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D)la produzione o lo scambio come “fini” dell’impresa: la parte finale dell’art. 2082
stabilisce che l’imprenditore svolge la sua attività “al fine della produzione o dello scambio di
beni e servizi”; anche qui vi è una deformazione della realtà. Dalla legge sembra che
l’imprenditore abbia come fine produzione/scambio, invece del lucro. Perciò quanto detto
prima definisce tutto ciò che l’imprenditore può fare, ma che questo sia il fine
dell’imprenditore è idealistico; infatti, detto così sembra che l’imprenditore abbia come
scopo dell’attività “svolgere l’attività” quando nella realtà il suo scopo è quello di “venderli
e farci guadagno”. Queste discrepanze con la realtà derivano dall‘obiettivo di voler unificare
una categoria e creare un senso di solidarietà. Tale intento è stato in buona parte raggiunto
poiché il piccolo imprenditore si sente parte della comunità assieme al grande imprenditore
nonostante vi siano importanti differenze. Questo è dovuto alla poca produttività degli
intellettuali progressisti nel creare costruzioni teoriche capaci di superare una teorica
ottocentesca senza aggregazioni tra chi vive del proprio lavoro e chi prospera del lavoro
altrui.
LE RICADUTE APPLICATIVE: l’art 2082 non presenta particolari effetti sul piano del diritto, se
non quelli che consistono nell’applicabilità dello “statuto generale dell’imprenditore”, che
comprende:
• Una parte della disciplina aziendale e dei segni distintivi (ditta, impresa, marchio),
con le relative tutele;
• La disciplina della concorrenza (antitrust);
• La disciplina dei consorzi (che sono contratti conclusi fra imprenditori).
Tali norme sono applicabili a tutti gli imprenditori (piccoli e grandi).
TITOLARITA DI PIU IMPRESE: “una stessa persona può essere titolare anche di più imprese”.
Certamente se si risponde illimitatamente anche di una sola di esse, si risponderà anche con
quanto era stato investito nelle altre attività. Viceversa, se si hanno più imprese con
responsabilità limitata, il dissesto di una non si ripercuoterà sulle altre. Un sogg. può essere
lavoratore dipendente presso un’azienda e poi averne una propria, a meno che, la sua
professione non abbia regole speciali che vietino lo svolgimento di altre attività. I divieti di
esercitare attività d’impresa sono molto estesi per diverse categorie di lavoratori pubblici e
intellettuali. La vera “liberalizzazione” delle attività economiche sarebbe quella di
rimuovere questi ostacoli, anziché accanirsi in “micro-liberalizzazioni” di settori specifici. Ad
oggi la vera disuguaglianza della società moderna è la partita IVA (negata alla generalità di
cittadini), essa consente risparmi fiscali cospicui. La sua generalizzazione porterebbe per
contro allo Stato entrate cospicue ed una riduzione del lavoro “in nero”.
Il secondo comma dell’art., introdotto dalla riforma del fallimento del 2019, ha dato
importanza a questa disposizione: introduce l’obbligo, per gli imprenditori...(vedere 2) parte
art.2086). La riforma del 2019 ha ridenominato la procedura fallimentare come
“liquidazione giudiziale” e ha istituito una fase precedente che mira a risolvere la crisi
d’impresa prima che si trasformi in insolvenza. Con ciò la legge intende stabilire dei
meccanismi di rilevazione tempestiva della crisi, prima che essa porti l’imprenditore a non
riuscire più a pagare regolarmente i propri debiti (insolvenza). Inoltre, proprio in
collegamento con questo nuovo concetto di crisi sono stati istituiti e messi in atto gli assetti
organizzativi dell’art. 2086 per la risoluzione della crisi. Il 2° comma di tale art. Si collega con
il corrispondente 2° comma dell’art.3 Codice della crisi d’impresa:
Da notare che nell’art. 2086, il 2°comma dispone per le imprese collettive e non
individuale, anche se inizialmente erano entrambe comprese, poiché il legisl. da per
scontato che le imprese individuali siano più piccole e con una organizzazione più
semplificata e quindi ha ripiegato su una prescrizione apparentemente più leggera, che
consiste nella traduzione degli “assetti adeguati” in “misure idonee”. Inoltre, non è detto
che un’impresa individuale sia sempre piccola, così non lo è un’impresa collettiva sempre
grande (es.: piccole società). Infatti, gli “assetti organizzativi adeguati” sono stati introdotti
per la prima volta nel nostro ordinamento dalla riforma delle società di capitali del 2003 per
le società per azioni (art.2081), e per quelle dimensioni hanno una logica; istituire “assetti
organizzativi adeguati”, in una S.p.a., significa nominare della vigilanza in questione un
direttore generale. L’uso dell’espressione “in forma societaria o collettiva”, usata nel 2°
comma art.2086, non sarebbe stato sufficiente perché le società non sono le uniche imprese
collettive; infatti, anche associazioni e fondazioni con attività esterna diventano “imprese”
quando si dedicano ad attività imprenditoriali.
