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Diritto Processuale amministrativo

Cap. IX L’EVOLUZIONE DEL SISTEMA ITALIANO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA E LA TUTELA


DINANZI AL GIUDICE ORDINARIO

Con il termine giustizia amministrativa si indica nel nostro ordinamento un complesso di istituti
assoggettati a differenti discipline. Comprende infatti:
- Le disposizioni che trovano applicazione ad opera del giudice amministrativo o di un
giudice amministrativo speciale
- Parte delle disposizioni relative al giudizio che si svolge dinanzi al giudice ordinario
- La normativa sui ricorsi amministrativi
Di tali disciplina alcune sono di natura processuale altre- e precisamente quelle relative ai ricorsi
amministrativi- di natura sostanziale. La giustizia amministrativa ITA si caratterizza così per la
presenza di rimedi giurisdizionali e di rimedi amministrativi. L’art. 117 co 2 lett. l) Cost. attribuisce
alla potestà legislativa esclusiva dello stato le materie della “giurisdizione e norme processuali […]
giustizia amministrativa” quest’ultima per esclusione potrebbe incidere solo i rimedi non aventi
natura giurisdizionale; ma l’espressione giustizia amministrativa è usata chiaramente nell’art. 125
Cost. per indicare rimedi giurisdizionali. Il momento unificante di questo sistema eterogeneo è
rappresentato dalla comune finalità costituita dalla tutela del cittadino nei confronti della PA
attraverso il riconoscimento, in capo al privato, del potere di rivolgersi ad un’autorità al fine di
ottenere giustizia.
L’esigenza di soddisfare la domanda di giustizia dei privati si fece più pressante dopo la Rivoluzione
FRA e in occasione della nascita dello Stato a regime amministrativo. Se l’affermazione della
separazione dei poteri condusse alla sottrazione dell’attività amministrativa al sindacato
dell’autorità giudiziaria ordinaria, considerato come un’indebita interferenza nei confronti del
potere esecutivo, ciò non impedì la creazione di un sistema di tutela speciale e interno ad esso
(contentieux administratif). Siffatto sistema nell’esperienza FRA risultava articolato nei Consigli di
prefettura a livello dipartimentale e nel Consiglio di Stato a livello centrale che da organo di
giustizia ritenuta, secondo un modello in cui la decisione finale era pur sempre emanata dal capo
del potere esecutivo (il Consiglio si limitava a formulare la decisione) si tramutò in organo di
giustizia delegata – al quale era attribuito l’esercizio della funzione giurisdizionale- nel 1872. Ed è
stata proprio l’opera del Conseil d’Etat a consentire nel modello FRA l’enucleazione di un corpo di
regole peculiari di “diritto amministrativo”
Tale sistema può essere definito modello monistico con prevalenza del giudice amministrativo in
quanto caratterizzato dalla presenza di un giudice amministrativo, invero non completamente
separato dall’esecutivo che si presenta sempre come “maggior polo di attrazione” delle liti con la
PA occupandosene con competenza tendenzialmente generale.
Per quanto attiene all’attualità con l. 95- 125/ 1995 il Conseil d’Etat è stato trasformato da giudice
d’appello in giudice di “cassazione” mentre giudici d’appello risultano essere le Cours
administratives d’Appel
Va aggiunto che accanto ai ricorsi per l’annullamento dell’atto, sono ammissibili ricorsi di piena
giurisdizione mediante i quali si chiede al giudice anche la condanna della PA al pagamento di una
somma a titolo di risarcimento.
Diverso da quelli analizzati è il modello monistico con prevalenza del giudice ordinario ispirato ad
una visione liberale, attuato in Belgio, ove la Costituzione del 1831 istituì la giurisdizione unica,
soluzione questa che influenzò il diritto ITA; che dopo il 1865, preferì utilizzare questo modello,
superando quello FRA, abolendo i preesistenti tribunali del contenzioso amministrativo,
introducendo il giudice unico.
L’analisi del quadro tracciato consente di aggiungere che attualmente sussiste una netta cesura tra
sistema continentale e modello UK caratterizzato dalla giurisdizione unica del giudice ordinario. Il
controllo sulla PA e sul governo si sviluppò piuttosto come controllo di legalità esercitato dal
parlamento posto in posizione di superiorità nei confronti dell’esecutivo. Di conseguenza i rapporti
tra privati e PA erano tendenzialmente equiparati a quelli tra privati e assoggettati allo stesso
diritto comune. Come corollario di questo modello, le corti ordinarie giudicano appunto nella
materia amministrativa.

In particolare nel 1831 venne istituito da Carlo Alberto il Consiglio di Stato organo che sarebbe
divenuto in seguito punto di riferimento essenziale del sistema della giustizia amministrativa,
anche se inizialmente era provvisto di sole funzioni consultive. Esso era diviso in tre sezioni e fu
mantenuto dallo statuto del Regno concesso nel marzo 1848.
Attribuzioni contenziose erano riconosciute a livello periferico ai Consigli di interdenza qualificati
dal r. e. 29 ottobre 1847 come giudici ordinari del contenzioso amministrativo. La competenza a
giudicare in appello le decisioni di tali Consigli era attribuita – a partire dal 1842- alla Camera dei
conti (denominata Corte dei conti dal 1859). Le decisioni della Camera erano impugnabili per
incompetenza dinanzi al Consiglio di Stato, che doveva pronunciarsi a sezioni unite.
Nel 1859 a seguito della riforma Rattazzi, giudice supremo del contenzioso venne riconosciuto il
Consiglio di Stato.
Il criterio di riparto tra le corti e il Consiglio tra la loro sfera di attribuzioni e la giurisdizione del
giudice ordinario non era individuabile alla luce di un principio generale, ma derivava dalle scelte
concrete della legge.
Al Re, previo parere del Consiglio di Stato a sezioni unite, era riservata la soluzione dei conflitti che
insorgessero tra PA e giudice ovvero tra tribunali ordinari e speciali.
La l. 2248/1865 composta da un solo articolo, la quale era completata da sei allegati; qui interessa
in particolare l’allegato E ancora in vigore. Il legislatore post- unitario accolse il modello belga, in
quello Stato con la Cost. del 1831 erano state devolute alla giurisdizione dei tribunali ordinari sia le
questioni relative ai diritti privati, sia quelle attinenti ai diritti politici. Tale è la fonte ispiratrice
della legge del 1865 che fu detta legge abolitrice del contenzioso amministrativo o di quel
contenzioso che faceva capo ai tribunali del contenzioso sopra esaminati. Essa aboliva infatti il
contenzioso amministrativo ordinario lasciando sopravvivere alcune giurisdizioni amministrative.
La legge devolveva poi al giudice ordinario non solo tutte le cause in materia penale per
contravvenzioni, ma anche le “materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico
cmq possa essere interessata la PA, ancorchè siano emanati provvedimenti del potere esecutivo e
dell’autorità amministrativa” il criterio per individuare la giurisdizione era quello della natura della
situazione giuridica di cui si affermasse la lesione. (art. 2)
La legge si occupava della PA sotto il profilo dei suoi rapporti con altri soggetti dell’ord,
trascurando il momento interno dell’esercizio del potere, che non veniva in evidenza se non in
quanto portava alla lesione dei diritti. Per quanto attiene agli altri affari non compresi nell’articolo
precedente (così disponeva l’art. 3)- e cioè alla questioni non attinenti i diritti- la tutela era lasciate
alle PA: in sintesi lo spartiacque della tutela giurisdizionale coincideva con la distinzione tra diritti
soggettivi (uniche situazioni tutelabili) e altri affari e la tutela delle posizioni soggettive di cui non
poteva conoscere il giudice ordinario era affidata ai soli ricorsi amministrativi.
Il potere del giudice ordinario era limitato alla conoscenza degli effetti dell’atto in relazione
all’oggetto dedotto in giudizio escluso quello di revocare o annullare l’atto stesso. Inoltre si sanciva
l’obbligo del giudice ordinario di applicare solo gli atti amministrativi e i regolamenti conformi alla
legge.
