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DIRITTO PUBBLICO GENERALE

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Giuseppe Morbidelli

IL DIRITTO AMMINISTRATIVO
TRA PARTICOLARISMO
E UNIVERSALISMO:

1. Alle origini del diritto amministrativo:

Il diritto amministrativo come si legge in tutti i manuali, ha come oggetto l’organizzazione, i mezzi e le
forme di attività della pubblica amministrazione e i conseguenti rapporti giuridici tra questa e i soggetti
privati. Il diritto amministrativo ha origine con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del
1789, affermando con chiarezza il regime e il primato della legge e dunque quello che ora definiamo lo
Stato di diritto. Ciò determinò la piena giuridicizzazione del potere pubblico, non più strumento del
governo caratterizzato dalla plenitudo potestatis; ma solo con le Costituzioni rivoluzionarie francesi
l’amministrazione viene sottoposta alla legge, “expression de la volontè generale”. È appunto ciò che
fa nascere il diritto amministrativo e la relativa disciplina. Vi è da aggiungere che alla nascita del diritto
amministrativo contribuì la separazione dei poteri, e dunque la non soggezione dell’amministrazione al
controllo dell’autorità giudiziaria. Infatti la legge del 24 agosto 1790 dell’Assemblea costituente
disponeva che “le funzioni giurisdizionali sono e rimarranno separate dalle funzioni
amministrative; i giudici non potranno interferire in alcun modo”. Sicchè tutti gli atti
dell’amministrazione ritenuti illegittimi venne affidata ad organi specializzati della stessa
amministrazione e dunque giudici speciali per garantire l’interesse superore alla cui cura la pubblica
amministrazione è preposta.

2. Della simbiosi genetica e strutturale tra diritto amministrativo e Stato:

Inutile dire che una amministrazione c’era sempre stata e con essa una serie di regole che l’assistono.
Come scrisse Ranelletti lo stato può esistere senza legislazione e vi sono state epoche storiche in cui il
diritto si basava sulla consuetudine: uno stato può esistere senza giurisdizione ma non senza
amministrazione. Lo stato senza amministrazione sarebbe anarchia e dunque non sarebbe stato.
L’emergere di una organizzazione amministrativa, intesa come insieme di strutture e apparati, procede
di paripasso con l’affermarsi dello stato, cioè con quel processo che vede l’accentramento del potere in
un unico soggetto e che porta al superamento del sistema feudale. Weber infatti ammette che gli
ordinamenti giuridici territoriali generali si possono qualificare come Stati allorchè si muniscono di un
corpo permanente di personale professionale; anzi sono l’avvento del corpo di funzionari
amministrativi assunti alle dipendenze del potere sovrano che traducano in atto la sua volutas, che
contrassegna il delinearsi dello stato moderno. Questa vicenda si invera nel 16-17 secolo in Francia,
Inghilterra, Spagna, Austria, ma l’amministrazione al tempo non aveva propria autonomia, in quanto in
questo tipo di stato tutti i poteri erano in mano al monarca titolare della plenitudo potestatis. Tuttavia
alcuni caratteri dell’amministrazione nello stato assoluto non vennero abbandonati: gli istituti tipici
dell’anciem regime vennero ripresi e trasformati, l’imperatività degli atti amministrativi ad esempio
riprendono l’imperatività degli atti del principe. Questa doppia anima è stata messa in luce da Giannini
quando osservò che la formazione amministrativa aveva costituito uno strumento con cui la borghesia,
conquistato il potere con la rivoluzione, tendeva a conservarla sia dalla classi spodestate che da quelle

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subentrate. La rivoluzione aveva portato con se diritti come eguaglianza, libertà, primato della legge,
dunque, se pure il diritto amministrativo si formava come diritto per consolidare lo stato, non poteva
contraddire tali garanzie, fondamento del nuovo indirizzo politico. In ogni caso sembra che il diritto
amministrativo sia nato di pari passo con lo stato su 4 fronti: il primo, è perché il diritto amministrativo
è una struttura essenziale dello stato (Zanobini scriveva che la pubblica amministrazione non è
soggetto distinto dallo stato, ma è lo stato stesso in azione per il perseguimento dei suoi fini); secondo,
i poteri speciali di cui si avvale la pubblica amministrazione nascono dalla partecipazione del diritto
amministrativo nella sovranità dello stato; terzo, ha come oggetto al tutela e la cura di interessi pubblici;
quarto, è caratterizzato da un titolo posto dallo stato. Orlando scriveva che l’amministrazione e il suo
diritto costituiscono elementi espressivi ed identificativi dello Stato nel senso classico del termine e con
esso della sua sovranità.

3. Tratti comuni nei diritti amministrativi degli Stati:

L’origine del diritto amministrativo, se da una parte è ancorato con lo stato, dall’ altro è fonte di una
universalità, seppur limitata. Infatti presenta analogie con diversi paesi dell’Europa continentale, in
quanto, il diritto amministrativo è debitore del diritto civile. Così le teorie delle situazioni soggettive,
responsabilità, proprietà, successione, tutela dei diritti, vengono adattati al diritto amministrativo, con
una prevalenza della volontà dello stato. Dunque la comune fonte degli istituti civilistici con le sue
matrice nel corpus iuris, lex mercato ria, determina una continuità fra gli ordinamenti. La riprova è data
dal fatto che la dottrina italiana della fine dell’800 inizio 900, quella cioè della formazione del nostro
diritto amministrativo, dialogò di continuo con la legislazione francese e tedesca. Un altro elemento
unificante fu dato dal modello dell’amministrazione francese che influenzò profondamente la nostra
organizzazione con le figure dei Ministeri, prefetti, Consiglio di Stato, Corte dei Conti, garanzia
amministrativa. Parziale elemento di comunanza è dato è dato dal diffondersi nel 1865, data di
istituzione dell’unione telegrafica internazionale, di Unioni internazionali amministrative. Tali
organizzazioni sono state viste e considerate come un servizio prestato a favore di tutti gli Stati per far
si che gli stati esercitassero maggiormente la propria sovranità. Difatti, sotto il profilo strutturale, le
unioni internazionali sono collegi che riuniscono organi amministrativi degli stati: non amministrazioni
internazionali, ma amministrazioni statali comuni. Le comunanze inoltre dimostrano, che il diritto
amministrativo tradizionale rispondeva ad alcune regole che possiamo dire costituzionali largamente
condivise e praticate nei vari ordinamenti dell’Europa continentale, come il principio di legalità
dell’azione amministrativa, ai controlli, all’ esecutorietà, responsabilità. Le comunanze dipendevano sia
da elementi culturali, sia di processi di mimesi da parte delle giurisprudenze; senza far venir meno la
nazionalità e territorialità del diritto.

4. Il diritto amministrativo sempre più nazionalizzato dalla legislazione speciale:

E’ da dire però che dopo la fase formativa, gli elementi comuni si stemperarono dinanzi all’imponenza
della legislazione speciale, cioè quella che irruppe alla fine dell’800 per far fronte alla rivoluzione
industriale e all’allargamento del suffragio, si pensi alle legislazioni sulla sicurezza sul lavoro, igiene,
sanità, istruzione ecc. Tante volte si è parlato di decodificazione come affermazione della legislazione
speciale sul codice civile. La legislazione speciale fa si che il diritto amministrativo diventi sempre più
autoctono, e il richiamo alle legislazioni di altri paesi si fa sempre meno frequente, diviene un hortus
conclusus, e il richiamo transazionale affiora solo come rafforzativo. La legislazione non solo si fa
speciale, ma anche settoriale, per materie, categorie, aree, o per città, come le varie leggi speciali di
approvazione di piani regolatori.

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5. Le profonde trasformazioni del diritto amministrativo negli ultimi 20 anni e il processo di
riduzione dei suoi caratteri autoritari:

da allora, il diritto amministrativo che con una sitesi può essere definito zanobiniano, è largamente
trasfigurato. Cassese, in uno scritto del 1996, osserva che negli studi di diritto amministrativo
dominano oggi 6 parole: cambiamento, rivoluzione, riforma, transizione, rottura, crisi. Dunque il diritto
amministrativo è nato come strumento di autorità e unilaterale, oggi è innervato di con sensualità e
partecipazione; improntato sulla contrapposizione pubblico-privato con prevalenza del primo, oggi è
paritetico, basti pensare all’art. 1 comma 1 bis 7 agosto 1990 n. 241 “ la pubblica amministrazione
nell’adozione di atti di natura non autoritativa agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la
legge disponga diversamente”. Inoltre, nato e strutturato come diritto speciale, è stato normalizzato,
dato che una serie di privilegi, come la garanzia amministrativa, sono stati sostituiti dalla normativa e
dalla giurisprudenza comunitaria, ordinaria, amministrativa. Altri status di privilegio come
l’occupazione appropriativa sono stati invece soppressi.

6. Il processo di destatalizzazione del diritto amministrativo:

Rannelletti dice che l’amministrazione pubblica e così il diritto amministrativo è strettamente collegato
al potere esecutivo, ma non vi è un rapporto biunivoco fra Stato- diritto amministrativo. La de
quotazione della statualità del diritto amministrativo è provocata da forze di segno opposto: da una
parte la normativa amministrativo sono sottoposti a un distacco dallo stato; dall’altro a una soggezione
a discipline sovranazionali, che ricadono sulle amministrazioni nazionali, e vanno dunque a conformare
il diritto amministrativo.

7. Il particolarismo come espressione delle fonti regionali e locali:

La destatalizzazione viene qui definita particolarismo (cioè le cose concrete), letto in contrapposizione
con statalismo del diritto. Ciò non significa che il diritto amministrativo tratti cose minute, ma si occupa
di questioni sia di dettaglio, come le norme sulla polizia urbana, sia più grandi, come la vigilanza sugli
istituti di credito, o localizzazione di centrali elettriche su piano nazionale. Quanto la disciplina di settore
anch’essa è una costante del diritto amministrativo: poiché gli interessi che lo stato vuole curare sono
molti, a ciascuno di essi i virtù del principio di legalità corrisponde una specifica disciplina, pensiamo
alla legislazione urbanistica, a quella sul servizio sanitario nazionale, emittenza televisiva ecc. ma sia la
disciplina di dettaglio che quella di settore non possono essere ascrivibile al particolarismo, lo dimostra
l’esperienza delle Unioni internazionali amministrative e delle Comunità europee; lo stesso diritto
sovranazionale è per di più costituito da regole iperdettagliate e nel contempo da regole di settore, come
quelle sulle comunicazioni, trasposti, energia. Il particolarismo nella nostra ottica è quello che si
contrappone alla fonte statale, considerato che nel nostro diritto amministrativo la fonte consuetudine
è del tutto trascurabile; è soprattutto il diritto amministrativo prodotto da Regione e da enti locali, con
sfera di applicazione limitata al territorio di competenza. È il particolarismo delle fonti interne allo Stato
che erodono dal basso la sovranità dello Stato- persona; il particolarismo esprime, oltre ad una efficacia
limitata nello spazio, anche una corrispondenza ad esigenze specifiche, quali quelle specifiche del
territorio, che ne fanno un ius proprium. Paolo Grossi definisce particolarismo il localismo giuridico.
La titolarità di potere normativo di Regioni ed enti locali risponde a ragione di adeguatezza e
sussidiarietà, come il potere regolamentare dei comuni in materia edilizia, igiene, mercati ecc, si tratta
dunque di un particolarismo necessario, in funzione del soddisfacimento di interessi pubblici.

8. La forte statalizzazione che pervade le fonti regionali e locali:


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Va tuttavia messo in risalto che il particolarismo è si frutto di autonomia, ma non di sovranità. È allo
stato infatti che spetta il potere di revisione costituzionale, e ha una posizione peculiare; tanto che
Regioni ed enti territoriali saranno dotate di un particolarismo limitato che non intacca la sovranità
dello Stato. Infatti la legislazione regionale nelle materie concorrenti deve osservare i principi
fondamentali delle materie. Nelle materie regionali e concorrenti, e in quelle residuali, imperversano le
materie di competenza esclusiva dello stato, come la tutela della concorrenza, l’ordinamento civile, la
tutela dell’ambiente. Regioni ed enti locali sono poi stretti entro i principi generali dell’ordinamento,
particolarmente rilevanti e diffusi proprio nel diritto amministrativo. È noto infatti che la non
codificazione del diritto amministrativo ha legittimato la giurisprudenza ad individuare una summa di
regole dell’azione amministrativa, al fine di porre ordine ad una normativa copiosissima e stratifica;
regole che a prescindere da quelle che si ricavano da principi costituzionali e comunitari, sono in parte
ricavate dai principi del diritto privato, altre da disposizioni contenute in leggi di particolare rilievo c.d.
leggi forti della P.A; altre invece vengono elaborate applicando il canone generalissimo della
ragionevolezza, e talvolta ricorrendo all’equità. Sicchè è affermazione comune che il diritto
amministrativo non è frutto solo delle leggi che regolano l’attività dello stato, ma anche da principi che
costituiscono la parte generale non scritta di tale branca del diritto. Tali principi via via che si inverano
e vengono rilevati incombono sicuramente sulle materie di competenza concorrente così la legislazione
regionale è soggetta al limite dei principi fondamentali della materia, i c.d. principi verticali, ed è
soggetta anche ai principi dell’ordinamento detti orizzontali. Da aggiungere è che la rete di tali principi
vale anche per le materie residuali.