2)Per quanto riguarda la tenuta delle scritture contabili, esse sono specifici documenti che
attestano l’attività contabile dell’impresa e sono: il libro giornale, il libro degli inventari, la
corrispondenza, le scritture relativamente obbligatorie.
Nel libro giornale l’imprenditore annota giornalmente il risultato della sua attività. Il libro
degli inventari contiene l’elencazione dei beni che entrano ad escono dall’impresa e si
chiude ogni anno con il bilancio. La corrispondenza è rappresentata dalle lettere e dalle
fatture in originale e in copia. Queste sono le scritture che tutti gli imprenditori commerciali
devono tenere, e sono assolutamente obbligatorie. Vi sono poi scritture che sono
relativamente obbligatorie, e sono quelle “richieste dalla natura e dalle dimensioni
dell’impresa” (art.2214 c.c.); esse sono una serie di altri libri che sono obbligatori, in quanto
si abbia una struttura organizzativa tale da richiederli. Un es. sono: il libro magazzino, se si
ha un magazzino; il libro cassa, se c’è una cassa per l’attività di rivendita; il libro mastro,
dove c’è l’elenco dei clienti. I libri devono essere tenuti secondo le norme “di un’ordinata
contabilità” (art.2219 c.c.): vanno compilati in modo chiaro e leggibile, rilegati, senza fogli
aggiunti, senza cancellature e i fogli vanno numerati progressivamente e bollati in certi casi;
oggi con l’informatizzazione dei libri contabili ci si rifà alle regole sulla struttura dei files
informatici. Le scritture contabili dell’imprenditore hanno un valore processuale: esse di
regola fanno prova contro l’imprenditore che le ha realizzate; poiché se le scritture
facessero prova a favore anche nelle cause in cui l’avversario è un non-imprenditore, ciò
incoraggerebbe comportamenti fraudolenti, perché l’imprenditore potrebbe scrivere un suo
credito a favore di X e chiamarlo in giudizio; facendo le scritture prova, sarebbe X a dover
fornire la controprova, dimostrando che non deve quella somma all’imprenditore e subendo
così un indebito capovolgimento dell’onere probatorio. Inoltre, X non ha sue scritture con
le quali controbattere quelle dell’imprenditore; ciò dimostra perché le scritture possono far
prova a favore dell’imprenditore solo allorché anche l’altro sia imprenditore commerciale.
3)Lo scopo del primo e del secondo requisito convergono nel terzo: infatti tenere il conto
delle imprese commerciali e obbligarle a rendicontare la loro attività nelle scritture ha come
fine ultimo quello di poter ricostruire la loro attività nel caso del verificarsi di un’insolvenza.
Se la qualità di imprenditore commerciale è il presupposto soggettivo del fallimento,
l’insolvenza è il suo presupposto oggettivo; essa consiste nell’incapacità di adempiere
regolarmente alle proprie obbligazioni, o meglio: "lo stato del debitore che si manifesta con
inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di
soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”. È nel momento dell’insolvenza che diventa
necessario poter ricostruire nel modo più attendibile l’attività dell’imprenditore con i libri
contabili, la cui mancanza porta a conseguenze penali: bancarotta semplice o fraudolenta (x
falsificazioni). Si identifica la figura dell’imprenditore allo scopo di capire chi deve essere
assoggettato alla liquidazione giudiziale e si trovano in questa situazione tutti coloro che
svolgono una qualsiasi attività a livello autonomo, a meno che non rientrino nella categoria
del piccolo imprenditore, quella dell’impresa minore o dell’imprenditore agricolo. LA regolo
generale, anche per i non-imprenditori, è che i creditori vengono pagati nell’ordine
temporale in cui si presentano (criterio della prevenzione). La liquidazione giudiziale serve,
quindi, a tutelare l’insieme generalizzato dei creditori, attuando la “par condicio”, evitando
che alcuni possano avere un trattamento migliore rispetto ad altri; ciò ha senso per tutte
quelle imprese che hanno molti creditori. Perciò sarà utile aprire la liquidazione giudiziale
quando l’impresa ha un grosso movimento di valori.
