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CAPITOLO I

L’IMPRENDITORE

1. Il sistema legislativo

Il codice civile distingue diversi tipi di imprese e imprenditori in base a tre criteri:
a) L’oggetto dell’impresa; distinzione tra imprenditore agricolo (art. 2135) e imprenditore commerciale
(art. 2195).
b) La dimensione dell’impresa; individuato il piccolo imprenditore (art. 2083), si individua di conseguenza
l’imprenditore medio-grande.
c) La natura del soggetto che esercita l’impresa; impresa individuale, società , impresa pubblica.

Tutti gli imprenditori sono assoggettati ad una disciplina base comune: lo statuto generale
dell’imprenditore, che comprende parte della disciplina dell’azienda (artt. 2555-2562) e dei segni distintivi
(artt.2563-2574), la disciplina della concorrenza e dei consorzi (artt. 2595-2620); applicabile a tutti gli
imprenditori poi anche la disciplina a tutela della concorrenza e del mercato, introdotta dalla legge 287/1990.

Chi è imprenditore commerciale non piccolo e poi assoggettato allo statuto tipico dell’imprenditore
commerciale: iscrizione nel registro delle imprese (2188-2202), con effetti di pubblicità legale; disciplina della
rappresentanza commerciale (2203-2213); le scritture contabili (2214-2220); il fallimento e le procedure
concorsuali disciplinate dalla legge fallimentare; l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi.

Poche e scarsamente significative invece sono le disposizioni applicabili esclusivamente all’imprenditore


agricolo e al piccolo imprenditore; sono piuttosto sottratti da norme a cui il resto degli imprenditori devono
sottostare.

2. La nozione generale di imprenditore.

Art. 2082: è imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della
produzione o dello scambio di beni o di servizi.

L’articolo traccia quelli che sono i requisiti che distinguono l’imprenditore da chi non lo è, o meglio dal
lavoratore autonomo, non potendo di certo esserci confusione tra imprenditore e lavoratore subordinato.
Si ricava in linea generale che l’impresa è:
- Attività (serie coordinata di atti)
- Caratterizzata da uno specifico scopo (produzione o scambio di beni o servizi)
- E da specifiche modalità di svolgimento (organizzazione, economicità e professionalità ).

È invece controverso se siano altresì indispensabili caratteristiche che lo sembrerebbero, come:


- La liceità dell’attività svolta.
- Lo scopo di lucro dell’imprenditore.
- La destinazione al mercato dei beni o servizi prodotti.

3. L’attività produttiva.

Il fatto che l’impresa sia attività finalizzata alla produzione e scambio di beni o servizi, implica che l’impresa
debba essere appunto produttiva di nuova ricchezza, di nuovo valore, a prescindere dalla natura dei beni o dei
servizi scambiati.

Non è, ad esempio, impresa l’attività di mero godimento. Il proprietario di immobili che li affitta e basta, perché
non produce nuove attività economiche, ma si limita a godere dei frutti dei propri beni. Se invece tali immobili
sono trasformati in attività quali albergo, pensione o residence, la prestazione allocativa è accompagnata
dall’erogazione di servizi (pulizia, cambio biancheria ecc.) che eccedono il mero godimento del bene e rendono il
proprietario un imprenditore.

Impresa illecita. La qualità d’imprenditore deve essere riconosciuta anche quando l’attività produttiva sia
illecita. L’impresa è illecita sia quando sono violate norme che subordinano l’esercizio dell’attività a concessioni
o autorizzazioni amministrative, sia nei casi più gravi in cui illecito è l’oggetto stesso dell’attività.
Si ha comunque qualità di imprenditore perché non ha senso sottrarre chi viola la legge alle norme che tutelano i
suoi creditori. Chi svolge attività d’impresa contravvenendo alla legge, però , non potrà avvalersi delle norme che

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tutelano l’imprenditore contro terzi; ciò viene dal principio generale che da un comportamento illecito non
possono mai derivare effetti favorevoli per il suo autore.

4. L’organizzazione. Impresa e lavoro autonomo.

Il requisito dell’organizzazione rimane ambiguo per quanto riguarda il definire ciò che è essenziale perché vi
sia attività produttiva organizzata in forma d’impresa. È infatti ormai pacifico che si possa qualificare
imprenditore anche colui che opera senza utilizzare altrui prestazioni di lavoro (gioielliere, lavanderie
automatiche, ecc.). Non è necessario, inoltre, che l’attività organizzativa dell’imprenditore si concretizzi con la
creazione di un apparato industriale materialmente percepibile (locali, macchinari, mobili, ecc.).
Non si può arrivare tuttavia a ritenere che si è imprenditori anche quando l’attività si fonda solamente sul
lavoro personale dell’agente, quando cioè non vengono utilizzati né lavoro né capitali (propri o altrui); questione
che prende rilievo con riferimento a prestatori autonomi d’opera manuale (elettricisti, idraulici, ecc.) o di servizi
fortemente personalizzati (mediatori, agenti di commercio, ecc.).
Non è quindi sufficiente un’auto-organizzazione; non sarà imprenditore chi si organizza per prestare un
servizio. C’è bisogno di almeno un minimo di etero-organizzazione, cioè una struttura organizzativa formata da
diversi fattori orientata alla produzione di beni o servizi verso l’esterno.

5. Economicità dell’attività e scopo di lucro.

L’impresa è attività economica. È essenziale quindi che l’attività produttiva sia condotta con metodo
economico, secondo modalità cioè che consentano quanto meno la copertura dei costi con i ricavi ed assicurino
l’autosufficienza economica. Altrimenti si ha consumo e non produzione di ricchezza.

Perché l’attività possa considerarsi economica, quindi il soggetto imprenditore, non è essenziale lo scopo di
lucro.
A tale conclusione si giunge sia considerando lo scopo lucrativo come movente psicologico dell’imprenditore,
non potendosi la disciplina fondarsi su dati non oggettivi, sia considerandolo oggettivamente, cioè quando le
modalità di svolgimento dell’attività siano chiaramente rivolte alla massimizzazione del profitto.
La nozione di imprenditore è infatti una nozione unitaria, che deve comprendere solamente ciò che è comune a
tutte le imprese e a tutti gli imprenditori. La disciplina generale è infatti applicabile anche all’impresa pubblica
(che di regola non è preordinata alla realizzazione di un profitto), all’impresa mutualistica (con riferimento
appunto alle società cooperative la cui attività d’impresa è caratterizzata dallo scopo mutualistico) e all’impresa
sociale (al quale è fatto proprio esplicito divieto di distribuire utili in qualsiasi forma a soci, amministratori,
partecipanti, lavoratori e collaboratori).

6. La professionalità.

Professionalità significa esercizio abituale e non occasionale di una data attività produttiva  l’impresa è
stabile inserimento nel settore della produzione o della distribuzione.
La professionalità non richiede però che l’attività sia svolta in modo continuativo e senza interruzioni; per le
attività stagionali, quindi, è sufficiente il costante ripetersi di atti d’impresa secondo le cadenze proprie di quel
dato tipo di attività .
La professionalità non richiede neppure che quella di impresa sia l’attività unica o principale.
Impresa si può , infine, avere anche quando si opera per il compimento di un unico affare, se questo comporta
il compimento di operazioni molteplici e l’utilizzo di un apparato produttivo (es: costruttore di un edificio).

Ma è imprenditore il costruttore di un singolo edificio, che lo destina ad uso personale?


La risposta è sì. Non vi è alcun motivo per escluderlo dato che l’attività produttiva può considerarsi svolta con
metodo economico anche quando i costi sono coperti da un risparmio di spesa o da un incremento del
patrimonio del produttore. In più esigenze di tutela del credito possono ricorrere anche in quel caso; si pensi alla
posizione dei fornitori delle macchine e dei materiali per la costruzione.
Questo esempio dimostra che se è vero che di regola le imprese operano per il mercato, non può però
escludersi che imprenditore possa essere qualificato anche chi produce beni o servizi destinati ad uso o consumo
personale (la c.d. impresa per conto proprio).

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7. Impresa e professioni intellettuali.

I liberi professionisti (avvocati, dottori, commercialisti, ecc.) nono sono mai in quanto tale imprenditori.
L’art. 2238 stabilisce infatti che le disposizioni in tema d’impresa si applicano alle professioni intellettuali solo se
“l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività organizzata in forma d’impresa” (medico che
gestisce e opera in una clinica privata, professore titolare di una scuola privata nella quale insegna, ecc.). In
questi casi troverà applicazione nei confronti dello stesso soggetto sia la disciplina specifica dettata dalla
professione intellettuale, sia la disciplina dell’impresa.
Il professionista intellettuale che si limita a svolgere la propria attività , per contro, non diventa mai un
imprenditore, anche quando si avvalga di una vasta schiera di collaboratori, o di un complesso apparato di mezzi
materiali (grandi studi di avvocati, studi dentistici, ecc.).

Non è facile trovare una spiegazione per l’esonero di queste realtà dalla definizione di impresa. Si conclude
quindi che i professionisti non sono imprenditori per libera scelta del legislatore. Scelta ispirata dalla particolare
considerazione sociale che tradizionalmente circonda le professioni intellettuali e che ha indotto il legislatore del
1942 a dettare per tali discipline uno specifico statuto (artt. 2229-2238).

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CAPITOLO SECONDO
LE CATEGORIE DI IMPRENDITORE

A. IMPRENDITORE AGRICOLO E IMPRENDITORE COMMERCIALE

1. Il ruolo della distinzione.

Imprenditore agricolo (art. 2135) e imprenditore commerciale (art. 2195) sono le uniche due categorie di
imprenditori che il codice distingue in base all’oggetto dell’attività.
L’imprenditore agricolo è sottoposto solo alla disciplina prevista per l’imprenditore generale, mentre è
esonerato dall’applicazione di una parte della disciplina dell’imprenditore commerciale (ess: scritture contabili,
assoggettamento al fallimento, alcune procedure concorsuali).
L’imprenditore agricolo gode perciò di un trattamento di favore rispetto all’imprenditore commerciale, e
stabilire se un dato imprenditore sia commerciale o agricolo serve a definire l’ambito di operatività di tale
trattamento di favore.

2. L’imprenditore agricolo. Le attività agricole essenziali.

Il testo originario dell’art. 2135 stabiliva che “è imprenditore agricolo chi esercita un’attività diretta alla
coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all’allevamento del bestiame e attività connesse”; al comma 2° specificava
poi che “si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o all’alienazione dei prodotti agricolo, quando
rientrano nell’esercizio normale dell’agricoltura”.
Le due grandi categorie di attività agricole essenziali e attività agricole per connessione, rimarranno anche nella
nuova formulazione introdotta dal d.lgs. 228/2001, ma notevolmente ampliate.

