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Capitolo 1
“LEZIONI INTRODUTTIVE”
1. Premessa
Nel diritto amministrativo sostanziale, la garanzia del cittadino nei
confronti della Pubblica amministrazione ha un rilievo primario: la
stessa evoluzione recente del diritto amministrativo riflette la ricerca
di sempre nuovi equilibri fra l’Amministrazione, che deve disporre
di strumenti adeguati per attuare le finalità assegnatele e il cittadino,
che deve essere garantito da comportamenti arbitrari o da sacrifici
indebiti imposti dall’Amministrazione. Nello Stato di diritto più
evoluto questo equilibrio è ricercato principalmente nel principio di
legalità, che subordina il potere dell’Amministrazione a regole
predeterminate, nel rispetto del diritto e senza ledere gli interessi
giuridicamente riconosciuti dai cittadini.
Il diritto amministrativo identifica regole che valgono anche a
garanzia del cittadino. La garanzia del cittadino nei confronti
dell’Amministrazione non è riservata agli istituti di giustizia
amministrativa. Gli istituti “di giustizia” svolgono solo un ruolo
suppletivo: la loro utilità consiste, in genere, nell’assicurare un
rimedio quando il diritto sostanziale non venga osservato.
2. Gli istituti della giustizia amministrativa
Con l’espressione “giustizia amministrativa” sono designati alcuni
istituti diretti ad assicurare la tutela dei cittadini nei confronti
dell’Amministrazione. Nel nostro ordinamento questi istituti sono
stati elaborati per la tutela del cittadino che abbia subito una lesione
da un’attività amministrativa. L’intervento del cittadino nel
procedimento amministrativo si colloca in una logica differente
rispetto agli istituti di giustizia amministrativa. Gli strumenti di
partecipazione al procedimento amministrativo sono diretti ad

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assicurare uno svolgimento corretto ed equilibrato della funzione


amministrativa e non a rimediare ai vizi e alle manchevolezze di una
funzione già svolta.
Una parte della dottrina, nel porre in evidenza gli elementi
caratteristici della giustizia amministrativa, ha preso in esame il
rapporto tra istituti di giustizia amministrativa e controlli
sull’attività amministrativa. Anche i controlli sugli atti sono previsti
per assicurare la regolarità e la correttezza dell’azione
amministrativa e in genere riguardano un’attività amministrativa già
conclusa. Si incentrano, in genere, sulla verifica della legittimità
dell’atto amministrativo; più raramente sulla verifica della sua
opportunità (c.d. controlli di merito). Un criterio distintivo fra i
controlli e gli istituti tipici della giustizia amministrativa sarebbe
identificabile nel fatto che i controlli attuerebbero un interesse
oggettivo (ossia l’interesse alla conformità dell’operato
dell’amministrazione al diritto, o a regole tecniche, o a criteri di
efficienza), mentre gli istituti di giustizia amministrativa
assicurerebbero in modo specifico l’interesse del cittadino, tanto che
tale interesse, non solo determina l’avvio del procedimento, ma ne
condiziona anche lo svolgimento e il risultato.
Gli istituti di giustizia amministrativa non si esauriscono negli
strumenti per la tutela “giurisdizionale” dei cittadini nei confronti
della pubblica amministrazione: di conseguenza la distinzione tra i
controlli e gli istituti di giustizia amministrativa non può essere
ricercata nei caratteri specifici della funzione giurisdizionale.
Fra gli istituti di giustizia amministrativa sono compresi anche i
ricorsi amministrativi: con essi la contestazione del cittadino è
proposta ad un organo amministrativo e la decisione è assunta con
un atto amministrativo, senza alcun esercizio di funzione

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giurisdizionale. La controversia si svolge ed è risolta nell’ambito


dell’attività amministrativa. Ma, non si ha, neppure per i ricorsi
amministrativi, l’esercizio di un’attività assimilabile a quella di
controllo: nei ricorsi, il potere di annullamento è esercitato in seguito
all’iniziativa di un cittadino che fa valere un suo proprio interesse e
tale interesse rappresenta la ragione e identifica il limite dei poteri
conferiti all’autorità decidente.
3. Le ragioni di un sistema di giustizia amministrativa
Nel nostro ordinamento, ed in generale, nei Paesi dell’Europa
continentale gli istituti di giustizia amministrativa si caratterizzano
per la loro separatezza rispetto agli strumenti ordinari di tutela del
cittadino. La giustizia amministrativa in questi Paesi si contrappone
così alla giustizia “comune”, che tutela i cittadini nei loro rapporti
con soggetti equiordinati. Sulla giustizia comune domina il ruolo
dell’autorità giurisdizionale ordinaria, che appartiene ad un ordine
autonomo, qualificata da imparzialità e indipendenza.
Gli istituti di giustizia amministrativa sono strettamente dipendenti
dall’evoluzione nei rapporti fra cittadino, Amministrazione e
autorità giurisdizionale (ordinaria), ma in varia misura sono stati
puntualmente condizionati dalle vicende particolari dei singoli
Paesi. Uno dei modelli più significativi è quello francese. In Francia è
radicato un sistema di contenzioso amministrativo nel quale le
controversie tra il cittadino e la l’Amministrazione sono sottratte al
giudice e devolute ad un giudice speciale ( in origine il Consiglio di
Stato e poi anche i Tribunali amministrativi di primo grado e
d’appello). Si tratta di un giudice inquadrato nel Potere esecutivo, la
cui giurisdizione è pienamente separata da quella ordinaria, con la
conseguenza che non si può ricorrere al giudice ordinario contro la
decisione del giudice speciale, né viceversa.

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Un modello profondamente diverso è quello accolto originariamente


in Belgio: la costituzione del 1831 stabilì che anche nei confronti
della Pubblica amministrazione il sindacato giurisdizionale fosse
riservato al giudice ordinario ( regola superata nel secondo
dopoguerra, con l’introduzione di un giudice speciale).
In Germania, invece, dopo la riforma del 1960, la giurisdizione
amministrativa è intesa come giurisdizione su diritti e si esercita
nelle vertenze concernenti il diritto pubblico: i giudici amministrativi
sono ormai pienamente autonomi dal potere amministrativo e
ricevono una collocazione piuttosto nell’ambito dell’ordine
giudiziario.
In Italia si è passati da un sistema di contenzioso amministrativo,
modellato su quello francese, ad un sistema di giurisdizione unica
(1865) e poi ad un sistema articolato in una giurisdizione del giudice
ordinario e una giurisdizione del giudice amministrativo (1889);
negli ultimi anni si è manifestata la spinta ad una maggiore
omogeneità fra giudici ordinari e giudici amministrativi, con una
serie di problemi nuovi, che hanno tratto argomento anche dal testo
della Costituzione ( art.103, 1°comma Cost.).
Due motivi diversi costituiscono i problemi nodali affrontati da ogni
sistema di giustizia amministrativa: le ragioni di specificità
dell’Amministrazione e l’esigenza di una tutela effettiva del
cittadino anche nei confronti dell’Amministrazione-autorità. Il
primo motivo suggerisce strumenti di tutela diversi da quelli
ordinari e addirittura forme di tutela diverse da quelle
giurisdizionali, il secondo ha indotto spesso a considerare come
modello la giustizia “comune”, nella quale alla parità di posizioni
delle parti corrisponde l’elaborazione delle tecniche più raffinate di
tutela del singolo.

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L’Amministrazione però, non si presenta sempre necessariamente


come autorità; nel nostro ordinamento è testimoniata anzi da una
vivace tendenza a favore del ricorso a strumenti di diritto privato,
anche quando l’Amministrazione persegua una finalità pubblica. In
alcuni casi, l’Amministrazione opera come soggetto equiordinato
agli altri, rispetto al quale valgono le medesime regole che valgono
nei rapporti privati.
4. Le origini della giustizia amministrativa: cenni al sistema
francese
La concezione dell’Amministrazione come soggetto tipicamente
diverso dagli altri si affermò nelle prime fasi dello Stato liberale, nel
contesto del principio di separazione dei poteri. Nella Francia degli
ultimi decenni del XVIII sec. e degli anni della Rivoluzione, con
questo principio si intendeva che il Potere esecutivo dovesse essere
un potere distinto dagli altri; l’Esecutivo non poteva arrogarsi poteri
del giudice ordinario ma i suoi atti non dovevano essere soggetti al
sindacato dei giudici. In Francia, le origini di questa immunità
riflettevano un contrasto secolare fra il Governo e i Parlamenti. I
Parlamenti erano giudici superiori d’appello e rivendicavano una
competenza anche nelle vertenze contro gli atti
dell’Amministrazione, entrando spesso in conflitto con le autorità
amministrative. La fine dell’Ancien régime travolse anche i
Parlamenti e nel 1789-1790 prima l’Assemblea nazionale e poi
l’Assemblea costituente sancirono che gli organi giurisdizionali non
avrebbero potuto intervenire sull’Amministrazione.
Nella Rivoluzione francese si affermò il principio della
“responsabilità” dell’Amministrazione nei confronti dell’Assemblea
legislativa: erano previste forme di controllo a garanzia della legalità
degli atti amministrativi, che trovavano fondamento e svolgimento

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anche nell’ordinamento gerarchico. In particolare a favore del


cittadino era previsto un rimedio specifico: il ricorso gerarchico.
Questo ricorso era diretto all’organo gerarchicamente sovraordinato
a quello che aveva emanato l’atto lesivo e comportava, da parte di
tale organo, la verifica della legalità dell’atto impugnato. Per rendere
più serio l’esame del ricorso gerarchico, l’ordinamento francese
prevedeva che i ricorsi venissero decisi dalle autorità competenti,
dopo aver acquisito il parere di alcuni organi consultivi. Fra questi il
più importante fu il Consiglio di Stato. Con la Costituzione del 1848
e con una legge del 24 maggio 1872, al Consiglio di Stato fu
riconosciuta anche la competenza a decidere il ricorso, senza
sanzione del Capo dello Stato ( come avveniva precedentemente). La
riforma del 1872 attribuì al Consiglio di Stato i caratteri di organo
giurisdizionale. Risultava istituito un giudice capace di sindacare la
legittimità degli atti dell’Amministrazione, senza però deroghe o
attenuazioni rispetto al principio della separazione dei poteri, perché
competente a sindacare gli atti dell’Amministrazione era il Consiglio
di Stato, autorità ben distinta dai giudici ordinari.
5. Modelli monistici e modelli dualistici.
La distinzione tra modelli monistici e modelli dualistici è stata
proposta per classificare i diversi sistemi di tutela giurisdizionale del
cittadino nei confronti della Pubblica amministrazione. In base a tale
distinzione, nei modelli monistici, la tutela giurisdizionale del
cittadino, nei confronti della Pubblica amministrazione, viene
attribuita prevalentemente ad un solo giudice; nei modelli dualistici,
invece, la giurisdizione nei confronti della Pubblica
amministrazione, è assegnata al giudice ordinario e al giudice
speciale su un piano di parità. A questo modello (dualistico) sarebbe
riferibile oggi il sistema italiano, caratterizzato dalla distribuzione

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delle competenze fra giudice ordinario (civile) e giudice speciale


(T.a.r. e Consiglio di Stato), in relazione alle posizioni soggettive
coinvolte. Questa classificazione, però, non ha un valore assoluto. In
Francia, ad esempio, determinate controversie con
l’Amministrazione vengono demandate al giudice ordinario, o
perché relative a rapporti in cui l’Amministrazione compare come
soggetto di diritto comune, o perché riguardano posizioni di libertà
o particolari diritti del cittadino.
Neppure il modello italiano segue, in modo pieno, questa
classificazione, perché in alcuni ambiti, la competenza del giudice
amministrativo non dipende dalla configurabilità di una posizione
soggettiva come interesse legittimo, ma dipende dall’inerenza della
controversia a una certa materia (c.d. giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo). Inoltre, nei casi in cui si discuta se la
giurisdizione sulla controversia spetti al giudice ordinario o al
giudice speciale, dal 1877 è demandato alla Cassazione decidere il
conflitto. Spetta, dunque, ad un giudice ordinario definire i limiti
della giurisdizione del giudice speciale.

Capitolo 2
“LE ORIGINI DEL NOSTRO SISTEMA DI GIUSTIZIA
AMMINISTRATIVA”
1. La giustizia amministrativa nel Regno di Sardegna
Il modello del contenzioso amministrativo francese fu accolto anche
in Italia nell’epoca napoleonica, dove ricevette applicazioni. Tale
modello fu soppresso quasi ovunque in Italia con la Restaurazione,
ma non cessò per questo di rappresentare un modello significativo.
Tant’è vero che già prima della prima guerra d’indipendenza, quasi

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tutti gli Stati italiani avevano introdotto ordinamenti coerenti con


questo modello.
Nel Regno di Sardegna con editto 18 agosto 1831 Carlo Alberto
costituì un Consiglio di Stato, con funzioni consultive, articolato in
tre sezioni: sezione dell’Interno, sezione di Giustizia, Grazia ed affari
ecclesiastici, sezione di Finanza. Lo stesso editto stabiliva che il
parere del Consiglio di Stato dovesse essere acquisito
obbligatoriamente, prima dell’adozione di certi atti (atti con forza di
legge, regolamenti, conflitti, conflitti fra “giurisdizione giudiziaria” e
amministrazione, bilancio generale dello Stato, liquidazioni del
debito pubblico). Al Consiglio di Stato l’editto assegnava, infine,
alcuni particolari competenze contenziose (art.29 ss.).
Con le regie patenti del 1842, ben presto modificate con un regio
editto del 29 ottobre 1847, fu istituito un vero e proprio sistema di
contenzioso amministrativo. Il sistema si fondava, innanzi tutto,
sulla distinzione fra controversie riservate all’Amministrazione e
controversie di <<amministrazione contenziosa>>. Alcune
controversie erano riservate alla giurisdizione del giudice ordinario
(giurisdizione giudiziaria) e fra esse un significato particolare
rivestivano le questioni inerenti al diritto di proprietà (art.4).
Al Consiglio di intendenza e alla Camera dei conti la giurisprudenza
civile riconobbe carattere di organi giurisdizionali. Il ruolo di questi
giudici speciali fu oggetto di polemiche, soprattutto dopo che lo
Statuto albertino (art.68 ss.) enunciò come regola la riserva della
funzione giurisdizionale al giudice ordinario.
Una serie di decreti reali del 30 ottobre 1859, ispirati dal Rattizzi,
accolsero e confermarono il sistema del contenzioso amministrativo,
articolato ora in Consigli di governo, organi di primo grado,
designati anche come <<giudici ordinari del contenzioso

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amministrativo>> e Consiglio di Stato, organo principalmente di


secondo grado.
Si delineava il seguente quadro:
a) Era esclusa da qualsiasi tipo di sindacato giurisdizionale la c.d.
amministrazione economica ( attività amministrativa non
disciplinata da norme di legge e rimessa a valutazioni
dell’Amministrazione).
b) In alcune materie, la tutela dei cittadini nei confronti
dell’Amministrazione era demandata ai giudici ordinari del
contenzioso amministrativo, ossia al sistema articolato nei Consigli
di Governo e nel Consiglio di Stato. In particolare ad essi spettavano
le controversie sui contratti d’appalto delle Pubbliche
amministrazioni , per imposte dirette e tasse, quelle sul trattamento
economico del personale dipendente dagli enti locali.
c) In altre materie la tutela dei cittadini era demandata a giudici
speciali del contenzioso amministrativo. Questo era il caso delle
controversie in materia di contabilità pubblica, demandate alla
Corte dei Conti e delle controversie in materia di pensioni,
demandate al Consiglio di Stato.
Negli altri casi la competenza spettava al giudice ordinario, ossia ai
giudici civili.
Un sistema del genere lasciava ampio spazio alla possibilità di
conflitti positivi o negativi, fra amministrazione e giudici, fra giudici
del contenzioso amministrativo e giudici ordinari.
La disciplina per la loro risoluzione fu introdotta con la legge 20
novembre 1859. In base a questa legge il conflitto poteva essere
sollevato anche dal rappresentante locale del potere esecutivo (allora
il Governatore, in seguito il Prefetto). La decisione dei conflitti era
assunta con decreto reale, previo parere del Consiglio di Stato, su

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proposta del Ministro dell’Interno, sentito il Consiglio dei Ministri.


Era però evidente che la decisione effettiva spettava al Ministro
dell’Interno, che formulava la proposta del decreto. Il sistema
sanciva, in questo modo, una prevalenza dell’autorità
amministrativa su quella giurisdizionale. Ai giudici ordinari del
contenzioso amministrativo non erano conferiti poteri di
annullamento rispetto agli atti amministrativi dedotti in giudizio.
Il giudice ordinario del contenzioso amministrativo, inoltre, riteneva
di poter esercitare un potere d’interpretazione degli atti
amministrativi e ciò significava che l’atto dell’Amministrazione non
costituiva di per sé un limite ai suoi poteri.
In ogni caso, se l’atto amministrativo risultava in contrasto con la
legge, il giudice prescindeva da esso ai fini della decisione.
2. Il declino dei tribunali del contenzioso amministrativo.
Le discussioni, sul tema in atto, non furono superate dalla riforma
del 1859. Ne è prova il fatto che quasi subito dopo furono sottratte,
alla giurisdizione dei giudici ordinari del contenzioso
amministrativo, alcune vertenze precedentemente di loro
competenza. In particolare fu sottratto ad essi il contenzioso fiscale.
A sostegno del sistema del contenzioso amministrativo risultavano
invocati tre ordini di considerazioni:
- la tutela dell’interesse pubblico. Era considerato essenziale che
l’attuazione dell’interesse pubblico non fosse ostacolata da un
intervento del giudice; attraverso un sistema di contenzioso
amministrativo sembrava che questa esigenza fosse meglio
garantita.
- l’esclusione delle garanzie di inamovibilità ed imparzialità previste
per i giudici ordinari, che avrebbe consentito di far valere, in modo

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più efficace, la responsabilità dei giudici del contenzioso


amministrativo.
- la specialità del diritto dell’Amministrazione. Le controversie
riguardavano istituti diversi da quelli del diritto comune; per questo
era opportuno che fossero demandate ad un giudice diverso da
quello ordinario.
Questi argomenti erano vivamente criticati dagli oppositori dei
modelli di contenzioso amministrativo.
Essi sostenevano l’esigenza che anche le controversie fra
l’Amministrazione ed il cittadino fossero assegnate al giudice
ordinario, estraneo all’Amministrazione e dotato di tutte le garanzie
previste per i giudici ordinari. In ogni giurisdizione speciale
sembrava annidarsi, invece, il privilegio dell’Amministrazione.
3. La legge 20 marzo 1865 n.2248
Da un lato si afferma l’esigenza di un giudice speciale, che abbia
un’esperienza specifica in un settore del diritto diverso da quello
comune; dall’altro si teme che l’introduzione di un giudice speciale
si risolva in un regime processuale privilegiato per
l’Amministrazione, incompatibile con l’ideologia dello Stato liberale.
Il dibattito raggiunse il suo culmine nelle discussioni alla Camera
sull’assetto della giustizia amministrativa, subito dopo l’Unità. Le
discussioni condussero all’approvazione di una legge che aboliva i
giudici ordinari del contenzioso amministrativo: la legge 20 marzo
1865, n.2248, allegato E (c.d.legge di abolizione del contenzioso
amministrativo).
Tale legge attuò, in alcuni settori nodali, l’unificazione
dell’ordinamento amministrativo italiano, abrogando le discipline
degli Stati preunitari. Era costituita da sei testi normativi, designati

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come “allegati” alla legge stessa. Dei temi della giustizia


amministrativa si interessano l’allegato D e soprattutto l’allegato E.
- L’allegato D disciplinava l’assetto del Consiglio di Stato. Non
erano previste particolari garanzie di indipendenza né per quanto
riguarda la nomina dei suoi componenti, né per quanto riguarda la
loro inamovibilità; la continuità con l’Amministrazione era
sottolineata dalla possibilità per i Ministri di intervenire alle sedute
direttamente o attraverso delegati (art.20).
Fu confermata l’articolazione in tre sezioni, che in alcuni casi
operavano collegialmente in adunanza generale (art.12 ss.). Il
Presidente del Consiglio di Stato poteva formare, per l’esame di
questioni particolari, Commissioni speciali, designando i consiglieri
che ne avrebbero fatto parte (art.21).
Al Consiglio di Stato erano assegnate competenze consultive (art.7
ss.) ed in alcuni casi il parere del Consiglio di Stato era obbligatorio:
proposte di regolamenti generali di Pubblica amministrazione e
ricorsi fatti dal Re contro la legittimità di provvedimenti
amministrativi. Si faceva riferimento al ricorso al Re, designato come
“ricorso straordinario” perché poteva essere proposto solo dopo
l’esaurimento dei rimedi ordinari, ossia dei ricorsi gerarchici.
In alcune ipotesi tassative, il Consiglio di Stato esercitava funzioni
giurisdizionali, come giudice speciale (art.10). Dall’allegato D,
furono assegnate al Consiglio di Stato, come giudice speciale
competenze minori, per controversie in materia di debito pubblico e
di sequestri di beni ecclesiastici. In questi casi il procedimento aveva
carattere contenzioso e la decisione poteva comportare
l’annullamento dell’atto amministrativo. Al Consiglio di Stato, come
giudice speciale, fu conferita una competenza di particolare

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rilevanza: la risoluzione dei conflitti fra l’Amministrazione e autorità


giurisdizionale (art10, n.1).
- L’allegato E viene designato come “legge di abolizione del
contenzioso amministrativo”, perché all’art.1 disponeva la
soppressione dei c.d. giudici ordinari del contenzioso
amministrativo.
Nell’ allegato E fu delineato il seguente assetto della giustizia
amministrativa:
a)<< tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materia nelle quali si
faccia questione di un diritto civile e politico>> furono assegnate al
giudice ordinario (art.2). La legge precisava che la competenza del
giudice ordinario non poteva subire eccezioni per il fatto che parte
in giudizio fosse un’Amministrazione o fossero coinvolti i suoi
interessi.
b) << gli affari non compresi>> nell’ipotesi precedente furono
riservati alla autorità amministrative (art.3, 1°comma).
In questo ambito erano introdotte alcune garanzie per i cittadini,
segno che il legislatore aveva percepito la delicatezza della loro
posizione, in un ambito escluso dalla tutela giurisdizionale. Era
previsto che le autorità amministrative avrebbero provveduto con
<<decreti motivati>>, con l’osservanza del contraddittorio con <<le
parti interessate>> e previa acquisizione del parere degli organi
consultivi.
Nei confronti dei <<decreti>> assunti dall’Amministrazione, fu
consentito il ricorso in via gerarchica: a questo ricorso
amministrativo fu riconosciuta un’operatività molto ampia, tanto da
farne, a lungo, uno degli strumenti fondamentali per la tutela del
cittadino.

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Le disposizioni appena richiamate, definivano così,il quadro dei c.d.


“limiti esterni” della giurisdizione civile nei confronti
dell’Amministrazione. Tali limiti rispecchiavano la distinzione fra le
<<materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico>> e
gli altri <<affari>>.
Fondamentale era la considerazione secondo cui l’espressione
<<diritti civili e politici>> non fosse onnicomprensiva.
Successivamente fu, infatti, equiparata alla nozione di <<diritti
soggettivi>>, percependo in modo chiaro che vi erano anche
posizioni soggettive di altro genere, che risultavano non protette
dalla giurisdizione ordinaria.
c) Nelle controversie di competenza del giudice ordinario, le ragioni
della specialità dell’Amministrazione trovavano riscontro nei “limiti
interni” della giurisdizione civile (art.4). L’equilibrio tra garanzia
della tutela giurisdizionale e separazione dei poteri, era ricercato
ammettendo un sindacato del giudice ordinario solo sulla
legittimità dell’atto amministrativo e non sulla opportunità, che
invece, poteva essere valutata esclusivamente dall’Amministrazione
stessa. Era riconosciuta al giudice ordinario la competenza di
sindacare la legittimità dell’atto amministrativo, ma non annullarlo,
revocarlo o modificarlo. L’art. 5 della legge introduceva, inoltre,
l’istituto della “disapplicazione “dell’atto amministrativo da parte
del giudice ordinario.
d) L’amministrazione non era sottratta agli effetti della sentenza,
essa era tenuta a <<conformarsi>> al provvedimento del giudice.
Questa prescrizione fondamentale, di ottemperanza al giudicato,
sanciva la prevalenza del potere giurisdizionale rispetto al potere
amministrativo.

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4. Il bilancio dell’allegato E nei primi anni successivi al 1865


La riforma del 1865 intendeva realizzare il passaggio da un sistema
di tutela nei confronti dell’Amministrazione (modello del
contenzioso amministrativo), ad un altro imperniato sul giudice
ordinario. Il sistema delineato nell’allegato E era rimasto inapplicato
e l’istituto dei ricorsi gerarchici risultò screditato dalla tendenza
dell’Amministrazione a lasciarsi condizionare dai suoi particolari
interessi.
Dopo l’entrata in vigore della legge del 1865, l’autorità governativa
sollevò, con grande frequenza, dei conflitti. Il Consiglio di Stato
propose, di conseguenza, una lettura molto restrittiva dei limiti
esterni della giurisdizione del giudice ordinario. Molti giuristi
liberali sottolinearono che, invece dell’eguaglianza dei cittadini e
dell’Amministrazione davanti alla legge, si realizzava un sistema che
limitava gli spazi per la tutela del cittadino. Mantellini identificò
nella giurisprudenza del Consiglio di Stato sui conflitti, la causa del
fallimento della riforma del 1865.
Si notava, nelle decisioni del Consiglio di Stato, la tendenza ad
escludere la competenza del giudice civile, quando la vertenza
riguardasse provvedimenti dell’autorità amministrativa. La
competenza del giudice civile veniva ammessa solo in presenza di
atti dell’Amministrazione emanati a tutela di un interesse personale
o patrimoniale dell’Amministrazione stessa ( e non già a tutela di un
interesse pubblico generale). La soppressione dei tribunali del
contenzioso amministrativo aveva ridotto la tutela del cittadino e
non aveva esteso la giurisdizione civile agli ambiti occupati dai
giudici soppressi.

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L’insuccesso della riforma era addebitato, principalmente, al


Consiglio di Stato che, quale giudice dei conflitti, poteva decidere o
meno circa le controversie fra il cittadino e l’Amministrazione.
5. La legge sui conflitti del 1877
Queste considerazioni furono all’origine di un nuovo intervento in
materia di conflitti, la legge 31 marzo 1877, n.3761. Si attribuiva alla
Corte di Cassazione di Roma la decisione sui conflitti insorti tra
Amministrazione ed autorità giudiziaria, ovvero tra giudici ordinari
e giudici speciali. Alla Cassazione fu attribuito, inoltre, il potere di
decidere i ricorsi proposti contro le sentenze dei giudici speciali,
impugnate per <<incompetenza ed eccesso di potere>>.
La legge non produsse l’effetto auspicato e la Cassazione proseguì
nell’indirizzo già prospettato del Consiglio di Stato.

Capitolo 3
“ L’AFFERMAZIONE DI UNA GIURISDIZIONE
AMMINISTRATIVA”.
1. L’istituzione della Quarta sezione
I risultati della riforma del 1865 apparvero ben presto
insoddisfacenti: la tutela del cittadino, nei confronti
dell’Amministrazione era tutt’altro che assicurata. Dell’esigenza di
una revisione si fecero portatori sia uomini politici, sia studiosi e
giuristi. L’argomento presentava due profili fondamentali : a)
l’attuazione di una più ampia tutela del cittadino b) l’individuazione
dell’organo cui affidare la tutela.
La giurisprudenza affermava una tendenziale incompatibilità fra il
diritto soggettivo e il provvedimento amministrativo: il diritto
soggettivo del cittadino era riconosciuto e garantito nei confronti
dell’Amministrazione solo quando essa agiva <<iure privatorum>> e

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in altre poche ipotesi; là dove interveniva un provvedimento


amministrativo, di regola, vi erano solo interessi.
Si delineava una contrapposizione tra i diritti di abolizione del
contenzioso amministrativo e gli interessi diversi dai diritti
soggettivi, che erano privi di tutela giurisdizionale, anche quando
erano di grande importanza per il cittadino. Sorgeva l’esigenza di
introdurre uno strumento di tutela per questi interessi. A tale
esigenza diede riscontro la legge 31 marzo 1889, n.5992. La tutela
degli <<interessi>> fu demandata al Consiglio di Stato, con la
precisazione che questa funzione era assegnata ad una nuova
sezione: la Quarta sezione. La competenza di tale Quarta sezione era
definita nell’art.3 che stabiliva che alla 4 Sezione del Consiglio di
stato spetta di decidere i ricorsi per incompetenza,eccesso di potere o
violazione di legge contro atti e provvedimenti di un’autorità
amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che
abbiano per oggetto un interessi di individui o di enti morali e
giuridici, quando i ricorsi medesimi non siano di competenza
dell’autorità giudiziaria, né si tratti di materia spettante alla
giurisdizione o alle attribuzioni contenziose di corpi o collegi
speciali.Il ricorso non è ammesso se trattasi di atti e provvedimenti
emanati dal governo nell’esercizio di un potere politico.Alla Quarta
sezione era demandata la tutela di interessi designati come
<<interessi d’individui o di enti morali giuridici>>. La tutela di questi
<<interessi>> si realizzava con <<ricorsi contro atti e provvedimenti di
un’Autorità amministrativa>> e, quindi, nelle forme
dell’impugnazione del provvedimento amministrativo. La tutela del
cittadino si configurava come tutela contro il provvedimento
amministrativo. I ricorsi alla Quarta sezione erano mezzi di

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impugnazione del provvedimento e producevano l’annullamento


del provvedimento impugnato (art.17).
Il ricorso poteva essere proposto dal cittadino, per impugnare un
provvedimento affetto da vizi tassativamente indicati dalla
legge:<<incompetenza, eccesso de potere e violazione di legge>> .
“Incompetenza” intesa come vizio degli elementi soggettivi dell’atto
amministrativo; “eccesso di potere” inteso come uso gravemente
scorretto del potere discrezionale da parte dell’Amministrazione;
“violazione di legge” come vizio specifico rappresentato dal
contrasto fra un elemento del provvedimento o del suo
procedimento e una disposizione contenuta nella legge o in un’altra
fonte del diritto.
Nei confronti dell’ amministrazione economica, la tutela davanti alla
Quarta sezione risultò limitata agli ambiti dell’ eccesso di potere. Per
gli ambiti definiti come merito dell’atto amministrativo, il sindacato
sulla discrezionalità rimaneva riservato all’autorità amministrativa e
ai ricorsi gerarchici. La tutela del cittadino nei confronti della
Pubblica amministrazione fu ricondotta ad uno schema incentrato
sulla distinzione tra figure soggettive. Ai diritti soggettivi si
contrapponevano gli <<interessi>> propri dei cittadini, la cui tutela
sarebbe stata demandata alla Quarta sezione.
La legge del 1889 introduceva, inoltre, un rapporto preciso fra il
ricorso alla Quarta sezione e il ricorso gerarchico (art.7), perché il
ricorso alla Quarta sezione era ammesso solo contro un
provvedimento <<definitivo>>.
Dalla tutela imperniata sulla Quarta sezione erano esclusi gli atti
<<emanati dal governo nell’esercizio del potere politico>>. Questa
categoria, dei c.d. atti politici, non aveva confini chiari.

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La competenza della Quarta sezione si incentrava nel sindacato di


legittimità sull’atto amministrativo. In questi casi, la Quarta
sezione, nel caso di accoglimento del ricorso, avrebbe potuto
assumere una decisione sulla pratica, in sostituzione di quella
rappresentata dal provvedimento annullato (art.17).
2. La riforma del 1907.
La legge del 1889 non affrontava la questione della “natura
amministrativa” o giurisdizionale della Quarta sezione. Le pronunce
della Quarta sezione erano designate dalla legge come
<<decisioni>> (non sentenze), termine che richiamava le “decisioni”
dei ricorsi gerarchici. Alcuni autori sostennero la tesi della natura
amministrativa della Quarta sezione, ma prevalse l’indirizzo che ne
valorizzava il ruolo, ponendola su un piano diverso da quello degli
organi amministrativi. La tesi del carattere giurisdizionale della
Quarta sezione fu accolta dalla Cassazione che, dichiarando
inammissibili ricorsi proposti contro le decisioni del Consiglio di
Stato, riconobbe alla Quarta sezione carattere di giudice speciale e,
alle sue decisioni, valore di sentenze.
La legge 7 marzo 1907 n.62 riconobbe formalmente il carattere
giurisdizionale della Quarta sezione (art.1), distinguendo fra sezioni
<<consultive>> del Consiglio di Stato e sezioni <<giurisdizionali>>.
Contemplò, di conseguenza, il ricorso alla Corte di cassazione, <<agli
effetti della legge 31 marzo 1877, n.3761>>, contro le decisioni delle
sezioni giurisdizionali. Istituì, inoltre, la Quinta sezione del
Consiglio di Stato, con funzioni giurisdizionali, alla quale erano
demandati i ricorsi con sindacato esteso al merito (e non solo alla
legittimità, come per la Quarta sezione). Il coordinamento tra le due
sezioni era affidato alle Sezioni riunite ( oggi Adunanza plenaria).

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Altre innovazioni di rilievo, riguardarono la disciplina


dell’istruttoria nel processo amministrativo, la disciplina del
procedimento amministrativo, la disciplina del procedimento avanti
alla Giunte provinciali amministrative e la disciplina del ricorso
straordinario al Re.
In attuazione della legge del 1907 e del relativo testo unico, fu
emanato il r.d. 17 agosto 1907, n.642, con il <<regolamento per la
procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di
Stato>>, che è tuttora in vigore.
3. La riforma del 1923 e l’istituzione della giurisdizione esclusiva
La legge del 1907 ha segnato il nostro sistema di giustizia
amministrativa, orientando fortemente la distinzione fra la
giurisdizione amministrativa e quella ordinaria, nei termini di una
distinzione fra posizioni soggettive. Un sistema imperniato sulla
distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi comportava la
necessità di identificare i caratteri e i contenuti delle diverse
posizioni soggettive; operazione non sempre agevole.
La legge 30 dicembre 1923, n.2480, cui fece seguito il testo unico
delle leggi sul Consiglio di Stato, approvato con r.d. 26 giugno
1924, n.1054 (t.u. Cons. Stato), cercò di porre rimedio a queste
diatribe, attraverso due ordini di innovazioni:
- Al giudice amministrativo fu riconosciuta la capacità di conoscere
“in via incidentale” la posizioni di diritto soggettivo, ad eccezione di
quelle sullo stato e la capacità delle persone e la querela di falso,
riservate al giudice ordinario.
La possibilità di una cognizione incidentale dei diritti consentiva di
evitare che, la necessità di esaminare una questione inerente a diritti
soggettivi comportasse sempre la sospensione del giudizio e la
remissione delle parti avanti al giudice civile.

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- In alcune materie particolari, fra le quali il pubblico impiego, al


giudice amministrativo fu attribuita la possibilità di conoscere e
di giudicare anche in tema di diritti soggettivi. In queste materie,
la tutela giurisdizionale non era articolata fra tutela degli interessi
legittimi ( demandata al giudice amministrativo) e tutela dei
diritti soggettivi ( demandata al giudice ordinario), ma era
devoluta interamente al giudice amministrativo (c.d.
giurisdizione elusiva).
Dalla riforma del 1923 emergeva, in modo chiaro, che:
- nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, il riparto fra giurisdizione
amministrativa e giurisdizione ordinaria seguiva il criterio della
distinzione per materie (art.29, 1°c. e 30 1°c, t.u. Cons. Stato).
- nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, nelle vertenze per diritti
soggettivi, il giudice amministrativo disponeva degli stessi poteri
di cognizione e di decisione che gli spettavano in caso di
giurisdizione degli interessi legittimi (art.29, 2° e 3°c. t.u. Cons.
Stato).
- nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, la tutela era “aggiuntiva”
rispetto a quella degli interessi.
- anche nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva il giudice
amministrativo poteva conoscere in via incidentale delle
situazioni di diritto soggettivo, non inerenti alla materia devoluta
alla giurisdizione esclusiva, che fossero però rilevanti per la
decisione.
Al giudice amministrativo era preclusa la cognizione di questioni
inerenti allo stato e alla capacità delle persone, o questioni di falso,
che erano riservate, pertanto, al giudice ordinario.