Per l’imprenditore commerciale insolvente, l’assoggettamento alla liquidazione giudiziale
non è una scelta, anche se può esserlo: legittimati al ricorso con cui si chiede l’apertura del
procedimento sono l’imprenditore-debitore, i suoi creditori, gli organi e autorità
amministrative che hanno funzioni di controllo e di vigilanza sull’impresa, ed infine il
pubblico ministero. La legittimazione dell’imprenditore gli permette di liberarsi di un
numero eccessivo di procedure liquidatorie individuali e sistemare le pendenze. Se
l’imprenditore nega le sue difficoltà, la situazione di insolvenza si protrae e danneggia i
creditori, che sono legittimati a chiedere l’apertura del procedimento (stessa cosa è per il
PM e gli altri organi). La recente riforma del 2019 ha introdotto meccanismi di rilevamento e
risoluzione della crisi d’impresa, che precede l’insolvenza, nel tentativo di evitare
quest’ultima. La crisi è definita “lo stato di difficoltà economica-finanziaria che rende
probabile l’insolvenza del debitore, per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi
di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate” (Cod. Crisi). Vi
sono poi indicati, nell’art. 13 del Cod. Crisi., gli indicatori della crisi (1°comma), mentre al
2°comma si incarica il Consiglio nazionale dei dottori e dei commercialisti ed esperti
contabili di specificare questi indicatori, aggiornandoli ogni 3 anni, per ogni tipo di attività
economica. Al verificarsi di tali indicatori dovrebbero attivarsi gli strumenti di allerta che
sono quei meccanismi organizzativi che l’imprenditore deve predisporre, a cui si affiancano
gli organi di controllo societari (revisore contabile e la società di revisione) e i creditori
pubblici qualificati (Agenzia delle entrate, INPS, agente riscossione fiscale).
Se si verifica una crisi, i primi ad attivarsi saranno i soggetti qualificati o il debitore; nel
primo caso, i sogg. invieranno una segnalazione, nel secondo caso il debitore rivolgerà
un’istanza all’Organismo di composizione della crisi d’impresa (OCRI). Esso si trova presso
ogni Camera di commercio ed è formato da esperti provenienti dall’albo speciale tenuto
presso il Ministero della Giustizia (art.356 Cod. Crisi). L’OCRI promuoverà il procedimento di
composizione assistita della crisi, disciplinata dal Cod. Crisi, col quale si cercherà di
risolverla e in caso negativo essa si trasformerà in insolvenza, dichiarata con la procedura di
liquidazione giudiziale. Seguirà la nomina da parte del tribunale concorsuale degli organi
relativi: giudice delegato e curatore. Sotto il controllo del primo, il secondo procede
all’inventario dei beni residui del patrimonio del debitore insolvente, compila l’elenco dei
creditori, mettendogli in ordine di preferenza secondo le cause di prelazione; e poi inizia a
liquidare il patrimonio fallimentare, distribuendo il ricavato della vendita dei beni in
proporzione ai creditori.
Con la riforma del 2019 ha messo sotto stretto controllo l’attività dell’imprenditore;
quest’ultimo ha accettato ciò per coprirsi dai rischi e non dover rispondere del cattivo
andamento degli affari. Le uniche conseguenze che permangono sono quelle penali, già con
la riforma del 2007.
2. Le borse di commercio, le fiere ed i mercati, i magazzini generali, i punti franchi e gli altri
istituti che servono al commercio sono governati da leggi speciali e da regolamenti.
Essi delineano una gerarchia delle fonti un po’ diversa da quella cui siamo abituati. Al primo
posto traviamo le leggi commerciali, segno che lo Stato ha preso le redini nella normazione
in materia commerciale; in mancanza di una legge vi sono gli usi mercantili, di cui
prevalgono quelli locali rispetto a quelli generali; poi segue, all’ultimo posto, il diritto civile.
8. Le attività connesse.
Esse si trovano nel 3°comma dell’art. 2195. Nella vecchia definizione, prima del 2001, esse
erano “le attività dirette alla trasformazione o all’alienazione dei prodotti agricoli, quando
rientrano nell’esercizio normale dell’agricoltura”.