9. I campi elettivi di azione del particolarismo:

La legislazione regionale e a maggior ragione la normativa secondaria degli enti locali, per quanto
espressione di particolarismo, non sfuggono alla statualità, anzi sono intrise di statualità. Infatti
l’esperienza dimostra che istituti e discipline regionali talvolta sono stati ripresi a livello di legislazione
statale, e dunque si ha che il particolarismo regionale è divenuto legge statale di principio dunque a
guardar bene questo non è particolarismo, poiché nella nostra ottica il particolarismo deve avere due
requisiti, uno formale, rappresentato da una fonte non statale; e uno dato dalla specialità della disciplina,
dettata in funzione di esigenze e caratteristiche locali, che non hanno e non possono avere carattere
generale. In questi settori si invera la sussidiarietà verticale del particolarismo, poiché l
amministrazione è maggiormente vicina agli interessi da curare, ed è quella in grado di valutare con
maggiore cognizione di causa la specificità e la particolarità. Pensiamo alle discipline del territorio, beni
culturali, paesaggistica ecc.

10. I condizionamenti del diritto amministrativo statale provenienti dal diritto europeo:

Altro discorso è quello che riguarda l’ universalismo, è indubbio infatti che il diritto amministrativo sta
perdendo il suo storico carattere autoctono, nel senso di diritto quale espressione dello Stato e della sua
sovranità, al punto che si dice essere divenuto extrastatuale. Ciò avviene in primis per effetto dei Trattati
europei, dai quali nascono continuamente principi generali e discipline di dettaglio che investono
l’organizzazione amministrativa. L’ invasione delle fonti europee sul nostro diritto amministrativo
avviene su due livelli. Il primo livello riguarda i principi generali, come quello di tutela del legittimo
affidamento, di diritto all’accesso alla documentazione amministrativa, di responsabilità di
provvedimenti amministrativi illegittimi; è vero che molti di questi principi erano già presenti nel nostro
ordinamento, ma una volta entrati nella comunità europea, hanno di per sé una forza superiore rispetto
ai principi ricavabili dalla legislazione ordinaria, sicchè è obbligatoria la non applicazione della
normativa interna divergente dal diritto europeo da parte delle stesse amministrazioni. Una summa dei
principi generali circa l’attività amministrativa sono enunciati nella Carta di Nizza. Tale ordine di
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considerazioni emerge in un consolidato indirizzo giurisprudenziale del nostro consiglio di Stato, ormai
fermo nel rilevare che il diritto comunitario si alimenta come è noto di diritti nazionali in un processo
di osmosi reciproca e avviene in questo modo una compenetrazione reciproca fra ordinamento
comunitario e ordinamento interno. Il secondo livello, riguarda la legislazione di settore: tantissime aree
che impegnano l’attività della nostra pubblica amministrazione sono disciplinate in toto da regolamenti
o direttive europee, trasfuse poi in leggi di Stato, come il principio di precauzione nel diritto ambientale.
Talvolta poi i principi nascono dalla combinazione delle discipline di settore. Il diritto delle
telecomunicazioni ad esempio, inserito nel diritto commerciale, e il diritto della televisione ispirato al
diritto costituzionale. Ora questi due diritti si stanno sovrapponendo creando un nuovo diritto. Bisogna
inoltre ricordare il principio del mutuo riconoscimento in virtù del quale le certificazioni e le
autorizzazioni rilasciate da uno stato membro producono effetti equivalenti anche in altri stati. Esso è
rilevante in quanto produce almeno 3 effetti:da una parte la deminutio della sovranità degli Stati, dato
che il mutuo riconoscimento attribuendo valore alle legislazioni dell’ordinamento di origine, attribuisce
a quest’ultimo la funzione di tutela di interessi pubblici anche nello stato ad quem, spezzando il
tradizionale nesso fra Stato e suoi provvedimenti. Il secondo è dato dall’integrazione non solo tra le
legislazioni, ma tra le amministrazioni. Il terzo è dato dal fatto che il mutuo riconoscimento costituisce
fattore di cooperazione.

11. Il diritto amministrativo senza confini prodotto da organismi internazionali:

il diritto amministrativo europeo è un diritto comune a tutti gli Stati dell’Unione europea, che tali stati
applicano tramite propri enti ed organi. E’ dunque un diritto sovranazionale di dimensione continentale.
Vi è però anche un diritto amministrativo globale o universale. Bisogna fare però una precisazione; che
la oggettivazione globale o universale è meramente tendenziale, non essendovi un centro unitario di
produzione, una disciplina comune della formazione e delle fonti, in quanto non esiste un ordine
giuridico globale; dunque si può parlare di tendenze o prospettive. Vi sono infatti interessi che hanno
visione globale, ambiente, trasporti, comunicazioni, mercati finanziari, sicurezza, salute, che impongono
agli Stati la ricerca di organismi e di regole comuni. La c.d. globalizzazione ha suscitato notevole
attenzione presso la dottrina, sia per la peculiarità delle fonti sia perché va ad investire la statualità. Il
processo di globalizzazione si radica sulla presenza di numerose organizzazioni internazionali, deputate
a regolare interessi ed attività proprie delle pubbliche amministrazioni degli stati: Banca Mondiale,
Organizzazione mondiale del commercio, l’ ONU ecc. molti sono legati tra loro da accordi, il che
incrementa l’efficacia della loro azione, e contribuisce a creare un sistema a rete. La ragione di questa
proliferazione di enti, organismi ed agenzie con le rispettive normative sono la sempre più fetta rete di
relazioni che investono le economie dei vari Paesi, la non confinabilità dei problemi ambientali,
l’esigenza di stabile regole per la sicurezza e la salute oltre i confini. Laddove la produzione di regole
giuridiche è prevista da accordi internazionali che stanno dietro a queste organizzazioni, il diritto
globale per la sua estensione è anche un diritto amministrativo gerarchicamente più forte, rispetto alle
leggi ordinarie ex art. 117 1’ comma Cost. diverso è quando le regole amministrative sono prodotte da
soggetti deputati dagli accordi internazionali a dettare meri standards o raccomandazioni, o addirittura
provengono da istituzioni private, tanto che la stessa normativa interna può rimandare alle
organizzazioni di tali organismi. Se non vi è tale rinvio, le regole amministrative prodotte da tali
organismi hanno comunque una legittimazione nel sapere tecnico che le ispira, ne deriva che con
riguardo alle istruzioni di vigilanza di banca d’Italia, ma anche ai regolamenti Consob o ISVAP, è da
ritenere che laddove si debbano determinare disposizioni di carattere generale avente ad oggetto
materie di carattere tecnico come i controlli interni, il contenimento del rischio ecc, soccorrono
specifiche regole tecniche che nascono dalla dottrina e dalla pratica e dalla applicazione di metodologie
condivise, e contribuiscono a dettare criteri volti a garantire la c.d. raffrontabilità. E infatti la
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giurisprudenza ha costantemente rilevato che il principio di legalità è inverato quando si tratta di norme
confacenti al particolare ambito tecnico specialistico cui si riferiscono. E anche nel caso del diritto
globale la oggettività delle regole tecniche o comunque la loro rispondenza a regole d’arte condivisa
dagli esperti fa aggio sulla eventuale non precettività delle regole stesse: ad esempio gli accordi di
Basilea entrano nel nostro ordinamento attraverso la interpositio delle istruzioni di vigilanza di Banca
d’Italia, in quanto gli standard ivi incisi sono ritenuti necessari sia per gestire gli istituti di credito, sia
per garantire la reputazione di tali istituti sui mercati. Da notare che per la completezza della disciplina
gli standards di Basilea vengono utilizzati anche da Paesi non appartenenti al Comitato, come avviene
anche per le regole dettate da organizzazioni internazionali per la loro autorevolezza a regole tecniche
di comune accettazione.

12. Il diritto amministrativo senza confini e relativi principi:

Il diritto amministrativo globale non è dato però solo dalla massa di prescrizioni che irrompono sulle
amministrazioni pubbliche degli Stati sovrapponendosi così al diritto interno degli Stati stessi. Questo è
il diritto globale di aree tematiche ovvero di settore, per lo più espressione di positivizzazione di soggetti
privati. La oggettivazione globale però si basa anche su un altro fenomeno, dato dal fatto ch le
organizzazioni internazionali, in interazione con apparati giudiziali internazionali e nazionali e con i
diritti interni degli Stati, emergono principi destinati ad assumere carattere globale. Art. 38 statuto della
corte internazionale di giustizia “ la corte decide le controversie applicando i principi generali dei diritti
riconosciuti dalle nazioni civili ricorrendo, alle decisioni giudiziarie e alla dottrina degli autori più
qualificati dei vari Paesi”. Un esempio il principio di precauzione nato dallo dottrina giuridico-
ambientale statunitense negli anni ’70, è divenuto principale ispiratore della generalità di discipline in
tema di ambiente e sicurezza a carattere globale. Altri principi di protezione riguardano i beni del
patrimonio culturale e paesaggistico, ove accanto a regole generali di settore si stanno formano delle
regole comuni che vengono riprese e applicate dalle corti internazionali, dando ad esse carattere
generale. La dottrina ha osservato come presso tali Corti e di riflesso a livello globale si stanno
imponendo principi sull’esercizio dell’attività amministrativa, così l’obbligo di motivazione e non
discriminazione, la leale collaborazione, il giusto procedimento, la partecipazione nei procedimenti di
regolazione globale. Si tratta cioè di procedimenti che nascono dall’agire comunicativo delle Corti, che
individuano regole comuni che ricompongono la frammentazione del diritto globale. Tali principi
assumono carattere pervasivo- diffusivo e si impongono all’interno dei diritti degli Stati. La dottrina del
diritto amministrativo globale ha avuto il merito di porre l’attenzione su fonti di organismi
sovranazionali, onde individuare principi comuni. Tanto che nel c.d. ordine giuridico globale non vi sono
criteri gerarchici, ma nazi è percorso da sistematicità ed è investito da forti conflitti di interesse che
sfociano in mediazioni. Per cercare di essere più espressivi, si può accostare il diritto globale al cubismo,
che induce a percepire anche ciò che non è visibile. Ed è appunto fondamentale il lavoro dei giuristi, in
quanto la scienza del diritto deve dominare la dispersione, incentivando le comunanze e riducendo le
dissonanze. Il saggio di Cassese, sul diritto globale, il diritto globale non è un concerto per cui ogni
strumento ha una precisa esecuzione, ma come il jazz può raggiungere punti sublimi e inaspettati, ciò
dipende dal fatto che non è un prodotto finito.

13. Le plurime riserve di statualità del diritto amministrativo:

è indubbio allora che il diritto amministrativo è un diritto sempre meno autoctono degli Stati, per effetto
del combinarsi di regole del c.d. diritto globale, del diritto europeo, e della conseguente riduzione della
sovranità, essendo evidente che se si perde la territorialità perde di rilevanza la sovranità di cui il
territorio è elemento costitutivo. Nel contempo viene meno la esclusività della produzione statuale delle
fonti di diritto. È quella che molti studiosi definiscono crisi dello Stato. Ma è anche vero che alla base vi
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è sempre un esercizio della sovranità statale ovvero l’adesione ai Trattati o convenzioni internazionali,
in quanto gli obblighi giuridici provengono da percorsi spontanei, come la lex mercatoria, e soprattutto
da istituzioni private, o da istituzioni delegate dagli accordi internazionali ad emettere solo
raccomandazioni che poi assumono carattere precettivo, non a caso si parla di stateless global
governante. Così il diritto amministrativo tradizionale diviene recessivo, stando alle fonti
sovraordinate che vanno a piegarlo e conformarlo. Recessione però non significa spoliazione. Il diritto
amministrativo dello stato ha davanti a sé grandi territori, se solo pensiamo all’art. 117 comma 2’ e 3’
Cost. vediamo come tantissime aree del diritto amministrativo, come sicurezza dello Stato, armi,
munizioni, sistema tributario e contabile, ordine pubblico e sicurezza, istruzione, previdenza sociale,
tecnologia, non sono di certo del tutto coperte dal c.d. diritto globale e nemmeno dal diritto europeo. Ma
non solo abbiamo aree intonse rispetto al diritto globale, ma anche regole sovranazionali che pongono
dinieghi, eccezioni o aree riservate al diritto statuale, a dimostrazione del fatto che non siamo di fronte
ad una sovranità statale del tutto perduta. Senza contare poi che è sempre indispensabile la forza degli
ordinamenti statali per dare concretezza ed effettività all’applicazione delle regole sovrastatali. Inoltre,
come afferma Cassese, la regole sovranazionali sono comunque sottoposte a un processo di
contestualizzazione nel senso che vengono influenzate dall’ambiente giuridico dello Stato in cui devono
trovare applicazione.

14. Il principio della tutela dell’identità degli Stati e i suoi principali corollari:

Il TUE dichiara di rispettare la storia, la cultura e la tradizione dei popoli, l’art. 4 ammette “L’unione
europea rispetta l’eguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità insista nella loro
struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema della autonomie locali e regionali.
Rispetta le funzioni essenziali dello stato, in particolare le funzioni di salvaguarda dell’integrità
territoriale, di mantenimento dell’ordine pubblico e di tutela della sicurezza nazionale. In particolare, la
sicurezza nazionale resta di esclusiva competenza di ciascuno Stato membro”. Il che conferma l’esigenza
di tutelare la identità differenziata degli Stati. Identità significa anche garanzie di situazioni specifiche,
individuate soprattutto da regioni ed enti locali, c esprimono i momenti di autonomia e particolarismo.
Tutto ciò trova conferma nel principio di sussidiarietà letto vicino a quello di prossimità, secondo cui le
decisioni devono essere adottate il più vicino possibile ai cittadini. In altri termini, la identità degli Stati
e con essa le autonomie locali e relativa potestà normativa va comunque salvaguardata anche se
all’interno di un principio di integrazione fra ordinamenti e quello di tutela della propria identità.