Il giudice ordinario in particolare escludeva la propria giurisdizione nei casi in cui, pur in assenza di
un forma atto amministrativo, il comportamento del soggetto pubblico coinvolgesse in qualche
modo funzioni amministrative, ritenendo che ciò fosse sufficiente a determinare l’estinzione del
diritto soggettivo. Di conseguenza le ipotesi in cui sopravviveva un sindacato giurisdizionale
risultavano estremamente limitate, mentre per il resto la tutela sopravviveva un sindacato
giurisdizionale risultavano estremamente limitate, mentre per il resto la tutela era destinata ad
essere solo amministrativa. Iniziarono a fiorire voci critiche in ordine al sistema adottato con la l.
del 1865.
La l. 3761/1877 lo modificò attribuendo alla Cassazione di Roma (fino al 1923 ce n’erano di più) la
competenza, precedentemente spettante al Consiglio di Stato (l. 2248/1865 all. D) a risolvere i
conflitti di attribuzione tra giudice ordinario e PA.
Con la l. 5992/1889 istitutiva della 4° Sez. del Consiglio di Stato la giurisdizione nei confronti della
PA risultò divisa tra due ordini giurisdizionali, caratterizzando il nostro sistema di giustizia come
“dualistico”. Il giudice ordinario continuava a conoscere delle controversie relative alla lesione di
diritti soggettivi, ma solo nel 1907 si affermò espressamente la natura giurisdizionale delle
decisioni del Consiglio di Stato , soprattutto rispetto alla IV sez. del consiglio di stato, che a seguito
del consolidamento della tesi della sua natura giurisdizionale, la sua istituzione non aveva inciso
nel precedente sistema dei conflitti, in quanto al giudice ordinario continuava a contrapporsi la
sola PA.
La giurisdizione del giudice amministrativo era individuata facendo riferimento alla natura della
situazione giuridica lesa ma all’illegittimità del provvedimento. E allora il sistema si assestò
secondo un principio di duplicità esclusione nel senso che le due aree interessate dalle
giurisdizioni del giudice ordinario e di quello amministrativo in ordine alle controversie di cui fosse
parte la PA vennero ritenute escludersi a vicenda. Il giudice ordinario continuava a conoscere della
lesione dei diritti soggettivi; il giudice amministrativo invece si occupò della sola illegittimità degli
atti amministrativi derivante dalla violazione di norme differenti: di norme che disciplinano
l’azione della PA.
L’opera di riforma del sistema di giustizia amministrativa fu completata mercè l’attribuzione con la
l. 6837/1890 alle giunte provinciali amministrative della competenza estese anche al merito, a
conoscere di alcune controversie tassativamente indicate e relative agli atti degli enti controllati in
sede locale, prevedendo altresì la possibilità di appello- in generale per motivi di legittimità- al
Consiglio di Stato.
Nel 1907 fu istituita la V sezione del Consiglio di Stato (l. 62/1907) alla quale fu attribuita
unicamente la giurisdizione di merito. Il coordinamento con la sezione 4 era affidato alle sezioni
riunite. Nello stesso anno furono approvati i testi unici sul Consiglio di Stato (r.d. 642/1907)
Negli anni 1923- 1924 (con d.lgs. 2840/1907) fu poi abolita la distinzione di competenza tra IV e V
sezione (il potere di assegnazione delle cause all’una o all’altra fu attribuito al Presidente del
Consiglio di Stato) e fu introdotta la cd giurisdizione esclusiva del Consiglio di Stato: infatti in
ordine ad alcune materie tassativamente indicate, tra cui particolare rilievo quella del pubblico
impiego, in cui appariva difficile distinguere diritti soggettivi e interessi legittimi, strettamente
compenetrati e in cui i conflitti di giurisdizione erano particolarmente frequenti, si decise la
devoluzione della giurisdizione al giudice amministrativo, competente a sindacare anche della
lesione dei diritti, con “esclusione” della giurisdizione del giudice ordinario
Con d.lgs. 642/1948 fu infine istituita la 6° sezione del Consiglio di Stato e con d.lgs. 654/1948 il
Consiglio di giustizia amministrativa per la regione Sicilia.

La Cost. si è inserita in un contesto caratterizzato dalla presenza di due giurisdizioni : quella del
giudice ordinario (delineata dalla legge abolitrice del contenzioso del 1865 in ragione del criterio
della situazione giuridica lesa) e quella del giudice amministrativo nata nel 1889 e assestatasi
quasi immediatamente nel senso della competenza a sindacare in generale la lesione di interessi
legittimi.
Tra la scelte possibili, la Costituzione ha accolto espressamente e meglio esplicitato il principio di
ripartizione della giurisdizione tra i due ordini di giudici (ordinario e amministrativo) fondato sulla
natura della situazione giuridica soggettivamente lesa, demandando al giudice ordinario la tutela
dei diritti e a quello amministrativo la tutela degli interessi legittimi (art. 24, 103, 113 Cost.)
L’art. 24 dispone che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei proprio diritti e interessi
legittimi” sancendo in tal modo l’azionabilità delle situazioni soggettive dei privati nei confronti
della PA ed escludendo esenzioni o privilegi di questa in ordine alla legittimazione passiva. All’art.
24 Cost. spesso letto in combinato con l’art. 113 si collega anche il principio dell’effettività della
tutela, esso in particolare implica la facoltà di utilizzare tutti gli strumenti di tutela connaturati al
diritto di difesa.
Il complesso giurisdizionale Consiglio di Stato- Tar (istituiti dalla l. 1034/1971) si profila come
giurisdizione amministrativa generale qualificabile così in quanto direttamente e in generale
prevista dalla Costituzione a tutela degli interessi legittimi lesi da un atto amministrativo, senza
limitazione a particolari materie e senza la necessità di altra espressa norma di attuazione.
Questa giurisdizione viene anche indicata come amministrativa ordinaria al fine di chiarire che il
complesso TAR- Consiglio di Stato è devoluta la giurisdizione in via ordinaria sugli interessi
legittimi, il termine non deve confondere rispetto alla giurisdizione spettante al giudice ordinario.
Accanto alla giurisdizione generale vi è anche quella eccezionale di merito ed esclusiva. La pluralità
di giudici va coordinata con l’unicità della funzione giurisdizionale (Cort. Cost. 77/2007)
L’art. 103 contempla le funzioni giurisdizionali del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti,
individuandone l’estensione costituzionalizza la preesistente attribuzione al giudice amministrativo
“in particolari materie indicate dalla legge” della cognizione anche di diritti soggettivi (cd
giurisdizione esclusiva)
Si consideri inoltre che l’allargamento delle ipotesi di giurisdizione esclusiva esclude
l’assoggettabilità al sindacato della Cassazione per violazione di legge (art. 111 Cost.) delle
controversie attribuite al giudice amministrativo, atteso che avverso le decisioni del consiglio di
stato – anche di quelle relative ai diritti- è possibile il ricorso per Cassazione solo per motivi
attinenti alla giurisdizione mentre questi limiti non sussisterebbero ove la pronuncia sui diritti
fosse rimasta al giudice ordinario: in tal modo non è garantita l’uniforme applicazione del diritto.
La ragione della scelta effettuata dalla Carta Costituzionale si comprende chiaramente ponendo
mente ad un sistema nel quale il giudice amministrativo si occupa di questioni diverse da quelle
giudicate dal giudice ordinario; ove invece il primo conosca anche di diritti soggettivi, la limitazione
del sindacato operato dalla suprema corte può aprire la via ad orientamenti contrastanti dei due
ordini giurisdizionali.
Sussistono casi in cui pur in presenza di atti della PA, la legge afferma la giurisdizione del giudice
ordinario: l’art. 152 d.lgs. 196/2003 riguardo il trattamento dei dati personali, oppure in materia
di illeciti depenalizzati la l. 689/1981 prevede il potere del giudice civile di annullare in tutto o in
parte l’ordinanza ingiunzione o di modificarla con scelta che comporterebbe l’attribuzione al
giudice ordinario pure della cognizione degli interessi legittimi. Anche al giudice ordinario alcune
controversie in tema di rapporto di lavoro presso le PA e anche in materia di espulsione
amministrativa rispetto al fenomeno dell’immigrazione.