La nuova disposizione è più articolata, poiché si parla di attività di “manipolazione,
conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione”; pare però che i nuovi
vocaboli non cambino o aggiungano molto al concetto precedente. Ciò che il legislatore ha
voluto fare è lasciare aperto il campo a qualsiasi iniziativa di ordine economico, divenendo
quasi un promotore economico. Le attività connesse hanno però ancora una duplice
limitazione, presente nella vecchia disciplina e mantenuta oggi: la necessità cioè di
rispettare la connessione, che ha un aspetto soggettivo e oggettivo. Quando il 3°comma
esige che tali attività siano esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, pone il criterio
della connessione soggettiva, secondo il quale deve essere lo stesso soggetto a svolgere
l’attività agricola e quella connessa; altrimenti sarebbe un imprenditore commerciale. È
richiesto, poi, che le attività connesse abbiano ad oggetto prodotti ottenuti
prevalentemente da una delle 3 attività principali, come è detto dal criterio di connessione
oggettiva; con il termine “prevalentemente” si intende che almeno il 50% +1 grammo
dell’oggetto dell’attività connessa sia un prodotto proveniente da un’attività principale.
Nella seconda parte del comma vengono aggiunte le attività “dirette alla fornitura di beni o
servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente
impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del
territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite
dalla legge”. A ciò si collega l’attività dell’impresa agrituristica che è disciplinata dalla legge
speciale del 20/02/2006, n. 96.
Quando la legge parla di “commercializzazione” non si deve pensare che essa riguardi la
normale vendita che ogni agricoltore fa del prodotto agricolo principale, poiché ciò
rientrerebbe nell’attività principale; ma si ha commercializzazione come un’attività connessa
quando c’è una vendita insolita del prodotto principale (es.: un contadino apre un negozio in
paese per vendere i suoi prodotti, vendita prodotto trasformato).
11. Il piccolo imprenditore (art.2083 c.c.). L’imprenditore che non fallisce (art.
1 l. fall.) o impresa minore (art.2, 1° c., lett. D, CCI). I tipi di pubblicità previsti
nel nostro ordinamento.
Gli imprenditori agricoli e i piccoli imprenditori sono esonerati dal fallimento. Quest’ultimi
sono definiti dall’art. 2083 c.c.: "sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli
artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata
prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia.” Le tre figure
nominate si riferiscono ai principali tipi di attività conosciute: i coltivatori diretti sono quelli
che svolgono attività agricola, gli artigiani sono quelli che svolgono attività di produzione di
beni o servizi, i piccoli commercianti sono coloro che si occupano dello scambio.
Il problema interpretativo dell’art. 2083 sta nell’avverbio “prevalentemente”. Opinione
solida è che questa prevalenza sia sui fattori della produzione, cioè sia sul lavoro dei
dipendenti, sia sul capitale investito nell’impresa. Di conseguenza il legislatore avrebbe
potuto specificare meglio il criterio di prevalenza (quanti dipendenti, quanto capitale). Ciò
non è stato fatto poiché nel diritto le norme che si appoggiano su criteri elastici sono le più
longeve perché riescono ad adattarsi ai cambiamenti. Quindi per quanto riguarda il lavoro i
dipendenti non possono essere molti, perché il ruolo del titolare deve essere più pregiato
degli altri.
Per calcolare la prevalenza rispetto al capitale investito si è adottato il criterio seguente: il
lavoro del titolare dell’impresa è monetizzato, calcolando quanto costerebbe se fosse svolto
alle dipendenze di un altro imprenditore. Quindi, si può calcolare che un lavoratore del
genere guadagni 2 o 3 mila euro al mese, che su base annua fanno 24.000-36.000 euro, se il
capitale fisso resta più o meno al di sotto di questi valori, l’impresa è piccola; se li supera è
una media impresa. Nel calcolo del lavoro il numero dei familiari non conta, infatti la piccola
impresa può avvalersi liberamente e senza limiti del lavoro dei familiari. Con la riforma della
legge fallimentare del 2006 si intese riprendere la disciplina dell’imprenditore sottratto al
fallimento. Si dichiarava, sempre nell’art. 1, che non erano piccoli imprenditori coloro che
avessero realizzato ricavi lordi annui superiori ai 200.000 euro. Con questi valori netti si
usciva da parte delle situazioni di incertezza, ma rimaneva il dubbio se tutti coloro che
percepivano di meno fossero tutti piccoli imprenditori o no.