15. Il diritto amministrativo nell’arcipelago delle fonti:

Ciò significa che la globalizzazione e la stessa europeizzazione del diritto amministrativo non fanno
venir meno la statualità di tale branca del diritto. Vi sono semmai molte aree di coabitazione, creando
quello che in chimica si chiama entropia, ossia confusione, in quanto la commistione causa intreccio e
fusione di fonti. Il diritto amministrativo oggi è un sistema giuridico aperto, non gerarchizzato nelle fonti
e fatto di intersezioni fra ordinamenti nazionali e ultrastatali. Sicchè il diritto globale e i principi che se
ne traggono finiscono per essere un canone di interpretazione del materiale normativo. I
costituzionalisti hanno messo in luce come la teoria delle fonti non ce la faccia più a racchiudere,
sistemare, ordinare l’irrompere delle fonti stesse date dalle norme consuetudinarie, dalle sentenze, lex
mercatoria, convenzioni, tradizioni costituzionali comuni ecc. Sicchè non c’è più un ordine sistematico
ma casuale ed è proprio qui che si cercano punti di convergenza per mantenimento dell’unità
sistematica del diritto. Nello stesso tempo, il particolarismo interno, quello cioè delle fonti locali, è la
fortemente statalizzato, ciò sia per la presenza di diffusi principi generali del diritto amministrativo, sia
per la incombenza di materie riservate allo stato. Le regioni e gli enti locali avvalendosi delle proprie
competenze costituzionalmente garantite, hanno il dovere di individuare le esigenze locali, basandosi
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su regole uniformanti derivanti da livelli sovranazionali. Un esempio significativo circa l’esigenza di
tutela del particolare è data dalla regolamentazione delle cave di massa e Carrara, di proprietà
comunale, dunque demanda la disciplina ad un regolamento comunale. È evidente dunque che discipline
così speciali e particolari, non si prestano ad una regolamentazione di livello europeo. Il particolarismo
sta proprio in questo, nel tutelare e valorizzare le identità locali e connesse tradizioni che si trovano in
distonia con la legislazione sovraordinata. Si tratta di un vero contro limite che si radica nel
riconoscimento delle autonome locali ex art. 5 Cost. ove la identità costituzionale comprende anche la
tutela delle esigenze autonomistiche. La conclusione di questo percorso argomentativo non può allora
compendiarsi in statuizioni categoriche né in schemi sicuri e stabili. Può infatti avvenire che il diritto del
particolarismo integri o specifici il diritto nazionale e quello sovranazionale. Dunque non siamo di fronte
tanto a una gerarchia delle fonti quanto a un gioco di rapporti fra ordinamenti.

John Austin

DELIMITAZIONE

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DEL CAMPO DELLA
GIURISPRUDENZA
- INTRODUZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA DI Mauro Barberis:

Province of Jurispudence Determined fu l’unico libro pubblicata in vita da John Austin, giurista e
filisofo inglese, e resta un’opera fondamentale per almeno tre delle discipline costituenti la filosofia
pratica, o etica in senso ampio. Dal punto di vista della filosofia morale essa fornisce una delle prime e
più esplicite concettualizzazioni della posizione, che sarebbe stata chiamata utilitarismo della regola. Si
dal titolo Austin mira alla delimitazione della sfera propria alla giurisprudenza, o dottrina, o scienza
giuridica; l’opera infatti inaugura quella tradizione dottrinale, che dopo di lui si chiamerà general
jurisprudence, o più semplicemente jurisprudence. Per delimitare la sfera della giurisprudenza Austin
vuole preliminariamente definire il diritto. Il contesto in cui opera è quello del common la inglese, il più
refrattario ai processi di razionalizzazione e codificazione che avevano interessato gran parte
dell’Occidente. L’intero opera teorica di Austin è frutto del tentativo di ripensare il common law in base
a criteri continentali, incontrando la stessa difficoltà di Bentham.

Il concetto giuspolitico: quando si parla del sistema giuridico inglese, è come caratterizzarlo come
eccezionale o anomalo in rapporto a quello continentale. La peculiarità del sistema inglese è costituita
dalla presenza della common law accanto alla civil law continentale. I tratti distintivi del common law
vennero delineati già nel ‘600, nel tentativo da parte della monarchia di inserire elementi dei modelli
giuspolitici di tipo continentale. Questa portò alla formulazione della dottrina “il nostro re è il legislatore
sia della common law”, sia del diritto scritto, denominata poi teoria classica del common law, prevalse
sulle dottrine rivali a seguito della Gloriosa Rivoluzione del 1688.89, finendo per incorporarsi
all’ideologia della maggioranza parlamentare whigs che resse il Paese per buona parte del ‘700. Tutte
queste vicende concorsero a tenere l’ Inghilterra fuori dai processi di codificazione che nel ‘700
interessarono il resto d’Europa, e common law e legislazione continuarono a convivere. Certo vi fu anche
chi riprese la critica hobbesiana della common law, revocando il carattere giuridico di quest’ultima. Per
Bentham come per Hobbes non è un caso che la lingua inglese abbia una sola parola law, per significare
sia il diritto sia la legge. Come dice Bentham :” se law designa propriamente la legge, diventa difficile
ammettere la giuridicità del common law, almeno in base alla rappresentazione fornita dalla teoria
classica”. Infatti proprio la teoria classica per distinguere il common law dallo statute law, aveva insistito
sul carattere originariamente consuetudinario del diritto tradizionale inglese. La common law può
rientrare nella definizione benthamiana di diritto solo ove ai giudici venga dato un ruolo paralegislativo,
ossia la common law divenga un diritto creato dai giudici.

La filosofia morale: uno degli aspetti che hanno costituito motivo di imbarazzo per gli interpreti è il
fatto che ben 3 delle sei lezioni che costituisco l’opera di Austin (la seconda la terza e la quarta) vertono
su temi filosofico- morali, affermando che “l’esistenza del diritto è una cosa, i suoi meriti o demeriti
altra”. Tuttavia per Austin anche se diritto e morale sono concettualmente distinti, tuttavia il diritto
subisce influenza di una morale, quella utilitaristica. In una serie di Lezioni Austin osserva un legame
necessario fra diritto e morale. Dopo la lezione I, dedicata a distinzioni e analisi preliminari, le lzioni II,
III, e IV, sono specificatamente dedicate alle leggi divine, che si distinguerebbero dalle altre leggi per il
carattere sovraumano del loro legislatore. La lezione II in particolare, dopo aver distinto fra legge divina
rivelata e no, tratta delle diverse teorie morali che permetterebbero di risalire alla legge divina non
rivelata, e soprattutto all’utilitarismo. Se si ammette che la Divinità vuole il bene delle sue creature,
afferma austin, allora deve anche ammettersi che la legge divina non rivelata possa risalirsi nel modo

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seguente: se certe azioni hanno tendenze utili, si può desumerne che Dio le comanda; se le hanno
dannose si può desumere che Dio le vieta. Secondo Austin la tendenza di un’azione, intensa come
insieme di tutte le conseguenze che questa avrà sulla felicità o benessere generale, dovrebbe essere
apprezzata in relazione all’intera classe di azioni cui essa appartiene; per esempio, il singolo furto non
deve essere valutato in quanto tale, ma in relazione all’intera classe dei furti, e ci si domanda che
conseguenze ci sarebbero se tutti rubassero, risalendo dunque alla regola divina che vieta tutti i furti
senza eccezione. Una valutazione caso per caso non sarebbe affatto richiesta dall’utilitarismo; al
contrario, questo richiederebbe soltanto di seguire la regola, confidando nella sua utilità seguendola
senza eccezioni. Secondo la teoria utilitaristica di Austin la nostra condotta si conforma a regole ricavate
dalle tendenze delle azioni, ma non è caratterizzata da un ricorso diretto al principio di utilità generale.
L’utilità è il parametro ultimo della nostra condotta, non il parametro immediato, e costituisce il termine
di paragone immediato solo nei confronti delle regole alle quali la nostra condotta si conforma, ma non
di azioni specifiche o individuali. Le nostre regole sono modellate sull’utilità; la nostra condotta sulle
nostre regole. Austin rifiuta quella forma di utilitarismo chiamato utilitarismo dell’atto, affermando che
ad essere valutata in termini di utilità è la classe delle azioni; adotta invece la forma di utilitarismo,
chiamato utilitarismo generale o generalizzato, quello che chiamerà utilitarismo della regola: ossia è la
regola che accoglie le conclusioni dell’utilitarismo generale.

Nella III lezione Austin tratta del rule utilitarism come il principio che di fatto giuda il legislatore. Vale
la pena confrontare questa posizione con quella di Bentham: anche quest’ultimo può considerarsi un
utilitarista della regola, ma a differenza di utilitaristi successivi come un utilitarista diretto, interessato
alla critica di regole considerate uti singulae piuttosto che uti universae. A differenza di precursori come
Hume e Smith, Bentham ha coltivato un utilitarismo di tipo normativo, e non esplicativo. Sarà Austin a
tonare con una versione esplicativa moderata.

La filosofia politica, sovranità e obbligo politico: la filosofia politica austiana è costruita intorno a
una teoria della sovranità di chiare ascendenze hobbesiane, fondando l’obbligo politico sull’abitudine
all’obbedienza e sull’effettività del potere. Sembrerebbe dunque un assolutista, ma in realtà le posizioni
filosofiche- politiche di Austin sono tutt’altro che assolutistiche, che al di là dell’impianto hobbesiano la
teoria austiana della sovranità si limita a trarre alcune conseguenze dello sviluppo del sistema politico
inglese dopo la Gloriosa Rivoluzione, infatti non fonda l’obbligo politico sull’obbedienza, ma su
fondamenti utilitaristici. Nella VI lezione si dedica al tema della sovranità e della società politica
indipendente, col fine di distinguere la giurisprudenza dagli altri campi che la circondano (corsivo di
Austin). La giurisprudenza per Austin ha per oggetto il diritto positivo:”ogni legge positiva è posta da un
sovrano, individuale o collettivo, nella cui società politica indipendente è sovrano o sovrani”. La
sovranità a sua volta avrebbe due tratti distintivi: 1 la maggior parte della società condivide una
abitudine all’obbedienza o sottomissione nei confronti di un determinato superiore comune; 2 quel
determinato insieme di individui non condivide un’abitudine all’obbedienza nei confronti di un
determinato superiore umano. In altri termini, si può parlare di sovranità solo se i consociati
obbediscono effettivamente a un superiore comune, e quest’ultimo non obbedisca ad alcuno. È la c.d.
habit of obedience. Ma Austin, come ammette hart, non fonda l’obbligo politico sull’abitudine
all’obbedienza, ma sul principio di utilità. Sgombriamo subito il campo dall’assimilazione a Hobbes.
Proprio contro di lui nella lezione VI, Austin riprende quasi alla lettere la fondazione utilitaristica
dell’obbligo politico avanzata nella lezione II. Uno degli errori di Hobbes consiste in questo :” egli cerca
di infondere l’obbligo religioso di obbedire, senza tener conto i casi in cui la disobbedienza è consigliata
dallo stesso principio di utilità che suggerisce il dovere di sottomettersi”. Limitare il potere supremo è
impossibile e assurdo, e se il diritto positivo è posto dal sovrano, non può essere limitato, cosicchè una

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limitazione giuridica di quest’ultimo appare una contraddizione. Tuttavia, non avere limiti, non significa
andare contro ai limiti costituzionali che per Austin appartengono alla moralità positiva.

La filosofia giuridica: definizione el diritto e common law: la filosofia giuridica di Austin può
sembrare non distinguersi troppo da quella di Hobbes e Bentham. Ma in realtà Austin presenta connotati
chiaramente essenzialistici. La definizione del diritto è una definizione per genus et differentiam, che
destinguendo le leggi specificatamente giuridiche dalle altre, assume che tutto il diritto sia per sua
natura legge. Le leggi o regole non sarebbero altro che comandi generali, o astratti come direbbe Bobbio;
e proprio il concetto di comando, più elementare di quello di legge, costituirebbe la chiave per accedere
alle scienze del diritto e della morale. Per comando Austin intende una manifestazione di desiderio
caratterizzata dalla soggezione del destinatario a una punizione in caso di inottemperanza da parte
dell’emittente. Il diritto potrebbe definirsi come quell’insieme di regole provenienti dal sovrano che
provvede a renderli effettivi tramite sanzione. La funzione imperativistica del diritto proviene dallo
strumentario concettuale dell’assolutismo monarchico, privilegiando la legislazione di origine sovrana
rispetto alle fonti correnti.

Questa era certamente la funzione di Hobbes e Bentham,: legittimare lo statute law rispetto il common
law. Ma la filosofia giuridica di austin non può ridursi nella defininizione di diritto come comando, in
quanto non poteva valere per il sistema giuridico inglese del tempo; egli infatti non considera la sfera
pratica esaurita dalla distinzione fra diritto e morale, ma parla di un tertium quid, composto sia da
comandi veri e propri sia da consuetudini. A questo aggregato Austin da il nome di POSITIVE MORALITY:
locuzione che significa moralità positiva, per sottolineare il fatto che è qualcosa fuori dal diritto ma non
può nemmeno essere ridotta a semplice morale. Della moralità positiva fanno parte quelli che noi
chiameremo diritto costituzionale e internazionale, ma anche il diritto primitivo o tradizionale. Austin
afferma:”il diritto sorge dalla consuetudine, o moralità positiva, quindi passa per una fase di
riformulazione giudiziaria, e solo dopo diviene diritto in senso proprio, cioè comando, legge”. Se tenamo
conto di questa considerazione appare chiaro che Austin impiega la categoria della moralità positiva per
recuperare i motivi della tradizione del common law. Da qui la distinzione tra la sua teoria e quella
classica: la teoria classica vede il common law come l’applicazione da parte dei giudici di consuetudini
giuridiche; Austin la raffigura come la conversione in diritto operata dai giudici in consuetudini
pregiuridiche, “diritto come qualcosa di miracoloso fatto da nessuno che esiste dall’eternità e viene
dichiarato di tempo in tempo dai giudici”. Austin rimprovera a Bentham di aver denigrato la common
law trattandola alla stregua di judge made law; la common law per Austin non è mera creazione dei
giudici, da qui nasce il concetto di moralità positiva.