Tuttavia il processo tecnologico permette ora di ottenere prodotti “merceologicamente” agricoli con metodi che
prescindo del tutto dallo sfruttamento della terra e dei suoi prodotti (ess: coltivazioni fuori terra, allevamenti in
batteria), In più oggi l’attività agricola può dar luogo a ingenti investimenti di capitali e sollevare, quindi, sul
piano giuridico esigenze di tutela del credito non diverse da quelle delle imprese commerciali.

La nuova formulazione del 2001 non da comunque peso alla modalità di produzione, ribadendo che “è
imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di
animali e attività connesse”. Viene specificato poi che le attività devono essere dirette “alla cura e allo sviluppo di
un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso”, quindi produzione di specie vegetali e animali è sempre
qualificabile come attività agricola essenziale, anche se realizzata con metodi che prescindono dallo sfruttamento
della terra.

Attività agricole essenziali: silvicoltura sì, ma non estrazione di legname; allevamenti in batteria, cavalli da
corsa, animali da pelliccia, allevamenti di cani e gatti; sostituzione dei termine “bestiame” con il più generico
“animali”  animali da cortile, acquacoltura. È imprenditore agricolo anche l’imprenditore ittico.

3. (segue) Le attività agricole per connessione.

3° comma art. 2135  si intendono comunque connesse:


a) Le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e
valorizzazione di prodotti ottenuti prevalentemente da un’attività agricola essenziale.
b) Le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o
risorse normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, comprese quelle di valorizzazione del
territori e del patrimonio rurale e forestale e le attività agrituristiche.
Entrambe sono oggettivamente attività commerciali (ess. produttore di olio, venditore di frutta e verdura). È
necessario quindi fissare dei criteri che le possano qualificare come attività agricole per connessione:
 Connessione soggettiva: è necessario che il soggetto sia già imprenditore agricolo in quanto svolge in
forma d’impresa una delle tre attività agricole tipiche, e che, inoltre, l’attività per connessione sia
coerente con quella essenziale (ess: è imprenditore agricolo il viticoltore che produce vino; è
imprenditore commerciale chi trasforma o commercializza prodotti altrui). La qualifica di imprenditore
agricolo è estesa anche alle cooperative di imprenditori agricoli ed ai loro consorzi (cantine sociali,
oleifici sociali), quando utilizzano prevalentemente prodotti dei soci.
 Connessione oggettiva  criterio della prevalenza: attività aventi oggetto prodotti ottenuti
prevalentemente dall’attività agricola essenziale; beni e servizi forniti mediante l’utilizzo prevalente di
attrezzature o risorse dell’azienda agricola. È sufficiente che le attività connesse non prevalgano, per
rilievo economico, sull’attività agricola essenziale.
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4. L’imprenditore commerciale (“Imprenditori soggetti a registrazione”).

È imprenditore commerciale l’imprenditore che esercita una o più delle seguenti categorie di attività, elencate
all’art. 2195 comma 1°:
- Attività industriale diretta alla produzione di beni o servizi
- Attività intermediaria nella circolazione dei beni
- Attività di trasporto
- Attività bancaria o assicurativa
- Altre attività ausiliarie delle precedenti: imprese di agenzia, di mediazione, di deposito, di commissione,
di spedizione, di pubblicità.
Ovviamente molte attività risultano non comprese in questa elencazione, ma, dato che l’unica distinzione in
base all’oggetto dell’attività è quella tra imprenditore commerciale e imprenditore agricolo, l’elencazione
dell’articolo 2195 non ha carattere tassativo: dovrà essere considerata commerciale ogni impresa che non sia
qualificabile come agricola.

B. PICCOLO IMPRENDITORE. IMPRESA FAMILIARE

5. Il criterio dimensionale. La piccola impresa.

La dimensione dell’impresa è il secondo criterio di differenziazione della disciplina degli imprenditori.


Il piccolo imprenditore è sottoposto allo statuto generale dell’imprenditore, ma è esonerato, anche se esercita
attività commerciali, dalla tenuta delle scritture contabili, dal fallimento e da altre procedure concorsuali
dell’imprenditore commerciale. Quindi anche qui, la qualifica di piccolo imprenditore serve a restringere
l’ambito di applicazione della disciplina dell’imprenditore commerciale.

Individuare chi sia piccolo imprenditore è però stato, fino a pochi anni fa, problema di non agevole soluzione
per la coesistenza di due nozioni: quella del codice civile (art. 2083), e quella della legge fallimentare art.1, 2°
comma.

6. Piccolo imprenditore nel codice civile.

Art. 2083: Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e colo che
esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con i lavoro proprio e dei componenti della
famiglia.
In altri termini, va letto come se dicesse: la prevalenza del lavoro proprio e famigliare costituisce il carattere
distintivo di tutti i piccoli imprenditori. È perciò necessario che:
a) L’imprenditore presti il proprio lavoro nell’impresa
b) Il suo lavoro e quello dei familiari che collaborano nell’impresa prevalgano sia rispetto al lavoro altrui,
sia rispetto al capitale proprio o altrui investito nell’impresa (non è imprenditore ad esempio chi investe
ingenti capitali, anche non avvalendosi di alcun collaboratore, tipo gioielliere).

7. Il piccolo imprenditore nella legge fallimentare.

La versione originaria dell’art.1, 2° comma, legge fall., nel ribadire che i piccoli imprenditori non falliscono,
stabiliva: “sono considerati piccoli imprenditori, gli imprenditori esercenti un’attività commerciale, i quali sono
stati riconosciuti, in sede di accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, titolari di un reddito inferiore
al minimo imponibile (480 mila lire). Quand’è mancato l’accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile,
sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un’attività commerciale nella cui azienda risulta
essere stato investito un capitale non superiore a lire novecentomila”. La legge disponeva poi che in nessun
caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali.

Basandosi questa definizione solamente su criteri monetari, per anni è stato difficile coordinarla con la norma
del codice civile. Il rebus è poi venuto meno in seguito a due modifiche nel sistema normativo:
1) L’imposta di ricchezza mobile è stata soppressa nel 1974, e il suo posto è stato preso dall’IRPEF.
2) Il criterio del capitale investito non superiore a 900 mila lire è stato dichiarato incostituzionale nel 1989,
in quanto non più idoneo, in seguito alla svalutazione monetaria a fungere da discriminante tra
imprenditori soggetti o meno al fallimento.

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Il permanere in vigore della sola definizione codicistica però creava problemi pratici in sede di dichiarazione di
fallimento, perché accertare la prevalenza del lavoro familiare sugli altri fattori produttivi non sempre è facile.

In seguito alla riforma del diritto fallimentare del 2006, a sua volta modificata da un decreto correttivo del
2007, ha reintrodotto nella legge fall. 1, 2° comma, un sistema basato su criteri esclusivamente quantitativi e
monetari, non per definire il “piccolo imprenditore”, ma per individuare alcuni parametri dimensionali, al di
sotto dei quali l’imprenditore commerciale non fallisce.
Quindi non è soggetto al fallimento l’imprenditore commerciale che dimostri tutti i seguenti requisiti:
a) Aver avuto nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento un attivo
patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore a 300 mila euro.
b) Aver realizzato nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento, ricavi lordi per
un ammontare complessivo annuo non superiore a 200 mila euro.
c) Avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore a 500 mila euro.
A differenza che in passato, anche le società commerciali possono essere esonerate dal fallimento, se
rispettano tutti i limiti dimensionali sopra indicati.

Ad oggi, la legge fallimentare stabilisce solamente chi può essere esonerato dal fallimento, mentre la
definizione di piccolo imprenditore del codice civile serve per l’applicazione della restante parte dello statuto
dell’imprenditore commerciale.

8. L’impresa artigiana.

Fra i piccoli imprenditori rientra anche l’imprenditore artigiano.


La legge 860/1956 individuava il dato caratterizzante dell’impresa artigiana nella natura “artistica o usuale” dei
beni o dei servizi prodotti (quindi non più nella prevalenza del lavoro familiare sugli altri fattori produttivi).
Affermava, inoltre, che ogni impresa rispondente a tali requisiti era da considerarsi artigiana a tutti gli effetti di
legge (esonero dal fallimento compreso). La qualifica di artigiana era infatti riconosciute anche a imprese
costituite sotto forma di società .

Questa legge è stata abrogata dalla legge quadro per l’artigianato 443/1985. La nuova definizione
dell’impresa artigiana si basa:
a) Sull’oggetto dell’impresa: qualsiasi attività di produzione di beni, anche di semilavorati, o di
prestazione di servizi, sia pure con alcune limitazioni ed esclusioni.
b) Sul ruolo dell’artigiano: è necessario che esso svolga “in misura prevalente il proprio lavoro, anche
manuale, nel processo produttivo”, ma non, si badi, che il suo lavoro prevalga sugli altri fattori
produttivi.

La categoria è decisamente ampliata rispetto alla legge del 1956, ma il punto fondamentale è che la nuova legge
non afferma più che l’impresa artigiana è definita a tutti gli effetti di legge: scopo dichiarato ed esclusivo
della legge quadro è quello di fissare i principi direttivi che dovranno essere osservati dalle regioni
nell’emanazione di una serie di provvidenze a favore dell’artigianato. Per quanto riguarda il fallimento e
l’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale, l’impresa dovrà comunque rispettare i parametri
dell’art. 2083 cod. civ. e dell’art.1, 2° comma, legge fall.

9. L’impresa familiare.

È impresa familiare l’impresa nella quale collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado (fino ai nipoti) e
gli affini entro il secondo grado (fino ai cognati).
Il concetto di impresa familiare non va confuso con quello di piccola impresa; non sono correlati. I problemi che
il legislatore ha voluto risolvere con l’art 230-bis cod. civ., introdotto con la riforma del diritto di famiglia del
1975 sono del tutto diversi da quelli ricollegati alla qualifica del piccolo imprenditore.
Il lavoro familiare nell’impresa era largamente diffuso, ma spesso chi vi lavorava lo faceva a titolo gratuito e
senza che nessun diritto gli venisse riconosciuto.
Il legislatore ha perciò voluto disporre una tutela minima del lavoro familiare nell’impresa, riconoscendo ai
membri della famiglia che lavorino in modo continuato determinati diritti:
 Patrimoniali:
a) Diritto al mantenimento.
b) Diritto alla partecipazione agli utili dell’impresa, in proporzione alla quantità di lavoro prestato
(tale diritto è trasferibile solo a favore di altri membri della famiglia nucleare e con il consenso
unanime dei familiari già partecipanti).
c) Diritto sui beni acquistati con gli utili e agli incrementi di valore dell’azienda.
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d) Diritto di prelazione sull’azienda in caso di divisione ereditaria o trasferimento dell’azienda stessa.
 Amministrativi: le decisioni in merito alla gestione straordinaria dell’impresa e talune altre decisioni di
particolare rilievo (impiego degli utili, cessazione dell’impresa…).