Con un decreto correttivo della riforma del 2006, nel 2007, la formulazione fu in parte
cambiata principalmente nel comma 2° dell’art. 1. Quindi ai criteri dei 300.000 euro di attivo
patrimoniale e dei 200.000 di ricavi lordi viene aggiunto un terzo criterio, basato
sull’ammontare dei debiti. Inoltre, non si fa più menzione del piccolo imprenditore e non si
dà un nome a questa fattispecie di imprenditore, rendendo difficile riferirsi ad esso. Anche
se, grazie al Codice ella crisi, si è deciso di chiamare l’impresa che possiede i 3 requisiti
dell’art. 1 l. fall.: impresa minore.
Abbiamo così, dal 2006, 3 categorie: gli imprenditori commerciali, assoggettabili al
fallimento; gli imprenditori che non falliscono (imprese minori); e i piccoli imprenditori.
Resta un’incognita il coordinamento tra “impresa minore” e “piccolo imprenditore”. Anche
se, l’imprenditore che non fallisce non si può definire piccolo poiché può avere un capitale
investito di 30.000 euro; Dunque, l’interpretazione che si propone è:
-la norma dell’art.1, l. fall., ha un valore successivo, cioè entra in scena nel momento in cui il
fallimento è stato dichiarato, l’imprenditore che verifica in quel momento la sua
permanenza al di sotto dei 3 parametri non è un piccolo imprenditore, perché i parametri
sono alti; egli è un imprenditore medio, iscritto nel Registro delle imprese e tiene le scritture
contabili, però grazie alla norma in questione viene esonerato dal fallimento.
Il comma 2° dell’art. 1, l. fall., presenta dei criteri successivi, per semplificare le procedure
concorsuali; mentre, quelli presenti nel art. 2083 c.c, sono criteri preventivi volti a definire
la figura di un soggetto giuridico per determinare ex ante il comportamento giuridico.
Sotto il profilo tecnico, nell’art. 1 l. fall. 2°comma, è richiesto il possesso congiunto di tre
requisiti per l’imprenditore che non fallisce: attivo patrimoniale inferiore 300.000 euro,
ricavi annui inferiori ai 200.000 euro, e debiti inferiori ai 500.000 euro. L’aggiunta del criterio
dei debiti inferiori ai 500.000 euro ha come fondamento l’evitare l’onere della procedura
fallimentare nei casi in cui l’esposizione debitoria non è elevata. Occorre inoltre coordinare
l’art. 1 con un criterio quantitativo, quello residuale dell’art.15, l. fall.: il fallimento non viene
dichiarato se l’impresa ha debiti inferiori ad 30.000 euro; quindi, il criterio si applicherà a
quei casi in cui gli altri due criteri del comma suddetto non ricorrono.
Il riferimento all’ammontare dei debiti spezza la logica che sta alla base dell’art. 2083, che
premiava chi meglio facesse fruttare il capitale (limiti per i dipendenti e per il capitale
investito, no per i ricavi); quindi un sog. con un piccolo investimento poteva avere grandi
guadagni pur rimanendo un piccolo imprenditore. Oggi i criteri del capitale, fatturato e
debiti sono mescolati, e non hanno una prospettiva premiale; inoltre, i loro limiti sono
elevati poiché le imprese tendono crescere.
L’aumento di iscrizioni che ha preso il legislatore con l’istituzione del “Registro delle
imprese” ha portato a prevedere l’iscrizione anche del piccolo imprenditore nella sezione
speciale del Registro, anche se solo per fini anagrafici e di pubblicità notizia.
Esistono 3 tipi di pubblicità:
Di tale articolo si analizza solo il 1°comma, mentre il 2° contiene solo specificazioni sul
computo dei lavoratori. La legge-quadro ha posto dei numeri massimi ben precisi ai
dipendenti che l’imprenditore artigiano può avere. Tali limiti sono abbastanza alti, il numero
ordinario, per le imprese che non lavorano in serie è di 18 dipendenti. La ratio che ha
ispirato l’apposizione di questi numeri è: più l’impresa è meccanizzata, maggiore è
l’investimento in attrezzature e meno dipendenti sono concessi, per controbilanciare il
maggior investimento di capitali. Quindi, all’impresa che lavora in serie sono concessi solo 9
d.; chi lavora nel trasporto ha bisogno di investire in autocarri (che valgono molto) e gli sono
concessi solo 8d.; per il settore edile i dipendenti concessi sono 10; per l’abbigliamento su
misura, essendo poco automatizzato, sono concessi 32 d.