- INTRODUZIONE DI H.L.A. Hart:

The Province of Jurisprudence Determined è la parte più conosciuta dell’opera di Austin, ma egli stesso
la considerava una prefazione necessaria alle sue lezioni, pubblicata nel 1832. Il succo della dottrina di
Austin può essere esposto in poche parole: in questo lavoro preliminare ha come obiettivo l’identificare
i caratteri distintivi del diritto positivo, e liberarlo dalla perenne confusione con i precetti della religione
e della morale. Per raggiungere il suo obiettivo Austin usa due nozioni: la prima è quella di comando,
che egli analizza in termini di espressione del desiderio da parte del sovrano che ha il proposito di
infliggere u male nel caso in cui questo desiderio sia ignorato; la seconda è quella di abitudine
all’obbedienza nei confronti di una determinata persona. In relazione a questi due elementi egli
definisce: la soggezione al dovere o obbligo (l’essere soggetto all’inflizione di un male, in caso di
disobbedienza, da parte della persona che comanda); la sanzione (il male in cui si incorrerà in caso di
disobbedienza); il superiore (una o più persone che possono costringere altri ad obbedire); la società

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politica indipendente (una società in cui la maggioranza obbedisce abitualmente a un determinato
superiore comune); il sovrano (un determinato superiore umano che no obbedisce ad alcuno).

Le leggi laws, vengono definite come comandi che obbligano una o più persone a tenere un determinato
comportamento e la differenza specifica con il diritto positivo viene fatta risiedere dal suo essere posto
da parte di un sovrano nei confronti dei membri di una società ibera indipendente. Così identificato il
diritto positivo costituisce uno dei tre tipi di regole per la condotta umana; gli altri due sono le leggi di
dio e la moralità positiva. MORALITA’ POSITIVA, è per Austin, tutte le regole di condotta di produzione
umana le quali non presentano la differenza specifica del diritto positivo. Le leggi di Dio sono leggi
propriamente dette ma non di diritto positivo, in cui gli uomini trovano una guida o un indice nei principi
di utilità generale.

Le critiche alla dottrina di Austin sono divenute più note della dottrina stessa: Kelsen ne ha rivelato
alcuni difetti. Austin si era impegnato ad usare nella sua analisi solo termini chiari, rigorosi, empirici,
che fossero intangibili al senso comune, ma egli scelse nozioni fondamentalmente sbagliate. Gli elementi
da lui usati, cioè comando e abitudine, non includono la nozione di regola come ciò che deve esser fatto.
Un sistema giuridico è un sistema di regole operante nel contesto di altre regole: affermare che un
sistema giuridico esiste comporta non che si dia una abitudine generale all’obbedienza, ma che vi sia
generale accettazione di una regola costituzionale, che definisce il modo in cui le regole ordinarie
debbano essere identificate. L’accettazione di tali regole costituzionali non possono essere date
dall’abitudine all’obbedienza degli individui, anche se l’obbedienza è documentata nelle leggi.

- ANALISI DELLE LEZIONI:

Le leggi Laws, in senso proprio sono comandi; quelle che non sono comandi non sono leggi in senso
proprio, e sono così chiamate impropriamente. Le leggi sia propriamente che impropriamente dette
possono distinguersi in:

1. Leggi divine o leggi di Dio;


2. Le leggi positive;
3. La moralità positiva, o leggi morali positive;
4. Leggi in senso metaforico o figurato;

Lo scopo delle sei lezioni seguenti è quello di distinguere le leggi positive (oggetto della giurisprudenza),
dagli altri oggetti: oggetti ai quali esse sono legate per somiglianze e analogie, oltre che dal comune
nome di “legge”, ragion per cui tutte queste cose sono spesso mescolate e confuse. Lo scopo di
quest’opera in sei lezione è tracciare il limite che separa il campo della giurisprudenza da quelli
confinanti. Parlando in prima persona Austin traccia il modo cui arriverò a questa delimitazione in
tappe: 1. Individuare l’essenza e la natura comune delle leggi propriamente dette; 2. Individuazione dei
caratteri propri delle 4 categorie per la quale vengono separate.

Nella LEZIONE I vengono stabiliti gli elementi essenziali di una legge o regole, comuni a tutte le leggi
propriamente dette. Si individua l’essenza o natura di una legge imperativa, determinando
implicitamente l’essenza o la natura di un comando; distinguendo poi i comandi che sono leggi da quelli
meramente occasionali o particolari.

Nella LEZIONE II vengono individuati i caratteri distintivi delle leggi di Dio rispetto alle altre leggi.
Verranno poi divise le leggi a seconda che siano rivelate oppure no. I comandi taciti delle divinità
all’uomo si desumono in base a tre teorie: teoria dell’utilità generale; teoria del senso morale; e una
teoria mediana delle due.
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Nella LEZIONE III e IV, ci si occupa della spiegazione delle tre ipotesi. L’esposizione delle tre teorie
portano ad esaminare il concetto di giurisprudenza. Ad esempio, il diritto e la moralità positiva, vengono
distinti dai giuristi moderni in diritto naturale e diritto positivo, vale a dire in diritto e moralità positiva
modellate sulla legge di Dio da un lato, e diritto e moralità positiva di derivazione umana. Questa stessa
distinzione coincide con la distinzione nelle pandette e nelle Istituzioni, ove l’ ius civili è distinto dall’ ius
gentium. Ciò significa che altre a quelli parti del diritto positivo che sono peculiari a particolari nazioni,
vi sono regole di diritto positivo che si estendono a ogni nazione, sono regole morali osservate da tutto
il genere umano, ius omnium gentium. Queste regole universali non possono essere semplicemente di
produzione umana, ma son fatte dagli uomini sul modello delle leggi divine o della natura, che
costituiscono l’anima e la giuda dell’universo, rivestite poi di sanzioni umane. Invece le regole di
particolari nazioni sono di produzione umana, poiché particolari e transitorie, non universali e non
durevoli, e dunque non forgiate su modelli divini o naturali. La legge divina è la misura o il termine di
confronto per il diritto e la moralità positiva; di conseguenza uno dei più importanti oggetti dell’etica è
la determinazione della natura dai quali si desumano i taciti comandi della divinità. Per scienza etico, o
scienza deontologica, si intende la scienza del diritto e della morale come debbono rispettivamente
essere se si conformano ai propri termini di misura o paragone. Quel settore dell’etica che attiene
specificatamente al diritto positivo è denominato scienza della legislazione. Ora, nonostante la scienza
della legislazione non sia assimilabile alla giurisprudenza, le due discipline sono legate.

Nella LEZIONE V, si divederanno le leggi o regole in due classi: leggi propriamente dette e
impropriamente dette, legate da analogia con le prime, e che quindi chiamiamo leggi in senso metaforico
o figurato. Le leggi in senso proprio si distinguono in leggi di dio e legge positive; le gii sia propriamente
che impropriamente dette sono dette regole morali positive. Viene individuato il carattere delle leggi
morali positive, cioè quelle regole poste agli uomini ma che non sono munite di sanzioni giuridiche. Vi
sono poi le regole morali positive che sono leggi imperative, e quelle che sono poste dall’opinione.

Nella LEZIONE VI, si individuano i caratteri delle leggi positive che costituiscono l’oggetto proprio della
giurisprudenza. Ogni legge positiva è tale se posta da una persona sovrana alla società politica
indipendente.

LEZIONE I:
L’oggetto della giurisprudenza è il diritto positivo così chiamato senza ulteriori qualificazioni e in senso
stretto. Ma il diritto positivo è spesso confuso con oggetti cui è legato per somiglianza o analogia,
identificati vagamente con il termine law. Una legge, nella eccezione più ampia, può essere definita come
una regola posta da un essere intelligente per la guida di un altro essere intelligente soggetto al potere
del primo. Il termine legge abbraccia gli oggetti seguenti: le leggi poste da Dio alle sue creature umane,
e le leggi poste dagli uomini ad altri uomini. La parte della legge posta da Dio agli uomini viene
frequentemente chiamata legge di natura o diritto naturale. Le leggi poste da uomini invece rientrano
in due categorie: quelle stabilite da superiori politici, frequentemente denominato diritto positivo o
diritto derivante da un atto di posizione; e quelle non stabilite da superiori politici. In questa seconda
categoria rientrano una serie di regole impropriamente dette leggi, poste e rese effettive dalla semplice
opinione, come le leggi dell’onore o leggi della moda. Oltre ai vari tipi di regole che sono inclusi
nell’eccezione letterale del termine law, e quelle che sono chiamate impropriamente leggi per una
stretta ed evidente analogia; esistono numerosi usi del termine che si basano su un’analogia più debole,
e che sono metaforici o figurati: le leggi osservate dagli animali inferiori; le leggi della vita dei vegetali.

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Infatti ove non vi è intelligenza o è troppo limitata per chiamarsi ragione, non c’è neppure la volontà su
cui una legge può influire.

Ogni legge o regola nel significato più ampio è un comando. Il termine comando ricomprende il termine
legge: se qualcuno formula o dichiara la volontà che io faccia o mi astenga dal fare determinate azioni, e
se mi punirà nel caso non ottemperi alla sua volontà, l’espressione o manifestazione della sua volontà è
un comando. Un comando si differenzia dalle altre forme di desiderio quando colui al quale esso è rivolto
è soggetto a un male nel caso in cui non si conformi alla volontà- desiderio. Dunque io sarò vincolato o
obbligato dall’altrui comando, mi trovo nel dovere di obbedirgli. Comando e dovere dunque sono termini
correlativi: il significato dell’uomo è implicito e presupposto nell’altro: colui che infligge un male nel
caso in cui il suo desiderio sia ignorato, formula un comando manifestando il proprio desiderio; colui
che è soggetto a un male nel caso in cui non osservi il desiderio, è vincolato da un obbligo di comando. Il
male in cui si incorrerà in caso di disobbedienza è chiamato sanzione o ottenimento coattivo
dell’obbedienza. Paley insiste sulla violenza del motivo per cui si obbedisce. Se il motivo per obbedire
non è violento o intenso, l’espressione o manifestazione di volontà non è un comando, e il soggetto non
si trova in una situazione di dovere nei suoi confronti. Egli per motivo violento intende qualcosa che
incute timore: infatti ciò che non è temuto non è avvertito come un male. Maggiore è il mane eventuale
maggiore è l’efficacia del comando che verrà obbedito. Alcuni celebri autori come Locke, Betham,
Paley, applicano il termine sanzione sia al possibile male che al possibile bene, dunque punizione ma
anche premio. I premi sono motivi per accondiscese alla altrui volontà. Ma se qualcuno esprime un
desiderio che io gli renda un servizio e promette un premio, allora non si può parlare di comando; è
solamente dalla possibilità di incorrere ad un male che sono obbligato ad ottemperare.

Da ciò che si è detto risulta che il comando è una volontà concepito da un essere razionale, da cui deriva
un male se non si ottempera alla sua volontà. Dunque comando, dovere, sanzione sono strettamente
connessi, infatti, quando parlo direttamente della possibilità di incorrere nel male, impiego il termine
dovere- obbligo; quando palo immediatamente del male incorro nella sanzione. Dunque per il linguaggio
dei logici, ognuno dei tre termini significa la stessa nozione, ma ognuno denota un aspetto differente di
tale nozione e connota quelli restanti.

I comandi sono di due specie: alcuni sono leggi o regole, altri comandi occasionali o particolari. Ogni
comando obbliga colui al quale è rivolto un’azione o un’omissione. Quando esso obbliga generalmente
ad azioni od immissioni appartenenti ad una classe, esso è legge regola, quando obblighi ad un’azione o
omissione specifica o individuale, è un comando occasionale o particolare. Per concludere con un
esempio, i comandi giudiziali sono solitamente occasionali o particolari: il comando del legislatore che i
ladri siano impiccati, è un comando generale seguito da sanzione, dunque una legge o regola, il comando
del giudice è occasionale o particolare perchè ordina la punizione per quel caso specifico. Dunque, le
leggi obbligano in generale i membri di una data comunità; un comando particolare obbliga
individualmente una singola persona.

Si dice inoltre che le leggi e gli altri comandi provengano da superiori e vincolino ed obbligano inferiori.
La superiorità è spesso sinonimo di precedenza o eccellenza del potere: potere di infliggere un male
servendosi del timore per adeguare gli altri al suo volere. Chiunque possa obbligare un altro a rispettare
i suoi voleri è il superiore dell’altro; e colui che è soggetto al male incombente è l’inferiore. Ma è anche
vero che chi è superiore sotto un profilo è inferiore sotto un altro. Per esempio, il monarca è superiore
di chi è governato, ma i governati sono anche superiori del monarca, il quale è controllato nei suoi
eventuali abusi, nel timore di scatenare ribellione. Ne risulta allora che il termine superiorità è implicito
in quello di comando: la superiorità è infatti il potere di imporre obbedienza ad una volontà.

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Si è già accennato agli oggetti impropriamente chiamati leggi, in quanto non si tratta di comandi, ma
possono essere inclusi nel campo della giurisprudenza: 1. Gli atti emanati dal legislatore per spiegare il
diritto positivo, non possono essere definiti leggi in quanto non portano alcun cambiamento, sono atti
di interpretazione autentica. Tutta via tali leggi dichiarative sono imperative di fatto. 2. Leggi che
abrogano leggi precedenti, essi non sono comandi bensì revoche di comandi, e proprio per questo seno
definite leggi permissive, e dunque imperative, in quanto i soggetti sono liberati e reintegrati nei loro
diritti o libertà. 3. Le leggi imperfette, sono quelle leggi prive di sanzione, ossia quelle leggi che considera
criminose determinate azioni ma non sono seguite da alcuna pena. Dunque la legge imperfetta non è
legge in senso proprio, ma un consiglio del superiore verso l’inferiore. Sono i c.d. doveri non giuridici,
doveri cioè imposti da Dio o dalla moralità positiva.