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Al giudice ordinario erano riservate le questioni attinenti a <<diritti


patrimoniali consequenziali alla pronuncia di legittimità dell’atto o del
provvedimento contro cui si ricorre>> (art.30, 2°c. t.u. Cons.Stato).
I diritti patrimoniali consequenziali furono identificati con il diritto
al risarcimento del danno, che assumeva rilevanza in seguito
all’annullamento di un provvedimento amministrativo, che avesse
inciso su un diritto soggettivo.
La riforma del 1923-24 introdusse alcune modifiche anche
all’ordinamento del Consiglio di Stato; la più importante è il
superamento della distinzione di competenze tra Quarta e Quinta
sezione, che divenne di ordine meramente interno.
In base al testo unico del 1924 avrebbe dovuto essere emanato dal
governo un nuovo regolamento, che però non fu mai emanato:
rimase in vigore, e rimane tuttora in vigore, quello del 1907.
4. la Costituzione repubblicana e l’istituzione dei Tar
Dopo il testo unico 26 giugno 1924, n.1054, la disciplina della
giurisdizione amministrativa rimase immutata per oltre settant’anni.
Nei primi anni dell’ordinamento repubblicano le innovazioni più
evidenti riguardarono l’assetto organizzativo della giurisdizione
amministrativa, ma non furono condizionate dalla Costituzione. Con
il d.l. 5 maggio 1948, n.642, era istituita una Sesta sezione del
consiglio di Stato. Subito dopo, in attuazione dell’art.23 dello Statuto
speciale per la Sicilia, con il d.lgs.6 maggio 1948, n. 654, venne
istituito il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione
Siciliana, organo equiordinato al Consiglio di Stato, con funzioni
consultive e giurisdizionali: in tal modo divenne problematica la
stessa unitarietà della giurisdizione amministrativa.
Solo nella seconda metà degli anni ’60, l’incidenza dei principi
costituzionali fu più evidente, con riferimento alle norme

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sull’indipendenza del giudice (art.101, 2°c. e 108, 2°c. Cost.). la Corte


costituzionale dovette dichiarare illegittima la composizione della
Giunta provinciale amministrativa in sede giurisdizionale. Analoga
sorte ebbero le Sezioni dei Tribunali amministrativi per il
contenzioso elettorale. Gli interventi della Corte costituzionale e
l’avvio delle Regioni a statuto ordinario resero più urgente
l’attuazione dell’art,125 della Cost., sulla istituzione, in ogni regione,
di un giudice amministrativo di primo grado. Con la legge 6
dicembre 1971, n.1034 (legge TAR), furono istituiti, nei capoluoghi
di ogni Regione, i Tribunali amministrativi regionali (TAR).
I TAR sono giudici amministrativi di primo grado, dotati di
competenza generale per le controversie per gli interessi legittimi e
per quelle su diritti soggettivi, devolute alla giurisdizione esclusiva.
L’appello contro le sentenze del TAR va proposto al Consiglio di
Stato (art.28).
L’assetto generale della giustizia amministrativa sembrava
completato dal d.p.r. 24 novembre 1971, n.1199, che fu emanato per
la riforma del procedimento amministrativo, dettando per la prima
volta una disciplina organica dei ricorsi amministrativi.
5. Le innovazioni recenti e le tendenze espresse dalla legge n.205
del 2000
Le innovazioni successive all’istituzione dei TAR furono piuttosto
limitate. Tra gli interventi più significativi vi fu l’estensione della
giurisdizione esclusiva alle controversie sulle concessioni edilizie,
sul contributo di concessione e sulle sanzioni amministrative per
abusi edilizi (art.16, legge 27 gennaio 1977, n.10).
Elementi essenziali di novità emersero, sempre più spesso, a partire
dagli anni ’90. Erano introdotte discipline speciali, per accelerare la
definizione del giudizio. Questa scelta rispecchiava l’importanza

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riconosciuta dal legislatore a certi interessi del cittadino: per rendere


più efficace la loro tutela dovevano essere introdotte procedure
specifiche e più veloci. La legge 7 agosto 1990, n.241 (modificata
dalla legge 11 febbraio 2005, n.15 e dalla legge14 maggio 2005, n.80),
dopo aver previsto il diritto d’accesso ai documenti amministrativi,
introdusse un giudizio speciale di competenza del giudice
amministrativo, caratterizzato da procedure particolari ed accelerate.
In altri casi emergeva, invece, l’esigenza di migliorare l’efficienza
dell’attività amministrativa.
Fu esteso, in molti casi, l’ambito della giurisdizione esclusiva che
assunse rilievo con la riforma del pubblico impiego (avviata d.lgs. 3
febbraio 1993), n.29): si assoggettava a un regime contrattuale quasi
tutte le categorie dei dipendenti pubblici, trasformando il loro
rapporto con l’Amministrazione da pubblicistico in privatistico. La
legge 15 marzo 1997, n.59 conferì ampia delega al Governo, per
l’attuazione e per l’assegnazione al giudice ordinario, delle
controversie dei dipendenti pubblici con rapporto contrattuale e una
estensione della giurisdizione esclusiva. La delega fu esercitata dal
Governo con il d.lgs. 31 marzo 1998, n.80. Negli artt. 33 e 34, si
assegnavano, alla giurisdizione esclusiva, le vertenze in materia di
pubblici servizi e di edilizia e urbanistica. Per tali materie, il giudice
amministrativo era competente a pronunciarsi su <<risarcimento del
danno ingiusto>>, cagionato dall’Amministrazione, con i propri atti
(art.35).
L’estensione della giurisdizione esclusiva, in materia di pubblici
servizi, fu ritenuta illegittima dalla Corte costituzionale (17 luglio
2000, n.292). Quasi contemporaneamente, il Parlamento approvava
la legge 21 luglio 2000, n.205, che estese la giurisdizione esclusiva a
nuove materie. Tale legge ha assegnato al giudice amministrativo la

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competenza a pronunciarsi sui diritti patrimoniali consequenziali,


anche nelle materie non devolute alla sua giurisdizione; ha innovato
la disciplina del processo amministrativo, introducendo strumenti
specifici per la tutela dei diritti devoluti alla giurisdizione esclusiva
(come i procedimenti per ingiunzione, mutuati dal c.p.c . art.8); ha
arricchito i poteri del giudice, sia per la cognizione della vertenza,
sia per la tutela cautelare; ha previsto un rito speciale per il giudizio
sul “silenzio” dell’Amministrazione, disancorandolo dal modello
dell’impugnazione di provvedimenti; ha introdotto veri e propri riti
accelerati per le vertenze di maggiore rilievo.
Le nuove concezioni emerse sono state oggetto di dibattiti, culminati
nella sentenza della Corte costituzionale 6 luglio 2004, n.204. La
sentenza ha portato al centro del dibattito le norme costituzionale,
come criterio per definire il “ruolo” del giudice amministrativo. Con
l’art.103 1°c. Cost., si assegnava, infatti, al giudice amministrativo, la
funzione di tutela del cittadino nei confronti del potere
amministrativo, non consentendogli un’assegnazione indiscriminata
di ogni vertenza sui diritti, ancorché sia coinvolto un interesse
pubblico. In base a tali criteri, la Corte ha dichiarato parzialmente
illegittimi gli artt. 33 e 34 del d.lgs. n.80/1998.

Capitolo 4
L’INTERESSE LEGITTIMO
1. Considerazioni introduttive
Nel nostro diritto amministrativo, le posizioni giuridicamente
rilevanti del cittadino nei confronti dell’Amministrazione vengono
distinte in: interessi legittimi e diritti soggettivi. L’interesse legittimo
è una figura centrale nei rapporti tra cittadino e Amministrazione e
rappresenta l’elemento fondante per la giurisdizione amministrativa.

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Tale figura , anche se nel nostro ordinamento è assolutamente


centrale, non è una nozione giuridica che sia imposta dai caratteri
specifici del rapporto fra Amministrazione e cittadino. Questa
nozione non ha, infatti, preceduto o rese “obbligate” le scelte del
legislatore.
Di interesse legittimo, si parla, quasi esclusivamente, nel diritto
italiano, mentre, negli altri Paesi, la garanzia del cittadino è si
condizionata dai caratteri del rapporto con l’Amministrazione, ma
non ha richiesto l’elaborazione della figura dell’interesse legittimo.E’
necessario stabilire se nei confronti dell’amministrazione il cittadino
abbia un interesse legittimo o un diritto soggettivo.
La distinzione fra interessi legittimi e diritti soggettivi può apparire
agevole quando si confrontino ipotesi stereotipe di posizioni
soggettive: ad es. il cittadino interessato ad un potere discrezionale
dell’Amministrazione e il cittadino creditore di un’obbligazione
pecuniaria nei confronti della stessa Amministrazione. Nel primo
caso, si ritiene che possa essere identificato solo un interesse
legittimo al cittadino l’ordinamento non garantisce neppure la
pretesa a un risultato utile, perché l’esito finale del procedimento
dipende da una scelta discrezionale dell’autorità amministrativa.
Nel secondo caso, l’ordinamento riconosce e garantisce la pretesa a
un risultato utile predeterminato e appresta tutta una serie di
strumenti, per assicurare una piena realizzazione di questa pretesa.
Ma la distinzione appare molto più difficile in altre ipotesi. Si pensi
al caso di un’attività vincolata dell’Amministrazione: in questo caso
si ammette la configurazione di posizioni di interesse legittimo, ma
se l’attività è vincolata, si deve riconoscere che la legge prevede e
garantisce, al cittadino, un determinato risultato e in questo modo, la
distinzione, rispetto alle obbligazioni, scompare.

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Anche nell’ambito del diritto privato, si tende a riconoscere la


configurabilità di situazioni, rispetto alle quali, i diritti soggettivi
sono caratterizzati in termini analoghi, rispetto agli interessi
legittimi tradizionali. Si pensi al caso della partecipazione a un
concorso privato, nella costruzione delineata dalla giurisprudenza
civile, in base a riflessioni su enti pubblici economici; in questo caso,
il diritto soggettivo del cittadino non si risolve nella pretesa,
giuridicamente riconosciuta, ad un risultato utile ( l’assunzione), ma
si presenta in termini di stretta correlazione allo svolgimento del
“potere” privato. La Cassazione ha sottolineato come al cittadino
debba essere assicurata l’osservanza dei principi di buona fede e di
ragionevolezza ed arriva a configurare l’esistenza di un obbligo
motivazionale.Nel caso del concorso pubblico si ha un interesse
legittimo.
Si evidenzia, inoltre, la tendenza in alcuni Paesi ad estendere la
nozione di “potere”, in senso stretto, anche alle situazioni di diritto
privato, caratterizzate istituzionalmente dalla presenza di un
soggetto in posizione di supremazia. Il rischio di questa tendenza è
quello di assegnare all’Amministrazione un ruolo istituzionalmente
“dominante”, in contrasto con il principio di legalità, perdendo di
vista le ragioni della tutela nei confronti dell’Amministrazione e di
indebolire così la garanzia individuale del cittadino.
Veramente irrinunciabili, in uno Stato democratico, sono la
garanzia e l’ampiezza della tutela nei confronti
dell’Amministrazione, e non le nozioni e le forme attraverso le
quali tale tutela è stata interpretata. La ragione di un’attenzione
particolare per la tutela nei confronti dell’Amministrazione è
costituita proprio dal carattere pubblico del soggetto, che si pone,
rispetto al cittadino, come “autorità”. In questa logica, appare

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contraddittorio invocare la nozione dell’interesse legittimo, per


giustificare una tutela meno intensa del cittadino rispetto a quella
offerta dal diritto comune. Eppure, solo da pochi anni, la Corte di
Cassazione, rivendicando un proprio indirizzo, ha ammesso, anche
per la lesione di interessi legittimi, il risarcimento dei danni.
2. L’interesse legittimo e il “potere” dell’Amministrazione.
Anche se il dibattito sulla nozione di interesse legittimo appare
ancora aperto, si riscontra un ampio consenso nell’identificare alcuni
elementi come propri dell’interesse legittimo.
Un primo elemento è costituito dal carattere “relativo”(o
“relazionale”) dell’interesse legittimo: l’interesse legittimo non è
una posizione soggettiva di tipo “assoluto”(come i diritti reali), ma è
una posizione correlata all’esercizio di un potere da parte
dell’Amministrazione.L’esercizio del potere produce effetti giuridici
nei confronti dei cittadini.L’Amministrazione, disponendo degli
interessi che le sono devoluti dalla legge distribuisce risorse, incide
sulle posizioni giuridiche dei cittadini.L’interesse legittimo può
essere definito come una posizione soggettiva speculare al potere
dell’Amministrazione.
In passato, il potere dell’Amministrazione è stato considerato come
un “valore” che esprimeva la supremazia dello Stato e dei suoi fini
rispetto al cittadino: questa logica però è radicalmente incompatibile
con i principi di ordinamento democratico. Oggi sembra affermarsi
una concezione opposta, che rifiuta l’argomento della supremazia
istituzionale e dà rilievo piuttosto ad elementi formali, come
l’assoggettamento del potere dell’Amministrazione ad una
disciplina tipica, espressa in particolare nella teoria dei vizi dell’atto
amministrativo(eccesso di potere). Molte riflessioni si sono
concentrate sull’analisi dei casi in cui sia stata riconosciuta la

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presenza di un potere dell’Amministrazione. Il potere


amministrativo è considerato una situazione esclusiva del diritto
pubblico: di conseguenza non è configurabile un interesse legittimo,
neppure in presenza di atti unilaterali dell’Amministrazione,
quando essi siano riconducibili al diritto privato(rescissione o
risoluzione unilaterale del contratto). Non vale però la conclusione
opposta cioè l’attività unilaterale dell’amministrazione disciplinata
dal diritto pubblico non si configura necessariamente come potere
amministrativo;in alcune situazioni l’attività svolta
dall’Amministrazione è disciplinata dal diritto pubblico, ma non ha
le caratteristiche del “potere” in senso proprio. L’ambientazione
dell’interesse legittimo nel diritto pubblico non risolve, quindi, tutti i
problemi connessi all’identificazione di questa figura.
In passato sono stati presi in considerazione vari profili dell’attività
amministrativa nel diritto pubblico, per definire il potere tipico
dell’Amministrazione.
a)In alcune interpretazioni è presentato, come profilo caratteristico
del “potere”, la c.d. autoritarietà o autoritatività. Di fronte ad un
potere autoritativo dell’Amministrazione, il cittadino non può
opporre un diritto soggettivo, perché l’Amministrazione, attraverso i
propri provvedimenti, può estinguere legittimamente i diritti dei
terzi.
Il nucleo del potere amministrativo sarebbe espresso
dall’autoritarietà: in questo senso sembra prendere posizione anche
l’art.1 della legge n.241/1990, come modificato dalla legge
n.15/2005, che nel contesto di una valorizzazione degli istituti
privatistici, riserva però al diritto pubblico, proprio la disciplina
dell’attività autoritativa dell’amministrazione.

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Il riferimento al carattere dell’autoritarietà non spiega però, quando


l’Amministrazione sia titolare di un potere e in che cosa consista,
nella generalità delle situazioni, tale potere.
b)In altre interpretazioni è considerata, come elemento caratteristico
del “potere”, la sua funzionalità alla realizzazione dell’interesse
pubblico. Di conseguenza non si ha potere quando l’attività
amministrativa sia diretta istituzionalmente a soddisfare un
interesse privato: è il caso, ad esempio, della determinazione
dell’indennità di esproprio. Questa ipotesi non può verificarsi nel
caso dell’attività discrezionale, perché tale attività, per definizione,
comporta la necessità di una scelta, in considerazione dell’interesse
pubblico: invece, secondo tale tesi in esame, si potrebbe verificare in
alcune ipotesi di attività vincolata.
c)Altre interpretazioni assumono, come caratteristica del potere
amministrativo, la sua infungibilità: mentre l’adempimento di
un’obbligazione di regola è sempre fungibile, cosicché
all’adempimento di un’obbligazione si può porre rimedio con una
prestazione equivalente di un terzo, il “potere”
dell’Amministrazione è riservato ad uno specifico apparato.
La posizione del cittadino titolare di un interesse legittimo si
caratterizzerebbe per una dipendenza istituzionale
dall’Amministrazione.
d)Alcune interpretazioni accolgono argomenti di ordine
squisitamente formale e individuano, come elemento tipico del
“potere” la produzione di effetti giuridici, in termini costitutivi:
potere significa, quindi, capacità di assumere atti produttivi di effetti
giuridici propri.Viene accolta la distinzione fondamentale tra
procedimenti dichiarativi e procedimenti costitutivi.I procedimenti
dichiarativi accertano o certificano situazioni già identificate dalla

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legge(d.soggettivo);i procedimenti costitutivi hanno carattere


dispositivo perché sono idonei a produrre effetti giuridici
propri(int.legittimo).L’identificazione del carattere costitutivo di
certi provvedimenti amministrativi non è pacifica: alle incertezze
generali sulla figura e sull’ambito dell’atto costitutivo si sommano
quelle particolari che attengono al rapporto fra legge e atto
amministrativo nella produzione di effetti giuridici. In particolare si
discute se possa considerarsi propriamente costitutiva, anche
l’attività amministrativa, che si limiti a verificare, per la produzione
di effetti giuridici, condizioni compiutamente definite dalla legge.
Un orientamento dottrinale individua, come discriminante per la
nozione di “potere” il fatto che la legge riservi all’Amministrazione
una competenza esclusiva, intesa come capacità di operare
effettuando valutazioni che possono essere compiute solo
dall’Amministrazione e non da altri soggetti(discrezionalità tecnica
ed amministrativa). Il “potere”, insomma, si caratterizza per essere
riservato ad un soggetto, ma questa “riserva” attiene alle modalità,
attraverso le quali, l’Amministrazione opera ed assume i suoi atti.
Quando la legge riserva all’Amministrazione l’effettuazione di certe
valutazioni, ai fini dell’adozione di provvedimenti, l’attività
dell’Amministrazione presenta caratteristiche particolari e introduce
elementi nuovi, rispetto a quelli già compiutamente determinati
nella previsione normativa. Questa situazione si verifica quando
l’attività amministrativa sia discrezionale. Quando l’attività è
vincolata, l’Amministrazione si deve limitare ad applicare una
regola già presente nell’ordinamento, senza poter introdurre da
parte sua, nulla di ulteriore. Pertanto se l’attività è vincolata, la legge
che disciplina l’attività amministrativa definisce già completamente
ciò che spetta al cittadino in quella certa situazione:

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l’Amministrazione, in presenza della situazione individuata dalla


legge, è tenuta ad assumere nei confronti del cittadino l’atto previsto
dalla legge stessa e non può aggiungervi nulla di suo. Il cittadino è
titolare perciò di un diritto soggettivo.Se l’attività è discrezionale il
cittadino no n può vantare una pretesa giuridica a un determinato
risultato perché ciò che gli spetta non è determinabile a priori in base
alla legge.
Questa tesi non viene accolta dalla giurisprudenza prevalente: essa
riconosce la presenza di interessi legittimi di fronte ad un’attività
amministrativa discrezionale, ma esclude che quando l’attività sia
vincolata, siano configurabili necessariamente diritti soggettivi.
Da ultimo si deve tener presente l’influsso del diritto comunitario
che, nei settori di competenza dell’Unione europea, sta incidendo
profondamente anche sul diritto amministrativo dei Paesi associati,
introducendo elementi ed istituti comuni e promuovendo lo
sviluppo dei diversi ordinamenti nazionali secondo direttrici
omogenee. Il diritto comunitario impone una tutela efficace del
cittadino nei confronti dell’Amministrazione; nello stesso tempo non
contempla la figura dell’interesse legittimo, anche perché essa è
utilizzata quasi solo nel diritto italiano. Anche il legislatore italiano
ha dovuto adeguarsi all’impostazione dettata dalle norme
comunitarie, col risultato che in passato si era delineata una
singolare distinzione fra interessi legittimi, fondati sulla normativa
comunitaria ( ai quali era assicurata una tutela risarcitoria) e
interessi legittimi, fondati sulla normativa nazionale ( senza tutela
risarcitoria).
In questo quadro così incerto, finisce con l’assumere rilievo
determinante la casistica elaborata dalle sezioni unite della
Cassazione, quale giudice della giurisdizione.

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3. (segue): il contributo della giurisprudenza; la questione dei


diritti “perfetti”.
Ad opera della Corte di cassazione(quale giudice delle giurisdizioni)
si è consolidata un’interpretazione comune sulla identificazione
della maggior parte delle situazioni corrispondenti ad interessi
legittimi. Per distinguere gli interessi legittimi dai diritti soggettivi,
la giurisprudenza ha accolto una serie di criteri, invocati talvolta in
via “cumulativa”, come se l’identificazione dell’interesse legittimo
discendesse, in via definitiva, da una serie di “indici” da valutare
complessivamente.
I) Tesi della distinzione fra norme d’azione e norme di relazione.
L’ordinamento comprenderebbe norme d’azione, che disciplinano
un potere e il suo esercizio, e norme di relazione, che disciplinano un
rapporto intersoggettivo e i suoi effetti. A questa coppia di norme
corrisponderebbe nel caso di violazione alla coppia di qualificazione
degli atti in termini di “illegittimità-illeceità” e, quindi, sul piano
delle posizioni soggettive, la coppia “interesse legittimo-diritto
soggettivo”. La giurisprudenza più recente non sembra riconoscere
peso decisivo alla tesi in esame.
II) Tesi della distinzione fra attività vincolata nell’interesse
pubblico e attività vincolata nell’interesse privato. Uno dei
problemi maggiori è rappresentato dalla valutazione delle posizioni
soggettive di fronte all’attività vincolata dell’Amministrazione.
L’interesse legittimo si caratterizzerebbe per il suo confronto con un
interesse pubblico. Di conseguenza se il potere
dell’Amministrazione è discrezionale, sarebbe sempre configurabile
un interesse legittimo perché il confronto con l’interesse pubblico è
immanente; se il potere è vincolato, si dovrebbe distinguere se il
potere sia attribuito nell’interesse del cittadino o nell’interesse

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dell’Amministrazione. Nel primo caso vi sarebbe un diritto


soggettivo, nel secondo un interesse legittimo. Secondo la
Cassazione, in certi casi di attività vincolata, il cittadino sarebbe
titolare di un diritto nei confronti dell’Amministrazione, al rilascio di
un provvedimento amministrativo (es. rilascio della carta di
circolazione di un veicolo); in altri casi, a fronte di provvedimenti
vincolati si ammettono interessi legittimi (es. interventi repressivi di
attività abusive).La funzionalità di un potere vincolato a un interesse
pubblico o privato non è determinabile dalla norma giuridica.
III) Tesi della distinzione tra cattivo esercizio del potere e carenza di
potere. Secondo questa tesi, accolta dalla Cassazione, non è
sufficiente la considerazione della titolarità del potere da parte
dell’Amministrazione, per identificare la posizione del cittadino
come di interesse legittimo: la valutazione deve coinvolgere anche il
vizio rispetto all’atto amministrativo. Nel caso di cattivo esercizio di
potere (vizi di incompetenza, violazione, di legge ed eccesso di
potere), l’illegittimità del provvedimento non incide sulla sua
efficacia(finchè il provvedimento non sia annullato)ed è
configurabile solo una posizione di interesse legittimo(si è in
presenza di esercizio del potere dell’amministrazione); nel caso di
carenza di potere (straripamento di potere o incompetenza assoluta,
carenza di presupposti necessari) il vizio si riverbera sulla stessa
efficacia giuridica dell’atto e la posizione soggettiva del cittadino
rimane quella originaria, come individuabile in assenza
dell’intervento dell’Amministrazione.L’amministrazione non
esercita in modo efficace alcun potere e non è identificabile nenahce
un interesse legittimo.
La Cassazione ha sostenuto che vi è carenza quando il
provvedimento è previsto dall’ordinamento, ma non come esercizio

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di una funzione amministrativa, oppure ha sostenuto che vi è


carenza quando il potere è attribuito ad un’Amministrazione di
ordine diverso rispetto a quella cui fa parte l’organo che ha emesso il
provvedimento, ovvero quando il provvedimento è assunto
dall’Amministrazione che è in astratto titolare del potere, ma in
mancanza di un presupposto concreto prescritto dalla legge. La
legge 11 febbraio 2005, n.15 distingue fra ipotesi di <<annullabilità>>
e ipotesi di<<nullità(provvedimento che manca degli elementi essenziali e
difetto assoluto di attribuzione)>>. L’atto amministrativo nullo
dovrebbe essere inefficace: di conseguenza, non costituirebbe
esercizio di un potere e potrebbe coesistere con un diritto soggettivo
del cittadino.
La sistematica dei vizi dell’atto amministrativo delineata dalla legge
15/2005 dovrebbe, quindi, orientare la Cassazione a superare la
distinzione tra “cattivo esercizio del potere” e “carenza di potere” e
a considerare, invece, la distinzione tra casi di “annullabilità” e casi
di “nullità” del provvedimento.
IV) Teoria dei diritti perfetti. La giurisprudenza e la dottrina hanno
proposto una selezione delle posizioni giuridiche dotate di una
protezione qualitativamente maggiore e perciò non modificabili per
effetto dell’esercizio di un potere amministrativo. Si tratta dei c.d.
diritti personalissimi (diritto all’integrità personale, al nome etc.), sui
quali l’Amministrazione non può incidere, dei diritti definiti anche
in relazioni giuridiche di diritto pubblico (diritto all’indennità di
esproprio[attività amministrativa sempre vincolata] etc.), e da ultimo
diritti ritenuti importanti sul piano costituzionale, tanto da essere
definiti “incomprimibili” (diritto alla salute, all’integrità
dell’ambiente etc.).

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Questa teoria trova ampio riscontro nella giurisprudenza recente


della Cassazione. Resta però ancora poco chiaro il suo fondamento,
specie con riferimento ai diritti costituzionali rilevanti. Appare
problematica la possibilità di desumere dalla Costituzione la natura
di una posizione soggettiva e non è chiaro in base a quali criteri i
diritti costituzionalmente rilevanti possano a loro volta essere
discriminati.Si pensi al diritto di proprietà o al diritto d’impresa che
in presenza di un potere dell’amministrazione assumerebbero il
carattere di interesse legittimo.
4. L’interesse legittimo come posizione soggettiva differenziata e
qualificata.
L’interesse legittimo identifica un interesse proprio del cittadino: per
questa ragione non può essere considerato come una posizione
meramente “riflessa” rispetto al potere dell’Amministrazione.
L’interesse legittimo non è neppure una posizione diffusa, di cui
possono essere titolari i cittadini in quanto tali, ma è una posizione
soggettiva, di cui sono titolari solo determinati soggetti.
E’ stata la giurisprudenza che ha rivendicato a sé la capacità di
individuare in quali situazioni sia configurabile la titolarità di un
interesse legittimo (ad es. interessi in materia ambientale).
Va osservato, però, che in uno Stato di diritto la titolarità di una
posizione soggettiva dovrebbe essere definita dall’ordinamento
giuridico e quindi dalla legge. Di conseguenza, anche la titolarità
dell’interesse legittimo deve essere stabilita in base a criteri di legge.
A questo proposito vengono considerati due criteri. Il primo è quello
della “differenziazione”; proprio perché l’interesse legittimo è una
posizione “soggettiva”, esso presuppone in capo al titolare la
sussistenza di una posizione di interesse “diversa” e “più intensa”
rispetto a quella della generalità dei cittadini.(es.posizione del

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commerciante x l’apertura di un nuovo esercizio commerciale nelle


vicinanze, in questo caso interessa lui e non la generalità dei
cittadini).
Ma il criterio della “differenziazione” non viene ritenuto sufficiente
da buona parte della dottrina. E’ stato perciò proposto, ad
integrazione di esso, il criterio della “qualificazione”: perché si
possa avere un interesse legittimo è necessario che il potere
dell’Amministrazione coinvolga un soggetto che, rispetto a tale
potere, sia titolare di un interesse non solo differenziato, ma anche
sancito e riconosciuto dall’ordinamento. In realtà, però, non sempre,
la norma che disciplina il potere identifica i soggetti direttamente
interessati. La qualificazione viene, invece, ricavata dalla
giurisprudenza, in base alla rilevanza attribuita a quell’interesse
dall’ordinamento nel suo complesso e alla sua incidenza concreta
dell’azione amministrativa su tale interesse.
5. L’interesse legittimo come posizione di diritto sostanziale.
In passato, l’attenzione sulla figura dell’interesse legittimo si è
concentrata sull’ aspetto delle modalità della tutela nel caso di un
interesse legittimo. L’ordinamento sembrava risolvere la rilevanza
dell’interesse legittimo nell’attribuzione al titolare dell’interesse, di
un “potere di reazione”, nel caso si fosse verificata una lesione.
Questo potere consisteva nella possibilità di impugnare il
provvedimento lesivo e di porre in contestazione l’esercizio del
potere dell’Amministrazione. Seguendo questa prospettiva si
rilevava come la tutela offerta all’interesse legittimo fosse
tipicamente impugnatoria: a fronte del carattere costitutivo del
potere amministrativo e in particolare del provvedimento
amministrativo, sembrava che la tutela dovesse avere un carattere
altrettanto costitutivo, perché doveva eliminare l’effetto giuridico

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prodotto dall’esercizio del potere, si istituisce un parallelismo tra


carattere costitutivo del potere e caratteri costitutivi della tutela
offerta all’interesse legittimo. All’interesse legittimo sembrava
corrispondere una tutela tipica, di tipo costitutivo, diretta ad elidere
gli effetti del provvedimento lesivo. La modalità della tutela veniva
assunta come un carattere fondamentale del diritto soggettivo(tutela
diretta) e quindi come un elemento distintivo rispetto all’interesse
legittimo(tutela indiretta).
In passato, quando il diritto positivo sembrava riconoscere uno
spazio all’interesse legittimo, solo in termini di reazione ad una
lesione, la rilevanza dell’interesse legittimo era risolta praticamente
nella vicenda della impugnazione di un provvedimento lesivo. In
questo modo era facile sostenere che l’interesse legittimo sarebbe
figura di ordine squisitamente processuale(assume rilievo solo sul
piano dell’azione).
Questo modo di ragionare oggi sembra abbandonato, ma non del
tutto, e comunque ha condizionato profondamente la
giurisprudenza. Va chiarito che le modalità della tutela non
costituiscono di per sé l’elemento caratterizzante della figura
dell’interesse legittimo; il ragionamento va, invece, capovolto: sono i
caratteri dell’interesse legittimo che condizionano le modalità della
tutela.
Nel nostro ordinamento la tutela giurisdizionale dell’interesse
legittimo si configura come tutela “successiva”: presuppone che sia
già intervenuta una lesione dell’interesse protetto. Ciò comporta una
pretesa all’annullamento dell’atto amministrativo lesivo. La lesione
dell’interesse legittimo può essere determinata, però, anche dalla
mancanza dell’esercizio di un potere, come nel caso del silenzio-
rifiuto. In questo caso il giudizio tende a garantire l’adempimento

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del dovere di provvedere dell’Amministrazione. Nel nostro


ordinamento, insomma, la tipicità della tutela è subordinata alla
garanzia dell’interesse.
Quanto poi alla questione della natura solo processuale o anche
sostanziale dell’interesse legittimo, essa può essere affrontata
correttamente, solo sulla base del diritto positivo. E’ decisivo
stabilire se l’interesse legittimo rilevi autonomamente,
indipendentemente da una sua lesione. Un argomento importante a
favore della soluzione affermativa viene tratto dalla legge 7 agosto
1990, n. 241: essa ha assegnato rilevanza all’interesse legittimo,
prescindendo sia dalla impugnazione di un provvedimento, sia
addirittura dalla configurabilità di una lesione all’interesse del
cittadino. Nella legge n.241/1990, la partecipazione al procedimento
si attua su un piano di diritto sostanziale. Inoltre, alla luce di questa
disciplina, l’interesse legittimo si presenta come figura “attiva”,
caratterizzata da una serie di prerogative dirette a influire
sull’azione amministrativa.
6.Quale “interesse” nell’interesse legittimo? L’identificazione del
“bene vita”
L’interesse legittimo non sorge per effetto della sua lesione ad opera
di un potere dell’Amministrazione e non assume rilevanza solo
quando si verifichino i presupposti per l’impugnativa; è
configurabile già nel momento in cui ha inizio il procedimento
amministrativo. Perché nasca un interesse legittimo bisogna che
sussistano le condizioni, in presenza delle quali, l’esercizio del
potere sia doveroso. Non è importante che il cittadino, rispetto al
potere dell’Amministrazione, possa derivare una posizione di
vantaggio o invece di svantaggio.

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La figura dell’interesse legittimo si presenta come figura del diritto


sostanziale: infatti all’identificazione dei soggetti titolari di interessi
legittimi, in un procedimento amministrativo, non corrisponde
necessariamente l’identificazione delle parti legittimate a far valere il
loro interesse. Di conseguenza la giurisprudenza esclude che quando
sia impugnato un provvedimento negativo o quando si ricorra per
un silenzio-rifiuto siano parti necessarie del processo altri cittadini
diversi dal ricorrente, dal momento che il provvedimento negativo o
il silenzio-rifiuto producono effetti giuridici solo nei confronti di
questi. Una volta stabilito che l’interesse legittimo è figura del diritto
sostanziale, va però chiarito che cosa sia il “bene della vita”, quale
componente fondamentale di tutte le posizioni soggettive di diritto
sostanziale.Bisogna capire in cosa va identificato il bene della vita
alla cui realizzazione tende l’interesse legittimo
a)Il “bene della vita” non può essere identificato con un interesse
alla legittimità dell’azione amministrativa. Si deve evitare di
confondere la modalità della tutela di un interesse con il contenuto
dell’interesse. E’ vero che la lesione di un interesse legittimo si
verifica ogni qual volta l’Amministrazione esercita il suo potere
senza osservare le regole che lo disciplinano. Tuttavia la legittimità
dell’azione amministrativa non è essa stessa un “bene della vita”, né
tanto meno può essere concepita come un “bene della vita” proprio
di un soggetto determinato. La legittimità dell’azione
amministrativa può essere concepita forse come l’oggetto di un
interesse generico, comune a tutti i cittadini, ma non come l’oggetto
di una posizione soggettiva qualificata.
b)Per soddisfare questa esigenza viene prospettata spesso, per la
figura dell’interesse legittimo, una dissociazione fra due ordini
d’interessi: sarebbero configurabili un interesse materiale, che è

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proprio del titolare dell’interesse legittimo, ma che esorbita dalla


rilevanza riconosciuta dall’ordinamento all’interesse legittimo
stesso, e un interesse diverso, di cui il primo costituirebbe solo un
presupposto, e che sarebbe passibile di tutela.
c)E’ stata avanzata però, anche una concezione diversa, spesso
respinta dalla giurisprudenza e dalla dottrina. Secondo questa
concezione, l’interesse c.d. materiale non va considerato come
estraneo all’interesse legittimo, ma costituisce la componente
essenziale di quest’ultimo, perché identifica proprio il “bene della
vita” cui l’interesse legittimo è funzionale. Le modalità di tutela di
un interesse sono determinate dalle caratteristiche proprie
dell’interesse stesso: perciò la realizzazione del “bene della vita”, nel
caso dell’interesse legittimo, si attua in relazione al potere
amministrativo e in base alle regole che lo disciplinano.
7. Interessi legittimi e diritti soggettivi
Il rapporto tra interesse legittimo e diritto soggettivo è al centro delle
riflessioni della dottrina e della giurisprudenza, anche in una
prospettiva “dinamica”. Già nei primi anni successivi alla legge
istitutiva della Quarta sezione, furono analizzati con attenzione
alcuni procedimenti, come quello espropriativo, caratterizzati
dall’incidenza del potere amministrativo su un diritto soggettivo (un
diritto reale) del cittadino: fu osservato che, per effetto del decreto di
esproprio, il diritto soggettivo si estingueva una volta emanato il
decreto di esproprio (il privato non era più proprietario) , lasciando
posto a un interesse legittimo (il privato lo poteva impugnare
davanti al giudice amministrativo).
Lo stesso modello fu, poi, prospettato in modo simmetrico per i c.d.
diritti in attesa di espansione, consistenti nelle trasformazione di un
interesse legittimo in diritto soggettivo, per effetto di un determinato

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provvedimento amministrativo con effetti costitutivi. La


degradazione in genere veniva ricondotta al carattere di
autoritatività , che determinerebbe l’estinzione del diritto soggettivo
e quindi la sua trasformazione in interesse legittimo.
La teoria della degradazione non è però accettabile. Nel corso di una
procedura espropriativa, il proprietario del bene rimane titolare di
un diritto reale fino al decreto di esproprio: tale decreto determina
l’acquisto del bene in capo al soggetto espropriante e perciò
l’estinzione del diritto di proprietà del cittadino. Nei confronti del
potere espropriativo il proprietario è però titolare di un interesse
legittimo, conformemente ai principi generali e senza immaginare
alcuna degradazione. L’Amministrazione esercita un potere in senso
proprio e l’interesse legittimo sorge con l’esercizio del potere e non
prima del decreto di esproprio. Che non vi sia una trasformazione
del diritto soggettivo in interesse legittimo è dimostrato dal fatto che
coesistono insieme: l’interesse legittimo rispetto al potere
espropriativo e il diritto soggettivo ad ogni altro effetto.
8.Interessi legittimi e risarcimento del danno
Nella discussione sul rapporto fra interesse legittimo e diritto
soggettivo ha avuto particolare rilievo la questione del risarcimento
dei danni cagionati ad interessi legittimi: si tratta di danni provocati
da provvedimenti amministrativi o dal silenzio
dell’Amministrazione. Nell’affermare che la lesione di un interesse
legittimo fosse risarcibile, la giurisprudenza era orientata nettamente
in senso negativo perché il diritto al risarcimento presuppone la
lesione di un interesse sostanziale.
a)Fino alla fine degli anni ’90, la giurisprudenza dei giudici civili,
ammetteva una responsabilità civile dell’Amministrazione, solo nel
caso di lesione di un diritto soggettivo, sulla base di una lettura

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dell’art.2043 c.c. che identificava il <<danno ingiusto>> passibile di


risarcimento, con il danno arrecato a diritti soggettivi. Di
conseguenza, per esempio, la Cassazione negava al cittadino il
risarcimento per i danni provocati da un diniego illegittimo di
concessione edilizia, e ciò anche se il diniego fosse annullato dal
giudice amministrativo. Solo se il provvedimento illegittimo aveva
inciso su un diritto soggettivo preesistente, estinguendolo, allora la
conclusione poteva essere diversa. L’annullamento del
provvedimento illegittimo avrebbe ripristinato in via retroattiva il
diritto soggettivo. Una volta venuto meno il provvedimento, sarebbe
risultato che l’Amministrazione aveva ingiustamente conculcato il
diritto soggettivo; la lesione a questo punto sarebbe stata riferibile a
un diritto e avrebbe potuto essere risarcita. Applicando questo
schema, il risarcimento del danno causato da provvedimenti
amministrativi sarebbe stato possibile solo se la posizione del
cittadino fosse stata un diritto soggettivo “fin dall’origine”. Inoltre,
per il risarcimento sarebbe stato sempre necessario l’annullamento
del provvedimento lesivo: solo l’annullamento poteva “ripristinare”
il diritto soggettivo su cui aveva precedentemente inciso il
provvedimento. Una volta verificatesi tutte queste condizioni, il
risarcimento sarebbe spettato, senza la necessità di verifiche
concernenti l’elemento soggettivo della condotta lesiva.
La giurisprudenza non delineava solo una disciplina del
risarcimento dei danni cagionati da provvedimenti amministrativi,
ma ricavava da questa disciplina anche una regola pratica sul
rapporto fra le giurisdizioni. Risultava necessario prima esperire
l’azione di annullamento davanti al giudice amministrativo; solo
successivamente, si poteva esperire l’azione civile per i danni.