Infine, vi è un adempimento formale per il riconoscimento della qualità di artigiano:
Albo delle imprese artigiane, art. 5, 1° e 5°comma: 1) è istituito l’albo provinciale delle
imprese artigiane, al quale sono tenute ad iscriversi tutte le imprese aventi i requisiti di cui
all’art. 2,3 e 4 secondo le formalità previste per il registro delle ditte dagli art. 47 e seguenti
del regio decreto 20/09/1934, n.2011. 5) l’scrizione all’albo è costitutiva e condizione per la
concessione delle agevolazioni a favore delle imprese artigiane.
Il 1°comma istituisce l’albo delle imprese artigiane, insediato nel 1985 presso le Camere di
commercio, alcuni anni dopo, per semplificare le cose, si decise di inglobare l’albo nella
sezione speciale del Registro. Nonostante si trovi nella sezione speciale tale iscrizione è
costitutiva, cioè è condizione necessaria per ricevere le agevolazioni a favore delle imprese
artigiane. Questo comma è importante perché sottolinea che lo scopo della legge artigiana è
stabilire un metodo di individuazione di soggetti, i quali beneficeranno di determinate
agevolazioni.
L’effetto civilistico del fallimento è estraneo a questa disciplina. Ciò è dovuto al fatto che il
numero di dipendenti qui previsto è superiore a quello che abbiamo visto essere proprio del
piccolo imprenditore. Perciò l’artigiano della legge-quadro non è l’artigiano di cui tratta
l’art.2083 per quanto riguarda le dimensioni imposte. Ciò nonostante, agganciandosi alla
parola “costitutiva”, del comma, ha sostenuto che la qualifica di artigiano varrebbe ad ogni
effetto di legge.
1)Se dunque, l’iscrizione vale a tutti gli effetti, allora chi è artigiano ai sensi della legge-
quadro lo è ad ogni effetto.
I professionisti non protetti sono categorie nuove, che non sono ancora state riconosciute a
livello sociale e statale. Ad esempio, gli psicologi non avevano un albo, mentre oggi ce
l’hanno; lo stesso iter hanno affrontato le professioni legate all’ambito medico; i disegnatori
pubblicitari, i consulenti informatici e i patrocinatori stragiudiziali nell’infortunistica stradale
(nuova professione redditizia per i molti incidenti d’auto) non hanno ancora ottenuto un
riconoscimento. Questi professionisti hanno una doppia scelta: possono operare come
professionista o come imprenditore. Nel primo caso conclude contratti d’opera
intellettuali. Nel secondo caso concluderà contratti di prestazione d’opera manuale se le
sue dimensioni sono piccole, di appalto se sono medio-grandi; nell’ultimo caso egli sarà
assimilabile ad un imprenditore commerciale medio-grande, assoggettabile ad eventuale
fallimento.
Nell’autunno del 2011 ci fu una rincorsa tra un progetto di legge dedicato all’insolvenza
degli imprenditori non-commerciali e un decreto di legge emanato in via d’urgenza dal
governo Monti. Che si occupava dell’insolvenza del consumatore (comune cittadino che
acquista beni e servizi). Si giunse infine alla legge 27/01/2012 sugli imprenditori non-
commerciali, che venne poi modificata dal decreto-legge, il quale aggiunse la parte dedicata
ai semplici consumatori. Così, dal 2012 l’ordinamento possiede procedure liquidatorie
dedicate a tutti i soggetti non-imprenditori commerciali che si trovano in uno stato
corrispondente all’insolvenza ma che il legislatore ha ritenuto di chiamare
sovraindebitamento. Queste procedure nel corso del tempo non hanno trovato ampia
applicazione per via di ritardi attuativi e mancata conoscenza degli operatori.