Giova richiamare in questa sede che la Corte Cost. con sent. 204/2004 (anche sent. 191/2006) ha
statuito che la giurisdizione esclusiva può essere introdotta solo nelle materie in cui la PA agisce
come autorità , cioè le materie devolute alla giurisdizione esclusiva devono essere particolari
rispetto a quelle devolute alla giurisdizione generale di legittimità e partecipare della stessa natura
contrassegnata dalla circostanza che la PA agisce come autorità.
Evitando così il conflitto con l’art. 111 Cost. nel senso che sono sottratte al vaglio della Cassazione
solo le pronunce che investono diritti soggettivi attinenti alle materie particolari. In questo caso
l’ampliamento della giurisdizione esclusiva ha imposto di adeguare il processo e la tutela delle
caratteristiche del diritto soggettivo. In questa prospettiva si è mossa la l. 205/2000 che ha ad es.
introdotto la tutela sommaria e l’arbitrato.
Ex art. 113 Cost. che si occupa espressamente della sindacabilità degli atti della PA indicando il tipo
di tutela garantita nei confronti degli stessi, siffatta tutela è sempre ammessa e non può essere
esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti.
La determinazione degli organi che possono annullare gli atti della PA spetta alla legge, che deve
indicarne anche i casi e gli effetti. Un problema di compatibilità con la norma costituzionale sorge
in relazione all’art. 7 d.lgs. 104/2010 codice del processo amministrativo che esclude
l’impugnabilità in sede giurisdizionale degli atti emanati dal Governo nell’esercizio del potere
politico, cd atto politico.
Ma se l’atto politico è cmq espressione di una PA allora è atto della PA e quindi la sua
insindacabilità è in conflitto con l’art. 113 Cost. , ma esso è cmq sottratto al sindacato
giurisdizionale per via della sua discrezionalità e carattere libero del loro fine, e non ledono diritti
soggettivi e interessi legittimi.
Infatti l’impugnazione degli atti amministrativi è subordinata al loro carattere immediatamente
lesivo.
L’art. 113 Cost. spesso letto in combinato con l’art. 24 Cost. riveste un’importanza notevole sotto il
profilo dell’esclusione della legittimità di norme che limitino i mezzi di tutela. La Corte
Costituzionale in particolare ha censurato le norme che limitavano in modo irragionevole la
possibilità per il giudice di disporre la sospensione cautelare. Invocando l’art. 113 Cost., Corte cost.
n. 190/1985 ha inoltre introdotto il provvedimento cautelare innominato nel processo
amministrativo, pur se solo con riferimento alle controversie patrimoniali in materia di pubblico
impiego.
Come visto l’art. 113 co 2° Cost. dispone altresì che la tutela giurisdizionale non può essere esclusa
o limitata “per determinate categorie di atti” sicchè è ormai superata la precedente disciplina che
precludeva la possibilità di dedurre vizi di legittimità o taluni di essi.
La costituzione sancisce poi l’indipendenza di ogni giudice e anche di quello amministrativo (vd
art. 101 u.c. e 108 co 2) e dei componenti della Corte dei Conti e del Consiglio di Stato. Mentre
l’imparzialità e la terzietà del giudice (ex art. 111 Cost.) concernono la distanza del giudice
medesimo dalle parti del giudizio e l’equidistanza rispetto ai loro interessi, l’indipendenza attiene
ai rapporti del giudice con soggetti estranei al rapporto processuale.
La Corte invocando tale principio ha provveduto ad eliminare molte giurisdizioni speciali.
La costituzione prevede ma non impone che “altri organi di giustizia amministrativa” (art. 103 co 1)
vadano ad affiancare il Consiglio di Stato: trattasi dei giudici aventi funzioni “affini” al Consiglio di
Stato ovvero articolati con esso in un unico plesso giurisdizionale, ex art. 125 Cost. sono istituiti
nella regione “organi di giustizia amministrativa di primo grado”, l’art. 6 c.p.a. indica il Consiglio
come organo di ultimo grado della giurisdizione amministrativa (art. 6 c.p.a.) anche se il codice
introduce alcune eccezioni in materia di ottemperanza.
L’art. 103 mantiene inoltre espressamente la giurisdizione della Corte dei Conti nelle “materie di
contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge” vi è una riserva di giurisdizione per quanto
attiene alla materia della contabilità pubblica mentre spetta al legislatore individuarne altri
eventuali così come al legislatore è riconosciuta la possibilità di derogare alla giurisdizione della
Corte dei Conti per particolari profili della contabilità pubblica.
Si noti che proprio a tutela del ruolo della Corte, si è deciso che in sede di pronuncia sull’azione
civile esercitata dalla PA nel giudizio penale ove sia imputato un dipendente il giudice penale deve
limitarsi alla condanna generica dell’imputato, restando riservata alla Corte dei Conti la
determinazione del quantum (Corte cost. n. 272/2007)
La Cost. vieta l’istituzione di nuovi giudici speciali ammettendo solo che presso gli organi
giurisdizionali ordinari vengano istituite “sezioni specializzate per determinate materie, con la
partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura “(art. 102)
L’art. 111 infine oltre ad affermare il principio della riserva di legge in materia di processo,
stabilisce che contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti è ammesso il ricorso
per Cassazione per i soli motivi inerenti alla giurisdizione mentre per quanto attiene alle sentenze
pronunciate dagli “organi giurisdizionali speciali” è ammesso il ricorso in Cassazione anche per
violazione di legge. La l. 2/1999 ha introdotto il principio del giusto processo in forza del quale
“ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti in condizioni di parità davanti a giudice
terzo e imparziale”. La legge assicura la ragionevole durata , in applicazione dell’art. 111 ad es. la
Corte Cost. ha respinto l’orientamento che configura il giudizio di ottemperanza come un
procedimento a contraddittorio attenuato (sent. 441/2005)
Nulla è detto nella Costituzione in ordine ai ricorsi amministrativi: di conseguenza, il legislatore,
può anche non prevedere tali mezzi giustiziali o addirittura vietarne l’esperibilità. La tutela
giurisdizionale è immancabile ex art. 113 Cost. e non può essere sostituita dai ricorsi
amministrativi Corte Cost. 78/1966 ha cmq ritenuto compatibile con la Cost. il principio
dell’alternatività del ricorso straordinario al Capo dello Stato rispetto a quello giurisdizionale
attesa la volontarietà della scelta dell’interessato che decide di utilizzare la via del ricorso
straordinario in luogo di quella giurisdizionale.
La regola della facoltatività dei ricorsi amministrativi soffre alcune eccezioni ex art. 16 l. 382/1978
in tema di misure disciplinari nell’ordinamento militare, dove non è ammesso il ricorso
giurisdizionale o ricorso straordinario al Presidente della Repubblica se prima non è stato esperito
ricorso gerarchico o siano trascorsi 90 gg dalla data di presentazione del ricorso.
Così per la cd pregiudizialità sportiva che precede la giustizia amministrativa, insomma si
esauriscono i gradi della giustizia sportiva prima, e poi la giustizia amministrativa.
La Costituzione espressamente contempla, garantisce e disciplina la giurisdizione del giudice
ordinario (art. 102 co 1) quelle del giudice amministrativo (art. 103 co 1) e dei giudici speciali
mentre nulla dice del mezzo di tutela- anche esso rientrante nel sistema di giustizia
amministrativa- costituito dai ricorsi amministrativi proponibili dinanzi alla stessa amministrazione.
Un riferimento alla giustizia amministrativa è da ultimo contenuto nell’art. 117 co 2 lett. l) che ne
attribuisce la disciplina alla potestà esclusiva dello Stato. Importanti principi relativi alla giustizia
amministrativa sono contenuti in alcune fonti sovranazionali: merita al riguardo un cenno l’art. 6
della CEDU che riconosce il diritto ad un processo equo.

