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DIRITTO COMMERCIALE

CAPITOLO II: L’IMPRESA (con cenni sull’azienda e sui segni


distintivi)
1. L’imprenditore in generale (art. 2082 c.c.)
Dal concetto di “commerciante” si passa a quello di “imprenditore”, presente nel C.c.
unificato del 1942, il quale ne dà una definizione all’art. 2082: “è imprenditore chi esercita
professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello
scambio di beni o servizi”. Tale definizione comprende tutti gli imprenditori poiché ha come
sfondo sociale la creazione di una forte solidarietà sociale. Per raggiungere ciò bisognava
creare una solidarietà sociale fra imprenditori, ovvero coloro che non sono lavoratori
subordinati, ma esercitano un’attività autonoma. L’unificazione degli imprenditori in una
sola definizione comporta una deformazione della realtà poiché ci possono essere grandi
differenze tra loro. Infatti, la norma dell’art. 2082 rimane una declamazione di principio
senza avere reali applicazioni nel diritto.
GLI ELEMENTI DELLA DEFINIZIONE: gli elementi in cui si scompone l'art. 2082 sono...
A)la professionalità: “esercita professionalmente...”, l’elemento significativo sul piano
giuridico; infatti, la legge richiede che l’attività sia esercitata professionalmente, con
continuità e con abitualità. Bisogna ricordarsi che l’autoproduzione o la produzione
occasionale di qualcosa non è mai attività d’impresa. Nella specificazione della
“professionalità” come “abitualità” la dottrina ha preso spunto dal Codice del commercio
abrogato e ci si è accordati che essa non vuol dire necessariamente attività ininterrotta.
B)l’economicità: si parla nell’art. 2082 di “attività economica”; perciò ci si chiede se in tale
definizione sia compresa la lucrativa dell’attività d’impresa. Siccome si è deciso di
comprendere sia gli imprenditori privati che pubblici e questi ultimi non mirano al lucro,
cioè non hanno come scopo il profitto; ciò impedirà che la lucratività sia un attributo
essenziale per tutti gli imprenditori. Infatti, l’impresa pubblica è un’impresa commerciale nel
momento in cui svolge un’attività commerciale, ma non mira al profitto, bensì a conseguire
finalità di pubblico interesse (es. trasporti). Vi è poi un altro tipo d’impresa, la società
cooperativa, la quale ha uno scopo mutualistico (non lucrativo), cioè quello di un reciproco
aiuto/vantaggio di collaborazione tra i soci cooperatori. Tale vantaggio può essere
un'opportunità di lavoro o risparmio (cooperativa di lavoro o di consumo). Queste imprese
sono comprese nell’art. 2082 e poiché hanno uno scopo diverso da quello lucrativo,
sottolineano che il lucro non è una delle caratteristiche base che può essere inserito nella
definizione di imprenditore. Così si è deciso di interpretare l’espressione “attività
economica”, nell’art. 2082 c.c., nel senso di un’attività che tenda almeno a non produrre
perdite, cioè che miri almeno al pareggio di bilancio. Questo significato di economicità è
riscontrabile in ogni imprenditore ma è poco realistico, poiché la maggioranza degli
imprenditori è privata e mira al lucro. Tale significato è utile, però, difronte al fisco dove più
della metà delle imprese italiane ha dichiarato reddito zero o negativo, passando i controlli.
Infine, vi è un’eccezione con le società lucrative, nella cui definizione è scritto che l’attività è
svolta “allo scopo di dividerne gli utili” (art 2247 c.c.), in questo modo si dice che nelle
imprese collettive lo scopo di lucro c’è perché è previsto dalla legge. Questo porta a
pensare che le imprese individuali non siano interessante al lucro, ciò non ha senso logico;
ma i giuristi, piuttosto che criticare la legge, accettanola deformazione della realtà da questa
suggerita.
C)l’organizzazione: altra caratteristica base dell’imprenditore presente nella definizione è
quella per cui essa deve essere “organizzata”. Con ciò si vuole intendere l’insieme degli
strumenti o mezzi, materiali ed umani, predisposti dall’imprenditore per lo svolgimento
della sua attività d’impresa. Tuttavia, vi sono imprenditori che operano senza alcuna
organizzazione. Di fronte a questa contraddizione Galgano ha proposto una prima
soluzione: il requisito della contraddizione è superfluo, ovvero essa può sussistere (in
piccola forma) anche senza un’organizzazione. Invece, Campobasso restio a riconoscere
problemi nella legge propone: l’organizzazione è requisito indispensabile dell’impresa,
come presente nella disposizione normativa, che l’impresa sia piccola o grande; coloro che
non la posseggono dovranno essere definiti lavoratori autonomi. Galgano ha replicato in
seguito che il concetto lavoratore autonomo sta al di fuori del diritto commerciale, che
conosce solo imprenditore e non-imprenditore. Comunque, in entrambi i casi il legislatore è
incorso in un’omissione; quindi si è deciso di seguire la tesi per cui avrebbe inserito nell’art.
2082 un elemento non essenziale.

D)la produzione o lo scambio come “fini” dell’impresa: la parte finale dell’art. 2082
stabilisce che l’imprenditore svolge la sua attività “al fine della produzione o dello scambio di
beni e servizi”; anche qui vi è una deformazione della realtà. Dalla legge sembra che
l’imprenditore abbia come fine produzione/scambio, invece del lucro. Perciò quanto detto
prima definisce tutto ciò che l’imprenditore può fare, ma che questo sia il fine
dell’imprenditore è idealistico; infatti, detto così sembra che l’imprenditore abbia come
scopo dell’attività “svolgere l’attività” quando nella realtà il suo scopo è quello di “venderli
e farci guadagno”. Queste discrepanze con la realtà derivano dall‘obiettivo di voler unificare
una categoria e creare un senso di solidarietà. Tale intento è stato in buona parte raggiunto
poiché il piccolo imprenditore si sente parte della comunità assieme al grande imprenditore
nonostante vi siano importanti differenze. Questo è dovuto alla poca produttività degli
intellettuali progressisti nel creare costruzioni teoriche capaci di superare una teorica
ottocentesca senza aggregazioni tra chi vive del proprio lavoro e chi prospera del lavoro
altrui.
LE RICADUTE APPLICATIVE: l’art 2082 non presenta particolari effetti sul piano del diritto, se
non quelli che consistono nell’applicabilità dello “statuto generale dell’imprenditore”, che
comprende:

• Una parte della disciplina aziendale e dei segni distintivi (ditta, impresa, marchio),
con le relative tutele;
• La disciplina della concorrenza (antitrust);
• La disciplina dei consorzi (che sono contratti conclusi fra imprenditori).
Tali norme sono applicabili a tutti gli imprenditori (piccoli e grandi).
TITOLARITA DI PIU IMPRESE: “una stessa persona può essere titolare anche di più imprese”.
Certamente se si risponde illimitatamente anche di una sola di esse, si risponderà anche con
quanto era stato investito nelle altre attività. Viceversa, se si hanno più imprese con
responsabilità limitata, il dissesto di una non si ripercuoterà sulle altre. Un sogg. può essere
lavoratore dipendente presso un’azienda e poi averne una propria, a meno che, la sua
professione non abbia regole speciali che vietino lo svolgimento di altre attività. I divieti di
esercitare attività d’impresa sono molto estesi per diverse categorie di lavoratori pubblici e
intellettuali. La vera “liberalizzazione” delle attività economiche sarebbe quella di
rimuovere questi ostacoli, anziché accanirsi in “micro-liberalizzazioni” di settori specifici. Ad
oggi la vera disuguaglianza della società moderna è la partita IVA (negata alla generalità di
cittadini), essa consente risparmi fiscali cospicui. La sua generalizzazione porterebbe per
contro allo Stato entrate cospicue ed una riduzione del lavoro “in nero”.

2. L’imprenditore come capo dell’impresa. Gli assetti organizzativi adeguati


(art. 2086 c.c.)
L’art. 2086 c.c. (disciplina dell’imprenditore) contiene un primo comma tradizionale e non
rilevante, e un secondo di forte interesse.
2086. Gestione dell’impresa: “1)L’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono
gerarchicamente i suoi collaboratori. 2)L’imprenditore, che operi in forma societaria o
collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile
adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione
tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della comunità aziendale, nonché di
attivarsi per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il
superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”.
Il primo comma afferma che l’imprenditore è il capo dell’impresa. Tale norma è
tecnicamente inutile, ma ideologicamente valida: svia l’attenzione dal fatto che è la
proprietà dei mezzi di produzione a determinare il potere sulle persone che questi mezzi
adoperano e fa sembrare che invece sia la legge a concedere ciò all’imprenditore. Sotto il
fascismo questa funzione era esplicita poiché tale regime nasce come risposta per arginare
la vittoria del socialismo. Il quale contestava la legittimità della proprietà dei mezzi di
produzione, sostenendo che essa è diversa dalla proprietà dei beni personali. Il regime
fascista mirava a mascherare il fatto che l’imprenditore era quasi sempre il proprietario dei
mezzi di produzione; perciò, la parola “proprietà” doveva essere evitata. Proprio così, con
tale norma si cerca di dare una diversa giustificazione al comando d’impresa; in questo
modo si cerca di mettere fuori causa il fatto che la proprietà determina il potere dell’uomo
sull’uomo.