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b)La posizione della giurisprudenza era quindi negativa rispetto alla


risarcibilità degli interessi legittimi; era ammesso in genere solo per
la lesione di un diritto soggettivo. Questa posizione fu abbandonata
dalla Cassazione, solo con la sentenza delle Sezioni Unite 22 luglio
1999, n.500. Gli argomenti invocati per il mutamento di indirizzo
furono, innanzi tutto, di diritto sostanziale e riguardarono
l’interpretazione complessiva della responsabilità aquiliana
nell’art.2043 c.c. La Cassazione affermò che tale articolo non
integrava le disposizioni sulla tutela dei diritti soggettivi, ma aveva
una propria autonomia, perché assicurava la ripartizione del danno
ingiustamente subito da un soggetto a causa del comportamento di
un altro soggetto. Nel suo intervento la Cassazione riconosceva
espressamente la natura sostanziale dell’interesse legittimo e nello
stesso tempo, però, sottolineava la specificità dell’interesse legittimo,
rispetto al diritto soggettivo, rilevando che per il risarcimento, non
era necessaria anche una lesione <<al bene della vita>> correlato
all’interesse ed inteso come “utilità finale”. In concreto l’interesse
legittimo riguarda una posizione di vantaggio che il cittadino
intende conservare nei confronti dell’Amministrazione che esercita il
suo potere, il danno risarcibile si identifica col sacrificio della
posizione di vantaggio (bene della vita) ad opera del provvedimento
illegittimo. Questo è il caso dei c.d. interessi oppositivi, ossia
interessi legittimi che ineriscono alla conservazione di un bene o di
altra posizione di vantaggio attuale. Invece se l’interesse legittimo
inerisce alla pretesa del cittadino di ottenere un provvedimento
favorevole che gli attribuisca un bene o una posizione di vantaggio
(c.d. interesse pretensivo), un danno risarcibile si configura solo se
la pretesa del cittadino, sarebbe destinata ad ottenere un esito
positivo.

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In questo quadro viene meno la necessità di subordinare l’azione per


i danni al previo annullamento del provvedimento amministrativo.
Tale necessità si ricavava dall’esigenza di ripristinare la posizione
originaria di diritto soggettivo, estinta dal provvedimento
amministrativo: solo il diritto soggettivo, infatti, poteva essere
risarcito. Ma nel momento in cui si riconosce la risarcibilità
dell’interesse legittimo, viene meno anche la necessità
dell’annullamento del provvedimento lesivo: secondo le Sezioni
unite, per il risarcimento dei danni era richiesto l’accertamento della
illegittimità del provvedimento, non più il suo annullamento. La
Cassazione sostenne che per il risarcimento degli interessi legittimi
era essenziale la dimostrazione della imputabilità dell’illecito
all’Amministrazione a titolo di colpa o di dolo. La tesi precedente,
che risolveva la colpa nell’illegittimità dell’atto amministrativo, si
riferiva al caso di lesione di diritti soggettivi; invece, per la lesione di
interessi legittimi, resterebbe ferma la regola generale del codice
civile, che comporta la necessità di una verifica puntuale
dell’elemento soggettivo.
Alla pronuncia della Cassazione del 1999 fecero seguito le
disposizioni che estesero la giurisdizione amministrativa alle
vertenze risarcitorie (art.7, legge n.205/2000). I giudici
amministrativi hanno confermato in pieno il principio della
risarcibilità, nello stesso tempo però, hanno espresso indirizzi
diversi sul modello di responsabilità da applicare. Hanno messo in
discussione le tesi della Cassazione sul rapporto fra annullamento
dell’atto e tutela risarcitoria, sostenendo in genere che il risarcimento
presuppone l’annullamento dell’atto lesivo.
Sulla necessità di identificare una lesione al bene della vita sono
emerse posizioni nuove; alcuni giudici amministrativi hanno

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ammesso il risarcimento anche nel caso di ritardo nell’emanazione


del provvedimento favorevole spettante al cittadino, o nel caso in cui
l’illegittima esclusione del procedimento avesse pregiudicato la
possibilità di un esito favorevole, probabile ma non certo. Questa
conclusione è stata criticata dal Consiglio di Stato, che ha sostenuto
che quando non spetta un provvedimento favorevole, non è
neppure configurabile una lesione a un “bene della vita” e senza una
lesione al “bene della vita” non vi sarebbe spazio per un
risarcimento.
9. Interessi legittimi e interessi semplici
Dalle posizioni soggettive garantite nel nostro ordinamento,
rimangono estranei i c.d. interessi semplici. Essi corrispondono agli
interessi che non assurgono né al livello dei diritti soggettivi, né al
livello degli interessi legittimi. Sono interessi semplici, ad esempio,
gli interessi dei cittadini che non risultano “differenziati”. La loro
distinzione dagli interessi legittimi, comporta l’esclusione di una
loro tutela giurisdizionale. La tutela degli interessi semplici è
prevista solo in casi eccezionali, da disposizioni che hanno una
portata tassativa. La gravità di questo aspetto ha suscitato un
dibattito molto ampio, che ha condotto ad estrapolare, dall’ambito
degli interessi semplici, alcune tipologie particolari. La discussione
ha riguardato gli interessi c.d. collettivi o di categoria, con
riferimento alla possibilità che essi possano configurarsi come
interessi legittimi delle associazioni o degli altri enti che
rappresentano la collettività o la categoria. Nel caso dell’interesse di
categoria l’associazione farebbe valere infatti un interesse che non
sarebbe direttamente proprio, ma che sarebbe piuttosto degli
associati e di riflesso coinvolgerebbe l’associazione. La
giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto in capo a queste

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associazioni la titolarità dell’interesse di categoria, consentendo ad


esse di farlo valere come un proprio interesse legittimo. La
discussione più accesa ha riguardato, però, gli interessi diffusi, che
corrispondono all’interesse generale dei cittadini a certi beni comuni,
come l’ambiente , etc. Oggi, alcune disposizioni speciali ammettono
la tutela di determinati interessi diffusi, demandandola però, non al
singolo, ma a particolari associazioni. Determinate associazioni, pur
non essendo titolari di un interesse legittimo, hanno ottenuto una
particolare legittimazione a ricorrere, sia nel caso degli interessi
collettivi che nel caso degli interessi diffusi. Nel caso degli interessi
collettivi, la legittimazione è riconosciuta all’associazione ma si
cumula con quella del singolo cittadino interessato, nel caso
dell’interesse diffuso la legittimazione dell’associazione non è
fungibile con quella del cittadino, perché l’interesse diffuso non può
essere fatto valere in quanto tale in sede giurisdizionale dal singolo.
In molti casi, l’insieme dei cittadini interessati è di tale estensione
che, pur essendo riconoscibile, finisce con l’identificarsi con la
generalità dei cittadini ( emblematica è la disciplina della tutela dei
consumatori e degli utenti, legge 30 luglio 1998, n.28).
Nel nostro ordinamento, la tutela degli interessi legittimi è
assicurata, anche da disposizioni costituzionali, con riferimento ai
vizi di legittimità e solo raramente è ammessa con riferimento ai
vizi di merito. Nelle ipotesi in cui non sia prevista una tutela in sede
giurisdizionale o in via amministrativa per i vizi di merito, non si
può affermare che il cittadino, rispetto ai vizi di merito, sia carente di
interesse legittimo: è titolare di un interesse legittimo che però è
privo di una tutela rispetto a quei vizi.

Capitolo 5

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I PRINCIPI COSTITUZIONALI SULLA TUTELA


GIURISDIZIONALE DEL CITTADINO NEI CONFRONTI DELLA
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
1. Quadro generale
La tutela del cittadino nei confronti dell’Amministrazione
rappresenta un profilo nodale per definire la posizione del cittadino
rispetto ai pubblici poteri. Non deve quindi stupire che questa tutela
abbia ricevuto, nel nostro e in altri Paesi, una sanzione
costituzionale. Nel caso della Costituzione italiana, i principi sulla
tutela nei confronti dell’Amministrazione hanno inciso in profondità
sulla giustizia amministrativa, perché hanno imposto trasformazioni
significative. A giudizio di molti, una incidenza di pari livello
dovrebbe essere riconosciuta anche alle disposizioni dei Trattamenti
comunitari e delle altre norme comunitarie. I rapporti fra le
Amministrazioni e i cittadini sono stati al centro di molti interventi
comunitari che hanno avuto riflessi anche sulla tutela
giurisdizionale.
Con riferimento agli istituti processuali, va segnalata l’esistenza di
un’ampia giurisprudenza della Corte di giustizia sulle misure
cautelari nei confronti degli atti amministrativi. La preoccupazione
principale della Corte pare, soprattutto, quella di assicurare che le
modalità di tutela giurisdizionale negli ordinamenti nazionali, siano
adeguate all’esigenza di salvaguardare gli interessi della Comunità
europea. Per capire quali siano i caratteri fondamentali del diritto
del cittadino alla tutela giurisdizionale nei confronti
dell’Amministrazione, l’attenzione principale deve essere diretta
sempre alla Costituzione.
La Costituzione repubblicana intende indirizzare verso
un’Amministrazione, ispirata ai principi democratici e caratterizzata

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dal superamento della tradizionale contrapposizione ed estraneità


del cittadino, rispetto all’Amministrazione. Le principali
disposizioni costituzionali, in questo ambito, possono essere distinte
in disposizioni “sul giudice”, e in particolare sui giudici speciali, in
“disposizioni sull’azione” e disposizioni sull’assetto della
giurisdizione amministrativa.
2. I principi sul giudice
La Costituzione considera come valori essenziali: l’indipendenza,
l’imparzialità e la terzietà del giudice. L’imparzialità e la terzietà del
giudice sono considerate dall’art.111, 2° c., Cost. e ineriscono
direttamente all’esercizio della giurisdizione. Il giudice deve
decidere senza essere condizionato dalle parti (imparzialità) e
restando in una situazione di indifferenza ed equidistanza, rispetto
agli interessi di cui esse siano portatrici (terzietà). Si tratta di principi
che costituiscono uno dei nuclei del c.d. giusto processo (art. 111
Cost.). L’imparzialità e la terzietà vanno assicurate, rispetto
all’organo giurisdizionale nella sua interezza e rispetto ad ogni
singolo componente dell’organo giurisdizionale, che deve essere del
tutto indifferente sul piano personale, rispetto alla vertenza su cui è
tenuto a pronunciarsi.
L’indipendenza del giudice, invece, inerisce alla relazione
dell’organo giurisdizionale con soggetti estranei al rapporto
processuale, che potrebbero influire sulle decisioni: si tratta del
Governo e del potere politico in generale. L’indipendenza da questi
poteri rappresenta una sorta di condizione preliminare, di rilevanza
“ordinamentale”, che precede tutte le altre ed è essenziale per
l’esercizio della funzione giurisdizionale.
Nella Carta costituzionale riceve particolare considerazione
l’indipendenza del giudice ordinario, ma, questa caratteristica è

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essenziale per l’esercizio di ogni funzione giurisdizionale e vale,


pertanto, anche per il giudice amministrativo e per gli altri giudici
speciali. Il principio costituzionale dell’indipendenza del giudice ha
avuto un ruolo fondamentale nell’assetto della giustizia
amministrativa, determinando la soppressione di quasi tutte le
giurisdizioni amministrative speciali, diverse dal Consiglio di Stato
e dalla Corte dei conti. La VI disposizione transitoria e finale della
Costituzione prevedeva la <<revisione>> di queste giurisdizioni
speciali, da effettuarsi entro cinque anni: il termine, però, fu ritenuto
non perentorio, ed esse continuarono ad operare immutate. Verso la
fine degli anni ’60 furono sollevate questioni di legittimità
costituzionale delle disposizioni su questi organi giurisdizionali, in
riferimento al principio di indipendenza del giudice speciale, sancito
dagli artt. 101 e 108 Cost. Furono dichiarate illegittime le
disposizioni sulla composizione dei Consigli di Prefettura, della
Giunta amministrativa provinciale e delle Sezioni per il contenzioso
elettorale.
I giudici amministrativi non sono soggetti al Consiglio superiore
della magistratura, che è organo di autogoverno dei soli magistrati
ordinari. Presso il Consiglio di Stato è istituito un apposito organo di
autogoverno dei giudici amministrativi, il Consiglio di presidenza
della giustizia amministrativa, le cui competenze sono state definite
dalla legge 27 aprile 1982, n. 186. La legge 21 luglio 2000, n. 205 ha
stabilito che, del Consiglio di presidenza facciano parte, oltre al
presidente del consiglio di Stato ed altri giudici amministrativi,
designati dal Consiglio di Stato e dai TAR, anche alcuni cittadini
scelti dalle Camere.

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3. I principi sull’azione: l’art. 24, 1° e 2° comma, e l’art. 111, 2°


comma, Cost.
L’art. 24, 1° comma, Cost(leggere articolo). garantisce il diritto
d’azione, configurando tale diritto, sia con riferimento alla tutela di
diritti soggettivi, che con riferimento alla tutela di diritti soggettivi,
che con riferimento alla tutela di interessi legittimi. Questa garanzia
è estesa e precisata nel 2° comma rispetto al diritto di difesa. In tal
modo, la norma costituzionale ha operato un importante
riconoscimento della rilevanza istituzionale della tutela degli
interessi legittimi, che acquista piena dignità rispetto alla tutela
“necessaria” dei diritti soggettivi. Nello stesso tempo, la norma
costituzionale ha posto una serie di vincoli e di problemi. In
particolare: a) è di rango costituzionale il principio secondo cui la
tutela giurisdizionale nei confronti dell’Amministrazione è articolata
in tutela dei diritti soggettivi e in tutela degli interessi legittimi; b) la
collocazione dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi ha fatto
sorgere la convinzione che la Costituzione sancisse una certa
interpretazione dell’interesse legittimo, da intendersi come posizione
qualificata di carattere sostanziale. Di conseguenza l’interesse
legittimo assurgerebbe al rango di interesse individuale del
cittadino, che lo fa valere. In realtà non sembra che da una posizione
costituzionale, come l’art. 24, 1° c. Cost. si possano desumere
argomenti specifici a favore dell’interpretazione sostanziale
dell’interesse legittimo. La norma afferma il principio della
completezza della tutela e non la natura dell’interesse legittimo.
L’art. 24 Cost., norma-guida per l’assetto della giustizia
amministrativa, è stata la ragione par alcuni interventi significativi
della Corte costituzionale, anche, su singoli atti ( della stessa giust.

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amm.). Tali interventi sono raggruppabili, in considerazione di


alcune questioni generali, di seguito elencate:
1) rilevanza del principio di effettività della tutela giurisdizionale
rispetto alla tutela cautelare. La garanzia del diritto comporta la
possibilità di chiedere al giudice amministrativo misure cautelari,
per evitare che la durata del giudizio produca un danno irreparabile
all’interesse del ricorrente.
Nel caso del procedimento amministrativo, la Corte costituzionale
ha sempre valutato con rigore gli interventi del legislatore che
limitavano la possibilità di una tutela cautelare, affermando la sua
netta preferenza per una interpretazione della legge, che fosse
compatibile con la permanenza della tutela cautelare. Alla stregua di
queste pronunce, le ragioni della tutela cautelare non possono
ritenersi assorbite dalla previsione di riti accelerati per la definizione
del giudizio.
Principi analoghi sono stati affermati dalla Corte costituzionale
anche per il giudizio civile, quando venga impugnato un atto
amministrativo. Non si deve ritenere, però, che il principio della
effettività della tutela giurisdizionale comporti la necessità per il
legislatore di adottare le medesime soluzioni nel processo civile e nel
processo amministrativo(nel potere amministrativo non è ammessa
una tutela cautelare prima del giudizio, nel processo civile si). La
Corte costituzionale ha ritenuto che l’esclusione di una tutela
cautelare “ante causam” non sia illegittima, perché la disciplina
vigente assicura comunque, nel processo amministrativo, una tutela
cautelare sufficientemente tempestiva.
2) rilevanza del principio della effettività della tutela
giurisdizionale nel giudizio in materia di pubblico impiego. In
questa materia la Corte costituzionale ha considerato l’esigenza di

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assicurare per i pubblici dipendenti una tutela equipollente a quella


ammessa, in situazioni analoghe, ai dipendenti con rapporto di
lavoro privato. Già negli anni ’80, la progressiva assimilazione fra i
due ordini di rapporti, aveva reso poco giustificabile, la diversità di
trattamento sul piano dei contenuti della tutela processuale. Di
conseguenza le pronunce della Corte hanno preso in considerazione,
anche l’art. 3 Cost., in riferimento al principio di eguaglianza e al
principio di ragionevolezza.
3) rilevanza giuridica del principio della effettività della tutela
giurisdizionale e limiti alla c.d. giurisdizione condizionata. Con il
termine “giurisdizione condizionata” si intende l’accesso alla tutela
giurisdizionale che risulti subordinata al previo esperimento di un
ricorso in via amministrativa. In questi casi, poiché l’azione
giurisdizionale è ammessa solo dopo la presentazione del ricorso
amministrativo, risulta impossibile adire immediatamente il giudice.
La questione della ammissibilità della giurisdizione condizionata ha,
pertanto, due risvolti: il primo attiene alla subordinazione
dell’azione giurisdizionale ad un adempimento estraneo al processo,
come è il ricorso amministrativo, e il secondo attiene alla esclusione
della immediatezza della tutela giurisdizionale.
La prima giurisprudenza della Corte affermò che la garanzia
costituzionale avrebbe riguardato la “indefettibilità” dell’azione
giurisdizionale e non la sua immediatezza. Inoltre, l’illegittimità era
configurata solo quando l’assoggettamento del ricorso
amministrativo, a termini brevi di decadenza, risultasse
incompatibile con la natura del diritto vantato dal cittadino.
A partire dalla fine degli anni ’80 si è affermato un diverso indirizzo
della Corte costituzionale, che ha considerato con sempre maggiore
severità, le disposizioni che condizionavano l’ammissibilità della

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tutela giurisdizionale, al previo esperimento di un ricorso


amministrativo: nelle pronunce più recenti sulla giurisdizione
condizionata, la Corte sembra considerarla incompatibile con l’art.24
Cost. La Corte, inoltre, non ha ritenuto illegittime le disposizioni che
richiedono l’esperimento di forme di tutela non giurisdizionale, a
pena di mera improcedibilità dell’azione giurisdizionale.
Si tenga presente che, nei casi in cui sia prescritta la presentazione di
un ricorso amministrativo, a pena di improcedibilità e non di
ammissibilità dell’azione giurisdizionale, la necessità di presentare il
ricorso amministrativo non condiziona l’esercizio del diritto di
azione, perchè , il suo mancato esperimento non ne determina la
perdita; tuttavia la necessità del ricorso amministrativo esclude
l’immediatezza della tutela giurisdizionale.
4) rilevanza del principio della effettività della tutela
giurisdizionale e subordinazione della tutela dei diritti soggettivi,
al previo espletamento di un procedimento amministrativo.
Nella legislazione sulle espropriazioni per pubblica utilità era
previsto che la pretesa del cittadino all’indennità potesse essere
azionata in sede giudiziale, solo dopo la determinazione
dell’indennità, in via amministrativa. Di conseguenza, fino al
momento della determinazione dell’indennità, il proprietario
espropriato, pur essendo titolare di un diritto soggettivo, non
avrebbe potuto farlo valere in giudizio. La Corte costituzionale
affermò che queste disposizioni erano incompatibili con l’art. 24, c. 1
Cost., sostenendo che, altrimenti, risulterebbe rimessa <<all’arbitrio
della Pubblica amministrazione, l’esperibilità della tutela
giurisdizionale>>.
5) illegittimità dell’arbitrato obbligatorio

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Il codice di procedura civile, nel disciplinare la devoluzione ad


arbitri di controversie (art. 806 ss.), non pone limitazioni particolari
rispetto alle controversie con una Pubblica amministrazione.
La legge n. 205/2000, nell’estendere la giurisdizione esclusiva, ha
previsto che, anche le controversie su diritti soggettivi, devolute alla
giurisdizione esclusiva, possano essere risolte mediante arbitrato
rituale di diritto (art. 6).
Il c.p.c. prevede che la devoluzione ad arbitri di una controversia
richieda un accordo fra le parti, di natura contrattuale. Alcune leggi
speciali, tuttavia, hanno previsto forme di arbitrato obbligatorie(nel
senso che al privato è precluso il ricorso al giudice ed ammessa una
tutela solo davanti al collegio arbitrale), pur in assenza di un accordo
fra le parti. La Corte costituzionale ha ritenuto illegittime queste
disposizioni; l’esclusione della competenza del giudice può trovare
fondamento solo in una scelta compiuta dalle parti. La previsione di
arbitrato obbligatorio risulta in contrasto con l’art. 24 Cost. che
garantisce l’accesso alla tutela giurisdizionale. Inoltre risulta in
contrasto con l’art. 102 Cost., che riservando al giudice ordinario la
funzione giurisdizionale, esclude implicitamente che con una norma
possono essergli sottratte vertenze di sua propria competenza.
6) necessità di ammettere nel processo amministrativo l’istituto
dell’opposizione di terzo
Nel processo civile è contemplato l’istituto dell’opposizione di terzo
(ordinaria), per salvaguardare il terzo a un suo diritto in
conseguenza di sentenze intervenute senza che lui fosse stato posto
nelle condizioni di partecipare al processo ( art. 404 c.pc.) Un
procedimento analogo non era previsto invece nel procedimento
amministrativo.

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La Corte, nel 1995 ha dichiarato illegittimo l’art. 36, legge TAR, nella
parte in cui contempla l’opposizione di terzo fra i mezzi di
impugnazione delle decisioni del Consiglio di Stato.
Nel 1999, l’art. 111 Cost., veniva modificato, con l’affermazione del
principio del giusto processo. Il nuovo testo, oltre ad esigere la
terzietà e l’imparzialità del giudice, afferma il principio del
contraddittorio, secondo cui non può statuire sulla domanda se la
parte, nei cui confronti è stata proposta, non sia stata regolarmente
evocata in giudizio. In questa prospettiva, il principio del
contraddittorio integra il diritto alla difesa. Di recente, la Corte
costituzionale ne ha fatto applicazione a proposito del giudizio di
ottemperanza. Senza dichiarare l’illegittimità della norma vigente,
ha affermato però che essa deve essere applicata in coerenza con i
principi costituzionali: di conseguenza, se il ricorso per
l’ottemperanza non sia stato già notificato dal ricorrente alla parte
resistente, il giudice amministrativo, d’ufficio, deve disporre la
comunicazione, in modo che la parte resistente possa difendersi
adeguatamente. Il principio del contraddittorio è stato invocato
anche a favore del ricorrente, come elemento del diritto d’azione,
per sostenere, che il cittadino deve essere posto nelle condizioni di
conoscere con pienezza l’attività amministrativa che intende
contestare in giudizio.
Nel processo amministrativo, il principio del contraddittorio è parso
talvolta in conflitto con l’esigenza di rendere più spedito il giudizio.
Per questo motivo, nella legislazione più recente sono stati introdotti
riti speciali : essi dovrebbero consentire la decisione dei ricorsi in
tempi molto stretti, anche prima che siano scaduti i termini ordinari
per lo svolgimento, ad opera delle parti, delle loro attività di difesa.
In particolare, se sia stata proposta un’istanza cautelare, la decisione

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potrebbe intervenire prima che le parti abbiano potuto svolgere


attività, come la presentazione del ricorso incidentale da parte del
controinteressato e la presentazione dei motivi dei motivi aggiunti
da parte del ricorrente, che risultano essenziali per una difesa
efficace. La Corte ha riconosciuto l’importanza della celerità nella
definizione del giudizio, che oggi è sancita dall’art. 111 c. 2° Cost. n
nel riferimento alla <<ragionevole durata>>.
4. I principi sull’azione: l’art.113 Cost.
L’art. 113 Cost. detta una serie di regole che attengono alla tutela del
cittadino nei confronti della Pubbl.Amm. Queste regole sono
espressione del principio secondo cui, che l’Amministrazione sia
parte in causa non può, in alcuna modo, giustificare limitazioni alla
possibilità di tutela giurisdizionale del cittadino, escludendo
qualsiasi forma di privilegio processuale, in favore
dell’Amministrazione.
-L’art. 113, 1° c. Cost. definisce il rapporto fra la garanzia della tutela
giurisdizionale e la posizione della Pubblica Amministrazione. La
norma precisa che la garanzia della tutela giurisdizionale, contro gli
atti dell’Amministrazione, vale sia per i diritti soggettivi che per gli
interessi legittimi. La distribuzione della giurisdizione fra giudice
ordinario e giudice amministrativo deve essere tale da assicurare la
pienezza di tale tutela. La norma costituzionale garantisce
l’indefettibilità della tutela, senza però definire i contenuti. Inoltre,
fino a quando non è stata riconosciuta la possibilità di una tutela
risarcitoria, la possibilità di una tutela risarcitoria per la lesione di
interessi legittimi, la tutela impugnatoria non ammetteva alternative.
-L’art. 113, 2° c. Cost. impedisce di circoscrivere i margini della tutela
giurisdizionale, in relazione alla tipologia degli atti amministrativi
impugnati o alla tipologia dei vizi fatti valere in giudizio.

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La norma ha determinato l’abrogazione delle disposizioni precedenti


che limitavano il ricorso al giudice amministrativo, solo ad alcuni
dei vizi di legittimità. La garanzia si estende, però, solo ai vizi di
legittimità: rimangono escluse, da ogni specifica protezione
costituzionale, le possibilità di sindacato per vizi di merito.
-L’art. 113, c. 3° Cost. rinvia alla <<legge>> per l’individuazione dei
giudici competenti ad annullare gli atti amministrativi e dei
relativi casi ed effetti. La norma esclude che nel nostro ordinamento
valga una riserva costituzionale a favore del giudice amministrativo
del potere di annulla mento degli atti amministrativi: non è stato
“costituzionalizzato” il principio affermato dall’art. 4 della legge di
abolizione del contenzioso amministrativo, sulla preclusione per il
giudice ordinario, di pronunce di annullamento. Di conseguenza
non possono essere ritenute illegittime quelle disposizioni legislative
che conferiscono al giudice ordinario il potere di annullare
provvedimenti amministrativi. D’altra parte la norma, però, esclude
implicitamente che il potere di annullamento degli atti
amministrativi debba ritenersi un corollario necessario di qualsiasi
potestà giurisdizionale, nei confronti dell’Amministrazione, ma non
è sempre garantito che tale sindacato debba risolversi sempre in un
potere di annullamento.
L’art. 21-octies della legge n. 241/1990, stabilisce che la violazione di
norme sul procedimento o sulla forma degli atti, non ne comporta
l’annullabilità. Stabilisce, inoltre, che il provvedimento
amministrativo non è annullabile per violazione delle norme sulla
comunicazione dell’avvio del procedimento.
5. I principi sull’assetto della giurisdizione amministrativa.
La Costituzione (art. 103, 1°c. ) ha sanzionato la regola del riparto di
giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo, dopo

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aver richiamato il ruolo del Consiglio di Stato e di altri organi di


giustizia amministrativa, quali giudici per la tutela nei confronti
della Pubblica Amministrazione, degli interessi legittimi e, in
particolare materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi.
L’art. 103, c. 1° , sancisce la distinzione tra giurisdizione civile e
giurisdizione amministrativa e riconosce la possibilità che
quest’ultima sai estesa anche a vertenze con l’amministrazione, in
tema di diritti soggettivi: è la c.d. giurisdizione esclusiva, ammessa
in particolari materie indicate dalla legge.
L’art. 103, 1° c. richiama, inoltre, nella giurisdizione amministrativa,
la presenza di <<altri organi della giustizia amministrativa>>,
richiamando, così, l’art. 125 Cost. che include un giudice
amministrativo di <<primo grado>>, costituito poi nei TAR. Il
riferimento all’art. 125 Cost. è all’origine della interpretazione
secondo cui il doppio grado di giurisdizione, nel caso del giudice
amministrativo, sarebbe costituzionalizzato.
L’interpretazione dell’art. 125 Cost. sembrò essere accolta dalla Corte
cost., ma successivamente sembra essersi orientata nel senso di una
interpretazione più riduttiva della norma in esame. La Corte cost.,
nel 1998, ha escluso che l’art. 125 Cost. imponesse il principio del
doppio grado: la norma costituzionale imporrebbe solo di
ammettere l’appellabilità della sentenze dei Tar.
Il raccordo tra giurisdizione amministrativa e giurisdizione
ordinaria è assicurato nell’art. 111. c .8°, Cost., dalla previsione che
contro le decisioni della Corte dei Conti e del Consiglio di Stato sia
ammesso il ricorso alla Corte di Cassazione.

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Capitolo 6
LA GIURISDIZIONE ORDINARIA NEI CONFRONTI DELLA
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
1. I criteri per il riparto fra giurisdizione ordinaria e giurisdizione
amministrativa
Con la legge Crispi del 1889, la questione dei limiti della
giurisdizione civile fu affrontata per i rapporti fra sindacato
giurisdizionale e autorità amministrativa: si trattava di stabilire
quale ambito dell’attività amministrativa fosse immune dal
sindacato giurisdizionale. A questo proposito, ebbe particolare
rilievo la tesi della distinzione tra atti di gestione e atti d’imperio.
Questa tesi contrapponeva gli atti posti in essere
dall’Amministrazione, nell’ambito dell’attività di diritto comune,
agli atti posti in essere dall’Amministrazione, nella sua specifica
qualità di soggetto pubblico. Tale tesi fu criticata alla fine del secolo
scorso e successivamente abbandonata.
Dopo la legge del 1889, la previsione di due ordini di giurisdizioni
(per la tutela del cittadino nei confronti dell’Amministrazione) ha
indirizzato l’indagine verso la ricerca di regole certe par il riparto
della competenza fra giudice ordinario e Quarta sezione. Il tema ha
una sua dimensione storica, perché la nozione di “interesse
legittimo” ha acquistato una più precisa consistenza, solo in un
momento successivo. La legge del 1889, infatti, non menzionava
neppure gli interessi legittimi, ma parlava genericamente di
<<interessi>>.
In discussione, non sono stati però, solo, i criteri per definire
l’interesse legittimo, ma la discussione ha riguardato anche il piano
della tutela processuale:

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a) le origini del dibattito vengono ricondotte, tradizionalmente, ad


una sentenza della Cassazione del 1891 e ai successivi interventi di
parte della dottrina, dalla quale fu prospettato il c.d. criterio del
petitum. In base alla elaborazione di questo criterio, il dato peculiare
della giurisdizione amministrativa era rappresentato dal potere di
annullamento degli atti impugnati: nel caso di un provvedimento
lesivo di un diritto soggettivo, si doveva ammettere la possibilità per
il cittadino di ricorrere avanti al giudice amministrativo, per ottenere
l’annullamento dell’atto.
Il criterio in esame comportava la possibilità per il cittadino di far
valere come <<interessi>> i diritti soggettivi. Una volta respinte,
anche in seguito alla legge del 1907, le proposte di fondare la
giurisdizione amministrativa sul potere di annullamento, il criterio
in esame fu definitivamente abbandonato dalla giurisprudenza, a
partire dagli anni ’30. Le critiche formulate nei suoi confronti sono
state principalmente di due ordini: in primo luogo è stato rilevato
che interessi legittimi e diritti soggettivi sono posizioni distinte
“qualitativamente”, in secondo luogo la tesi del petitum finiva con
l’aprire la strada ad una doppia tutela, a scelta del ricorrente, avanti
a ciascuno dei due giudici.
Oggi, l’espressione “doppia tutela” viene richiamata per indicare
alcune ipotesi particolari, in cui, il cittadino, in una stessa situazione
materiale, può agire davanti al giudice ordinario per far valere un
proprio diritto, oppure davanti al giudice amministrativo per far
valere un proprio interesse legittimo (esempio delle vertenze in
materia edilizia).
b) Il rigetto della tesi del petitum induce a valorizzare l’elemento
della causa pretendi : la controversia è del giudice amministrativo, se
è fatto valere un interesse legittimo; invece, è di competenza del

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giudice ordinario, se è fatto valere un diritto soggettivo. A questo


proposito costituisce un termine di confronto la c.d. teoria della
prospettazione, secondo la quale si deve attribuire rilievo decisivo
alla prospettazione della posizione giuridica soggettiva. Se l’attore
allega di essere titolare di un interesse legittimo, la tutela spetta al
giudice amministrativo, se, invece, si presenta come titolare di un
diritto soggettivo, è competente il giudice ordinario. La Cassazione
ha respinto la tesi della prospettazione, fin dal 1897.
c) La tesi accolta dalla Cassazione è stata designata come tesi del
“petitum sostanziale” : ciò che rileva è l’effettiva natura della
posizione giuridica e la sua oggettiva qualificazione come diritto
soggettivo o interesse legittimo. Questa conclusione pone, però,
ulteriori problemi. In primo luogo, la valutazione sulla sussistenza
della giurisdizione si presenta come preliminare, rispetto alla
decisione sul merito, quindi, tale giudizio presenta una certa
astrattezza. In secondo luogo, l’insussistenza di una posizione di
diritto soggettivo comporta, per il giudice ordinario che sia stato
adito, una pronuncia di rigetto della domanda per infondatezza. Il
giudice amministrativo, invece, è solito dichiarare inammissibile il
ricorso e non respingerlo perché infondato. Evidentemente, dunque,
non si è formato un orientamento unitario dei due ordini di giudici,
in merito alla verifica e alla rilevanza della giurisdizione.
2. Il riparto della giurisdizione nelle vertenze risarcitorie per danni
a interessi legittimi
Si è già accennato, come la Corte di Cassazione, con la sentenza della
sezioni unite n.500/1999, avesse finalmente ammesso la risarcibilità
dei danni a interessi legittimi. Poco tempo dopo, la legge n.
205/2000 (art. 7), assegnava al giudice amministrativo la vertenze
per il risarcimento dei danni nel caso di lesione di interessi legittimi.