Il legislatore non ha provveduto alla revisione delle preesistenti giurisdizioni speciali nel termine di
5 anni ex VI disp trans. Finale Cost. interpretato dalla Corte costituzionale come termine la cui
scadenza non ne avrebbe prodotto la caduta, dell’eliminazione di molte di esse si è di conseguenza
dovuta far carico la corte costituzionale stessa che ha censurato la mancata indipendenza di vari
organi giurisdizionali sopravvissuti.
Dopo la soppressione delle giunte provinciali amministrative (corte dei conti n. 30/1967) furono
istituiti i Tribunali amministrativi regionali ex art. 125 Cost., con questa riforma il Consiglio di
Stato si configura come giudice di secondo grado (ad eccezione del caso in cui sia esperito ricorso
per l’ottemperanza di una decisione del consiglio stesso che abbia riformato la decisione del Tar)
La duplicità di grado nel giudizio amministrativo si è pertanto realizzata per sovrapposizione di un
giudice di primo grado al giudice preesistente (Consiglio di Stato) intervenendo così la
consequenzialità logica che imporrebbe nell’ipotesi in cui non sia contestuale, l’istituzione
successiva del giudice di secondo grado.
Per quanto riguarda le modificazioni e le innovazioni successive, deve essere ricordato il d.p.r.
214/1973 contenente il regolamento di esecuzione della legge istitutiva dei Tar e la l. 186/1982
che ha disciplinato la composizione delle sezioni del Consiglio di Stato e dei Tar e soprattutto ha
integrato nell’unica “magistratura amministrativa” i magistrati del TAR e del Consiglio di Stato. Con
d.p.r. 426/1982 è stato istituito il Tar della regione Trentino Alto- Adige che gode di un particolare
ordinamento.
Per la corte del conti con il l. 19/1994 ne sono state istituite le sezioni regionali. Il d.lgs. 29/1993
ora sostituito dall’art. 165/2001 ha poi sottratto all’ambito della giurisdizione esclusiva molte
controversie in tema di pubblico impiego.
Il d.lgs. 80/1998 ha invece esteso la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo alle materie
dei servizi pubblici, dell’edilizia e dell’urbanistica.
L’art. 33 di tale decreto nella parte in cui ha devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo l’intera materia dei pubblici servizi, nonché dell’edilizia e dell’urbanistica, così
eccedendo i limiti della delega conferita con l. 59/1997 che avrebbe conseguito unicamente di
estendere la giurisdizione esclusiva alle controversie concernenti i diritti patrimoniali
consequenziali ivi comprese quelle attinenti al risarcimento del danno, è stato dichiarato
costituzionalmente illegittimo da Corte Cost. sent. 292/2000 per eccesso di delega.
La l. 205/2000 ha riprodotto le norme del d.lgs. 80/1998 censurate dalla Corte Costituzionale
aggiungendo anche altri ambiti di giurisdizione esclusiva e ha pure introdotto modificazioni
relative al processo amministrativo.
Corte Cost. 204/2004 ha ridimensionato la giurisdizione esclusiva, e la Corte Cost. con sent.
77/2007 anche a fronte delle difficoltà che i cittadini possono incontrare nell’individuare il giudice
munito di giurisdizione, ha inteso garantire una risposta sul merito dell’azione, introducendo il
meccanismo della translatio iudicii volto a consentire al privato la conservazione degli effetti della
domanda proposta dinanzi ad un giudice poi dichiarato privo di giurisdizione. La fattispecie è stata
poi regolata dall’art. 59 l. 69/2009. La medesima legge ha delegato il governo a ridisciplinare la
materia del processo amministrativo.
La delega è stata esercitata con il d.lgs. 104/2010 (c.p.a. codice del processo amministrativo) con
cui è introdotto il codice del processo amministrativo.

La funzione giurisdizionale è l’unica funzione che appartiene esclusivamente allo Stato, mentre la
funzione normativa e quella amministrativa sono riconosciute e attribuite anche ad altri soggetti
dell’ordinamento spetta solo allo Stato la possibilità di applicare il diritto al caso concreto al fine di
risolvere una controversia con una decisione idonea ad acquistare efficacia di giudicato.
La giurisdizione è attuazione della legge di conseguenza, essa si estende fin dove sussiste la
soggezione alla legge. La relativa questione può essere rilevata d’ufficio: la giurisdizione fa parte
dei presupposti processuali e cioè di quei presupposti che devono essere delibati dal giudice
amministrativo prima di poter scendere all’esame del merito della domanda.
La legge attribuisce la giurisdizione a soggetti dell’ordinamento individuando contestualmente i
limiti del relativo potere: trattasi da un lato di limiti esterni nel senso che al di là di essi non
sussiste nessun giudice dell’ordinamento che abbia appunto giurisdizione dall’altro di limiti interni
e operanti nell’ambito della sfera di giurisdizione spettante ai vari organi dello stesso ord.
1) Dal primo punto di vista il superamento dei limiti esterni può condurre per quanto qui
interessa all’invasione di un ambito in cui non vi è giurisdizione in quanto manca la
soggezione alla legge
2) Dal secondo punto di vista la questione attiene all’individuazione dei criteri di distribuzione
della potestà di risolvere le controversie tra i vari giudici dell’ord
Il superamento dei limiti esterni determina un difetto assoluto di giurisdizione; il superamento di
quelli interni comporta un difetto relativo di giurisdizione allorchè la giurisdizione sussista, ma
sorga conflitto in ordine all’appartenenza della controversia tra ordini giurisdizionali diversi. Nelle
ipotesi in cui il conflitto sorga all’interno del medesimo ordine giurisdizionale si profila una
questione di competenza.
Occorre procedere all’identificazione dell’azione concretamente esercitata nel processo. Elementi
di essa sono il soggetto, la causa petendi, e il petitum.
Il petitum è l’oggetto dell’azione e, di solito, nel giudizio amministrativo consiste nella domanda di
annullamento, la causa petendi è il titolo sul quale si fonda l’azione.
Subito dopo l’istituzione della IV sez. Consiglio di Stato la stessa sezione proposte di operare il
riparto tra giurisdizioni secondo il criterio del petitum (insomma il giudice amministrativo era
competente nel caso di annullamento dell’atto) ma tale criterio fu rifiutato dalla sent. 24 luglio
1891 (caso Laurens) e 24 giugno 1897 (caso Trezza) ove si affermò che il riparto deve essere
operato avendo come riferimento la natura della situazione giuridica dedotta in giudizio (diritto
soggettivo o interesse legittimo)
Nel periodo 1927- 1929 tra la IV e la V sezione del Consiglio di Stato si manifestò un contrasto,
poiché la IV adottò il criterio del petitum aprendo la via alla cd doppia tutela nel senso che il
privato poteva rivolgersi al giudice ordinario o a quello amministrativo a seconda che si chiedesse
il risarcimento del danno o l’annullamento dell’atto. La Cassazione (con sent. 2680/1930) e il
Consiglio di Stato (ad. Plen. 1/1930) “concordarono” (cd concordato del 1930) che il criterio
decisivo fosse costituito dalla natura intrinseca della controversia sicchè ci si può rivolgere al
giudice amministrativo solo se la protesa riguarda interessi legittimi (criterio del petitum
sostanziale ): restando ininfluenti le formule giuridiche utilizzate dall’attore e le richieste rivolte al
giudice adito, più in particolare assume rilievo la causa petendi, e l’effettiva natura della situazione
giuridica soggettiva dedotta.
A partire dalla Cass sez. un. 1657/1949 riconosciuta la rilevanza della causa petendi ai fini di
riparto si è impegnata nel definire una regola per decidere quando si sia in presenza della lesione
di un diritto soggettivo ovvero di interesse legittimo individuato sulla base della contrapposizione
tra carenza di potere e cattivo esercizio del potere : sempre in base alla prospettazione della
parte, se si consenta l’esistenza del potere si è in presenza di diritti soggettivi; ove si lamenti un
cattivo uso del potere si fa valere un interesse legittimo.
