione di direttive comunitarie e accordi internazionali in materia.
 Al marchio nazionale si è di recente affiancato il marchio comunitario istituito con
il regolamento Ce 40/94 del 1993. La relativa disciplina consente di ottenere un
marchio che produce gli stessi effetti in tutta l’Unione Europea.
 Nell’ordinamento internazionale il marchio è disciplinato dalla Convenzione
dell’Unione di Parigi del 1883 per la protezione della proprietà industriale e
dall’Accordo di Madrid del 1891 sulla registrazione internazionale dei marchi.

Tali normative, imperniate sull’istituto della registrazione (nazionale, comunitaria o


internazionale) del marchio, riconoscono al titolare del marchio, rispondente a diversi
requisiti di validità, il diritto all’uso esclusivo dello stesso, così permettendo che il
marchio assolva la sua funzione di identificazione del prodotto sul mercato.
Il marchio, infatti, non è un segno distintivo essenziale, ma è certamente il più
importante dei segni distintivi per il ruolo che assolve nell’economia industriale,
caratterizzata dall’offerta concorrente di prodotti simili da parte di più imprenditori.
Al marchio gli imprenditori affidano, infatti, la funzione di differenziare i propri
prodotti da quelli dei concorrenti. Il pubblico è così messo in grado di riconoscere con
facilità i prodotti provenienti da una determinata fonte di produzione; può perciò
selezionare fra i molti prodotti similari, quello ritenuto migliore per qualità e/o per
prezzo orientando consapevolmente le proprie scelte. Il marchio costituisce perciò il
principale simbolo di collegamento fra produttori e consumatori e svolge un ruolo
centrale nella formazione e nel mantenimento della clientela.

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Campobasso G. F., Diritto commerciale – 1. Diritto dell’impresa, UTET giuridica

Il marchio è di regola anche indicatore della provenienza del prodotto da una fonte
unitaria di produzione; anche se dopo il ’92 tale funzione sembra ridimensionata.
Infatti non esiste il divieto di circolazione del marchio separatamente dall’azienda e
soprattutto è riconosciuta la legittimità del CO-USO di uno stesso marchio da parte di
più imprenditori concorrenti, sulla base di una licenza di marchio NON esclusiva
concessa dal titolare stesso.
Fra le funzioni del marchio giuridicamente riconosciute e protette non può
riconoscersi quella di garanzia della qualità dei prodotti. Il legislatore si preoccupa
solo di evitare che il pubblico sia tratto in inganno sull’origine e qualità del prodotto.

 I tipi di marchio:

I marchi possono essere classificati secondo diversi criteri ed una prima distinzione si
basa sulla natura dell’attività svolta dal titolare del marchio:

MARCHIO DI FABBRICA: marchio di cui si serve il fabbricante del prodotto. I beni che
subiscono diverse fasi di lavorazione o risultano dall’assemblaggio di parti
distintamente prodotte (es. automobile) possono presentare più marchi di fabbrica.
MARCHIO DI COMMERCIO: è quello apposto dal commerciante, sia esso un
distributore intermedio (grossista) o il rivenditore finale. Su uno stesso prodotto
possono perciò coesistere più marchi (di fabbrica e/o commercio). Il rivenditore però
non può sopprimere il marchio del produttore.
MARCHIO DI SERVIZIO: marchio utilizzato da imprese che producono servizi (imprese
di trasporto, bancarie, assicurative). La forma tipica di uso di tali marchi è quella
pubblicitaria, essendo essi apposti sui materiali che servono per la produzione del
servizio o sulle divise del personale.
MARCHIO GENERALE E SPECIALE: l’imprenditore può utilizzare un solo marchio per
tutti i suoi prodotti (marchio generale), ma può anche servirsi di più marchi. E ciò farà
quando vuole differenziare i diversi prodotti dalla propria impresa o anche tipi diversi
dello stesso prodotto per sottolineare ai consumatori le relative diversità qualitative
(marchi speciali). È possibile l’uso contemporaneo di un marchio generale e di più
marchi speciali, quando si vuole evidenziare al tempo steso l’unità della fonte di
produzione e la diversità dei prodotti (es. Fiat-Panda, Fiat-Punto).

COMPOSIZIONE DEL MARCHIO: Requisiti di validità del marchio -> possono essere
utilizzati come tali tutti i nuovi segni suscettibili di essere rappresentati graficamente:

MARCHIO DENOMINATIVO: è costituito solo da parole e può coincidere con la ditta o


il nome civile dell’imprenditore.
MARCHIO FIGURATIVO: formato anche o esclusivamente da figure, lettere, cifre,
disegni e colori.
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Campobasso G. F., Diritto commerciale – 1. Diritto dell’impresa, UTET giuridica

MARCHIO DI FORMA O TRIDIMENSIONALE: è costituito dalla forma del prodotto o


dalla confezione dello stesso. Si deve trattare però di una forma la cui funzione
esclusiva sia quella di consentire l’individuazione del prodotto=> Non possono essere
registrate come marchi, ad es., le forme imposte dalla natura stessa del prodotto.
MARCHIO COLLETTIVO: si distingue nettamente dai marchi d’impresa in quanto
titolare del marchio collettivo è un soggetto (associazione, consorzio tra imprenditori)
che svolge la funzione di garantire l’origine, la natura o la qualità di determinati
prodotti o servizi. Tale marchio non viene utilizzato dall’ente che ne ha ottenuto la
registrazione, ma concesso in uso a produttori o commercianti consociati. Questi
marchi (es. pura lana vergine, prosciutto di Parma), sono di regola utilizzati in
aggiunta a quelli individuali e assolvono ad una (sia pur limitata) funzione di garanzia
della qualità o della provenienza del prodotto.

 I requisiti di validità del marchio:

Per essere tutelato giuridicamente il marchio deve rispettare 4 requisiti di validità:


1) LICEITA’ 2) VERITA’ 3) ORIGINALITA’ 4) NOVITA’

1) LICEITA’: il marchio non deve contenere segni contrari alla legge, all’ordine
pubblico o al buon costume; stemmi o altri segni protetti da convenzioni
internazionali; segni lesivi di un altrui diritto d’autore o di proprietà industriale. È fatto
divieto di utilizzare come marchio l’altrui ritratto senza il consenso dell’interessato. E
il consenso dell’interessato è necessario anche per poter usare come marchio il nome
o lo pseudonimo di persona che ha acquistato notorietà. Per le persone non note
resta la regola originale: il nome altrui può essere inscritto nel marchio anche senza il
consenso dell’interessato (purché non sia lesivo).

2) VERITA’: Questo principio vieta di inserire nel marchio segni idonei ad ingannare il
pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei
prodotti o servizi. Ad esempio, è stato ritenuto ingannevole il marchio “New England”
per prodotti di abbigliamento fabbricati in Italia.

3) ORIGINALITA’: Per assolvere la sua funzione il marchio deve essere ORIGINALE.


Deve cioè essere composto in modo da consentire l’individuazione dei prodotti
contrassegnati fra tutti i prodotti dello stesso genere immessi sul mercato.

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Non possono essere perciò utilizzati come marchi, perché privi di capacità distintiva:

a. Le denominazioni generiche del prodotto o del servizio o la loro figura generica (ad
esempio un marchio di calzature non potrà essere esclusivamente costituito dalla
parola “scarpe” o dalla figura di una scarpa);
b. Le indicazioni descrittive dei caratteri essenziali e della provenienza geografica del
prodotto (ad esempio, si è escluso che l’espressione “brillo” possa essere usata come
marchio per prodotti lucidanti);
c. I segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente, come le parole “super”,
“extra”, “lusso”.

La ratio di questi divieti è quella di impedire l’acquisto di posizioni di monopolio su


simboli che nel lessico comune individuano genericamente quel dato prodotto.

Il requisito dell’originalità è però rispettato quando si utilizzano denominazioni o


figure generiche che non hanno alcuna relazione con il prodotto contraddistinto (ad
es. la parola “aeroplano” e/o la figura di un aeroplano per un marchio di calzature).
Per lo stesso motivo, parole straniere descrittive o generiche sono dotate di capacità
distintiva quando non sono note nel loro significato al consumatore medio italiano
(ed es. le parole “Cynar” o “Ginger” per un aperitivo al carciofo o allo zenzero).

MARCHI DEBOLI: è possibile usare come marchio denominazioni generiche o parole


di uso comune modificate o combinate fra loro in modo fantasioso. Quindi
basterebbero lievi modifiche per escludere la confondibilità con altri marchi.
MARCHI FORTI: sono quelli dotati di accentuata capacità distintiva e sono tali, in
genere, i marchi di pura fantasia (per tali marchi modifiche anche notevoli non
basterebbero per evitare la contraffazione del marchio).
SECONDARY MEANING: si verifica quando un marchio, inizialmente dotato di scarsa
capacità distintiva diventa poi forte a seguito della notorietà acquisita verso il
pubblico. Può: 1) far acquistare carattere distintivo ad un segno che originariamente
ne era privo, rendendo poi possibile la registrazione come marchio; 2) trasformare un
marchio nullo in un marchio valido.

4) NOVITA’: E’ un profilo ulteriore della capacità distintiva del marchio,


complementare ma distinto rispetto all’originalità. È sufficiente un esempio per
cogliere la diversità. Il marchio “aeroplano” per calzature è certamente originale. Non
è però nuovo se già registrato come marchio per calzature da altro imprenditore in
quanto genera confusione tra i consumatori.

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Il codice di proprietà industriale distingue al riguardo tra:


 Marchi ordinari: non sono i nuovi segni che possono determinare un rischio di
confusione per il pubblico, perché identici o simili ad un segno già noto come
marchio, ditta o insegna di altro imprenditore concorrente o comunque già
registrato da altri come marchio per PRODOTTI IDENTICI o AFFINI;
 Marchio celebre: non è necessario il rapporto di affinità se il marchio già registrato
è diventato un marchio celebre. Infatti, è ex lege non nuovo il marchio
confondibile da altri successivamente utilizzato per prodotti o servizi “non affini”,
se chi lo usa trarrebbe indebito vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza
del segno anteriore, o recherebbe pregiudizio agli stessi.

Il difetto dei requisiti fin qui esposti comporta la nullità del marchio che può
riguardare anche solo parte dei prodotti o servizi per i quali è stato registrato.

Esistono però 2 eccezioni:


1. La nullità del marchio per difetto di novità non può essere più dichiarata quando
chi ha richiesto la registrazione non era in mala fede ed il titolare del marchio
anteriore ne abbia tollerato l’uso per 5 anni. È questo l’istituto della convalida del
marchio che comporta in ogni caso la coesistenza dei 2 marchi confondibili;
2. La nullità del marchio per difetto di ORIGINALITA’ non può essere dichiarata nel
caso di sopravvenuta SECONDARY MEANING.

 Il marchio registrato:

Il titolare di un marchio, rispondente ai requisiti di validità indicati nel paragrafo


precedente, ha diritto all’uso esclusivo del marchio prescelto. Il contenuto del diritto
sul marchio e la relativa tutela sono sensibilmente diversi a seconda che il marchio sia
stato o meno registrato presso l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi.