Il secondo comma dell’art., introdotto dalla riforma del fallimento del 2019, ha dato
importanza a questa disposizione: introduce l’obbligo, per gli imprenditori...(vedere 2) parte
art.2086). La riforma del 2019 ha ridenominato la procedura fallimentare come
“liquidazione giudiziale” e ha istituito una fase precedente che mira a risolvere la crisi
d’impresa prima che si trasformi in insolvenza. Con ciò la legge intende stabilire dei
meccanismi di rilevazione tempestiva della crisi, prima che essa porti l’imprenditore a non
riuscire più a pagare regolarmente i propri debiti (insolvenza). Inoltre, proprio in
collegamento con questo nuovo concetto di crisi sono stati istituiti e messi in atto gli assetti
organizzativi dell’art. 2086 per la risoluzione della crisi. Il 2° comma di tale art. Si collega con
il corrispondente 2° comma dell’art.3 Codice della crisi d’impresa:

“L’imprenditore individuale deve adottare misure idonee a rilevare tempestivamente lo stato


di crisi e assumere senza indugio le iniziative necessarie e farvi fronte. L’imprenditore
collettivo deve adottare un assetto organizzativo adeguato ai sensi dell’art. 2086 c.c., ai fini
della tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell’assunzione di idonee iniziative.”

Da notare che nell’art. 2086, il 2°comma dispone per le imprese collettive e non
individuale, anche se inizialmente erano entrambe comprese, poiché il legisl. da per
scontato che le imprese individuali siano più piccole e con una organizzazione più
semplificata e quindi ha ripiegato su una prescrizione apparentemente più leggera, che
consiste nella traduzione degli “assetti adeguati” in “misure idonee”. Inoltre, non è detto
che un’impresa individuale sia sempre piccola, così non lo è un’impresa collettiva sempre
grande (es.: piccole società). Infatti, gli “assetti organizzativi adeguati” sono stati introdotti
per la prima volta nel nostro ordinamento dalla riforma delle società di capitali del 2003 per
le società per azioni (art.2081), e per quelle dimensioni hanno una logica; istituire “assetti
organizzativi adeguati”, in una S.p.a., significa nominare della vigilanza in questione un
direttore generale. L’uso dell’espressione “in forma societaria o collettiva”, usata nel 2°
comma art.2086, non sarebbe stato sufficiente perché le società non sono le uniche imprese
collettive; infatti, anche associazioni e fondazioni con attività esterna diventano “imprese”
quando si dedicano ad attività imprenditoriali.

3. L’imprenditore commerciale (art.2195 c.c.)


L'art. 2195 è la disposizione centrale del diritto commerciale, definisce l’imprenditore
commerciale, cioè quello soggetto ad una procedura liquidatoria in caso di insolvenza.
Questo art., come l’art. Del C. di commercio precedente, elenca gli atti e le attività che
definiscono la figura di imprenditore commerciale:
2195. Imprenditori soggetti a registrazione: “sono soggetti all’obbligo dell’iscrizione nel
Registro delle imprese gli imprenditori che esercitano: 1)un’attività industriale diretta alla
produzione di beni o di servizi; 2)un’attività intermediaria nella circolazione dei beni;
3)un’attività di trasporto per terra, per acqua o per aria; 3)un’attività bancaria o assicurativa
4)altre attività ausiliarie delle precedenti (imprenditori che lavorano per altri imprenditori).
Le disposizioni della legge che fanno riferimento alle attività e alle imprese commerciali si
applicano, …, a tutte le attività indicate in questo articolo e alle imprese che le esercitano.”
La prima è l’attività detta “industriale” e la compie chi produce; la 2a è l’attività di
“scambio” e la compie chi compra per rivendere (commercia) costituendo la catena
distributiva. Per quando riguarda il termine “industriale”, nel art. 2195, vuol riferirsi nel
significato a tutto ciò che non-agricolo. Infatti, il legislatore ha inserito una disciplina
particolare per chi produce beni agricoli. Per di più, si può dire che gli unici numeri davvero
essenziali, dell’art.2195, sono il n. 1 e 2 ai quali possono essere ricondotte tutte le altre
attività elencate nell’art; si pensi che nell'antecedente C. del commercio gli atti di
commercio erano elencati nell’art. 3 erano molti di più.

4.Gli “atti di commercio” nel Codice di Commercio del 1882. Le società


occasionali.
Il carattere di definizione per esempi utilizzato nell’art. 3 del Codice del 1882 è stato ripreso
nell’art.2195. (Vedere testo art. 3 C. del Com.).
COPIA INCOLLA CAPITOLO

5.Lo “statuto” dell’imprenditore commerciale.


Lo svolgimento di una di queste attività fa acquisire la qualità di imprenditore commerciale,
indipendentemente da ogni volontà o consapevolezza in proposito; di fatti un soggetto può
anche non conoscere la legge, ma se svolge una di quelle attività ne subirà le conseguenze
giuridiche (assoggettamento al fallimento in caso di insolvenza). La qualifica di imprenditore
commerciale prescinde anche dalla forma in cui l’attività è svolta: sia essa individuale,
collettiva (s.p.a. o s.n.c.) o con scopi altruistici (Onlus). La legge fa discendere la conseguenza
dell’assoggettamento dell’imprenditore al cosiddetto “statuto dell’imprenditore
commerciale”. Per statuto si intende L’insieme della disciplina ed è composta da tre aspetti:

• 1)l'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese,


• 2)l'obbligo di tenuta delle scritture contabili;
• 3)l'assoggettamento ad una procedura liquidatoria coattiva in caso di insolvenza.

1)Esso si trova nella rubrica dell’art.2195, che è “imprenditori soggetti a registrazione”. Il


Registro delle imprese fu previsto già nel 1942 con il Codice Civile; prima esisteva il registro
dei commercianti, ma il legislatore decise di realizzare un sistema più organico di
ricognizione. Il Registro delle imprese venne attuato solo nel 1993. Nel periodo intermedio
tutte le società di capitali (s.p.a., s.r.l., s.a.p.a.), che non esistono se non iscritte nel Registro,
si era stati costretti ad attuare un regime provvisorio presso la cancelleria dei tribunali.
Questo sistema, che oberava le cancellerie di ulteriore lavoro, non comprendeva gli
imprenditori individuali che erano privi di uno spazio per iscriversi. Il Registro delle imprese
fu attuato nel 93’ presso le Camere di commercio. La sua disciplina è data dall’art. 8,1 del
29/12/93 dal relativo decreto di attuazione, d.p.r. n.581 del 7/12/95, e in seguito dal suo
decreto semplificativo del 99’. La mancata iscrizione è punita con una sanzione
amministrativa pecuniaria e le conseguenze di legge scattano a prescinder dall’iscrizione per
gli imprenditori. L’istituzione del Registro ha portato ad esagerare con le iscrizioni.