Ricordiamo ancora che, secondo la giurisprudenza si verifica carenza di potere in concreto
allorchè la PA agisca in una situazione in cui difettino uno o più fatti stabiliti dalla legge (norma di
relazione) come presupposti per l’esistenza in concreto del potere.

Nel nostro ordinamento sussistono due ordini giurisdizionali- ordinario e amministrativo-


competenti a conoscere di controversie che riguardano la PA.
Tra questi diversi ordini giurisdizionali possono sorgere conflitti in ordine alla spettanza del potere
di giudicare le controversie di cui si è detto.
La soluzione di tali conflitti implica una verifica della giurisdizione e un riscontro sull’effettiva
sussistenza o insussistenza della potestà, spettante ad un giudice, di giudicare una controversia.
Tale verifica peraltro può essere effettuata anche al di fuori di questo contesto, in quanto
sussistono strumenti processuali di verifica della giurisdizione che non presuppongono l’esistenza
di un conflitto.
Occorre ricordare che nel nostro ordinamento i conflitti possono essere:
a) Conflitti di attribuzione allorchè sorgano soggetti dotati di una sfera di competenza
costituzionalmente riservata: la Costituzione affida alla Corte Costituzionale il compito di
fornire loro soluzione;
b) Conflitti di giurisdizione, se riguardano organi appartenenti a diversi ordini giurisdizionali;
la loro soluzione spetta alla Corte di Cassazione a sezioni unite (art. 374 c.p.c.)
c) Conflitti di competenza, (amministrativi o giurisdizionali) nell’ipotesi in cui sorgano
appartenenti allo stesso soggetto o allo stesso complesso giurisdizionale; la soluzione dei
conflitti amministrativi spetta all’organo sovraordinato mentre per quanto attiene ai
conflitti giurisdizionali la loro risoluzione è affidata alla Corte di cassazione a sezione
semplice (se il conflitto riguarda giudici ordinari) ovvero nell’ipotesi di giudice speciale, a
quello di grado più elevato
In questa sede interessano i conflitti di giurisdizione, importanti sono anche i conflitti di
attribuzione infatti questi possono involgere questioni di giurisdizione. Ciò accade quando sorgono
in un giudizio di cui sia parte una PA e attengono alla spettanza al giudice della potestà di
conoscere di questioni che involgono la PA stessa. La loro soluzione, in queste ipotesi, spetta alla
Cassazione.
Va richiamata la difficoltà di operare una netta distinzione tra conflitti di attribuzione risolti dalla
Corte Costituzionale e conflitti di giurisdizione risolti dalla Cassazioni si pensi al conflitto tra potere
amministrativo e potere giurisdizionale che involga anche questioni di giurisdizione, come
nell’ipotesi in cui la PA, evocata in giudizio, affermi di essere nel caso, immune da qualsiasi
sindacato giurisdizionale.
L’art. 37 l- 87/1953 afferma che, in relazione, alle questioni di giurisdizione “restano ferme le
norme vigenti” e cioè quelle che affidano la risoluzione di tale conflitto alla Cassazione.
La linea distintiva andrebbe ricercata nel fatto che, nel caso di conflitto di attribuzione, il conflitto
tra poteri non si esaurisce all’interno del singolo processo, ma si riferisce alla contestata possibilità
per uno dei poteri di esercitare attribuzioni costituzionalmente riconosciute, come accade
nell’ipotesi in cui un giudice, con provvedimento d’urgenza abbia invaso la competenza del
governo adottando un atto dal contenuto sostanzialmente amministrativo, ovvero nel caso di
conflitto tra autorità giudiziaria e commissione parlamentare inquirente.
Ex l. 87/1953 la Corte costituzionale risolve i conflitti tra poteri ex art. 134 Cost. che insorgano tra
organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono per la
delimitazione della sfera di attribuzione determinata per i vari poteri da norme costituzionali (art.
37). la disciplina processuale rispecchia la difficoltà di definire i contorni della controversia tra i
poteri dello Stato che molto spesso concerne conflitti almeno in senso lato politici. Non è infatti
previsto un termine per la presentazione del ricorso che, immediatamente dopo il deposito alla
cancelleria della Corte Costituzionale, viene esaminato dalla Corte stessa in camera di consiglio per
un preventivo giudizio di ammissibilità, l’individuazione dei controinteressati è rimessa alla Corte
Costituzionale. Il giudizio di ammissibilità si conclude con un’ordinanza che, ove decida nel senso
dell’esistenza di un conflitto la cui soluzione spetti alla competenza della Corte, dispone la notifica
agli enti interessati a cura del ricorrente, che deve avvenire entro il termine fissato dalla Corte
stessa; entro 20 gg dall’ultima notificazione il ricorrente deve costituirsi depositando nella
cancelleria della Corte copia del ricorso con la prova delle notificazioni eseguite. I controinteressati
hanno diritto di costituirsi sia personalmente sia mediante rappresentanza di un avvocato abilitato
al patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori, nello stesso termine fissato per il deposito del
ricorso. La Carta risolve il conflitto dichiarando il potere al quale spettano le attribuzioni in
contestazione annulla, ove sussista, l’atto emanato dall’altro potere.
In ordine ai conflitti tra Stato e regioni la disciplina processuale prevede un termine perentorio
per la notificazione del ricorso e la necessità di notificare il ricorso all’ente controinteressato. Il
termine per proporre ricorso- da parte del Presidente del Consiglio dei ministri o di un ministro
delegato, previa deliberazione del Consiglio dei ministri se agisce lo Stato; dal presidente della
giunta regionale previa deliberazione della giunta nell’ipotesi in cui ad agire sia la regione- è di 60
gg dalla notificazione o pubblicazione o conoscenza dell’atto; il ricorso insieme alla prova delle
notifiche e alla procura speciale deve poi essere depositato nella cancelleria della Corte entro 20
gg dall’ultima notificazione; entro 20 gg dalla notifica dell’ente resistente può costituirsi mediante
deposito di procura speciale e di eventuali deduzioni scritte e documenti, la Corte infine dispone di
poteri cautelari.
Nel caso di conflitto tra regioni la notifica del ricorso deve essere fatta pure al Presidente del
Consiglio dei Ministri.

Le disposizioni sui conflitti caratterizzate dall’attribuzione alla Cassazione del compito di risolverli
costituiscono una sorta di innesto in seno al c.p.c.
Segue uno schema della verifica della giurisdizione
A) Il difetto di giurisdizione del “giudice ordinario nei confronti della PA o dei giudici speciali”
può essere proposto in qualunque stato e grado del processo ed è rilevabile anche d’ufficio
(art. 37 c.p.c dove il giudice si pronuncia “in positivo” cioè dichiarando se esiste il giudice
con giurisdizione) per quanto rig. il giudice amministrativo l’art. 9 c.p.a. dispone che il
difetto di giurisdizione è rilevato in primo grado anche d’ufficio; nei giudizi di impugnazione
invece esso è rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia
impugnata che, in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione. In sostanza in
assenza di impugnazione il giudice deve trattenere la giurisdizione in appello, vengono così
scongiurati i rischi che la relativa questione emerga in un momento molto distante
dall’inizio della controversia rischio grave soprattutto nei casi in cui il difetto di giurisdizione
derivi da decisioni della Consulta
Sul presupposto che qualsiasi decisione del merito implica la preventiva verifica della potestas
iudicandi la Suprema Corte, ha proposto una lettura “in senso restrittivo e residuale” dell’art. 37
c.p.c. affermando che, se le parti non impugnano la sentenza o la impugnano, ma non eccepiscono
il difetto di giurisdizione pongono in essere un comportamento incompatibile con la volontà di
eccepire tale difetto, e quindi si verifica il fenomeno dell’acquiescenza per incompatibilità con le
conseguenti preclusioni sancite dagli art. 329 c.p.c. e dell’art. 324 c.p.c. Si forma allora il giudicato
implicito sulla giurisdizione.
Il meccanismo che evita la definizione solo in rito del processo (garantendo al cittadino una
risposta sul merito dell’azione) è la translatio iudicii che fino al 2007 operava solo nel caso della
competenza, il legislatore raccogliendo l’invito formulato dalla Consulta si è fatto carico di
disciplinare in generale, i casi di trasmigrazione del processo e di sancire il superamento
dell’incomunicabilità tra giudice. In tal modo i passaggi tra plessi giurisdizionali sono ora anche
orizzontali.