L’impresa familiare resta comunque un’impresa individuale. Ne consegue che:


 I beni aziendali restano di proprietà dell’imprenditore-datore di lavoro.
 I diritti patrimoniali dei partecipanti costituiscono solo diritti di credito nei confronti del familiare
imprenditore.
 Gli atti di gestione ordinaria sono di competenza esclusiva del familiare imprenditore.
 L’imprenditore agisce nei confronti di terzi in proprio, e non come rappresentante della famiglia; quindi
solo lui sarà responsabile nei confronti di terzi delle relative obbligazioni contratte.

C. IMPRESA COLLETTIVA. IMPRESA PUBBLICA.

10. L’impresa societaria.

La società semplice è utilizzabile solo per l’esercizio di attività non commerciale. Le società diverse dalla
società semplice si definiscono società commerciali e possono essere imprenditori agricoli o imprenditori
commerciali a seconda dell’attività esercitata.
L’applicazione degli istituti dell’imprenditore commerciale alle società commerciali segue regole parzialmente
diverse rispetto a quelle per l’imprenditore individuale:
 Parte della disciplina per l’imprenditore commerciale si applica alle società commerciali qualunque sia
l’attività svolta (obbligo di iscrizione nel registro delle imprese, tenuta delle scritture contabili; esonero
delle società commerciali che gestiscono un’impresa agricola dal fallimento; esonero delle società
commerciali dal fallimento se non superano le soglie dimensionali della legge 1, comma 2, legge fall.
 Nelle società in nome collettivo la disciplina dell’imprenditore commerciale si applica a tutti i soci;
nelle società in accomandita semplice, solamente ai soci accomandatari. Ciò vale anche per il
fallimento dei singoli soci a responsabilità illimitata.

11. Le imprese pubbliche.

Tre le possibili forme di intervento dei poteri pubblici nel settore dell’economia:
1. Società a partecipazione pubblica
Lo stato o altri enti pubblici svolgono attività d’impresa tramite istituti di diritto privato, attraverso la
costituzione di (o la partecipazione in) società , generalmente per azioni. In tal caso l’impresa si presenta
formalmente come un’impresa societaria.
2. Enti pubblici economici
La pubblica amministrazione può dare vita ad enti di diritto pubblico, il cui compito istituzionale
esclusivo o principale è l’esercizio di attività d’impresa. Gli enti pubblici economici sono sottoposti allo
statuto generale dell’imprenditore e – se l’attività è commerciale – allo statuto proprio dell’imprenditore
commerciale, con una sola eccezione: l’esonero del fallimento e dalle procedure concorsuali minori,
sostituiti però dalla liquidazione coatta amministrativa o da altre procedure previste in leggi speciali.
3. Imprese-organo
Lo Stato o altro ente pubblico territoriale possono svolgere direttamente attività d’impresa avvalendosi
di proprie strutture organizzative, prive di distinta soggettività, ma dotate di una più o meno ampia
autonomia gestionale e contabile. In questi casi, l’impresa è per definizione secondaria ed accessoria
rispetto ai fini istituzionali dell’ente pubblico (es: aziende municipalizzate erogatrici di pubblici servizi,
come acqua, gas, trasporti).
Anche nei confronti degli enti titolari di imprese-organo si applica la disciplina generale dell’impresa e
quella propria dell’imprenditore commerciale, ma “sono salve le diverse disposizioni di legge”.

12. Attività commerciale delle associazioni e delle fondazioni.

Le associazioni, le fondazioni e, più in generale, tutti gli enti privati con fini ideali o altruistici, possono svolgere
attività commerciale qualificabile come attività d’impresa (essenziale che venga condotta con metodo
economico, anche quando lo scopo perseguito sia “ideale”).

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Se l’esercizio di attività commerciale costituisce l’oggetto esclusivo o principale di tali enti (es: fondazione per
l’attività editoriale), non v’è dubbio che l’ente acquista qualità di imprenditore commerciale e resta esposto a
tutte le relative conseguenze.
Anche quando l’attività commerciale presenti carattere accessorio rispetto all’attività ideale, nulla stabilisce il
codice; è perciò da ritenersi che anch’essi acquistino la qualità d’imprenditore commerciale con pienezza
d’effetti.

13. (segue) L’impresa sociale.

Art.1, 1° comma, d.lgs. 155/2006: “Possono acquisire la qualifica di impresa sociale tutte le organizzazioni
private […] che esercitano in via stabile e principale un’attività economica organizzata al fine della produzione e
dello scambio di beni e servizi di utilità sociale” assistenza sociale e sanitaria; educazione, istruzione e
formazione; tutela dell’ambiente; servizi culturali; inserimenti lavorativo di soggetti svantaggiati o disabili …

Elemento caratterizzante: assenza dello scopo di lucro.


 Utili e avanzi di gestione devono essere destinati allo svolgimento dell’attività statutaria o all’incremento
del patrimonio dell’ente.
 Tale patrimonio è indisponibile: né durante l’esercizio, né allo scioglimento è possibile distribuire fondi o
riserve a coloro che fanno parte dell’organizzazione.
 In caso di cessazione dell’impresa, il patrimonio residuo è devoluto ad organizzazioni non lucrative di
utilità sociale, associazioni, comitati, fondazioni ed enti ecclesiastici, secondo quanto previsto dallo
statuto.

La finalità d’interesse generale è favorita dal legislatore con un singolare privilegio: quello di potersi
organizzare in qualsiasi forma di organizzazione privata (qualsiasi tipo societario).
Non possono essere impresa sociale, invece, le amministrazioni pubbliche e le organizzazioni che erogano beni e
servizi esclusivamente a favore dei propri soci, associati o partecipi.

Ulteriore privilegio: possibilità di limitare a certe condizioni la responsabilità patrimoniale dei partecipanti,
anche quando è impiegata una forma giuridica che prevedrebbe responsabilità illimitata.
 se l’impresa è dotata di un patrimonio netto di ventimila euro, risponde alle obbligazioni assunte solamente
con il suo patrimonio. Qualora però il patrimonio diminuisca di oltre un terzo (meno di 13'333 euro), delle
obbligazioni assunte rispondono personalmente e solidalmente anche coloro che agiscono in nome e per conto
dell’impresa (non però anche gli altri soci).

Regole speciali per quanto riguarda l’applicazione degli istituti tipici dell’imprenditore commerciale:
a) Devono iscriversi ad una sezione apposita del registro delle imprese.
b) Devono redigere le scritture contabili.
c) In caso di insolvenza, sono assoggettate alla liquidazione coatta amministrativa, invece che al fallimento.

Le organizzazioni che vogliono assumere qualifica di impresa sociale devono costituirsi per atto pubblico.
L’atto costitutivo deve:
- Determinare l’oggetto sociale, individuandolo tra le attività di utilità sociale.
- Enunciare l’assenza di scopo di lucro.
- Indicare la denominazione dell’ente, integrata con la locuzione “impresa sociale”.
- Fissare i requisiti di onorabilità , professionalità e indipendenza per i componenti delle cariche sociali.
- Disciplinare le modalità di ammissione ed esclusione dei soci.
- Prevedere forme di coinvolgimento dei lavoratori e dei destinatari dell’attività d’impresa nell’assunzione
delle decisioni che incidono direttamente sulle condizioni di lavoro e sulla qualità delle prestazioni
erogate.

Controllo interno: divisione fra controllo contabile, affidato ad uno o più revisori iscritti nel registro dei
revisori legali dei conti, e controllo di legalità della gestione e sul rispetto dei principi di correttamministrazione,
riservato ad uno o più sindaci.
Controllo esterno: le imprese sociali sono sottoposte alla vigilanza del Ministero del Lavoro, che può
procedere ad ispezioni e disporre della perdita della qualifica in caso di:
- Assenza di condizioni per il riconoscimento della qualifica di impresa sociale.
- Violazioni della relativa disciplina, non ottemperate entro un congruo termine.

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Ne conseguirebbe la cancellazione dell’impresa dal registro e l’obbligo di devolvere il patrimonio ad enti non
lucrativi determinati dallo statuto.

CAPITOLO TERZO
L’ACQUISTO DELLA QUALITÁ D’IMPRENDITORE

A. L’IMPUTAZIONE DELL’ATTIVITÁ D’IMPRESA

1. Esercizio diretto dell’attività d’impresa.

Principio della spendita del nome: gli effetti degli atti giuridici ricadono sul soggetto e solo sul soggetto il cui
nome è stato validamente speso nel traffico giuridico (in particolare nei confronti del terzo contraente).
Questo principio si ricava dalla disciplina del mandato: quando il mandato è senza rappresentanza, il
mandatario che agisce in proprio nome “acquista i diritti e assume gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i
terzi, anche se questi hanno avuto conoscenza del mandato”.

2. Esercizio indiretto dell’attività d’impresa. L’imprenditore occulto.

Fenomeno dell’esercizio d’impresa tramite interposta persona:


- Imprenditore palese o prestanome: soggetto che compie in proprio nome i singoli atti dell’impresa
- Imprenditore indiretto o occulto: soggetto che somministra al primo i necessari mezzi finanziari,
dirige di fatto l’impresa e fa propri tutti i guadagni.
A questo fenomeno si può ricorrere per aggirare un divieto di legge (es: il divieto per gli impiegati dello Stato di
esercitare attività d’impresa) oppure – più frequentemente – per non esporre al rischio d’impresa tutto il proprio
patrimonio personale.
I problemi sorgono quando c’è rischio di insolvenza dei debiti contratti ed il soggetto “utilizzato” dal dominus
sia una persona fisica nullatenente, oppure una società per azioni con capitale irrisorio (società di comodo).
I creditori possono di certo provocare il fallimento dell’impresa o del prestanome, ma ricavandone ben poco; con
la conseguenza che il rischio d’impresa è trasferito sui creditori, in particolare su quelli più deboli.

Teoria dell’imprenditore occulto  Parte della dottrina sostiene che per l’attività d’impresa nel nostro
ordinamento giuridico è espressamente sanzionata l’inscindibilità del rapporto potere-responsabilità.
Tale teoria ha però incontrato scarsi consensi; la premessa su cui si fonda, infatti, non solo non ha un solido
fondamento normativo, ma è smentita proprio dai principi che regolano le società di capitali (si pensi che, a
partire dal 1993 per le SRL e dal 2003 per le SPA, neppure la qualità di unico socio comporta di per sé
l’assunzione di responsabilità illimitata per le obbligazioni e l’esposizione al fallimento).
Ne consegue che nel nostro ordinamento il dominio di fatto di un’impresa individuale o di una società di
capitali non è condizione sufficiente per esporre a responsabilità e fallimento; né, tantomeno, determina di per sé
l’acquisto della qualità d’imprenditore.