2)Per quanto riguarda la tenuta delle scritture contabili, esse sono specifici documenti che
attestano l’attività contabile dell’impresa e sono: il libro giornale, il libro degli inventari, la
corrispondenza, le scritture relativamente obbligatorie.
Nel libro giornale l’imprenditore annota giornalmente il risultato della sua attività. Il libro
degli inventari contiene l’elencazione dei beni che entrano ad escono dall’impresa e si
chiude ogni anno con il bilancio. La corrispondenza è rappresentata dalle lettere e dalle
fatture in originale e in copia. Queste sono le scritture che tutti gli imprenditori commerciali
devono tenere, e sono assolutamente obbligatorie. Vi sono poi scritture che sono
relativamente obbligatorie, e sono quelle “richieste dalla natura e dalle dimensioni
dell’impresa” (art.2214 c.c.); esse sono una serie di altri libri che sono obbligatori, in quanto
si abbia una struttura organizzativa tale da richiederli. Un es. sono: il libro magazzino, se si
ha un magazzino; il libro cassa, se c’è una cassa per l’attività di rivendita; il libro mastro,
dove c’è l’elenco dei clienti. I libri devono essere tenuti secondo le norme “di un’ordinata
contabilità” (art.2219 c.c.): vanno compilati in modo chiaro e leggibile, rilegati, senza fogli
aggiunti, senza cancellature e i fogli vanno numerati progressivamente e bollati in certi casi;
oggi con l’informatizzazione dei libri contabili ci si rifà alle regole sulla struttura dei files
informatici. Le scritture contabili dell’imprenditore hanno un valore processuale: esse di
regola fanno prova contro l’imprenditore che le ha realizzate; poiché se le scritture
facessero prova a favore anche nelle cause in cui l’avversario è un non-imprenditore, ciò
incoraggerebbe comportamenti fraudolenti, perché l’imprenditore potrebbe scrivere un suo
credito a favore di X e chiamarlo in giudizio; facendo le scritture prova, sarebbe X a dover
fornire la controprova, dimostrando che non deve quella somma all’imprenditore e subendo
così un indebito capovolgimento dell’onere probatorio. Inoltre, X non ha sue scritture con
le quali controbattere quelle dell’imprenditore; ciò dimostra perché le scritture possono far
prova a favore dell’imprenditore solo allorché anche l’altro sia imprenditore commerciale.
3)Lo scopo del primo e del secondo requisito convergono nel terzo: infatti tenere il conto
delle imprese commerciali e obbligarle a rendicontare la loro attività nelle scritture ha come
fine ultimo quello di poter ricostruire la loro attività nel caso del verificarsi di un’insolvenza.
Se la qualità di imprenditore commerciale è il presupposto soggettivo del fallimento,
l’insolvenza è il suo presupposto oggettivo; essa consiste nell’incapacità di adempiere
regolarmente alle proprie obbligazioni, o meglio: "lo stato del debitore che si manifesta con
inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di
soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”. È nel momento dell’insolvenza che diventa
necessario poter ricostruire nel modo più attendibile l’attività dell’imprenditore con i libri
contabili, la cui mancanza porta a conseguenze penali: bancarotta semplice o fraudolenta (x
falsificazioni). Si identifica la figura dell’imprenditore allo scopo di capire chi deve essere
assoggettato alla liquidazione giudiziale e si trovano in questa situazione tutti coloro che
svolgono una qualsiasi attività a livello autonomo, a meno che non rientrino nella categoria
del piccolo imprenditore, quella dell’impresa minore o dell’imprenditore agricolo. LA regolo
generale, anche per i non-imprenditori, è che i creditori vengono pagati nell’ordine
temporale in cui si presentano (criterio della prevenzione). La liquidazione giudiziale serve,
quindi, a tutelare l’insieme generalizzato dei creditori, attuando la “par condicio”, evitando
che alcuni possano avere un trattamento migliore rispetto ad altri; ciò ha senso per tutte
quelle imprese che hanno molti creditori. Perciò sarà utile aprire la liquidazione giudiziale
quando l’impresa ha un grosso movimento di valori.
Per l’imprenditore commerciale insolvente, l’assoggettamento alla liquidazione giudiziale
non è una scelta, anche se può esserlo: legittimati al ricorso con cui si chiede l’apertura del
procedimento sono l’imprenditore-debitore, i suoi creditori, gli organi e autorità
amministrative che hanno funzioni di controllo e di vigilanza sull’impresa, ed infine il
pubblico ministero. La legittimazione dell’imprenditore gli permette di liberarsi di un
numero eccessivo di procedure liquidatorie individuali e sistemare le pendenze. Se
l’imprenditore nega le sue difficoltà, la situazione di insolvenza si protrae e danneggia i
creditori, che sono legittimati a chiedere l’apertura del procedimento (stessa cosa è per il
PM e gli altri organi). La recente riforma del 2019 ha introdotto meccanismi di rilevamento e
risoluzione della crisi d’impresa, che precede l’insolvenza, nel tentativo di evitare
quest’ultima. La crisi è definita “lo stato di difficoltà economica-finanziaria che rende
probabile l’insolvenza del debitore, per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi
di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate” (Cod. Crisi). Vi
sono poi indicati, nell’art. 13 del Cod. Crisi., gli indicatori della crisi (1°comma), mentre al
2°comma si incarica il Consiglio nazionale dei dottori e dei commercialisti ed esperti
contabili di specificare questi indicatori, aggiornandoli ogni 3 anni, per ogni tipo di attività
economica. Al verificarsi di tali indicatori dovrebbero attivarsi gli strumenti di allerta che
sono quei meccanismi organizzativi che l’imprenditore deve predisporre, a cui si affiancano
gli organi di controllo societari (revisore contabile e la società di revisione) e i creditori
pubblici qualificati (Agenzia delle entrate, INPS, agente riscossione fiscale).

Se si verifica una crisi, i primi ad attivarsi saranno i soggetti qualificati o il debitore; nel
primo caso, i sogg. invieranno una segnalazione, nel secondo caso il debitore rivolgerà
un’istanza all’Organismo di composizione della crisi d’impresa (OCRI). Esso si trova presso
ogni Camera di commercio ed è formato da esperti provenienti dall’albo speciale tenuto
presso il Ministero della Giustizia (art.356 Cod. Crisi). L’OCRI promuoverà il procedimento di
composizione assistita della crisi, disciplinata dal Cod. Crisi, col quale si cercherà di
risolverla e in caso negativo essa si trasformerà in insolvenza, dichiarata con la procedura di
liquidazione giudiziale. Seguirà la nomina da parte del tribunale concorsuale degli organi
relativi: giudice delegato e curatore. Sotto il controllo del primo, il secondo procede
all’inventario dei beni residui del patrimonio del debitore insolvente, compila l’elenco dei
creditori, mettendogli in ordine di preferenza secondo le cause di prelazione; e poi inizia a
liquidare il patrimonio fallimentare, distribuendo il ricavato della vendita dei beni in
proporzione ai creditori.

Con la riforma del 2019 ha messo sotto stretto controllo l’attività dell’imprenditore;
quest’ultimo ha accettato ciò per coprirsi dai rischi e non dover rispondere del cattivo
andamento degli affari. Le uniche conseguenze che permangono sono quelle penali, già con
la riforma del 2007.

6. Le fonti del diritto commerciale sotto il Codice di commercio.


I primi 2 art. Del Cod. Di commercio si riferiscono alle sue fonti.
1. In materia di commercio si osservano le leggi commerciali. Ove queste non dispongono, si
osservano gli usi mercantili: gli usi locali o speciali prevalgono agli usi generali. In mancanza
si applica il diritto civile.

2. Le borse di commercio, le fiere ed i mercati, i magazzini generali, i punti franchi e gli altri
istituti che servono al commercio sono governati da leggi speciali e da regolamenti.
Essi delineano una gerarchia delle fonti un po’ diversa da quella cui siamo abituati. Al primo
posto traviamo le leggi commerciali, segno che lo Stato ha preso le redini nella normazione
in materia commerciale; in mancanza di una legge vi sono gli usi mercantili, di cui
prevalgono quelli locali rispetto a quelli generali; poi segue, all’ultimo posto, il diritto civile.

7. L’imprenditore agricolo: la definizione.


L’imprenditore agricolo è definito nell’art. 2135 c.c.
Le attività elencate nel 1°comma si chiamano attività agricole principali e sono: coltivazione
del fondo, selvicoltura e allevamento. Oltre a queste vi sono anche delle attività connesse
spiegate nel 3°comma. Il 2°comma illustra cosa si intende per attività principali. Questo art.
È stato riformato nel 2001, dove vi sono state fatte delle specificazioni. Fino al 2001 si
richiedeva che le attività agricole principali venissero esercitate su un fondo, altrimenti le si
considerava delle attività commerciali, ciò per mantenere la tradizione. Nel 42’, con il Codice
civile, si voleva sottolineare il legame col fondo per evitare che gente che non aveva nulla a
che fare con il mondo contadino si definisse imprenditore agricolo, usufruendo dei
trattamenti favorevoli. La progressiva automatizzazione dell’agricoltura però ha iniziato a
creare problemi agli stessi agricoltori. Quindi, il legislatore ha deciso di ampliare il criterio:
“oggi l’imprenditore agricolo è colui che si dedica alla cura e sviluppo di un ciclo biologico, o
di una fase di esso, purché necessaria, relativa ad una specie vegetale o animale”. Infatti il
ciclo biologico può essere svolto ovunque. Per quanto riguarda l’allevamento, alla
precedente espressione “allevamento di bestiame” è stata sostituita, nel 2001, con
“allevamento di animali”. Anche qui, il cambiamento è stato fatto per ampliare ciò che
poteva essere oggetto dell’allevamento. Un altro dato significativo di questo comma è
l’inserimento fra le attività agricole della pescicoltura, che prima era considerata un’attività
commerciale.

8. Le attività connesse.
Esse si trovano nel 3°comma dell’art. 2195. Nella vecchia definizione, prima del 2001, esse
erano “le attività dirette alla trasformazione o all’alienazione dei prodotti agricoli, quando
rientrano nell’esercizio normale dell’agricoltura”.
La nuova disposizione è più articolata, poiché si parla di attività di “manipolazione,
conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione”; pare però che i nuovi
vocaboli non cambino o aggiungano molto al concetto precedente. Ciò che il legislatore ha
voluto fare è lasciare aperto il campo a qualsiasi iniziativa di ordine economico, divenendo
quasi un promotore economico. Le attività connesse hanno però ancora una duplice
limitazione, presente nella vecchia disciplina e mantenuta oggi: la necessità cioè di
rispettare la connessione, che ha un aspetto soggettivo e oggettivo. Quando il 3°comma
esige che tali attività siano esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, pone il criterio
della connessione soggettiva, secondo il quale deve essere lo stesso soggetto a svolgere
l’attività agricola e quella connessa; altrimenti sarebbe un imprenditore commerciale. È
richiesto, poi, che le attività connesse abbiano ad oggetto prodotti ottenuti
prevalentemente da una delle 3 attività principali, come è detto dal criterio di connessione
oggettiva; con il termine “prevalentemente” si intende che almeno il 50% +1 grammo
dell’oggetto dell’attività connessa sia un prodotto proveniente da un’attività principale.
Nella seconda parte del comma vengono aggiunte le attività “dirette alla fornitura di beni o
servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente
impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del
territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite
dalla legge”. A ciò si collega l’attività dell’impresa agrituristica che è disciplinata dalla legge
speciale del 20/02/2006, n. 96.
Quando la legge parla di “commercializzazione” non si deve pensare che essa riguardi la
normale vendita che ogni agricoltore fa del prodotto agricolo principale, poiché ciò
rientrerebbe nell’attività principale; ma si ha commercializzazione come un’attività connessa
quando c’è una vendita insolita del prodotto principale (es.: un contadino apre un negozio in
paese per vendere i suoi prodotti, vendita prodotto trasformato).