Ex art. 59 l. 69/2009 il giudice che, in materia civile, amministrativa, contabile, tributaria o di
giudici speciali, dichiara il proprio difetto di giurisdizione indica se esistente, il giudice nazionale
che ritiene munito di giurisdizione. La pronuncia sulla giurisdizione resa dalle sezioni unite della
Cassazione in sede di ricorso o di regolamento di giurisdizione, è vincolante per ogni giudice e per
le parti anche in altro processo. Entro il termine perentorio di 3 mesi dal passaggio in giudicato
della pronuncia la parte può riproporre la domanda al giudice indicato. In questo caso le parti
restano vincolate a tale indicazione, e sono automaticamente fatti salvi gli effetti sostanziali e
processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione
fosse stato adito fin dall’instaurazione del primo giudizio, ferme restando le preclusioni e le
decadenze intervenute.
Le prove raccolte nel processo davanti al giudice privo di giurisdizione possono essere valutate
come argomenti di prova. L’inosservanza dei termini fissati per la riproposizione comporta
l’estinzione del processo, che è dichiarata anche d’ufficio alla prima udienza e impedisce la
conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda.
La disposizione chiarisce che la domanda si ripropone con le modalità e secondo le forme previste
per il giudizio davanti al quale la causa è stata riproposta può sollevare d’ufficio, con ordinanza, la
questione davanti alle sezioni unite, ma solo fino alla prima udienza fissata per la trattazione del
merito.
L’art. 11 c.p.a. si occupa del problema con specifico riferimento alle trasmigrazioni verso e dal
giudice amministrativo, quando declina la propria giurisdizione il giudice amministrativo indica, se
esistente, il giudice nazionale che ne è fornito. Il co 2 dell’art. 11 aggiunge che, ferme restando le
preclusioni e le decadenze intervenute, sono fatti salvi gli effetti processuali e sostanziali della
domanda se il processo è riproposto innanzi al giudice indicato nella pronuncia che declina la
giurisdizione entro il termine perentorio di 3 mesi dal suo passaggio in giudicato.
Analoga regola viene fissata con riferimento al caso in cui le sezioni unite della Cassazione investite
della questione di giurisdizione attribuiscano quest’ultima al giudice amministrativo.
Nei giudizi riproposti il giudice ad quem può concedere la rimessione in termini per errore
scusabile ove ne ricorrano i presupposti.
Con specifico riferimento alla trasmigrazione verso il giudice amministrativo l’art. 11 co 3 precisa
che quando il giudizio è tempestivamente riproposto (con ricorso) davanti a tale giudice esso alla
prima udienza può sollevare anche d’ufficio il conflitto di giurisdizione (resta invece preclusa per le
parti la proposizione del regolamento di giurisdizione Cass. sez. ord. 14828/2010)
La norma poi si occupa espressamente della sorte delle prove e delle misure cautelari che, nella
logica della trasmigrazione, dovrebbero tendenzialmente sopravvivere. Si dispone che nel giudizio
riproposto dinanzi al giudice privo di giurisdizione possono valutare solo come argomenti di prova.
Circa la misure cautelari poi esse sopravvivono per un certo periodo dopo che il giudice ha
declinato la giurisdizione: si stabilisce che esser perdono efficacia 30 gg dopo la pubblicazione del
provvedimento che dichiara il difetto di giurisdizione del giudice che le ha emanate. Le parti
possono però riproporre le domande cautelari al giudice munito di giurisdizione.
B) Intervenuta una pronuncia espressa sono poi proponibili anche sotto il profilo della
giurisdizione le impugnazioni previste per quel tipo di sentenza. Con riferimento al giudice
amministrativo ove la questione di giurisdizione rientri tra i motivi di appello, il giudice
d’appello nell’ipotesi in cui riconosca il difetto della giurisdizione affermata dal TAR indica
se esistente il giudice nazionale, che ne è fornito (art. 11 c.p.a. pur nel silenzio della norma,
pare che il giudice debba cmq annullare la sentenza di 1° grado, annullerà la decisione con
rinvio al giudice di primo grado art. 105 c.p.a.); infine nel caso in cui ritenga legittima la
statuizione del TAR in punto giurisdizione, confermerà la sentenza e all’appellante
soccombente non resterà che proporre ricorso alle sezioni unite della Cassazione
C) È previsto poi il regolamento preventivo di giurisdizione ex art. 10 c.p.a. che richiama l’art.
41 c.p.c. per cui finchè la causa non sia decisa nel merito in primo grado, ciascuna parte
può chiedere alle sezioni unite della Cassazione che risolvano le questioni di giurisdizione
l’art. 10 aggiunge che nel giudizio sospeso possono essere chieste misure cautelari ma il
giudice non può disporle se non ritiene sussistente la propria giurisdizione. Trattasi di
mezzo di natura non impugnatoria relativo a un caso di conflitto virtuale di giurisdizione
atteso che sulla giurisdizione non si è ancora pronunciato alcun giudice.
D) In ogni stato e grado del processo la PA che non sia parte in causa, ex art. 41 co 2 c.p.c. può
chiedere alle sezioni unite della Cassazione che sia dichiarato il difetto di giurisdizione del
giudice ordinario a causa dei poteri attribuiti dalla legge della PA finchè la giurisdizione non
sia stata affermata con sentenza passata in giudicato.
Trattasi di un conflitto virtuale di attribuzioni che involge una questione di giurisdizione tra
giudice e PA. Il prefetto che è l’organo amministrativo competente, con decreto motivato da
notificare alle parti e al PM eleva il conflitto, il giudizio viene sospeso dal capo dell’ufficio
giudiziario, dinanzi a cui pende il processo su istanza del PM che è tenuto a notificare alle parti il
decreto di sospensione entro 10 gg se nessuna delle parti in causa provvede entro 30 gg dalla
notificazione del decreto a presentare il ricorso alla Cassazione per il regolamento del conflitto, la
causa si estingue (art. 368 c.p.c.)
E) È ammesso il ricorso per Cassazione avverso sentenze pronunciate in grado d’appello o in
unico grado dal giudice ordinario ex art. 360 c.p.c. per motivi attinenti alla giurisdizione
F) È ammesso il ricorso per Cassazione avverso le sentenze di un giudice speciale in unico
grado di appello ex art. 362 co 1 c.p.c. per “motivi attinenti alla giurisdizione”, con
riferimento alle sentenze del Consiglio di Stato il principio è ribadito dall’art. 110 c.p.a.
Alla luce di quanto precisato supra sub a), le verifiche di cui alle letter E) e F) sono possibili purchè
non si sia formato il giudicato, anche implicito, sulla questione di giurisdizione.
G) È ammesso il ricorso per cassazione “in ogni tempo” in caso di conflitti reali positivi e
negativi tra giudici speciali ovvero tra questi e il giudice ordinario: art. 362 co 2 c.p.c.
Per completezza di esposizione ricordiamo che l’art. 362 co 2 c.p.c. rimettendone la soluzione alle
sezioni unite della Cassazione si occupa pure dei conflitti (reali) negativi di attribuzione tra la PA e il
giudice ordinario.
Per quanto riguarda la verifica della giurisdizione devoluta alla Cassazione a sezioni unite vanno
precisati i seguenti principi, ex art. 386 c.p.c. “la decisione sulla giurisdizione è determinata
dall’oggetto della domanda e quando prosegue il giudizio, non pregiudica le questioni sulla
pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda”.
Le questioni di giurisdizione secondo l’elaborazione giurisprudenziale della Cassazione attengono
all’invasione della sfera dell’altrui giurisdizione e all’eccesso di potere giurisdizionale.
Nell’ultima ipotesi rientra anche il superamento del limite esterno di giurisdizione, esso si realizza
quando il giudice sindaca ambiti coperti da riserva di amministrazione.