Il marchio registrato può essere ottenuto non solo dall’imprenditore che intende
utilizzarlo ma anche da chi si proponga di utilizzarlo in altre imprese di cui abbia il
controllo. La registrazione attribuisce al titolare del marchio il diritto all’uso esclusivo
dello stesso su tutto il territorio nazionale, quale che sia l’effettiva diffusione
territoriale dei suoi prodotti. Il diritto di esclusiva sul marchio registrato copre non
solo i prodotti identici, ma anche quelli affini, qualora possa determinarsi un rischio di
confusione per il pubblico. Vale a dire, tutti i prodotti in fatto destinati alla stessa
clientela (ed es. frigoriferi e lavatrici) o al soddisfacimento di bisogni identici o
complementari (ad es. prodotti caseari e conserve alimentari). La tutela del marchio
registrato contro l’altrui usurpazione o contraffazione non impedisce però che l’altro
imprenditore registri o usi lo stesso marchio per prodotti diversi.

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La rigorosa applicazione di tale regola può tuttavia dar luogo a conseguenze


particolarmente gravi (per il titolare del marchio e per il pubblico) quando si tratti di
MARCHI CELEBRI, dotati di forte capacità attrattiva e suggestiva (ad es. Cartier, coca
cola, marlboro…). L’uso di tali marchi da parte di altri imprenditori, anche per merci
del tutto diverse, oltre a costituire “usurpazione” dell’altrui fama, può facilmente
determinare equivoci sulla reale fonte di produzione, per la spontanea tendenza a
riferire qualsiasi prodotto contrassegnato da un marchio celebre allo stesso
fabbricante. Da tempo era perciò avvertita l’esigenza di estendere l’ambito di tutela
dei marchi celebri impedendo l’uso degli stessi anche per prodotti non affini; ed il
problema oggi trova espressa soluzione legislativa -> con una riforma del 1992, la
tutela dei marchi celebri è stata infatti svincolata dal criterio dell’affinità
merceologica. Con la riforma del ’92 il titolare di un marchio registrato, che gode
dello stato di rinomanza, può vietare ai terzi di usare un marchio identico o simile al
proprio per prodotti o servizi non affini quando tale uso “consente di trarre
indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca
pregiudizio agli stessi”.

DECORRENZA: Il diritto di esclusiva sul marchio registrato decorre dalla data di


presentazione della relativa domanda all’Ufficio Brevetti. Il titolare di un marchio
registrato è tutelato ancor prima che inizi ad utilizzare il marchio stesso e quindi
anche nella fase di lancio pubblicitario di un nuovo prodotto. Una volta presentata la
domanda di registrazione ogni marchio uguale o simile è ex lege nullo per difetto del
requisito di NOVITA’. La registrazione nazionale è presupposto per poter estendere la
tutela del marchio in ambito internazionale. Per il marchio comunitario, la
registrazione è indipendente da quella nazionale.

DURATA: La registrazione Nazionale dura 10 anni. E’ però rinnovabile per un numero


illimitato di volte, sempre con efficacia decennale. La registrazione assicura una tutela
perpetua, salvo che non sia successivamente dichiarata la nullità del marchio per
difetto di uno dei requisiti essenziali o non sopravvenga causa di decadenza.

Dal marchio si DECADE per:


 VOLGARIZZAZIONE: si ha quando il marchio è divenuto nel commercio
denominazione generica di quel dato prodotto perdendo la propria capacità distintiva
(es. aspirina, cellophane, biro, nylon ecc…);
 SOPRAVVENUTA INGANNEVOLEZZA dello stesso;
 MANCATA UTILIZZAZIONE entro 5 anni dalla registrazione o se l’utilizzazione è
stata sospesa per egual periodo.

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AZIONE DI CONTRAFFAZIONE (difesa del marchio): il marchio registrato è tutelato


civilmente e penalmente. In particolare, il titolare del marchio, il cui diritto di
esclusiva sia stato leso da un concorrente, può promuovere contro questi l’azione di
contraffazione, volta ad ottenere l’INIBITORIA alla continuazione degli atti lesivi del
proprio diritto e la rimozione degli effetti degli stessi, attraverso la distruzione delle
cose materiali (etichette, cartelloni pubblicitari…) per mezzo delle quali è stata attuata
la contraffazione. Resta fermo il diritto del titolare del marchio al risarcimento dei
danni se sussiste dolo o colpa del contraffattore.

 Il marchio di fatto (Marchio non registrato):

L’ordinamento tutela anche chi usi un marchio senza registrarlo (tutela minore di
quella di cui gode il marchio registrato): secondo l’art. 2571 “chi ha fatto uso di un
marchio non registrato ha la facoltà di continuare ad usarne, nonostante la
registrazione da altri ottenuta, nei limiti in cui anteriormente se ne è avvalso”.
La tutela del diritto di esclusiva sul marchio non registrato si fonda perciò sull’USO DI
FATTO dello stesso e sull’effettivo grado di notorietà raggiunto.

NOTORIETA’ NAZIONALE: Il titolare di un marchio non registrato, diventato noto sul il


territorio nazionale, potrà impedire che altri usi in fatto lo stesso marchio per gli
stessi prodotti, ma non per prodotti affini. Può ottenere che sia dichiarato nullo, per
difetto del requisito di novità, un marchio confondibile successivamente registrato.

NOTORIETA’ LOCALE: il titolare di un marchio non registrato con notorietà locale non
potrà impedire che altro imprenditore usi di fatto lo stesso marchio per gli stessi
prodotti in altra zona del territorio nazionale. Non potrà inoltre impedire che un
concorrente registri validamente lo stesso marchio ed in questo caso potrà solo
continuare ad usare il proprio marchio nei limiti della diffusione locale.

 Il trasferimento del marchio:

Il marchio è TRASFERIBILE, e può essere trasferito sia a titolo definitivo sia a titolo
temporaneo (c.d. LICENZA di MARCHIO). Il marchio può essere trasferito o concesso
in licenza, per tutti o per parte dei prodotti per i quali è stato registrato, senza che sia
necessario il contemporaneo trasferimento dell’azienda o del corrispondente ramo
produttivo. Resta però ferma la regola che il trasferimento del marchio non costituito
dalla ditta originaria si presume quando è trasferita l’azienda.

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LICENZA DI MARCHIO NON ESCLUSIVA: Uno stesso marchio può essere


contemporaneamente utilizzato dal titolare originario e da uno o più concessionari,
sia per la totalità sia per una parte dei prodotti per i quali il marchio è stato registrato.
E’ quindi consentito che, in base ad accordi contrattuali, vengano immessi sul mercato
prodotti dello stesso genere contraddistinti dallo stesso marchio, ma con diversa
fonte di provenienza. Il legislatore si preoccupa di prevenire e reprimere i pericoli di
inganno per il pubblico cui può dar luogo la libera circolazione del marchio e
soprattutto la licenza non esclusiva. La licenza non esclusiva è subordinata alla
condizione che il licenziatario si obblighi ad utilizzare il marchio per prodotti con
caratteristiche qualitative uguali a quelle dei corrispondenti prodotti messi in
commercio dal concedente o dagli altri licenziatari, pena la decadenza del marchio.

C. L’INSEGNA:

 Nozione e disciplina:

La disciplina dell’insegna si esaurisce nell’art. 2568, che dichiara applicabile alla


stessa il 1° comma dell’art. 2564. L’insegna contraddistingue i locali dell’impresa.
L’insegna non può essere uguale o simile a quella già utilizzata da altro imprenditore
concorrente, con conseguente obbligo di differenziazione (novità) qualora possa
generare confusione nel pubblico. Pur nel silenzio della disciplina specifica, saranno
applicabili i principi base ricavabili dalla disciplina della ditta e del marchio.

L’INSEGNA dovrà quindi :


 essere lecita;
 Non dovrà contenere indicazione idonee a trarre in inganno il pubblico circa
l’attività o i prodotti (VERIDICITA’);
 Dovrà avere sufficiente capacità distintiva (ORIGINALITA’).

Per quanto riguarda il TRASFERIMENTO dell’insegna vale la stessa disciplina applicata


al marchio, quindi l’insegna può essere trasferita.

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CAP.7: OPERE DELL’INGEGNO. INVENZIONI INDUSTRIALI.

1. Le creazioni intellettuali.

La poesia, il romanzo, la canzone, il film sono opere dell’ingegno.


Opere che non vanno confuse con il loro mezzo materiale di trasmissione: il libro, il
disco, la pellicola cinematografica, il televisore. La stampa del libro, la fabbricazione
del disco, della radio, del televisore, a loro volta, sono state rese possibili da altre
creazioni dell’intelletto umano nel campo della tecnica (le invenzioni industriali).

DISTINZIONI LEGISLATIVE: Le opere dell’ingegno (idee creative nel campo culturale)


e le invenzioni industriali (idee creative nel campo della tecnica) costituiscono le 2
grandi categorie di creazioni intellettuali regolate dal nostro ordinamento.
Le opere dell’ingegno formano oggetto del diritto d’autore, regolato dal codice civile
e dalla legge 633 del 1941.
Le invenzioni industriali possono formare oggetto, a seconda dello specifico
contenuto, del brevetto per invenzioni industriali, del brevetto per modelli di utilità
oppure della registrazione per disegni e modelli. Istituti regolati dal codice civile e
soprattutto dal codice della proprietà industriale.
Diritto d’autore e brevetti formano anche oggetto di una disciplina internazionale,
che integra ed estende la protezione offerta dalle singole legislazioni nazionali. Opere
dell’ingegno e invenzioni industriali non fanno parte del diritto delle imprese perché
chiunque ne può essere autore. Lo sfruttamento economico di esse avviene tramite
le imprese, per tale motivo il codice colloca la disciplina nel Libro V.

2. Principi ispiratori della disciplina.

La disciplina legislative delle creazioni intellettuali si fonda su identici principi


ispiratori, principi che tendono a realizzare un equilibrio tra due esigenze opposte:

1. promuovere e incentivare l’attività creativa dei privati in quanto fattore


insopprimibile di sviluppo culturale e tecnologico -> obiettivo perseguito
riconoscendo all’autore o all’inventore il diritto esclusivo di sfruttamento economico
dell’opera o dell’invenzione direttamente o mediante cessione ai terzi (c.d. diritto di
privativa  equiparato al diritto di proprietà).

2. consentire che tutti possano fruire del progresso raggiunto -> obiettivo perseguito
escludendo che una posizione di esclusiva possa essere riconosciuta rispetto a talune
creazioni intellettuali particolarmente significative per la collettività.