Le leggi impropriamente dette enumerate sono le uniche che pur non appartenendo alle classe dei
comandi, possono essere incluse nel campo della giurisprudenza. Vi sono tuttavia alcune leggi in senso
proprio che possono apparire non imperative: 1. Le leggi che creano esclusivamente diritti, ma non
doveri e dunque non possono dirsi imperative. Ma ogni legge che conferisca esclusivamente diritti
comportano doveri correlativi a quel diritto, è come se il dovere relativo che essa produce sia assoluto.
2. Le norme consuetudinarie (custumary laws). In origine una consuetudine è una regola di condotta
che i governanti osservano spontaneamente e non in esecuzione di una legge posta da un superiore
politico la consuetudine si trasforma in diritto positivo quando è adottata come tale dalle corti e quando
le decisioni giudiziali formate su di essa sono sanzionate dal potere dello stato. Ma prima di essere
adottata dalle corti essa è esclusivamente una regola di moralità positiva, una regola generalmente
osservata, derivanti dal consenso dei governanti e non dal fatto di essere poste da superiori politici. Ma
considerate come regole morali trasposti in diritto positivo, le norme consuetudinarie sono stabilite
dallo Stato, direttamente, quando sono recepite in documenti legislativi, indirettamente, quando sono
adottate dai tribunali. Dunque il diritto positivo consuetudinario, cioè prodotto giudizialmente è
imperativo, in quanto ha forza di legge per i governanti.

LEZIONE II:
Le leggi divine o leggi di Dio sono quelle poste da Dio alle creature umane. E sono leggi o regole
propriamente dette. In opposizione ai doveri posti da leggi umane, i doveri posti dalla legge divina sono
chiamati doveri religiosi, la violazione di doveri religiosi sono denominati peccati, e si rincorre in
sanzioni religiose, impartite da Dio come violazione dei suoi comandi le leggi di Dio possono essere
rivelate o non rivelate. Le leggi di Dio non rivelate sono spesso chiamate legge di natura o diritto
naturale, diritto manifestata all’uomo dal lumen naturae o rationis. Le leggi rivelate e non rivelate
vengono comunicate agli uomini in modo diverso o da differenti segni. Le leggi di Dio rivelate avvengono
tramite comandi espressi per mezzo del linguaggio umano comprensibile all’uomo o per parola di Dio o
tramite servitori che egli manda per annunciarli. Le leggi non rivelate sono leggi poste da Dio alle sue
creature con mezzi diversi dal linguaggio umano. Ma come facciamo a conoscere le leggi non rivelate?
Secondo una prima teoria, Dio ci ha dotato di sentimenti che ci avvertono quando ci allontaniamo dalla
retta via dei nostri doveri. Questi sentimenti sono stati comparati al senso morale. Si dice che gli uomini
nella decisione sulla rettitudine, siano guidati dal senso comune. Considerati per la loro influenza
sull’anima questi sentimenti sono spesso chiamati coscienza. Un’altra teoria che tenta di rispondere alla
domanda, le leggi di Dio non rivelate devono essere desunte dalla bontà divina e dalle tendenze delle
azioni umane. La benevolenza di Dio e il principio dell’utilità generale costituiscono la guida alla legge
non rivelata.

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Per capire la tendenza di un’azione umana non dobbiamo considerare un’azione singolarmente o
isolamento, ma dobbiamo guardare alla classe di azione alla quale appartiene, e capire che affetto
abbiano sulla felicità e il bene generale. Per esempio, se un povero ruba una manciata di grano dal ricco
vicino l’atto di per sé è innocuo e considerato buono, ma se i furti fossero generali il risultato sarebbe
diverso. In definitiva, nella misura in cui le leggi di Dio sono rivelate, siamo obbligati a conformare la
nostra condotta in quei termini. Nel caso in cui non siano rivelate dobbiamo ricorrere a un’altra via,
ossia l’effetto della nostra condotta sulla felicità e bene generale che costituiscono l’obiettivo di Dio. In
entrambi i casi la fonte dei nostri doveri è la stessa, ossia il principio di utilità generale: la totalità della
nostra condotta dovrebbe essere guidata dal principio di utilità, almeno quando la condotta da seguire
non sia rivelata. Infatti conformarsi al principio con il quale una legge coincide, equivale ad obbedire a
tale legge.

Per obiettare ai critici che ammettono l’utilità come un criterio di condotta pericoloso, Austin afferma
che se fossimo dotati di senso morale, o di senso comune, non saremmo costretti a ricorrere al principio
di utilità generale per risalire ai comandi divini, e l’uomo sarebbe dotato di una ragione innata per
acquistare coscienza dei propri doveri. Ma noi non siamo dotati di tale organo e sarebbe sforzo vano,
dobbiamo dunque ricavare i nostri doveri dalle tendenze delle azioni umane o rassegnarci a restare
nell’ignoranza di tali doveri. L’obiezione dei critici è fondata sul presupposto seguente: se noi
adeguassimo la nostra condotta sul principio utilità generale, ogni nostra scelta sarebbe preceduta da
un calcolo, da un tentativo di ipotizzare e comparare le rispettive conseguenze di azione e astensione.
Ma il principio di utilità generale non è miope o limitato: la nostra condotta è regolata su conclusioni
generali non particolari, e far procedere ogni azione a una previsione sarebbe superfluo e dannoso. In
generale quindi, la condotta umana è inevitabilmente guidata da regole, principi o massime, ma anche
da sentimenti morali associati a tali regole. Se io creo che una data azione sia proibita dalla Divinità, il
mio senso morale o sentimento è connesso con il mio concepire tale azione, e dunque la mia condotta è
ispirata al principio di utilità generale. La mia condotta sarà immediatamente guidata dal sentimento e
solo dopo mediamente dal calcolo. Pensare che la teoria dell’utilità sostituisca il sentimento con il calcolo
è un errore: il sentimento senza calcolo sarebbe ciechi; il calcolo senza sentimento dannoso. Ci sono casi
però, eccezionali e anomali, in cui l’uomo applica il principio di utilità direttamente e immediatamente,
e non la regola religiosa, essendo questa applicabile ai casi generali e normali. I sostenitori delle riforme
ad esempio, essendo concentrati sull’utilità, potrebbero accontentarsi di qualcosa di meno di quanto
pensano e desiderano piuttosto che ricercare il massimo bene nel rischio di una guerra, paragonando il
valore dei propri obiettivi con i costi di un perseguimento violento.

LEZIONE III:
Se la nostra condotta fosse effettivamente modellata sul principio di utilità generale, essa si
conformerebbe nella maggior parte dei casi a leggi o regole poste dalla Divinità, e delle quali
costituiscono parametro o indice le tendenze di classi d’azioni. Ma le classi d’azioni sono talmente
numerose che nessuna ragione individuale potrebbe sistematizzarle esaustivamente analizzando le
rispettive tendenze, e quindi il sistema etico di ogni individuo abbraccerebbe solo una parte di tali regole
lasciando le altre al calcolo delle conseguenze specifiche.

Secondo la teoria dell’utilità la scienza dell’etica o deontologia ( la disciplina che si occupa del diritto e
della morale come essi devono o dovrebbero essere) appartiene alle materie che si fondano
sull’osservazione e l’induzione. Se il diritto e la moralità positiva fossero esattamente ciò che devono
essere modellati sull’utilità, potrebbero essere fornite ragioni sufficienti per ognuna delle regole che la
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costituiscono, e ognuna di queste sarebbe fondata sulle ragioni. Ma poiché ogni uomo può padroneggiare
soltanto una parte di tali dimostrazioni, molte delle regole di condotta sarebbero apprese sulla base
dell’autorità, testimonianza o della fiducia. In breve, se un sistema giuridico o la moralità fossero
modellati sull’utilità, tutte le regole che li costituiscono sarebbero conosciute dalla totalità o
maggioranza delle persone. Ma tutte le numerose ragioni sulle quali il sistema poggerebbe non
potrebbero essere colte da ognuno e i più dovrebbero accontentarsi di indagare su soltanto
alcune di tali ragioni.

Nella matematica e nella fisica possiamo normalmente fidarci di conclusioni ex auctoritate. Infatti i
cultori di queste scienze e tecniche concordano per lo più nei loro risultati. Nella scienza etica invece
coloro che indagano raramente sono imparziali e perciò differiscono nei risultati. Qui non ci si può
basare sulla testimonianza o fiducia altrui. Di conseguenza la scienza etica resta indietro rispetto alle
altre, e la conoscenza profonda sarà sempre limitata ai pochi che la studiano a lungo e assiduamente., e
saranno perfettamente in grado di cogliere i principi guida a applicarli. Se i più fossero informati e
raziocinanti, una volta divenuti capaci di ragionare correttamente, essi potrebbero analizzare e
approfondire le questione che più chi conviene loro capire, come avviene nella scienza economica, ove
la verità è deducibile da principi evidenti con ragionamenti brevi e certi. Se gli elementi della scienza
etica fossero ampiamente diffusi la stessa disciplina farebbe progressi con rapidità proporzionale. Come
ammette Locke e anche Austin, tali progressi sono impediti da interessi inconfessabili o dai pregiudizi
che ne risultano, in realtà saranno sempre pochi quelli che cercheranno la verità in modo spassionato o
imparziale. Nella scienza dell’etica dunque l’unica via sicura è l’utilità generale. Se pensatori e scrittori
si attenessero ad essa sinceramente e strettamente essi arricchirebbero queste discipline di verità
sempre nuove, ma poiché gli interessi di tali classi sono contrari agli interessi della grande maggioranza
è difficile che seguiranno la via indicata dal benessere generale. Come diceva Locke” essi cominciano a
sposare le più ricche in dote dell’opinione, per poi nascondere e camuffarne le deformità”.

Paley, ammetteva che la classe media era non solo la più numerosa ma anche la più importante in seno
alla comunità, ma la influenza della loro posizione paralizza i suoi sentimenti generosi e la rettitudine
del suo intelletto. Ma questi settori della società sono troppo rozzi ed ignoranti per occuparsi di libri del
genere. Se ci fosse un vasto pubblico di lettori attento ed imparziale, la scienza dell’etica progredirebbe
con rapidità. L’etica sarebbe considerata oggetto e materia di una scienza, gli scrittori si avvicinerebbero
a un ideale di esattezza e coerenza geometrica. La pazienza nell’indagine, libertà e imparzialità nella
ricerca dell’utile disperderebbe l’oscurità da cui la scienza etica è offuscata e la libererebbero dalla
maggior parte delle sue incertezze, e come ammetteva Locke, con il tempo l’etica si allineerebbe alle
scienze suscettibili di dimostrazione, e i cultori dell’etica come quelli della matematica concorderebbero
sui risultati, facendo emergere un corpo di verità dottrinali sui cui allinearsi e confidare. I più
troverebbero nel consenso unanime o generale di numerosi o imparziali ricercatori quell’indice di
affidabilità che giustifica la fiducia nell’autorità, ogni volta che non abbiamo l’opportunità di esaminare
i pro e i contro per nostro conto.

Dunque, se l’utilità è il parametro più immediato del diritto e della moralità positiva, allora è impossibile
che siano esenti da difetti ed errori; e il principio di utilità generale ci permette di risalire ai comandi
divini, è impossibile che le regole di condotta osservate dal genere umano si accordino esattamente alle
leggi stabilite dalla divinità. Infatti il diritto e la moralità positiva sono modellati sul principio di utilità
partendo dalle tendenze di azioni umane, e dunque saranno necessariamente viziati o difettosi. Solo
quando l’esperienza del genere umano renderà possibile un’osservazione più estesa e un ragionamento
più preciso e rigoroso, gli uomini rimedierebbero a tali vizi ed errori. Ma, essendo il campo della
condotta umana infinito ed immenso, sarà impossibile per l’intelletto umano abbracciarlo ed esplorarlo

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completamente; ma con la generale diffusione della conoscenza entro la maggior parte dell’umanità, con
il tempo si rimedierà a molti dei difetti e degli errori, e i più che non saranno in grado di esaminare i
risultati di tale scienza potranno razionalmente confidare in un’autorità.

LEZIONE IV:
I critici fanno un’obiezione: se il diritto e la moralità positiva modellati sul principio di utilità, sono
ricavati dalle tendenze delle azioni umane, allora tali azioni non saranno completamente registrate e
classificate, e il diritto e la moralità positiva saranno viziati. Inoltre, se l’utilità è il parametro più
immediato del diritto e della moralità positiva, i difetti e gli errori dell’etica popolare o volgare
risulteranno irrimediabili. La risposta a tale obiezione è questa: essendo il campo della condotta umana
infinito ed immenso, sarà impossibile per l’intelligenza umana abbracciarlo completamente, ma con la
diffusione generale della conoscenza entro la maggior parte del genere umano, con il tempo si rimedierà
a molti dei difetti e degli errori del diritto e della morale esistenti, e quanti non sono in grado di
esaminare i risultati della scienza, troveranno nell’unanime accordo di ricercatori un’autorità nella
quale potranno razionalmente confidare.