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Le vertenze per il risarcimento dei danni hanno per oggetto un


diritto soggettivo ( il diritto al risarcimento). Di conseguenza, la loro
assegnazione al giudice amministrativo comporta uno spostamento
nella giurisdizione, rispetto al criterio generale fondato sulla
distinzione di situazioni soggettive.
Nei casi di giurisdizione esclusiva, la competenza del giudice si
estende a tutte le vertenze risarcitorie per la lesione di interessi
legittimi. Dubbi, invece, sono sorti per altri casi; è stato, perciò,
sostenuto che, nei casi in cui la domanda risarcitoria prescinda
dall’impugnazione dell’atto lesivo e il diritto al risarcimento del
danno non abbia carattere <<consequenziale>>, dovrebbe ammettersi
ancora la giurisdizione del giudice ordinario. La giurisprudenza
amministrativa si è espressa, invece, nel senso che tutte le vertenze
risarcitorie per lesione ad interessi legittimi spetterebbero oggi al
giudice amministrativo.
Secondo la Corte cost., l’assegnazione al giudice amministrativo
delle vertenze risarcitorie non violerebbe l’art. 103 Cost., sul riparto
di giurisdizione, ed inoltre, la tutela risarcitoria costituirebbe una
modalità della tutela giurisdizionale, nei confronti della Pubblica
amministrazione.
2. I limiti interni della giurisdizione ordinaria nel processo di
cognizione.
Il tema dei limiti interni della giurisdizione ordinaria coinvolge
l’interpretazione dell’art. 4 della legge di abolizione del contenzioso
amministrativo. Ciò vale, perché, il divieto di revocare o modificare
<<l’atto amministrativo>> è stato interpretato come impossibilità per
il giudice di assumere qualsiasi decisione, che potesse avere
un’incidenza effettiva sull’attività amministrativa. La nozione di
“atto amministrativo” costituisce la linea discriminante per i poteri

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del giudice ordinario nei confronti dell’Amministrazione (in base


all’art. 4 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo).
Una prima interpretazione portava ad identificare tale nozione con
qualsiasi atto dell’Amministrazione posto in essere nell’interesse
pubblico. Questa interpretazione, accolta con favore dalla
Cassazione, comporta una netta riduzione dei poteri del giudice
ordinario, in funzione dell’esigenza di garantire l’interesse pubblico.
Dopo l’entrata in vigore della Costituzione, la tesi esposta poc’anzi
non ha più alcuna ragion d’essere. Oggetto di protezione può essere
solo ciò che, in base alla legge, è soggetto di regime differenziato. La
garanzia può riguardare solo l’atto amministrativo, come
espressione del “potere” dell’Amministrazione; pertanto, là dove
l’Amministrazione non esercita un potere conferitole dalla legge,
non si può ammettere alcuna limitazione ai poteri del giudice. La
garanzia dell’atto amministrativo trova la sua ragion d’essere e la
definizione del suo ambito, nel principio di legalità.
Analogamente, l’atto che, per un grave vizio, risulti inefficace non
può essere considerato espressione di un potere
dell’Amministrazione. Pertanto, il provvedimento che sia “nullo”
non comporta alcun limite a carico del giudice ordinario.
Il limite interno della giurisdizione civile va circoscritto a tutto ciò
che non costituisca espressione di un potere pubblico.
La questione dei limiti interni della giurisdizione civile è stata
affrontata, soprattutto, con riferimento alle tipologie di sentenze che
il giudice ordinario può emettere nei confronti dell’amministrazione.
Si sostiene che, anche nelle vertenze su rapporti di diritto privato,
l’art. 4 (della legge di abolizione del contenzioso) vieterebbe, al
giudice ordinario, non solo di incidere direttamente su atti
amministrativi, o di condannare l’Amministrazione a <<revocare o

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modificare>> propri atti, ma anche di emettere sentenze, per la cui


esecuzione, l’Amministrazione fosse tenuta a svolgere un’attività
amministrativa. In questa logica, le uniche sentenze compatibili con
l’art. 4 cit. sembravano essere le sentenze di mero accertamento e le
sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro. Le prime
erano ammesse perché il loro carattere dichiarativo escludeva che
potessero avere un’efficacia esecutiva; le sentenze di condanna al
pagamento di somme di denaro, invece, perché, si traducono in un
“dare” tipicamente “fungibile” e perché, altrimenti sarebbe stata
esclusa qualsiasi garanzia per il cittadino.
Le altre sentenze di condanna comporterebbero gradi più limitati di
fungibilità fra funzione amministrativa e attività del giudice, perché
la loro esecuzione richiederebbe un esercizio da parte
dell’Amministrazione di un’attività amministrativa qualificata.
In conclusione, il principio affermato dall’art. 4 della legge del 1865
sancirebbe la distinzione fra attività giurisdizionale e attività
amministrativa: ciò che è configurato come attività specifica
dell’Amministrazione non può essere oggetto di interferenze del
giudice, anche se il rapporto dedotto in giudizio inerisce al diritto.
Il confronto di questa interpretazione con i principi costituzionali
ha imposto di ricercare ben altri limiti per i poteri del giudice
ordinario nei confronti dell’Amministrazione.
Questa conclusione risulta particolarmente chiara rispetto all’attività
di diritto privato dell’Amministrazione ( con riferimento, ad
esempio, alle controversie fra i dipendenti dell’Amministrazione,
con rapporto “contrattuale” o “privatizzato” e l’ente pubblico datore
di lavoro).
Non si può, quindi, ammettere più una preclusione generale, per il
giudice ordinario, a pronunciare sentenze costitutive o di condanna

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nei confronti dell’Amministrazione. Il giudice, quand’anche il


cittadino avesse un diritto soggettivo all’emanazione di un
provvedimento, non potrebbe condannare l’Amministrazione ad
emettere il provvedimento richiesto e potrebbe solo emettere
sentenza di condanna al risarcimento dei danni. Per il resto, il
giudice può pronunciare qualsiasi tipo di sentenza nei confronti
dell’Amministrazione e può assumere ogni altra decisione prevista
dalla legge, purché coerente con il diritto fatto valere in giudizio.
L’affermazione di questa logica è avvenuta con difficoltà e riserve ad
opera della giurisprudenza. In particolare, fino a tempi recenti è
stato escluso che il giudice ordinario potesse emettere sentenze
costitutive, ai sensi dell’art. 2932 c.c., nei confronti
dell’Amministrazione, che non desse esecuzione a un contratto
preliminare. Si rilevava che la stipulazione di un contratto definitivo
comporterebbe sempre, per l’Amministrazione, la necessità di
svolgere un procedimento amministrativo, e che il giudice non
poteva sostituirsi all’Amministrazione, rispetto ad esso. Solo di
recente, la Cassazione ha mutato indirizzo, argomentando sulla base
della considerazione che: ogni profilo di discrezionalità
amministrativa, dovrebbe ritenersi esaurito con il contratto
preliminare e che, concludendo tale contratto, l’Amministrazione
avrebbe sancito il proprio pieno assoggettamento al diritto comune.
Ugualmente emblematica è l’evoluzione della giurisprudenza civile
in tema di azioni cautelari o possessorie nei confronti
dell’Amministrazione. Originariamente si tendeva ad escludere
qualsiasi possibilità di esperire tali azioni nei confronti
dell’Amministrazione. Oggi, invece, si sottolinea come l’intervento
del giudice sia precluso solo quando si richieda un provvedimento

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d’urgenza che incida direttamente su un provvedimento


amministrativo o sulla sua esecuzione.
3. La disapplicazione degli atti amministrativi
Al giudice ordinario, la legge di abolizione del contenzioso
amministrativo assegnò la capacità di procedere alla c.d.
disapplicazione. Con l’art. 5 di questa legge sono stati posti solo
alcuni punti fermi:
* la disapplicazione presuppone l’esistenza di una controversia
inerente a un diritto soggettivo
* la valutazione degli atti amministrativi e dei regolamenti, ai fini
della loro disapplicazione, concerne solo la legittimità e non
l’opportunità degli stessi
* attraverso la disapplicazione, il giudice può sindacare la legittimità
dell’atto amministrativo anche d’ufficio, per il solo fatto che l’atto è
un elemento rilevante per la decisione, e senza essere vincolato
all’osservanza di alcun termine particolare.
Così configurata, la disapplicazione si delinea come elemento di un
modello di tutela alternativo, rispetto all’impugnazione del
provvedimento.
L’istituto della disapplicazione è stato utilizzato in due ipotesi: nel
caso di una pretesa di un privato verso l’Amministrazione, che si
fondi su un atto amministrativo, e nella controversia tra privati, in
cui sia rilevante un titolo rappresentato da un atto
amministrativo.La disapplicazione presuppone che l’atto
amministrativo sia rilevante per la decisione e quindi sia produttivo
di effetti da disapplicare perciò non ha senso parlare di
disapplicazione rispetto ad un atto amministrativo inefficace.Di
disapplicazione, ai sensi dell’art. 5, si può trattare quando il giudizio
verta su un rapporto giuridici determinato o condizionato da un

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provvedimento amministrativo: la disapplicazione si riferisce agli


effetti prodotti dall’atto amministrativo e inerenti al rapporto
dedotto in giudizio. Invece, non è corretto invocare la
disapplicazione nel caso di un atto amministrativo “nullo”. Inoltre
non è corretto invocare la disapplicazione, quando un atto
amministrativo rilevi come mera circostanza di fatto.
4. Il giudice ordinario e i procedimenti speciali nei confronti
dell’Amministrazione
Le regole desumibili dagli artt. 4 e 5 della legge di abolizione del
contenzioso amministrativo hanno una portata generale. Si tende ad
escludere, oggi, che l’art. 4 possa precludere al giudice ordinario di
condannare l’Amministrazione a un facere specifico o ad un pati ,
anche con incidenza diretta sull’attuazione di provvedimenti
amministrativi, quando ciò sia richiesto dalla tutela di un diritto
perfetto. In alcuni casi, il legislatore ha disciplinato alcuni giudizi
sulla base di un assetto diverso dei limiti “interni” della
giurisdizione ordinaria nei confronti dell’Amministrazione.
-La tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti dei
provvedimenti con cui siano state applicate sanzioni
amministrative pecuniarie, spetta per legge al giudice ordinario.
In materia di sanzioni amministrative il cittadino può ricorrere,
proponendo opposizione contro l’ordinanza-ingiunzione, mentre,
prima dell’emanazione del provvedimento sanzionatorio è
ammessa, solo, una tutela in via amministrativa, con la
presentazione di difese e documenti (nel procedimento
sanzionatorio).
La peculiarità di questo modello si giustifica con la logica della
depenalizzazione e l’esigenza di assicurare una tutela
giurisdizionale piena. Fatto sta che l’opposizione a sanzione

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amministrativa introduce un giudizio di tipo impugnatorio,


imperniato sulla contestazione di un atto dell’Amministrazione.
- Per gli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori, in condizioni
di degenza ospedaliera, l’art. 35 della legge n. 833/1978, prevede che
il Sindaco disponga l’effettuazione del trattamento; il
provvedimento del Sindaco è immediatamente efficace, ma deve
essere convalidato dal giudice tutelare, entro un termine perentorio
molto breve. Nei confronti del provvedimento convalidato, il
cittadino interessato può ricorrere al Tribunale civile. La tutela spetta
al giudice ordinario, perché, in giudizio vi sono diritti primari di
libertà.
-Nei confronti dei provvedimenti del Prefetto di espulsione de
straniero, la legge 30 luglio 2002, n. 189, prevede che la tutela vada
esperita avanti al giudice ordinario: il ricorso va proposto entro 60
gg. al Tribunale civile ( oggi al giudice di pace). Tuttavia, il quadro
complessivo non appare omogeneo, perché, nell’ipotesi di
espulsione dello straniero, disposta dal Ministro dell’interno, per
motivi di ordina pubblico o di sicurezza dello Stato, il ricorso va
proposto avanti al TAR.
Nel 2004, in seguito alla pronuncia della Corte cost. è stato disposto
che l’esecuzione del provvedimento di accompagnamento dello
straniero alla frontiera (in passato eseguibile a seguito di convalida
del Tribunale) è sospesa fino all’esito del giudizio di convalida ( in
genere di competenza del giudice di pace).
-La decisione del Garante, su un ricorso proposto a tutela dei diritti
di privacy, può essere impugnata dagli interessati, entro 30 gg. dalla
comunicazione, davanti al Tribunale civile. Il giudizio si svolge con
il rito previsto per i procedimenti in Camera di consiglio ed il
Tribunale provvede con decreto, ricorribile solo per Cassazione,

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disponendo ogni misura necessaria per la tutela dei diritti del


cittadino.
6. Le disposizioni processuali particolari per il giudizio in cui sia
parte un’Amministrazione statale.
La circostanza che parte in giudizio sia una Pubblica
Amministrazione non comporta alcuna variazione delle regole del
diritto comune. Unica variazione di rilievo è quella determinata
dalla disciplina dell’Avvocatura dello Stato, nel caso di giudizi in
cui sia parte una Amministrazione statale. L’Avvocatura dello Stato
rappresenta e assiste l’Amministrazione statale, in forza della legge,
senza la necessità di uno specifico mandato ( può compiere, cioè, gli
atti processuali per l’Amministrazione statale, senza necessità di una
procura).
Per i giudizi civili in cui sia parte un’Amministrazione statale, l’art.
25 c. p. c. assegna la competenza territoriale al giudice del luogo ove
ha sede l’Avvocatura dello Stato (c.d. foro erariale). Nelle cause
promosse contro Amministrazioni statali, gli atti introduttivi del
giudizio devono essere notificati all’Amministrazione statale
(Ministero) competente, nella persona del rispettivo Ministro, presso
l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato.
7. Il giudice ordinario e le controversie di lavoro dei dipendenti
delle Amministrazioni
Prima della riforma del 1993 per i dipendenti degli enti pubblici
erano previste due discipline: i dipendenti degli enti pubblici
economici erano soggetti a un rapporto di lavoro di diritto privato,
secondo le regole del codice civile, mentre i dipendenti degli altri
enti pubblici erano soggetti ad un rapporto pubblicistico.
A partire dagli anni ’70, la disciplina del pubblico impiego è stata
oggetto di una profonda revisione. Alla fine di questa evoluzione, il

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d.lgs. n.29/1993 , ha introdotto, su questa disciplina, una riforma


ispirata alla c.d. privatizzazione o contrattualizzazione del rapporto
di pubblico impiego, accolta, da ultimo, nel d.lgs n.165/2001. In base
a queste disposizioni, i rapporti di lavoro dei dipendenti delle
Pubbliche amministrazioni sono regolati, dalle disposizioni del
codice civile, nonché dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato
nell’impresa. Rimangono, tuttavia, regolate dai principi sul
pubblico impiego alcune categorie di dipendenti
dell’Amministrazione statale ( i magistrati ordinari e amministrativi,
gli avvocati dello stato etc.).
Per il personale con rapporto contrattuale, la tutela giurisdizionale è
di competenza del giudice ordinario (giudice del lavoro), secondo la
disciplina del cod.civ. Invece, per il personale con rapporto di
pubblico impiego, le vertenze spettano sempre al giudice
amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva.
La giurisdizione amministrativa è stata conservata per le vertenze
concernenti le procedure di concorso per l’assunzione del personale.
Si tenga presente che, invece, nel caso degli enti pubblici economici,
anche le controversie relative alle procedure concorsuali di
assunzione sono di competenza del giudice ordinario.
La tutela giurisdizionale ,per il personale con rapporto contrattuale,
presenta profili peculiari: la competenza territoriale, per le vertenze
di lavoro, spetta al Tribunale civile nelle cui circoscrizione ha sede
l’ufficio al quale è addetto il dipendente. Non si applica, quindi, la
disciplina del c.d. foro erariale.
Dal punto di vista processuale, nelle controversie di lavoro con
Pubbliche amministrazioni, al giudice ordinario è riconosciuta la
capacità di adottare qualsiasi ordine di pronuncia, di accertamento,
costitutiva o di condanna, richiesta dalla natura dei diritti tutelati.

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La distinzione fra gli atti amministrativi e gli atti di diritto comune si


riflette sui poteri del giudice ordinario: il giudice può incidere
direttamente sugli atti di diritto comune assunti
dall’Amministrazione, anche con pronunce costitutive, mentre nel
caso degli atti amministrativi può solo disapplicare.
L’argomento inerisce al diritto di sostanza. Nel caso dello Stato e
degli enti pubblici istituzionali, vi sono gli atti di organizzazione
previsti dal d.lgs n. 165/2001. Essi sono configurati dalla legge come
espressione di uno specifico potere amministrativo.
Si tenga presente che, invece, un potere amministrativo di
organizzazione sembra escluso per la generalità degli enti pubblici
economici ed è stato espressamente escluso per le aziende sanitarie
locali.
8. L’esecuzione forzata nei confronti dell’Amministrazione
Si devono ritenere esperibili, nei confronti dell’Amministrazione,
tutte le forme di esecuzione forzata previste dal codice civile.
Con riferimento all’espropriazione forzata emergono, però, questioni
peculiari:
- Non tutti i beni dell’Amministrazione possono essere soggetti ad
esecuzione forzata; ciò vale in particolare per i beni demaniali e per
i beni del patrimonio indisponibile. Per tali beni, il codice civile
non stabilisce un regime di incompatibilità con l’espropriazione ma,
dalla regola dell’art. 514 c. p. c. si desume che sono impignorabili i
beni necessari <<per l’adempimento di un pubblico servizio>>.
Si deve perciò concludere che solo i beni del patrimonio disponibile
sono passibili di esecuzione forzata.
- L’esecuzione dei crediti dell’Amministrazione è stata oggetto in
passato di polemiche, non ancora superate. Era esclusa la possibilità
di espropriare crediti di cui l’Amministrazione fosse titolare, in virtù

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di rapporti pubblicistici, ed è questo tuttora l’indirizzo della


giurisprudenza, in tema di crediti per le entrate tributarie. Si tendeva
a limitare la possibilità di espropriazione delle somme già nella
disponibilità dell’Amministrazione e si attribuiva carattere di
infungibilità e rilevanza esterna agli adempimenti contabili imposti
dalla legge all’Amministrazione, per qualsiasi pagamento. Si
affermava che, l’esecuzione era possibile, solo, nei limiti degli
importi che il bilancio dell’Ente pubblico non destinasse a scopi
specifici di interesse generale.
Solo negli anni ’80, la Cassazione ha mutato indirizzo ed ha
riconosciuto che non vi può essere discrezionalità, là dove c’è un
obbligo di adempire ad una condanna di pagamento.
La Cassazione sembra fare eccezione, solo, per quei fondi pubblici,
soggetti ad un particolare vincolo, diverso da quello risultante da un
mero bilancio di spesa e imposto da una legge speciale.
Dopo gli anni ’80, il legislatore ha introdotto nuovi limiti
all’espropriabilità dei beni dell’Amministrazione, precludendo del
tutto l’espropriazione di beni e limitando l’espropriazione dei crediti
alle somme non impegnate dall’Ente per pubblici servizi. Le
innovazioni hanno riguardato i termini per l’adempimento di
sentenze di condanna, introducendo un termine dilatatorio per
l’esecuzione forzata.
- La sentenza del giudice civile può essere eseguita, anche, nelle
forme del giudizio di ottemperanza, davanti al giudice
amministrativo, che può provvedere ad assumere le iniziative
necessarie per eseguire la sentenza. In questo caso il giudice
amministrativo può sostituirsi del tutto all’Amministrazione.

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Capitolo 7
I RICORSI AMMINISTRATIVI
1. Principi generali
Ricorso gerarchico e ricorso straordinario sono gli esempi più
importanti di ricorsi amministrativi. Questi ricorsi sono rimedi
giuridici, diretti ad un’autorità amministrativa, per ottenere da essa
l’annullamento di un provvedimento o la sua riforma (nel caso del
ricorso gerarchico e del ricorso di opposizione).
I ricorsi amministrativi non comportano l’esercizio di una funzione
giurisdizionale; i caratteri, la forma e l’efficacia della decisione sono
quelli propri dell’atto amministrativo. Sono strumenti di tutela di
interessi qualificati e, quindi, di interessi legittimi o diritti soggettivi.
Ciò comporta una legittimazione limitata per la presentazione del
ricorso: rimangono estranei dalla protezione i c.d. interessi semplici
o di fatto.
Vige, inoltre, un principio dispositivo: l’annullamento dell’atto
illegittimo non può essere subordinato a valutazioni discrezionali, di
opportunità, che non trovino riscontro nei motivi del ricorso(la
legittimazione spetta soltanto a chi faccia valere un diritto soggettivo
o un interesse legittimo): ciò consente di distinguere i ricorsi
amministrativi dalle denunce che qualsiasi cittadino può presentare
contro atti illegittimi, ma che possono solo sollecitare l’esercizio di
poteri di annullamento d’ufficio.
Nel nostro ordinamento, sono previste varie tipologie di ricorsi
amministrativi: la loro disciplina generale è contenuta nel d.lgs. 24
novembre 1971, n.1199. In questo decreto sono contemplate quattro
tipologie di ricorsi: gerarchico – improprio – di opposizione –
straordinario. Fra di essi, hanno carattere di rimedi generali (per i
quali non è richiesta una disposizione specifica che li ammetta) : il

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ricorso gerarchico, (ammesso sempre in presenza di una relazione


gerarchica fra organi) e il ricorso straordinario (ammesso nei
confronti di provvedimenti definitivi).li altri 2 ricorsi hanno carattere
di rimedi tassativi perché sono esperibili solo quando siano
espressamente previsti da una specifica disposizione. Sulla base dei
caratteri e della disciplina dei ricorsi amministrativi, tali ricorsi
vengono variamente classificati:
a) distinzione fra ricorsi ordinari e ricorso straordinario.
I ricorsi ordinari(ricorso gerarchico e in opposizione) sono ammessi
solo nei confronti di un provvedimento non definitivo. Con questo
termine si intendeva, in origine, l’atto emesso dall’organo collocato
al vertice della struttura gerarchica di un’Amministrazione. Fino alla
istituzione dei TAR, il cittadino per ricorrere al giudice
amministrativo aveva l’onere di esperire previamente i ricorsi
amministrativi ordinari, proponendoli in più gradi, fino ad ottenere
un provvedimento definitivo. Con il d.p.r. n. 1199/1971 è stata
introdotta la regola, secondo cui, il ricorso ordinario è ammesso in
un unico grado : di conseguenza, se l’atto amministrativo da
impugnare non è già di per sé definitivo, la definitività si consegue,
dopo aver esperito solo un grado di ricorso amministrativo.
Il ricorso straordinario, invece, è ammesso solo nei confronti di
provvedimenti definitivi.
Per valutare la rilevanza che la distinzione fra ricorsi ordinari e
ricorso straordinario assume oggi, si consideri che:
-nei confronti dei provvedimenti non definitivi lesivi di interessi
legittimi, sono ammessi sia il ricorso al giudice amministrativo che il
ricorso al giudice ordinario;

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-nei confronti dei provvedimenti definiti lesivi di interessi


legittimi, sono ammessi sia il ricorso al giudice amministrativo che il
ricorso straordinario;
-il ricorso al giudice amministrativo può essere esperito sia nei
confronti di un provvedimento definitivo, che nei confronti di un
provvedimento non definitivo;
-nei confronti dei provvedimenti lesivi di diritti soggettivi, il
ricorso amministrativo ordinario di regola è facoltativo ad eccezione
dei casi di giurisdizione condizionata.
b) distinzione fra rimedi rinnovatori e rimedi eliminatori.
Alcuni ricorsi amministrativi possono comportare solo
“l’eliminazione” (l’annullamento) del provvedimento impugnato.
L’eliminazione del provvedimento impugnato, fa salva, pertanto, la
possibilità di ulteriori provvedimenti amministrativi sulla medesima
pratica, provvedimenti che attengono all’esercizio di funzioni di
amministrazione attiva.
Altri ricorsi amministrativi comportano, invece, la devoluzione
dell’intera pratica all’organo competente di decidere il ricorso: tale
organo, se così viene richiesto nel ricorso, non solo può “eliminare”
l’atto impugnato, ma può anche modificarlo o sostituirlo con un
altro.
Nel caso dei ricorsi “rinnovatori” la decisione assorbe in sé, oltre alle
valutazioni sull’atto impugnato, anche il riesame della pratica: col
ricorso si avvia un procedimento che comporta, oltre
all’eliminazione dell’atto, anche la sua sostituzione con un altro
(<<riforma>>). Di regola, sono innovatori i ricorsi diretti ad un
organo che è anche di per sé competente a provvedere sulla pratica
in questione e che quindi è titolare sia della funzione giustiziale, sia
della funzione di amministrazione attiva in quanto non comporta

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necessariamente la conclusione della pratica inerente all’atto


impugnato.
Sono sempre rimedi innovatori il ricorso gerarchico proprio e il
ricorso in opposizione. E’ eliminatorio il ricorso straordinario perché
all’organo competente è attribuito solo il potere di decidere il
ricorso.
b) distinzione fra ricorsi ammessi solo per vizi di legittimità e
ricorsi ammessi anche per vizi di merito
L’utilità del ricorso non è circoscritta ai soli vizi di legittimità.
Il ricorso gerarchico assume rilievo nuovo, nell’organizzazione
amministrativa: non è più riflesso dei poteri riconosciuti al superiore
gerarchico, ma esso è strumento per introdurre un potere di
ingerenza dell’organo superiore, rispetto all’operato dell’organo di
primo grado.
Il ricorso straordinario è, invece, rimedio ammesso solo per vizi di
legittimità. Questa limitazione, oggi, ha assunto carattere di
necessarietà, perché, un sistema amministrativo fondato sulle
ragioni delle autonomie e del decentramento, sarebbe incompatibile
con un sindacato generale di merito esercitato dall’Amministrazione
statale nei confronti di Amministrazioni diverse.
Tutti i ricorsi amministrativi hanno carattere di “rimedi formali” :
sono assoggettati a modalità particolari di presentazione e a termini
tassativi di proposizione. La violazione di queste regole preclude la
stessa configurabilità dell’impugnativa come ricorso e la
contestazione della legittimità dell’atto impugnato, varrebbe come
semplice esposto.
Nello stesso tempo, i ricorsi amministrativi non sono soggetti a
forme o istituti specifici dei mezzi di tutela giurisdizionale. Di

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conseguenza, per esempio, per la loro presentazione non è


necessaria la rappresentanza o l’assistenza di un avvocato.
2. Il ricorso gerarchico: procedimento e decisione
In base al d.p.r. n. 1189/1971, il ricorso deve essere diretto
all’organo gerarchicamente sovraordinato a quello che ha emanato
l’atto impugnato e va proposto entro 30gg. dalla notificazione, o
comunicazione, o pubblicazione o piena conoscenza dell’atto da
impugnare. Entro questo termine, il ricorso deve essere trasmesso o
all’organo cui è diretto, o all’organo che ha emesso l’atto
impugnato.La presentazione può essere effettuata anche a mezzo
postale e la data della raccomandata vale come data della
presentazione.
Il ricorso erroneamente rivolto ad un organo diverso da quello
competente, non è irricevibile: l’organo che lo ha ricevuto provvede
d’ufficio a trasmetterlo all’organo competente (art. 2).
Anche il ricorso gerarchico non sospende l’efficacia del
provvedimento impugnato: <<per giusti motivi>> l’organo
competente per la decisione del ricorso può sospendere, anche
d’ufficio, l’esecuzione (art. 3). Dopo aver acquisito le eventuali
deduzioni dei controinteressati e aver effettuato gli adempimenti
istruttori che ritiene opportuni (art. 4), l’organo competente decide il
ricorso, esercitando nel caso di accoglimento, anche poteri
rinnovatori (art. 5).
a)individuazione del soggetto cui è rivolto il ricorso gerarchico
Il ricorso gerarchico è ammesso in unico grado all’organo
gerarchicamente sovraordinato rispetto a quello che ha emanato
l’atto impugnato, cioè il ricorso va diretto all’organo
immediatamente sovraordinato rispetto a quello di prmo grado.Il
ricorso gerarchico ha ormai il carattere di rimedio aggiuntivo,

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previsto a tutela del cittadino più che a tutela di esigenze


dell’amministrazione.La relazione di gerarchia che rileva ai fini
dell’ammissibilità del ricorso gerarchico è solo quella di ordine
esterno(cioè gerarchia fra organi) e non la gerarchia interna(cioè tra
gradi).
b)tutela del contraddittorio ( art. 4, 1° e 2° c., d.p.r. 1199/1971)
Il ricorrente non è tenuto a dare notizia del ricorso, né all’organo che
ha emesso l’atto di primo grado, né ai c.d. controinteressati. Rispetto
all’organo di primo grado non è prevista alcuna forma di
contraddittorio: nel ricorso gerarchico l’interesse istituzionale
dell’Amministrazione è già garantita dal fatto che il ricorso sia
diretto all’organo sovraordinato a quello che ha emanato l’atto
impugnato. Per quanto riguarda i controinteressati, l’art. 4 impone,
all’organo adito con il ricorso, di comunicarlo ai controineteressati
stessi, per consentire loro di presentare <<deduzioni (memorie scritte)
e documenti>>.
Nel ricorso gerarchico non vi è garanzia piena del contraddittorio e
non è prevista alcuna forma di tutela del diritto alla difesa, nel caso
di espletamento di adempimenti istruttori.
c)istruttoria (art. 4, c. 3°, d.p.r. n. 1199/1971)
Il contenuto dei mezzi istruttori non è definito dalla norma, pertanto,
restano fermi tutti i limiti generali posti all’Amministrazione per
l’esercizio dei suoi poteri istruttori. In particolare non sono ammessi
i mezzi istruttori che incidano su diritti costituzionalmente garantiti,
né mezzi istruttori che producano effetti sulla decisione,
incompatibili con i principi sul procedimento amministrativo.
Fermi restando questi limiti, si ritiene che l’Amministrazione possa
disporre ogni mezzo istruttorio opportuno, purchè, sia congruente
con le questioni sollevate nel ricorso.Sulle parti non grava nessun

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onere della prova e perciò la verifica dei fatti segnalati dalle parti è a
carico esclusivo dell’amministrazione(non sono ammessi fatti nuovi)
d)decisione (art. 5, d.p.r. n.1199/1971)
Si individuano, con questo articolo, i contenuti possibili della
decisione del ricorso gerarchico. Tali contenuti riflettono: la
distinzione generale fra decisioni di rito (rispetto alle quali è
assorbente una questione attinente alle condizioni di ammissibilità
del ricorso) e decisioni di merito (sulla fondatezza o meno dei
motivi del ricorso).
La formulazione dell’art. 5, consente di ritenere superata una
discussione, che in precedenza aveva suscitato molte incertezze, sul
rapporto fra poteri decisori e poteri di amministrazione attiva
dell’organo competente. L’articolo, pur elencando i contenuti
possibili della decisione del ricorso, non contempla l’esercizio di
poteri di amministrazione attiva. Ciò non significa, però, che
l’organo adito con il ricorso sia privato di tali poteri : essi rimangono
fermi e possono senz’altro essere esercitati, ma deve essere
assicurata una chiara distinzione fra poteri di amministrazione attiva
e poteri di decisione del ricorso.
e)rapporti con il ricorso giurisdizionale (art. 20, 2° c., legge TAR)
Se nei confronti dello stesso atto venga proposto, dal medesimo
cittadino, sia il ricorso gerarchico che quello giurisdizionale, secondo
la giurisprudenza, prevarrebbe sempre il ricorso giurisdizionale, con
la conseguenza che il ricorso gerarchico, se proposto per primo,
diventerebbe improcedibile, ovvero, se proposto dopo quello
giurisdizionale, sarebbe inammissibile.
L’incompatibilità dei due rimedi (gerarchico e giurisdizionale)
emerge con riferimento al caso di un atto che leda gli interessi
legittimi di più cittadini. Questa impostazione non sembra

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considerare l’ipotesi della contemporanea pendenza dei due ricorsi,


quando essi però abbiano contenuti diversi.
f)rimedi ammessi contro la decisione del ricorso gerarchico (art. 20,
2° c., legge TAR)
La decisione del ricorso gerarchico costituisce un provvedimento
definitivo. Essa, pertanto, è impugnabile con ricorso straordinario
oppure, se lede interessi legittimi, anche con ricorso al giudice
amministrativo. L’impugnazione della decisione segue le regole
ordinarie. La dottrine prevalente sottolinea gli elementi di diversità
fra la tutela in via gerarchica e quella in via giurisdizionale.
Se viene accolta in sede giurisdizionale l’impugnazione di una
decisione di rigetto di un ricorso gerarchico, il giudice dovrebbe
emettere una sentenza di annullamento “con rinvio” e restituire gli
atti all’autorità adita con ricorso gerarchico ( se il ricorso sia stato
accolto per motivi di forma o di procedura della decisione
amministrativa). Questa interpretazione appare ispirata ad una sorta
di confusione fra i due rimedi, più che alla necessaria distinzione fra
i caratteri e le modalità di essi.
3. Il ricorso gerarchico: il problema del “silenzio”
Uno dei temi centrali per lo studio dei ricorsi gerarchici è costituito
del tema del c.d. “silenzio”. Carattere essenziale dei ricorsi
amministrativi è la costituzione di un dovere di provvedere:
bisogna, però, capire cosa si verifichi quando l’amministrazione non
decida un ricorso. Questa situazione è considerata dall’art. 6 del
d.p.r. 1199/1971 e dall’art. 20 della legge TAR.
Da queste disposizioni si desume la fissazione di un termine di 90
gg., perché l’Amministrazione decida il ricorso gerarchico. Quali
effetti produca, però, la scadenza del termine è oggetto tuttora di
ampie discussioni.

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La prima giurisprudenza della Quarta sezione prospettò la


conclusione che il silenzio mantenuto su un ricorso gerarchico non
precludesse la possibilità di proporre il ricorso giurisdizionale. In
una pronuncia del 1902, la Quarta sezione affermò che il ricorso
doveva ritenersi ammissibile, anche nel caso in cui
l’Amministrazione competente, benché diffidata, non avesse preso
in esame il ricorso gerarchico del cittadino(nel silenzio doveva
individuarsi una decisone di tigetto da qui il termine silenzio-
rigetto).
Oggi, questo modo di ragionare non viene più condiviso, perchè
l’Amministrazione che tace su un ricorso non assume alcuna
determinazione, e perciò nel “silenzio” dell’autorità adita con un
ricorso gerarchico, non si può identificare alcun atto.
Il superamento, a partire dagli anni ’60, dell’interpretazione
tradizionale del “silenzio rigetto”, come decisione “tacita” di rigetto
del ricorso gerarchico, ha condotto in un primo tempo ad
elaborazioni diverse, soprattutto, ad opera del Consiglio di Stato.
Dopo la riforme del 1971 emergevano posizioni molto eterogenee.
Nel 1978 l’Adunanza plenaria riprendeva in esame al questione, alla
luce delle due disposizioni citate e prospettava le seguenti
conclusioni: a) nel silenzio mantenuto su un ricorso gerarchico non è
identificabile un provvedimento di rigetto, per la legge si limita ad
attribuire valore di rigetto alla decorrenza del termine;b) in ogni
caso, una volta formulato il silenzio-rigetto, il ricorso giurisdizionale
si può proporre solo contro l’atto di primo grado, già impugnato in
via gerarchica c) la decorrenza del termine ha <<valore>>
equipollente ad una decisione di rigetto ed ogni eventuale decisione
successiva di accoglimento del ricorso deve ritenersi illegittima d)la
decisione successiva di rigetto esplicito del ricorso deve ritenersi

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improduttiva di effetti giuridici nuovi e, quindi, deve considerarsi


come atto meramente “confermativo”.
Nel 1989, il tema è stato nuovamente preso in esame dall’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato, in due decisioni che hanno
comportato una significativa revisione dell’indirizzo precedente. Si
sostiene, ora, che la formazione del silenzio-rigetto non privi
l’Amministrazione, del potere di decidere il ricorso gerarchico, ma
consenta al ricorrente di scegliere fra la possibilità di un ricorso
giurisdizionale o straordinario, contro l’atto impugnato in via
gerarchica e la possibilità di attendere la decisione del ricorso
gerarchico. In questo secondo caso, alla scadenza del termine di 90
gg. corrisponde una situazione affine a quella del silenzio-rifiuto: il
cittadino, se l’Amministrazione tarda a decidere, può notificare una
diffida e poi tutelarsi, come nei confronti di un silenzio-rifiuto.
Per alcuni profili, le due decisioni del 1989 non sono riuscite, invece,
ad esprimere soluzioni coincidenti.
4. Il ricorso gerarchico improprio e il ricorso in opposizione
Il ricorso gerarchico improprio e il ricorso in opposizione sono
rimedi eccezionali: la loro esperibilità presuppone una specifica
previsione normativa.
Tali ricorsi sono entrambi modellati sul ricorso gerarchico; quello
improprio si caratterizza per essere diretto ad un organo non
gerarchicamente sovraordinato a quello che ha emanato l’atto
impugnato; quello in opposizione è diretto allo stesso organo che
ha emanato l’atto impugnato.
Un ricorso gerarchico improprio è rimedio previsto in alcune
materie particolari (impiego scolastico, ordinamenti professionali
etc.), in ipotesi nelle quali l’atto da impugnare sarebbe stato, già di
per sé, definitivo.

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Sembra logico affermare che il ricorso gerarchico improprio,


risolvendosi in una forma di sindacato puntuale su un atto, debba
essere ammesso solo nell’ambito di una identica Amministrazione, o
nell’ambito di Amministrazioni riconducibili ad Enti diversi, legati
però da rapporti funzionali e non nell’ambito di Amministrazioni
diverse, caratterizzate reciprocamente da posizioni di autonomia
costituzionalmente garantite.
Questa impostazione non è accolta, però, dal Consiglio di Stato, che
in sostanza tende a considerare possibile il ricorso gerarchico
improprio ad un’autorità statale, anche nei confronti di un atto
regionale.
Il ricorso in opposizione rappresenta uno strumento di limitata
utilizzazione, previsto in ipotesi particolari, che ricorrono
soprattutto nel pubblico impiego. Anche in questo caso il ricorso dà
inizio ad un procedimento contenzioso, di secondo grado, cosicché
sembra possibile che, anche per il ricorso in opposizione, resterebbe
ferma la distinzione fra elementi rilevanti per la decisione ed
elementi che possono essere presi in considerazione, solo, alla luce di
una funzione distinta.
5. Il ricorso straordinario
Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica si caratterizza
per l’attuazione più puntuale della garanzia del contraddittorio e,
soprattutto, per l’introduzione di uno strumento specifico di
garanzia, rappresentato dal parere del Consiglio di Stato. Solo una
deliberazione del Consiglio dei ministri può consentire una
decisione difforme . Queste circostanze e la previsione di un termine,
per la presentazione del ricorso (120 gg.), avrebbero potuto
assegnare, al ricorso in esame, un rilievo significativo per la tutela
del cittadino, nei confronti dell’Amministrazione. Invece, questo

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rimedio ha avuto un ruolo pratico marginale, soprattutto, a causa


dei ritardi dei Ministeri, nell’istruzione dei ricorsi.
Il ricorso straordinario è proposto contro provvedimenti definitivi,
in relazione, solo, a censure di legittimità, per l’annullamento
dell’atto impugnato.Il termine per il ricorso è di 120 g. dalla
notificazione, pubblicazione o dalla formazione del silenzio-
rigetto.Entro tale termine il ricorso straordinario deve essere
notificato ad almeno uno dei controinteressati e presentato
all’autorità amm. Che ha emanato l’atto impugnato o al ministero
competente per materia.
I controinteressati, entro 60 gg. dalla notifica del ricorso, possono
presentare <<deduzioni e documenti>> ed eventualmente un ricorso
incidentale col quale possono contestare la legittimità del
provvedimento impugnato.
Su richiesta del ricorrente, il Ministro adito può sospendere, in via
cautelare, l’atto impugnato,previo parere conforme del Consiglio di
Stato. Una volta presentato il ricorso ed integrato il contraddittorio,
il Ministero competente deve procedere all’istruzione del ricorso;
dopo di che , il ricorso deve essere trasmesso al Consiglio di Stato
per il parere che viene emesso da una sentenza consultiva o da
commissioni speciali ad hoc. L’istruttoria dovrebbe essere
completata nei 120 gg. successivi al termine per le deduzioni dei
controineressati; scaduto inutilmente tale termine, è consentito al
ricorrente procedere all’interpello del Ministero e depositare,
direttamente, il ricorso al Consiglio di Stato, per il parere prescritto.
Il Consiglio di Stato esprime il suo parere, sulla base del quale, il
Ministro formula la decisione, nei termini di una sua proposta di
decreto al Presidente della Repubblica. Se il Ministro intende
discostarsi dal parere del consiglio di Stato, deve sottoporre la

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questione al consiglio dei Ministri. La decisione del ricorso


straordinario è assunta con le forme del decreto del Presidente della
Repubblica di cui il ministro proponente assume ogni
responsabilità.Il controllo della Corte dei conti su questo decreto è
ammesso solo nel caso che il decreto sia stato assunto sulla delibera
del consiglio dei Ministri.La decisione del ricorso è impugnabile per
revocazione, con ricorso da proporre nelle stesse forme del ricorso
straordinario e anche l’impugnazione in sede giurisdizionale.
La garanzia del contraddittorio nei confronti dei controinteressarti
riflette l’esigenza di tutelare il diritto alla difesa.
La legge, invece, non prevede nulla del genere per
l’Amministrazione che abbia emanato l’atto impugnato,
evidentemente sul presupposto che l’attribuzione ad un’autorità
amministrativa del potere di decidere il ricorso assicurasse, già di
per sé, la garanzia degli interessi complessivi dell’Amministrazione.
La Corte costituzionale ha respinto questa logica, affermando che le
stesse garanzie previste per i contointeressati devono valere per
l’Amministrazione non statale che abbia assunto il provvedimento
impugnato con il ricorso straordinario.
L’intervento della Corte cost. implica il superamento di una
concezione monolitica dell’Amministrazione pubblica e il
riconoscimento di un sistema di pluralismo amministrativo : il
Ministro e il Governo, nella decisione del ricorso straordinario, non
rappresentano l’Amministrazione nel suo complesso.
Il profilo peculiare della disciplina del ricorso straordinario è
costituito dalla sua alternatività con il ricorso al giudice
amministrativo: non solo i due rimedi non possono essere proposti
contro il medesimo atto, ma non vale neppure un criterio di
preferenza per il ricorso giurisdizionale e la presentazione del

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ricorso straordinario preclude quello giurisdizionale. Quest’ultima


possibilità comporterebbe, infatti, l’ammissibilità del ricorso al
giudice amministrativo, proposto contro il medesimo atto
impugnato in via straordinaria. La preclusione della tutela
giurisdizionale non lede i diritti costituzionali del ricorrente, perché,
è riconducibile ad una sua scelta, quella di agire in via straordinaria.
Potrebbe ledere, però, i diritti dei controinteressati, che sarebbero
assoggettati alla scelta del ricorrente, di ottenere una decisione in
sede straordinaria e in base al principio di alternatività non
potrebbero ottenere sul medesimo provvedimento una decisione
giurisdizionale.
Per evitare questa conseguenza, il d.p.r. n. 1199/1971 contempla
l’istituto dell’<<opposizione>> dei controinteressati: essi, entro 60 gg.
dalla notifica del ricorso straordinario, possono chiedere che il
ricorso sia deciso in sede giurisdizionale e il ricorrente, se vuole
insistere nell’impugnazione, può proporre il ricorso avanti al giudice
amministrativo.
L’impugnazione della decisione del ricorso straordinario, avanti al
giudice amministrativo (TAR), è ammessa solo per <<vizi di forma o
di procedimento>> . Concretamente, tali vizi possono riguardare solo
fasi del procedimento, successive al parere del Consiglio di Stato.