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Campobasso G. F., Diritto commerciale – 1. Diritto dell’impresa, UTET giuridica

Opere dell’ingegno -> il diritto d’autore si acquista per il solo fatto della creazione.
Invenzioni industriali -> il diritto di esclusiva sorge in seguito alla loro brevettazione.
Essa serve a rendere di pubblico dominio il contenuto dell’invenzione stessa.
Il diritto di esclusiva è limitato nel tempo. Dura fino a 70 anni dopo la morte
dell’autore per le opere dell’ingegno; 20, 10 e 5 anni dalla domanda di brevetto,
rispettivamente per invenzioni industriali, per i modelli di utilità e per i disegni e
modelli. Decorsi questi periodi, l’opera dell’ingegno è liberamente riproducibile e
l’invenzione liberamente sfruttabile. L’invenzione deve essere attuata nel territorio
dello Stato in misura tale da non risultare in grave sproporzione con i bisogni del
Paese. In definitiva, il diritto patrimoniale su una creazione intellettuale è un diritto
funzionale e limitato. Si parla di proprietà “letteraria”, “artistica”, “industriale”, per
scolpire il particolare atteggiarsi del diritto di proprietà su tali beni.

A. IL DIRITTO D’AUTORE.

3. Oggetto e contenuto del diritto d’autore.

Il diritto d’autore è disciplinato dagli artt. 2575-2583 c.c. e dalla legge n. 633/1941,
più volte modificata negli ultimi anni per adeguarla all’evoluzione tecnologica e per
dare attuazione alle direttive comunitarie e agli accordi internazionali.
Formano oggetto del diritto d’autore le opere dell’ingegno scientifiche, letterarie,
musicali, figurative, architettoniche, teatrali e cinematografiche, qualunque ne sia il
modo e la forma di espressione (romanzi, poesie, canzoni, quadri, sculture…).

ORIGINALITA’: Tali opere sono protette indipendentemente dal loro pregio,


dall’utilità pratica [ed anche se illegali o immorali (es. film pornografico)]. Unica
condizione richiesta è che l’opera deve avere “carattere creativo”, cioè presenti un
minimo di originalità oggettiva rispetto a preesistenti opere del medesimo genere.

ACQUISTO DEL DIRITTO: Fatto costitutivo del diritto d’autore è la creazione


dell’opera. Non è necessario che l’opera sia st divulgata fra il pubblico. Ad esempio, il
romanziere è tutelato dal momento in cui fissa le sue idee (in forma sufficientemente
compiuta) sulla carta o sul registratore.

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Il diritto d’autore gode di tutela morale e patrimoniale. Si distingue quindi tra:

- diritto morale di autore: l’autore ha il diritto di rivendicare nei confronti di chiunque


la paternità dell’opera; di decidere se pubblicarla o meno; di pubblicarla con il
proprio nome o in anonimo; di opporsi a modificazioni o deformazioni dell’opera;
può ritirare l’opera dal commercio quando ricorrono gravi ragioni morali. Tali diritti,
in quanto disposti a tutela della personalità dell’autore, sono irrinunciabili,
inalienabili, non si perdono con la cessione dei diritti patrimoniali e possono essere
esercitati dai congiunti dopo la morte dell’autore.

- diritto patrimoniale di autore: l’autore ha il diritto di utilizzazione economica


esclusiva dell’opera in ogni forma e modo, originale o derivato.
Diversamente dal diritto morale, il diritto patrimoniale d’autore ha durata limitata ->
si estingue in 70 anni dopo la morte dell’autore.

L’opera dell’ingegno può essere frutto dell’attività creativa di una sola persona e in tal
caso il diritto morale e patrimoniale d’autore è acquistato a titolo originario
dall’autore stesso, anche se l’opera è stata realizzata su commissione o in esecuzione
di un rapporto di lavoro subordinato.

E’ frequente che l’opera sia frutto della collaborazione di più persone:


- OPERA COLLETTIVA: opera costituita da più contributi autonomi e separabili
organizzati in forma unitaria da un direttore o da un coordinatore.
Autore di tale opera è considerato il direttore o il coordinatore; i diritti di
sfruttamento economico spettano all’editore; ai singoli autori è riconosciuto il diritto
d’autore sulla propria parte (es. articolo di giornale, voce dell’enciclopedia).
- OPERA IN COLLABORAZIONE: opera composta da contributi omogenei, non
distinguibili e non divisibili (es. manuale scritto da due autori senza specificazione
delle parti). Tali opere cadono in regime di comunione fra i coautori. Ogni autore può
tutelare autonomamente il diritto morale; per pubblicare o modificare l’opera già
pubblicata è necessario l’accordo di tutti.
- OPERA COMPOSTA: opera costituita da contributi eterogenei e distinti ma che
danno vita a opera funzionalmente unitaria e indivisibile (es. opere liriche, operette,
balletti). Anche tali opere cadono in regime di comunione. Sono legislativamente
individuati sia il soggetto cui è riservato l’esercizio del diritto di utilizzazione
economica dell’opera complessiva, sia la quota parte di ciascuno dei proventi.

Diritti connessi o affini al diritto d’autore sono poi riconosciuti a determinate


categorie di soggetti: produttori di dischi, attori, cantanti. A tali soggetti in genere è
riconosciuto il diritto ad un equo compenso da parte di chiunque utilizzi, in qualsiasi
modo ed anche senza scopo di lucro, la loro opera creativa o interpretativa.
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4.Trasferimento del diritto di utilizzazione economica. Tutela.

Il diritto di utilizzazione economica dell’opera dell’ingegno è trasferibile,


unitariamente o nelle sue singole manifestazioni, sia tra vivi che a causa di morte.

I contratti utilizzati per lo sfruttamento economico di un’opera dell’ingegno sono:


- il contratto di edizione: col contratto di edizione, l’autore concede in esclusiva ad un
editore l’esercizio del diritto di pubblicare per la stampa l’opera, per conto e a spese
dell’editore stesso. L’editore, a sua volta, si obbliga a stampare, a mettere in
commercio l’opera e a corrispondere all’autore il compenso pattuito.
Il contratto può riguardare anche un’opera non ancora creata e può sia prevedere un
numero determinato di edizioni, sia lasciare all’editore la facoltà di eseguire le
edizioni che riterrà necessarie. In entrambi i casi, salvo eccezioni, la durata del
contratto non può eccedere i 20 anni.

- il contratto di rappresentazione e di esecuzione: col contratto di rappresentazione


e di esecuzione, l’autore cede, di regola non in esclusiva, il solo diritto di
rappresentazione in pubblico di opere destinate a tal fine (drammatiche,
coreografiche, musicali) o di eseguire in pubblico una composizione musicale.
L’altra parte si obbliga a provvedervi a proprie spese. La disciplina di tale contratto
ricalca, con i necessari adattamenti, quella del contratto di edizione.

DIFESA DEL DIRITTO D’AUTORE: Il diritto d’autore è protetto con sanzioni civili,
amministrative pecuniarie e penali a carico di chi ponga in essere comportamenti
lesivi. Il titolare di uno dei diritti di utilizzazione economica e il titolare del diritto
morale (eventualmente diverso dal primo) che temono la violazione del proprio
diritto possono adire l’autorità giudiziaria per chiedere l’accertamento del proprio
diritto e l’inibizione della violazione temuta o in atto. In questo secondo caso è
possibile chiedere che vengano applicate le sanzioni tipiche della distruzione e della
rimozione di quanto è stato strumento materiale della lesione, salvo in ogni caso il
diritto al risarcimento dei danni subiti.

TUTELA INTERNAZIONALE: Le opere dell’ingegno godono, in principio, di una


protezione circoscritta al territorio nazionale e sono esposte alla concorrente
utilizzazione abusiva da parte di terzi in altri Stati. Tale pericolo ha sollecitato accordi
internazionali volti ad estendere l’ambito territoriale di tutela del diritto di autore e
l’Italia ha aderito alle 2 principali Convenzioni internazionali in materia, entrambe
risalenti al 1971).

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Campobasso G. F., Diritto commerciale – 1. Diritto dell’impresa, UTET giuridica

B. LE INVENZIONI INDUSTRIALI.

5.Oggetto e requisiti di validità.

Le invenzioni industriali sono disciplinate dagli artt. 2584-2591 c.c. e dal codice della
proprietà industriale. Le invenzioni industriali sono idee creative che appartengono al
campo della tecnica. Esse consistono nella soluzione originale di un problema
tecnico. Netta è perciò la distinzione rispetto alle opere dell’ingegno (tutelate dal
diritto d’autore), dalle quali le invenzioni industriali si differenziano anche per il
diverso modo di acquisto del diritto di utilizzazione economica: la concessione del
corrispondente brevetto da parte dell’ufficio italiano brevetti e marchi.

TIPOLOGIA: Possono formare oggetto di brevetto per invenzione industriale le idee


inventive di maggior rilievo tecnologico, esse possono essere distinte in 3 categorie:
1.invenzioni di prodotto, che hanno per oggetto un nuovo prodotto materiale (es.
macchina, composto chimico);
2.invenzioni di procedimento, che possono consistere in un nuovo metodo di
produzione di beni già noti, in un nuovo processo di lavorazione industriale, in un
nuovo dispositivo meccanico;
3.invenzioni derivate, che si presentano come derivazione di una precedente
invenzione. Esse possono consistere: nell’ingegnosa combinazione di invenzioni
precedenti in modo da ricavarne un trovato tecnicamente nuovo (invenzione di
combinazione); nel migliorare una invenzione precedente modificandola (invenzione
di perfezionamento); in una nuova utilizzazione di una sostanza o di una
composizione di sostanze già conosciute (invenzione di traslazione).

ESCLUSIONI: NON sono considerate invenzioni (=> tutti ne possono liberamente


fruire): le scoperte, le teorie scientifiche, i metodi matematici; i piani, i principi e i
metodi per attività intellettuali, per gioco o per attività commerciali e i programmi di
elaboratori; le presentazioni di informazioni. Quindi NON può essere oggetto di
brevetto ciò che già esiste in natura e l’uomo si limita a percepire (es. scoperta
dell’atomo) oppure una nuova teoria (es. teoria della relatività di Einstein).

REQUISITI: I trovati che non ricadono in uno di questi divieti, per poter formare
oggetto di brevetto, devono rispondere a determinati requisiti:
- leciti; - nuovi: è nuova l’invenzione che non è compresa nello stato della tecnica
(per stato della tecnica s’intende tutto ciò che è accessibile al pubblico, in Italia o
all’estero, prima della data di deposito della domanda di brevetto). In sostanza,
manca del requisito della novità l’invenzione già divulgata; - devono implicare
un’attività inventiva: L’invenzione implica attività inventiva se per una persona
esperta del ramo, essa non risulta in modo evidente dallo stato della tecnica.
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Si prescinde quindi da ogni valutazione del grado di progresso che l’invenzione


realizza, purchè il trovato sia espressione di attività creativa. E’ invenzione anche un
piccolo progresso tecnico (ad es. la semplificazione costruttiva di una macchina che
ne riduce il costo di fabbricazione) purchè non conseguibile da un tecnico medio del
ramo facendo ricorso alle sue ordinarie capacità e conoscenze; - devono essere
idonei ad avere un’applicazione industriale: il trovato deve poter essere fabbricato o
utilizzato in qualsiasi genere di industria, compresa quella agricola. NON sono
brevettabili come invenzioni le conoscenze non sfruttabili industrialmente.