Ciò non significa che si debba rinunciare a reprimere i possibili abusi. (art. 2497)
Esiste una situazione ricorrente ed una tecnica utilizzata dalla giurisprudenza per arginarla:
È frequente che il socio di comando di una società di capitali, non si limiti ad esercitare i poteri sociali
riconosciutigli dalla legge, ma tratti la società come cosa propria e ne disponga a suo piacimento, attraverso una
serie di comportamenti tipici: sistematico finanziamento della società con prestiti o concessione di garanzie a
suo favore; sistematica ingerenza negli affari sociali, con direzione di fatto secondo un disegno unitario di una o
più società paravento, ecc…
La giurisprudenza ritiene che questi comportamenti possano dar vita ad un’autonoma attività d’impresa, la c.d.
impresa fiancheggiatrice: un’impresa di finanziamento e/o di gestione distinta dalla società di capitali stessa.
Pertanto – e sempre che ricorrano i requisiti dell’art. 2082 – il socio che ha abusato dello schermo societario
risponde come titolare di un’autonoma impresa commerciale individuale delle obbligazioni da lui contratte nello

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svolgimento dell’attività fiancheggiatrice della società di capitali ed in quanto tale potrà fallire, sempre che si
accerti l’insolvenza della sua impresa.
Questo espediente tutela direttamente i creditori più grandi (es: banche), ma anche indirettamente, anche gli
altri creditori: il fallimento della società di capitali potrà chiedere all’impresa fiancheggiatrice di fornirle le
somme necessarie per far fronte allo obbligazioni contratte nel suo interesse; in mancanza, potrà provocarne il
fallimento.
B. INIZIO E FINE DELL’IMPRESA

3. Inizio dell’impresa.

Principio di effettività: la qualità d’imprenditore si acquista con l’effettivo inizio dell’esercizio dell’attività
d’impresa. Non è quindi sufficiente solo l’intenzione, anche se manifestata con la richiesta di eventuali
autorizzazioni amministrative, o con l’iscrizione in albi o registri.
Le società, invece, sono parzialmente esonerate da questo principio, perché l’effettivo inizio dell’attività
d’impresa è speso preceduto da una fase preliminare di organizzazione più o meno lunga e complessa. Da qui la
questione se si diventa o meno imprenditori già nella fase preliminare di organizzazione prima del compimento
del primo atto di gestione.  la risposta è affermativa nel caso in cui gli atti di organizzazione – per il loro
numero e/o per la loro significatività – manifestano in modo non equivoco lo stabile orientamento dell’attività
verso un determinato fine produttivo.
Un singolo atto di organizzazione, perciò , non sarebbe sufficiente per acquisire la qualità d’imprenditore, né
tantomeno più atti ma inespressivi (es: affitto di un locale o di un’automobile, richiesta di un fido bancario, ecc..).
Unica eccezione: organismo di durata programmata per lo svolgimento di una determinata attività d’impresa (es:
società alberghiera che acquista un’area fabbricabile).

4. La fine dell’impresa.

Impostazione passata:
L’esatta determinazione del giorno di cessazione dell’attività d’impresa aveva particolare rilievo per
l’applicazione dell’art.10 legge fall., che prevedeva che l’imprenditore commerciale potesse essere dichiarato
fallito entro un anno dalla cessazione dell’impresa.
La fine dell’impresa era dominata dal principio dell’effettività: la qualità d’imprenditore si perdeva solamente
con l’effettiva cessazione delle attività (la fase di liquidazione costituiva ancora attività d’impresa).
Per l’imprenditore individuale però , non era necessaria la completa definizione dei rapporti (estinzione debiti
e crediti) sorti durante l’esercizio; ciò perché, altrimenti, non avrebbe senso l’art.10 legge fall.
Per le società, invece, la giurisprudenza affermava che, per dichiarare la cessazione dell’attività, fosse necessaria
la cancellazione dal registro delle imprese, nonché la completa definizione dei rapporti pendenti; l’art. 10 era
così, di fatto, cancellato per le società .

Impostazione presente:
Questa disparità portò prima l’art. 10 ad essere dichiarato incostituzionale, e poi ad essere riscritto con il d.lgs.
5/2006 e il d.lgs. 169/2007.
Il nuovo art. 10 dispone che “gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un
anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o
entro l’anno successivo”.
La cancellazione dal registro delle imprese è quindi condizione necessaria affinché l’imprenditore benefici
del termine annuale per la dichiarazione del fallimento. Non è però condizione sufficiente: ad essa si deve
accompagnare l’effettiva cessazione dell’attività d’impresa, mediante la disgregazione del complesso aziendale
(per ragioni di certezza del diritto, questa si ritiene già avvenuta nel momento della cancellazione, ma il creditore
o il pubblico ministero sono ammessi a provare il contrario).

C. CAPACITÁ E IMPRESA.

5. Incapacità e incompatibilità.

La capacità all’esercizio di attività d’impresa si acquista con la piena capacità di agire e quindi al
compimento del 18esimo anno di età. Si perde in seguito ad interdizione o inabilitazione.
Così, ad esempio, il minore che con raggiri ha occultato la sua minore età non diventa imprenditore anche se i
contratti conclusi non sono annullabili.
Semplici incompatibilità sono invece i divieti di esercizio di impresa commerciale posti a carico di coloro che
esercitano determinati uffici o professioni (ess: impiegati statali, notai, avvocati). La violazione di tali divieti non

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impedisce l’acquisto della qualità d’imprenditore commerciale, ma espone a sanzioni amministrative e ad un
aggravamento delle sanzioni penali per bancarotta in caso di fallimento (art. 219 legge fall.).

6. L’impresa commerciale e gli incapaci.

In nessun caso è consentito l’inizio di una nuova impresa commerciale in nome e nell’interesse del minore,
dell’interdetto e dell’inabilitato.
È pertanto consentita solo la continuazione dell’esercizio di un’impresa commerciale preesistente, quando ciò
sia utile per l’incapace e purché la continuazione sia autorizzata dal tribunale. Intervenuta l’autorizzazione del
tribunale alla continuazione, chi ha rappresentanza legale del minore o dell’interdetto può compiere tutti gli
atti che rientrano nell’esercizio dell’impresa, siano questi di ordinaria o straordinaria amministrazione
(autorizzazione necessaria solo per quegli atti che non siano in rapporto di mezzo a fine per la gestione
dell’impresa, es: vendita degli immobili). Quanto all’inabilitato, dopo l’autorizzazione del tribunale alla
continuazione, egli potrà esercitare personalmente attività d’impresa, sia pure con l’assistenza del curatore.
Diversamente dagli altri incapaci, il minore emancipato può essere autorizzato dal tribunale anche a iniziare
una nuova attività d’impresa. Con l’autorizzazione il minore emancipato acquista la piena capacità d’agire. Tale
disciplina ha però perso gran parte del suo rilievo pratico con la fissazione della maggiore età a 18 anni.

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CAPITOLO QUARTO
LO STATUTO DELL’IMPRENDITORE COMMERCIALE

1. Premessa: l’imprenditore commerciale è destinatario di una peculiare disciplina dell’attività in parte comune
agli altri imprenditori (statuto generale dell’imprenditore) e in parte propria e specifica (statuto speciale
dell’imprenditore commerciale).

A. LA PUBBLICITÁ LEGALE

2. La pubblicità delle imprese commerciali.

Pubblicità legale: obbligo di rendere di pubblico dominio, secondo forme e modalità predeterminate,
determinati atti o fatti relativi alla vita dell’impresa. Le relative informazioni, non solo sono rese accessibili ai
terzi interessati (pubblicità notizia), ma diventano opponibili a chiunque, indipendentemente dall’effettiva
conoscenza (c.d. conoscibilità legale).

Lo strumento di pubblicità legale delle imprese commerciali non piccole e delle società commerciali è il registro
delle imprese. Tale strumento, previsto dal codice civile del 1942, è rimasto inoperante per più di 50 anni. In
questo periodo vigeva un regime transitorio:
- Iscrizione nei preesistenti registri di cancelleria presso il tribunale.
- Esonero temporaneo dall’iscrizione degli imprenditori commerciali individuali.
- 1969  Bollettino ufficiale delle società per azioni e a responsabilità limitata, Busarl (in aggiunta
all’iscrizione nei registri di cancelleria)
- 1973  Bollettino ufficiale delle società cooperative, Busc (sempre in aggiunta all’iscrizione nei registri).
- Registro delle ditte, tenuto dalle camere di commercio, con valore di pubblicità notizia.
Ne conseguiva, quindi, un sistema di pubblicità delle imprese particolarmente disorganico e complesso.

La situazione si sblocca con la legge 180/1993, contenente il riordino delle camere di commercio. L’art. 8 di tale
legge ed il relativo regolamento d’attuazione (d.p.r. 581/1995) hanno finalmente istituito il registro delle
imprese, che è divenuto pienamente operante agli inizi del 1997. Nel contempo ha cessato di esistere il Regitro
delle ditte e sono stati soppressi Busarl e Busc.
La nuova disciplina del registro delle imprese ha introdotto alcune novità :
1) L’attuale registro non è più solamente strumento di pubblicità legale delle sole imprese commerciali, ma
è diventato anche strumento di informazione sui dati di tutte le altre imprese.
2) La tenuta del registro è affidata alle camere di commercio, non più , quindi, alle cancellerie del
tribunale.
3) Il registro delle imprese è tenuto con tecniche informatiche, in modo da garantire tempestività delle
informazioni.

3. Il registro delle imprese.

Il registro delle imprese è istituito in ciascuna provincia, presso la camera di commercio. È articolato in una
sezione ordinaria e varie sezioni speciali.

Sezione ordinaria.
Vi sono iscritti gli imprenditori (non agricoli). Produce effetti di pubblicità legale.
Sono tenuti all’iscrizione nella sezione ordinaria:
1) Gli imprenditori individuali commerciali non piccoli
2) Tutte le società , tranne la società semplice, anche se non svolgono attività commerciale.
3) I consorzi tra imprenditori con attività esterna.
4) I gruppi europei di interesse economico con sede in Italia.
5) Gli enti pubblici con oggetto esclusivo o principale un’attività economica
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6) Le società estere che hanno in Italia la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale della loro attività .