Bisogna riconoscere però che questa contro- obiezione, non risponde interamente all’obiezione. Essa
mostra che diritto e morale modellati sul principio di utilità potrebbero approssimarsi col tempo alla
perfezione, ma anche il più perfetto sistema etico che l’ingegno umano possa concepire sarebbe solo una
copia imprecisa del modello divino. E questo contraddice la teoria che l’utilità è indice del volere divino,
in quanto fa conoscere il volere della divinità in modo imperfetto. L’obiezione è fondata sulla presunta
incompatibilità del male con la sua perfetta saggezza e bontà, ma il diritto come una medicina serve a
curare il male. Dio ci ha fornito istinto morale, con cui compiamo alcune azione e ci asteniamo da altre;
certi sentimenti o sanzioni di approvazione o disapprovazione accompagnano ogni nostro riferimento
ad azioni umane in modo negativo; ossia, questi sentimenti morali sono fatti ultimi e imperscrutabili,
che non provengono né dalla nostra educazione né dalla nostra conoscenza, sono sentimenti istintivi o
istinti morali. I termini istinto o istintivo sono termini negativi che esprimono l nostra ignoranza,
significa che alcuni fenomeni non sono preceduti da cause alle quali siamo in grado di risalire. Esempio,
immaginiamo che un selvaggio in cerca di preda incontra un cacciatore che trasporta un cervo; il
selvaggio si scaglia sul cacciatore e lo uccide. Il selvaggio è colpito dal rimorso, dalla consapevolezza di
essere colpevole. In un secondo caso il selvaggio è colpito dal cacciatore, per difendersi lo uccide, in
questo caso il selvaggio non è colpito da rimorso. Orbene, la differenza di sentimenti nei due casi è
riconducibile a una percezione di utilità e alle cognizioni che il selvaggio possiede essendo estraneo alla
società. Il selvaggio considera le due azioni con sentimenti diversi senza che noi sappiamo il perché.
Dunque alcuni sentimenti sono innati nella nostra natura, fatti ultimi, e non effetti di cause accessibili
alla nostra osservazione.

Ora, supponendo che la Divinità ci abbia fornito di un senso o istinto morale, la nostra non può mai
sbagliare anche se la volontà può essere debole.

Qui sorge la domanda se siamo forniti di sentimenti del genere. Se io fossi veramente dotato di
sentimenti del genere debbono essere indiscutibili e devono anche differire da altri sentimenti della
nostra natura. Tutti gli elementi della nostra natura che sono ultimi e non suscettibili di analisi, li
conosciamo e distinguiamo prontamente dagli altri. Ma questo non dimostra che essi siano istintivi. I
critici sostenitori dell’ipotesi che i sentimenti morali siano istintivi e imperscrutabili ammettono che i
sentimenti morali sono gli stessi in tutti gli uomini. Ma in realtà i sentimenti morali corrispondenti a
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periodi e nazioni diversi sono infinitamente diversi. Ciò significa che rispetto a poche classi di azioni i
sentimenti morali degli uomini sono stati simili, ma rispetto ad altre classi di azioni hanno differito con
varie gradazioni. Ma rispetto a poche classi d’azione c’è una rassomiglianza generale tra i diversi sistemi
giuridici e morali nel mondo. Questa ipotesi mista porta a far ricadere le regole umane positive in due
categorie: quelle comuni a tutto il genere umano, ove il senso morale si conforma ai comandi divini; e
quelle non universalmente osservate, la cui conformità ai comandi divini non è quindi attestata da tale
affabile guida. Tale ipotesi mista è implicata dalla divisione del diritto positivo in naturale e positivo.

Ora tentiamo di sottrarre l’ipotesi dell’utilità da due fraintendimenti:

1. Alcuni confondono i motivi che dovrebbero determinare la nostra condotta con il parametro a
cui la nostra condotta dovrebbe conformarsi;
2. Altri confondono l teoria dell’utilità generale con la teoria dell’origine della benevolenza
parlando di sistema egoistico;

In base alla teoria dell’utilità, la misura o parametro della condotta umana è la legge posta da Dio. Alcuni
di questi sono rivelati, altri non rivelati devono essere ricavati dal principio di utilità generale. A rigore
dunque l’utilità non è il parametro alla quale la nostra condotta debba conformarsi, ma è solo la guida. I
comandi divini son il parametro ultimo mentre l’utilità generale è il parametro più vicino e immediato
con la quale la nostra condotta deve conformarsi. Tuttavia, benché il bene generale sia questa misura
prossima o parametro immediato, esso non è in nessun caso il motivo che dovrebbe determinare la
nostra condotta. Quando parlo del bene pubblico o bene generale ci riferiamo a a godimenti aggregati
delle persone singole che costituiscono quel pubblico. Il principio di utilità non ci chiede di perseguire
sempre il bene generale, ma dice di non perseguire il bene personale con mezzi inconciliabili con quello
generale. Anche nei casi in cui l’utilità richiede che la benevolenza debba essere il nostro motivo, essa di
solito richiede che siamo motivati da una benevolenza parziale e non generale, rivolta alla cerchia
ristretta dei familiari.

Da qui si passa ad analizzare l’espressione buoni e cattivi motivi. La benevolenza benché non egoistico
possono condurre ad azioni cattive quando mira ad obiettivi ristretti, ad esempio l’amore per i figli e il
desiderio di spingerli ad avanzare nella vita può portare ad azioni contrarie al bene pubblico. Il carattere
morale dall’azione è determinato dal motivo. Ma la benevolenza non nasce da un sistema egoistico.
Come mette Hartley e altri autori, la benevolenza nasce dall’amore per se stessi o da sentimenti
egoistici attraverso quel processo familiare, e ogni buon servizio reso da un uomo ad un altro deriva da
un calcolo, con obiettivo gli interessi dello stesso. Sono gli stessi principi che generano e regolano il
commercio. Per Austin, come anche per Bentham che benevolenza e simpatia siano un fatto atomico o
ultimo, e che la condotta derivi da un motivo egoistico nocivo, o da un motivo esclusivamente benefico
poco importa, la teoria dell’utilità non tiene conto dell’origine del sentimento.

LEZIONE V:
Il singolare law e il plurale laws si applicano a leggi in senso proprio e leggi in senso improprio, dunque,
sia a cose che hanno tutti i caratteri di imperatività di una legge o regola, sia a cose che mancano di alcuni
di questi caratteri, ma alle quali il termine viene estese per analogia o metafora. Ogni metafora nasce da
un’analogia, e ogni estensione analogica data ad un termine è una metafora o un discorso figurato.
L’analogia è una somiglianza, secondo cui gli oggetti hanno qualche proprietà in comune. Due oggetti
sono detti somiglianti quando entrambi appartengono a un determinato genere o specie cui si riferisce
esplicitamente o tacitamente, quando entrambi presentano ogni proprietà che appartiene a tutti gli
oggetti inclusi nella classe. Due oggetti simili sono invece detti analoghi, quando uno possiede tutte le
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proprietà comuni alla classe e l’altro no. Somiglianza dunque è un termine ambiguo. Quando diciamo
che il piede d’uomo e quello del leone si somigliano in senso stretto è una somiglianza, ma il piede del
tavolo presenta solo una parte delle proprietà di questa classe dunque è una analogia. Tale preambolo
è importante poiché nel diritto ricorre spesso la parola analogia nelle questioni più oscure. Tale oscurità
è originata dal fatto che si parla di analogia senza accertarsi del significato del termine. Nel linguaggio
comune impiego metaforico o figurato non sembra sinonimo di analogia: per impiego metaforico o
figurato intendiamo di solito un uso in cui l’analogia debole, e lontana dalla parentale fra significato
originario e derivato. Ora, tra le leggi chiamate impropriamente vi è una distinzione: alcune sono
strettamente analoghe alle leggi in senso proprio, altre sono lontanamente analoghe alle leggi in senso
proprio. Il termine legge viene esteso ad alcuni oggetti per vai di una decisione della ragione o
dell’intelletto.

Austin distingue le leggi in senso proprio insieme alle leggi improprie che sono strettamente analoghe
alle prime in tre classi principali:

1. La prima LEGGI DI DIO, comprende le leggi propriamente dette poste da Dio agli uomini;
2. La seconda DIRITTO POSITIVO o LEGGI POSITIVE, comprende le leggi propriamente dette poste
da uomini come superiori politici,
3. La terza MORALITA’ POSITIVA, o REGOLE MORALI POSITIVE, comprende sia le leggi
propriamente dette poste da uomini che non sono superiori politici, sia le leggi che sono
strettamente analoghe alle leggi in senso proprio, ma che sono semplicemente opinioni nutrite
o sentimenti avvertiti dagli uomini in relazione alla condotta umana;

Le leggi positive oggetto della giurisprudenza, sono legate per via di somiglianza o per via di analogia
alle cose seguenti: 1. Per via di somiglianza sono legate alle leggi di Dio e alle leggi di moralità positiva
propriamente dette; 2. Per analogia stretta sono legate alle leggi della moralità positiva impropriamente
dette; 3. Per analogia debole sono legate a leggi meramente metaforiche o figurate.

Gli insiemi o aggregati normativi chiamati rispettivamente legge di Dio, diritto positivo, e moralità
positiva, a volte coincidono, a volte non coincidono, a volte confliggono. Uno di questi insiemi di leggi
coincide con un altro quando le azioni che sono prescritte o proibite dal primo sono prescritte o proibite
anche dal secondo. Per esempio l’omicidio è vietato dal diritto positivo; proibito dalle legge imposte
dall’opinione generale in quanto immoralità convenzionale; è proibita dalle legge di Dio in quanto
peccato. Chi commette omicidio sarà soggetto a una pena inflitta dall’autorità sovrana; soggetto a ostilità
da parte dei consociati; soggetto oggi o domani ad una sofferenza da parte della Divinità. Uno di questi
insieme di leggi non coincide con un altro quando le azioni che sono comandate o proibite dal primo non
sono comandate o proibite dal secondo. Esempio il contrabbando è proibito dal diritto positivo, ma non
è proibito dall’opinione generale quando effettuato per alta tassazione, e dunque praticato senza
vergogna e senza timore di incorrere nella riprovazione generale. Uno di questi insieme di leggi
confligge con un altro quando azioni che sono prescritte o proibite da uno, sono rispettivamente
prescritte e proibite dall’altro inversamente. Esempio, il diritto positivo contrasta la pratica del duello,
ma un uomo appartenente al ceto alto può essere spinto dalla legge d’onore a raccogliere la sfida. Il
dovere giuridico negativo che incombe su di lui è sopraffatto dal dovere morale positivo originato dalla
legge posta dall’opinione del suo ceto.

Queste considerazioni sono spesso trascurate dai legislatori, infatti essi dimenticano che i sentimenti
morali o religiosi della popolazione possono portare alla soppressione delle leggi positive, in quanto il
timore delle loro sanzioni sarà più debole di quello ispirato da altre e configgenti sanzioni.

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A seguito della frequente coincidenza fra diritto positivo, legge di Dio e moralità positiva, spesso la vera
natura e la fonte del diritto vengono travisati. Per esempio, le norme consuetudinarie sono leggi positive
che l’organo giudiziario ha calcato su consuetudini preesistenti, fino a quel momento sono rese effettive
moralmente. Tuttavia le consuetudine erano osservate già da prima dai governanti tanto che possono
essere definite come leggi positive in virtù della loro creazione. L’analogia di una legge in senso proprio,
con una legge imposta dall’opinione generale consiste nella seguente somiglianza: in entrambi i casi gli
esseri sono soggetti a un male convenzionale nel caso non rispettino la volontà. Quindi l’analogia risiede
nella rassomiglianza della sanzione e nel dovere di rispettarla. L’ analogia in questo caso fra legge in
senso proprio e legge impropria, è forte e stretta. Vi sono poi leggi improprie legate ad analogia deboli
alle leggi propriamente dette. Queste sono leggi in senso metaforico poiché mancano della caratteristica
della sanzione o del dovere; come ad esempio le leggi degli animali, la loro vita è infatti determinata da
certe leggi, ma non sono indotti all’obbedienza dalla sanzione, né il loro comportamento giudicato.
Dunque, ogni volta che parliamo di leggi che governano il mondo non razionale l’impiego metaforico del
termine legge è dato da una analogia: 1. Vi è una uniformità di successione nei comportamenti che
somiglia alla successione prodotta da una legge imperativa; 2. Questa uniformità di condotta proviene
da un autore intelligente e razionale, come per le leggi imperative. Esempio, quando parliamo di regole
dell’arte, si ha un impiego metaforico del termine regola, e si intende quel modello che si consiglia di
osservare per i praticanti d’arte. Non vi è sanzione non vi è dovere, ma guidano comunque la condotta.

Le leggi in senso figurato vengono spesso scambiate per leggi imperative in senso proprio. In questa
materia gli errori non sono impossibili. In un estratto di Ulpiano all’inizio delle Pandette, viene distinto
un ius naturale comune a tutti gli esseri viventi, da un ius naturale gentium comune agli uomini. L’ius
animale è governato dagli istinti degli animali che li induce a nutrirsi a propagare la specie ecc. queste
leggi, legate per analogia debole alle legge propriamente dette, spingono gli animali ad agire in modo
uniforme, ma non devono essere mischiate con le leggi propriamente dette. Ma è pur vero che anche
l’uomo è giudato da leggi dell’istinto per i figli o il coniuge, fu questo probabilmente il motivo che spine
Ulpiano ad assimilare gli istinti animali alle leggi imperative propriamente dette.

Austin, dalla confusione tra leggi in senso metaforico e leggi imperative propriamente dette passa a
Bentham. Come sappiamo per Austin vi sono le sanzioni derivanti dal diritto positivo, naturale e da Dio;
Bentham ne aggiunge un’altra, le sanzioni fisiche o naturali, ossia la sanzione fisica è un male arrecato a
chi lo subisce da un’azione o omissione sua propria. Austin ribatte: benché sia arrecata a chi lo subisce
da una sua azione o omissione, non si può dire che ciò avvenga in virtù di una legge morale, divina o
positiva. Per esempio se una casa bruciasse per negligenza, noi subiamo una sanzione fisica, ma non per
mano divina. Per dirla come diceva Locke “ si tratta di un male naturalmente prodotto dalla condotta cui
consegue: essendo naturalmente prodotto da tale condotta, esso colpisce chi la subisce senza
l’intervento di una legge”. Questi mali fisici o naturali sono legati al termine sanzione per la seguente
analogia: sono effettivamente subiti a seguito di azioni o omissioni, e prima di essere subiti sono
influenzati dalla volontà di coloro che possono subirli. Tuttavia, nonostante l’apparente analogia, non si
può parlare propriamente di sanzione, in quanto questi mali non derivano da inosservanza di volontà
di esseri superiori.