6. Il diritto al brevetto.

L’inventore ha diritto ad essere riconosciuto autore dell’invenzione e tale diritto


morale si acquista per il solo fatto dell’invenzione. Egli ha anche il diritto, trasferibile,
di conseguire il brevetto (c.d. diritto al brevetto), che ha funzione costitutiva ai fini
dell’acquisto del diritto all’utilizzazione economica in esclusiva del trovato (c.d. diritto
sul brevetto). Non sempre l’autore dell’invenzione coincide con il soggetto
legittimato a richiedere il brevetto e a sfruttarlo economicamente. Il lavoratore ha
sempre diritto ad essere riconosciuto autore dell’invenzione fatta nello svolgimento
del rapporto di lavoro.
L’attribuzione dei diritti patrimoniali derivanti è regolata secondo una triplice
tipologia:
a) INVENZIONE DI SERVIZIO: l’attività inventiva è prevista dal contratto o rapporto di
lavoro, che prevede una specifica retribuzione per tale attività (es. gli addetti agli
uffici ricerca e progettazione della grande industria). Le invenzioni realizzate
appartengono al datore di lavoro che acquista titolo originario e diritto di chiedere e
sfruttare il brevetto. Al lavoratore nulla è dovuto per i risultati raggiunti.
b) INVENZIONE AZIENDALE: è fatta nello svolgimento di un rapporto di lavoro, ma
non è prevista alcuna retribuzione per l’attività inventiva. I diritti patrimoniali sorgono
in capo al datore di lavoro e il lavoratore ha diritto ad un equo premio.
c) INVENZIONE OCCASIONE: l’invenzione rientra nel “campo di attività” dell’impresa
cui l’inventore è addetto ma è indipendente da contratto o dal rapporto di lavoro. I
diritti patrimoniali spettano al lavoratore il quale sarà l’unico a poterne chiedere il
brevetto. Il datore di lavoro ha diritto di prelazione per l’uso dell’invenzione, per
acquisto del brevetto e per la brevettazione all’estero della stessa invenzione.

Queste distinzioni, applicabili anche ai pubblici dipendenti, vengono meno quando il


rapporto di lavoro intercorre con un’università o altra istituzione pubblica di ricerca.
In tal caso titolare esclusivo dei diritti derivanti dall’invenzione brevettabile è sempre
il ricercatore autore dell’invenzione e solo lui può chiedere il brevetto. All’università o
alla pubblica amministrazione interessata spetta solo una partecipazione ai proventi
dello sfruttamento dell’invenzione.
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7. L’invenzione brevettata

Il brevetto per invenzione industriale è emesso dall’Ufficio italiano brevetti e marchi,


sulla base di una domanda corredata (a pena di nullità) dalla descrizione
dell’invenzione in modo sufficientemente chiaro e completo perché ogni persona
esperta del ramo possa attuarla. Ogni domanda può avere ad oggetto una sola
invenzione e deve specificare ciò che si intende debba formare oggetto del brevetto.
L’ufficio brevetti è tenuto ad accertare la regolarità formale della domanda, la liceità
e che l’invenzione abbia un oggetto per cui è consentita la brevettazione.
Contro le decisioni dell’Ufficio centrale l’interessato può ricorrere all’apposita
Commissione dei ricorsi.

DURATA: Il brevetto per invenzioni industriali dura 20 anni dalla data di deposito
della domanda e non c’è possibilità di rinnovo. Il diritto di esclusiva si può perdere
prima della scadenza qualora sia dichiarata la nullità del brevetto o sopravvenga una
causa di decadenza, quale, ad es., la mancata attuazione dell’invenzione brevettata.

DIRITTO DI ESCLUSIVA: Il brevetto conferisce al suo titolare la facoltà esclusiva di


attuare l’invenzione e trarne profitto nel territorio dello Stato. L’esclusiva comprende
non solo la fabbricazione, ma anche il commercio e l’importazione dei prodotti cui
l’invenzione si riferisce. L’esclusiva di commercio si esaurisce con la prima immissione
in circolazione del prodotto brevettato.

INVENZIONE DI PROCEDIMENTO: L’esclusiva sussiste nei limiti dell’invenzione


brevettata. Tuttavia, se l’invenzione riguarda un nuovo metodo o un nuovo processo
di produzione (invenzione di procedimento), l’esclusiva copre solo la messa in
commercio del prodotto identico a quello direttamente ottenuto con il nuovo metodo
o processo.

TRASFERIMENTO DEL BREVETTO: Il brevetto è liberamente trasferibile sia tra vivi sia
mortis causa, indipendentemente dal trasferimento dell’azienda. Su di esso possono
essere costituiti diritti reali di godimento o di garanzia, e lo stesso può anche formare
oggetto di esecuzione forzata e di espropriazione per pubblica utilità.

LICENZA DEL BREVETTO: Il titolare del brevetto può concedere licenza d’uso dello
stesso, con o senza esclusiva di fabbricazione a favore del licenziatario.
[La licenza di brevetto non è espressamente regolata.] La licenza di brevetto senza
esclusiva è il tipico contratto di cui si avvale la grande industria dei paesi ad alto
sviluppo tecnologico per mettere a disposizione di imprese di altri paesi i brevetti
fondamentali, dando luogo a forme di dipendenza tecnica ed economica e di
controllo monopolistico del mercato mondiale facilmente intuibili.
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TUTELA: L’invenzione brevettata è tutelata con sanzioni civili e penali. Il titolare del
brevetto e anche il licenziatario possono esercitare azione di contraffazione nei
confronti di chi sfrutti abusivamente l’invenzione. La sentenza che accerta la
contraffazione ordina l’inibitoria per il futuro della fabbricazione o dell’uso di quanto
forma oggetto del brevetto. Sono altresì previste sanzioni volte ad eliminare dal
mercato gli oggetti realizzati in violazione del brevetto: sequestro, distruzione…
Il titolare del brevetto ha in ogni caso diritto al risarcimento dei danni subiti.

8. Brevettazione internazionale. Brevetto europeo. Brevetto comunitario.

Il rilascio del brevetto per invenzione attribuisce diritto di esclusiva solo sul territorio
nazionale. L’esclusiva può essere però conseguita anche in altri Stati.

- Brevettazione internazionale: la Convenzione di Unione di Parigi per la protezione


della proprietà industriale riconosce, a chi ha richiesto il brevetto per invenzione in
uno degli Stati membri, diritto di proprietà per ciascuno degli altri paesi. L’inventore
deve presentare distinte domande per ciascun paese, egli conseguirà tanti distinti
brevetti nazionali, regolati in tutto dalle singole legislazioni, ma la novità
dell’invenzione è valutata con riferimento alla data del primo deposito nazionale. Il
Trattato di Washington ha consentito una notevole semplificazione della procedura
per il conseguimento del brevetto internazionale nei paesi aderenti a tale trattato.

- Brevetto europeo: tale brevetto è regolato dalla Convenzione di Monaco di Baviera.


Unica è la domanda, unica è la procedura ed unico è l’Ufficio che rilascia il brevetto
(Ufficio europeo dei brevetti di Monaco). Unica è la disciplina per quanto riguarda i
requisiti di brevettabilità e il procedimento di brevettazione. Il contenuto del diritto di
esclusiva regolato, in via di principio, dalle legislazioni nazionali dei Paesi in cui il
brevetto ha efficacia. Il brevetto europeo non è un brevetto unitario e autonomo. E’
un titolo equivalente ad un fascio di brevetti nazionali.

- Brevetto comunitario: è un brevetto autonomo e unitario regolato dalla


Convenzione del Lussemburgo del 1975, ma non entrata in vigore per la mancata
ratifica da parte di tutti gli Stati membri. Esso è rilasciato dall’Ufficio europeo di
Monaco, secondo le regole previste per il brevetto europeo. Esso ha carattere
sovranazionale, unitario e autonomo. Può essere rilasciato solo per tutti i paesi
dell’Unione Europea e produce gli stessi effetti in tutti i paesi aderenti alla
convenzione. Inoltre, la concessione del brevetto comunitario comporta la cessazione
degli effetti degli eventuali brevetti nazionali per la stessa invenzione.

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9. L’invenzione non brevettata.

L’inventore può anche non brevettare il proprio trovato e sfruttarlo in segreto. Corre
però il rischio che altri pervenga al medesimo risultato inventivo, lo brevetti e acquisti
il diritto di esclusiva.
E’ riconosciuta una limitata tutela anche a chi ha utilizzato un’invenzione senza
brevettarla. E’ previsto che chiunque, inventore o terzo avente causa, ha fatto uso
dell’invenzione nella propria azienda, nei 12 mesi anteriori al deposito dell’altrui
domanda di brevetto, può continuare a sfruttare l’invenzione stessa nel limiti del
preuso. Il preutente può altresì trasferire tale facoltà, ma solo insieme all’azienda in
cui l’invenzione è utilizzata, restando a suo carico la prova del preuso e dell’ampiezza
dello stesso. Si vuole tutelare chi in buona fede ha già dato attuazione all’invenzione.
Tale tutela minima opererà peraltro nel caso di preuso segreto, la cui abusiva
violazione configura anche atto di concorrenza sleale. Se invece l’inventore o il
preutente hanno divulgato l’invenzione, il successivo brevetto difetterà del requisito
della novità e quindi potrà essere esperita azione di nullità dello stesso. Dichiarato
nullo il brevetto, chiunque potrà liberamente sfruttare l’invenzione.

C. I MODELLI INDUSTRIALI.

10. Modelli di utilità.

I modelli industriali sono creazioni intellettuali applicate all’industria di minor rilievo


rispetto alle invenzioni industriali. Essi sono disciplinati dagli artt. 2592-2594 c.c. e dal
codice della proprietà industriale.
I modelli industriali sono distinti in: a) modelli di utilità e b) disegni e modelli.
- I modelli di utilità sono nuovi trovati destinati a conferire particolare funzionalità a
macchine, strumenti, utensili o oggetti d’uso (es. una nuova forma di poltrona da
dentista che ne aumenti la comodità).
- I disegni e modelli sono invece nuove idee destinate a migliorare l’aspetto (forma,
linea, colore, contorni) dei prodotti industriali. E’ questo il vasto campo dell’industrial
design (originale disegno di un tessuto, originale forma di una TV).
I modelli industriali riguardano, in sostanza, la foggia funzionale (modelli di utilità) o
estetica (disegni e modelli) dei prodotti. Distinguere tra due tipi di modelli industriali
non è sempre facile, ad esempio, una nuova forma di paraurti per l’automobile può
essere al tempo stesso funzionale esteticamente apprezzabile. In tal caso il
legislatore permette di godere delle due tutele.

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DISCIPLINA: La tutela dei modelli industriali si fonda sull’istituto della brevettazione


e, per esplicito riferimento normativo, in materia trova applicazione larga parte della
disciplina delle invenzioni industriali, anche se i requisiti della novità e dell’originalità
vanno ovviamente adattati allo specifico minor rilievo dell’idea creativa.
Il punto più significativo di differenziazione rispetto alle invenzioni industriali riguarda
la durata del brevetto: 10 anni per i modelli di utilità, rispetto ai 20 anni delle
invenzioni industriali.
La concessione dell’uno esclude la concedibilità dell’altro.
L’invenzione dà vita alla creazione di un nuovo prodotto o di un nuovo procedimento;
il modello invece presuppone un prodotto già esistente al quale apporta solo
particolare efficacia o comodità d’impiego.