Sezione speciale.
1) Sezione speciale degli imprenditori agricoli e dei piccoli imprenditori. Contiene, appunto, piccoli
imprenditori, imprenditori agricoli, società semplici e imprenditori artigiani (ovvero coloro che
originariamente ne erano esonerati e per i quali poi la riforma del 1993 prevedeva solo funzione di
pubblicità notizia ?e ora?).
2) Sezione speciale delle società tra professionisti. Società tra avvocati e altre forme di professionisti.
Efficacia di pubblicità notizia.
3) Sezione speciale delle imprese sociali.
4) Sezione speciale degli atti di società di capitali in lingua straniera. Dove le società di capitali possono
pubblicare la traduzione di atti per i quali è obbligatoria l’iscrizione o il deposito. La pubblicazione in
lingua straniera è facoltativa, e non fa venir meno l’obbligo di pubblicazione della traduzione.
5) Sezione speciale delle start-up innovative e degli incubatori certificati. Affinché queste possano accedere
alla speciale disciplina di favore per esse prevista sotto il profilo civile, fiscale e laburistico.

I fatti e gli atti da registrare sono specificati da una serie di norme (artt. 2196, 2197, 2198, 2200 e art. 18
d.p.r. 581/1995) e sono diversi a seconda della struttura soggettiva dell’impresa.
Riguardano essenzialmente gli elementi d’individuazione dell’imprenditore e dell’impresa (dati anagrafici,
ditta, oggetto, sedi principali e secondarie, inizio e fine dell’attività ecc.) e la struttura e l’organizzazione della
società (atto costitutivo e sue modificazioni, nomina e revoca degli amministratori, dei sindaci, dei liquidatori
ecc.).

L’iscrizione è eseguita su domanda dell’interessato ma anche d’ufficio se è obbligatoria e l’interessato non vi


provvede. D’ufficio può anche essere disposta la cancellazione di un’iscrizione, quando non esistano le condizioni
richieste dalla legge, e quando l’impresa ha definitivamente cessato l’attività e ciò risulti da una serie di
circostanze specificate dalla legge.
Prima di procedere all’iscrizione, l’ufficio del registro deve controllare che la documentazione sia formalmente
regolare (regolarità formale) nonché l’esistenza e la veridicità dell’atto o fatto (regolarità sostanziale).
L’iscrizione è eseguita mediante l’inserimento dei dati nella memoria dell’elaboratore elettronico.
L’inosservanza dell’obbligo di registrazione è punita con sanzioni pecuniarie amministrative, ma non comporta
più l’esclusione dal beneficio del concordato preventivo.

L’iscrizione nella sezione ordinaria ha funzione di pubblicità legale e quindi, a seconda dei casi, può avere
efficacia dichiarativa, costitutiva o normativa.
Efficacia dichiarativa.
È l’unico tipo di efficacia che si produce sempre. Vuol dire che i fatti e gli atti iscritti sono opponibili a chiunque e
lo sono da momento stesso della loro registrazione (efficacia positiva immediata).
Parziale temperamento di tale regola vale per le società per azioni: l’opponibilità diventa piena solo dopo 15
giorni dall’iscrizione; durante tale periodo i terzi sono ammessi a provare di essere stati nell’impossibilità di
conoscere l’atto.
L’omessa iscrizione, invece, impedisce che il fatto possa essere opposto a terzi (efficacia negativa);
all’imprenditore è comunque consentito di provare che i terzi hanno avuto ugualmente conocenza effettiva del
fatto o dell’atto.
Efficacia costitutiva.
Si verifica quando l’atto è produttivo di effetti, sia fra le parti che per i terzi (efficacia costitutiva totale), ovvero
solo nei confronti dei terzi (efficacia costitutiva parziale).
Ha efficacia costitutiva totale, ad esempio, l’atto costitutivo delle società di capitali e delle società cooperative,
che prima della costituzione non esistono giuridicamente ne per le parti ne per il terzi.
Ha efficacia costitutiva parziale la registrazione della deliberazione di riduzione reale del capitale sociale di una
società in nome collettivo (art. 2306): l’omissione impedisce il decorso del termine di tre mesi entro il quale i
creditori possono proporre opposizione e perciò la riduzione del capitale, anche se attuata, è per loro
improduttiva di effetti.
Efficacia normativa.
L’iscrizione – pur non avendo efficacia costitutiva – è presupposto per la piena applicazione di un determinato
regime giuridico. Ad esempio, società in nome collettivo e società in accomandita semplice vengono ad esistenza
anche se non registrate, ma la mancata registrazione impedisce che operi il regime di autonomia patrimoniale di
tali società , e comporta il più gravoso (per i soci) regime al riguardo, proprio delle società semplici (società
irregolari).

L’iscrizione nella sezione speciale ha solamente funzione di certificazione anagrafica e pubblicità notizia.

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Perciò netta è la distinzione originaria del codice, sotto il profilo della pubblicità, tra imprese soggette allo
statuto dell’imprenditore e le altre imprese.
Recentemente tale disciplina è stata modificata: per gli imprenditori agricoli anche piccoli e per le società
semplici esercenti attività agricola, l’iscrizione nella sezione speciale ha anche funzione di pubblicità legale.

B. LE SCRITTURE CONTABILI

4. L’obbligo di tenuta delle scritture contabili.

Nozione: le scritture contabili sono documenti che contengo la rappresentazione, in termini quantitativi e/o
monetari, dei singoli atti d’impresa, della situazione patrimoniale e del risultato economico dell’attività svolta.

Soggetti obbligati:
 Gli imprenditori che esercitano attività commerciale (esclusi i piccoli imprenditori).
 Tutte le società commerciali (escluse le società semplici) anche se non esercitano attività commerciale.
 Le imprese sociali.

Le scritture contabili sono disciplinate anche dalla legislazione tributaria, secondo criteri che non sempre
coincidono con quelli fissati dal codice. Ad esempio, l’obbligo di tenuta delle scritture contabili è esteso anche a
soggetti che non sono imprenditori, quali i liberi professionisti.

5. Le scritture obbligatorie

Principio generale: L’imprenditore deve tenere le scritture contabili che “siano richieste dalla natura e dalle
dimensioni dell’impresa”. In ogni caso devono essere tenuti:
- Libro giornale
- Libro degli inventari
- Gli originali della corrispondenza commerciale ricevuta e le copie di quella spedita (lettere, fatture,
telegrammi, ecc.)

Libro giornale (art. 2216).


È un registro cronologico-analitico. Devono essere indicate “giorno per giorno le operazioni relative all’esercizio
dell’impresa”. In realtà non è necessario registrarle il giorno stesso, ne registrare separatamente ciascuna
operazione, purché le singole registrazioni riguardino operazioni omogenee, compiute nella stessa giornata.

Libro degli inventari (art. 2217).


È un registro periodico-sistematico. Deve essere redatto all’inizio dell’esercizio e successivamente ogni anno. Ha
funzione di quadro della situazione patrimoniale dell’imprenditore; deve perciò contenere la valutazione delle
attività e delle passività dell’imprenditore, anche estranee all’impresa.
L’inventario si chiude con il bilancio, comprensivo di stato patrimoniale e conto economico.

Il rispetto del principio generale imporrà poi la tenuta di scritture contabili richieste dalla natura e dalle
dimensioni dell’impresa. Esempi possono essere:
- Libro mastro, nel quale le operazioni sono registrate non cronologicamente ma sistematicamente (ess:
per tipo di operazione, per cliente, ecc.).
- Libro cassa, che contiene entrate e uscite di denaro.
- Libro magazzino, che registra entrate e uscite di merci.
L’imprenditore dovrà poi tenere le scritture contabili richieste dalla legislazione tributaria (ess: libro dei cespiti
ammortizzabili, registro di magazzino, ecc.) e lavoristica (es: libro unico del lavoro).

6. Regolarità delle scritture contabili. Efficacia probatoria.

Per garantire la veridicità delle scritture contabili, ed impedire che siano successivamente alterate, sono
determinate regole formali e sostanziali.
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Formalità estrinseche: adesso molto ridotte, per agevolare la tenuta della contabilità con procedure
informatiche, prevedono solamente che libro giornale e libro degli inventari siano numerati progressivamente
pagina per pagina (un tempo c’era l’obbligo della bollatura, foglio per foglio, da parte del registro delle imprese o
di un notaio).
Formalità intrinseche  Norme di un’ordinata contabilità (ess: senza spazi in bianco, interlinee o abrasioni).
Anche tali regole perdono parte del senso con la tenuta delle scritture con metodi informatici.
Le scritture contabili e la corrispondenza commerciale devono essere conservate per 10 anni.
Sanzioni: L’imprenditore che non tiene regolarmente le scritture contabili non può utilizzarle come mezzo di
prova a suo favore (rendendole giuridicamente irrilevanti). È inoltre assoggettato alle sanzioni penali per i reati
di bancarotta semplice o fraudolenta in caso di fallimento. L’ordinata tenuta della contabilità non è più invece
requisito di ammissione al concordato preventivo (art. 160 legge fall.)

Efficacia probatoria.
Le scritture contabili, regolarmente tenute o meno, possono sempre essere usate da terzi come mezzo
processuale contro l’imprenditore che le tiene. Il terzo, però , non può scinderne il contenuto utilizzando solo la
parte a suo favore. L’imprenditore può comunque dimostrare che le sue scritture non corrispondono a verità .
Più rigorose le condizioni che permettono all’imprenditore di utilizzare le scritture contabili contro terzi:
- È necessario che siano regolarmente tenute.
- È necessario che la controparte sia anch’essa un imprenditore.
- In ogni caso, è rimesso all’apprezzamento del giudice riconoscere il valore probatorio alle scritture.

C. RAPPRESENTANZA COMMERCIALE

7. Ausiliari dell’imprenditore commerciale e rappresentanza.

Nello svolgimento della propria attività l’imprenditore può avvalersi, e di regola si avvale della collaborazione
di altri soggetti: ausiliari interni o subordinati, e ausiliari esterni o autonomi.
La collaborazione può riguardare l’agire in rappresentanza dell’imprenditore nella conclusione di affari con
terzi. Il fenomeno della rappresentanza è regolato in via generale dall’art. 1387 ss. ma segue delle norme speciali
quando si tratti di atti inerenti all’esercizio di impresa commerciale posti in essere da alcune figure tipiche di
ausiliari interni: institori, procuratori e commessi.
Tali figure sono automaticamente investite del potere di rappresentanza, effetto naturale di quella determinata
collocazione nell’impresa ad opera dell’imprenditore. Chi conclude affare con uno degli ausiliari, infatti, dovrà
solo verificare se l’imprenditore ha modificato – con atto espresso e reso pubblico – i loro naturali poteri
rappresentativi; non, invece, che la rappresentanza sia loro stata conferita.