9. Il trattamento giuridico dell’imprenditore agricolo.


L'imprenditore agricolo non dovrebbe essere assoggettato alla liquidazione giudiziale, ma
una liquidazione semplice. Per quanto riguarda le scritture contabili non sono tenuti ad
adempiere all’obbligo. Per il registro delle imprese, l’imprenditore agricolo non è tenuto ad
iscriversi, però, se vuole farlo gliene deriva un’efficacia analoga a quella dell’imprenditore
obbligato all’iscrizione. Per esempio, grazie all’iscrizione, può vendere direttamente al
dettaglio i prodotti sul territorio nazionale.

La qualità di imprenditore agricolo discende dall’attività esercitata e non è influenzata da


fattori dimensionali. La ratio di questa regola, posta dal codice del 42’, va vista in
prospettiva storica: l’Italia era un paese agricolo, e l’imprenditore agricolo era visto in una
posizione di debolezza rispetto a quello industriale, poiché è soggetto al doppio rischio: il
normale rischio d’impresa e il rischio meteorologico. Quindi un trattamento privilegiato
avrebbe compensato un rischio più elevato rispetto alle imprese commerciali.
Ad oggi l’agricoltura, però, è industrializzata quasi quanto l’industria, e il rischio
meteorologico è attenuato da previsioni più accurate e da forme tecnologiche di protezioni
maggiori del passato. Perciò parte della dottrina ha criticato la persistenza del regime
privilegiato dell'imprenditore agricolo, ritenendo che essa violi il principio di uguaglianza.
L’attività agricola in rapporto ai tipi sociali: nel nostro sistema vi sono società “commerciali”
e “non-commerciali”; le prime possono svolgere attività commerciali e no, le seconde non
possono svolgere attività commerciali. L’unica società non commerciale è quella semplice.
Dunque, l’unica attività non-commerciale è quella agricola, la società semplice è destinata a
tale attività. Però tutte le altre società commerciali possono esercitare attività agricola.
Sulle scritture contabili: esse non sono obbligatorie per gli imprenditori agricoli; tuttavia, se
questo è in forma di società, sono tenuti a redigere il bilancio; perciò, le scritture dovranno
essere tenute non in quanto obbligo diretto, ma come obbligo funzionale.
A proposito sempre di iscrizione, si è visto che essa è facoltativa per l’imprenditore agricolo
individuale e in forma di società semplice, obbligatoria se in forma di società in nome
collettivo, nel caso si incorrerebbe in sanzioni puramente amministrative; se l’impresa
agricola è sottoforma di società di capitali, l’iscrizione assume valore, poiché non potrebbe
esistere altrimenti.

10. L’imprenditore ittico


La definizione di imprenditore agricolo comprende anche l’attività di allevamento in acque
marine o dolci. Oggi il d. lsg. 18/05/01 definisce “imprenditore ittico” chi “cattura o
raccoglie organismi acquatici in ambienti marini o salmastri, comprendendo le attività
connesse, di gestione e valorizzazione produttiva e all’uso sostenibile degli ecosistemi
acquatici. L’art. 3 considera connesse le attività di: pescaturismo (imbarco di persone),
ittiturismo, prima lavorazione, conservazione, trasformazione, distribuzione del prodotto.
L’imprenditore ittico è dunque il pescatore, ma se si tiene conto delle attività connesse si
fanno rientrare nella categoria anche quei soggetti che realizzano una catena di
conservazione e di successiva rivendita del prodotto. Dal punto di vista del trattamento
giuridico, l’imprenditore ittico è parificato all’imprenditore agricolo, perciò non è soggetto
alla disciplina dell’imprenditore commerciale.

11. Il piccolo imprenditore (art.2083 c.c.). L’imprenditore che non fallisce (art.
1 l. fall.) o impresa minore (art.2, 1° c., lett. D, CCI). I tipi di pubblicità previsti
nel nostro ordinamento.
Gli imprenditori agricoli e i piccoli imprenditori sono esonerati dal fallimento. Quest’ultimi
sono definiti dall’art. 2083 c.c.: "sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli
artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata
prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia.” Le tre figure
nominate si riferiscono ai principali tipi di attività conosciute: i coltivatori diretti sono quelli
che svolgono attività agricola, gli artigiani sono quelli che svolgono attività di produzione di
beni o servizi, i piccoli commercianti sono coloro che si occupano dello scambio.
Il problema interpretativo dell’art. 2083 sta nell’avverbio “prevalentemente”. Opinione
solida è che questa prevalenza sia sui fattori della produzione, cioè sia sul lavoro dei
dipendenti, sia sul capitale investito nell’impresa. Di conseguenza il legislatore avrebbe
potuto specificare meglio il criterio di prevalenza (quanti dipendenti, quanto capitale). Ciò
non è stato fatto poiché nel diritto le norme che si appoggiano su criteri elastici sono le più
longeve perché riescono ad adattarsi ai cambiamenti. Quindi per quanto riguarda il lavoro i
dipendenti non possono essere molti, perché il ruolo del titolare deve essere più pregiato
degli altri.
Per calcolare la prevalenza rispetto al capitale investito si è adottato il criterio seguente: il
lavoro del titolare dell’impresa è monetizzato, calcolando quanto costerebbe se fosse svolto
alle dipendenze di un altro imprenditore. Quindi, si può calcolare che un lavoratore del
genere guadagni 2 o 3 mila euro al mese, che su base annua fanno 24.000-36.000 euro, se il
capitale fisso resta più o meno al di sotto di questi valori, l’impresa è piccola; se li supera è
una media impresa. Nel calcolo del lavoro il numero dei familiari non conta, infatti la piccola
impresa può avvalersi liberamente e senza limiti del lavoro dei familiari. Con la riforma della
legge fallimentare del 2006 si intese riprendere la disciplina dell’imprenditore sottratto al
fallimento. Si dichiarava, sempre nell’art. 1, che non erano piccoli imprenditori coloro che
avessero realizzato ricavi lordi annui superiori ai 200.000 euro. Con questi valori netti si
usciva da parte delle situazioni di incertezza, ma rimaneva il dubbio se tutti coloro che
percepivano di meno fossero tutti piccoli imprenditori o no.
Con un decreto correttivo della riforma del 2006, nel 2007, la formulazione fu in parte
cambiata principalmente nel comma 2° dell’art. 1. Quindi ai criteri dei 300.000 euro di attivo
patrimoniale e dei 200.000 di ricavi lordi viene aggiunto un terzo criterio, basato
sull’ammontare dei debiti. Inoltre, non si fa più menzione del piccolo imprenditore e non si
dà un nome a questa fattispecie di imprenditore, rendendo difficile riferirsi ad esso. Anche
se, grazie al Codice ella crisi, si è deciso di chiamare l’impresa che possiede i 3 requisiti
dell’art. 1 l. fall.: impresa minore.
Abbiamo così, dal 2006, 3 categorie: gli imprenditori commerciali, assoggettabili al
fallimento; gli imprenditori che non falliscono (imprese minori); e i piccoli imprenditori.
Resta un’incognita il coordinamento tra “impresa minore” e “piccolo imprenditore”. Anche
se, l’imprenditore che non fallisce non si può definire piccolo poiché può avere un capitale
investito di 30.000 euro; Dunque, l’interpretazione che si propone è:

-la norma del piccolo imprenditore ha un valore originario: quando l’imprenditore è


all’inizio della sua attività, valuterà i parametri dell’art. 2083 per sapere se si deve
assoggettare o non all’obbligo di iscrizione e a quello di tenuta delle scritture contabili; se
supera tali parametri, sarà imprenditore medio-grande e si assoggetterà a tali obblighi;

-la norma dell’art.1, l. fall., ha un valore successivo, cioè entra in scena nel momento in cui il
fallimento è stato dichiarato, l’imprenditore che verifica in quel momento la sua
permanenza al di sotto dei 3 parametri non è un piccolo imprenditore, perché i parametri
sono alti; egli è un imprenditore medio, iscritto nel Registro delle imprese e tiene le scritture
contabili, però grazie alla norma in questione viene esonerato dal fallimento.