11. Disegni e modelli.

La tutela dei disegni e modelli (oggi estesa anche ai componenti destinati ad essere
assemblati in un prodotto complesso, ad es., pezzi di ricambio di automobili) avviene
mediante registrazione presso l’Ufficio Italiano brevetti e marchi, che è subordinata al
ricorrere dei requisiti della novità e del carattere individuale. Cioè, il disegno o
modello da registrare non deve essere identico ad un disegno o modello già divulgato
in precedenza e deve suscitare nell’utilizzatore informato un’impressione generale
diversa da quella suscitata da qualsiasi altro disegno o modello precedentemente
divulgato. Non possono essere registrati disegni o modelli contrari all’ordine pubblico
o al buon costume. La registrazione dura 5 anni dalla domanda, ma può essere
prorogata per periodi di cinque anni, fino ad un massino di 25 anni. La registrazione
di un disegno o di un modello conferisce al titolare il diritto esclusivo di utilizzarlo e di
vietare ai terzi di usarlo senza il suo consenso. Disegni e modelli sono anche tutelati
dal diritto d’autore quando presentino carattere creativo e valore artistico.

DISEGNI E MODELLI COMUNITARI: Ai disegni e modelli nazionali si sono di recente


affiancati i disegni e modelli comunitari, i quali ricevono una protezione autonoma ed
unitaria, estesa a tutti gli Stati membri dell’unione europea, dal Regolamento Ce
6/2002 del 2001. La relativa disciplina è in larga parte coincidente con la nostra legge
e si basa sulla registrazione del modello o disegno presso l’Ufficio per
l’armonizzazione nel mercato interno. A differenza della nostra legge, il regolamento
CE 6/2002 riconosce però una limitata e provvisoria tutela anche ai disegni e modelli
non registrati. Il disegno o modello che possieda i requisiti di novità e di carattere
individuale è infatti protetto come disegno o modello comunitario non registrato per
un periodo di 3 anni dalla data in cui lo stesso è stato divulgato al pubblico per la
prima volta nella Comunità, consentendo al suo titolare di vietarne l’imitazione
pedissequa da parte di terzi.

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CAP. 8: LA DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA


 Concorrenza perfetta e monopolio:

MODELLO IDEALE DI MERCATO (c.d. CONCORRENZA PERFETTA): Contemporanea


presenza sul mercato di una pluralità di operatori economici in competizione fra loro,
nessuna delle quali sia singolarmente in grado di condizionare il prezzo delle merci
vendute. Piena mobilità dei fattori produttivi e corrispondente piena mobilità della
domanda da parte dei consumatori, liberi di orientare le proprie scelte verso i
prodotti più convenienti per qualità e prezzo. Assenza di ostacoli all’ingresso di nuovi
operatori in ogni settore della produzione e della distribuzione, nonché di accordi fra
le imprese che falsino la libertà di competizione economica. E’ questo il modello
ideale di funzionamento del mercato teorizzato dagli economisti: la cosiddetta
concorrenza perfetta. Modello ideale e perfetto in quanto la concorrenza spinge verso
una generale riduzione sia dei costi di produzione sia dei prezzi di vendita. Tuttavia,
questo è solo un modello IDEALE e TEORICO di funzionamento del mercato. La realtà
è spesso radicalmente diversa. Infatti la non omogenea distribuzione territoriale delle
risorse naturali, gli ingenti investimenti di capitali richiesti dalla moderna produzione
industriale di massa, la scarsa mobilità della mano d’opera, l’impossibilità in certi
settori di produrre a costi competitivi se non si raggiungono dimensioni aziendali
cospicue, sono tutti fattori che limitano la libertà di accesso al mercato di nuovi
operatori e spingono le imprese già operanti ad accrescere le proprie dimensioni, a
concentrarsi ed a collegarsi.
Le imprese dedite alla produzione industriale di massa diventano perciò sempre
meno numerose e sempre più grandi dando così vita in taluni settori a situazioni di
oligopolio (mercato caratterizzato dal controllo dell’offerta da parte di poche grandi
imprese). Si può anche arrivare al punto in cui tutta l’offerta di un dato prodotto è
controllata da una sola impresa o da poche grandi imprese coalizzate (c.d. monopolio
di fatto), arbitre di fissare a piacimento il relativo prezzo e di conseguire elevati
margini di profitto a scapito degli interessi generali della collettività.

=> differenza tra “modello utopico” (della piena e perfetta concorrenza) e “realtà”
(orientata verso situazioni di oligopolio o di monopolio).

L’art. 2595 c.c. dispone che “la concorrenza deve svolgersi in modo da non ledere gli
interessi dell’economia nazionale”, mentre l’art. 41 cost. ribadisce che l’iniziativa
economica privata è si libera, ma “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale”.

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DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA:


Fissato il principio guida della libertà di concorrenza, il legislatore italiano:

 Consente limitazioni legali della stessa per fini di “utilità sociale” ad anche la
creazione di monopoli legali in specifici settori di interesse generale;

 Ricollega alla stipulazione di determinati contratti divieti di concorrenza fra le parti,


finalizzati al corretto svolgimento del rapporto cui accedono ed alla tutela degli
interessi patrimoniali del beneficiario del divieto stesso;

 Consente limitazioni negoziali della concorrenza, ma ne subordina nel contempo la


validità al rispetto di condizioni che non comportino un radicale sacrificio della
libertà d’iniziativa economica attuale e futura;

 Assicura l’ordinato e corretto svolgimento della concorrenza attraverso la


repressione degli atti di concorrenza sleale.

UNA VISTOSA LACUNA COLMATA: Per lungo tempo il sistema italiano della
concorrenza si era contraddistinto per una vistosa lacuna: la mancanza di una
normativa antimonopolistica. A partire dalla metà degli anni ‘50 tale lacuna è stata
parzialmente colmata dalla diretta applicabilità nel nostro ordinamento della
disciplina antitrust dettata dai Trattati istitutivi della Comunità Economica Europea.
Questa normativa, però, consentiva e consente di colpire solo le pratiche che possono
pregiudicare il regime concorrenziale del mercato comune europeo, non quelle che
incidono esclusivamente sul mercato italiano. Da qui l’esigenza di colmare tale vuoto
affiancando alla normativa comunitaria una normativa antimonopolistica nazionale.
Tale vuoto è stato colmato dalla LEGGE 287/1990, recante norme per la tutela della
concorrenza e del mercato e che ha introdotto una disciplina antimonopolistica
nazionale a carattere generale.

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A. LA LEGISLAZIONE ANTIMONOPOLISTICA:

 La disciplina Italiana e comunitaria:

PRINCIPIO CARDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMONOPOLISTICA DELL’UNIONE


EUROPEA: la libertà d’iniziativa economica e la competizione fra imprese non
possono tradursi in atti e comportamenti che pregiudicano in modo rilevante e
durevole la struttura concorrenziale del mercato. Questa disciplina è volta a
preservare il regime concorrenziale del mercato comunitario e a reprimere le pratiche
anticoncorrenziali che pregiudicano il commercio fra gli Stati membri.

DISCIPLINA ITALIANA: Lo stesso principio viene recepito dalla legislazione italiana,


grazie alla legge 287/90 (ANTITRUST) volta a preservare il regime concorrenziale del
mercato nazionale e a reprimere i comportamenti anticoncorrenziali (intese, abuso di
posizione dominante e concentrazioni) che incidono esclusivamente sul mercato
italiano. Questa legge ha istituito un apposito organo pubblico indipendente,
l’autorità garante della concorrenza e del mercato, che vigila sul rispetto della
normativa antimonopolistica generale, è investita di ampi poteri di indagine ed
ispettivi, adotta i provvedimenti antimonopolistici necessari ed irroga le sanzioni
amministrative e pecuniarie previste dalla legge. Contro i provvedimenti
amministrativi dell’autorità può essere preposto ricorso giudiziario per il quale è
competente esclusivamente il TAR LAZIO. Le azioni di nullità e di risarcimento dei
danni, nonché i ricorsi diretti ad ottenere provvedimenti di urgenza vanno invece
promossi dinnanzi alla CORTE DI APPELLO competente per territorio. Si omette quindi
il primo grado di giudizio dinnanzi al tribunale.

La disciplina italiana ha tuttavia carattere residuale: è circoscritta alle pratiche


anticoncorrenziali che hanno rilievo esclusivamente locale e che non incidono sulla
concorrenza nel mercato comunitario. Queste ultime sono invece regolate solo dal
diritto comunitario della concorrenza (c.d. principio della barriera unica), per la cui
applicazione è competente la commissione Ce ed in alcuni casi la stessa autorità
garante nazionale. Oggi in Italia si prevede che siano le autorità nazionali (Autorità
garante) ad applicare la disciplina comunitaria sulle intese e sugli abusi di posizione
dominante salvo che la Commissione Ce non disponga diversamente.

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Campobasso G. F., Diritto commerciale – 1. Diritto dell’impresa, UTET giuridica

 Le singole fattispecie. Le intese restrittive della concorrenza:

I fenomeni rilevanti per la disciplina antimonopolistica nazionale e comunitaria sono:


1) Le intese restrittive della concorrenza;
2) L’abuso di posizione dominante;
3) Le concentrazioni.

1) INTESE: Sono comportamenti concordati fra imprese volti a limitare la propria


libertà di azione sul mercato. Sono considerate intese:
 Gli accordi fra imprese;
 Le deliberazioni di consorzi, di associazioni di imprese e di altri organismi similari;
 Le pratiche concordate fra imprese.

Non tutte le intese anticoncorrenziali sono però vietate. VIETATE sono solo le intese
che “abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera
consistente il gioco della concorrenza” all’interno del mercato (nazionale o
comunitario) o in una sua parte rilevante. Sono quindi lecite le cosiddette “intese
minori”, quelle intese cioè che per la struttura del mercato interessato, le
caratteristiche delle imprese operanti e gli effetti sull’andamento dell’offerta non
incidono in modo rilevante sull’assetto concorrenziale del mercato.

La legge elenca 5 tipi di intese espressamente vietate:


A) Fissare direttamente o indirettamente i prezzi di acquisto o di vendita ovvero altre
condizioni contrattuali;
B) Impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, gli
investimenti, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico;
C) Ripartire i mercati e le fonti di approvvigionamento;
D) Applicare, nei rapporti commerciali con altri contraenti, condizioni oggettivamente
diverse per prestazioni equivalenti così da determinare per essi ingiustificati svantaggi
nella concorrenza;
E) Subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte di altri contraenti
di prestazioni supplementari che non abbiano alcun rapporto con l’oggetto dei
contratti stessi.

SANZIONI: Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto. Chiunque può agire in giudizio
per farne accettare la nullità. L’Autorità accerta con apposita istruttoria le infrazioni
commesse, adotta i provvedimenti per la rimozione degli effetti anticoncorrenziali già
prodottisi ed irroga le sanzioni pecuniarie.