8. L’institore.

È institore colui che è preposto dal titolare all’esercizio dell’impresa o di una sede secondaria o di un ramo
particolare della stessa. Nel linguaggio comune è il direttore generale dell’impresa (vertice assoluto), di una filiale
o di un settore produttivo (vertice relativo).
L’institore è investito di un potere di gestione generale, che abbraccia tutte le operazioni della struttura alla
quale è preposto.

Obblighi: congiuntamente con l’imprenditore è tenuto all’adempimento dell’obbligo di iscrizione nel registro
delle imprese e di tenuta delle scritture contabili.
In caso di fallimento dell’imprenditore, anche l’institore subirà le sanzioni penali a carico del fallito.

Generale potere di rappresentanza.


Rappresentanza sostanziale: l’institore può compiere in nome dell’imprenditore “tutti gli atti pertinenti
all’esercizio dell’impresa” o della sede o del ramo a cui è preposto.
Non può invece compiere atti che esorbitano dall’esercizio (ess: vendita o affitto dell’azienda, cambiamento
dell’oggetto, ecc.). Gli è inoltre espressamente vietato di alienare o ipotecare gli immobili.
Rappresentanza processuale: l’institore può stare in giudizio, sia come attore (rappresentanza processuale
attiva), sia come convenuto (rappresentanza processuale passiva) per “le obbligazioni dipendenti da atti compiuti
nell’esercizio dell’impresa a cui è preposto” (anche se li compie l’imprenditore stesso).

Modifica e revoca: i poteri dell’institore possono essere ampliati o limitati, ma tali modifiche devono essere
pubblicate sul registro delle imprese perché diventino opponibili a terzi (salva la prova da parte

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dell’imprenditore che i terzi erano effettivamente a conoscenza di tale modifica). Principi analoghi valgono per la
revoca.

L’institore è obbligato a spendere il nome del rappresentato(art. 1388), rendendo palese la sua veste. Si evita
così che non ricada sul terzo il rischio di comportamenti dell’institore che generano incertezze circa il reale
dominus dell’affare  se le modalità di conclusione dell’affare rendono incerto se l’istitore abbia operato per sé o
per l’imprenditore, il legislatore tronca ogni possibilità di contestazione a danno di terzo; risponderanno
solidalmente sia l’institore sia il preponente.
9. I procuratori.

Nozione art. 2209: i procuratori sono coloro che “in base ad un rapporto continuativo, abbiamo il potere di
compiere per l’imprenditore gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa, pur non essendo preposti ad esso.
In pratica sono subordinati di grado inferiore rispetto agli institori, in quanto:
a) Non sono posti a capo dell’impresa o di un ramo o sede secondaria
b) Pur essendo degli ausiliari con funzioni dirette, il loro potere è circoscritto ad un determinato settore
operativo dell’impresa  rappresentanza generale, pero solamente rispetto alla specie di operazioni
per le quali sono stati investiti di autonomo potere.

Inoltre il procuratore:
- Non ha rappresentanza processuale (attiva o passiva) dell’imprenditore, neppure per gli atti da lui
posti in essere.
- Non è soggetto agli obblighi di iscrizione nel registro delle imprese e di tenuta delle scritture contabili.
L’imprenditore non risponde degli atti compiuti da un procuratore senza spendita del nome dell’imprenditore
stesso.

10. I commessi.

Nozione: I commessi sono ausiliari subordinati cui sono affidate mansioni esecutive o materiali che li pongono
in contatto con terzi (commesso di negozio, impiegato di banca ecc.).
Ai commessi è riconosciuto potere di rappresentanza anche in mancanza di specifico atto di conferimento 
“possono compiere gli atti che ordinariamente comporta la specie di operazioni di cui sono incaricati”.

In particolare i commessi:
- Non possono esigere il prezzo delle merci delle quali non facciano la consegna, né concedere dilazioni o
sconti che non siano d’uso.
- Se preposti alla vendita nei locali dell’impresa, non possono esigere il prezzo fuori dai locali stessi, né
possono esigere all’interno dell’impresa se alla riscossione è destinata apposita cassa.
L’imprenditore può ampliare o limitare tali poteri, ma non è prevista pubblicità legale, perciò tali limitazioni
saranno opponibili ai terzi solo se portate a conoscenza degli stessi con mezzi idonei, o se si prova l’effettiva
conoscenza.

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CAPITOLO QUINTO
L’AZIENDA

1. La nozione di azienda. Organizzazione ed avviamento.

Art. 2555: L’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa.
 l’apparato strumentale di cui l’imprenditore si avvale per e nello svolgimento della propria attività.

Per qualificare un dato bene come aziendale è rilevante, perciò , solo la destinazione impressagli
dall’imprenditore; irrilevante è invece il titolo giuridico che legittima l’imprenditore all’uso di tale bene.
Non è bene aziendale quindi quello di proprieta dell’imprenditore, ma non destinato all’attività d’impresa; è bene
aziendale, invece, un bene di proprietà di terzi, di cui l’imprenditore può disporre in base ad un valido titolo
giuridico (affitto, leasing, ecc.), purché attualmente impiegato nell’attività d’impresa.

L’accento va quindi posto sul dato dell’organizzazione: l’azienda non è caratterizzata dal tipo di beni da cui è
composta, ma dall’unità funzionale per il coordinamento tra i diversi elementi costitutivi, e per l’unitaria
destinazione ad uno specifico fine produttivo.

Organizzazione e fine produttivo sono dati che conferiscono all’azienda particolare rilievo economico, prima
che giuridico. Il rapporto di strumentalità e complementarietà fra i singoli elementi costitutivi dell’azienda fa si
che il complesso unitario acquisti un valore di scambio maggiore della somma dei valori dei singoli beni che lo
costituiscono  Tale maggior valore si definisce avviamento.
Avviamento oggettivo: quello ricollegabile a fattori che permangono anche se muta il titolare dell’azienda, in
quanto insiti nel coordinamento dei diversi beni.
Avviamento soggettivo: quello dovuto all’abilità operativa dell’imprenditore sul mercato e per quanto riguarda
la clientela.

L’unità economica dell’azienda e gli interessi al mantenimento di tale unità trovano riconoscimento nella
disciplina dettata dal codice per il trasferimento dell’azienda (artt. 2556-2562).
Il trasferimento a titolo definitivo o temporaneo comporta, infatti, peculiari effetti ispirati dalla finalità di
conservazione dell’unità economica e del valore di avviamento. Tale disciplina pone inoltre significativi ostacoli
alla disgregazione dell’azienda, tutelando così l’interesse generale al mantenimento dell’efficienza e funzionalità
dei complessi produttivi.

2. La circolazione dell’azienda. Oggetto e forma.

L’azienda può formare oggetto di atti di disposizione di diversa natura (vendita, conferimento, donazione,
usufrutto, affitto, ecc.). È importante stabilire, però , se un determinato atto di disposizione dell’imprenditore sia
da qualificare come trasferimento di azienda o come trasferimento dei singoli beni aziendali. La distinzione
non è sempre agevole nella pratica, anche perché spesso le parti ricorrono ad espedienti per simulare l’una o
l’altra situazione, che porta a loro determinati vantaggi.
Per aversi trasferimento d’azienda non è necessario che l’atto comprenda l’intero complesso aziendale. Infatti, è
necessario e sufficiente che sia trasferito un insieme di beni potenzialmente idoneo a essere utilizzato per
l’esercizio di una determinata attività d’impresa (non necessariamente la stessa svolta dal trasferente).
Ovviamente è necessario che i beni esclusi non alterino l’unità economica e funzionale di quell’azienda (es:
escludere il brevetto su cui si fonda l’attività ).

Riguardo al trasferimento (art. 2556), c’è una netta distinzione tra la forma necessaria per la validità del
trasferimento, e la forma richiesta ai fini probatori e per l’opponibilità ai terzi.
In merito al primo punto, i contratti di trasferimento sono valiti se stipulati con l’osservanza “delle forme
stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda o per la particolare natura
del contratto”. Manca quindi un’autonoma ed unitaria legge di circolazione dell’azienda.

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In merito al secondo punto, per tutte le imprese soggette a registrazione è oggi prescritto che i relativi contratti
di trasferimento devono essere iscritti nel registro delle imprese entro 30 giorni. Per l’iscrizione, il contratto deve
essere redatto per atto pubblico, o scrittura privata autenticata.
Solo l’iscrizione nella sezione ordinaria, se dovuta, produce effetti di pubblicità legale (effetto analogo, però ,
dovrebbe avere l’iscrizione nel registro speciale di imprenditori agricoli).

3. La vendita dell’azienda: il divieto di concorrenza dell’alienante

Contenuto del divieto: chi aliena un’azienda commerciale deve astenersi, per un periodo massimo di 5 anni
dal trasferimento, dall’iniziare una nuova impresa che possa comunque – “per l’oggetto, l’ubicazione o altre
circostanze” – sviare la clientela dall’azienda ceduta  art. 2557, comma 1.
La norma contempera due opposte esigenze: quella dell’acquirente di trattenere la clientela e quindi godere
dell’avviamento soggettivo, del quale di regola si tiene conto nel prezzo di vendita; quella dell’alienante a non
vedere compromessa la propria libertà di iniziativa economica, oltre il tempo legislativamente ritenuto
necessario affinché l’acquirente consolidi la propria clientela.

Il divieto di concorrenza è derogabile e relativo: sussiste nei limiti in cui la nuova attività dell’alienante sia
potenzialmente idonea a sottrarre clienti all’impresa ceduta.
Le parti possono anche ampliare l’obbligo di astensione, purchè non sia impedita ogni attività professionale
all’alienante.

Il divieto è applicabile anche alla vendita coattiva: graverà perciò in testa all’imprenditore fallito nel caso di
vendita in blocco dell’azienda da parte degli organi fallimentari.

Vi sono dei casi controversi:


a) Divisione ereditaria con assegnazione dell’azienda ad uno degli eredi.
b) Scioglimento di una società con assegnazione dell’azienda ad uno dei soci, quale quota di liquidazione.
c) Vendita dell’intera partecipazione sociale o di una partecipazione di controllo in una società di persone o
capitali.
Nei primi due casi si tiene di regola conto del valore dell’avviamento, mentre nel terzo caso la vendita dell’intero
pacchetto azionario permette di raggiungere un risultato economico sostanzialmente coincidente con la vendita
dell’azienda. Non è perciò senza fondamento l’ipotesi di applicazione del divieto di concorrenza in questi casi.

4. (segue): La successione nei contratti aziendali.