Il comma 2° dell’art. 1, l. fall., presenta dei criteri successivi, per semplificare le procedure
concorsuali; mentre, quelli presenti nel art. 2083 c.c, sono criteri preventivi volti a definire
la figura di un soggetto giuridico per determinare ex ante il comportamento giuridico.
Sotto il profilo tecnico, nell’art. 1 l. fall. 2°comma, è richiesto il possesso congiunto di tre
requisiti per l’imprenditore che non fallisce: attivo patrimoniale inferiore 300.000 euro,
ricavi annui inferiori ai 200.000 euro, e debiti inferiori ai 500.000 euro. L’aggiunta del criterio
dei debiti inferiori ai 500.000 euro ha come fondamento l’evitare l’onere della procedura
fallimentare nei casi in cui l’esposizione debitoria non è elevata. Occorre inoltre coordinare
l’art. 1 con un criterio quantitativo, quello residuale dell’art.15, l. fall.: il fallimento non viene
dichiarato se l’impresa ha debiti inferiori ad 30.000 euro; quindi, il criterio si applicherà a
quei casi in cui gli altri due criteri del comma suddetto non ricorrono.

Il riferimento all’ammontare dei debiti spezza la logica che sta alla base dell’art. 2083, che
premiava chi meglio facesse fruttare il capitale (limiti per i dipendenti e per il capitale
investito, no per i ricavi); quindi un sog. con un piccolo investimento poteva avere grandi
guadagni pur rimanendo un piccolo imprenditore. Oggi i criteri del capitale, fatturato e
debiti sono mescolati, e non hanno una prospettiva premiale; inoltre, i loro limiti sono
elevati poiché le imprese tendono crescere.
L’aumento di iscrizioni che ha preso il legislatore con l’istituzione del “Registro delle
imprese” ha portato a prevedere l’iscrizione anche del piccolo imprenditore nella sezione
speciale del Registro, anche se solo per fini anagrafici e di pubblicità notizia.
Esistono 3 tipi di pubblicità:

• Pubblicità notizia/informativa: è una semplice informazione di una determinata


situazione, che si può trovare nel luogo presso cui la pubblicità si effettua. Non ha un
valore particolare, se non quello di fornire l’informazione a chi la richiede.
• Pubblicità dichiarativa: ciò che è iscritto è opponibile ai terzi. Questa è importante,
perché la maggior parte delle iscrizioni nel Registro delle imprese sono tutte con
effetto dichiarativo: iscrivo una cosa per renderla opponibile ai terzi e da quel
momento costoro non possono dire di non conoscerla.
• Pubblicità costitutiva: valore forte e significa che ciò che non è iscritto non esiste
giuridicamente. Quindi, vuol dire che se le società (per capitali) non si iscrivono non
sono considerate esistenti.

12. L’artigiano nella legge-quadro del 1985.


Una legge-quadro è una legge che pone certe definizioni che poi possono venire usate
successivamente da altre leggi, leggi regionali e regolamenti per specificare contenuti
normativi. Nel 1972 furono trasferite alle regioni tutte le funzioni amministrative in materia
di artigiano, e dal 1985 quest’ultimo fu materia di legislazione concorrente, nel senso che
regioni potevano emanare norme legislative nell’ambito dei principi stabiliti da leggi-quadro
nazionali, in questo contesto fu emanata la legge n. 443. Con la riforma del 2001, questa
materia è demandata alla potestà legislativa residuale delle regioni. Tale legge dell’85 ha lo
scopo unico di definire la figura dell’artigiano, non ai fini del fallimento o civilistici, ma a
quelli previsti da ulteriori leggi che concedono a questo soggetto benefici di tipo fiscale o
amministrativo.
Esame degli articoli e commi più importanti:
Imprenditore artigiano, art. 2, 1° comma: è imprenditore artigiano colui che esercita
personalmente, professionalmente e in qualità di titolare, l’impresa artigiana, assumendone
la piena responsabilità con tutti gli oneri ed i rischi inerenti alla sua direzione e gestione e
svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo.
Questo comma afferma che l’artigiano deve lavorare nell’impresa artigiana. Per quanto
riguarda la locuzione “anche manuale”, siccome può avere significato dubbio, si preferisce
intendere che oltre a lavorare nell’impresa, tale lavoro deve farlo manualmente.

Impresa artigiana, art. 3, 1° comma: è artigiana l’impresa che, esercita dall’imprenditore


artigiano nei limiti dimensionali di cui alla presente legge, abbia per scopo prevalente lo
svolgimento di un’attività di produzione di beni, anche semilavorati, o di prestazioni di
servizi, escluse attività agricole e le attività di prestazioni di servizi commerciali, di
intermediazione nella circolazione dei beni o ausiliarie di queste ultime, di somministrazione
al pubblico di alimenti e bevande, salvo il caso che siano solamente strumentali e accessorie
all’esercizio dell’impresa.
Il concetto di artigiano come produttore di beni e servizi è in linea con gli art. 2083 e 2195
c.c.
Definizione di impresa artigiana, art. 3, 2°-4° comma: leggere su int.
Ciò che è sottolineato in questi commi è che l’impresa artigiana può essere esercitata in
forma collettiva, ma non con tutti i tipi sociali più grandi come: la società per azioni e in
accomandita per azioni. La formulazione originaria escludeva tutti i tipi capitalistici, perché
non si voleva che beneficiassero dei vantaggi concessi agli artigiani tutti coloro che
investono in una società senza lavorare al suo interno. Tali regole sono poi state allentate,
con l’ammissione delle s.a.s. e s.r.l. unipersonale e tuot court. Rimane comunque
necessario che la maggior parte dei soci debba svolgere il suo lavoro nell’impresa. Il
requisito per cui nell’impresa il lavoro deve avere funzione preminente sul capitale indica
semplicemente che la società non deve avere un capitale molto alto.
Il 5°comma dell’art. 3 ci dice che l’imprenditore artigiano può essere titolare di una sola
impresa artigiana, e può svolgersi in luogo fisso (abitazione imprenditore/soci, appositi
locali) o in forma ambulante e di passaggio.
Altra parte importante della legge-quadro è la definizione dell’impresa artigiana dal punto di
vista delle sue dimensioni, che sono tarate dalla legge in base al numero dei dipendenti.
Limiti dimensionali, art.4: leggere su internet.

Di tale articolo si analizza solo il 1°comma, mentre il 2° contiene solo specificazioni sul
computo dei lavoratori. La legge-quadro ha posto dei numeri massimi ben precisi ai
dipendenti che l’imprenditore artigiano può avere. Tali limiti sono abbastanza alti, il numero
ordinario, per le imprese che non lavorano in serie è di 18 dipendenti. La ratio che ha
ispirato l’apposizione di questi numeri è: più l’impresa è meccanizzata, maggiore è
l’investimento in attrezzature e meno dipendenti sono concessi, per controbilanciare il
maggior investimento di capitali. Quindi, all’impresa che lavora in serie sono concessi solo 9
d.; chi lavora nel trasporto ha bisogno di investire in autocarri (che valgono molto) e gli sono
concessi solo 8d.; per il settore edile i dipendenti concessi sono 10; per l’abbigliamento su
misura, essendo poco automatizzato, sono concessi 32 d.
Infine, vi è un adempimento formale per il riconoscimento della qualità di artigiano:
Albo delle imprese artigiane, art. 5, 1° e 5°comma: 1) è istituito l’albo provinciale delle
imprese artigiane, al quale sono tenute ad iscriversi tutte le imprese aventi i requisiti di cui
all’art. 2,3 e 4 secondo le formalità previste per il registro delle ditte dagli art. 47 e seguenti
del regio decreto 20/09/1934, n.2011. 5) l’scrizione all’albo è costitutiva e condizione per la
concessione delle agevolazioni a favore delle imprese artigiane.
Il 1°comma istituisce l’albo delle imprese artigiane, insediato nel 1985 presso le Camere di
commercio, alcuni anni dopo, per semplificare le cose, si decise di inglobare l’albo nella
sezione speciale del Registro. Nonostante si trovi nella sezione speciale tale iscrizione è
costitutiva, cioè è condizione necessaria per ricevere le agevolazioni a favore delle imprese
artigiane. Questo comma è importante perché sottolinea che lo scopo della legge artigiana è
stabilire un metodo di individuazione di soggetti, i quali beneficeranno di determinate
agevolazioni.
L’effetto civilistico del fallimento è estraneo a questa disciplina. Ciò è dovuto al fatto che il
numero di dipendenti qui previsto è superiore a quello che abbiamo visto essere proprio del
piccolo imprenditore. Perciò l’artigiano della legge-quadro non è l’artigiano di cui tratta
l’art.2083 per quanto riguarda le dimensioni imposte. Ciò nonostante, agganciandosi alla
parola “costitutiva”, del comma, ha sostenuto che la qualifica di artigiano varrebbe ad ogni
effetto di legge.
1)Se dunque, l’iscrizione vale a tutti gli effetti, allora chi è artigiano ai sensi della legge-
quadro lo è ad ogni effetto.