Ora il Codice della crisi, entrato in vigore nella sua interezza nel settembre del 2021, ha
unificato in sé tutte le procedure liquidatorie, accanato a quella “giudiziale” per
l’imprenditore commerciale si troveranno le procedure di risoluzione del
sovraindebitamento per gli altri soggetti. La def. Di sovraindebitamento è: “lo stato di crisi o
di insolvenza del consumatore, del professionista, dell’imprenditore minore,
dell’imprenditore agricolo, delle start-up innovative... e di ogni altro debitore non
assoggettabile alla liquidazione giudiziale ovvero a liquidazione coatta amministrativa o ad
altre procedure liquidatorie” In presenza di tale stato, i soggetti diversi dall’imprenditore
commerciale possono rivolgersi all’OCC (organismo di composizione della crisi), formato da
esperti e costituito presso i tribunali per instaurare una procedura risolutoria concordata o,
in caso di cattivo esito, accedere ad una procedura liquidatoria. La prima procedura,
corrispondente al concordato preventivo dell’imprenditore commerciale, si chiama
concordato minore per gli imprenditori agricoli, le imprese minori e piccole, i professionisti
e le start-up e piano di ristrutturazione dei debiti per i consumatori; la seconda, simile alla
liquidazione giudiziale delle imprese commerciali, si chiama liquidazione controllata e vale
per tutti i soggetti.
Inoltre, il CCI stabilisce che la domanda di liquidazione controllata possa essere presentata
dal debitore sovra indebitato, ma anche dai suoi creditori, se si tratta di imprenditori anche
dal Pubblico Ministero. Se la domanda al tribunale è proposta dallo stesso debitore, egli
non necessita del patrocinio di un legale e si fa assistere direttamente dall’OCC.
-Preposizione institoria, art. 2203:” è institore colui che è proposto dal titolare all’esercizio
di un’impresa commerciale. La preposizione può essere limitata all’esercizio di una sede
secondaria o di un ramo particolare dell’impresa. Se sono preposti più institori, questi
possono agire disgiuntamente, salvo che nella procura sia diversamente disposto”. Esso è
messo a capo; quindi, l’imprenditore può aprire un’impresa a suo nome, porvi a capo
l’institore e farla dirigere a lui. Ai poteri dell’institore è dedicato l’articolo 2204. Esso può
compiere tutti gli atti riguardanti l’impresa, quindi ha una rappresentanza generale che si
distingue da quella speciale, o per singoli atti. La procura dell’institore è generale salvo un
limite di legge: non può alienare o ipotecare immobili sull'impresa; solo l’imprenditore ha il
controllo sugli atti di maggior valore economico. Questa procura può contenere ulteriori
limiti stabiliti dallo stesso imprenditore, tali limiti devono essere pubblicizzati, cioè iscritti,
per essere validi. Il 1°comma dell’art.2206 dice che la procura institoria è esplicita e soggetta
a pubblicità, però il 2°comma e il 1°comma dell’art.2204 dice che i poteri rappresentativi
derivano all’institore dal fatto di essere nominato tale, e non dal rilascio o dall’iscrizione
della procura. Quindi, tutta la disciplina degli “ausiliari dell’imprenditore” prevede
l’attribuzione automatica di poteri rappresentativi in conseguenza dell’assunzione di un
determinato ruolo all’interno dell’impresa. Se poi l’imprenditore vuole ridurre tali poteri,
deve valersi dell’iscrizione nel Registro delle imprese. Le limitazioni non iscritte possono
essere opposte al terzo solo provando che egli le conosceva. L’art. 2208 introduce una
particolare disciplina sulla spendita del nome, tale espressione si riferisce al fatto che, se un
rappresentante agisce in nome di un altro soggetto, deve spendere (cioè farne) il nome. La
regola imposta da questo articolo è detta contemplatio domini presunta e mira a risolvere il
problema dell’institore che si dimentica di spendere il nome dell’imprenditore. In questo
caso l’institore rimane obbligato personalmente. Ma gli atti dell’impresa possono essere di
importo rilevante e non è detto che il patrimonio personale dell’institore sia sufficiente per
rispondere ad un’obbligazione tale; allora il legislatore ha voluto addossare al terzo
contraente il rischio di instaurare un rapporto d’affari con un soggetto che non sarà poi in
grado di adempiere. Quindi, nella seconda parte dell’art., dice che bel caso in cui l’atto sia
pertinente all’esercizio d’impresa resterà obbligato oltre all’institore anche l’imprenditore il
cui nome si presume che avrebbe dovuto essere.
Nella società per azioni, l’institore può essere paragonato al direttore generale; ve ne
possono essere più di uno e sono posti a rami particolari dell’impresa. Esso gode di modalità
di retribuzione simili a quelle dei dirigenti, in parte fisse, e in parte legate ad altri fattori.