LEZIONE VI:
Nella sesta lezione vengono stabiliti ed esauriti i caratteri delle leggi positive propriamente dette,
analizzando i termini sovranità- soggezione- società politica indipendente. Ogni legge positiva o ogni
legge in senso stretto è posta da un sovrano, individuale o collettivo, a una o più persone che siano
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sudditi del suo autore. La superiorità chiamata sovranità e la società politica indipendente cui la
sovranità rinvia si distinguono da altre superiorità o da altre società per i caratteri seguenti: la maggior
parte della società in questione condivide una abitudine all’obbedienza o sottomissione nei confronti di
un superiore comune; il superiore non ha abitudine all’obbedienza nei confronti di un altro supremo
umano. Quando un determinato superiore umano non abbia l’abitudine ad obbedire ad un altro e riceve
obbedienza dalla maggioranza della società, allora quel superiore è sovrano in quella società politica
indipendente. La relazione reciproca fra società e superiore può essere denominata come una relazione
sovrano-suddito o superiore-subordinato.

Società è dette indipendente non è tutta la società ma la parte sovrana di essa che rendono obbedienza
abituale. Gli altri membri della società sono dipendenti o sudditi. Con società politica indipendente si
intende una società costituita da un sovrano e i suoi sudditi, contrapposta a una società costituita
interamente da sudditi. Perché una società possa formare una società libera e indipendente essa deve
condividere un’abitudine all’obbedienza nei confronti di un superiore comune e determinato, e
l’obbedienza abituale deve essere resa dalla maggioranza dei suoi membri. Qualora la generalità dei suoi
membri obbedisca a un superiore determinato in modo occasionale o transitoria esclude la relazione
sovrano- suddito, e dunque non si ha una società politica indipendente. Inoltre, se l’obbedienza abituale
non viene dalla maggioranza, la società in questione si trova divisa in due o più società politiche
indipendenti. Perché una data società possa formare una società politica, la maggior parte dei suoi
membri deve obbedire abitualmente a un superiore tanto determinato quanto comune, e quel superiore
a sua volta non deve obbedire abitualmente a un superiore umano determinato. Supponiamo che il
vicerè comandi abitualmente entro i confini della propria provincia e riceva abituale obbedienza dalla
maggioranza, sembra sia una società politica indipendente, ma il vicerè in realtà è subordinato al
sovrano, dunque questa sarà una società di natura, perché nessuno vive direttamente sotto la sua
soggezione, ma sotto quella del sovrano. La società formata dalla relazione fra società politiche
indipendenti costituisce la sfera del diritto internazionale, e riguarda la condotta dei sovrani considerati
nelle loro relazioni reciproche.

La definizione del termine astratto società politica indipendente deve presentare i tratti positivi e
negativi sopra elencati, ove la maggior parte dei membri deve prestare abitudine all’obbedienza. Ma
quanti suoi membri o che percentuale deve prestare obbedienza? E quanto spesso e quanto a lungo
devono rendere obbedienza per considerarla abituale? In casi generali come la situazione
dell’Inghilterra si può affermare con certezza che la maggioranza condivide abitudine all’obbedienza
rispetto un superiore certo e comune. Ma in altri casi non si può affermare questo con certezza, come ad
esempio il caso delle società selvagge. Dunque, per ogni società non possiamo stabilire se questa sia
indipendente o subordinato, e la definizione di società politica indipendente è vaga e incerta,
procurando problemi nell’applicazione del diritto internazionale. Supponiamo una società che possa
essere chiamata indipendente, costituita da un numero di membri non ridotto, ma che vive in condizioni
quasi primitive. Questa società non ha abitudine all’obbedienza nei confronti di un superiore; solo in
caso di attacco la maggioranza in grado di portare le armi si sottomette a un capo, ma appena questa
esigenza passa, la sottomissione transitoria cessa. Le leggi osservate da tale comunità sono meramente
consuetudinarie, ma non sostenute da sanzioni giuridiche o politiche, e ogni famiglia presta abituale
obbedienza al suo capo abituale. Dunque si può parlare di società naturale ma non di società politica, in
quanto non obbediscono a un superiore comune se non in caso di necessità transitorio.

Sappiamo dunque, che una società indipendente per essere politica essa non deve scendere sotto a un
certo numero di componenti, ma il numero minimo non può essere fissato precisamente. Questa non è
condizione per una società subordinata politica, ove il numero dei componenti è estremamente ridotto.

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Bentham così definisce la società politica “quando si ritiene che un certo numero di persone
condividono l abitudine di prestare obbedienza a una persona certa e conosciuta si ritiene che queste
persone insieme costituiscano uno stato di società politica”. Per Austin tale definizione è inadeguate e
difettosa, perché il superiore deve essere anche abitualmente obbedito e a sua volta non deve obbedire
ad altro. Hobbes definiva una società politica indipendente quando mantiene la propria indipendenza
contro attacchi esterni con la propria forza senza ricorrere ad aiuti esterni. Per Austin anche questa
definizione è difettosa poiché nella storia del genere umano molte società politiche indipendenti definite
deboli difficilmente potrebbero mantenere l’indipendenza senza coalizione con altre nazioni. Secondo
Grozio, il potere sovrano è perfettamente o completamente indipendente da ogni altro potere umano,
nella misura in cui i suoi atti non possono essere annullati da alcuna volontà umana diversa dalla sua
(altra nazione straniera). Austin replica che la definizione fornita da Grozio tiene conto esclusivamente
della relazione fra sovrani, ma trascura la relazione sovrano-sudditi.

Ogni società politica e indipendente è dunque divisibile in due parti: quella sovrana e suprema e quella
costituita dai sudditi. Nel caso in cui la parte sovrana consista in un solo membro si parla di monarchia;
se vi è pluralità di membri si parla di aristocrazia. Nella caso della monarchia la parte sovrana è
puramente il monarca; nell’aristocrazia la parte sovrana vista in generale è completamente sovrana,
vista in particolare è anche suddita dell’organo supremo del quale sono componenti. Le aristocrazie nel
significato generico a loro volta vengono suddivise in oligarchie, aristocrazie in senso stretto, e
democrazie. Se la percentuale dei componenti della sovranità rispetto alla comunità è molto basso si
parla di oligarchia; se la percentuale è bassa ma non estremamente si parla di aristocrazia, se la
percentuale è elevata democrazia. Diversamente dal monarca nelle altre forme di aristocrazia,
l’individuo particolare non è sovrano, ma uno dei membri della collettività sovrana, e l’individuo in
quanto tale sarà suddito del gruppo sovrano. Quella dell’aristocrazia potrebbe essere definita come una
“monarchia limitata”. Il termine basileus o rex o re, viene portato dal monarca nell’eccezione propria del
termine, e dunque un’aristocrazia mista di re, Lords e Comuni viene chiamata monarchia limitata.

In ogni società politica indipendente retta da monarchia o oligarchia ristretta, potrebbero essere
esercitata dal monarca o dall’aristocrazia sovrana; ma ogni sovrano effettivo esercita alcuni di questi
poteri attraverso subordinati politici o delegati. Tale pratica risulta necessaria quando il numero dei
componenti della società è grande e quando il territorio è molto vasto, e tali rappresentanti detti
popolari eserciteranno quasi la totalità dei poteri sovrani. La camera dei comuni ad esempio esercita la
totalità dei poteri sovrani, salvo quello di eleggere i propri rappresentanti in parlamento. Ove un gruppo
sovrano eserciti tramite rappresentanti la totalità dei suoi poteri sovrani, esso può delegare tali poteri
a tali rappresentanti in due modi: 1. Può delegarli a titolo fiduciario o condizionato; 2. Può delegarli
assolutamente o in condizionamento a seconda che l assemblea rappresentativa sostituisca
completamente il corpo elettorale per il tempo il quale è eletta e nominata, o che in tale periodo sia
completamente investita dal carattere sovrano dell’altro. Ad esempio i Comuni delegano i loro poteri ai
membri della camera dei comuni, ma potrebbero delegarli sottoponendoli a una o più condizioni. Se le
condizioni sono poste da un’assemblea sovrana o suprema, saranno rese effettive da sanzioni giuridiche
o morali. Che il delegante imponga una condizione e che il rappresentante si impegni a rispettarla,
sembra già implicito nelle espressione delega e rappresentanza.

Molti autori sembrano supporre che i poteri politici rispettivamente legislativi ed esecutivi possano
essere distinti nettamente, o almeno approssimativamente, in ogni società in cui vi sia governo collegiale
o in cui ci sia monarchia limitata. Ma la distinzione dei poteri politici in legislativi ed esecutivi non
coincide con la distinzione fra poteri supremi e subordinati. Secondo la distinzione di tali critici il potere
legislativo coincide con il creare leggi e quello esecutivo con l’applicarle, ma in realtà la maggior parte

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dei poteri considerati esecutivi o amministrativi consistono essi stessi di poteri legislativi, o richiedono
poteri che sono legislativi. Che i poteri sovrani legislativi ed esecutivi appartengono a soggetti distinti è
falsa, tra le prove: 1. Le leggi fatte dal parlamento britannico molte sono considerate strumentali al
funzionamento di altre e dunque il loro obiettivo è esecutivo; 2. In molte società vengono esercitati
direttamente dal legislatore anche poteri giudiziari. Nell’impero romano gli imperatori emanavano
costituzioni chiamate decreta o sentenze.

Di tutte le comprensive distinzioni tra poteri politici, quella che li divide in supremi e subordinati è forse
l’unica precisa. Sono supremi i poteri politici che appartengono o a un sovrano o a un governo collegiale.
Sono subordinate quelle parti dei poteri supremi che vengono delegate a subordinati politici, sia che si
tratti di meri subordinati o sudditi. Si sono date in Europa molte comunità politiche che sono state
definiti stati a sovranità limitata o imperfetta. Secondo gli autori di diritto internazionale positivo un
governo a sovranità limitata o imperfetta, sono quelli che nonostante la sua semi-dipendenza, possiede
la maggior parte dei poteri politici sovrani che spettano a un interamente o perfettamente supremo.
Dunque ogni governo considerato imperfettamente supremo si trova in una delle tre seguenti situazioni:
o è perfettamente suddito di un altro governo; o né è perfettamente indipendente; o è sovrano
congiuntamente con l’altro. In moltissimi casi i poteri politici vengono esercitati su una comunità
politica dal governo di una comunità politica estera, ma il governo della prima comunità non ha una
sovranità limitata se il governo del secondo non detiene questi poteri politici. Esempio, i particolari
governi tedeschi che dipendevano direttamente dal governo imperiale sono chiamati semisovrani; ora
sorge il problema dei sudditi. Ogni qualvolta il componente di un gruppo sovrano in una comunità è
anche componente del gruppo sovrano in un’altra, essere sudditi rispetto al primo non è detto che sia
incompatibile con l’essere anche sudditi del secondo. Questo accade nell’unione federale di diverse
società politiche, o quando sono strette da alleanza permanente. Nel caso di uno stato complesso o di
governo federale, i diversi governi delle diverse società dell’unione federale sono congiuntamente
sovrane, uniformandosi in un’unica società politica indipendente. Un governo supremo federale e un
governo supremo non federale si distinguono soltanto per la differenza seguente: gli stati che
partecipano al governo federale non s trovano in uno stato di mera soggezione, ma non sono nemmeno
completamente sovrani nelle loro società, altrimenti non sarebbero membri di uno stato complesso. Se
il governo centrale fosse esso stesso sovrano, o se lo fosse ognuno dei governi federati, la società in
questione non costituirebbe uno stato complesso. Si osserva inoltre che se un membro componente del
corpo sovrano, benché giuridicamente non responsabile sarebbe comunque trattenuto dall’esercizio
incostituzionale sia perché vincolato moralmente, sia perché una trasgressione alla sua legge
incostituzionale non sarebbe considerata illegale. Inoltre, se il componente è esente da obblighi giuridici
in qualità di membro dell’ente, sarà tuttavia soggetto a vincoli giuridici in altre sue qualità, in quanto
obbedisce dalle leggi fatte dal gruppo sovrano.

Che il potere di un sovrano non sia passibile di limitazione giuridica è stato messo in dubbio e perfino
negato. Ma la difficoltà probabilmente nasce dall’ambiguità verbale; infatti, il più importante individuo
della monarchia viene denominato impropriamente sovrano, in quanto egli è effettivamente suscettibile
di limitazioni giuridiche e limitazioni da parte del diritto positivo. Infatti, il governo sovrano di uno solo
o di una collettività sovrana, non è titolare di diritti giuridici nei confronti dei propri sudditi. Ogni diritto
giuridico è creato da una legge positiva e corrisponde a un dovere imposto dalla stesse legge, che ricade
su persone diverse alle quali spetta il diritto. Dunque una legge positiva conferisce un diritto e impone
il relativo dovere. Per ogni diritto del genere si danno 3 soggetti distinti: il titolare del diritto, quello che
rispetta il dovere correlativo al diritto, e il governo che pone la legge. Un governo non può acquisire
diritti tramite leggi che esso stesso pone ai sudditi, chi gode di un diritto lo ha acquisito dalla forza e
potere altrui; ciò significa che se un governo fosse titolare di diritti nei confronti dei sudditi, la legge
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positiva sarebbe creata da un terzo sovrano, il che è impossibile. Il governo non ha diritti ricavabili dalle
leggi positive nei confronti dei sudditi, ma tuttavia gode di diritti religiosi dati da un superiore comune,
e questi diritti morali corrispondono a doveri nei confronti dei sudditi. Di conseguenza, quando diciamo
che un governo ha nei confronti dei sudditi un diritto noi facciamo riferimento ai diritti morali o religiosi.
Questo impiego dl termine diritto somiglia al termine giustizia; infatti un atto che si conforma alla legge
divina è considerato giusto e utile, al contrario ingiusto o nocivo. Di conseguenza, quello che il governo
ha diritto di fare è un atto utile, quello che non ha diritto di fare atto inutile e nocivo. Le pretese avanzate
giudizialmente contro il re sono presentate al tribunale ove l’attore chiede umilmente al regale
convenuto di concedergli il suo diritto, ma questo avviene con forma di grazia o favore da parte del
sovrano, questo perché in realtà nessuno ha diritti da rivendicare nei confronti del sovrano in quanto
esente da obblighi giuridici.