2)Conseguentemente, nell’art. 2083 si menziona l’artigiano e lo si include fra i piccoli


imprenditori.
3)Infine, il piccolo imprenditore è esonerato dal fallimento.
CONCLUSIONE: tutti coloro che sono iscritti all’albo delle imprese artigiane sono esonerati
dal fallimento.
Anche se un’interpretazione ragionevole non può parificare l’artigiano iscritto all’albo con
un numero di dipendenti così alto, al piccolo imprenditore. Ciò che accumuna l’artigiano
della legge-quadro con quello dell’art. 2083 è il fatto che entrambi svolgono attività di
produzione di beni e servizi, ma essi sono diversi nelle loro dimensioni massime, misurate
sul numero dei dipendenti. Però, poiché i limiti sui dipendenti della legge-quadro sono
massimi, e non obbligatori; se tra gli artigiani iscritti, vi sono certi che hanno un numero di
dipendenti pari a 0-3/4, essi possono essere considerati piccoli imprenditori.
Se vogliamo spiegare meglio tal concetto possiamo utilizzare uno schema diviso in 3 aree:
nella area 1 ci saranno i piccoli imprenditori ma non artigiani e quindi non si possono
iscrivere all’albo, nella 2 i piccoli imprenditori che sono anche artigiani in base alla legge-
quadro 443, nella 3 gli artigiani secondo la legge-quadro che però non sono piccoli
imprenditori.

13. I professionisti intellettuali.


I professionisti intellettuali, nel nostro ordinamento, non sono considerati imprenditori.
Infatti, secondo Galgano vi è una distinzione tra professioni “protette” e no. Le prime sono
organizzate in ordini professionali dotati di relativi albi: medici, avvocati, commercialisti,
notai, architetti, geometri e ingegneri. Tutte queste categorie hanno delle associazioni dette
appunto professionali, che sono la trasposizione moderna delle corporazioni medioevali in
cui erano divisi tutti i ceti produttivi. L’organizzazione professionale disciplina l’iscrizione
all’albo, ponendone i requisiti per ottenerla e prevedendo esami di ammissione, esercita
un controllo anche sanzionatorio sugli iscritti ed ha una propria sede e propri organi
rappresentativi.
I professionisti protetti non sono considerati imprenditori, poiché essi stipulano con i loro
clienti contratti d’opera intellettuale. La disciplina di questi contratti evidenzia che essi
devono essere stipulati personalmente dal professionista e la previsione che il compenso
debba essere adeguato all’importanza dell’opera e al decoro della professione. Per
difendere la questione del decoro gli ordini professionali impongono dei minimi alle
parcelle. Le professioni protette si sono da sempre battute affinché la disciplina del
fallimento non venisse estesa a loro. In una sola ipotesi il Codice Civile prevede il fallimento
del professionista protetto.
Rinvio, art. 2238: se l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività
organizzata in forma d’impresa, si applicano anche le disposizioni del titolo II.
Con “elemento di attività organizzata” si intende che la professione è svolta nel quadro di
un’attività più ampia, che deve essere organizzata dallo stesso professionista e non da altri.
Per la “forma d’impresa” si dedurrà dalle sue dimensioni (medico con clinica si parla in
termini d’impresa, medico che lavora per la clinica professionista intellettuale); altro
esempio: farmacista è considerato normalmente imprenditore commerciale.

I professionisti non protetti sono categorie nuove, che non sono ancora state riconosciute a
livello sociale e statale. Ad esempio, gli psicologi non avevano un albo, mentre oggi ce
l’hanno; lo stesso iter hanno affrontato le professioni legate all’ambito medico; i disegnatori
pubblicitari, i consulenti informatici e i patrocinatori stragiudiziali nell’infortunistica stradale
(nuova professione redditizia per i molti incidenti d’auto) non hanno ancora ottenuto un
riconoscimento. Questi professionisti hanno una doppia scelta: possono operare come
professionista o come imprenditore. Nel primo caso conclude contratti d’opera
intellettuali. Nel secondo caso concluderà contratti di prestazione d’opera manuale se le
sue dimensioni sono piccole, di appalto se sono medio-grandi; nell’ultimo caso egli sarà
assimilabile ad un imprenditore commerciale medio-grande, assoggettabile ad eventuale
fallimento.

14. Il sovra intendimento dell’imprenditore agricolo, del piccolo imprenditore


e dell’imprenditore minore, del professionista intellettuale e del
consumatore.
Dall’emanazione del Codice civile e della legge fallimentare (1942), è stata in vigore la
contrapposizione fra imprenditore commerciale, assoggettabile a fallimento, e imprenditore
agricolo, piccolo e professionisti intellettuali da esso esclusi. In seguito alla riforma del 2006,
che ha eliminato le conseguenze negative per il fallito, ha portato alla nascita di un nuovo
atteggiamento verso questa procedura, divenuta interessante per la possibilità dei
concordati e del conseguente condono di una quota dei debiti. Ciò ha portato i governi ad
elaborare progetti di procedure liquidatorie per tutti i soggetti operanti sul mercato. Un
esempio è la proposta di legge del 2008 per una procedura liquidatoria per gli insolventi
civili, coloro che non ricoprono la qualifica di imprenditore commerciale.

Nell’autunno del 2011 ci fu una rincorsa tra un progetto di legge dedicato all’insolvenza
degli imprenditori non-commerciali e un decreto di legge emanato in via d’urgenza dal
governo Monti. Che si occupava dell’insolvenza del consumatore (comune cittadino che
acquista beni e servizi). Si giunse infine alla legge 27/01/2012 sugli imprenditori non-
commerciali, che venne poi modificata dal decreto-legge, il quale aggiunse la parte dedicata
ai semplici consumatori. Così, dal 2012 l’ordinamento possiede procedure liquidatorie
dedicate a tutti i soggetti non-imprenditori commerciali che si trovano in uno stato
corrispondente all’insolvenza ma che il legislatore ha ritenuto di chiamare
sovraindebitamento. Queste procedure nel corso del tempo non hanno trovato ampia
applicazione per via di ritardi attuativi e mancata conoscenza degli operatori.
Ora il Codice della crisi, entrato in vigore nella sua interezza nel settembre del 2021, ha
unificato in sé tutte le procedure liquidatorie, accanato a quella “giudiziale” per
l’imprenditore commerciale si troveranno le procedure di risoluzione del
sovraindebitamento per gli altri soggetti. La def. Di sovraindebitamento è: “lo stato di crisi o
di insolvenza del consumatore, del professionista, dell’imprenditore minore,
dell’imprenditore agricolo, delle start-up innovative... e di ogni altro debitore non
assoggettabile alla liquidazione giudiziale ovvero a liquidazione coatta amministrativa o ad
altre procedure liquidatorie” In presenza di tale stato, i soggetti diversi dall’imprenditore
commerciale possono rivolgersi all’OCC (organismo di composizione della crisi), formato da
esperti e costituito presso i tribunali per instaurare una procedura risolutoria concordata o,
in caso di cattivo esito, accedere ad una procedura liquidatoria. La prima procedura,
corrispondente al concordato preventivo dell’imprenditore commerciale, si chiama
concordato minore per gli imprenditori agricoli, le imprese minori e piccole, i professionisti
e le start-up e piano di ristrutturazione dei debiti per i consumatori; la seconda, simile alla
liquidazione giudiziale delle imprese commerciali, si chiama liquidazione controllata e vale
per tutti i soggetti.
Inoltre, il CCI stabilisce che la domanda di liquidazione controllata possa essere presentata
dal debitore sovra indebitato, ma anche dai suoi creditori, se si tratta di imprenditori anche
dal Pubblico Ministero. Se la domanda al tribunale è proposta dallo stesso debitore, egli
non necessita del patrocinio di un legale e si fa assistere direttamente dall’OCC.

15. I rappresentanti dell’imprenditore commerciale.


L'imprenditore si vale di dipendenti. Alcuni lavorano all’interno dell’impresa e non hanno
rapporti con l’esterno; altri sono destinati ad entrare in contatto con il pubblico e devono
quindi essere dotati di poteri rappresentativi dell’imprenditore, altrimenti la loro attività
non avrebbe rilevanza giuridica. La legge disciplina tre figure tipiche alle quali attribuisce
poteri rappresentativi “automatici”; essi sono gli institori, i procuratori e i commessi. Tutti e
tre sono lavoratori dipendenti o subordinati: il primo al vertice della gerarchia dell’impresa,
subito dopo l’imprenditore; i procuratori in posizione intermedia; i commessi alla base della
piramide. Questa suddivisione corrisponde a quella, tipica del diritto del lavoro, fra dirigenti,
impiegati e operai, alla quale è stata aggiunta la categoria dei “quadri”, impiegati con
mansioni più elevate.