Viene talora prospettata come autonoma questione di giurisdizione relativa al superamento del
limite esterno di giurisdizione anche l’improponibilità assoluta della domanda. Invece viene
considerata come questione di giurisdizione anche l’irregolare composizione dell’organo
giudicante.
Rispetto alla “questione di giurisdizione” è stata configurata la cd regola della pregiudizialità
relativa al tema del risarcimento del danno da Cass sez. un ord n. 13660, secondo cui il giudice
amministrativo deve esercitare la giurisdizione relativamente alla tutela risarcitoria anche ove la
relativa pretesa, prescindendo dalle regole proprie dell’impugnazione dell’atto, sia azionata
autonomamente rispetto alla previa impugnazione dell’atto, sia azionata autonomamente rispetto
alla previa impugnazione dell’atto medesimo. Posto che sarebbe norma sulla giurisdizione anche
quella che dà contenuto al potere giurisdizionale individuando le forme di tutela attraverso le quali
quel potere si manifesta.
Il c.p.a. supera il problema della pregiudizialità atteso che ammette espressamente la possibilità
dell’esercizio autonomo dell’azione risarcitoria ex art. 7 [alla giurisdizione generale di legittimità
del giudice amministrativo] soggiungendo che la giurisdizione si estende alle controversie
risarcitorie pure se introdotte in via autonoma, in altri termini la questione di giurisdizione non è
più condizionata dal rito mediante cui la pretesa risarcitoria è azionata.

I giudici ordinari sono costituiti dal complesso giurisdizionale disciplinato con r.d. 12/1941
“Ordinamento giudiziario” comprendente il giudice di pace, il tribunale, la corte d’appello, la Corte
di cassazione, per quanto rig. la giustizia penale ricordiamo poi anche le corti di assise e le corti
d’assise d’appello.
La costituzione consente che, presso gli organi giurisdizionali ordinari, siano istituite sezioni
specializzate per determinate materie. In materia amministrativa vengono in considerazione i
Tribunali regionali delle acque e il Tribunale superiore delle acque.
Gli art. 2, 4 e 5 l. 2248/1865 individuano sia l’ambito di giurisdizione spettante al giudice ordinario
in relazione alle controversie che coinvolgano una PA (art. 2) sia i poteri del giudice medesimo.
Sotto il primo profilo ex art. 2 i giudici ordinari conoscono di tutte le controversie in cui “si faccia
questione di un diritto civile o politico” (in materia civile) nonché- in materia penale- di tutte le
cause per contravvenzione.
Oggi un’eccezione al principio della giurisdizione generale del giudice ordinario in materia penale è
costituita dalle ipotesi di reato per cui sono competenti i tribunali militari di pace e di guerra.
Ex art. 4 co 1 e 2 l. 2248/1865 all E dispone “quando la contestazione cade sopra un diritto che si
pretende leso da un atto dell’Autorità Amministrativa, i Tribunali si limiteranno a conoscere degli
effetti dell’atto stesso in relazione all’oggetto dedotto in giudizio”
L’atto amministrativo non può essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti
autorità amministrative che si conformeranno al giudicato in quanto riguarda il caso deciso.
La norma di cui al primo co rig. i poteri di cognizione del giudice ordinario mentre il secondo
occupa dei suoi poteri di decisione. Con riferimento dell’atto, la pronuncia del giudice non ha
efficacia erga omnes ma vale solo per il caso deciso inter partes, in quanto il giudice si limita a
conoscere degli effetti dell’atto “in relazione all’oggetto” dedotto in giudizio.
Al fine di comprendere la scelta legislativa emergente dall’art. 4 cit non deve essere dimenticato
che il giudizio di cui tale norma si occupa ha come oggetto la lesione del diritto e non la legittimità
dell’atto. Poiché la lesione è prodotta dagli effetti del provvedimento si comprende la ragione per
cui il giudice, chiamato a giudicare della lesione del diritto, si disinteressi dell’atto in quanto tale.
È questa la differenza che concerne tra il processo che verte sulla lesione del diritto e quello che
conosce la lesione dell’interesse legittimo a mezzo di un atto; nell’ipotesi di lesione del diritto la
tutela è offerta a prescindere dall’impugnazione dell’atto e il giudice non si occupa della sua sorte
fuori dal processo. Infatti il giudice non può intervenire direttamente sul provvedimento.
La PA ha proceduto ad es, ad occupare un immobile sulla base di un esproprio emanato dopo la
scadenza dei termini fissati nel decreto di dichiarazione di pubblica utilità dell’opera (carenza di
potere in concreto) determina una lesione per il privato nel suo diritto di proprietà. Il giudice pur
potendone riconoscere l’illiceità non può intervenire sull’atto.
E allora soccorre l’art. 5 che statuisce “in questo come in ogni altro caso le autorità giudiziarie
applicheranno gli atti amministrativi e i regolamenti generali e locali in quanto sia conforme a
legge”. Da questa norma è stato tratto l’istituto della disapplicazione del provvedimento
amministrativo. Mentre l’art. 4 si occupa espressamente degli effetti dell’atto, l’art. 5 dispone in
ordine alla sorte dell’atto legittimo esso dovrà essere disapplicato dal giudice ordinario
Il potere di disapplicazione può essere impiegato anche in altre situazione (disapplicazione
incidentale). Qui il giudice conosce solo incidentalmente dell’atto al fine di decidere sul merito
della domanda di parte attrice che lamenta la lesione del diritto causata da un diverso
comportamento illecito (rifiuto di pagare il debito) mentre l’atto (illegittimo) non può annoverarsi
tra le fonti di quella lesione.
Il potere incidentale di disapplicazione può essere impiegato nelle situazioni caratterizzate dal
fatto che il privato (o la PA ove pretenda una prestazione da parte del cittadino affermando che
essa scaturirebbe da un proprio atto) invoca a fondamento del proprio comportamento o dalla
propria pretesa un provvedimento amministrativo.
Con riferimento al caso in cui il giudice conosca dell’atto in via principale occorre aggiungere che
l’atto, emanato in violazione di una norma di relazione, non è annullabile da parte del giudice
amministrativo in quanto la situazione del privato è il diritto soggettivo sicchè il giudice
amministrativo è sfornito di giurisdizione. Il regime sostanziale di tale atto illecito- non nullo e
neppure annullabile- è quello dell’inapplicabilità risultante dalla normativa processuale.
Nelle altre ipotesi l’atto ben potrebbe essere annullato dal giudice amministrativo ove il privato
proponga ricorso dinanzi a questo: esso non è immediatamente lesivo del diritto soggettivo ma di
interessi legittimi, ed è conosciuto dal giudice ordinario solo incidentalmente al fine cioè di
accertare la lesione di un diritto che deriva da un comportamento differente, ancorchè basato
sulla sua sussistenza. Diversa è nei due giudizi la situazione giuridica e fatta valere, e l’oggetto del
processo. La Cassazione ritiene peraltro che il giudicato formatosi sulla decisione del giudice
amministrativo reiettiva del ricorso avverso un provvedimento della PA precluderebbe nell’ambito
di una controversia insorta tra le stesse parti, ogni indagine del giudice ordinario, che non può
disapplicare l’atto per motivi differenti da quelli dedotti nel giudizio amministrativo. Per altro verso
si riconosce che la disapplicazione non può essere impedita dall’inoppugnabilità dell’atto
amministrativo.
Il completamento dell’analisi dei due articoli (4 e 5 co cont. Amm.) richiede ulteriori precisazioni:
a) Ex art. 4 co 2 le autorità amministrative hanno l’obbligo di conformarsi al giudicato dei
tribunali in quanto riguarda il caso deciso. Il privato che abbia ottenuto una pronuncia
favorevole può rivolgersi alla PA al fine di ottenere la rimozione dell’atto.
Con riferimento all’ipotesi in cui la PA non osservi l’obbligo ex art. 4 co 2 l. cont. Amm.
Inizialmente sprovvisto di possibilità di esecuzione coattiva la legge istitutiva della IV sezione del
Consiglio di Stato ha introdotto nel 1889 il rimedio del ricorso di ottemperanza che consente alla
parte che abbia ottenuto una pronuncia favorevole del giudice ordinario passata in giudicato di
rivolgersi al giudice amministrativo nel caso in cui la PA non si conformi al giudicato.