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Capitolo 8
QUADRO GENERALE DELLA GIURISDIZIONE
AMMINISTRATIVA
1. Premessa
Il ricorso al giudice amministrativo fu configurato innanzi tutto
come mezzo d’impugnazione dell’atto amministrativo. La
disciplina legislativa del processo amministrativo riflette, ancora
oggi, questa concezione originaria.
Il ricorso al Consiglio di Stato ha assicurato le garanzia dell’interesse
legittimo. D’altra parte, agli organi della giurisdizione
amministrativa (ossia ai TAR e al Consiglio di Stato) la Costituzione
assegna proprio la tutela degli interessi legittimi nei confronti della
Pubblica amministrazione. Di conseguenza, la tutela degli interessi
legittimi è devoluta al giudice amministrativo, anche quando non sia
possibile l’impugnazione di un provvedimento amministrativo: si
pensi alla tutela rispetto al silenzio dell’Amministrazione.
Queste considerazioni comportano la necessità di un adeguamento
del quadro normativo al ruolo primario di garanzia degli interessi
legittimi, riconosciuto anche dalla Costituzione al giudice
amministrativo.
Un ulteriore elemento di complessità, per valutare il quadro
generale del giudizio amministrativo, è rappresentato dalla
giurisdizione esclusiva. In questa ipotesi, il Consiglio di Stato, alla
fine degli anni ’30, ha ammesso che il ricorso al giudice
amministrativo non sia subordinato all’impugnazione di un
provvedimento: il cittadino può far valere il suo diritto
all’adempimento di un’obbligazione. L’impugnazione di un
provvedimento non rappresenta, quindi, una condizione necessaria
per la giurisdizione esclusiva. Il giudizio deve potersi svolgere in

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forme adeguate anche per la garanzia del diritto soggettivo. La


giurisprudenza ha ammesso, a tal proposito, per esempio, un
accertamento del diritto, non soggetta ai termini di decadenza
previsti per l’impugnazione di provvedimenti.
Inoltre, uno dei principali obiettivi della legge n. 205/2000 è stata
l’introduzione di modalità di tutela più congrue per i diritti, non più
condizionate dal modello impugnatorio.
Molti autori hanno proposto di individuare, anziché un processo
amministrativo unitario, una serie di modelli distinti. A ciascuno di
questi modelli corrisponderebbe una disciplina propria,
particolarmente per gli elementi di identificazione della domanda,
per i contenuti della sentenza, per i limiti del giudicato, e quindi per
quei profili che vengono sintetizzati nel c.d. oggetto del giudizio.
Frequentemente è sottolineata la contrapposizione fra giudizio che
verte sull’impugnazione (c.d. giudizio su atti) e un giudizio che
verte sulla fondatezza di una pretesa, in tutto o in parte, autonoma
da essi (c.d. giudizio su rapporti). La generalizzazione del secondo
modello viene da molti auspicata, per conferire maggiore incisività
all’azione giurisprudenziale nei confronti dell’Amministrazione. Ciò
non significa, però, che al giudice sia preclusa la cognizione della
pretesa sostanziale del cittadino.
Una distinzione più netta si riscontra, solo, nei casi in cui il giudice
esaurisce la sua funzione giurisdizionale con l’annullamento del
provvedimento e tale annullamento non esclude un nuovo esercizio
dell’attività amministrativa.
Non si dimentichi, infine, che il processo amministrativo è
assoggettato anche a tutta una serie di regole comuni, che
consentono ancora oggi un’analisi unitaria dello svolgimento del
processo amministrativo.

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2. Le classificazioni generali: giurisdizione di legittimità e


giurisdizione estesa al merito
Nel processo amministrativo, la prima distinzione generale ha
riguardato le ipotesi corrispondenti alla c.d. giurisdizione di merito.
Queste ipotesi sono costituite da alcuni ordini di controversie (che
sono tassative, aventi il carattere dell’eccezionalità e sono passibili di
interpetrazione analogica), in genere, definite in relazione
all’impugnazione di determinati atti.
Fra le più importanti ipotesi di giurisdizione di merito vi sono:
-i ricorsi per l’esecuzione del giudicato del giudice civile o del
giudice amministrativo
-i ricorsi contro le ordinanze contingibili ed urgenti del Sindaco e i
ricorsi contro provvedimenti emanati al Sindaco in materia di igiene
dell’abitato
-i ricorsi contro gli ordini di riduzione in pristino, emanati dal
Prefetto
-i ricorsi contro i provvedimenti per la c.d. censura cinematografica.
La disciplina positiva della giurisdizione di merito prevede
l’attribuzione al giudice amministrativo di alcuni poteri aggiuntivi,
per la cognizione e la decisione della controversia.Il giudice
amministrativo può utilizzare testimonianze, ispezioni.
In sostanza, può utilizzare i mezzi istruttori previsti dal codice di
procedura civile.Per la giurisdizione di legittimità il giudice
amministrativo può soltanto annullare l’atto impugnato. Il giudice
amministrativo può, anche, <<riformare l’atto o sostituirlo>> (art.
26 legge TAR) e, quindi, introdurre le modifiche necessarie per
rendere il contenuto dell’atto immune da vizi riscontrati.
La distinzione tra le due ipotesi di giurisdizione è mantenuta dalla
disciplina vigente (artt. 26 e 27 t.u. Cons. Stato; art.7 legge TAR),

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tuttavia, le caratteristiche della giurisdizione di merito non risultano


ancora chiare e sono riconducibili a due concezioni diverse.
a) Secondo l’interpretazione più tradizionale, la giurisdizione di
merito si caratterizzerebbe per il fatto che, l’impugnazione del
provvedimento amministrativo sarebbe ammessa, oltre che per vizi
di legittimità, anche per vizi di merito. Il giudice amministrativo,
ove richiesto dal ricorrente, potrebbe effettuare tutte le valutazioni
utili per stabilire se l’attività amministrativa si sia realizzata non solo
in modo legittimo, ma anche in modo opportuno, efficace,
economico, adeguato etc.
Ne consegue che la discrezionalità amministrativa potrebbe essere
oggetto di un sindacato pieno del giudice.
Questa interpretazione è stata oggetto di alcune critiche, che hanno
riguardato,da un lato la possibilità di ricondurre alla giurisdizione di
merito le varie ipotesi contemplate dall’art. 27 t.u. Cons. Stato,
dall’altro la congruenza generale del sistema così delineato, rispetto
alla distinzione fondamentale e istituzionale fra “Amministrazione”e
“giudice amministrativo”. Se infatti si ritiene che alla base della
discrezionalità amministrativa possa essere anche una valutazione di
ordine politico, risulta problematico ammettere, in casi del genere,
un sindacato pieno del giudice.
b) Queste perplessità, rispetto all’interpretazione tradizionale, sono
all’origine di un’interpretazione diversa, che esclude che il giudice
amministrativo possa conoscere e decidere su vizi diversi da quelli
di legittimità. Tipici della giurisprudenza di merito sarebbero:
l’attribuzione al giudice di un potere di cognizione più ampio sui
fatti e di un potere di decisione più esteso, riconducibili, però, pur
sempre al sindacato sui vizi di legittimità.

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Nella logica di questa interpretazione, anche il potere di <<riformare


l’atto o sostituirlo>> non implicherebbe un sindacato esteso ai vizi di
merito, ma significherebbe solo che il giudice avrebbe oltre al
potere4 di annullare l’atto anche il potere di introdurre nell’atto le
modifiche conseguenti all’accertamento di vizi di legittimità.
c) Rispetto a queste due letture divergenti, la giurisprudenza non ha
avuto frequentemente occasione di prendere posizione, se si esclude
il giudizio di ottemperanza. Con riferimento a questo giudizio, il
Consiglio di Stato ha sostenuto che il giudice amministrativo
potrebbe sostituirsi direttamente e pienamente all’Amministrazione,
senza trovare alcun ostacolo nell’esistenza di poteri discrezionali o
di valutazione tecnica, riconosciuti dalla legge all’Amministrazione.
d) Nell’ipotesi della giurisdizione di merito, il cittadino che agisca in
giudizio facendo valere un suo interesse legittimo, potrebbe
pretendere, non solo l’annullamento dell’atto che abbia leso un suo
interesse legittimo, ma anche la tutela diretta, da parte del giudice,
del “bene” cui egli tende. Infatti, il giudice, accogliendo il ricorso, nei
casi di giurisdizione di merito, non si limita ad annullare il
provvedimento illegittimo, ma può emettere una sentenza di
riforma, che assegna al cittadino il risultato che gli spetta secondo
diritto, ovvero il risultato che appare più conforme ad una
valutazione corretta degli interessi in gioco.
Questa considerazione, in passato, aveva fatto dubitare persino che
in queste ipotesi fosse identificabile un interesse legittimo, ma tale
affermazione non è stata condivisa dalla dottrina e dalla
giurisprudenza prevalenti.
3. Le classificazioni generali: giurisdizione limitata agli interessi
legittimi e giurisdizione estesa a diritti soggettivi (giurisdizione
esclusiva)

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I) La giurisdizione amministrativa ha, come nucleo originario e


tipico, la garanzia degli interessi legittimi: questo carattere risulta
sancito anche dall’art. 103 Cost. Di conseguenza è stato sostenuto che
il complesso rappresentato dai TAR e dal Consiglio di Stato
costituirebbe il giudice “ordinario” degli interessi legittimi.
La decisione, da parte del giudice amministrativo, di controversie
relative ad interessi legittimi può comportare la necessità di un
esame e di una decisione, anche rispetto a diritti soggettivi.
Solo per le questioni concernenti lo stato e la capacità delle persone
e per l’incidente di falso, ogni decisione è riservata al giudice
ordinario: si tratta, infatti, di questioni che si ritiene possano essere
decise, solo, con efficacia di giudicato e che quindi non possono
essere oggetto di cognizione da parte di un giudice diverso da quello
istituzionalmente competente.
Quando il giudice amministrativo, in una controversia per la quale
la sua giurisdizione concerna solo interessi legittimi, conosce e
decide di diritti soggettivi, si pronuncia su di essi, solo in via
incidentale : la pronuncia su diritti non costituisce giudicato.
Il giudice amministrativo, invece, anche quando la sua giurisdizione
concerna solo interessi legittimi, si pronuncia con forza di giudicato
sul diritto al risarcimento dei danni cagionati all’Amministrazione,
in violazione di interessi legittimi.
II) Accanto alla giurisdizione generale sugli interessi legittimi, in
alcune ipotesi è assegnata al giudice amministrativo una
giurisdizione anche su diritti soggettivi (c.d. giurisdizione
esclusiva). In queste ipotesi il cittadino può agire davanti al giudice
amministrativo, non solo per tutelare suoi interessi legittimi che
ritenga lesi dall’Amministrazione, ma anche per tutelare i diritti

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soggettivi, che egli vanti nei confronti di una Pubblica


Amministrazione.
Fra le ipotesi di giurisdizione esclusiva, sono significative
soprattutto le seguenti:
-Le controversie nelle materie identificate dall’art. 29 t.u. Cons. Stato,
fra le quali è di particolare importanza il pubblico impiego
-Alcune controversie in materie di pubblici servizi.
Il d.lgs. n. 80/1998 e la legge n. 205/2000 avevano assegnato alla
giurisprudenza esclusiva tutte le controversie in materia di
<<pubblici servizi>>, accogliendo fra l’altro una nozione molto
ampia di tale materia. Il giudice amministrativo era competente per
le vertenze sugli atti di regolazione (es. regolamenti tariffari), per
quelle sull’organizzazione di servizi, per quelle sull’affidamento,
sulla gestione, sulla vigilanza dei sevizi stessi. Erano, invece,
riservate al giudice civile le vertenze in materia di invalidità e quelle
<<meramente risarcitorie>> per danni a persone o cose.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 204/2004, ha ritenuto che
questa estensione della giurisprudenza esclusiva violasse l’art. 103
Cost. Ha, dunque, circoscritto la giurisdizione esclusiva, in materia
di pubblici servizi, alle vertenze sulle concessioni di servizi, alle
vertenze sui provvedimenti dell’amministrazione o del gestore di
un pubblico servizio, alle vertenze per l’affidamento di un pubblico
servizio.
La Corte non è intervenuta, invece, sul testo del d.lgs. n.80/1998 che
assegna alla giurisdizione esclusiva, le vertenze in teme di vigilanza
sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare e quelle sul
servizio farmaceutico, sui trasporti, sulle telecomunicazioni e sugli
altri servizi di pubblica utilità.

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In realtà, i confini della giurisdizione esclusiva in materia di pubblici


servizi appaiono oggi piuttosto incerti.
Anche della materia <<urbanistica>> il legislatore ha proposto una
nozione ampia, ma non univoca. Sono comunque escluse dalla
devoluzione al giudice amministrativo, le vertenze in tema di
indennità di occupazione o di esproprio, di competenza del giudice
ordinario. Questa esclusione ha indotto a ritenere che la
giurisdizione esclusiva si estenda, invece, a tutte le alter vertenze
concernenti occupazioni d’urgenza o espropriazioni per pubblica
utilità.
-Le controversie relative all’affidamento di lavori, servizi o forniture
da parte di Pubbliche amministrazioni, ovvero da parte di soggetti
privati, che siano però tenuti ad applicare la normativa comunitaria
o procedimenti di evidenza pubblica, nelle scelta del contraente o del
socio.
La giurisdizione esclusiva riguarda le vertenze relative solo alle
<<procedure di affidamento>>,non si estende, pertanto, alle vertenze
relative all’esecuzione delle prestazioni.
-Le controversie concernenti la concessione di beni pubblici (art. 5
legge TAR).
La giurisdizione esclusiva, però, non si estende alle controversie
concernenti l’indennità, canoni o corrispettivi e neppure alle
controversie sulle concessioni di beni del demanio idrico.
-Le controversie concernenti la formazione, la conclusione e
l’esecuzione degli accordi c.d. pubblici.
-Le controversie concernenti la determinazione e la corresponsione
dell’indennizzo, dovuto ai soggetti direttamente interessati, da un
provvedimento amministrativo, nel caso intervenga la revoca del
provvedimento e comporti ad essi un pregiudizio.

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-Le controversie fra privati e Amministrazione competente,


concernenti la dichiarazione di inizio attività.
-I ricorsi contro provvedimenti in materia di diritto d’accesso ai
documenti amministrativi etc.
Ferma restando la competenza del giudice ordinario per le questioni
concernenti lo stato e la capacità delle persone e l’incidente di falso,
la competenza del giudice amministrativo, nelle materie devolute
alla giurisdizione esclusiva, si estende alle domande risarcitorie, sia
per la lesione di diritti soggettivi che per la lesione di interessi
legittimi.
L’estensione assegnata di recente alla giurisdizione esclusiva
comporta, con maggiore frequenza, che il giudizio amministrativo
sia promosso, non da un soggetto privato contro un
Amministrazione , ma da un ‘Amministrazione contro un privato, o
da un soggetto privato contro un altro privato.
In alcuni casi, l’assegnazione al giudice amministrativo di vertenze
promosse contro privati, rispecchia criteri di ragionevolezza e di
organicità. In altri casi è giustificata dal fatto che il privato svolge
compiti di specifica rilevanza pubblicistica o che la sua attività è
soggetta ad una disciplina pubblicistica.
4. Il riparto per “materia” nei casi di giurisdizione esclusiva
La giurisdizione esclusiva fu introdotta dal legislatore perché in
molte vertenze l’interesse legittimo e il diritto soggettivo risultavano
strettamente correlati.Il riparto fra giudice amministrativo e giudice
ordinario, nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva segue il criterio
della “materia” : artt. 28 e 30 t.u. Cons. Stato. Le vertenze
riconducibili a quella certa materia vanno proposte avanti al giudice
amministrativo, anche se il cittadino faccia valere in giudizio un
diritto soggettivo.

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Le disposizioni legislative sulla giurisdizione esclusiva non sono


omogenee e rispecchiano una nozione di “materia” non uniforme. In
alcuni casi, la devoluzione al giudice amministrativo è stata disposta
dal legislatore rispetto ad istituti generali o rispetto a singoli
provvedimenti.
Talvolta l’ampiezza dei riferimenti contenuti nella legge ha
giustificato letture estensive da parte della giurisprudenza; altre
volte, invece, il riferimento a situazioni particolari è sembrato
insuperabile. Il termine “materia” per la giurisdizione esclusiva ha
comunque un significato diverso rispetto ad altri contesti: in alcuni
casi sono incerti i limiti concreti delle materie. Ciò ha riguardato, in
passato, la giurisdizione esclusiva in tema di pubblici servizi e in
tema di urbanistica.
A queste difficoltà, la giurisprudenza cerca di rispondere,
individuando un criterio generale di lettura delle previsioni di
giurisdizione esclusiva: in passato, la Corte di cassazione e il
Consiglio di Stato discutevano, soprattutto, sulla possibilità di
adottare criteri estensivi o invece restrittivi. Oggi, è centrale il
richiamo alla Corte costituzionale, che con la sentenza n. 204/2004
cit., ha sottolineato l’esigenza di una interpretazione più rispettosa
dell’art. 103 Cost. Secondo la Corte, l’assegnazione, da parte del
legislatore, di materie alla giurisdizione esclusiva, deve presupporre
una relazione fra l’ambito devoluto alla giurisprudenza esclusiva e
un potere amministrativo.
Questa conclusione richiede, però, alcune precisazioni.
In primo luogo la Corte costituzionale non ha considerato come
“potere amministrativo”, anche gli accordi pubblici previsti dall’art.
11 della legge n. 241/1990, tant’è vero che la legge li considera nel

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contesto di un procedimento e li prevede in alternativa a


provvedimenti.
In secondo luogo, la Corte non ha inteso limitare la giurisdizione
esclusiva alle sole vertenze che investono direttamente un potere
amministrativo, ma ha inteso colpire, invece, l’eccessiva estensione
assegnata alla giurisdizione esclusiva dal legislatore ordinario.
5. La giurisdizione esclusiva nel processo amministrativo attuale:
problemi e prospettive
Se il cittadino è leso da un provvedimento, esso va impugnato per
vizi di legittimità, secondo le regole generali (art. 29 t.u. Cons. Stato);
solo in alcune ipotesi tassative è conferito al giudice amministrativo
il potere di pronunziarsi <<anche in merito>>.
Il giudice amministrativo non è soggetto alle limitazioni stabilite
dagli artt. 4 e 5 della legge di abolizione del contenzioso
amministrativo, perché, esse valgono solo per il giudice ordinario.
Pertanto, se accoglie il ricorso contro un provvedimento, procede
all’annullamento dell’atto impugnato, o alla sua “riforma” nei casi di
giurisdizione anche di merito. Invece, si ritiene, in genere, che il
giudice amministrativo , anche nei casi di giurisdizione esclusiva,
non possa procedere alla “disapplicazione” di un atto
amministrativo.
Maggiori problemi sono sorti nel caso in cui il cittadino sia leso, non
da un provvedimento, ma da comportamenti non riconducibili alla
titolarità di un potere. Nel corso degli anni ’30, la Cassazione
sostenne che l’art. 29 t.u. Cons. Stato , che assegnava al giudice
amministrativo, in via esclusiva, <<i ricorsi al rapporto d’impiego>>,
considerava, anche, controversie di questo genere.
Nessuna disposizione considerava l’ipotesi di un diritto fatto valere
senza che vi fosse un provvedimento da impugnare.

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Il Consiglio di Stato, alla fine degli anni ’90, superò l’equivalenza fra
il ricorso al giudice amministrativo e impugnazione di un
provvedimento, elaborando la distinzione fra provvedimenti ed “atti
paritetici”.
L’atto “paritetico” è un atto o un comportamento posto in essere
dall’Amministrazione, come da qualsiasi soggetto di diritto comune.
Pertanto, in presenza di esso non vi è alcuna necessità di impugnare
l’atto dell’Amministrazione e il ricorso non è neppure soggetto ad
un termine di decadenza.
Di questa regola, la giurisprudenza fece applicazione inizialmente a
proposito delle pretese patrimoniali, nel rapporto di pubblico
impiego; poi ha esteso questa regola ad altri contesti, come quello
dei diritti non patrimoniali in materia di pubblico impiego e dei
contributi per le concessioni edilizie.
La vicenda degli atti paritetici riflette la difficoltà di una tutela
adeguata dei diritti soggettivi nel processo amministrativo.
Tuttavia, la disciplina era carente per i contenuti e per le possibilità
di tutela cautelare, oltre che per la limitatezza dei mezzi istruttori e
per le tipologie della sentenza.
Oggi, soprattutto per effetto dell’estensione della giurisdizione
esclusiva, operata nel 1998-2000, parzialmente circoscritta
dall’intervento della Corte costituzionale del 2004, l’esigenza di
assicurare una tutela efficace dei diritti, anche nella giurisdizione
esclusiva, è divenuta ancora più stringente.
A tale esigenza ha dato risposta la legge 21 luglio 2000 n. 205.
Tale legge ha introdotto, nel procedimento amministrativo, i
procedimenti di ingiunzione ed ha assegnato al giudice
amministrativo, nelle vertenze devolute alla sua giurisdizione
esclusiva, la possibilità di disporre di disporre tutti i mezzi di prova

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previsti dal codice di procedura civile, esclusi solo l’interrogatorio


formale e il giuramento.
In questa logica, va considerato che l’art. 6, 2° c. della legge in esame
consente la devoluzione ad arbitrato (rituale di diritto) delle
vertenze, su diritti assegnate alla giurisdizione esclusiva.
Queste innovazioni non comportano, però, che nel giudizio
amministrativo possano essere esperite, a tutela dei diritti, tutte la
azioni ammesse dal codice di procedura civile.

Capitolo 9
L’AZIONE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO
1. Le condizioni generali per l’azione nel processo amministrativo
Le condizioni generali per l’azione sono:interesse a ricorre e
legittimazione a ricorrere in capo a chi promuova il giudizio.Sono
designate condizioni generali per l’azione perché il giudice una volta
verificata la valida instaurazione del processo deve accertare la loro
sussistenza per poter procedere alla valutazione del merito.Le
conclusioni ricorrenti, rispetto al processo amministrativo, risultano
distanti da quelle raggiunte per il processo civile.
In questa sede è opportuno fare riferimento all’impostazione
tradizionale.
a)La figura più controversa è quella dell’interesse a ricorrere.
Richiamandosi al principio sancito dall’art. 100 c.p.c., la
giurisprudenza amministrativa identifica, come condizione generale
per l’azione, un interesse a ricorrere, inteso non genericamente nei
termini della idoneità dell’azione a realizzare il risultato perseguito,

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ma come interesse proprio del ricorrente, al conseguimento di


un’utilità o di un vantaggio(materiale o morale), attraverso il
processo amministrativo.Secondo il Consiglio di Stato l’interesse a
ricorrere assume sempre una rilevanza concreta eccettuato forse
l’azione di condanna.
In particolare, l’interesse a ricorrere avrebbe una specifica rilevanza,
anche nelle azioni costitutive, con la conseguenza che, in alcune
ipotesi, pur essendo configurabile la lesione di un interesse
legittimo, non sarebbe assicurata una tutela giurisdizionale, per
mancanza dell’interesse a ricorrere.
Secondo la giurisprudenza, il risultato “utile” che il ricorrente deve
dimostrare di poter conseguire, ai fini dell’interesse a ricorrere , non
si identifica sempre, con la semplice garanzia dell’interesse legittimo.
Risultato “utile” potrebbe essere solo il conseguimento di una
posizione di vantaggio, non necessariamente identificabile con la
ripristinazione dell’interesse legittimo.
Dell’interesse a ricorrere, vengono predicati gli attributi della
personalità (il risultato deve riguardare direttamente il ricorrente),
dell’attualità (l’interesse deve sussistere al momento del ricorso),
della concretezza (l’interesse a ricorrere va valutato con riferimento
ad un pregiudizio verificatosi, concretamente, ai danni del
ricorrente). Sulla base di questi elementi viene ricondotta alla
carenza d’interesse, l’esclusione della possibilità di impugnare, in
via autonoma o immediata, alcuni atti amministrativi(atti
preparatori, atti interni).
In questi casi, l’interesse a ricorrere sarebbe insussistente, perché, la
lesione può essere prodotta solo dal provvedimento conclusivo del
procedimento, ovvero solo da un atto che sia diventato esecutivo,
ovvero solo in presenza di un atto applicativo.

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La configurabilità di un tale interesse viene richiesta, non solo ai fini


dell’introduzione del giudizio, ma anche ai fini della decisione del
ricorso.
Il ricorso viene dichiarato inammissibile per “sopravvenuta carenza
d’interesse”: qualsiasi circostanza sopravvenuta, che precluda il
raggiungimento del risultato utile, rende inammissibile l’azione già
efficacemente proposta.
Alcuni autori hanno sottolineato la scarsa chiarezza di confini fra
tale interesse e l’interesse legittimo. Così, alcuni autori hanno
proposto o l’assimilazione delle due figure o una nozione di
interesse legittimo, tale da assorbire quella tradizionale di interesse a
ricorrere. Ma, la giurisprudenza e la dottrina prevalente sono invece
ferme nel distinguere fra due ordini di interesse. Va considerato,
tuttavia, che anche nella giurisprudenza, a proposito dell’interesse a
ricorrere, alle affermazioni di principio corrispondono, spesso, prassi
almeno in parte diverse. Di fatto, la giurisprudenza attribuisce
importanza all’interesse a ricorrere, in una logica prevalentemente
negativa: l’interesse a ricorrere rileva, non come fattore che giustifica
l’azione, ma come fattore, la cui mancanza, preclude la pronuncia
sul merito del ricorso.
b) Per quanto riguarda la legittimazione a ricorrere, va osservato
che essa viene ancora interpretata come effettiva titolarità di tale
posizione. Pertanto, il giudice amministrativo, quando accerta che il
ricorrente non è titolare di tale posizione qualificata, dichiara il
ricorso inammissibile, e non infondato.
In questo modo, la pronuncia di inammissibilità comporta un
accertamento negativo di una posizione soggettiva di rilevanza
sostanziale. Di conseguenza, per alcuni aspetti, come l’idoneità del

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giudicato a produrre effetti “esterni” al processo, è stata assimilata


alle pronunce di merito.
La legittimazione a ricorrere è ricondotta, in genere, alla titolarità di
posizioni di interesse qualificato: interesse legittimo o anche diritto
soggettivo, nel caso della giurisdizione esclusiva.
In alcune ipotesi, però, la legittimazione a ricorrere è costituita
semplicemente da una condizione formale del ricorrente, e non
dall’affermazione o dalla titolarità di un interesse qualificato. Ciò si
verifica, in particolare, nel caso delle azioni popolari per le quali la
legittimazione a ricorrere si identifica con la qualità generica di
cittadino o con l’iscrizione elettorale nelle liste di un comune. Alle
azioni popolari sono accostate alcune previsioni, contemplate
soprattutto nella legislazione recente, a proposito della tutela degli
interessi diffusi.A essi la legittimazione a ricorrere è attribuita per
legge alle associazioni previamente identificate sulla base di criteri
oggettivi e senza la necessità di verifica della titolarità di posizioni di
interesse qualificato.La legge non ha trasformato gli interessi diffusi
in interessi legittimi delle associazioni in questione ma ha assegnato
alle associazioni una particolare legittimazione a ricorrere per la
tutela di interessi che altrimenti sarebbero prive di garanzia
giurisdizionale.
2. La tipologia delle azioni nel processo amministrativo
Anche nella giurisprudenza amministrativa si possono identificare,
un processo di cognizione ed un processo di esecuzione.
Come nel processo civile, anche nel processo amministrativo di
cognizione sono identificabili azioni di mero accertamento (o azioni
dichiarative) , azioni costitutive e azioni di condanna.

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I tre ordini di azioni presentano, però, profili particolari e non


esauriscono il quadro complessivo della tipologia delle azioni di
tutela di interessi legittimi.
L’azione costitutiva nei giudizi, promossa a tutela di interessi
legittimi, si risolve nell’impugnazione del provvedimento lesivo: col
ricorso viene chiesto al giudice amministrativo l’annullamento del
provvedimento.
Nei giudizi di tutela di diritti soggettivi è ammessa anche un’azione
di condanna. Essa fu introdotta dall’art. 26, 3° c. della legge TAR, che
però la prevedeva solo in casi limitatissimi.
3. L’azione costitutiva
La disciplina positiva del processo amministrativo si incentra
sull’azione costitutiva: il ricorso al giudice amministrativo è inteso
come strumento per la tutela costitutiva, che si attua impugnando
l’atto amministrativo lesivo, per ottenere l’annullamento o la
riforma. La tutela è sempre “successiva”, perché presuppone che
l’Amministrazione abbia già leso l’interesse del cittadino. Nel caso in
cui, la lesione sia determinata da un provvedimento amministrativo,
all’effetto costitutivo del potere, corrisponde il carattere costitutivo
della tutela offerta all’interesse legittimo.
Nel processo amministrativo, la tutela costitutiva ha carattere
“generale”: essa è sempre ammessa, ogni qual volta il giudizio
investa un provvedimento lesivo dell’Amministrazione.
I caratteri e l’oggetto dell’azione costitutiva sono molto dibattuti.
Il risultato della tutela costitutiva nel processo amministrativo è di
regola l’annullamento del provvedimento impugnato; solo nei casi
di giurisdizione di merito è ammessa anche la riforma. Si tratta di un
esito analogo a quello che può essere perseguito attraverso propri
atti, dalla stessa Amministrazione, come nel caso dell’annullamento

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d’ufficio. Perciò l’annullamento del provvedimento illegittimo non è


un risultato infungibile, che può essere raggiunto solo attraverso il
processo, come invece, nel caso delle c.d. azioni costitutive
necessarie(es.Sciolgimento degli effetti civili del matrimonio).
L’azione costitutiva si presenta, con identici caratteri, quando sia
contestato, anziché, un provvedimento amministrativo, un silenzio-
assenso. Quest’ultimo, infatti, non è un atto amministrativo,
pertanto, quando gli effetti prodotti siano illegittimi, può esserne
richiesto l’annullamento.
4. L’azione di mero accertamento e l’azione di condanna
a)Di azione di mero accertamento , del tutto analoga a quella
ammessa nel processo civile, nel processo amministrativo si parla
propriamente con riguardo a vertenze per diritti soggettivi, nelle
materie di giurisdizione esclusiva.
Oggetto di accertamento può essere, sia un diritto patrimoniale, che
un diritto non patrimoniale. La giurisprudenza ritiene che l’azione di
accertamento non sia soggetta a termini di decadenza, fatta salva
l’incidenza della prescrizione del diritto.Nel caso di silenzio-rifiuto
non vi è un atto amministrativo e non è passibile di annullamento
ma solo di accertamento.
b) L’azione di condanna nel processo amministrativo fu introdotta
dall’art. 26, 3° c. legge TAR, per le controversie inerenti alla
giurisdizione <<esclusiva e di merito>>; la condanna poteva
riguardare solo l’Amministrazione e poteva consistere
esclusivamente nel pagamento di una somma di denaro, ossia nella
condanna all’adempimento di un’obbligazione pecuniaria. Era
considerata, come mezzo preordinato alla costituzione di un titolo
esecutivo, idoneo a consentire l’esecuzione forzata, nelle forme
previste dal libro terzo del codice di procedura civile. Risultavano,

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però, poco ragionevoli i due ordini di limitazioni contemplati dalla


stessa legge.
Si tenga presente, infatti, che il giudizio avrebbe potuto essere
promosso anche dall’Amministrazione nei confronti del cittadino; in
questi casi, la preclusione dell’Amministrazione di proporre
un’azione di condanna appariva molto grave, perché poteva rendere
impossibile la tutela, nelle forme del processo esecutivo ( dato che
l’Amministrazione avrebbe potuto ottenere dal giudice solo una
sentenza di accertamento e il giudizio di ottemperanza di regola non
è esperibile nei confronti di soggetti privati).
In secondo luogo, l’azione poteva riguardare solo obbligazioni
pecuniarie: erano ammesse solo condanne al pagamento di somme
di denaro. Nei confronti dell’Amministrazione, però, il cittadino
poteva essere titolare anche di diritti soggettivi, che non avevano
contenuto pecuniario.
In questi casi, viene esclusa la possibilità di una tutela esecutiva,
nelle forme previste in generale per i diritti.
L’art. 26, 3° c. legge TAR non è stato formalmente modificato: le
modifiche all’art. 26, introdotte dalla legge n. 205/2000 (art. 9) non
hanno riguardato il terzo comma. Tuttavia, il quadro complessivo
della tutela dei diritti davanti al giudice amministrativo è cambiato.
In primo luogo, sono venute meno molte ipotesi in cui si ammetteva
un’azione di condanna contro privati; in secondo luogo, si deve
ritenere che il giudice amministrativo possa condannare
l’amministrazione al pagamento di somme di denaro, anche a titolo
di risarcimento dei danni.
Inoltre, l’art. 35 del d.lgs. n. 80/1998 e l’art. 7, 3° c., legge TAR, come
modificati dall’art. 7 della legge n. 205/ 2000, prevedono , di
competenza del giudice amministrativo, sia la reintegrazione in

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forma specifica che il pagamento di somme di denaro e considerano


entrambe le pronunce, in termini omogenei. Inoltre, l’art. 8 della
legge n. 205/2000, che introduce nel processo amministrativo, un
giudizio monitorio per l’emanazione di ingiunzioni di pagamento, le
ammette per <<i diritti soggettivi di natura patrimoniale>>.
c) In base al principio desunto dall’art. 4 della legge del 1865,
l’Amministrazione deve porre in essere l’attività necessaria per
adeguare la situazione di fatto a quella di diritto, affermata nella
sentenza. Il dovere di conformarsi al giudicato è configurabile anche
in presenza di una sentenza di annullamento o di mero
accertamento. Nel caso di inosservanza del dovere
dell’Amministrazione di conformarsi al giudicato, è esperibile il
giudizio di ottemperanza, che assicura l’esecuzione della sentenza a
di tutti gli obblighi che ne derivano.
In sostanza, anche nelle vertenze su diritti, l’utilità dell’azione di
accertamento, nei confronti dell’Amministrazione, non si esaurisce
nel superamento di una incertezza obiettiva nella situazione di
diritto. L’azione di accertamento può essere anche rimedio ad una
lesione concreta di un diritto soggettivo, provocata
dall’Amministrazione, perché può essere esperita in vista di una
esecuzione, da attuarsi attraverso il giudizio di ottemperanza.
d) Si discute se nel caso di danni provocati da un provvedimento
amministrativo, l’azione risarcitoria sia subordinata
all’annullamento del provvedimento lesivo.
Il diritto al risarcimento dei danni e la pretesa all’annullamento del
provvedimento lesivo sono distinti sul piano sostanziale e perciò, le
rispettive azioni dovrebbero svolgersi in reciproca autonomia.
Questa conclusione, accolta dalla Cassazione, è stata criticata dalla
giurisprudenza amministrativa, che sostiene, infatti, che il

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risarcimento presuppone l’annullamento dell’atto lesivo. Secondo


tale ipotesi, l’annullamento è “pregiudiziale” all’esame della
domanda di risarcimento dei danni (c.d. tesi della pregiudizialità).
Le ragioni della giurisprudenza amministrativa non sono del tutto
chiare; in alcune pronunce sono invocati argomenti di ordine
sostanziale. In questa logica, ad esempio, la domanda di
risarcimento avrebbe solo carattere “ residuale”, perché potrebbe
riguardare solo il danno che permane, anche dopo l’annullamento
dell’atto lesivo.
In altre pronunce, sono invocati argomenti di ordine processuale: è
stato sostenuto che, anche la domanda risarcitoria introdurrebbe una
contestazione all’assetto d’interessi, realizzato dall’atto
amministrativo e, ammettere questa domanda senza scadenze,
comporterebbe un’esclusione alla regola sul termine di decadenza
per l’impugnazione dell’atto.
c) Il rapporto fra l’impugnazione dell’atto lesivo e la domanda di
risarcimento è discusso anche per la previsione di sentenze del
giudice amministrativo di <<reintegrazione in forma specifica>>.
La disposizione assegna al giudice amministrativo la giurisdizione
per le vertenze risarcitorie e, perciò, è stata interpretata da molti, alla
luce delle norme del cod.civ. sul risarcimento dei danni. In questa
logica, il giudice amministrativo può pronunciare sentenze di
reintegrazione in forma specifica. Ciò comporta che la competenza
del giudice amministrativo non è circoscritta al risarcimento per
equivalente e che il contenuto pecuniario dell’obbligazione
risarcitoria non rappresenta un “limite interno” per la giurisdizione
amministrativa.
A giudizio di altri, la previsione di una <<reintegrazione in forma
specifica>> comporterebbe una innovazione più radicale e varrebbe

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ad introdurre, nel nostro sistema di giustizia amministrativa,


un’azione di adempimento a tutela degli interessi legittimi,
soprattutto nel caso di c.d. “interessi pretensivi”.
Il giudice non dovrebbe più limitare la sua cognizione alla verifica
della illegittimità degli atti amministrativi, ma dovrebbe accertare
ciò che sarebbe spettato al ricorrente, se l’Amministrazione avesse
agito legittimamente. Alcune decisioni del Consiglio di Stato hanno
criticato, però, questo indirizzo.
5. La tutela nei confronti del silenzio-rifiuto e la tutela del diritto
d’accesso.
Nel processo amministrativo, come nel processo civile, la distinzione
fra le azioni di merito e le azioni di condanna non è del tutto
pacifica. Chi ritiene che la condanna sia preordinata alla formazione
di un titolo esecutivo, considera come azioni di condanna solo quelle
che possono condurre ad un titolo esecutivo. Conclusioni opposte
sono proposte da chi, invece, considera come pronunce di condanna,
anche quelle che impongano, espressamente, uno specifico obbligo
di condotta a carico della parte soccombente, indipendentemente
dalla loro idoneità a formare un titolo esecutivo.
Pronunce “ordinatorie” del giudice amministrativo sono previste, in
particolare nel giudizio sul silenzio-rifiuto e nel giudizio per
l’accesso a documenti amministrativi.
a) Il c.d. silenzio (o silenzio-rifiuto)
L’azione nei confronti del silenzio dell’Amministrazione ha, per certi
profili, un “carattere preventivo”: non viene impugnato un
provvedimento e non è intervenuto alcun provvedimento che possa
ledere l’interesse del cittadino.
La giurisprudenza, però, sottolinea la circostanza che nel caso di
“silenzio” vi sarebbe, comunque, una lesione di interesse legittimo.

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L’azione è attualmente disciplinata dall’art. 2 della legge n.