-Preposizione institoria, art. 2203:” è institore colui che è proposto dal titolare all’esercizio
di un’impresa commerciale. La preposizione può essere limitata all’esercizio di una sede
secondaria o di un ramo particolare dell’impresa. Se sono preposti più institori, questi
possono agire disgiuntamente, salvo che nella procura sia diversamente disposto”. Esso è
messo a capo; quindi, l’imprenditore può aprire un’impresa a suo nome, porvi a capo
l’institore e farla dirigere a lui. Ai poteri dell’institore è dedicato l’articolo 2204. Esso può
compiere tutti gli atti riguardanti l’impresa, quindi ha una rappresentanza generale che si
distingue da quella speciale, o per singoli atti. La procura dell’institore è generale salvo un
limite di legge: non può alienare o ipotecare immobili sull'impresa; solo l’imprenditore ha il
controllo sugli atti di maggior valore economico. Questa procura può contenere ulteriori
limiti stabiliti dallo stesso imprenditore, tali limiti devono essere pubblicizzati, cioè iscritti,
per essere validi. Il 1°comma dell’art.2206 dice che la procura institoria è esplicita e soggetta
a pubblicità, però il 2°comma e il 1°comma dell’art.2204 dice che i poteri rappresentativi
derivano all’institore dal fatto di essere nominato tale, e non dal rilascio o dall’iscrizione
della procura. Quindi, tutta la disciplina degli “ausiliari dell’imprenditore” prevede
l’attribuzione automatica di poteri rappresentativi in conseguenza dell’assunzione di un
determinato ruolo all’interno dell’impresa. Se poi l’imprenditore vuole ridurre tali poteri,
deve valersi dell’iscrizione nel Registro delle imprese. Le limitazioni non iscritte possono
essere opposte al terzo solo provando che egli le conosceva. L’art. 2208 introduce una
particolare disciplina sulla spendita del nome, tale espressione si riferisce al fatto che, se un
rappresentante agisce in nome di un altro soggetto, deve spendere (cioè farne) il nome. La
regola imposta da questo articolo è detta contemplatio domini presunta e mira a risolvere il
problema dell’institore che si dimentica di spendere il nome dell’imprenditore. In questo
caso l’institore rimane obbligato personalmente. Ma gli atti dell’impresa possono essere di
importo rilevante e non è detto che il patrimonio personale dell’institore sia sufficiente per
rispondere ad un’obbligazione tale; allora il legislatore ha voluto addossare al terzo
contraente il rischio di instaurare un rapporto d’affari con un soggetto che non sarà poi in
grado di adempiere. Quindi, nella seconda parte dell’art., dice che bel caso in cui l’atto sia
pertinente all’esercizio d’impresa resterà obbligato oltre all’institore anche l’imprenditore il
cui nome si presume che avrebbe dovuto essere.

Nella società per azioni, l’institore può essere paragonato al direttore generale; ve ne
possono essere più di uno e sono posti a rami particolari dell’impresa. Esso gode di modalità
di retribuzione simili a quelle dei dirigenti, in parte fisse, e in parte legate ad altri fattori.
-I Procuratori: si trovano a livello intermedio della gerarchia dell’impresa e sono disciplinati
dall’art. 2209. All’interno di questa disposizione si trovano le regole sulla pubblicità della
procura e le sue limitazioni dall’institore al procuratore. I poteri rappresentativi dei
procuratori si desumono dalle mansioni alle quali l’imprenditore lo ha destinato.
-I commessi: si trovano all’ultimo livello dei collaboratori dell’imprenditore che entrano in
contatto con i terzi. Sono disciplinati dall’arte. 2210 e 2213. Il 1°comma dell’art.2210
esprime il principio della proporzionalità fra potere rappresentativo e mansioni assegnate;
sono posti limiti soprattutto sul maneggio del denaro da parte di essi, costoro possono
esigere solo il prezzo delle merci che consegnano e applicare sconti d’uso. Se sono
commessi addetti alle vendite, possono ricevere pagamenti solo se non c’è una cassa
apposita e devono rilasciare una quietanza con firma dell’imprenditore. Per le limitazioni dei
poteri rappresentativi dei commessi si ricorre alla messa a conoscenza dei terzi con mezzi
idonei (come i cartelli “NON SI CONCEDONO SCONTI”).

16. Gli enti senza scopo di lucro.


La qualità dell’imprenditore commerciale dipende dal fatto di svolgere una determinata
attività e non dal fatto di rivestire una determinata forma. Si prenderanno ora in esame
alcuni enti cui è attribuibile la qualifica di imprenditore commerciale: enti pubblici
economici, società a partecipazione pubblica.
Enti pubblici, art. 2201: hanno per oggetto esclusivo o principale un’attività commerciale,
sono soggetti all’obbligo dell’iscrizione nel registro delle imprese. In caso di fallimento,
questi enti hanno come procedura di insolvenza la liquidazione coatta amministrativa, che
è una specie di fallimento con qualche ingerenza della pubblica amministrazione nella
nomina degli organi. Questi enti erano molto numerosi in Italia, comprendevamo gli enti di
distribuzione energetica, gas, gestione telecomunicazioni, trasporti pubblici. In seguito al
fenomeno della privatizzazione, la gestione di queste attività è stata privatizzata e gli enti
pubblici economici sono diminuiti. Esiste ancora la S.I.A.E, che si occupa dell’esercizio e della
tutela del diritto d’autore, e l’agenzia delle entrate- Riscossione e agenzia del demanio.
La privatizzazione di un ente pubblico può essere formale o sostanziale. La prima consiste
nel trasformare gli enti pubblici nazionali in società per azioni, cioè l’ente pubblico cambia la
sua veste giuridica, ma rimane di proprietà pubblica (la maggioranza delle azioni restano in
mano pubblica). La seconda significa dismissione o vendita a privati delle azioni di proprietà
diretta o indiretta dello Stato o degli enti pubblici locali; l’ex ente pubblico viene prima
trasformato in s.p.a. e poi le azioni di questa vengono cedute, per la maggioranza, ai privati.
Nel caso della privatizzazione formale, essa dà vita a società dette a partecipazione
pubblica, che nella forma sono private, ma per la proprietà sono pubbliche. La loro
disciplina si trova nel Testo Unico redatto nel 2016. In esso si precisa che tali società sono a
controllo pubblico. Per “controllo” si intende la situazione descritta dall’art. 2359 del c.c.,
cioè significa possesso della maggioranza dei voti e quindi di potere di dirigere la società.
Fra le società pubbliche si trova la società in house, cioè quelle sulle quali
un’amministrazione esercita il controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi; ovvero
sono quelle controllate interamente da una pubblica amministrazione. Il T.U. dice che le
società a partecipazione pubblica devono avere la forma della società per azioni o della
società a responsabilità limitata, anche cooperative. In caso di crisi è previsto che esse
siano soggette alle disposizioni sul fallimento.
SOCIETA COOPERATIVE: ente senza scopo di lucro, ovvero non ha come scopo il
perseguimento di un utile e la sua divisione fra soci, ma uno scopo mutualistico. Se la
cooperativa svolge un’attività commerciale è assoggettabile a fallimento o a liquidazione
coatta amministrativa.
ASSOCIAZIONI, FONDAZIONI, CONSORZI: sono enti caratterizzati da uno scopo altruistico,
nel caso dei consorzi, da uno scopo di collaborazione fra imprenditori. L’associazione è
simile ad una società dal punto di vista strutturale; se svolge, però, attività commerciale è
assoggettabile a fallimento in caso di assolvenza. Stessa cosa vale per i consorzi, che sono
contratti tra imprenditori per ottenere risparmi sui costi, se svolgono un’attività tra quelle
elencate nell’art. 2195 c.c., sono assoggettabili al fallimento in caso di insolvenza.
L’IMPRESA SOCIALE: disciplinata dal d. lgs. Del 2006, n.155. Sono qualificati tali tutti gli enti
privati, comprese le società e gli altri enti del libro V del c.c., che esercitano in via stabile e
principale un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni
o servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale. La principale
limitazione imposta dal legislatore è che le amministrazioni pubbliche non acquistano la
qualifica di impresa sociale. Per il resto le imprese sociali potranno assumere la forma di una
società lucrativa o anche cooperativa. La dicitura di impresa sociale deve essere esplicitata
nell’atto costitutivo e nella dominazione dell’ente. Sono considerati beni o servizi di utilità
sociale quelli dei settori: assistenza sociale, assistenza sanitaria e sociosanitaria, educazione,
istruzione e formazione, tutela dell’ambiente e il turismo sociale. Ma si può ottenere la
qualifica anche esercitando un’attività diversa, se si offre un inserimento lavorativo a
lavoratori svantaggiati o disabili. Tale impresa non può avere scopo di lucro e perciò i suoi
utili devono essere rinvestiti nell’attività e non possono essere distribuiti. Al termine della
sua attività, il suo patrimonio residuo deve essere devoluto ad organizzazioni non lucrative
di utilità sociale, secondo le norme statutarie. L’impresa sociale si costituisce con la forma
dell’atto pubblico, che viene iscritto in un’apposita sezione del Registro delle imprese. La
maggioranza di chi ricopre cariche all’interno dell’ente deve essere composta da soggetti
interni all’organizzazione a tutti e i chiamati a tali cariche devono possedere dei requisiti di
onorabilità, professionalità ed indipendenza. Le modalità di ingresso e uscita dei soci
devono essere ispirate al principio di non–discriminazione. L’art.14 prevede che ai
lavoratori dell’impresa sociale non può essere corrisposto un trattamento economico e
normativo inferiore a quello previsto dai contratti e accordi collettivi applicabili. In caso di
insolvenza, l’impresa è assoggettabile alla liquidazione coatta amministrativa.