Per tutelare il mantenimento dell’unità economica dell’azienda, e agevolare il subingresso dell’acquirente nella
trama di rapporti contrattuali in corso di esecuzione con fornitori, finanziatori, lavoratori e clienti, il legislatore ha
introdotto significative deroghe alla disciplina generale della cessione dei contratti.
È previsto che “se non pattuito diversamente, l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati per
l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale” (art. 2558, comma 1).
Al terzo contraente è riconosciuto il diritto di recedere dal contratto “entro tre mesi dalla notizia del
trasferimento, se sussiste una giusta causa, salvo in questo caso la responsabilità dell’alienante” (art. 2558,
comma 2).

Il subingresso dell’acquirente nei contratti avviene, quindi, in modo automatico, prescindendo da un’esplicita
manifestazione di volontà in tal senso nell’atto di alienazione dell’azienda.

La deroga ai principi di diritto comune è ancora più vistosa per quanto riguarda il terzo contraente:
- Il consenso del contraente non è più necessario per il trasferimento del contratto.
- Il terzo contraente non resta senza tutela, ma questa è tuttavia molto limitata: può recedere il contratto
entro tre mesi, ma tale recesso può essere esercitato solo se sussiste una “giusta causa”, la prova della
quale spetterà al terzo contraente.
- Il recesso non determina il ritorno del contratto in testa all’alienante, ma bensì la definitiva estinzione
dello stesso. Resta al terzo contraente solo la possibilità di chiedere il risarcimento dei danni
all’alienante, dando la prova (non facile) che questi non ha osservato la normale cautela nella scelta
dell’acquirente dell’azienda.

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Per i contratti di carattere personale invece sarà necessaria sia un’espressa pattuizione contrattuale fra
alienante e acquirente, sia il consenso del contraente ceduto.

5. (segue): I crediti e i debiti aziendali.

La disciplina esposta sopra si riferisce ai contratti non integralmente eseguiti da entrambe le parti al momento
del trasferimento dell’azienda. Se invece una delle due parti (imprenditore o terzo) ha già eseguito la sua
prestazione, mentre l’altra si trova ancora in debito, troveranno applicazione gli artt. 2559 e 2560 per i crediti e
i debiti aziendali. Entrambe le disposizioni introducono deroghe ai principi di diritto comune in tema di cessione
dei crediti e successione nei debiti.

Limitata è la deroga per i crediti. La notifica al debitore ceduto e l’accettazione da parte di questi viene
sostituita dall’iscrizione del trasferimento dell’azienda nel registro delle imprese. Da quel momento la cessione
ha effetto nei confronti di terzi, anche senza notifica o accettazione. Il debitore ceduto è tuttavia liberato se paga
in buona fede all’alienante.

Per quanto invece riguarda i debiti.


- È mantenuto il principio generale per cui non è ammesso il mutamento del debitore senza consenso del
creditore.
- È derogato, per le sole aziende commerciali, il principio secondo cui ciascuno risponde solo delle
obbligazioni da lui assunte: “nel trasferimento di un azienda commerciale risponde di debiti suddetti
anche l’acquirente dell’azienda, se essi risultano nei libri contabili obbligatori”  L’acquirente risponde in
solido con l’alienante ai creditori che non abbiano consentito alla liberazione di quest’ultimo (ciò per
evitare che la modificazione, quantomeno qualitativa, del patrimonio dell’alienante, pregiudichi il
soddisfacimento dei creditori aziendali).

Disciplina più favorevole per i lavoratori è prevista per i debiti di lavoro. Di questi l’acquirente risponde in
solido con l’alienante, anche se non risultano dalle scritture contabili ed anche se l’acquirente non ne ha avuto
conoscenza nel momento del trasferimento.

Le disposizioni sopra elencate riguardano le conseguenze del trasferimento per i creditori e debitori aziendali.
Nulla dispongono invece circa la sorta di crediti e debiti nel rapporto fra alienante e acquirente. Non è chiaro
quindi se l’acquirente diventi titolare dei crediti aziendali, e se l’accollo esterno ex lege dei debiti corrisponda
anche a un effettivo accollo interno da parte dell’acquirente.

6. Usufrutto e affitto dell’azienda.

I poteri/doveri in capo all’usufruttuario di un’azienda sono espressi all’art. 2561, e sono stabiliti da una parte
per consentire all’usufruttuario la libertà operativa necessaria per gestire proficuamente l’impresa, dall’altra per
tutelare l’interesse del concedente a che non sia menomata l’efficienza del complesso aziendale, che tornerà nelle
sue mani.
L’usufruttuario deve condurre l’azienda senza modificarne destinazione ed in modo da conservare l’efficienza
dell’organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte; la violazione di tali obblighi comporta la
cessazione dell’usufrutto per abuso dell’usufruttuario.
L’usufruttuario può godere e disporre dei beni aziendali, nei limiti segnati dalle esigenze della gestione.
L’usufruttuario potrà acquistare ed immettere nell’azienda nuovi beni, che diventeranno di proprietà del nudo
proprietario al termine dell’usufrutto. Per questo motivo viene redatto un inventario alla fine e all’inizio del
periodo di usufrutto: la differenza fra le due consistenze verrà regolata in denaro, sulla base dei valori correnti
dell’inventario.

Stessa disciplina si applica per l’affitto, per espresso rinvio operato all’art. 2562

Sia ad usufrutto che affitto si applicano i principi di divieto di concorrenza e la disciplina della successione
nei contratti aziendali.

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Solamente all’usufrutto si applica la disciplina dei crediti aziendali. A nessuno dei due si applica invece la
disciplina dei debiti aziendali, mancando espresso richiamo.

CAPITOLO SESTO
I SEGNI DISTINTIVI

1. Il sistema dei segni distintivi.

L’attività d’impresa è attività di relazioni su un mercato che, di regola, vede coesistere più imprenditori che
producono o distribuiscono beni o servizi identici o simili. Ciascun imprenditore, perciò , utilizza di regola uno o
più segni distintivi che consentono di individuarlo e distinguerlo da altri imprenditori.

I tre principali segni distintivi sono:


- Ditta: contraddistingue la persona dell’imprenditore nell’esercizio d’attività d’impresa (c.d. nome
commerciale). È regolata dagli artt. 2563.2567 cod. civ.
- Insegna: individua i locali in cui l’attività d’impresa è esercitata. Art. 2568
- Marchio: individua e distingue i beni e servizi prodotti. Al marchio è dedicata la disciplina più ampia,
regolata dagli artt. 2569-2574 cod. civ. e dal codice della proprietà industriale (d.lgs. 30/2005).
Crescente rilievo va inoltre acquistando il nome a dominio che individua un sito internet usato nell’attività
dell’azienda.

Pur avendo ognuno uno specifico ruolo, i segni distintivi assolvono alla funzione comune di collettori di
clientela: favoriscono la formazione ed il mantenimento della clientela, in quanto consentono ai consumatori di
distinguere fra i vari operatori economici e di operare scelte consapevoli.

Intorno ai segni distintivi ruotano diversi interessi:


- L’interesse degli imprenditori a precludere ai concorrenti l’uso di segni similari che potrebbero sviare la
clientela; l’interesse sempre degli stessi a poter cedere ad altri i propri segni distintivi, in modo da
monetizzare il valore economico autonomo che questi acquistano per il legame creato tra impresa e
clientela.
- L’interesse di quanti con i marchi entrano in contratto (fornitori, finanziatori, consumatori) a non essere
tratti in inganno sull’identità dell’imprenditore o sulla provenienza dei prodotti.
- Il più importante interesse generale a che la competizione si svolga in modo ordinato e leale.

Dalle varie discipline è possibile desumere principi comuni:


a) L’imprenditore gode di ampia libertà nella formazione dei propri segni distintivi; deve però rispettare
determinate regole volte ad evitare inganno e confusione: verità, novità e capacità distintiva.
b) L’imprenditore ha diritto all’uso esclusivo dei propri segni. Si tratta però di un diritto non assoluto, ma
relativo e strumentale alla realizzazione della funzione distintiva. L’imprenditore non può perciò
impedire che altri adotti il medesimo segno distintivo quando, per la diversità delle attività d’impresa o
dei mercati serviti, non vi è pericolo di confusione e di sviamento della clientela.
c) L’imprenditore può trasferire i propri segni distintivi. Neppure tale diritto, però , è pieno ed
incondizionato, poiché l’ordinamento tende ad evitare che la circolazione dei segni distintivi possa
trarre in inganno il pubblico

A. LA DITTA

2. Formazione e contenuto del diritto sulla ditta.

La ditta è il nome commerciale dell’imprenditore: lo individua come soggetto di diritto nell’esercizio


dell’attività d’impresa.
Il segno distintivo è necessario, ed in mancanza di diversa scelta coincide con il nome dell’imprenditore. Non è
necessario, però , che coincida con il nome civile, ma può essere liberamente scelta, purché rispetti i requisiti
della verità e della novità.
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Il principio di verità (art. 2536) ha contenuto diverso a seconda che si tratti di:
 Ditta originaria. È quella formata dall’imprenditore che la utilizza. Essa “deve contenere almeno il
cognome o la sigla dell’imprenditore”. È requisito necessario e sufficiente.
 Ditta derivata. È quella formata da un dato imprenditore e successivamente trasferita ad un altro
imprenditore insieme all’azienda. Nessuna disposizione impone a chi utilizzi una ditta derivata di
integrarla con il proprio cognome o la propria sigla. La verità si riduce ad una “verità storica”.

Il principio di novità (art. 2564) impone che la ditta non sia “uguale o simile a quella usata da altro
imprenditore” e tale da “creare confusione per l’oggetto dell’impresa o per il luogo in cui questa è esercitata”.
Chi ha adottato per primo una data ditta ha perciò diritto all’uso esclusivo di questa. Chi successivamente adotti
ditta uguale è costretto, quindi, a modificarla, anche quando questa corrisponda con il suo nome civile.
Per le imprese commerciali trova applicazione il criterio della priorità dell’iscrizione nel registro delle imprese.

Il diritto all’uso esclusivo della ditta e all’obbligo di differenziazione sussistono però solo se i due imprenditori
sono in rapporto concorrenziale tra loro e quindi possa determinarsi confusione.

Il principio di novità opera anche nei rapporti con altri segni distintivi. Ad esempio, è vietato adottare il
marchio altrui come propria ditta se sussiste pericolo di confusione fra i segni.

La ditta è trasferibile, ma solo insieme all’azienda (art. 2565). Se il trasferimento avviene per atto tra vivi è
necessario il consenso espresso dell’alienante. Ovviamente non lo è se avviene per successione.