205/2000, che introduce fra l’altro un apposito rito speciale. Il ricorso
non è soggetto al termine ordinario di decadenza di 60 gg., ma può
essere proposto finchè l’amministrazione ometta di provvedere,
purchè entro un anno dalla scadenza del termine per l’ultimazione
del procedimento.
Oggi, è stabilito che <<il giudice amministrativo può conoscere della
fondatezza dell’istanza>> ( legge n. 241/1990). Ciò significa che, se il
ricorso è proposto per il silenzio mantenuto dall’Amministrazione,
su richiesta di provvedimento, il giudice può verificare la
sussistenza di tutte le condizioni prescritte per il rilascio di quel
provvedimento e, in caso positivo, il suo ordine <<di provvedere>>
comporta l’obbligo, per l’Amministrazione, di rilasciare quel
provvedimento.
b) L’azione a tutela del diritto d’accesso ai documenti
amministrativi è prevista dall’art. 25 della legge n. 241/1990,
modificato nel 2005.
Per dare ragione della specialità di questo modello, è stato sostenuto
che, nell’ipotesi dell’art. 25 cit., il giudizio non verterebbe sulla
questione di legittimità del provvedimento di diniego d’accesso, ma
verterebbe sul diritto del cittadino ad ottenere,
dall’Amministrazione, l’accesso al documento. Il provvedimento di
diniego non sarebbe oggetto di un’impugnazione in senso proprio: il
giudizio concernerebbe direttamente le fondatezza della pretesa del
cittadino ad accedere al documento e la sussistenza delle condizioni
di legge per tale accesso. Una volta accertato dal giudice che il
cittadino ha titolo all’accesso, non vi è più spazio per una
<<ulteriore>> attività amministrativa che valuti la richiesta di
accesso.

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Si tenga presente che, secondo le giurisprudenza, il giudizio


sull’accesso è assoggettato ai principi del processo amministrativo,
nonostante che il processo verta su un diritto. Di conseguenza, il
terzo titolare di un interesse specifico alla riservatezza di un
documento amministrativo è considerato ad ogni effetto come
“controinteressato” , nel giudizio per l’accesso a quel documento.
Questa soluzione è stata oggetto di vivaci polemiche. Da ultimo,nelle
modifiche introdotte all’art. 25 della legge n. 241/1990, dall’art. 3 del
d.l. n.35/2005, convertito in legge n. 80/2005, si intravede una
preferenza per la qualificazione del diritto d’accesso, come diritto
soggettivo.

Capito 10
ELEMENTI PRELIMINARI PER LO STUDIO DEL PROCESSO
AMMINISTRATIVO
1. Il giudice amministrativo e la sua competenza
La giurisdizione amministrativa è esercitata in primo luogo dai
Tribunali Amministrativi Regionali (TAR), in secondo grado dal
Consiglio di Stato e dal consiglio di giustizia amministrativa per la
Regione siciliana.
I TAR sono istituiti in ogni Regione ed hanno sede nei rispettivi
capoluoghi: in alcune Regioni sono istituite sezioni staccate che
hanno sede in un capoluogo di Provincia. Nella Regione Trentino-
Alto Adige, in base allo Statuto speciale, nel 1984 sono stati istituiti
un TAR con sede a Trento e una sua sezione autonoma a Bolzano.
In questi casi, la sezione esercita una competenza di carattere
funzionale ed è giudice in unico grado. Le altre pronunce della
sezione autonoma sono impugnabili avanti al Consiglio di Stato.

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a) I criteri generali di riparto della competenza sono disciplinati


dagli artt. 2 e 3 della legge TAR. Queste disposizioni attribuiscono
rilievo alla sede dell’organo che ha emanato l’atto impugnato: il TAR
è competente per l’impugnazione di atti emessi da organi che hanno
la loro sede nella sua circoscrizione. Il criterio della sede dell’organo
è però temperato da quello della efficacia dell’atto(al fine di evitare
il carico eccessivo di ricorsi): se gli atti impugnati sono stati emanati
da organi centrali dello Stato, ma hanno un’efficacia limitata al
territorio di una regione o di una parte di essa, è competente il TAR,
nella cui circoscrizione si producono gli effetti dell’atto; se, invece,
hanno un’efficacia territoriale più ampia , è competente il TAR ,nella
cui circoscrizione ha sede l’ente Statale o ultraregionale . Infine, per i
ricorsi proposti in materia di pubblico impiego, da pubblici
dipendenti in servizio, è competente il TAR nella cui circoscrizione
ha sede l’ufficio del pubblico dipendente (c.d. foro del pubblico
impiego).
I rapporti fra i tre criteri sono in parte controversi, benchè alcuni
aspetti sembrano chiariti.
Il criterio dell’efficacia dell’atto non è ritenuto applicabile nel caso di
impugnazione di atti di enti locali o di organi periferici di
amministrazioni nazionali: in questa ipotesi vale il criterio della sede
dell’organo che ha emanato l’atto, senza la necessità di verifiche
sull’efficacia dell’atto stesso. Il criterio del foro del pubblico impiego
è ritenuto speciale, e perciò prevalente rispetto agli altri; si ritiene,
tuttavia, non applicabile quando siano impugnati atti di un ente
ultraregionale che abbiano un contenuto inscindibile, diretto alla
generalità dei dipendenti.Nel caso di ricorso proposto da più
ricorrenti(cd.cumulo soggettivo)la competenza del TAR periferico in
base al criterio dell’efficacia dell’atto o al Foro del pubblico impiego

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presuppone che per tutti i ricorrenti l’atto impugnato esaurisca la


sua efficacia nell’ambito della circoscrizione del TAR o che tutti i
ricorrenti prestino servizio presso uffici con sedi comprese nella
circoscrizione del TAR.Nel caso di ricorso proposto contro atti
connessi(cumulo oggettivo) di cui uno presupposto e l’altro
applicativo del primo, e la cui impugnazione in astratto rientrerebbe
nella competenza di TAR diversi.
I tre criteri generali sulla competenza si risolvono in un riparto di
competenza territoriale , la cui violazione di regola, non solo non è
rilevabile d’ufficio, ma può essere rilevata solo in esito ad un
procedimento particolare, di regolamento di competenza e non può
costituire motivo di appello.
E’ invece funzionale la competenza assegnata alla sezione autonoma
di Bolzano del Tribunale ragionale di giustizia amministrativa.
Si tende a considerare funzionale anche la competenza per il
giudizio di ottemperanza, per lo meno nel caso di esecuzione di un
giudicato amministrativo. Per l’ottemperanza al giudicato civile è
competente il TAR, quando l’autorità amministrativa tenuta
all’ottemperanza svolga la sua attività esclusivamente nella
circoscrizione del TAR, mentre negli altri casi è competente il
Consiglio di Stato. Invece per l’ottemperanza al giudicato
amministrativo è competente lo stesso giudice(TAR o Consiglio di
Stato) che ha emesso la sentenza della cui esecuzione si tratta; la
competenza del TAR si estende, però, anche all’ipotesi che la
sentenza del TAR sia stata integralmente confermata dal Consiglio
di Stato.
La legge, ai fini della disciplina della competenza territoriale,
considera i giudizi in materie devolute alla giurisdizione esclusiva,
solo limitatamente ai giudizi del pubblico impiego. Non chiarisce,

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invece, sulla base di quali criteri debba essere identificato il TAR


competente per i ricorsi proposti negli altri casi di giurisdizione
esclusiva, quando non siano in questione provvedimenti
amministrativi.La giurisprudenza afferma che competente a
pronunciarsi sulla domanda del risarcimento del danno sia il TAR
cui spetta decidere sul ricorso di annullamento del provvedimento
lesivo.
b) L’incompetenza del TAR non può essere rilevata dallo stesso
TAR; può essere rilevata solo dal Consiglio di Stato, che decide in
seguito a regolamento di competenza (art. 31 legge TAR).
Le parti costituite in giudizio possono eccepire, entro un termine
perentorio, l’incompetenza del TAR adito dal ricorrente, indicando
però anche quale sia il TAR competente; l’eccezione va proposta con
istanza di regolamento di competenza; se tutte le parti aderiscono
all’istanza, gli atti del giudizio vengono trasmessi al TAR in essa
indicato, davanti al quale il giudizio prosegue; altrimenti l’istanza
stessa è sottoposta ad una sommaria delibazione del TAR davanti al
quale è stato proposto il ricorso, che con sentenza può respingere
l’istanza, se ne rilevi la manifesta infondatezza. In caso contrario, il
TAR trasmette l’istanza e gli atti del giudizio al Consiglio di Stato
per la decisione sulla competenza.La disciplina del regolamento di
competenza non si applica alle questioni di competenza che
investono i rapporti tra un TAR e una sezione distaccata:per esse è
previsto un procedimento speciale deciso con unìordinanza non
impugnabile del presidente del TAR.
c) Per quanto riguarda il Consiglio di Stato, se la questione
sottoposta ad esso, può dar luogo a contrasti di giurisprudenza o
risulti di particolare importanza, rispettivamente la sezione o il

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Presidente del Consiglio di Stato possono rimettere il ricorso


all’Adunanza plenaria.
Il Consiglio di Stato è oggi quasi esclusivamente giudice d’appello,
nei confronti delle pronunce dei TAR.
Nei confronti delle sentenze del TAR Sicilia l’appello va proposto al
Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana(è
equiordinato al Consiglio di Stao).
2. Le parti necessarie
Anche nel processo amministrativo si distingue fra parti necessarie
e parti non necessarie.La garanzia del contraddittorio rispetto alle
parti necessarie costituisce una condizione per la validità della
sentenza, mentre per le parti non necessarie è consentita la
partecipazione al giudizio ma non vi è l’obbligo di portare a loro
conoscenza il ricorso né integrare il contraddittorio.
Con riferimento specifico al giudizio di primo grado, la distinzione
fra parti necessarie e parti non necessarie riflette considerazioni di
diritto sostanziale. Nel processo amministrativo, parti necessarie
sono, oltre al ricorrente, anche l’Amministrazione resistente e i
controinteressati, soggetti titolari di un interesse qualificato che può
essere pregiudicato dal ricorso e, su cui, può avere incidenza diretta
il giudicato.Le altre parti possono essere titolari di interessi minori e
diversi che le legittimano solo ad intervenire.
Questo modello è stato elaborato sul modello del giudizio di
impugnazione, ma è stato esteso a qualsiasi tipologia di azione
proposta avanti al giudice amministrativo.
a) Il ricorrente fa valere in giudizio un proprio interesse legittimo o
un proprio diritto soggettivo. L’interesse del ricorrente identifica la
posizione soggettiva su cui verte il giudizio. Di questa posizione si
ha riflesso nel fatto che: l’introduzione del giudizio dipende da un

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suo atto di iniziativa (il ricorso), ma anche nel fatto che tale atto
individua l’oggetto su cui verterà il giudizio ed infine che il
ricorrente ha piena disponibilità dell’azione proposta ( nel senso che
può anche ad essa rinunciare, senza neppure la necessità di
un’accettazione ad opera delle parti).Il ricorso può essere proposto
da più soggetti insieme(ricorso collettivo)purchè la loro posizione sia
omogenea.
b) Parte necessaria nel processo amministrativo è anche
l’Amministrazione che ha emanato l’atto impugnato. Le
disposizioni sul processo amministrativo prevedevano, a questo
proposito, la notifica all’organo che avesse emanato l’atto impugnato
e riconoscevano all’organo una legittimazione processuale passiva.
L’interpretazione data dalla giurisprudenza a queste disposizioni
comporta oggi l’identificazione della parte resistente con
l’Amministrazione ossia l’ente pubblico. L’Amministrazione
“resistente” è parte nel processo e non autorità: di conseguenza è
soggetta in tutto e per tutto alle regole del processo su un piano
paritario rispetto alle altre parti.La posizione di autorità rimane tale
sul piano sostanziale ma non processuale.
c) Infine, sono parti necessarie i controinteressati; soggetti ai quali
l’atto impugnato conferisce un’utilità specifica e titolari di un
interesse qualificato alla conservazione dell’atto impugnato. Ad essi
deve essere notificato il ricorso; nel caso in cui i controinteressati
siano più d’uno, il ricorso è ammissibile anche se notificato ad uno
solo di essi, ma nei confronti degli altri deve essere effettuata
l’integrazione del contraddittorio, nei tempi e con le modalità
disposte dal TAR (art. 21 legge TAR).
I controinteressati sono in una posizione “speculare” rispetto al
ricorrente e ciò implica una pari dignità nel processo per quanto

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riguarda il diritto di azione e di difesa. La disciplina del processo


amministrativo contempla istituti volti specificamente a garantire la
parità di posizione dei controinteressati, rispetto al ricorrente: ne è
esempio il ricorso incidentale.
Il ricorso incidentale è l’atto processuale con il quale il
controinteressato può impugnare a sua volta il provvedimento
impugnato e far valere i vizi, il cui accertamento potrebbe
comportare, in caso di accoglimento del ricorso principale, un
risultato pratico favorevole al contrinteressato stesso.
Inoltre, con il ricorso incidentale, il controinteressato può impugnare
un diverso atto dal quale dipendono la legittimazione o l’interesse a
ricorrere, o comunque un vantaggio rilevante per il ricorrente
principale.
Ai fini della identificazione dei controinteressati, secondo la
giurisprudenza, non è sufficiente, però, il requisito di ordine
sostanziale, rappresentato dall’attribuzione a tali soggetti di
un’utilità specifica ad opera del provvedimento impugnato. E’
necessario anche un requisito di ordine formale, e cioè che il
controinteressato sia identificato o facilmente identificabile, alla
stregua dell’atto amministrativo stesso.
La giurisprudenza afferma che i controinteressati non identificati
nell’atto amministrativo (c.d. controinteressati non intimati) possono
intervenire nel processo amministrativo e proporre ogni difesa
ammessa per i controinteressati. Tuttavia, perché non sono
considerati parti necessarie, nei loro confronti non sussiste un
obbligo di notifica del ricorso o di integrazione del contraddittorio e
la sentenza che sia stata pronunciata, senza la loro partecipazione al
giudizio, non dovrebbe ritenersi di per sé viziata.
3. segue: le parti non necessarie

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Le parti diverse da quelle necessarie sono prese in considerazione


dalle leggi sul processo amministrativo, solo in modo generico.
a) In realtà, però, non tutti i soggetti interessati al giudizio possono
intervenire. Infatti non possono intervenire in giudizio i
controinteressati, e cioè i soggetti titolari di un interesse legittimo
analogo a quello del ricorrente, che avrebbero potuto impugnare
autonomamente l’atto amministrativo. La giurisprudenza ha escluso
la possibilità per tali soggetti di proporre un intervento liticonsortile,
col quale chiedere, a loro volta, l’annullamento del provvedimento
impugnato(è stato perché cosi’ sarebbe possibile eludere il termine
di decadenza previsto per l’impugnazione del provvedimento
amministrativo.
b) Le disposizioni che disciplinano l’intervento nel processo
amministrativo definiscono lo strumento e le modalità per l’ingresso
nel processo, di una parte non necessaria, ma non identificano i
contenuti e l’ampiezza della tutela offerta alla parte che interviene.
Per valutare questo aspetto è però necessario chiarire in che cosa
consista <<l’interesse>> che legittima l’intervento in giudizio(tale
interesse non può essere identico a quello del ricorrente).
La giurisprudenza ammette che l’intervento possa essere proposto a
tutela di un interesse “dipendente” da quello di una delle parti
necessarie. In tal senso, il provvedimento impugnato avrebbe
un’incidenza diretta sulla posizione di una parte necessaria e
produrrebbe un effetto “riflesso” sul terzo interventore, in virtù di
una relazione giuridica intercorrente fra i due soggetti.
Si discute, inoltre, se sia sufficiente, per l’intervento, un interesse
semplice o di fatto. Nel caso di una risposta affermativa, sarebbe
possibile sostenere che, con l’intervento nel processo amministrativo,
avrebbero ingresso anche gli interessi non qualificati.

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La giurisprudenza ammette un “intervento adesivo dipendente”. Di


conseguenza, il soggetto che intervenga a favore del ricorrente, può
solo introdurre argomenti a sostegno dei motivi di impugnazione
proposti dal ricorrente stesso, non può proporre conclusioni proprie
né nuove censure contro l’atto impugnato e non può dar corso ad
atti d’impulso del giudizio. Il soggetto che intervenga in una
posizione corrispondente a quella della parte resistente o di un
controinteressato, non incontra, invece, particolari limitazioni in
merito alle conclusioni.
Secondo la giurisprudenza recente , titolari di un interesse giuridico
autonomo alla conservazione dell’atto impugnato, non sono però
identificabili con i controinteressati, perché, essi non sono destinatari
di specifiche utilità assegnategli dal provvedimento amministrativo.
La circostanza ha condotto la giurisprudenza a riconoscere per essi
uno “status” particolare: pur non essendo parti necessarie del
processo di primo grado, possono impugnare la sentenza loro
sfavorevole, e ciò anche se non erano intervenuti nel relativo
giudizio.
In conclusione, alla figura dell’intervento possono corrispondere
posizioni soggettive con consistenza diversa, ma alla diversa
consistenza delle posizioni soggettive corrisponde anche una
diversità di prerogative processuali.
c) In passato le giurisprudenza e la dottrina ammettevano un’unica
modalità di intervento nel processo amministrativo: l’intervento
volontario. Questa conclusione non appare più sostenibile, in seguito
all’introduzione dell’opposizione di terzo.
4. La capacità processuale e il patrocinio legale
Per quanto riguarda la capacità processuale, vigono, nel processo
amministrativo, i principi vigenti anche nel processo civile. Le

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persone giuridiche, sia pubbliche che private, stanno in giudizio a


mezzo dei loro legali rappresentanti. Molto frequentemente, però, il
rappresentante legale dell’ente può stare in giudizio solo se è
autorizzato da un altro organo dell’ente, cui spetta decidere se l’ente
debba agire o resistere in giudizio. La delibera che autorizza a stare
in giudizio può intervenire anche in un momento successivo alla
costituzione, perchè rileverebbe come condizione di efficacia e non
di validità della costituzione. Nel processo amministrativo è
obbligatoria l’assistenza di un avvocato: solo nel giudizio in materia
elettorale e nel giudizio in materia di accesso a documenti
amministrativi, la parte può stare in giudizio personalmente. Nel
giudizio avanti al Consiglio di Stato, la parte deve essere assistita da
un avvocato abilitato al patrocinio, avanti alle giurisdizioni
superiori. Invece, non è obbligatorio avvalersi anche della
rappresentanza dell’avvocato, che attribuisce al legale il potere di
compiere atti processuali a nome della parte.
4. I principi generali del processo(farlo libro)
5. Il rapporto con la disciplina del processo civile
In alcuni casi, le leggi sul processo amministrativo rinviano
espressamente a disposizioni del codice di procedura civile. Ciò
vale, per esempio, per la disciplina dell’interruzione del processo per
i casi di revocazione, per la disciplina del regolamento preventivo di
giurisdizione, per la decorrenza del termine breve per l’appello.
Frequentemente, la giurisprudenza amministrativa, nella materia in
esame, prende in considerazione la disciplina del processo civile.
Tuttavia, il confronto non si risolve, di regola, con un mero rinvio
alla norma processual-civilistica; il richiamo a questa norma è il
risultato di una valutazione sulla compatibilità dei due sistemi
processuali rispetto ad un determinato istituto o ad un determinato

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ambito. Il processo amministrativo costituisce un sistema


processuale autonomo e distinto da quello civile. L’estensione della
giurisdizione esclusiva, invece, imporrebbe soluzioni più articolate,
con riferimento ai giudizi che vertano solo sui diritti. Per questi
giudizi, si sostiene che le lacune non potrebbero essere colmate,
richiamando i principi di questo processo, quando essi siano stati
elaborati sul giudizio d’impugnazione. Per alcuni istituti, tale rinvio
sarebbe addirittura sviante.
In conclusione, allo scenario di un giudizio amministrativo
disarticolato in due distinti processi, quello modellato
sull’impugnazione di atti e quello specifico par la tutela di diritti, si
deve replicare l’esigenza di una riflessione più ampia.

Capitolo 11
IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO
1. La fase introduttiva
Il ricorso è tipicamente l’atto col quale chi pretende di essere stato
leso in un proprio interesse(qualificato) da un provvedimento
dell’amministrazione impugna tale provvedimento chiedendo al
giudice amministrativo di annullarlo.Il ricorso si presenta come
strumento di reazione a un atto lesivo della PA. Il giudizio avanti al
TAR è introdotto con un ricorso. Oggi il ricorso ha perso ogni
connotazione specifica di reazione ad un provvedimento lesivo e
costituisce più semplicemente l’atto processuale introduttivo del
giudizio amministrativo, indipendentemente dai contenuti o dagli
interessi coinvolti.
Nel processo amministrativo, di norma, il ricorso deve essere
notificato all’Amministrazione che ha emanato l’atto impugnato e ad

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almeno uno dei controinteressati, entro 60 gg. dalla comunicazione,


pubblicazione o piena conoscenza dell’atto amministrativo
impugnato; successivamente, entro 30 gg. dall’ultima notifica, deve
essere depositato presso la segreteria dell’organo giurisdizionale
adito, e, solo in questo momento, viene portato a conoscenza del
giudice.
a) I contenuti necessari del ricorso sono elencati nell’art. 6 reg. proc.
Cons. Stato e sono : l’organo giurisdizionale cui è diretto, le
generalità della parte, l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto
su cui si fonda la domanda.L’atto deve essere sottoscritto
dall’avvocato e se è stato conferito mandato senza rappresentanza
dall’avvocato e dalla parte.
L’art. 17 reg. proc. Cons. Stato individua , come ragioni di nullità del
ricorso, il difetto di sottoscrizione e <<l’incertezza assoluta sulle
persone o sull’oggetto della domanda>>. La domanda è definita, oltre
che dalla richiesta di annullamento di un certo atto, dalle censure
proposte a fondamento della richiesta di annullamento. Ma, il
rapporto fra la singola censura e la domanda non è ben definito; si
contrappongono tesi che configurano l’azione in funzione degli atti
di cui si chiede l’annullamento e tesi che , invece, configurano
l’azione in base alle censure proposte.
Il vizio dell’atto impugnato viene considerato un elemento per
l’identificazione dell’azione e, quindi, il riscontro di esso assume
rilievo per valutare quando una domanda sia completa in tutti i suoi
elementi e perciò debba ritenersi proposta ritualmente, o per
valutare quando sia proposta una domanda nuova.
Per “vizio” di un atto amministrativo si intende in genere uno dei tre
ordini di vizi che comportano l’annullabilità dell’atto: incompetenza,
violazione di legge, eccesso di potere(sviamento di potere,disparità

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di trattamento). Per l’identificazione del vizio non sono previste


formule sacramentali.
Il regolamento di procedura del 1907 prescrive l’indicazione nel
ricorso <<degli articoli di legge o di regolamento che si ritengono
violati>>(art. 6), che sembra adattarsi particolarmente al vizio di
violazione di legge; tale indicazione, però, non è espressamente
richiesta a pena di nullità. Ciò che importa, a pena di nullità, è che il
vizio sia oggettivamente identificato nei suoi elementi concreti in
relazione al provvedimento impugnato. Invece, un errore nella
qualificazione del vizio non assume rilevanza decisiva anche perché
il giudice non è vincolato dalla qualificazione del vizio proposto
dalle parti. La disciplina del ricorso, appena decritta, è propria del
giudizio di impugnazione e di conseguenza non sono neppure
configurabili censure per vizi di legittimità di un atto: la lesione
dell’interesse legittimo è causata in questo caso dall’omissione del
provvedimento.Nel caso di giurisdizione esclusiva e sia fatto valere
un diritto soggettivo è necessario identificare il contenuto della
pretesa.
b) Il ricorso deve essere notificato, a pena di inammissibilità,
all’Amministrazione che ha emanato l’atto impugnato e ad almeno
uno dei controinteressati, entro 60 gg. dalla comunicazione, o
pubblicazione o piena conoscenza dell’atto impugnato ( art. 21 c. 1°
legge TAR; art. 36 t.u. Cons. Stato). La notifica ad
un’Amministrazione statale deve essere effettuata presso
l’Avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede il TAR competente.
Per la notifica degli atti nel processo amministrativo vale la stessa
disciplina del processo civile, pertanto, ai sensi dell’art. 149, c. 3°
c.p.c., l’osservanza del termine va verificata con riferimento alla data
di consegna del ricorso all’ufficiale giudiziario.

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Il termine di 60 gg.(richiesto per esigenze di certezza nelle situazioni


giuridiche) per il ricorso decorre dalla comunicazione dell’atto
amministrativo per i diretti destinatari; dalla pubblicazione su albo o
pubblicazione ufficiale per i non diretti destinatari. Ai fini della
decorrenza del termine, la comunicazione o pubblicazione dell’atto
amministrativo ha come equipollente la sua <<piena
conoscenza>>((conoscenza dei contenuti essenziali dell’atto e non
conoscenza completa). Se il ricorrente viene a conoscenza solo in un
secondo tempo di determinati altri vizi del provvedimento
impugnato, può farli valere con il ricorso per motivi aggiunti e
vanno proposti con un atto da notificarsi alle parti entro 60 g. dal
momento in cui si abbia avuto conoscenza legale del vizio.
Questa nozione di piena conoscenza, ai fini del termine per il ricorso,
non appare del tutto coerente con la disciplina introdotta dalla l. n.
241/1990 che, da un lato ribadisce il dovere dell’Amministrazione di
comunicare ciascun provvedimento ai cittadini che ne siano
destinatari, dall’altro impone all’Amministrazione di porre a
disposizione del cittadino il testo dell’atto amministrativo lesivo di
un suo interesse giuridico. Per questa ragione, oggi, una parte della
giurisprudenza nega che il termine per ricorrere decorra da una
conoscenza generica o indiretta dell’atto
amministrativo.L’inosservanza dei termine per la notifica, quando
sia determinata da errore scusabile può essere valutata dal giudice
amministrativo ai fini di una remissione in termini(esso ha portata
generale).Il termine per la notifica del ricorso è sospeso dal 01/08 al
15/09 di ciascun anno per le ferie giudiziarie.I termini concernenti le
azioni cautelari non sono sospesi.

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c) L’originale del ricorso, con la prova della notifica, deve essere


depositato, a pena di irricevibilità, entro 30 gg. dall’ultima notifica,
presso la segreteria del TAR adito (art. 21, c. 3° della legge TAR).
E’, invece, previsto che l’Amministrazione resistente, all’atto della
costituzione, sia tenuta a depositare l’atto impugnato e gli altri atti
del relativo procedimento e proceda a tale adempimento, anche se
non costituisca in giudizio. Unitamente al ricorso viene depositato il
mandato speciale dell’avvocato se non è riportato nel ricorso.
Il deposito del ricorso determina la pendenza del giudizio.

2. Lo svolgimento del giudizio


La costituzione in giudizio del ricorrente si attua con il deposito del
ricorso presso la segreteria del TAR.
Entro 20 gg. dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso,
ossia entro 50 gg. dall’ultima notifica del ricorso, l’Amministrazione
resistente e i controinteressati che hanno ricevuto la notifica,
possono costituirsi in giudizio presentando una memoria con le loro
difese e istanze istruttorie(controricorso e documenti).
Entro 30 gg. dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso, i
controinteressati possono produrre ricorso incidentale che deve
essere notificato alle parti(i termini sono perentori).I termini per la
costituzione delle parti diversi dal ricorrente non è perentorio.
Una volta instaurato il giudizio, chi vi ha interesse può intervenire.
L’intervento va proposto con apposito atto, che deve essere
notificato alle parti e poi depositato presso il TAR avanti al quale
pende il giudizio.Se il ricorso è stato notificato ad uno solo dei
controinteressati è prevista l’integrazione del contraddittorio.

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Perché il ricorso possa essere deciso è però necessario che sia


richiesta, con apposita istanza, la discussione del ricorso
stesso.Istanza diretta al presidente del TAR e deve essere presentata
dal ricorrente entro 2 anni dal deposito del ricorso
In mancanza dell’istanza, il ricorso cade in perenzione e il giudizio
si estingue perdendo ogni effetto giuridico.
In seguito alla presentazione dell’istanza, viene fissata l’udienza di
discussione del ricorso, di cui deve essere data comunicazione alle
parti con congruo preavviso (almeno 40 gg.).Le parti possono
presentare documenti fino a 20 giorni e memorie fino a 10 giorni
prima dell’udienza.
Una volta conclusa la discussione, il TAR, se non ritiene di dover
adottare pronunce interlocutorie o pronunce istruttorie, provvede a
decidere il ricorso pronunciando la sentenza.
In alcuni casi particolari, invece, il giudice amministrativo decide il
ricorso senza fissare un’altra udienza, ma semplicemente in camera
di consiglio.
In base all’art. 26, 4° c. legge TAR, come modificato dall’art. 9, l. n.
205/ 2000, il giudice amministrativo può decidere il ricorso, con
sentenza succintamente motivata, nella camera di consiglio fissata
per l’esame dell’istanza cautelare o nell’udienza fissata in seguito
all’adozione di un mezzo istruttorio, senza che sia stata fissata
l’udienza di discussione. Questa possibilità vale, quando il ricorso
risulti manifestamente fondato o manifestamente infondato,
inammissibile, improcedibile o irricevibile.
Infine, l’art. 26, c. 7 della legge TAR prevede che, quando sia
verificata l’estinzione del giudizio, ovvero, quando siano intervenute
la rinuncia al ricorso, la cessazione della materia del contendere o la
perenzione, alla relativa declaratoria provveda direttamente il

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Presidente competente, con un proprio decreto senza fissare né


pubblica udienza né camera di consiglio.Nei confronti del decreto le
parti possono proporre opposizione di collegio:il collegio decide con
ordinanza e se accoglie l’opposizione dispone il ricorso sia
nuovamente iscritto nel ruolo dei ricorsi pendenti.
3. I riti speciali
Oggi il processo amministrativo si presenta piuttosto articolato e la
sua disciplina ha assunto un notevole grado di complessità. Le
discipline speciali sono sempre più frequenti. Fra queste, le più
importanti sono:
a) Il giudizio in materia elettorale, previsto per le elezioni
amministrative. Può essere promosso con ricorso da qualsiasi
elettore dell’ente interessato dalle elezioni, oltre che dal candidato
interessato. Il ricorso va proposto di norma nei confronti dell’atto di
proclamazione degli eletti, che è l’atto conclusivo del procedimento
elettorale, e va depositato al TAR, entro 30 gg. Il Presidente del TAR
fissa con decreto l’udienza di discussione.
Il giudizio riguarda qualsiasi vizio del procedimento elettorale, che
possa aver determinato una alterazione nella posizione degli eletti. Il
TAR, se accoglie il ricorso, può disporre la rettifica dei risultati
elettorali, anche con la sostituzione degli eletti.
La sentenza è soggetta a particolari forme di pubblicità ed è passibile
di impugnazione al Consiglio di Stato.
b) La legge sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici
essenziali (l. n. 146/1990) ha introdotto una particolare disciplina
del giudizio promosso contro le ordinanze dell’autorità
amministrativa,che impongono l’effettuazione di prestazioni
indispensabili, nel caso di sciopero. Il ricorso al TAR nei confronti
delle ordinanze va proposto entro un termine molto breve ( 7 gg).

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c) Una disciplina speciale è dettata, per il giudizio a tutela del diritto


d’accesso, dall’art. 25, l. n. 241/1990, modificato dalla legge n.
15/2005 e dal d.l. n. 35/2005, convertito in legge n. 80/2005.
Il ricorso in materia di accesso va proposto entro 30 gg. dalla
comunicazione del rifiuto all’accesso, ovvero dalla formazione del
silenzio dell’Amministrazione. Il TAR decide in camera di consiglio ,
uditi i difensori delle parti, senza la necessità di istanza di
discussione. Se accoglie il ricorso, <<ordina all’amministrazione
l’esibizione dei documenti richiesti>>. L’appello al Consiglio di Stato è
soggetto ad un termine di 30 gg. dalla notifica della sentenza del
TAR.
d) L’art. 21-bis della legge TAR e l’art. 2, c. 5 della legge n. 241/ 1990,
disciplinano il giudizio nei confronti del silenzio-rifiuto
dell’Amministrazione. La specialità riflette anche sullo svolgimento
del processo, che è caratterizzato da una particolare celerità.
E’ previsto che il ricorso debba essere deciso in camera di consiglio,
con sentenza motivata, entro un termine congruo, non superiore a 30
gg. Decorso invano tale termine, su richiesta della parte, procede alla
nomina di un commissario che si sostituisce all’Amministrazione
(art. 21-bis legge TAR).
c) L’art. 23-bis della legge TAR riguarda i ricorsi proposti contro
provvedimenti in tema di opere pubbliche, i ricorsi contro
provvedimenti in tema di aggiudicazione, affidamento ed
esecuzione di servizi pubblici o forniture, i ricorsi contro atti di
autorità amministrative indipendenti etc.
In questi giudizi, tutti i termini processuali sono ridotti a metà, ad
eccezione del termine per notificare il ricorso di primo grado che,
pertanto rimane di 60 gg. Inoltre, se è stata richiesta una misura
cautelare, il TAR, nella camera di consiglio fissata per l’esame

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dell’istanza, se ritiene ad un primo esame che il ricorso possa essere


accolto e che vi sia il rischio di un danno grave e irreparabile,
dispone con ordinanza che la discussione del ricorso nel merito si
tenga nella prima udienza successiva alla scadenza di un termine di
30 gg. Il dispositivo della sentenza è pubblicato entro sette giorni
dopo l’udienza.
La disciplina prevista dall’art. 23-bis della legge TAR è richiamata,
dall’art. 14 del d.lgs n. 190/2002, per i giudizi relativi ad
infrastrutture pubbliche ed insediamenti produttivi.
4. L’istruttoria: i principi
L’istruzione è l’attività del giudice diretta a conoscere i fatti rilevanti
per il giudizio.
Il tema dell’istruzione probatoria ruota anche nel processo
amministrativo intorno atre profili fondamentali: 1) il rapporto fra le
allegazioni di fatti riservate alle parti e poteri di cognizione del
giudice; 2) i vincoli e gli effetti che comportano le istanze istruttorie
delle parti 3) i vincoli che comportano le risultanze dell’istruttoria.
I) Il primo profilo concerne l’individuazione dei fatti che possono
essere allegati solo dalle parti. Si ricorre alla distinzione fra fatti
principali (o primari) e fatti secondari. I fatti principali sono descritti
come fatti materiali che identificano la pretesa fatta valere
concretamente in giudizio e possono essere introdotti solo dalle
parti; i fatti secondari sono costituiti dai fatti materiali la cui
dimostrazione consente di verificare o meno la sussistenza dei fatti
principali o la loro rilevanza o operatività.
Nel processo amministrativo la distinzione non è pacifica. Appare
logico aderire all’interpretazione secondo cui i fatti principali, nel
giudizio di impugnazione, corrispondono ai fatti materiali su cui si
fonda la pretesa dell’annullamento dell’atto impugnato.

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Costituiscono, invece, fatti secondari le circostanze di fatto


sussistenti in occasione del secondo provvedimento, che, ove
consentano di identificare una situazione diversa da quella del
primo provvedimento, avrebbero giustificato l’adozione di logiche
differenti.I fattiprincipali sono sempre introdotti dalle parti quelli
secondari si pensava potessero essere introdotti da atri soggetti ma
in realtà non è cosi’, sono sempre introdotti dalle parti.
II) Il secondo profilo attiene invece alla prova dei fatti.
Nel processo amministrativo vale il principio generale sancito
dall’art 2697 c.c. sull’onere della prova, che comporta, fra l’altro, che
la parte che contesta la legittimità di un provvedimento deve fornire
la prova dei fatti posti a fondamento della sua contestazione e che la
regola di giudizio, nel caso di incertezza su un fatto, è contraria alla
parte che avrebbe dovuto fornire la prova di quel fatto. La mancanza
della prova, che avrebbe dovuto fornire contezza di quel fatto,
determina la soccombenza.
III) Il processo amministrativo si basa sul principio del libero
apprezzamento del giudice: le prove nel giudizio sono rimesse,
quanto alla valutazione, al prudente apprezzamento del giudice.
Questo principio comporta l’esclusione delle prove legali, come il
giuramento e la confessione, che si caratterizzano invece per
vincolare il giudice alla verità di un certo fatto. A questa conclusione
generale delle prove legali, fa eccezione la disciplina dell’atto
pubblico, che anche nel processo amministrativo ha l’efficacia
prevista dall’art. 2700 c.c.L’atto pubblico ha un’efficacia generale che
si correla più al principio di dirtto sostanziale che processuale.