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ESENZIONI: il divieto di intese anticoncorrenziali rilevanti non ha però carattere


assoluto. L’Autorità può infatti concedere esenzioni temporanee purché ricorrano le
condizioni previste dalla legge. In particolare, si deve trattare di intese che migliorano
le condizioni di offerta sul mercato e producono un sostanziale beneficio per i
consumatori in termini di aumento della produzione, di miglioramento qualitativo
della stessa o della distribuzione di progresso tecnico.

2) ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTE (da parte di una o più imprese): vietato non è
il fatto in sé dell’acquisizione di una posizione dominante sul mercato (nazionale o
comunitario) o in una parte rilevante dello stesso; la circostanza cioè che un’impresa
sia in grado di esercitare un’influenza preponderante sul mercato e di agire senza
dovere tener conto delle reazioni dei concorrenti.
Vietato è solo lo sfruttamento abusivo di tale posizione dominante, individuale o
collettiva, con comportamenti capaci di pregiudicare la concorrenza effettiva.

Ad un’impresa in posizione dominante è in particolare vietato di:


- imporre prezzi o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravosi;
- impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato;
- applicare condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti.

Nella valutazione della posizione dominante gioca un ruolo decisivo l’individuazione


merceologica e geografica del mercato rilevante (comprende tutti i prodotti e/o
servizi che sono considerati interscambiabili o sostituibili dal consumatore, in ragione
delle caratteristiche, dei prezzi e dell’uso cui sono destinati i prodotti). I
comportamenti tipici che possono dar luogo ad abuso di posizione dominante sono
gli stessi delle intese. Il divieto di abuso di posizione dominante non ammette
eccezioni. Accertata l’infrazione, l’Autorità competente ne ordina la cessazione
prendendo le misure necessarie. Infligge inoltre sanzioni pecuniarie identiche a quelle
stabilite per le intese e l’Autorità italiana, in caso di reiterata inottemperanza, può
anche disporre la sospensione dell’attività dell’impresa fino a 30 gg.

È oggi vietato anche l’ABUSO DELLO STATO DI DIPENDENZA ECONOMICA nel quale si
trova un’impresa cliente o fornitrice rispetto ad una o più altre imprese anche in
posizione non dominante sul mercato. Per dipendenza economica si intende “la
situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con
un'altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi”. Il patto attraverso il
quale si realizza l’abuso di dipendenza economica è nullo ed espone al risarcimento
dei danni nei confronti dell’impresa che ha subito l’abuso. Inoltre, l’autorità garante
applica le sanzioni previste per l’abuso di posizione dominante qualora ravvisi che
l’abuso di dipendenza economica abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del
mercato.
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3) CONCENTRAZIONI: Si ha concentrazione (tra imprese) quando:


a. Due o più imprese si fondono dando così luogo ad un’unica impresa
(concentrazione giuridica);
b. Due o più imprese pur restando giuridicamente distinte, diventano un’unica entità
economica (concentrazione economica); sono cioè sottoposte con qualsiasi mezzo ad
un controllo unitario che consente di esercitare un’influenza determinante sull’attività
produttiva delle imprese controllate;
c. Due o più imprese indipendenti costituiscono un’impresa societaria comune.

In tutti questi casi, identico è il risultato economico ultimo: l’ampliamento della quota
di mercato detenuta da un’impresa, realizzato attraverso operazioni che comportano
la riduzione del numero delle imprese indipendenti operanti nel settore.

Le concentrazioni costituiscono un utile strumento di ristrutturazione aziendale e non


sono di per sé vietate in quanto rispondono all’esigenza di accrescere la competitività
delle imprese. Diventano però ILLECITE e VIETATE quando danno luogo a gravi
alterazioni del regime concorrenziale del mercato, pericolo che sussiste solo per le
concentrazioni di maggiori dimensioni.

COMUNICAZIONE PREVENTIVA DELLE OPERAZIONI DI CONCENTRAZIONE CHE


SUPERANO DETERMINATE SOGLIE DI FATTURATO: È stabilito che le operazioni di
concentrazione che superano determinate soglie di fatturato, a livello nazionale o
comunitario, devono essere preventivamente comunicate rispettivamente all’Autorità
italiana o alla Commissione Ce, al fine di valutare se esse comportano la costituzione
o il rafforzamento di una posizione dominante che elimina o riduce in modo
sostanziale e durevole la concorrenza sul mercato nazionale o comunitario. L’autorità
può vietare la concentrazione se ritiene che comporti la costituzione o il
rafforzamento di una posizione dominante con effetti distorsivi per la concorrenza
stabili e durevoli. In alternativa, può autorizzarla prescrivendo le misure necessarie
per impedire tali conseguenze. In presenza di rilevanti interessi generali dell’economia
nazionale, l’autorità può eccezionalmente autorizzare concentrazioni altrimenti
vietate, in conformità di criteri fissati preventivamente dal Governo.

SANZIONI: Se l’Autorità ritiene di dover indagare apre un’apposita istruttoria che si


deve concludere entro 45 giorni. Terminata l’istruttoria, l’Autorità può vietare la
concentrazione. Se la concentrazione è già realizzata, prescrive le misure necessarie a
ripristinare condizioni di concorrenza effettiva e ad eliminare gli effetti distorsivi; Se la
concentrazione vietata viene ugualmente eseguita o se le imprese non si adeguano a
quanto prescritto dall’autorità per eliminare gli effetti anticoncorrenziali della
concentrazione già realizzata, si hanno pesanti sanzioni pecuniarie che possono
giungere fino al 10% del fatturato delle imprese interessate.
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Campobasso G. F., Diritto commerciale – 1. Diritto dell’impresa, UTET giuridica

Non sono NULLE le operazioni svolte dalle imprese. I terzi possono richiedere il
risarcimento dei danni in via giudiziaria. L’Autorità può imporre il compimento di
operazioni inverse a quelle che hanno determinato una concentrazione vietata (es.
scissione o vendita totale o parziale della partecipazione azionaria).

B. LE LIMITAZIONI DELLA CONCORRENZA:

 Limitazioni pubblicistiche e monopoli legali:

Art. 41 Cost.: la libertà di iniziativa economica privata e la conseguente libertà di


concorrenza sono libertà disposte nell’interesse generale e non possono svolgersi “in
contrasto con l’utilità sociale e in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà ,
alla dignità umana”.
Sia la Costituzione (art. 41, 3°comma), sia il codice civile (art. 2595) consentono che
tali libertà possono essere compromesse e limitate dai pubblici poteri che devono
rispondere ai fini di utilità sociale e devono essere disposti da parte del legislatore
ordinario (principio della riserva di legge).

LIMITAZIONI DELLA LIBERTA’ DI CONCORRENZA: Molteplici sono le forme di


regolamentazione pubblicistica dell’iniziativa economica privata che si risolvono in
limiti della libertà di concorrenza:
A) I controlli sull’accesso al mercato di nuovi imprenditori sono attuati subordinando
l’esercizio di determinate attività a concessione o ad autorizzazione amministrativa
(es. imprese bancarie);
B) Ampi poteri di indirizzo e di controllo dell’attività riconosciuti alla P.A.;
C) Il CIP (Comitato interministeriale prezzi) fissa prezzi di imperio per beni e servizi
strategici o di largo consumo. Oggi sono sottoposti ad un regime di prezzi
amministrati: le fonti di energia, i medicinali, i giornali, ecc…

MONOPOLI LEGALI: L’interesse generale può legittimare la radicale soppressione


della libertà di iniziativa economica privata e di concorrenza, attraverso la costituzione
per legge di monopoli pubblici (art. 43 cost.), in settori predeterminati dalla stessa
costituzione (servizi pubblici essenziali, fonti di energia…).
L’art. 43 Cost. pone peraltro una serie di limiti, formali e sostanziali, al riconosciuto
potere statale di creare monopoli pubblici. È necessario che la riserva di attività sia
disposta con legge ordinaria e che il sacrificio della libertà di iniziativa risponda ai fini
di utilità generale. Inoltre, come già detto, sono tassativamente predeterminati dalla
costituzione i settori in cui può essere legittimamente istituito un monopolio pubblico.

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Campobasso G. F., Diritto commerciale – 1. Diritto dell’impresa, UTET giuridica

 Obbligo di contrarre del monopolista:

Quando la produzione di determinati beni o servizi è attuata in regime di monopolio


legale (sia dallo Stato o altro ente pubblico, sia da un imprenditore privato su
concessione della P.A.), il legislatore si preoccupa di tutelare gli utenti contro possibili
comportamenti arbitrari del monopolista.

L’art. 2597 c.c. pone un duplice obbligo a carico di chi opera in regime di monopolio:

- Obbligo di contrarre del monopolista con chiunque richieda le prestazioni che


formano oggetto d’impresa. L’obbligo sussiste solo per le richieste che siano
compatibili con i mezzi ordinari dell’impresa (art. 1679, 1°comma). Inoltre le richieste
dovranno essere soddisfatte secondo il loro ordine cronologico;
- Rispetto del principio della parità di trattamento fra i diversi richiedenti ->
comporta che il monopolista debba predeterminare e rendere note al pubblico le
proprie condizioni contrattuali che sono in larga parte fissate in via legislativa o
sottoposte a preventiva approvazione amministrativa, per tutelare i consumatori.

La parità di trattamento non implica che le condizioni contrattuali debbano essere


necessariamente le stesse per tutti gli utenti. Potranno anche essere previste dal
monopolista, modalità e tariffe differenziate (si pensi ai trasporti ferroviari), purché
predetermini i relativi presupposti di applicazione e ne faccia godere a chiunque si
trovi nelle condizioni richieste. Ogni altra deroga alle condizioni generali di contratto è
nulla e la singola clausola difforme è sostituita ex lege da quella prevista nelle
condizioni generali.

La disciplina fin qui esposta è riferita a chi opera in condizione di monopolio legale
(e perciò che la produzione ed il commercio di quel dato bene o servizio siano
riservati per legge ad un singolo imprenditore).

Al MONOPOLISTA DI FATTO è applicabile invece la normativa introdotta dalla legge


287/90 (antitrust): ciò consente di reprimere le pratiche discriminatorie e vessatorie
poste in essere dallo stesso nei confronti di altri imprenditori. L’ingiustificato rifiuto di
vendere i propri prodotti a determinati commercianti o l’imposizione di condizioni
vessatorie ed arbitrarie (boicottaggio) configurano un classico abuso di posizione
dominante, e come tale può essere sanzionato.

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 I divieti legali di concorrenza:

Nel codice civile si rinvengono norme che pongono a carico di soggetti legati da
particolari rapporti contrattuali l’obbligo di astenersi dal far concorrenza alla
controparte (c.d. DIVIETI LEGALI DI CONCORRENZA). Rientrano fra tali divieti:
- OBBLIGO DI FEDELTA’: a carico dei prestatori di lavoro, fa divieto agli stessi di
trattare affari in concorrenza con l’impresa fino a quando dura il rapporto di lavoro;
- DIVIETO DI ESERCITARE direttamente o indirettamente ATTIVITA’ CONCORRENTE
CON QUELLA DELLA SOCIETA’: posto a carico dei soci a responsabilità illimitata di
società di persone e degli amministratori di società di capitali;
- DIRITTO DI ESCLUSIVA RECIPROCA NEL CONTRATTO DI GARANZIA: in base al quale
né il proponente può servirsi contemporaneamente di più agenti per la stessa zona e
per lo stesso ramo di attività, né l’agente può assumere l’incarico in una stessa zona
per più imprese in concorrenza fra loro.