B. IL MARCHIO

3. Nozione e funzioni del marchio.

Il marchio è il segno distintivo dei prodotti o dei servizi dell’impresa. È disciplinato sia dall’ordinamento
nazionale, sia dall’ordinamento comunitario e internazionale.
Il marchio nazionale è regolato dagli artt. 2569-2574 cod. civ. e dal codice della proprietà industriale. La
disciplina nazionale è stata più volte modificata in attuazione delle direttive comunitarie. La disciplina del
marchio comunitario, invece, consente di ottenere un marchio che produce gli stessi effetti in tutta l’Unione
Europea.

Il marchio non è un segno distintivo essenziale, ma è certamente il più importante per il ruolo che assolve nella
moderna economia industriale, caratterizzata dall’offerta concorrente di molti prodotti similari.
Il marchio costituisce perciò il principale simbolo di collegamento fra produttori e consumatori e svolge un ruolo
centrale nella formazione e nel mantenimento della clientela.
I marchi, inoltre, a volte finiscono con l’assumere un’autonoma forza attrattiva dei consumatori, è
comprensibile perciò l’interesse dei titolari di marchi celebri a contrastare l’uso degli stessi da parte di altri
produttori, anche per prodotti del tutto diversi da quelli da loro immessi sul mercato. Tale esigenza, in passato
ignorata dal legislatore, è recepita dall’attuale disciplina che ha esteso la tutela dei marchi celebri oltre i limiti
segnati dall’evitare la confusione tra prodotti simili.

4. I tipi di marchio.

I marchi possono essere classificati e raggruppati secondo diversi criteri.

Una prima distinzione si basa sull’attività svolta dal titolare del marchio:
Del marchio può servirsi il fabbricante del prodotto. I beni che subiscono successive fasi di lavorazione o
risultano dall’assemblaggio di parti distintamente prodotte possono, infatti, presentare diversi marchi di
fabbrica. Il marchio può essere apposto, inoltre, anche dal commerciante, che sia un distributore grossista o il
rivenditore finale.
Il marchio può essere utilizzato anche da imprese che producono servizi, con funzione pubblicitaria.

L’imprenditore può utilizzare un solo marchio per tutti i suoi prodotti (marchio generale), oppure servirsi di
più marchi (marchi speciali) per differenziare i diversi prodotti della propria impresa, o diversi tipi dello stesso
prodotto. È possibile anche l’uso contemporaneo di un marchio generale e più marchi speciali.

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Composizione del marchio. Il marchio può essere costituito da solo parole, o anche esclusivamente da figure,
lettere, cifre, disegni o colori, ed anche da suoni.
Il marchio può essere costituito anche dalla forma del prodotto o della confezione dello stesso. Si deve trattare
però di una forma “arbitraria o capricciosa”, la cui funzione esclusiva è individuare e differenziare il prodotto;
non possono essere registrate quindi le forme imposte dalla natura stessa del prodotto.

Un tipo particolare di marchio infine è il marchio collettivo (art. 2570 cod. civ.). Il titolare del marchio
collettivo è un soggetto che svolge “la funzione di garantire l’origine, la natura o la qualità di determinati prodotti
o servizi”. Tale marchio non è utilizzato dall’ente che ne ha ottenuto la registrazione, ma è concesso in uso a
produttori o commercianti consociati, che a loro volta si impegnano a rispettare le norme statutarie fissate
dall’ente e a consentire i relativi controlli (es: pura lana vergine, prosciutto di Parma).

5. I requisiti di validità del marchio.

 Liceità.
Il marchio non deve contenere segni contrari alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume, stemmi o altri
segni protetti da convenzioni internazionali.
Inoltre, senza il consenso dell’interessato, è vietato utilizzare come marchio l’altrui ritratto, il nome o lo
pseudonimo di persona che ha acquistato notorietà .

 Verità.
È vietato inserire nel marchio “segni idonei ad ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica,
sulla natura o sulla qualità dei prodotti o servizi” (es: marchio New England per vestiti prodotti in Italia).

 Originalità.
Il marchio deve essere composto in modo da consentire l’individuazione dei prodotti contrassegnati fra tutti i
prodotti dello stesso genere immessi sul mercato. Non possono quindi essere usati come marchi, poiché privi di
capacità distintive:
a) Le denominazioni generiche del prodotto o servizio, o la loro figura generica.
b) Le indicazioni descrittive dei caratteri essenziali (salvo che per i marchi collettivi) e della provenienza
geografica del prodotto.
c) I segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente, come le parole super, extra o lusso.
È possibile usare come marchio parole straniere, anche se distintive o generiche, quando non sono note nel loro
significato al consumatore medio (es: Cynar, Ginger). È possibile anche utilizzare denominazioni generiche, o
parole d’uso comune, se modificate o combinate fra loro.

 Novità.
Requisito distinto ma complementare a quello di originalità . Es: il marchio “aeroplano” per calzature è
certamente originale, ma non nuovo se registrato come marchio per calzature da un altro imprenditore. Tuttavia
se il marchio è celebre ex lege, non può essere utilizzato neanche per prodotti non affini.

Il difetto di uno di questi requisiti comporta la nullità del marchio, che può riguardare anche solo parte dei
beni o servizi per i quali il marchio è stato registrato.

6. Il marchio registrato.

Il titolare del marchio ha diritto all’uso esclusivo di questo. Il contenuto del diritto e la relativa tutela sono però
diversi a seconda che il marchio sia stato o meno registrato presso l’Ufficio italiano brevetti e marchi, presso il
Ministero dello sviluppo economico.

La registrazione attribuisce al titolare del marchio il diritto all’uso esclusivo dello stesso su tutto il territorio
nazionale. Il diritto di esclusiva non copre solo i prodotti identici, ma anche quelli affini, qualora possa
determinarsi un rischio di confusione della clientela; sono coperti quindi tutti i prodotti di fatto destinati alla
stessa clientela (es: frigoriferi e lavatrici), o al soddisfacimento di bisogni identici o complementari.

Per quanto riguarda i marchi celebri, con la riforma del 1992, la tutela di questi è stata svincolata dal criterio
dell’affinità merceologica. Oggi il titolare di un marchio registrato, che gode dello Stato di rinomanza, può vietare
a terzi di usare un marchio identico o simile al proprio anche per prodotti o servizi non affini, quando tale uso
“consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio, o reca
pregiudizio agli stessi”.

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Decorrenza: il diritto di esclusiva decorre dalla data di presentazione della relativa domanda all’Ufficio
brevetti. Il titolare del marchio è quindi tutelato ancor prima che inizi ad usarlo.
La registrazione nazionale è presupposto per una registrazione internazionale, presso l’Organizzazione
Mondiale per la Proprietà Industriale di Ginevra (OMPI).
Per il marchio comunitario, la registrazione è indipendente da quella nazionale, e si effettua presso l’Ufficio per
l’armonizzazione nel mercato interno di Alicante, in Spagna.

La registrazione nazionale dura 10 anni, ed è rinnovabile per un numero illimitato di volte. La tutela è perciò
pressoché perpetua, a meno che non sia dichiarata la nullità , per difetto di uno dei requisiti, o non sopravvenga
una causa di decadenza, quale il mancato utilizzo del marchio per 5 anni.
In particolare costituisce decadenza la volgarizzazione del marchio; il fatto cioè che lo stesso sia divenuto nel
commercio denominazione generica di quel dato prodotto (es: Cellophane, Biro, Nylon).

Difesa del marchio. Il marchio registrato è tutelato penalmente e civilmente. In particolare il titolare del
marchio, il cui diritto di esclusiva è stato leso dal concorrente, può promuovere contro questi l’azione di
contraffazione, volta ad ottenere l’inibitoria alla continuazione degli atti lesivi del proprio diritto e la rimozione
degli effetti degli stessi, attraverso la distruzione delle cose materiali per mezzo delle quali è stata attuata la
contraffazione (es. etichette, cartelloni pubblicitari, ecc.). Resta fermo il diritto del titolare del marchio al
risarcimento dei danni se sussiste dolo o colpa del contraffattore.

7. Il marchio non registrato.

Si tratta di una tutela decisamente minore. L’art. 2571 dispone che “chi ha fatto uso di un marchio non
registrato ha la facoltà di continuare ad usarne, nonostante la registrazione da altri ottenuta, nei limiti in cui
anteriormente se ne è avvalso”.
La tutela sul marchio registrato si fonda perciò sull’uso di fatto dello stesso e sull’effettivo grado di notorietà
raggiunto. Es: il proprietario di un marchio non registrato con notorietà locale non potrà impedire che altro
imprenditori usi il suo marchio in altra zona del territorio nazionale, e potrà continuare ad utilizzare il proprio
marchio solo nei limiti della diffusione locale.

8. Il trasferimento del marchio.

Il marchio è trasferibile sia a titolo definitivo, sia a titolo temporaneo (c.d. licenza di marchio).
La disciplina della circolazione del marchio è stata profondamente mutata con la riforma del 1992. È stato
abolito, infatti, il collegamento necessario fra circolazione dell’azienda e circolazione del marchio: oggi il marchio
può essere trasferito o concesso in licenza, per tutti o parte dei prodotti registrati, senza che sia necessario il
contemporaneo trasferimento dell’azienda o del corrispondente ramo produttivo.

La novità più significativa è la licenza non esclusiva. È consentito che lo stesso marchio sia
contemporaneamente utilizzato dal titolare originario e da uno o più concessionari; è quindi consentito che, in
base ad accordi contrattuali, vengano immessi sul mercato prodotti dello stesso genere contraddistinti dallo
stesso marchio, ma con diversa fonte di provenienza.
Il legislatore ha posto dei limiti:
Dal trasferimento o dalla licenza del marchio non deve derivare inganno nei carattere dei prodotti o servizi che
sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico.
Per quanto riguarda la licenza non esclusiva, inoltre, il licenziatario è obbligato ad utilizzare il marchio per
prodotti con caratteristiche qualitative uguali a quelle dei corrispondenti prodotti messi in commercio dal
concedente o dagli altri licenziatari.
La violazione di tali regole espone alla sanzione della decadenza, eventualmente parziale, del marchio.

C. L’INSEGNA

9. Nozione e disciplina.

L’insegna contraddistingue i locali dell’impresa (stabilimento industriale, negozio di vendita) o, secondo una
più ampia concezione, l’intero complesso aziendale.
L’insegna (art. 2568) non può essere uguale o simile a quella già utilizzata da altro imprenditore concorrente,
con conseguente obbligo di differenziazione qualora possa generare confusione nel pubblico.
Pur nel silenzio della disciplina specifica, saranno poi applicabili i principi base ricavabili dalla più analitica
disciplina della ditta e del marchio.

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Nulla è disposto circa il trasferimento dell’insegna. L’autore ritiene che sia applicabile la più permissiva
disciplina prevista per il trasferimento del marchio.

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