5. (segue): i provvedimenti istruttori e i singoli mezzi istruttori

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L’art. 44, 1°comma, t.u. Cons. Stato, nel disciplinare i mezzi istruttori
ammessi nel processo amministrativo, prevedeva originariamente,
nel caso di giurisdizione di legittimità che i mezzi istruttori
ammessi nel caso di giurisdizione di legittimità fossero rappresentati
solo dalla richiesta di <<chiarimenti>>, dalla richiesta di
<<documenti>>, e dall’ordine di compiere <<nuove verificazioni>>.
L’art. 16 della legge n. 205/2000 ha modificato tale disposizione,
introducendo, nel caso di giurisdizione di legittimità, la possibilità
della consulenza tecnica nell’istruzione probatoria.
La richiesta di chiarimenti è analoga, alla richiesta di informazioni
alla Pubblica amministrazione prevista dall’art. 213 c.p.c. ma a
differenza di quest’ultima, può essere indirizzata anche nei confronti
di un’Amministrazione che sia parte nel giudizio.
La richiesta di documenti può avere per oggetto qualsiasi
documento dell’Amministrazione o di terzi, la cui esibizione sia
ritenuta utile per decisione (art. 21, 5° e 6° comma della legge TAR).
Le verificazioni possono avere contenuti molti ampi e in particolare,
possono riguardare l’accertamento di fatti o di situazioni complesse;
si sostiene che le verificazioni non potrebbero riguardare elementi di
valutazione o di apprezzamento dei fatti, altrimenti, attraverso le
verificazioni, il giudice potrebbe sindacare nel loro contenuto le
valutazioni tecniche riservate dalla legge all’Amministrazione.
Da questo punto di vista, è importante la recente introduzione nel
giudizio amministrativo della consulenza tecnica. La consulenza va
affidata ad un perito che sia in condizioni di terzietà rispetto alle
parti, come nel processo civile.
La consulenza dovrebbe consentire di acquisire gli elementi tecnici
necessari per comprendere il significato e il valore del fatto. Proprio
per questi caratteri, l’introduzione della consulenza dovrebbe

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circoscrivere i margini di insindacabilità delle valutazioni tecniche


dell’Amministrazione.
Nei casi di giurisdizione di merito, il giudice amministrativo può
disporre con maggiore ampiezza oltre che dei mezzi istruttori
contemplati per la giurisdizione di legittimità, anche dei mezzi
istruttori attribuiti in via generale al giudice civile, come le perizie, le
ispezioni, la prova testimoniale. Sono preclusi l’interrogatorio
formale ed il giuramento, perché preordinati ad una prova legale.
Dal confronto tra il 1° e 2° c. dell’art. 44 emerge in modo evidente la
limitatezza dei mezzi istruttori previsti per il giudizio
amministrativo di legittimità. E’ naturale porsi l’interrogativo della
legittimità di questa limitazione.
A tal proposito, è utile tener conto della distinzione tra i c.d. limiti
probatori assoluti e i c.d. limiti probatori relativi: i primi comportano
l’impossibilità della parte di contestare un certo fatto, che per la
stessa assume un rilievo negativo, mentre i secondi consistono solo
nell’impossibilità nella parte di utilizzare certi mezzi di prova. La
Corte costituzionale ha sempre ritenuto illegittimi i limiti probatori
assoluti.
Di conseguenza, il fatto che nel giudizio di legittimità siano ammessi
solo i tre mezzi istruttori tradizionali non sarebbe di per se
illegittimo: atterrebbe infatti a limiti probatori relativi, e non assoluti.
Nel corso negli anni ’80 la limitatezza dei mezzi istruttori nella
giurisdizione esclusiva provocò un intervento della Corte
costituzionale : con la sentenza n. 146/1987 dichiarò l’illegittimità
costituzionale dell’art. 44, 1° c. , t.u. Cons. Stato, nella parte in cui
non ammetteva,nelle controversie in materie di pubblico impiego, i
mezzi istruttori previsti dal c.p.c. . Argomento centrale era la
disparità di trattamento che si configurava nella tutela processuale

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del pubblico dipendente rispetto al lavoratore privato: di


conseguenza, la Corte negò che la ragione di illegittimità
costituzionale potesse valere per altre vertenze, in particolare quelle
su diritti soggettivi assegnate alla giurisdizione esclusiva.
Rispetto alla giurisdizione esclusiva questo quadro è mutato solo di
recente. In particolare l’art. 7 della l.n. 205/2000, modificando l’art.
35, 3° c. del d. lgs. n. 80/1995, ha attribuito al giudice
amministrativo, nelle controversie considerate nel 1° c. dello stesso
art. 35, il potere di assumere i mezzi di prova previsti dal c.p.c. ,
oltre alla consulenza tecnica.
I provvedimenti istruttori del giudice possono essere assunti dal
Presidente o da un magistrato da lui delegato, fino all’udienza di
discussione, ovvero dal collegio nel corso o in esito all’udienza di
discussione.
6. Le ingiunzioni
Agli artt. 633 ss. il c.p.c. disciplina il procedimento d’ingiunzione: chi
è creditore di una somma liquida di denaro o di una determinata
quantità di cose fungibili, o ha diritto alla consegna di una cosa
mobile, può, avvalersi anche di questo procedimento. Se fornisce
una prova scritta del suo credito, può ricorrere al giudice, chiedendo
che sia ingiunto all’obbligato di provvedere al pagamento e/o
consegna delle cose; il giudice provvede senza necessità di
contraddittorio, con decreto. La parte cui è stato notificato il decreto
ingiuntivo può opporsi entro un termine perentorio. Se non è
proposta opposizione, il decreto acquista efficacia; nel caso di
opposizione si apre un normale giudizio di cognizione sulla pretesa
del creditore.
La novella del 1990 c.p.c. ha previsto che il giudice civile, su richiesta
della parte interessata, nel corso del giudizio, possa emettere

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un’ingiunzione per il pagamento di somme di denaro non contestate


dal debitore costituito in giudizio e che, inoltre, possa pronunciare
un’ingiunzione, quando ricorrano le condizioni previste per
l’emissione di un decreto ingiuntivo.
L’estensione della giurisdizione esclusiva ha fatto sorgere l’esigenza
di ammettere pronunce di questo genere anche nel processo
amministrativo, per la tutela dei diritti patrimoniali.
Anche in questo ambito è intervenuta la legge n. 205/2000,
introducendo decreti ingiuntivi del giudice amministrativo, nei casi
previsti dagli artt. 633 ss. c.p.c. .
L’intervento della Corte costituzionale, nel 2004 ha limitato l’ambito
della giurisdizione esclusiva per le vertenze di ordine meramente
patrimoniale.
7. Gli incidenti del giudizio
Come si verifica anche nel processo civile, una serie di eventi
possono incidere sul corso dei procedimenti, precludendo la
prosecuzione del giudizio.
Tra questi vanno ricordati la proposizione, da parte del collegio,
della questione di legittimità costituzionale, che introduce il giudizio
d’avanti alla Corte costituzionale, e il deferimento alla Corte di
giustizia di una questione di interpretazione di norma comunitaria.
La legge istitutiva dei TAR ha previsto la proponibilità del
regolamento preventivo di giurisdizione (art. 41 c.p.c.): esso è
proposto dalle parti, con istanza alla Corte di cassazione, finchè sul
ricorso non sia intervenuta un decisione del TAR. La proposizione
del regolamento non comporta la sospensione del giudizio, che è
disposta dal TAR, solo dopo aver verificato che l’istanza non sia
manifestamente inammissibile o infondata.

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Il giudizio amministrativo deve essere sospeso anche nell’ipotesi che


siano poste questioni inerenti allo stato alla capacità delle persone e
di falso. La decisione, in questi casi, è riservata al giudice civile e il
giudice amministrativo non può provvedere su di essere, neppure in
via incidentale. In questi casi la sospensione del giudizio deve essere
disposta sulla base di una semplice valutazione della rilevanza della
questione, rispetto al giudizio amministrativo. La sospensione è
invece rimessa ad una valutazione di opportunità del giudice
amministrativo quando sia pendente un procedimento penale,
relativo ai medesimi fatti di cui si controverte nel processo
amministrativo, o in relazione alla pendenza di altri procedimenti
civili o amministrativi per vicende connesse.
La legge istitutiva dei TAR ha introdotto, infine, l’istituto
dell’interruzione del processo analogamente a quanto previsto per il
processo civile.
Quando sia cessata la causa di sospensione è necessario un atto
d’impulso della parte interessata. Nel processo amministrativo, tale
atto si identifica normalmente con una nuova istanza di discussione
del ricorso; un vero e proprio atto di riassunzione, da notificarsi alle
altre parti, è necessario, secondo la giurisprudenza prevalente, solo
nel caso di interruzione.

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Capitolo 12
LA TUTELA CUTELARE
1. Il quadro normativo
Anche la disciplina della tutela cautelare, nel processo
amministrativo, è stata modellata sul giudizio d’impugnazione di
provvedimenti: di conseguenza, la tutela cautelare si è incentrata,
fino ad epoca recente, nella sospensione del provvedimento
impugnato. Solo con la legge n. 205/2000 (art. 3) il legislatore ha
considerato l’istituto in termini più generali.
L'art. 39 t.u. Cons. Stato, inoltre, ha confermato che «i ricorsi in via
contenziosa non hanno effetto sospensivo» e ha precisato che
«l’esecuzione dell'atto» impugnato, può essere sospesa dal giudice
amministrativo «per gravi ragioni», su richiesta del ricorrente. Nello
stesso senso ha disposto l'art. 21, 8° comma, legge TAR, anche nella
nuova formulazione, introdotta dalla legge n. 205/2000 (art. 3).
Spetta quindi alla parte interessata richiedere l’intervento del
giudice, per evitare che le sue ragioni possano essere compromesse,
prima della decisione del ricorso. In base all’art. 36 reg. proc. Cons.
Stato, la domanda di una misura cautelare deve essere presentata
dal ricorrente al giudice adito per il ricorso principale, con istanza
scritta, che deve essere notificata all’Amministrazione resistente e
agli «interessati». Questa previsione era interpretata, in passato, nel
senso che non fosse necessaria la notifica a tutti i controinteressati.
Per questo profilo la disciplina del processo cautelare risultava
gravemente lacunosa.
Negli anni ‘90, però, il Consiglio di Stato si è indirizzato nel senso
che il giudice amministrativo possa provvedere definitivamente
sull’istanza cautelare, solo dopo l’integrazione del contraddittorio,
con tutte le parti necessarie del giudizio. Questa soluzione è stata

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sancita dalla legge n. 205/2000 (art. 21, 8° comma, legge TAR, come
modif. dall'art. 3 della legge n. 205/2000). Prima dell'integrazione
del contraddittorio, il giudice amministrativo può adottare solo
misure cautelari provvisorie, soggette a riesame.
La richiesta di misura cautelare viene esaminata in camera di
consiglio dal giudice amministrativo, nella sua ordinaria
composizione collegiale, decorsi almeno dieci giorni dalla notifica
dell'istanza. In camera di consiglio possono comparire i difensori
delle parti che ne facciano richiesta, per discutere l’istanza stessa.
Sull’istanza cautelare il giudice amministrativo decide con
ordinanza motivata (art. 21, 8° comma, della legge TAR, introdotto
dalla legge n. 205/2000); l’ordinanza è efficace fin dal momento del
suo deposito.
In caso di estrema gravità e urgenza, la misura cautelare può essere
richiesta al Presidente del TAR o della sezione cui il ricorso
principale sia stato assegnato, previa notifica della relativa istanza
alle altre parti. Il Presidente provvede con un decreto motivato che
rimane efficace fino all’ordinanza del collegio, cui va sottoposta
l’stanza cautelare nella prima camera di consiglio utile. Anche in
quest'ultimo caso, comunque, la tutela cautelare ha sempre carattere
incidentale e si svolge nell’ambito di un giudizio instaurato col
ricorso principale. L’istanza di misura cautelare, quando sia
presentata successivamente al ricorso, deve essere sempre diretta al
medesimo giudice che è competente per la decisione del ricorso. La
pronuncia sull’istanza cautelare deve essere motivata. L’obbligo di
motivazione delle pronunce cautelari, benché sancito dalla legge,
spesso, in passato, non era rispettato. Questa prassi dei giudici
amministrativi appare molto grave. L’art. 21, 8° comma, legge TAR,
introdotto dall’art. 1 della legge n. 205/2000, è intervenuto anche su

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questo punto, non solo confermando la necessità che le pronunce


cautelari siano motivate, ma anche precisando che la motivazione
deve estendersi «alla valutazione del pregiudizio allegato» dalla parte
istante (c.d. periculum in mora) e deve indicare «i profili che, ad un
sommario esame, inducono ad una ragionevole previsione sull’esito del
ricorso» (c.d. fumus boni iuris).
La tutela cautelare è soggetta ad una medesima disciplina sia nel
caso che venga richiesta nel giudizio di primo grado, avanti al TAR,
sia nel caso che essa venga richiesta per la prima volta nel giudizio
d’appello, avanti al Consiglio di Stato.
2. I caratteri generali della tutela cautelare nel processo ammini-
strativo
La tutela cautelare, anche nel processo amministrativo, ha sempre
carattere di strumentalità: realizza, così, l’interesse ad evitare che la
durata del giudizio possa rendere praticamente inutile per il
ricorrente la decisione finale. L’esecuzione di un provvedimento
amministrativo può compromettere in modo molto grave, o
addirittura irreversibile, la posizione del destinatario del
provvedimento stesso (si pensi al caso dell'esecuzione di un prov-
vedimento di esproprio, oppure al caso dell'esecuzione di un ordine
di chiusura di un'azienda). In queste ipotesi, anche se il
provvedimento fosse illegittimo e perciò venisse in un secondo
tempo annullato dal giudice amministrativo, la sentenza di
annullamento non sarebbe idonea a soddisfare effettivamente
l’interesse del cittadino.
In base ai principi generali, la concessione della misura cautelare da
parte del giudice presuppone l’accertamento di un “fumus boni
iuris” e di un “periculum in mora” .

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Il primo elemento consiste in una valutazione sommaria sul merito


della pretesa fatta valere dal cittadino con l’impugnazione.
Deve essere chiaro che la misura cautelare non va concessa in
presenza di un ricorso manifestamente infondato o inammissibile,
perché altrimenti non avrebbe più valore la regola generale secondo
cui il ricorso non ha effetto sospensivo e si realizzerebbero risultati
incompatibili con il principio della “strumentalità”.
Particolare rilievo assume, inoltre , il profilo costituito dal
“periculum in mora” . L'art. 21 ult. comma della legge TAR identifica
questo elemento nella possibilità di «danni gravi ed irreparabili»
derivanti dal provvedimento impugnato; tali danni devono essere
allegati dal ricorrente nell’istanza di sospensione e perciò il giudice
non può d’ufficio ipotizzarne l’esistenza né introdurli nel processo.
Il danno che giustifica l’ accoglimento dell'istanza cautelare deve
essere considerato come danno determinato dal provvedimento
amministrativo ad un interesse materiale rilevante del ricorrente e
qualificato dal carattere della gravità e della “irreparabilità”. Questo
carattere, può essere verificato in senso “assoluto” (ossia, in
relazione al tipo di interesse pregiudicato dal provvedimento),
ovvero in senso “relativo” (ossia, in relazione all’incidenza del
provvedimento alla luce delle condizioni soggettive del ricorrente).
Nello stesso tempo, però, il giudice amministrativo deve considerare
anche i riflessi che produrrebbe la misura cautelare rispetto
all'Amministrazione e rispetto ai controinteressati. Il giudice
amministrativo, ai fini dell’accoglimento dell’istanza cautelare, deve
effettuare una valutazione “comparata” di tutti questi interessi, sulla
base del suo prudente apprezzamento.
L’art. 21, 8° comma, legge TAR, precisa espressamente che la
concessione o il diniego della misura cautelare può essere

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subordinato ad una cauzione, a garanzia del pregiudizio subito


dalla parte su cui grava la pronuncia del giudice; la cauzione non è
ammessa, però, quando siano in gioco «interessi essenziali della
persona, quali il diritto alla salute o all’integrità dell’ambiente».
3. La tipologia delle misure cautelari
La tutela cautelare, nel processo amministrativo, si è incentrata, a
lungo, in una misura tipica e generale: la sospensione del
provvedimento impugnato. Tale previsione, si ricollegava al fatto
che il processo amministrativo era risolto nella impugnazione del
provvedimento amministrativo. Di conseguenza, la “lesività” di un
provvedimento era individuata nella idoneità dell’atto
amministrativo a modificare unilateralmente la situazione giuridica
sostanziale del destinatario e nella possibilità, di realizzare “in via
amministrativa” l’esecuzione materiale del provvedimento, ai danni
del privato. In questa logica, obiettivo della tutela cautelare era
ottenere la sospensione dell'atto impugnato.La tutela cautelare si
incentrava cosi’ in una misura ablatoria rispetto al provvedimento
amministrativo perché precludeva la produzione degli effetti propri
del provvedimento impugnato o inibiva all’amministrazione di
attuare l’esecuzione materiale.Questa configurazione risultava
inadeguata già nel giudizio promosso a tutela di interessi legittimi,
che riguardasse provvedimenti negativi o il “silenzio”
dell'Amministrazione. La sospensione di un provvedimento
negativo o del silenzio rifiuto, infatti, non comporta alcun beneficio
per il ricorrente, perché in questi casi il pregiudizio materiale non è
superato dalla preclusione degli effetti del provvedimento: può
essere superato solo da un diverso esito del procedimento. L'inutilità
di una “sospensione” cautelare dei provvedimenti negativi portava a
concludere che, nei confronti di questi provvedimenti, non era

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ammessa, in pratica, alcuna tutela cautelare, dato che l’unica misura


cautelare prevista in via generale nel processo amministrativo era
costituita, appunto, dalla sospensione.
Di fronte a una conclusione così grave, a partire dagli anni ’30, si
affermò una giurisprudenza che cercava di individuare, nell’ambito
dei provvedimenti negativi, alcune categorie di atti assimilabili, dal
punto di vista degli effetti, ai provvedimenti positivi.
Più di recente, soprattutto negli anni ‘90, alcuni giudici
amministrativi avevano cercato di estendere la “sospensione” ai
provvedimenti “meramente” negativi e al silenzio-rifiuto
dell'Amministrazione, con esiti controversi. La maggiore ampiezza
della tutela cautelare conduceva a esiti sempre più lontani dal
modello normativo. Infatti, nei confronti di atti meramente negativi
o del silenzio-rifiuto, una tutela cautelare può consistere solo nella
introduzione di una nuova disciplina del rapporto. La sospensione
di un silenzio-rifiuto o di un provvedimento negativo diventava,
l’ordine all’Amministrazione di pronunciarsi sulla richiesta di
provvedimento; la concessione della sospensione era intesa come
equipollente al provvedimento richiesto dal cittadino o negato
dall’Amministrazione.
La legge n. 205/2000 ha comportato, anche in questo ambito,
innovazioni sostanziali. La tutela cautelare, in base all'art. 21, 8°
comma, della legge TAR, non si risolve più in una misura tipica,
quella della “sospensione”, ma si attua con misure di contenuto
atipico, modellate sul caso concreto. Di conseguenza, molti
ritengono che oggi il giudice possa intimare all’Amministrazione di
assumere determinati atti, ovvero possa lui stesso autorizzare lo
svolgimento dell’attività richiesta dal ricorrente.

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In questo contesto, rimane ferma l’esigenza di definire i limiti ai


poteri cautelari del giudice amministrativo.
In primo luogo, una misura cautelare non può determinare, neppure
in via di fatto, la definizione del giudizio. Altrimenti la tutela
cautelare si configurerebbe, in termini incompatibili con il principio
di strumentalità.
In secondo luogo, si dubita della possibilità per il giudice
amministrativo di definire, seppure in sede cautelare, l’assetto di
interessi che sia demandato dalla legge alla discrezionalità
amministrativa. Rispetto a questi stessi ambiti, infatti, la valutazione
discrezionale dell’ Amministrazione dovrebbe ritenersi infungibile.
4. I rimedi ammessi nei confronti delle ordinanze cautelari
La misura cautelare ha effetto fino alla sentenza che definisce quel
grado di giudizio. Se il giudizio si estingue, la misura cautelare
perde la sua efficacia. Anche le eventuali valutazioni, circa la
fondatezza dei motivi di ricorso non producono alcun vincolo sulla
sentenza perché l’ordinanza che provvede su un’istanza cautelare
non fa stato nel giudizio. Inoltre, l’ordinanza è passibile di revoca, su
richiesta della parte che vi abbia interesse e, nel caso di rigetto
dell'istanza cautelare, l’istanza può essere riproposta (art. 21, 13°
comma, legge TAR). Pertanto, può essere richiesta la revoca
dell’ordinanza nel caso di sopravvenienza di elementi nuovi, esterni
rispetto al giudizio, quali il mutamento della situazione di fatto e il
mutamento della situazione di diritto .
La revoca può essere pronunciata solo su istanza di parte; l’istanza
deve essere presentata allo stesso giudice che ha emesso l’ordinanza
in questione ed è soggetta alla medesima procedura dell’istanza
cautelare.

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Nei confronti dell’ordinanza del TAR che decide sull’istanza


cautelare è consentito, inoltre, l’appello al Consiglio di Stato. A
differenza dell’istanza di revoca, l’appello è ammesso non per fatti
nuovi sopravvenuti, ma per “l’ingiustizia” dell’ordinanza stessa.
Con l’appello si contesta la decisione del giudice di primo grado
sull’istanza cautelare e si chiede il suo riesame da parte del giudice
di secondo grado. L’appello va proposto entro 60 gg. dalla notifica
dell’ordinanza, ovvero, in mancanza di notifica, entro 120 gg. dalla
comunicazione del deposito dell’ordinanza (art. 28); il giudizio
prosegue poi secondo le regole previste per l’appello contro le
sentenze, fermo restando che, anche in secondo grado la decisione è
assunta con ordinanza.
Nei confronti delle ordinanze cautelari la giurisprudenza
amministrativa ammette, infine, il rimedio della revocazione, ai
sensi degli artt. 395 e 396 c.p.c.

5. L'esecuzione delle ordinanze cautelari


Alcune volte, la sospensione cautelare comporta la necessità, per
l’Amministrazione, di compiere una certa attività e di attenersi
quindi ad un certo comportamento. Se l’Amministrazione non
compie l’attività necessaria, l’ordinanza di sospensione rischia di
rimanere improduttiva di risultati pratici. Per assicurare l’esecuzione
di una pronuncia del giudice amministrativo, il processo
amministrativo contempla il rimedio del giudizio di ottemperanza
(art. 27, n. 4, t.u. Cons. Stato).
A partire dagli inizi degli anni ’80, il Consiglio di Stato si indirizzò
nel senso di ritenere inammissibile il giudizio di ottemperanza per

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l’esecuzione di ordinanze cautelari, sostenendo che tale giudizio


avrebbe come presupposto necessario l’inottemperanza a una
sentenza. Nel caso del processo cautelare, però, il potere di
sospendere il provvedimento impugnato implicherebbe anche il
potere di assumere tutte le determinazioni idonee ad assicurare
l’esecuzione dell’ordinanza di sospensione (Cons. Stato, ad. plen., n.
6/1982).
Le conclusioni della giurisprudenza sono state recepite dal
legislatore, nell’art. 21, 14° comma, legge TAR. La nuova
disposizione precisa che, se l’Amministrazione non ha eseguito
un’ordinanza cautelare, la parte interessata, con istanza che deve
essere notificata alle altre parti, può rivolgersi al giudice che ha
emesso l’ordinanza. Il giudice amministrativo adotta le misure
necessarie per assicurare l’esecuzione dell’ordinanza cautelare e, a
tal fine, dispone di tutti i poteri che sono ammessi per il giudizio di
ottemperanza. In particolare può dettare ordini all’Amministrazione
e può nominare Commissari che si sostituiscano all’organo
inadempiente.
6. I nuovi problemi e le prospettive della tutela cautelare
Il legislatore è intervenuto più volte, in passato, con disposizioni
speciali sulla tutela cautelare nel processo amministrativo. I suoi
interventi sono stati diretti, in genere, a ridurre il pericolo che le
misure cautelari potessero paralizzare l’azione amministrativa,
ritardando la realizzazione di interventi importanti (soprattutto nel
settore dei lavori pubblici) o pregiudicando altri interessi di rilievo
per la collettività. La legge n. 205/2000 ha considerato queste
esigenze: sia quella di accelerare la conclusione del giudizio, in
vertenze di particolare rilievo generale, sia quella di consentire, in
taluni casi, l’anticipazione della sentenza alla fase cautelare. In

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particolare l’art. 9 ha modificato il testo dell’art. 26 legge TAR che,


oggi, dispone che il giudice amministrativo può decidere il ricorso
(con «sentenza succintamente motivata») nella camera di consiglio
fissata per l’esame dell’istanza cautelare, ogni qual volta riscontri «la
manifesta fondatezza ovvero la manifesta irricevibilità,
inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso». Si
tenga presente, però, che le parti intimate in giudizio, quando vi sia
il rischio di una decisione del ricorso anticipata alla fase cautelare,
hanno l’onere di costituirsi al più presto per svolgere le loro difese in
tempo utile per la camera di consiglio fissata per l’esame dell’istanza
cautelare; di fatto i termini per le loro difese risultano decurtati in
modo consistente.
Per quanto riguarda, invece, la tutela cautelare in vertenze di
particolare interesse generale, va considerata la particolare
disciplina prevista dall'art. 23-bis, legge TAR. Questa disciplina,
dettata per le vertenze sull’affidamento di appalti pubblici, su
occupazioni ed espropriazioni, sui provvedimenti delle autorità
indipendenti, ecc., comporta che, se sia stata presentata un’istanza
cautelare, il giudice amministrativo, se riscontra gli estremi per il
suo accoglimento, non adotti alcuna misura cautelare, ma fissi
l’udienza di discussione del ricorso, in modo che si tenga a breve
scadenza. Solo «in caso di estrema gravità ed urgenza>> il giudice adotta
la misura cautelare del caso. Se l’istanza cautelare è respinta dal TAR
e viene proposto appello contro l’ordinanza di rigetto, il Consiglio di
Stato che accolga il gravame non adotta di regola una misura
cautelare (fatta salva l’ipotesi «di estrema gravità ed urgenza»), ma
rimette gli atti al TAR, che deve subito fissare, nei termini prescritti,
l’udienza di discussione del ricorso.

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Il legislatore ha dimostrato, in questo modo, di ricercare un


equilibrio fra le esigenze suddette.
Non pare, invece, che un equilibrio sia stato raggiunto dall’art. 14,
d.lgs. n.190/2002, sui giudizi in materia di infrastrutture pubbliche
ed insediamenti produttivi. In questo caso il legislatore ha
affermato che il giudice amministrativo, ai fini dell’eventuale
concessione della misura cautelare, deve considerare il «preminente
interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell’opera». Emerge
l'intenzione del legislatore di limitare sostanzialmente lo spazio per
una tutela cautelare, con soluzioni che non sono compensate da
misure processuali alternative.

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Capitolo 13
LA DECISIONE DEL RICORSO E I RIMEDI NEI CONFRONTI
DELLA SENTENZA
1. La decisione del ricorso
Il giudizio amministrativo è definito in genere da una sentenza, che
viene deliberata dal collegio giudicante.
Nel giudizio amministrativo, in molti casi, il termine “sentenza”
identifica la forma dei provvedimenti assunti dal collegio dopo una
camera di consiglio o una pubblica udienza.
Nel processo amministrativo sono ammesse infatti anche sentenze
interlocutorie, con le quali il collegio, in esito a una pubblica
udienza o a una camera di consiglio, detta disposizioni per lo
svolgimento del giudizio e sentenze istruttorie . Queste sentenze
non solo non sono idonee a passare in giudicato, ma non sono
neppure in grado di costituire un vincolo di ordine interno sulla
decisione finale e pertanto non sono impugnabili.
Hanno invece carattere decisorio le sentenze parziali, con le quali il
giudice amministrativo decide, rigettandole, alcune questioni
pregiudiziali o preliminari, ovvero decide su alcune delle censure
proposte nel ricorso, riservando la decisione delle altre ad
un’ulteriore pronuncia. Esse sono idonee a costituire cosa giudicata.
Con riferimento alle pronunce parziali e alle sentenze definitive, si è
soliti distinguere fra sentenze di rito e sentenze di merito.
Le prime si esaurirebbero nell’esame di questioni strettamente
processuali o nella verifica delle c.d. condizioni per l’azione, o
nell’esame di questioni inerenti alla giurisdizione o nella declaratoria
della c.d. cessazione della materia del contendere, che si verifica
quando il provvedimento impugnato venga annullato d’ufficio
dall’Amministrazione, in termini conformi all’interesse del

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ricorrente, prima della pronuncia del giudice. In alcuni di questi casi


il giudizio viene definito oggi, anziché con una sentenza, con un
decreto presidenziale.
Le seconde riguarderebbero invece il merito della domanda e delle
questioni pregiudiziali di merito che siano state sollevate nel corso
del giudizio e possono quindi essere pronunce di accoglimento della
domanda o pronunce di rigetto per ragioni di merito.
Nel caso di accoglimento del ricorso, le sentenze di merito, possono
quindi disporre l’annullamento del provvedimento impugnato, o la
sua revoca o riforma nelle ipotesi di giurisdizione di merito (art. 26,
2° comma, legge TAR), ovvero ordinare all’Amministrazione di
provvedere nel caso di un giudizio sul silenzio-rifiuto, ovvero
accertare un diritto soggettivo del ricorrente in ipotesi di
giurisdizione esclusiva, o anche condannare l’Amministrazione al
pagamento di somme di denaro di cui essa risulti debitrice.
Nell’esame della domanda, il giudice deve tener conto del vincolo di
pregiudizialità che può sussistere fra le varie questioni rilevanti per
la decisione. Fenomeno diverso da quello della pregiudizialità è il
c.d. assorbimento delle questioni, che si verifica quando le questioni
sollevate seguono un preciso ordine logico, che il giudice deve
seguire ai fini della decisione.
Il giudice amministrativo, comunque, suole disporre frequentemente
l’assorbimento dei motivi di ricorso sulla base di criteri di mera
opportunità pratica.
Questo uso improprio dell’istituto dell’assorbimento appare grave,
perché determina di fatto una pronuncia incompleta sul ricorso e
impedisce al cittadino di conseguire tutte le utilità che potrebbero
derivare dall’accoglimento degli altri motivi di impugnazione.

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Una sentenza con caratteri particolari è stata prevista dall'art. 35, 2°


comma, del d.lgs. n. 80/1998, come modif. dall'art. 7 della legge n.
205/2000, per le vertenze risarcitorie. II giudice, se accoglie la
domanda risarcitoria può limitarsi a fissare nella sentenza i «criteri»
per determinare la misura del risarcimento; entro il termine fissato
nella sentenza, l’amministrazione deve formulare, sulla base di
questi criteri, la sua proposta di pagamento; in mancanza di accordo
la determinazione della somma dovuta può essere richiesta nelle
forme previste per il giudizio d’ottemperanza.
La sentenza deve essere sottoscritta dal presidente del collegio
giudicante e dall’estensore e viene depositata, unitamente al
dispositivo, presso la segreteria del TAR (legge n. 186/1982, art. 55)
Il deposito comporta la pubblicazione della sentenza: da quel
momento la sentenza produce i suoi effetti e decorre il termine
annuale per l’eventuale impugnazione. Del deposito della sentenza
la segreteria dà comunicazione alle parti; la notifica della sentenza
costituisce, invece, un onere delle parti, che determina la decorrenza
del termine breve per l’eventuale impugnazione
2. Gli effetti della sentenza di annullamento
Il nucleo della sentenza di annullamento è stato identificato a lungo
con l’accertamento della illegittimità del provvedimento
impugnato, in relazione a determinati vizi enunciati nel ricorso.
A questa concezione, se ne è poi contrapposta un’altra. Anch’essa
identifica come centrale il momento dell’accertamento, ma si
concentra in modo particolare sull’interesse tutelato nel processo
amministrativo: la sentenza accerta la lesione di un interesse
legittimo. La verifica compiuta dal giudice inerisce ad una posizione
soggettiva: l’interesse legittimo. Nel dibattito, alcuni punti
sembrano acquisiti. Innanzi tutto, l’accertamento dell’illegittimità

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del provvedimento o della lesione dell’interesse legittimo, costituisce


il nucleo essenziale e ineliminabile della sentenza del giudice
amministrativo. Inoltre, sembra maturata una quasi unanimità di
consensi su un punto: la sentenza di annullamento non può essere
considerata solo nella prospettiva della eliminazione di un atto
amministrativo.
Il potere dell’Amministrazione non si esaurisce per effetto della
sentenza che accolga un ricorso.
Il riconoscimento della permanenza del potere amministrativo pone
l’esigenza di salvaguardare il contenuto di accertamento della
sentenza.
Da questo punto di vista appare significativa la sistematica proposta
da alcuni autori, che individua tre ordini di effetti della sentenza di
annullamento:
- un effetto “eliminatorio” o “caducatorio”. La sentenza di
annullamento comporta l'eliminazione dalla c.d. realtà giuridica del
provvedimento annullato. L'annullamento di un decreto di
esproprio, ad es., comporta come effetto il venir meno del titolo
giuridico e gli atti amministrativi che ad esso abbiano dato
esecuzione o attuazione (atti consequenziali) ecc.
- un effetto “ripristinatorio”. La sentenza di annullamento opera ex
tunc: essa, pertanto, non solo elimina dalla realtà giuridica attuale un
certo assetto di interessi, ma impone che quell'assetto di interessi sia
eliminato fin dall’origine.
- un effetto “conformativo”. L’accertamento contenuto nella
sentenza non può essere disatteso dall'Amministrazione.
In questa sistematica la riflessione sugli effetti della sentenza di
annullamento si concentra particolarmente sugli effetti conformativi,

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perché essi determinano la stabilità o meno del risultato raggiunto


dal ricorrente con sentenza stessa.
L'art. 21-octies della legge n. 241/1990, introdotto dalla legge n.
15/2005, nel secondo comma esclude l'annullamento del
provvedimento. Questa disposizione è oggetto di interpretazioni
diverse. Alcune ambientano la norma in un quadro tipicamente
sostanziale, altre invece in un quadro processuale. L’interpretazione
della disposizione ne condiziona anche la rilevanza rispetto al tema
in esame, sulla portata della sentenza d’accoglimento, nel caso di im-
pugnazione di un atto illegittimo.Attraverso la sentenza di
annullamento possiamo avere una classificazione delle utilità.Se
l’annullamento è stato disposto per un vizio di legittimità
sostanziale impedisce l’emanazione di un nuovo provvedimento con
quel contenuto.Se invece è predisposta per un vizio di legittimità
formale il vantaggio del ricorrente è minore perché l’annullamento
non impedisce di per sé l’emanazione di un nuovo atto con lo stesso
contenuto purchè l’atto sia emendato dai vizi accertati nella
sentenza.
3. La revocazione
L’art. 28 della legge TAR ammette, nei confronti delle sentenze dei
TAR, il rimedio della revocazione; l’art. 36 della stessa legge
ammette la revocazione anche nei confronti delle decisioni del
Consiglio di Stato. In entrambi i casi non è dettata una disciplina
specifica dell’ istituto, con riferimento a pronunce di giudici
amministrativi, ma è fatto rinvio al c.p.c..
Va osservato, però, che nella legge istitutiva dei TAR le disposizioni
del codice di rito sono richiamate in modo impreciso e con varie
incongruenze e illogicità. In particolare, l’art. 36, legge TAR, a
proposito dei casi di revocazione ammessi nei confronti delle

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decisioni pronunciate in grado d’appello dal Consiglio di Stato,


richiama l'art. 396 c.p.c. (che riguarda i casi di revocazione nei
confronti di sentenze di primo grado passate in giudicato) anziché
l’art, 395 c.p.c. (che invece riguarda i casi di revocazione di sentenze
pronunciate in unico grado o in grado d’appello).
Ancora, l’art. 28, 1° comma, legge TAR richiama per le sentenze dei
TAR, oltre che i casi di revocazione previsti dall’art. 396 c.p.c. (sulla
revocazione straordinaria delle sentenze di primo grado), anche
quelli previsti dall’art. 395 (sulla revocazione delle sentenze
pronunciate in grado d’appello o in unico grado), creando così
confusione in merito al rapporto fra la revocazione (c.d. ordinaria) e
l’appello: il Consiglio di Stato si è orientato nel senso di ritenere che i
due rimedi siano fra loro concorrenti.
La revocazione ordinaria è ammessa in tutti i casi previsti dall’art.
395 c.p.c; la revocazione straordinaria (che riguarda le sentenze
passate in giudicato) è ammessa invece solo nelle ipotesi previste
dall’art. 395, nn. 1, 2, 3 e 6, c.p.c.
I casi di revocazione previsti dall'art. 395 c.p.c. riguardano:
- la sentenza che sia effetto del dolo di una parte in danno a un’altra
- la sentenza pronunciata in base a prove riconosciute o dichiarate
false dopo la sentenza o che la parte soccombente ignorava essere
state riconosciute o dichiarate false prima della sentenza
- il caso di ritrovamento dopo la sentenza di uno o più documenti
decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per
causa di forza maggiore o per fatto dell'avversario.
- la sentenza che sia affetta da errore di fatto risultante dagli atti o
documenti della causa. Si tratta dell’ipotesi di revocazione più
importante e discussa: l’errore di fatto che consente la revocazione
deve essere stato determinante per la sentenza e deve consistere in

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una errata od omessa percezione del contenuto materiale degli atti o


dei documenti prodotti nel giudizio
- la sentenza contraddittoria con altra precedente passata in
giudicato, purché non abbia pronunciato sulla relativa eccezione.
Questa ipotesi presuppone l’identità degli elementi di
identificazione dell’azione nei due diversi giudizi.
- la sentenza affetta da dolo del giudice, accertato con sentenza
passata in giudicato.
Nel processo amministrativo, il ricorso per revocazione si propone
avanti al medesimo giudice che ha emesso la sentenza: il giudice
adito procede all’accertamento delle condizioni per la revocazione e,
nel caso di accertamento positivo, al riesame del merito della
controversia già precedentemente decisa.
4. L'appello al Consiglio di Stato: considerazioni preliminari
La legge istitutiva dei TAR, nel dare attuazione all’art. 125, 2°
comma, Cost., ha introdotto con carattere di generalità il c.d. doppio
grado di giurisdizione nel processo amministrativo: nei confronti
delle sentenze (parziali o definitive) dei TAR la parte soccombente
può proporre l’appello al Consiglio di Stato.
Meritano di essere segnalate particolarmente le discussioni
concernenti:
a) la nozione di soccombenza. Questa nozione inerisce a quella
condizione generale per l’appello che è costituita dall’interesse ad
appellare. In passato tale interesse spesso veniva identificato con la
soccombenza: ha interesse ad impugnare la sentenza di primo grado
chi sia risultato soccombente in quel grado di giudizio.
Va osservato, però, che la configurabilità di una soccombenza risulta
pacifica solo in alcune ipotesi, in altre, invece, la configurabilità e i
caratteri della soccombenza appaiono più opinabili.

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b) la nozione di capo (o “parte”) di sentenza. L’appello, al pari di


ogni altra impugnazione, deve identificare l’ambito della sentenza
impugnato perché tendenzialmente è, rispetto a tale ambito, che si
riapre la controversia (art. 329 c.p.c). A questo fine, però, diventa
essenziale capire quale sia l’ambito di una sentenza passibile di
autonoma contestazione: il c.d. capo di sentenza. L’appello può
riguardare uno o più capi di sentenza; rispetto a quelli non gravati
da appello, si forma il giudicato.
La nozione di capo di sentenza, molto dibattuta nel processo civile,
risulta ancora più controversa nel processo amministrativo. Risultato
di queste incertezze è, in dottrina, la presenza di interpretazioni che
spaziano da quella che identifica il “capo” di sentenza in base al
“petitum” del ricorso (= l’annullamento di un determinato
provvedimento) a quella che invece identifica il “capo” con il singolo
determinato profilo di illegittimità fatto valere nel ricorso (a ciascun
vizio esaminato nella sentenza corrisponde un “capo” distinto). Su
una posizione intermedia si colloca la tesi secondo cui la nozione di
capo di sentenza dovrebbe essere conformata alle utilità che
l’accoglimento di una censura comporta per il ricorrente, tenendo
conto di tutti gli effetti della sentenza di annullamento. In questo
modo il capo di sentenza si identificherebbe in base a una qualità
degli effetti della sentenza.
Nella giurisprudenza amministrativa prevale la tendenza che
identifica come unità minima della sentenza, ai fini dell’appello,
qualsiasi pronuncia espressa su una “questione” sollevata dalle parti
o rilevata d’ufficio nel giudizio di primo grado. Capo della sentenza
finisce così col risultare non solo la pronuncia sul singolo vizio, ma
anche il rigetto di ogni eccezione pregiudiziale o preliminare.