Lo scopo o fine proprio di un governo politico sovrano è il maggior sviluppo possibile della felicità
umana. Se il governo adegua la sua condotta al principio di utilità generale egli mirerà al fine particolare
e più determinato, piuttosto che a quello più generale. Dallo scopo o fine del governo sovrano possiamo
ricavare le cause dell’obbedienza presentate abitualmente dai più di una società illuminata. Se la società
fosse sufficientemente istruita o illuminata tale obbedienza sarebbe fondata sul principio di utilità, e
dunque credendo che il governa raggiunga perfettamente il suo scopo questo risulterebbe motivo per
obbedire. Ma poiché ogni società non è perfettamente istruita ed illuminata, l’obbedienza risulta come
una conseguenza all’abitudine, ossia l’obbedienza è conseguenza di pregiudizi, ossia affezionato al
governo stabilito. Anche quando la comunità lo detestasse essa avverte che cambiarlo significherebbe
un periodo di anarchia che sarebbe ancor più detestabile. Questa è la sola causa dell’obbedienza abituale.
Anche se le cause d’obbedienza sono peculiari in ogni governo delle diverse nazioni, esso si origina
necessariamente dal fatto che la società vuole sfuggire dallo stato di natura o anarchia, per passare a
uno stato politico. Secondo l’opinione corrente durata e origine del governo risiede nel popolo, è il
popolo fonte del potere sovrano. È vero che la durata del governo dipende dalla obbedienza abituale
della società, ma l’obbedienza è volontaria e libera. Se il popolo ama il governo è determinato ad
obbedirgli abitualmente per attaccamento; se lo odia, è determinato ad obbedirgli abitualmente per
timore di una rivoluzione violenta. Dunque il popolo è spinto all’obbedienza abituale per diversi motivi,
altrimenti il governo cesserebbe di esistere. Ciò significa che se il popolo ritiene giusto il governo la sua
sarà una sottomissione volontaria libera; se invece il popolo ritiene nocivo il governo ma comunque vi
si sottomette per paura dei mali che seguirebbe al rifiuto di sottomettersi, dunque in questo caso la
sottomissione è sentita come imposta.

In ogni comunità governata da un monarca o da un’assemblea sovrana i sudditi hanno doveri verso il
monarca; tali doveri sono in parte giuridici, in parte religiosi e in parte morali. I doveri religiosi
discendono dalla legge divina secondo il principio di utilità: se il governo incrementa il benessere
generale, i sudditi sono religiosamente vincolati a prestargli obbedienza. I doveri giuridici verso il
sovrano discendono da leggi positive che esso stesso ha imposta. I doveri morali discendono dalla
moralità positiva, cioà da leggi che nascono dalla generale opinione della comunità. I doveri del sovrano
verso i sudditi invece sono religiosi e morali, ma non giuridici altrimenti significherebbe che questo è
sottomesso a un terzo superiore. Molti autori si sono soffermati ad indagare sull’origine di tali obblighi,
o almeno di quelli imposti da Dio, facendo leva sull’ipotesi dell’accordo o convenzione originaria, o patto
civile fondamentale. Secondo tale ipotesi, il processo di formazione dell’accordo o patta si basa su 3
stadi: 1. Nel primo, i futuri membri della comunità in formazione decidono di unirsi in una società libera
ed indipendente fissando lo scopo principale della loro unione, che corrisponde al progresso della
felicità umana. 2. Dopo aver deciso di unirsi in una società libera indipendente fissano la costituzione
del suo governo politico sovrano, ossia scelgono colui o coloro che deterranno la sovranità; 3. Nel terzo
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stadio vi è uno scambio di promesse fra sovrano e sudditi; il sovrano promette di perseguire lo scopo
per cui è nata la comunità libera indipendente; i sudditi promettono obbedienza. Il primo stadio
corrisponde al factum unionis, il secondo al factum ordinationis, il terzo, la promessa il patto
subjectionis. Dei questi, solo il terzo costituisce il patto civile fondamentale, ove sudditi e sovrano sono
vincolati.

Da qui la critica di Austin: ogni convenzione giuridicamente vincolante, deve la propia obbligatorietà a
una legge positiva. Dunque non è il patto civile fondamentale che fa sorgere il potere giuridico, ma è la
legge che obbliga giuridicamente e fa sorgere quella convenzione. Di conseguenza, se il governo fosse
sottoposto giuridicamente al patto civile fondamentale, i doveri giuridici discenderebbero da una legge
positiva che rendono obbligatorio il patto, e dunque tale legge per vincolare il governo dovrebbe
provenire da un terzo sovrano e il governo si troverebbe in uno stato di soggezione. Dunque il patto non
può derivare dall’obbligatorietà di una legge positiva, ma da quella religioso o morale. Tale analisi
mostra che anche quando la formazione della società politica indipendente fosse preceduta da un patto
civile fondamentale, nessuno dei doveri giuridici o religiosi gravanti sul sovrano o sui sudditi potrebbe
essere influenzato da tale precedente convenzione. Tra i doveri del sovrano verso i sudditi, e i doveri dei
sudditi verso il sovrano sono solo i doveri morali a essere interessati da qualunque patto originario, e
dunque il patto stesso risulterebbe inutile o controproducente, in quanto senza ricorrerà ad esso siamo
in grado di spiegare i doveri di sovrano e sudditi. Dunque, ogni convenzione, patta accordo consistono
in promesse reciproche accettate, i principali elementi di una convenzione dunque sono una
dichiarazione da parte del promittente della sua intenzione di compiere o non compiere azioni; una
dichiarazione da parte del promissario che attende l adempimento della promessa da parte del
promissario. Basta una rapida riflessione dunque per capire che tali promesse sono talmente essenziali
che non si può parlare di accordo vero e proprio.

È necessario aggiungere che l’ipotesi del patto originario, non ha alcun fondamento in fatti effettivi. Non
si hanno prove storiche che questa ipotesi si sia realizzata, cioè che la formazione di una società libera
e indipendente sia mai stata preceduta da un patto originario. Nella maggior parte delle società politiche
indipendenti la costituzione delle istituzioni è semplicemente emersa lentamente da regole morali
positive prodotte da diverse generazioni di membri della comunità. Di conseguenza le istituzioni non
sono state create dai membri originari della collettività, ma è stata opera di una lunga serie di autori. Se
poi fossero reperibili storicamente degli effettivi patti secondo cui un patto originario necessariamente
precede la formazione di una società libera indipendente allora l’ipotesi di Austin sarebbe errata. I
difensori di tale ipotesi invece ammettono l esistenza di un patto originario tacito. Se questo fosse vero
la maggior parte della popolazione non avrebbe potuto partecipare a tale patto originario, dunque anche
questa ipotesi non può essere veritiera. I recenti e attuali difensori del patto originario ammettono che
il patto originario non è fatto storico, ma comunque fondamento della società libera indipendente è il
patto civile fondamentale, come condizione alla quale le istituzioni politiche possano essere considerate
rette o legittime, cioè conformi alle legge di Dio. Ma come sappiamo la formazione di una società libera
indipendente non è mai stata effettivamente preceduta d un patto civile fondamentale o a qualcosa che
gli somigli.

Dall’origine dei governi si passa alla distinzione fra governi de jure, governi de facto, e governi che sono
sia de jure che de facto. Un governo sia de jure che de facto è un governo considerato legittimo o retto o
giusto e dunque riceve obbedienza dalla maggioranza della comunità politica indipendente; un governo
de jure e non de facto è un governo considerato legittimo, retto o giusto, ma tuttavia ha perso potere ed
è caduto, e dunque al momento non riceve abituale obbedienza. Un governo de facto ma non de jure è
un governo illegittimo o ingiusto ma tuttavia effettivo e per questo riceve abituale obbedienza dalla

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maggioranza della comunità. Rispetto al diritto positivo, un governo politico sovrano stabilito o effettivo
rispetto allo stesso diritto non è né illegittimo né il legittimato, né buono né ingiusto, né legale né illegale.
Un governo sovrano stabilito rispetto al diritto positivo della propria comunità indipendente non è né
legittimo né illegittimo, altrimenti sarebbe tale in base a un diritto che egli stesso ha prodotto e ciò è
assurdo. Rispetto al diritto positivo quindi la distinzione dei governi fra legittimi e illegittimi è priva di
significato. Rispetto alla moralità positiva la distinzione fra governi legittimi ed illegittimi non è priva di
significato. Infatti rispetto alla moralità positiva un governo de facto non è illegittimo se la comunità lo
ritiene legittimo; se l’ opinione è avversa sarà moralmente illegittimo.

- FUNZIONI DELLO STUDIO DELLA GIURISPRUDENZA:

L’oggetto proprio della giurisprudenza è il diritto positivo, intendendo per diritto positivo quello
stabilito o positum in un comunità libera indipendente su autorizzazione espressa o tacita del suo
governo supremo. Collegate l’una all’altra le leggi e regole positive di una comunità particolare
costituiscono un corpo di leggi. E dunque la giurisprudenza sarà particolare o nazionale. Benché ogni
sistema giuridico abbia caratteristiche sue proprie, esistono principi comuni ai diversi sistemi, tali da
costituire analogie o somiglianze, dando origine ad una giurisprudenza generale o filosofia del diritto
positivo. Non si intende affermare che questi principi siano concettualizzati con eguale esattezza, al
contrario nei diversi sistemi differiscono, ma tuttavia vengono concepiti da tutti i sistemi in modo simile.
Ogni sistema giuridico contiene tali principi e distinzioni:

1. Nozione di dovere, diritto soggettivo, libertà, atto illecito, pena risarcimento;


2. Diritto scritto o promulgato e diritto non scritto non promulgato;
3. Diritti soggettivi validi erga omnes e diritti soggettivi validi per soggetti specifici;
4. Distinzione fra obblighi che nascono da contratto e quelli che nascono da atto illecito;
5. Distinzione fra illeciti civile ed illeciti penali;

Tra i principi, nozioni e distinzioni che costituiscono l’oggetto della giurisprudenza generale, ve ne sono
altri non necessari, ma comunque evidenti. Esempio è la distinzione fra ius personam e ius rerum nel
diritto romano, come sistemazione scientifica di insieme di leggi, poi adottata nelle moderne nazioni
europee. Molti hanno poi finito per adottarla sotto altri nomi, come base per una sistemazione naturale.

I termini chiave che ricorrono in ogni settore sono diritto, diritto soggettivo, obbligo illecito, sanzione,
nonostante siano concetti chiari, in realtà sono soggetti ad ambiguità in quanto il loro significato è molto
complesso. Molti che scrivono di diritto hanno cercato di dare un significato a tali nozioni, ma in realtà
spesso questo le ha portate in una oscurità ancora più fitta. Infatti molte classi di leggi che andrebbero
distinte ricadono erroneamente sotto lo stesso nome causando confusione fra diritto in senso proprio
e morale. Ad esempio la distinzione fra diritto scritto e non scritto è piena di difficoltà; lo stesso termine
giurisprudenza non è libero da ambiguità. Per noi la giurisprudenza è la scienza di ciò che è essenziale
al diritto, combinata con la scienza di ciò che esso dovrebbe essere. Essa si distingue in particolare,
scienza di ogni sistema giuridico effettivo, meramente pratica, e giurisprudenza universale, che ha come
oggetto la descrizione di oggetti e fini del diritto che sono comuni a tutti i sistemi, o corrispondono ad
aspetti simili. Benché i punti in cui le leggi delle diverse nazioni dovrebbero essere le stesse siano
relativamente poche, esiste molto spazio per la scienza della legislazione universale ove gli aspetti non
perfettamente identici possono essere trattati insieme tenendo conto della parte in comune e delle
differenze. Nel caso in cui le differenze siano inevitabili questo dipende dalle diverse situazioni
nazionali. Ad esempio, il diritto romano fra tutti i sistemi giuridici diverso dall’inglese quello che ha più

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influenzato il diritto positivo dell’Europa moderna, ma non può dirsi che sia limitato solo ad alcuni paesi,
ma non può dirsi che il civil law non attinga dal diritto romano, in quanto le sue massime sono prese ad
esempio per tutte le epoche successive. La quantità delle somiglianze fra diritto romano e quello inglese
infatti non deve sorprendere: il sistema di equità si è formato più o meno largamente sulla tradizione
romanistica mediata dal diritto canonico. Dunque una solida conoscenza dei principi generali del diritto
favorisce la conoscenza dei principi inglese, non per la rassomiglianza ma per carpire le differenze
immediate. Se l’esposizione della scienza venisse fatta conformemente a tale metodo, spiegando i
principi guida del diritto romano e della civil law, si spiegherebbero anche i termini chiave. È l’accurata
e pronta percezione delle analogie che costituisce il fondamento dello studio del diritto.

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