 Limitazioni convenzionali della concorrenza:

L’art. 2596 c.c. consente la stipulazione di accordi restrittivi della concorrenza e detta
una disciplina di carattere generale degli stessi fondata su 3 regole:
1. Il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto;
2. Il patto stesso è valido solo se circoscritto ad un determinato ambito territoriale o
ad un determinato tipo di attività (questo perché il patto non può precludere al
soggetto che si vincola lo svolgimento di ogni attività professionale);
3. Limite di durata massima di 5 anni; i patti di durata maggiore o di durata
indeterminata sono validi per lo stesso periodo.

FINALITA’: finalità esclusiva della disciplina esposta è quella di tutelare il soggetto o i


soggetti che assumono convenzionalmente l’obbligo di non concorrenza, evitando
un’eccessiva compressione della loro libertà individuale di iniziativa economica.
Le clausole limitative della concorrenza devono ritenersi vietate quando ricadono nel
divieto di intese anticoncorrenziali o di abuso di posizione dominante introdotto dalla
legge 287/1990.

TIPOLOGIA: Costituiscono esempi classici di patti limitativi della concorrenza i cartelli


ed e consorzi anticoncorrenziali; contratti con i quali più imprenditori possono
prevedere impegni reciproci di vario tipo. Ad esempio, più fabbricanti di tessuti
concordano la quantità globale da produrre e la quota spettante a ciascuno di essi
(cartelli di contingentamento), oppure si ripartiscono le zone di distribuzione (cartelli
di zona), o ancora predeterminano i prezzi di vendita da praticare (cartelli di prezzo).
Sono ovviamente possibili combinazioni di tali accordi.

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Campobasso G. F., Diritto commerciale – 1. Diritto dell’impresa, UTET giuridica

È opportuno considerare separatamente due distinte categorie di patti limitative della


concorrenza (anticoncorrenziali): PATTI AUTONOMI e PATTI ACCESSORI.

1) PATTI AUTONOMI: Sono autonomi contratti che hanno come oggetto e funzione
esclusivi la restrizione della libertà di concorrenza. Un tale contratto può porre
obblighi di non concorrenza a carico di una sola delle parti (c.d. RESTRIZIONI
UNILATERALI), oppure obblighi di non concorrenza a carico di tutti gli imprenditori
partecipanti all’impresa (c.d. RESTRIZIONI RECIPROCHE). Questi ultimi contratti si
definiscono CARTELLI o INTESE e prevedono impegni reciproci di vario tipo. La loro
durata non potrà in alcun caso superare i 5 anni. Le finalità di un cartello possono
essere realizzate anche attraverso la stipulazione di un contratto di CONSORZIO.
Il consorzio si caratterizza per la creazione di una organizzazione comune fra gli
imprenditori partecipanti; per esso è disposto che se le parti non prevedono alcun
limite di tempo, il contratto è valido per dieci anni.

2) PATTI ACCESSORI: Le restrizioni negoziali della concorrenza possono atteggiarsi


come clausola accessoria di altro contratto avente diverso oggetto. Tali pattuizioni
possono preveder sia restrizioni della concorrenza a carico di una sola delle parti, sia
restrizioni reciproche, inoltre possono intercorrere sia fra imprenditori in diretta
concorrenza fra loro sia fra imprenditori operanti a livelli diversi.
Il codice regola distintamente (tra i patti nominati):
a. La CLAUSOLA DI ESCLUSIVA che può essere convenzionalmente inserita in un
contratto di somministrazione (è espressamente prevista una durata corrispondente a
quella del contratto base);
b. Il PATTO DI PREFERENZA a favore del somministrante inseribile nello stesso
contratto di somministrazione. Con tale patto (durata max: 5 anni), il somministrato si
obbliga a preferire, a parità di condizioni, lo stesso somministrante qualora intenda
stipulare un successivo contratto di somministrazione per lo stesso oggetto;
c. Il PATTO DI NON CONCORRENZA con il quale si limita l’attività del prestatore di
lavoro per il tempo successivo alla cessazione del contratto;
d. Il PATTO CON CUI SI LIMITA LA CONCORRENZA DELL’AGENTE dopo lo scioglimento
del contratto di agenzia. Tale patto deve farsi per iscritto (durata max 2 anni).

* Il limite di 5 anni posto dall’art. 2596 si applica solo alle clausole innominate che
comportano limitazioni della concorrenza non funzionali al tipo di contratto cui accedono *

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C. LA CONCORRENZA SLEALE:

 Libertà di concorrenza e disciplina della concorrenza sleale:

La libertà di iniziativa economica implica la normale presenza sul mercato di più


imprenditori in competizione fra loro per conquistare il potenziale pubblico dei
consumatori e conseguire il maggior successo economico. Nel perseguimento di
questi obiettivi ciascun imprenditore gode di ampia libertà di azione e può porre in
atto le tecniche e le strategie che ritiene più proficue, non solo per attrarre a sè la
clientela ma anche per sottrarla ai propri concorrenti.
Il danno che un imprenditore subisce a causa della sottrazione della clientela da parte
dei concorrenti non è danno ingiusto e risarcibile. È tuttavia interesse generale che la
competizione fra imprenditori avvenga in modo corretto e leale.

Da qui la necessità di distinguere fra comportamenti concorrenziali leali, quindi leciti


e consentiti dall’ordinamento e comportamenti sleali e perciò illeciti e vietati.

Questa esigenza è soddisfatta dalla disciplina della concorrenza sleale (art. 2598-
2601), i cui principi base possono essere così fissati:
nello svolgimento della competizione fra imprenditori concorrenti è vietato servirsi di
mezzi e tecniche non conformi ai “principi della correttezza professionale”.

I fatti, gli atti e i comportamenti che violano tale regola sono:


ATTI di CONFUSIONE; ATTI di DENIGRAZIONE; ATTI di VANTERIA.
-> sono cioè atti di concorrenza sleale, c.d. ILLECITO CONCORRENZIALE.

Tali atti sono repressi e sanzionati anche se compiuti senza dolo o colpa e anche se
non hanno ancora arrecato un danno ai concorrenti. Basta infatti il c.d. danno
potenziale, vale a dire che “l’atto sia idoneo a danneggiare l’altrui azienda”. Tanto è
necessario e sufficiente perché scattino le sanzioni tipiche dell’inibitoria alla
continuazione degli atti di concorrenza sleale e della rimozione degli effetti prodotti
(art. 2599), salvo il diritto al risarcimento dei danni in presenza dell’elemento
psicologico (dolo o colpa) e di un danno patrimoniale attuale.

INTERESSI TUTELATI: Si tratta di una disciplina volta ad evitare che pratiche scorrette
alterino il corretto funzionamento del mercato. Tutelato è anche il più generale
interesse a che non vengano falsati gli elementi di valutazione e di giudizio del
pubblico e non siano tratti in inganno i consumatori. Questi ultimi però non sono
tutelati direttamente dalla disciplina della concorrenza sleale, dato che legittimati a
reagire contro gli atti di concorrenza sleale sono solo gli imprenditori concorrenti e le
loro associazioni di categoria, non invece i consumatori o le loro associazioni.
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Campobasso G. F., Diritto commerciale – 1. Diritto dell’impresa, UTET giuridica

NORME SULLA PROTEZIONE DEI CONSUMATORI relativamente a:


- pubblicità ingannevole -> qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la
sua presentazione, sia idonea ad indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle
quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole,
possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo,
sia idonea a ledere un concorrente.
- pratiche commerciali scorrette nei confronti dei consumatori -> sono quelle
pratiche commerciali che possono indurre il consumatore medio ad assumere
decisioni commerciali che altrimenti non avrebbe preso.

DIFFERENZE TRA CONCORRENZA SLEALE E ILLECITO CIVILE: La concorrenza sleale:


a. È svincolata dall’elemento soggettivo del dolo o della colpa;
b. È svincolata dalla presenza di un danno patrimoniale attuale;
c. È attuata attraverso sanzioni tipiche (inibitoria, rimozione).

Necessario ma al tempo stesso sufficiente perché un atto configuri concorrenza sleale


è l’idoneità dello stesso a danneggiare i concorrenti.
Legittimati ad intervenire contro gli atti di concorrenza sleale sono SOLO gli
imprenditori concorrenti o le loro associazioni di categoria (art. 2601), non invece il
singolo consumatore o le relative associazioni. Il che implica che l’interesse dei
consumatori a non essere tratti in inganno nello loro scelte è tutelato da questa
disciplina solo in modo mediato e riflesso.

 Ambito di applicazione della disciplina della concorrenza sleale:

L’applicazione della disciplina della concorrenza sleale postula il ricorso di un duplice


presupposto:
1. La qualità di imprenditore sia del soggetto che pone in essere l’atto di concorrenza
vietato, sia del soggetto che ne subisce le conseguenze;
2. L’esistenza di un rapporto di concorrenza economica fra i medesimi.

L’art. 2598 c.c. prevede che l’atto di concorrenza sleale può essere compiuto anche
indirettamente, quindi l’imprenditore (soggetto passivo dell’atto di concorrenza
sleale) risponde a titolo di concorrenza sleale non solo per gli atti da lui direttamente
compiuti ma anche per quelli posti in essere da altri (ausiliari, subordinati).

Nel valutare l’esistenza del rapporto di concorrenza, si deve tenere conto anche della
prevedibile espansione territoriale e del prevedibile sviluppo merceologico in prodotti
complementari o affini dell’attività dell’imprenditore che subisce l’atto di concorrenza
sleale (c.d. concorrenza potenziale).

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Campobasso G. F., Diritto commerciale – 1. Diritto dell’impresa, UTET giuridica

La disciplina della concorrenza sleale è applicabile anche fra operatori che agiscono a
livelli economici diversi. Necessario e sufficiente è che il risultato di entrambe le
attività incida sulla stessa categoria di consumatori, anche se diversa è la cerchia di
clientela direttamente servita (c.d. CONCORRENZA VERTICALE).

 Gli atti di concorrenza sleale. Le fattispecie tipiche:

I comportamenti che costituiscono atti di concorrenza sleale sono definiti dall’art.


2598 c.c. La norma individua innanzitutto due ampie fattispecie tipiche:
- Gli atti di confusione; - Gli atti di denigrazione e l’appropriazione di pregi altrui.
Dispone poi che costituisce atto di concorrenza sleale ogni altro mezzo non conforme
ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda.

1. ATTI DI CONFUSIONE: È atto di concorrenza sleale ogni atto idoneo a creare


confusione con i prodotti o con l’attività di un concorrente. È lecito attrarre a se l’altrui
clientela, ma non è lecito farlo avvalendosi di mezzi che possono trarre in inganno il
pubblico sulla provenienza dei prodotti e sull’identità personale dell’imprenditore.
Questi mezzi sono sleali in quanto sfruttano il successo sul mercato conquistato dai
concorrenti, generando equivoci e possibile sviamento dell’altrui clientela. Molteplici
sono le tecniche e le pratiche che un imprenditore può porre in atto per realizzare la
confondibilità dei propri prodotti e della propria attività con i prodotti e con l’attività
di un concorrente.