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e) la configurabilità e l’ampiezza di un effetto devolutivo


dell’appello. L’appello si caratterizza, fra i mezzi di impugnazione,
per essere diretto ad ottenere dal giudice di secondo grado il riesame
della vertenza decisa dal giudice di primo grado. Pertanto, il giudice
d’appello deve poter conoscere e decidere la vertenza con la stessa
pienezza del giudice di primo grado. A questo proposito si parla di
un effetto devolutivo dell’appello: si designa così la riemersione
automatica, nel giudizio d’appello, delle questioni già sollevate nel
giudizio di primo grado e del relativo materiale di cognizione e
probatorio. La configurabilità di un effetto devolutivo dell’appello,
oggetto di contestazioni nel processo civile, è data come elemento
pacifico dal Consiglio di Stato.
Un effetto devolutivo si può produrre solo nei limiti
dell’impugnazione proposta: pertanto può riguardare solo questioni
risolte nei capi di sentenza che siano impugnati.
d) l'oggetto della contestazione nell’appello.
E’ stato osservato, in passato, che l’appello al Consiglio di Stato si
propone con ricorso contro la sentenza di primo grado e che le
disposizioni sul giudizio avanti al Consiglio di Stato modellano il
ricorso nei termini di reazione demolitoria ad un atto: oggi, dato che
il Consiglio di Stato è giudice d’appello, tale atto sarebbe, appunto,
la sentenza di primo grado. La legge istitutiva dei TAR prevede,
però, un accentuato parallelismo nella competenza e nei poteri di
cognizione e di decisione fra TAR e Consiglio di Stato (art. 28, 3° e 4°
comma) e questo parallelismo non sembra conciliabile con una
contrapposizione nell’oggetto dei due gradi del giudizio, come si
avrebbe, se il primo investisse il provvedimento amministrativo e il
secondo la sentenza appellata. Gli artt. 34 e 35 della legge istitutiva
dei TAR sanciscono che il Consiglio di Stato, se accoglie l’appello, in

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ipotesi tassative, si limita ad annullare la sentenza di primo grado.


Sottolineano, così, la capacità del Consiglio di Stato di assumere una
pronuncia pienamente sostitutiva di quella di primo grado e perciò
l’attitudine del giudice d’appello a decidere dell’impugnazione del
provvedimento amministrativo.
Si tenga presente che le conclusioni accolte dalla giurisprudenza
prevalente sull’oggetto del giudizio d’appello, nel processo
amministrativo non esauriscono le questioni concernenti i rapporti
fra i due gradi di giudizio.
5. (segue): l’appello principale e l’appello incidentale
Tradizionalmente, la legittimazione all’appello era riconosciuta solo
alle parti necessarie nel giudizio di primo grado, sia per ragioni di
coerenza con quanto previsto nel processo civile, sia perché in
generale la proposizione dell’appello sembrava espressione di un
potere di disposizione della controversia, riservato alle parti
necessarie. Più di recente, però, nel quadro di una nuova
rimeditazione del ruolo di alcune parti intervenute, il Consiglio di
Stato ha riconosciuto la legittimazione a proporre l'appello anche
all’interventore ad opponendum, nel giudizio di primo grado, quando
esso risulti titolare di una posizione autonoma rispetto alle altre
parti (Cons. Stato, ad. plen. n. 2/1996).
Una parte della giurisprudenza, per assicurare una tutela ai terzi
titolari di una posizione giuridica autonoma, che non siano
intervenuti nel giudizio di primo grado e subiscano un pregiudizio,
dall’annullamento del provvedimento impugnato, riconosce anche
ad essi la legittimazione a proporre l’appello. Ma, in merito ai
contenuti dell’atto d’appello, la giurisprudenza sembra ancora
lontana da conclusioni omogenee.

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Ai fini che qui interessano, si intende far riferimento alla necessità


che l’atto d’appello identifichi, a pena di inammissibilità, le ragioni
per le quali la sentenza non venga ritenuta corretta o condivisibile.
Questo profilo assumerebbe rilievo anche a fini più generali. La
necessità di una critica alla sentenza di primo grado, infatti,
sottolineerebbe la distinzione fra il giudizio d’appello e il giudizio di
primo grado ed escluderebbe la possibilità di accogliere, per
l’appello al Consiglio di Stato, il modello di appello fondato
semplicemente sull’esigenza di assicurare una seconda pronuncia di
merito su quella certa controversia.
Su questo tema la giurisprudenza amministrativa appare divisa.
L’Adunanza plenaria ha prospettato una soluzione di mediazione,
sostenendo che il giudizio d’appello avrebbe «come oggetto imme-
diato e diretto» la sentenza, e non il provvedimento impugnato in
primo grado, e affermando nello stesso tempo che, però, anche la
semplice riproposizione delle censure proposte in primo grado
soddisferebbe l’onere di allegazione dei motivi. In questo modo, la
critica alla sentenza di primo grado sarebbe desumibile nella
proposizione stessa dell’atto d’appello; d’altra parte, la funzione
della motivazione dell’appello si esaurirebbe nella individuazione
dei capi di sentenza impugnati. Questa soluzione, però, non è
consolidata.
b) Le parti alle quali sia stato notificato l’appello (principale)
possono, a loro volta, impugnare la sentenza del TAR, per le
statuizioni che ritengono lesive del loro interesse, proponendo
appello incidentale. Il principio di concentrazione delle
impugnazioni sancito dall'art. 333 c.p.c, ritenuto oggi applicabile
anche al processo amministrativo, comporta la necessità di proporre
con appello incidentale tutti gli appelli successivi al primo.

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Nel caso di un interesse autonomo all’impugnazione, l’appello


incidentale (c.d. appello incidentale autonomo) riceve una
considerazione specifica, ma nel senso che l’accoglimento
dell’appello principale non è condizione per il suo esame da parte
del giudice.
L’istituto dell’appello incidentale si presenta in stretto rapporto con
l’effetto devolutivo.Non vi è onere di impugnazione e quindi di
appello incidentale nei casi in cui opera l’effetto devolutivo.
Effetto devolutivo ed onere di appello incidentale si collocano in
una relazione di alternatività: ciò significa, che le conclusioni del
Consiglio di Stato sulla limitatezza dell’effetto devolutivo, nel
processo amministrativo comportano, come necessaria conseguenza,
l’estensione dell’onere di proporre appello incimentale.
L'istituto dell’appello incidentale si pone, inoltre, in stretta relazione
con la nozione di soccombenza accolta nel processo amministrativo:
l’interpretazione del Consiglio di Stato, già richiamata, comporta la
possibilità di un appello incidentale anche per la parte che sia stata
soccombente solo su singole questioni.
c) Uno dei profili ritenuti, tradizionalmente, più qualificanti, per
valutare il modello di appello, è rappresentato dalla disciplina dei
“nova”, in particolare dalla possibilità per la parte di porre rimedio
alle manchevolezze delle sue difese nel precedente grado di
giudizio, proponendo censure, eccezioni o mezzi di prova che non
aveva proposto in primo grado. È stata perciò assunta, come il fatto
che determina la differenza fra un giudizio d’appello, come rimedio
agli errori del giudice di primo grado e un giudizio d’appello che
attua semplicemente il «diritto di ottenere dal giudice una nuova
sentenza di merito» sulle medesime questioni.

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Con l’appello al Consiglio di Stato non è ammessa la presentazione


di nuovi motivi di ricorso contro il provvedimento impugnato in
primo grado. L’esclusione di nuovi motivi di ricorso dipende dalla
vigenza di un termine generale di decadenza per l’impugnazione del
provvedimento amministrativo. Si comprende, in questa logica,
perché siano ammessi anche in grado di appello i c.d. motivi
aggiunti: la possibilità di presentarli in grado di appello, pur
costituendo una deroga al principio del doppio grado, si giustifica
per il fatto che essi concernono vizi che emergono da documenti,
conosciuti per la prima volta, in quel grado di giudizio. I motivi
aggiunti, nel giudizio di secondo grado, si configurano come
strumento integrativo del ricorso, in seguito alla acquisizione al
processo di fatti nuovi, prima non noti al ricorrente.
Nei giudizi su questioni patrimoniali in materia di pubblico
impiego, il Consiglio di Stato ha ammesso che potessero essere
richiesti, in grado d’appello, per la prima volta, interessi e
rivalutazione monetaria (Cons. Stato, ad. plen., n. 18/1985). Il
disposto dell’art. 429 c.p.c. (che prevede la liquidazione d’ufficio
degli interessi maturati sui crediti di lavoro) viene applicato anche ai
processi amministrativi sul pubblico impiego, con la conseguenza
che il Consiglio di Stato può provvedere in proposito anche
d’ufficio, quando la questione non sia già stata decisa dal giudice di
primo grado; l’eventuale domanda della parte non fa che sollecitare
poteri, che il giudice eserciterebbe anche autonomamente.
Con riferimento, invece, ad ogni altro genere di vertenza si deve
ritenere che, in grado d’appello, possano essere richiesti per la prima
volta solo gli interessi, la rivalutazione e, in generale i c.d. accessori
che siano maturati dopo la sentenza di primo grado. Inoltre può
essere richiesta la restituzione di quanto corrisposto in base alla

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sentenza di primo grado e, nelle vertenze risarcitorie, può essere


chiesto il risarcimento dei danni subiti dopo la sentenza del TAR.
Per quanto riguarda, invece, le eccezioni, la giurisprudenza
amministrativa, in passato, era orientata nel senso di ammettere nel
giudizio d’appello eccezioni nuove, anche quando esse fossero state
riservate alle parti. Questo orientamento, che trovava argomento nel
testo previgente dell’art. 345 c.p.c, ha dovuto confrontarsi con le
modifiche di tale articolo, ad opera della legge n. 353/1990, che ha
circoscritto la possibilità di proporre eccezioni nuove nell’appello
civile solo alle eccezioni rilevabili d’ufficio. La giurisprudenza
sembra ancora divisa, ma prevale l’indirizzo favorevole ad applicare
il nuovo testo dell'art 345 c.p.c anche al processo amministrativo.
Le modifiche apportate nel 1990 all’art. 345 c.p.c assumono rilievo
anche per la deduzione di nuovi mezzi di prova: l’art. 345, oggi, li
ammette solo in ipotesi eccezionali, mentre la giurisprudenza
amministrativa in passato li consentiva senza limiti.
In alcune decisioni recenti il Consiglio di Stato ne ha esteso la portata
anche ai mezzi di prova nel processo amministrativo d’appello.
Inoltre, anticipando un recente indirizzo della Cassazione, ha
affermato che anche le prove documentali sarebbero assoggettate ai
limiti previsti per i nuovi mezzi di prova: di conseguenza, sarebbe
preclusa alle parti anche la produzione di nuovi documenti.
L’appello al Consiglio di Stato, rappresenterebbe, oggi, più un
rimedio agli errori del giudice di primo grado, che il mezzo per
ottenere un nuovo esame della controversia da parte del giudice di
grado superiore.
6. {segue): lo svolgimento del giudizio
L’appello contro una sentenza del TAR deve essere proposto con
ricorso al Consiglio di Stato da notificarsi, di regola, entro 60 gg.

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dalla notifica della sentenza (art. 28, 2° comma, legge TAR). Se la


sentenza di primo grado non è stata notificata, per analogia con
quanto previsto per il processo civile, il termine per la notifica
dell’appello è di un anno dalla data di deposito della sentenza.
L’appello deve essere notificato alle altre parti del giudizio di primo
grado, siano esse costituite o non, osservando le regole previste per
la notifica delle impugnazioni nel processo civile; se l’atto non è
notificato a tutte le parti, ma almeno ad una, l’appello non è
inammissibile, ma il Consiglio di Stato ordina di procedere
all’integrazione del contraddittorio con gli effetti previsti dall’art.
331 c.p.c.. Nei 30 gg. successivi alla notifica, il ricorso deve essere
depositato presso il Consiglio di Stato (art. 36, 4° comma, t.u. Cons.
Stato); col deposito si determina anche la costituzione in giudizio
dell’appellante e la pendenza del giudizio.
L’appello non sospende l’esecutività della sentenza; la sospensione
può essere disposta dal giudice d’appello, in seguito ad istanza
dell’appellante, con le modalità e secondo i principi già esaminati a
proposito delle misure cautelari nel giudizio di primo grado.
Gli appellati possono costituirsi in giudizio, depositando una
memoria di costituzione (controricorso), entro il termine ordinatorio
di 30 gg. dalla scadenza del termine per il deposito dell’appello; tale
termine è invece perentorio per l’appello incidentale, che va
notificato all’appellante, presso il suo difensore nel giudizio
d’appello (art. 37, t.u. Cons. Stato). La giurisprudenza prevalente,
sostiene però che l’appello incidentale, se investe capi di sentenza di-
versi (o autonomi) da quelli impugnati dall’appellante, va notificato
prima della scadenza dei termini per l’appello principale (c.d.
appello incidentale “improprio”).

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Anche nel giudizio d’appello è ammesso l’intervento di quanti


avrebbero potuto intervenire nel giudizio di primo grado.
In sede d’appello il Consiglio di Stato, in coerenza con il carattere
rinnovatorio del giudizio d’appello, non è vincolato dalla regola del
fatto enunciata nella sentenza impugnata, né è limitato nella
conoscenza dei fatti a quelli già acquisiti nel giudizio avanti al TAR.
Il giudice d’appello, nel processo amministrativo, può disporre
l’acquisizione di tutti i mezzi istruttori rilevanti, rispetto ai capi di
sentenza impugnati, con gli stessi poteri e con gli stessi limiti previsti
per il giudice di primo grado, fatto salvo quanto si è già visto,
sull’incidenza del nuovo testo dell’art. 345 c.p.c.
Alle ulteriori fasi di svolgimento del giudizio si applicano regole
analoghe a quelle previste per il giudizio di primo grado.
Nelle vertenze in materia di aggiudicazione di appalti pubblici e
nella altre vertenze assoggettate al rito speciale previsto dall’art. 23-
bis legge TAR.
7. La decisione del Consiglio di Stato e gli ulteriori gravami
La pronuncia del Consiglio di Stato sull’appello è designata dalla
legge come «decisione» (art. 43 t.u. Cons. Stato e art. 36 legge TAR).
Solo quando si sia verificata una causa di estinzione del giudizio,
ovvero siano intervenute la rinuncia al ricorso, la cessazione della
materia del contendere o la perenzione, provvede alla relativa
declaratoria il Presidente della sezione con un decreto, ai sensi
dell’art. 26 legge TAR, come nel giudizio di primo grado.
L’appello, nel processo amministrativo, ha carattere rinnovatorio: di
conseguenza il Consiglio di Stato, se accoglie l’appello, di regola
«decide anche sulla controversia» (art. 35 legge TAR), pronunciandosi
quindi sull’ impugnazione del provvedimento amministrativo. Il
carattere rinnovatorio del giudizio d’appello consente di richiamare,

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per le decisioni del Consiglio di Stato, quanto è stato visto a


proposito della sentenza del TAR, con alcune importanti
precisazioni, che riguardano i vizi della sentenza appellata
rilevabili d'ufficio dal giudice d’appello e i casi in cui la decisione
del Consiglio di Stato ha un contenuto solo demolitorio della
sentenza impugnata e non si risolve quindi in una decisione sulla
controversia, già esaminata dal giudice di primo grado.
a) Per quanto riguarda il primo punto, va osservato che il Consiglio
di Stato ritiene di poter rilevare anche d’ufficio alcuni vizi della
sentenza impugnata: è il caso del difetto di giurisdizione, della
nullità, inammissibilità o irricevibilità della domanda originaria,
dell’irregolare costituzione del rapporto processuale. La
giurisprudenza prevalente sostiene che tali vizi siano rilevabili d’uf-
ficio da parte del Consiglio di Stato, se non siano stati oggetto di
esplicita statuizione nella sentenza appellata. Il Consiglio di Stato, è
orientato in prevalenza nel senso che, in mancanza di una
statuizione esplicita nella sentenza del TAR, la questione debba
ritenersi “non affrontata” nel giudizio di primo grado e che quindi
non vi sarebbe spazio per alcun giudicato.
Se invece i vizi in questione sono stati oggetto di una statuizione
nella sentenza di primo grado, non possono più essere rilevati
d’ufficio, perché la pronuncia su di essi da parte del giudice di primo
grado identificherebbe un “capo” della sentenza impugnato,
inattaccabile, se non tempestivamente impugnato, e perché, anche
nel processo amministrativo vale la regola secondo cui tutte le
questioni rilevabili d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio,
cessano di essere tali una volta che su di esse il giudice abbia
pronunciato.

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b) Gli artt. 34 e 35 della legge TAR prevedono ipotesi di decisioni del


Consiglio di Stato di annullamento senza riforma della sentenza
appellata, in alcuni casi con rinvio al giudice di primo grado, in altri
casi senza rinvio. Il Consiglio di Stato, se accerta che il TAR si è
pronunciato nonostante che il ricorso non potesse essere deciso nel
merito, per un vizio dell’atto introduttivo o per difetto di
giurisdizione, o per la presenza di cause impeditive o estintive del
giudizio, si limita ad annullare la sentenza di primo grado: il
processo amministrativo si conclude. In presenza, invece, di «difetto
di procedura o vizio di forma», nonché nel caso di erronea declaratoria
di «incompetenza» da parte del TAR, il Consiglio di Stato annulla la
sentenza di primo grado, restituendo gli atti al TAR per la
rinnovazione del giudizio. Appena ricevuti gli atti, il TAR procede
d’ufficio a fissare l’udienza di discussione.
E’ stata a lungo discussa l’ipotesi del «difetto di procedura», rispetto
alla quale si sono scontrate due posizioni diverse: la prima
favorevole ad estendere le ipotesi di annullamento con rinvio al
giudice di primo grado, perché più idonee a garantire un doppio
grado di giurisdizione, la seconda favorevole a limitare le ipotesi di
annullamento con rinvio, perché l’assunzione diretta della decisione
da parte del giudice d’appello assicura meglio le esigenze di
economia e di speditezza del giudizio e perché il principio del
doppio grado non ha mai implicato la necessità di un esercizio, in
doppio grado, di una cognizione di merito. Nel complesso sembra
essere prevalso il secondo indirizzo.
Nei confronti della decisioni del Consiglio di Stato è ammesso il
ricorso alla Corte di cassazione a sezioni unite per motivi di
giurisdizione (art. 111,8° comma, Cost., art. 48 t.u. Cons. Stato e art.
36 legge TAR).

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Il ricorso alla Corte di cassazione è ammesso per denunciare la


violazione dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa; la
violazione dei limiti esterni può concretarsi sia in un’erronea
declinatoria di giurisdizione, sia nell’accoglimento del ricorso, in
ipotesi esorbitanti rispetto alla giurisdizione amministrativa. Di
conseguenza il ricorso è ammesso sia per il caso che il giudice
amministrativo abbia deciso una questione riservata
all’Amministrazione, o devoluta al giudice ordinario o ad un altro
giudice speciale, sia per il caso che abbia declinato la propria
giurisdizione, in ipotesi in cui invece la questione sarebbe stata di
sua competenza.
La Cassazione ha accolto un’interpretazione estensiva della
condizione rappresentata dai «motivi inerenti alla giurisdizione», per il
ricorso contro le decisioni del Consiglio di Stato. Non ha identificato
questi «motivi» solo con profili inerenti alla distinzione fra interessi
legittimi e diritti soggettivi, o fra interessi qualificati (= diritti
soggettivi o interessi legittimi) e interessi non qualificati (= interessi
semplici o interessi di fatto). Ha ritenuto, invece, che in essi fossero
comprese anche altre ipotesi, come la distinzione fra giurisdizione di
legittimità e giurisdizione di merito, pur trattandosi, di una
distinzione riconducibile alla competenza del medesimo giudice
amministrativo, o addirittura certi vizi formali, come l’irregolare
composizione del collegio giudicante.
La disciplina del ricorso contro le decisioni del Consiglio di Stato per
motivi di giurisdizione è dettata dal codice di rito (art. 362 c.p.c). Il
ricorso va proposto nei termini previsti per il ricorso per cassazione
(art. 325 c.p.c), ossia nel termine di 60 gg. dalla notifica della
decisione del Consiglio di Stato, ovvero di un anno dal deposito
della decisione, nel caso che essa non sia stata notificata.

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8. L'opposizione di terzo
L’istituto dell’opposizione di terzo (art. 404 c.p.c.) non è contem-
plato nelle leggi sul processo amministrativo. La Corte
costituzionale, con la sentenza, n. 177/1995, richiamandosi agli artt.
3 e 24 Cost., ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 36,
legge TAR «nella parte in cui non prevede l’opposizione di terzo
ordinaria, fra i mezzi di impugnazione delle sentenze del Consiglio
di Stato» e l’illegittimità costituzionale dell’art. 28 della stessa legge
«nella parte in cui non prevede l’opposizione di terzo ordinaria, fra i
mezzi di impugnazione delle sentenze del tribunale amministrativo
regionale divenute giudicato».
La sentenza della Corte costituzionale ha pertanto introdotto nel
processo amministrativo l’opposizione di terzo c.d. ordinaria,
attraverso la quale un terzo può porre in discussione una sentenza
passata in giudicato o esecutiva che pregiudichi i suoi diritti e che sia
stata pronunciata in un giudizio, cui sia rimasto estraneo.
L’opposizione di terzo, nel processo civile, non è soggetta a termini
di decadenza; la tutela degli interessi legittimi, nel processo
amministrativo, è invece soggetta a termini di decadenza. È
controverso se tali termini vadano applicati nel processo
amministrativo anche all’opposizione di terzo: la soluzione
affermativa (condivisa dalla prima giurisprudenza del Consiglio di
Stato, con riferimento ad ipotesi di tutela di interessi legittimi) porta
ad estendere le regole sul termine per l’impugnazione degli atti
amministrativi anche a una situazione ben diversa come è
l’opposizione ad una sentenza.
L’opposizione di terzo dovrebbe essere proposta davanti allo stesso
giudice che ha pronunciato la sentenza pregiudizievole per il terzo,
tuttavia, una parte della giurisprudenza sostiene che nei confronti

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delle sentenze dei TAR l’opposizione vada proposta al giudice


d’appello. Il problema maggiore riguarda, però, l’identificazione dei
soggetti legittimati a proporre l’opposizione e la qualificazione del
“pregiudizio” determinato a carico del terzo dalla sentenza opposta
e in relazione al quale è ammessa l’opposizione.
Secondo il Consiglio di Stato, legittimati a proporre l’opposizione di
terzo sono, nel processo amministrativo, i controinteressati
pretermessi e i soggetti, ai quali non sia opponibile il giudicato, che
siano titolari di una posizione giuridica incompatibile e autonoma
con quella che forma oggetto del giudicato.
In questo modo, nell’opposizione di terzo sono ricomprese due
ipotesi diverse di tutela: la reazione a un vizio della sentenza,
rappresentato dalla violazione dell’integrità del contraddittorio e la
reazione nei confronti di una sentenza non viziata, che abbia deciso
in termini incompatibili con l’interesse qualificato di terzi estranei al
giudizio.

Capitolo 14
IL GIUDICATO AMMINISTRATIVO E L'ESECUZIONE DELLA
SENTENZA
1. Il giudicato amministrativo
Il passaggio in giudicato di una sentenza del giudice amministrativo
si ha quando nei suoi confronti non è più ammessa
un’impugnazione c.d. ordinaria.
Nei confronti della sentenza del giudice amministrativo, passata in
giudicato, sono proponibili solo il ricorso per revocazione nei casi
previsti dall’art. 395, nn. 1, 2, 3, 6, c.p.c. e l’opposizione di terzo.
Per valutare quali effetti comporti il passaggio in giudicato della
sentenza del giudice amministrativo si suole distinguere fra un

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giudicato solo interno e un giudicato anche esterno: nel primo caso


la sentenza comporta un vincolo (nel senso che la questione decisa
con forza di giudicato non può più essere posta in discussione) solo
rispetto alle ulteriori fasi di quel giudizio, mentre nel secondo caso la
sentenza comporta un vincolo anche rispetto a giudizi diversi, che
possano instaurarsi fra le medesime parti, nei quali assuma rilevanza
la medesima questione. Le sentenze di rito comportano tipicamente
solo vincoli “interni”; le sentenze di merito, invece, si caratterizzano
per la loro idoneità a comportare vincoli “esterni”.
Appare invece controversa la collocazione di altri tipi di sentenze.
Per quanto riguarda, invece, i c.d. limiti soggettivi del giudicato, la
giurisprudenza amministrativa ritiene che il giudicato
amministrativo di regola valga solo fra le parti, i loro successori e
aventi causa (art. 2909c.c.).
A questa giurisprudenza, che ammette con larghezza gli effetti del
giudicato amministrativo, si oppone una parte della dottrina, che
cerca di risolvere i problemi creati dall’annullamento di atti indivi-
sibili attraverso la distinzione fra effetti della sentenza e autorità del
giudicato. Alla stregua di questa dottrina nel processo
amministrativo si dovrebbe distinguere fra “effetti
dell’annullamento” e “autorità” (= immodificabilità) del giudicato; i
primi travolgerebbero tutte le utilità assegnate dall’atto annullato e,
quindi, anche tutti i soggetti che ne fossero titolari, mentre la
seconda riguarderebbe solo le parti processuali (nonché i loro eredi e
aventi causa).
2. L'esecuzione della sentenza non ancora passata in giudicato
La sentenza del TAR (parziale o definitiva) che decide su un ricorso
è immediatamente esecutiva (art. 33, 1° comma, legge TAR). Fatto
salvo il caso di sospensione della sentenza del TAR,

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l’Amministrazione è tenuta a dare esecuzione alla sentenza,


adottando tutti i comportamenti e gli atti necessari per portare a
compimento quanto disposto nella sentenza. A questo proposito
vanno presi in considerazione i vari ordini di effetti della sentenza :
il dovere dell’Amministrazione di dare esecuzione alla sentenza non
riguarda solo il profilo eliminatorio o ripristinatorio, ma riguarda
anche il momento rinnovatorio, rispetto al quale rileva
particolarmente l’effetto conformativo della sentenza. L'esecuzione
della sentenza investe anche la fase di rinnovazione del potere
amministrativo, aspetto questo che risulta di particolare rilievo
quando il giudizio abbia riguardato l’impugnazione di un
provvedimento negativo (diniego di autorizzazione, di concessione,
ecc.) o un silenzio-rifiuto: in queste ipotesi l’interesse del cittadino è
assicurato solo, rispettivamente, attraverso il riesercizio o l’esercizio
del potere da parte dell’Amministrazione, dopo la sentenza.
Il dovere dell'Amministrazione di dare esecuzione alla sentenza si
scontra talvolta con il mutamento del quadro normativo che
disciplina la materia oggetto del giudizio (c.d. sopravvenienze).
La giurisprudenza in passato sosteneva che l’Amministrazione non
poteva prescindere dall’applicazione della normativa in vigore nel
momento del nuovo provvedimento. Di recente, il Consiglio di Stato
ha temperato questa conclusione, affermando che i mutamenti di
disciplina successivi alla notifica della sentenza di primo grado
sarebbero comunque irrilevanti e non potrebbero essere opposti al
dovere di dare esecuzione alla sentenza (Cons. Stato, ad. plen., , n.
1/1986 ). Questa conclusione, però, non appare soddisfacente.
In passato, secondo la giurisprudenza, l’esecutività della sentenza,
non ancora passata in giudicato, non avrebbe consentito la
proposizione del giudizio di ottemperanza (art. 27, n. 4, t.u. Cons.

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Stato). L’esecutività della sentenza avrebbe avuto rilevanza solo


determinando la cessazione degli effetti del provvedimento
amministrativo annullato e, quindi, privando del titolo l’attività
amministrativa svolta in base a tale provvedimento. Inoltre avrebbe
comportato la cessazione degli effetti di eventuali misure cautelari;
tali effetti sarebbero stati superati dalla sentenza di rigetto, mentre
nel caso di sentenza di accoglimento avrebbero trovato fondamento
non più nell’ordinanza cautelare, bensì nella sentenza. Tuttavia, la
sentenza non passata in giudicato non sarebbe stata passibile di un
giudizio di esecuzione.
L’anomalia di una sentenza "esecutiva” per legge, ma non passibile
di esecuzione forzata, è stata superata dall'art. 33, 5° comma, legge
TAR ,introdotto dalla legge n. 205/2000 (art. 10). Tale disposizione
ha introdotto uno specifico giudizio di esecuzione per le sentenze di
primo grado non sospese dal Consiglio di Stato: ha stabilito che, il
ricorso per l’esecuzione vada proposto allo stesso TAR che ha
pronunciato la sentenza e che il giudice eserciti tutti i poteri che gli
sono attribuiti per il giudizio di ottemperanza. La legge non ha
definito, invece, la procedura del nuovo giudizio.
Si ritiene che, anche il ricorso per l’esecuzione di sentenza non
ancora passata in giudicato, debba essere preceduto dalla notifica di
un atto di messa in mora, considerandola come adempimento
necessario per dar corso al processo d’esecuzione. Invece, per quanto
concerne le modalità di presentazione, si sostiene che il ricorso, per
l’esecuzione di sentenza non ancora passata in giudicato, debba
essere notificato all’Amministrazione inadempiente secondo le
regole generali previste per i ricorsi giurisdizionali.
Il profilo più controverso per l’esecuzione di una sentenza non
ancora passato in giudicato è collegato alla mancanza di definitività

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della statuizione da eseguire. Il Consiglio di Stato, infatti, ha


affermato che l’esecuzione della sentenza non ancora passata in
giudicato non dovrebbe mai determinare un assetto «definito ed
immutabile», perché altrimenti verrebbe frustrato l’esito pratico di
un eventuale appello contro la sentenza.
3. Il giudizio di ottemperanza
L’esecuzione del giudicato da parte dell’Amministrazione comporta
l’adozione di meri atti, che concretino i comportamenti materiali
necessari per l’esecuzione della sentenza. Rispetto a sentenze del
giudice amministrativo, invece, l’esecuzione del giudicato richiede,
spesso, l’adozione di atti corrispondenti a provvedimenti
amministrativi. Per il caso di inesecuzione del giudicato è previsto il
ricorso per l’ottemperanza al giudice amministrativo.
Col ricorso per l’ottemperanza si introduce un giudizio che realizza
la sua utilità attraverso un intervento di ordine sostitutivo rispetto
all’Amministrazione rimasta inadempiente. L’art. 27, n. 4, t.u. Cons.
Stato stabilisce che il giudice amministrativo, nel giudizio di
ottemperanza, eserciti una giurisdizione estesa al merito. La
previsione della giurisdizione di merito, in questa ipotesi, secondo la
giurisprudenza consentirebbe al giudice amministrativo di
sostituirsi, direttamente o attraverso un commissario da esso
eventualmente nominato agli organi amministrativi inadempienti. In
questo giudizio nessun limite “interno” della giurisdizione
amministrativa potrebbe essere opposto a garanzia
dell’Amministrazione. Il giudice per l’ottemperanza avrebbe la
capacità di esercitare tutti i poteri di valutazione e di scelta
demandati all’Amministrazione attiva (Cons. Stato, sez. VI, n.
41/1995).

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La possibilità di una sostituzione del giudice all’Amministrazione,


seppur inadempiente, anche ai fini di valutazioni tipicamente
discrezionali, crea molte incertezze. Sta di fatto che una volta
nominato il Commissario, il giudice amministrativo non si ritiene
esautorato: esercita poteri di vigilanza anche d’ufficio sull’ operato
del Commissario e al giudice vanno rivolte eventuali contestazioni
circa tale operato.
L’esecuzione del giudicato può richiedere diversi ordini di
valutazioni, che non sono necessariamente già assorbiti dalla
sentenza da eseguire. Le valutazioni circa la fondatezza o meno
dell’istanza non sono svolte nel giudizio di merito. In questi casi,
l’attività del Commissario o direttamente del giudice
dell’ottemperanza non è meramente attuativa di quanto disposto
nella sentenza: le regole dettate nella sentenza non esauriscono il
complesso delle regole rilevanti per provvedere nel caso concreto.
Per provvedere sono necessarie ulteriori valutazioni e, pertanto, è
necessario elaborare altre regole.
In questo modo, nel giudizio confluirebbero profili propri
dell’attività di cognizione,oltre che quelli tipici dell’esecuzione.
Secondo alcuni il Commissario dovrebbe essere considerato come un
organo straordinario dell’Amministrazione: la sua nomina com-
porterebbe la sostituzione, agli organi amministrativi
ordinariamente competenti, di un organo straordinario, competente
solo per l’esecuzione di quella sentenza. Ma, proprio perché organo
straordinario dell’Amministrazione, il Commissario dovrebbe essere
considerato come un’autorità amministrativa, con la conseguenza,
che i suoi atti, in quanto normali atti amministrativi, dovrebbero
essere impugnati davanti al giudice-amministrativo secondo le
regole generali.

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Prevale la tesi che il Commissario operi come ausiliario del giudice,


in un ruolo non molto diverso da quello del consulente o
dell’esperto nel processo civile. I suoi atti non sono atti
giurisdizionali ma vanno inquadrati nelle vicende del giudizio di
esecuzione. Di conseguenza, nei confronti di tali atti, la tutela
dovrebbe essere svolta nell’ambito dello stesso giudizio di
esecuzione e dovrebbe essere indirizzata al giudice
dell’ottemperanza. Non mancano, però, anche indirizzi diversi.
Il giudizio di ottemperanza è richiamato, in un contesto particolare,
dall’art. 35, 2° comma, d.lgs. n. 80/1998 (disposizione conservata
dall’art. 7 della legge n. 205/2000). La disposizione prevede che,
nelle vertenze risarcitorie assegnate al giudice amministrativo, nel
caso di accoglimento del ricorso la sentenza possa limitarsi a fissare i
criteri per il risarcimento, demandando all’amministrazione di
proporre, sulla base di questi criteri, un’offerta alla parte vittoriosa.
Se l’offerta non viene accolta, la determinazione del danno può
essere richiesta dalla parte interessata al giudice.
Caratteri particolari ha invece l’intervento del Commissario nel
giudizio sul silenzio, ai sensi dell'art. 21 bis legge TAR, introdotto
dall’art. 2 della legge n. 205/2000. In questo caso la legge non
richiama le disposizioni sul giudizio di ottemperanza; l’ intervento
del Commissario si svolge non tanto a fini della esecuzione di una
sentenza, ma comporta la sostituzione di un’Amministrazione
rimasta inerte. La peculiarità dell'intervento del Commissario nel
caso del silenzio trova conferma nella specialità della procedura: non
si applicano le norme sullo svolgimento del giudizio di
ottemperanza e la giurisprudenza sottolinea che la nomina del
Commissario non interviene in un giudizio di esecuzione, ma
interviene nella seconda fase di un giudizio unitario sul “silenzio”..

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La figura del Commissario, nel caso del silenzio, sembra


corrispondere a quella di un organo straordinario
dell’Amministrazione.
4. Lo svolgimento del giudizio di ottemperanza
Il giudizio di ottemperanza è ammesso, solo, per l’esecuzione di una
sentenza passata in giudicato. Il ricorso deve essere preceduto dalla
notifica all’Amministrazione di un atto di messa in mora, costituito
da una diffida a provvedere; può essere presentato solo decorsi 30
gg. dalla notifica dell’atto di messa in mora (art. 90, reg. proc. Cons.
Stato).
Per quanto riguarda il riparto della competenza fra TAR e Consiglio
di Stato. Per il ricorso, non era richiesta la previa notificazione
all’Amministrazione, era previsto invece che, una volta depositato il
ricorso presso il giudice competente (art. 91, reg. proc, Cons. Stato),
la segreteria ne desse comunicazione d’ufficio al Ministero
competente. Alcuni giudici amministrativi si erano, pertanto,
orientati nel senso di richiedere che il ricorrente notificasse il ricorso
all’Amministrazione e ai controinteressati, come era previsto per il
giudizio ordinario o, nel caso di ricorsi contro Amministrazioni non
statali, effettuavano la comunicazione di rito direttamente
all’Amministrazione interessata. Sul punto è intervenuta nel 2005 la
Corte costituzionale, che ha sostenuto la necessità di una
applicazione della normativa vigente, coerente con i principi
costituzionali: di conseguenza, ha affermato che se il ricorso per
l’ottemperanza non sia stato notificato dal ricorrente alla parte
resistente, il giudice amministrativo, d’ufficio, deve disporne la
comunicazione. Presupposto del ricorso è l’inottemperanza al
giudicato, che può configurarsi anche nell’adozione di atti diretti a
rinviare o ad eludere l’esecuzione del giudicato. Per evitare che un

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comportamento del genere potesse frustrare l’esecuzione del


giudicato, imponendo l’avvio di nuovi giudizi di cognizione, la
giurisprudenza ha affermato che l’adozione di atti soprassessori o
elusivi non comporterebbe l’onere di nuove impugnazioni, ma che il
sindacato su tali atti si dovrebbe compiere davanti al giudice per
l’ottemperanza.
Questa tesi, elaborata per esigenze tipicamente processuali, di
recente è stata sancita anche dal legislatore. L’art. 21 septies della
legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), stabilisce
infatti che è nullo «il provvedimento amministrativo .. che è stato adottato
in violazione o elusione del giudicato», precisando che di questa ipotesi
di nullità conosce direttamente il giudice amministrativo (ossia, il
giudice dell’ottemperanza).
Il giudice amministrativo provvede sul ricorso per ottemperanza in
camera di consiglio (art. 27 della legge TAR). Prima di dar corso a
interventi sostitutivi, può fissare un termine all’Amministrazione
perché provveda; in questo caso, si ritiene che l’inutile decorrenza
del termine sancisca il venir meno del potere dell’Amministrazione
di provvedere all’esecuzione del giudicato, con la conseguente
irrilevanza di atti assunti tardivamente.
Nei confronti delle decisioni assunte dal TAR in sede di
ottemperanza è ammesso l’appello al Consiglio di Stato. Le
incertezze e le ambiguità del giudizio di ottemperanza si riflettono
però anche sulla disciplina dell’appello.
La decisione del Consiglio di Stato assunta in sede di ottemperanza,
come ogni altra decisione del Consiglio di Stato, è impugnabile
avanti alla Corte di cassazione, per violazione dei limiti esterni della
giurisdizione amministrativa.

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