17. Inizio e fine dell’impresa.


Formalmente l'impresa inizia quando un soggetto comincia a compiere un’attività di 2082 in
modo professionale. In realtà tale criterio non è sufficientemente garantista. Infatti,
all’inizio dello svolgimento dell’attività preparatoria il soggetto si trova in una situazione
simile all’insolvenza, nel senso che l’imprenditore in pectore non può più pagare ed è
costretto a fermare l’intero progetto, il numero di atti già compiuti ed il loro valore
giustificano già pienamente l’applicazione di una procedura concorsuale che garantisca ai
creditori un trattamento paritario. Quindi, alla fine ci si è accordati per definire l’inizio
dell’impresa quando gli atti organizzativi dell’imprenditore hanno raggiunto un
avanzamento tale da aver generato debiti di un certo numero e di aver certa entità.
Per quanto concerne la fine dell’impresa, c’è una norma nella legge fallimentare, l’art.10: gli
imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla
cancellazione del registro delle imprese. In caso di impresa individuale o di cancellazione di
ufficio degli imprenditori collettivi, è fatta salva la facoltà per il creditore o per il PM di
dimostrare il momento dell’effettiva cessazione dell’attività da cui decorre il termine del
primo comma.

18. L’azienda e la sua cessazione.


Ci addentriamo nel sotto-settore del Diritto commerciale che è il Diritto industriale, il quale
si occupa dell’azienda, dei marchi, dei brevetti, del diritto d’autore e diritto della
concorrenza.
L’azienda è definita dall’art. 2555 c.c.: essa è il complesso di beni organizzati
dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa. Questa definizione comporta che i beni
debbano essere organizzati dall’imprenditore, non anche che siano di sua proprietà; ciò si
ricollega al concetto economico dell’imprenditore come soggetto che organizza i fattori
della produzione, senza necessariamente esserne proprietario.
Importante è la disciplina del trasferimento contenuta nell’art.2556. Questo articolo
stabilisce al 1° comma che il trasferimento dell’azienda va provato per iscritto; esistono
infatti alcuni beni che richiedono necessariamente la forma scritta per essere trasferiti,
quindi, se nell’impresa vi sono beni immobili, essi richiedono per essere trasferiti la
scrittura privata. Il 2°comma prevede che il contratto con cui si trasferisce l’azienda vada
iscritto nel Registro delle imprese, entro 30 giorni, e che per tale formalità occorra la forma
dell’atto pubblico o della scrittura privata autentica. Il risultato complessivo della disciplina
è: -il contratto in forma orale è valido fra le parti, ma non provabile un giudizio;
-il contratto in forma di scrittura privata semplice consente la prova in giudizio;
-il contratto in forma di scrittura privata autentica o atto pubblico può essere depositato ed
iscritto nel Registro delle imprese e diventa così opponibile a terzi.
L’azienda viene considerata come complesso unitario, e nel trasferimento non è necessario
enumerare uno per uno i beni che la compongono, sebbene convenga indicare almeno i
principali. Di conseguenza, se si vuole escludere un bene dalla cessione d’azienda bisogna
indicarlo.
Per la successione dei contratti d’azienda, la legge introduce una deroga al principio
generale dell’autonomia contrattuale secondo cui si è vincolati soltanto dalle obbligazioni
che si sottoscrivono e non dalla volontà altrui. La successione dei contratti è regolata
dall’art.2558. Quindi, l’acquirente subentra per legge senza necessità di un suo consenso
specifico, nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda, quando non abbiano carattere
personale. Per contratto personale si intende i contratti stipulati con i professionisti
intellettuali, i consulenti legali o finanziari.
Il legislatore vincolato ai contratti non personali l’acquirente dell’azienda, meno intuitivo è
che ad essi sia vincolato anche il terzo contraente del contratto d’impresa. Tale vincolo
rappresenta una deroga al principio di libertà contrattuale; la deroga nei confronti del terzo
non è assoluta, poiché egli può liberarsi dall’impegno recedendo entro 3 mesi, spiegando la
giusta causa della sua decisone. L’articolo visto riguarda i contratti conclusi ma ancora non
eseguiti. Un’impresa di solito ha in atto contratti già in parte eseguiti; perciò, sono presenti
dei rapporti di debito-credito a favore dell’una o dall’altra parte. Se come l’acquirente
subentri in tali rapporti dispongono gli art.2559-2560. Di certo, l’azienda si porta dietro
crediti e debiti, con i limiti posti dai 2 articoli: il transito dei crediti dell’azienda ceduta è
subordinato all’onere di iscrizione del trasferimento. I debiti transitano insieme all’azienda
ceduta a condizione che risultino sui libri contabili; la legge, inoltre, non considera liberato
l’alienante, a meno che i creditori non abbiano accettato la cessione.

19. I segni distintivi dell’imprenditore.


Questi segni sono: la ditta, l’insegna e il marchio. Il c.c. li disciplina ma non li definisce.
La ditta è il nome sotto cui l’impresa è esercitata. L’insegna individua i locali in cui si
esercita l’impresa. Il marchio contrassegna i suoi progetti.

Dal 2°comma dell’art.2563 apprendiamo che occorre specificare nella ditta il cognome
dell’imprenditore. Il nome della società è detto “ragione sociale” nelle s.n.c. e nelle s.a.s., e
“denominazione sociale” in quelle di capitali. Il 1°comma dell’art.2563 dice che i segni
distintivi sono tutelati nella loro originalità. Infatti, l’art.2564 tutela chi per primo ha usato
una ditta e costringe a chi l’ha copiata a cambiarla; la garanzia è data dall’iscrizione nel
Registro delle imprese.
La ditta può anche essere trasferita, ma l’art.2565 impone che non la si possa trasferire
indipendentemente dall’azienda, cioè insieme al complesso produttivo di cui l’imprenditore si
avvale. La ratio di questa regola sta nella tutela del consumatore, infatti, si mira ad evitare
che costui veda l’indicazione di una ditta a lui nota e sia convinto di trovarsi di fronte ad un
certo prodotto, mentre l’imprenditore è cambiato.
L’insegna è il cartello posto al di fuori dei locali in cui si esercita l’impresa; su di essa figura la
ditta, e può avere dei segni peculiari; perciò, è tutelata sotto il profilo della sua generalità.
La stessa tutela è accordata al marchio che è il nome sul prodotto.
Gli art.2569-2571 riguardano la registrazione che offre protezione sicura per il proprio
marchio, ma anche un marchio non registrato gode di tutela, se si riesce a dimostrare che lo
si è usato per primi. Oggi le leggi del mercato suggeriscono un uso attivo e quindi aggressivo
dei segni distintivi, come arma per combattere la guerra commerciale. Spesso può accadere
che un singolo prodotto divenga più famoso del nome dell’impresa che lo produce, e a
questo punto può inglobare o venire associato alla ditta (Kinder&Ferrero). Sono trucchi di
economia altamente commercializzata, in cui i metodi della psicologia vengono applicati
all’uso dei segni distintivi. Possedere un marchio dotato di elevata popolarità è molto più
utile per guadagnare denaro che saper realizzare un prodotto buono. Si è così sviluppato
negli ultimi decenni il cosiddetto “merchandising”, cioè quel fenomeno in cui il marchio
scavalca il prodotto al quale era stato originariamente destinato ed acquisisce una sua
indipendenza e valore evocativo autonomo, un esempio è la Coca-cola. Non è ovviamente la
stessa impresa produttrice della bibita che si mette a produrre tutte queste merci: il
marchio viene dato in affitto. La gestione dei propri marchi diventa così per le imprese
oggetto di vere e proprie strategie; in riferimento a tali attività di organizzazione aziendale
volte a valorizzare ed imporre i propri marchi, si parla di “branding”.
Il marchio ha 3 forme: può essere denominativo, cioè consiste in parole e nomi; può essere
emblematico, cioè comprende figure, colori, suoni, anche associati; ed infine può essere
misto. La disciplina sui marchi è contenuta nel d. lgs. N.30 del 2005, in cui si trova la
disciplina dei segni distintivi e dei brevetti.

20. Veri codici, testi unici, raccolte redazionali di leggi.


Quando si parla di codice si intende un testo che raccogli organicamente tutta la disciplina
di una certa materia, pensata e progettata in quel modo dal legislatore. Quando il legislatore
realizza una semplice raccolta di leggi sparse preesistenti, ordinandole e numerandole in
modo unitario, si parla di testo unico. Ultimamente la tendenza dell’uso pervasivo del
termine “codice” è arrivata al punto che anche una singola legge speciale, purché di una
certa lunghezza o di una certa rilevanza, viene chiamata codice.
Vi sono poi codici messi insieme dalle case editrici, che possiamo chiamare codici
redazionali. Essi sono utili per certe professioni, che trovano in un unico volume tutte le
norme di cui hanno bisogno.

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