-I Procuratori: si trovano a livello intermedio della gerarchia dell’impresa e sono disciplinati
dall’art. 2209. All’interno di questa disposizione si trovano le regole sulla pubblicità della
procura e le sue limitazioni dall’institore al procuratore. I poteri rappresentativi dei
procuratori si desumono dalle mansioni alle quali l’imprenditore lo ha destinato.
-I commessi: si trovano all’ultimo livello dei collaboratori dell’imprenditore che entrano in
contatto con i terzi. Sono disciplinati dall’arte. 2210 e 2213. Il 1°comma dell’art.2210
esprime il principio della proporzionalità fra potere rappresentativo e mansioni assegnate;
sono posti limiti soprattutto sul maneggio del denaro da parte di essi, costoro possono
esigere solo il prezzo delle merci che consegnano e applicare sconti d’uso. Se sono
commessi addetti alle vendite, possono ricevere pagamenti solo se non c’è una cassa
apposita e devono rilasciare una quietanza con firma dell’imprenditore. Per le limitazioni dei
poteri rappresentativi dei commessi si ricorre alla messa a conoscenza dei terzi con mezzi
idonei (come i cartelli “NON SI CONCEDONO SCONTI”).
Dal 2°comma dell’art.2563 apprendiamo che occorre specificare nella ditta il cognome
dell’imprenditore. Il nome della società è detto “ragione sociale” nelle s.n.c. e nelle s.a.s., e
“denominazione sociale” in quelle di capitali. Il 1°comma dell’art.2563 dice che i segni
distintivi sono tutelati nella loro originalità. Infatti, l’art.2564 tutela chi per primo ha usato
una ditta e costringe a chi l’ha copiata a cambiarla; la garanzia è data dall’iscrizione nel
Registro delle imprese.
La ditta può anche essere trasferita, ma l’art.2565 impone che non la si possa trasferire
indipendentemente dall’azienda, cioè insieme al complesso produttivo di cui l’imprenditore si
avvale. La ratio di questa regola sta nella tutela del consumatore, infatti, si mira ad evitare
che costui veda l’indicazione di una ditta a lui nota e sia convinto di trovarsi di fronte ad un
certo prodotto, mentre l’imprenditore è cambiato.
L’insegna è il cartello posto al di fuori dei locali in cui si esercita l’impresa; su di essa figura la
ditta, e può avere dei segni peculiari; perciò, è tutelata sotto il profilo della sua generalità.
La stessa tutela è accordata al marchio che è il nome sul prodotto.
Gli art.2569-2571 riguardano la registrazione che offre protezione sicura per il proprio
marchio, ma anche un marchio non registrato gode di tutela, se si riesce a dimostrare che lo
si è usato per primi. Oggi le leggi del mercato suggeriscono un uso attivo e quindi aggressivo
dei segni distintivi, come arma per combattere la guerra commerciale. Spesso può accadere
che un singolo prodotto divenga più famoso del nome dell’impresa che lo produce, e a
questo punto può inglobare o venire associato alla ditta (Kinder&Ferrero). Sono trucchi di
economia altamente commercializzata, in cui i metodi della psicologia vengono applicati
all’uso dei segni distintivi. Possedere un marchio dotato di elevata popolarità è molto più
utile per guadagnare denaro che saper realizzare un prodotto buono. Si è così sviluppato
negli ultimi decenni il cosiddetto “merchandising”, cioè quel fenomeno in cui il marchio
scavalca il prodotto al quale era stato originariamente destinato ed acquisisce una sua
indipendenza e valore evocativo autonomo, un esempio è la Coca-cola. Non è ovviamente la
stessa impresa produttrice della bibita che si mette a produrre tutte queste merci: il
marchio viene dato in affitto. La gestione dei propri marchi diventa così per le imprese
oggetto di vere e proprie strategie; in riferimento a tali attività di organizzazione aziendale
volte a valorizzare ed imporre i propri marchi, si parla di “branding”.
Il marchio ha 3 forme: può essere denominativo, cioè consiste in parole e nomi; può essere
emblematico, cioè comprende figure, colori, suoni, anche associati; ed infine può essere
misto. La disciplina sui marchi è contenuta nel d. lgs. N.30 del 2005, in cui si trova la
disciplina dei segni distintivi e dei brevetti.