Il legislatore ne individua espressamente 2:


1) L’uso di nomi o di segni distintivi “idonei a produrre confusione con i nomi o con i
segni distintivi legittimamente usati da altri” imprenditori concorrenti.
La confondibilità può riguardare segni distintivi tipici (ditta, insegna, marchio), segni
non protetti (es. slogan pubblicitario).
2) Imitazione servile dei prodotti di un concorrente. È tale la riproduzione delle forme
esteriori dei prodotti altrui (es. involucro, confezione) attuata in modo da indurre il
pubblico a supporre che i due prodotti, l’originale e l’imitato, provengano dalla stessa
impresa.

Rientra infine nella categoria in esame ogni altro mezzo idoneo a creare confusione
con i prodotti o con l’attività di un concorrente (es. imitazione dei mezzi pubblicitari,
dei listini, dei cataloghi, dell’aspetto esteriore dei locali di vendita).

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Campobasso G. F., Diritto commerciale – 1. Diritto dell’impresa, UTET giuridica

2. ATTI DI DENIGRAZIONE e APPROPRIAZIONE DI PREGI ALTRUI: Gli atti di


denigrazione consistono nel diffondere “notizie e apprezzamenti sui prodotti e
sull’attività di un concorrente, idonei a determinare il discredito”; poi abbiamo
l’appropriazione di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente.

Comune ad entrambe le figure è la finalità di falsare gli elementi di valutazione del


pubblico (consumatori ed altri imprenditori), attraverso comunicazioni indirizzate a
terzi e in primo luogo avvalendosi dell’arma della pubblicità. Diverse però sono nei
due casi le modalità con cui tale finalità è perseguita.

Con la denigrazione si tende a mettere in cattiva luce i concorrenti danneggiando la


loro reputazione commerciale. Con la vanteria si tende invece ad incrementare
artificiosamente il proprio prestigio attribuendo ai propri prodotti o alla propria
attività pregi e qualità che in realtà appartengono ad uno o più concorrenti.

Pratiche riconducibili nello schema della concorrenza sleale per denigrazione:


 Le denunzie al pubblico di pratiche concorrenziali illecite da parte di concorrenti
specifici, e più in generale la divulgazione di notizie che possano screditare la
reputazione commerciale di un concorrente;
 La pubblicità iperbolica (o superlativa) con cui si tende ad accreditare l’idea che il
proprio prodotto sia il solo a possedere specifiche qualità o determinati pregi, che
invece vengono implicitamente negati ai prodotti dei concorrenti. Lecito è invece il
puffing che consiste nella generica ed innocua affermazione di superiorità dei
propri prodotti.

L’appropriazione di pregi altrui può essere realizzata con modalità e tecniche diverse.
Ne costituiscono forme tipiche la pubblicità parassitaria (consiste nell’attribuzione a
se stessi di qualità, pregi, riconoscimenti, premi e comunque caratteristiche positive
che in realtà appartengono ad altri imprenditori) e la pubblicità per riferimento
(tende a far credere che i propri prodotti siano simili a quelli di un concorrente,
attraverso l’utilizzazione di espressioni come tipo, modello, sistema, cioè al fine di
avvantaggiarsi indebitamente dell’altrui rinomanza commerciale).

Non sempre costituisce atto di concorrenza sleale la PUBBLICITA’ COMPARATIVA, cioè


ogni pubblicità che identifichi in modo esplicito o implicito un concorrente, ovvero
beni o servizi offerti da un concorrente. La comparazione è infatti lecita quando non è
ingannevole, confronta oggettivamente caratteristiche essenziali e verificabili di beni
o servizi omogenei, non ingenera confusione sul mercato e non causa discredito o
denigrazione del concorrente. Inoltre non deve procurare all’autore della pubblicità
un indebito vantaggio tratto dall’altrui notorietà.
La pubblicità comparativa, quindi, non si può ritenere vietata in modo assoluto.
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 Gli altri atti di concorrenza sleale:

L’art. 2598 chiude l’elencazione degli atti di concorrenza sleale affermando che è tale
“ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a
danneggiare l’altrui azienda”.

Fra gli atti contrari al parametro della correttezza professionale rientrano:

PUBBLICITA’ MENZOGNERA: falsa attribuzione ai propri prodotti di qualità o pregi


non appartenenti ad alcun concorrente (e perciò non inquadrabile nella figura tipica
dell’appropriazione di pregi). Costituisce certamente illecito concorrenziale tale forma
di pubblicità, in quanto volta a screditare i prodotti di altro imprenditore.

CONCORRENZA PARASSITARIA: consistente nella sistematica imitazione delle altrui


iniziative imprenditoriali (prodotti, campagne pubblicitarie…), sia pure con
accorgimenti tali da evitare la piena confondibilità delle attività (e quindi non
reprimibile come atto di confusione).

BOICOTTAGGIO ECONOMICO: è tale il rifiuto ingiustificato ed arbitrario di un’impresa


in posizione dominante (boicottaggio individuale) o di un gruppo di imprese associate
(boicottaggio collettivo) di fornire i propri prodotti a determinati rivenditori, in modo
da escluderli dal mercato.

DUMPING: sistematica vendita sotto costo dei propri prodotti, costituisce atto di
concorrenza sleale solo però quando sia finalizzato all’eliminazione dei concorrenti [e
all’acquisizione di una posizione monopolistica].

STORNO DI DIPENDENTI: la sottrazione ad un concorrente di dipendenti


particolarmente qualificati, o anche di collaboratori autonomi, quando venga attuata
con mezzi scorretti (es. false notizie sulla situazione economica del concorrente) e col
deliberato proposito di trarne vantaggio con danno dell’altrui azienda.

Fra gli atti di concorrenza sleale è oggi compresa e vietata la c.d. VIOLAZIONE DI
SEGRETI AZIENDALI, vale a dire le rivelazioni ai terzi e l’acquisizione o l’utilizzazione da
parte di terzi, in modo contrario alla correttezza professionale, delle informazioni
aziendali segrete.

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 Le sanzioni:

La repressione degli atti di concorrenza sleale si fonda su due distinte sanzioni:


l’INIBITORIA (art. 2599) e il RISARCIMENTO DANNI (art. 2600).

INIBITORIA: È diretta ad ottenere una sentenza che accerti l’illecito concorrenziale, ne


inibisca la continuazione per il futuro e disponga a carico della controparte i
provvedimenti reintegrativi necessari per far cessare gli effetti della concorrenza
sleale. L’azione inibitoria e le relative sanzioni prescindono dal dolo o dalla colpa del
soggetto attivo dell’atto di concorrenza sleale.

RISARCIMENTO DANNI: il concorrente leso potrà ottenere anche il risarcimento dei


danni. Fra le misure risarcitorie il giudice può disporre anche la pubblicazione della
sentenza in uno o più giornali a spese del soccombente.

L’azione per la repressione della concorrenza sleale può essere promossa


dall’imprenditore o dagli imprenditori lesi ed è riconosciuta anche alle associazioni
professionali degli imprenditori e agli enti rappresentativi di categoria “quando gli atti
di concorrenza sleale pregiudicano gli interessi di una categoria professionale”.
Fra i soggetti legittimati NON sono invece menzionati né i singoli consumatori né le
associazioni rappresentative dei loro interessi.

 Le pratiche commerciali scorrette fra imprese e consumatori

Per pratica commerciale dobbiamo intendere qualsiasi condotta posta in essere da un


professionista in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai
consumatori. Rientrano in questa definizione tutte le attività realizzate
dall’imprenditore prima dell’operazione commerciale (promozione del prodotto), ma
anche durante e dopo (informazione del consumatore o l’assistenza post-vendita).

Una pratica commerciale è scorretta quando:


- Non è conforme al grado di diligenza che il consumatore può ragionevolmente
attendersi dal professionista in base ai principi di correttezza e buona fede;
- È idonea a falsare il comportamento economico del consumatore, inducendolo ad
assumere una decisione commerciale che non avrebbe altrimenti preso.

Tra le pratiche commerciali scorrette le legge delinea due categorie:


- Pratiche ingannevoli: in quanto contengono informazioni false o sono idonee a
trarre in errore il consumatore su elementi essenziali dell’operazione commerciale.
- Pratiche aggressive: mediante molestie oppure coercizione fisica o morale siano
idonee a limitare la libertà di scelta o di comportamento del consumatore.
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La tutela amministrativa viene garantita dall’Autorità garante, d’ufficio o su istanza di


qualsiasi interessato, inibendo le pratiche commerciali illecite, ne elimina gli effetti e
commina sanzioni pecuniarie a carico del professionista.

 La pubblicità ingannevole e comparativa:

La disciplina della concorrenza sleale è oggi affiancata da una specifica disciplina


contro la pubblicità ingannevole e la pubblicità comparativa illecita.

A partire dalla metà degli anni ‘60, i più importanti mezzi di pubblicità hanno dato vita
ad un sistema di autodisciplina pubblicitaria, che li impegna a non diffondere
messaggi pubblicitari che contrastino con le regole di comportamento fissate in un
apposito codice privato, che fra l’altro espressamente vieta la pubblicità ingannevole.
Un organismo di giustizia privata (il Giurì di autodisciplina) con sede a Milano, vigila
sul rispetto del codice e funge da organo giudicante. L’azione dinnanzi al Giurì può
essere promossa da chiunque si ritenga pregiudicato da attività pubblicitarie contrarie
al codice o su iniziativa del Comitato di controllo dallo stesso previsto. Le decisioni del
Giurì sono insindacabili.

Con il d.lgs. 74/1992 all’autodisciplina si affianca la disciplina legislativa e al controllo


del Giurì, il controllo pubblico dell’Autorità garante.

Enunciato il principio che la pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta, nonché
chiaramente riconoscibile come tale, la legge vieta qualsiasi forma di pubblicità
ingannevole (è ingannevole “qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la
sua presentazione, induce in errore o può indurre in errore” le persone alle quali è
rivolta e che “possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero ledere un
concorrente”).

Norme specifiche sono poi dettate per la pubblicità dei prodotti pericolosi per i
consumatori, per quella suscettibile di raggiungere bambini ed adolescenti ed infine è
vietata ogni forma di pubblicità subliminale (cioè che stimoli l’inconscio).

Ogni interessato può chiedere all’Autorità garante che siano inibiti gli atti di pubblicità
ingannevole o comparativa ritenuta illecita e che ne siano eliminati gli effetti. Se
ritiene fondato il ricorso, l’Autorità può anche disporre la pubblicazione della
pronuncia, nonché di un’apposita dichiarazione rettificativa in modo da impedire che
la pubblicità ingannevole o comparativa illecita continuino a produrre effetti. In caso
di urgenza, l’autorità può disporre anche la sospensione provvisoria della pubblicità.

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