Tale ipotesi può trovare applicazione solo nell’ipotesi ex art. 4 l- 1865 (laddove il giudice conosce
direttamente di diritti soggettivi lesi dall’atto) nel quale è previsto l’obbligo di conformarsi (giudizio
in via principale) non invece nel giudizio in via incidentale in cui tale obbligo non sussiste anche
perché si sostiene tradizionalmente che il giudicato – presupposto del giudizio di ottemperanza-
del giudice ordinario non copre l’accertamento incidentale dell’illegittimità dell’atto. Di qui lo
spazio ristretto in cui questo giudizio si può usare
b) L’atto è disapplicabile quando sia affetto da qualsiasi vizio di legittimità atteso che la legge
non pone alcuna limitazione, il sindacato non si estende al merito. Il potere di
disapplicazione è esercitato d’ufficio.
Espresso riconoscimento del potere di disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi è
effettuato dalla legge con riferimento alle controversie attinenti al rapporto di lavoro presso le PA
e devolute dal d.lgs. 165/2001 al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro.
c) Parte della dottrina e della giurisprudenza ritiene che il potere di disapplicazione sia
esercitabile anche dal giudice penale : che conosce degli atti amministrativi al fine di
verificare la sussistenza di fattispecie descritte dalla legge penale e caratterizzate dalla
necessaria presenza di un atto legittimo. Nel caso dell’art. 650 cit. in particolare la sanzione
è applicabile dal giudice solo se il comportamento dell’imputato integri l’inosservanza di un
provvedimento “legalmente dato dall’Autorità per ragioni di sicurezza pubblica o giustizia o
di ordini pubblico o igiene” sicchè ove il provvedimento sia illegittimo il giudice non già
disapplica l’atto, ma semplicemente riscontra che l’illecito non si è integrato perché la
condotta del privato non rientra nella descrizione della norma.
Non pare collegabile al tema della disapplicazione il reato di cui all’art. 323 c.p. (abuso d’ufficio,
integrato in caso di atto viziato per violazione di legge e incompetenza mentre irrilevante è
l’eccesso di potere) atteso che esso impone al giudice di verificare se è integrata la fattispecie
descritta dalla legge.
Va ancora ricordato che il potere di disapplicazione è stato di recente riconosciuto in capo al
giudice amministrativo.

Muovendo dall’interpretazione degli art. 4 e 5 l. 2248/1865 all. E dottrina e giurisprudenza hanno


proceduto ad individuare la tipologia di azioni esperibili dinanzi al giudice civile da parte dei privati
nei confronti della PA.
Il particolare, sulla base del divieto per il giudice di revocare o modificare l’atto amministrativo, si
negava tradizionalmente la possibilità che detto giudice potesse pronunciare sentenze costitutive
e le sentenze di condanna ad un dare infungibile, un fare o un supportare nei confronti della PA.
Pacificamente ammesse erano e sono le sentenze dichiarative, e le sentenze di condanna al
pagamento di somme di denaro. La conclusione appariva del resto pienamente coerente con il
principio della divisione dei poteri. Si impediva al potere giurisdizionale di ingerirsi nella sfera della
PA, la cui attività, necessariamente finalizzata alla cura di interessi pubblici, non tollerava
l’emanazione di ordini di fare o l’annullamento di atti da parte di un potere esterno che avrebbe
finito col sovrapporsi alle valutazioni del potere amministrativo nell’emanazione di atti tipici
nominati. Le sentenze dichiarative non incidono direttamente sull’atto né implicano svolgimento
di attività esecutiva da parte della PA sicchè non vi sono problemi di interferenze con l’attività
amministrativa, mentre per ciò che concerne le sentenze di condanna al pagamento di una
somma, esse impongono un obbligo di dare fungibile e non un’attività amministrativa qualificata.
Nel corso del tempo con particolare riferimento ai poteri decisori, sono stati individuati i limiti del
divieto del giudice ordinario di emanare sentenze costitutive o di condanna.
I limiti attengono solo agli atti posti dai soggetti pubblici nell’esercizio del potere amministrativo: le
sentenze di condanna e quelle costitutive possono invece essere emanate anche nei confronti di
una PA che abbia posto in essere atti di diritto civile. Si ritiene infatti pacificamente che gli art. 4 e
5 l. cont. Amm. si riferiscono solo agli atti amministrativi in senso proprio.
Le limitazioni dei poteri del giudice, sopra indicate, non operano poi in linea di principio nei casi in
cui la PA abbia agito in situazione di carenza di potere ; l’attività così posta in essere dalla PA, che
si configura come mera condotta materiale è considerata dal giudice civile, in linea di massima, alla
stregua dell’attività di qualsiasi altro soggetto di diritto comune. In queste ipotesi non si può
verificare alcuna interferenza con l’esercizio delle potestà pubblicistiche spettanti alla PA.
In particolare in tema di diritti cd non suscettibili di essere degradati dalla PA un esempio è
costituito dal diritto alla salute- parte della giurisprudenza ha ammesso pure la condanna ad un
facere specifico e fungibile al fine di eliminare il pregiudizio arrecato al privato con un
comportamento che non può essere espressione di un potere, in quanto quest’ultimo è
considerato incompatibile con l’esistenza di un tale diritto.
Per quanto concerne le azioni possessorie (reintegrazione e manutenzione art. 1168 e 1170 cc) le
azioni nunciatorie (quasi possessorie) ex art. 1171 e 1172 (denuncia di nuova opera e di danno
temuto) nonché le azioni volte ad ottenere un provvedimento cautelare d’urgenza ex art. 700
c.p.c. tradizionalmente si nega che esse siano esperibili nei confronti della PA quando determinino
la paralisi dell’efficacia di un atto amministrativo che si pone alla base del suo comportamento.
Peraltro allorchè la PA agisca nell’esercizio della capacità di diritto privato o sine titulo, il limite ai
poteri del giudice ordinario viene superato, atteso che non vi è pericolo che la decisione del
giudice interferisca con atti amministrativi.
Circa i limiti entro cui il giudice ordinario può disporre il sequestro conservativo nei confronti della
PA esso, come il sequestro giudiziario, non è ritenuto ammissibile quando comporti la paralisi
degli effetti di un provvedimento amministrativo.
Si ritiene poi ammissibile la sentenza costitutiva pronunciata dal giudice ex art. 2932 cc e avente gli
stessi effetti del contratto non concluso, essa può essere emanata con riferimento all’ipotesi in cui
una parte, obbligata a concludere un contratto in forza di un “preliminare” non adempia
l’obbligazione assunta. Nel caso in cui la parte inadempiente sia la PA la possibilità di esercitare
l’azione ex art. 2932 è stata riconosciuta dalla giurisprudenza ad avviso della quale la sentenza del
giudice non comporta alcuna interferenza nell’esercizio dei poteri amministrativi atteso che la
scelta discrezionale della PA è stata effettuata nel momento in cui la stessa si è determinata a
concludere il preliminare.
In sostanza si può affermare che i limiti al potere del giudice ordinario sussistono solo quando il
soggetto pubblico abbia esercitato con atto formale poteri pubblicistici attribuiti dalla legge.
Solo in questa ipotesi nel pieno rispetto del principio di legalità si giustifica un regime differenziato
per la PA.
I limiti di cui all’art. 4 l. cont. Amm. si rivelano allora come garanzia “rispetto ad un potere di
annullamento o a una sovrapposizione della sentenza al potere esercitato dalla PA con il
provvedimento”: ciò che l’ord vuole evitare è che il giudice civile intervenga direttamente sull’atto
o ordini alla PA di esercitare in un certo modo i propri poteri tipici e nominati. Questo significa che,
nelle restanti ipotesi, le quali devono essere considerate la regola e non più l’eccezione, il giudice
può emanare qualsiasi tipo di sentenza, anche di condanna ad un facere specifico, senza che ciò
possa ritenersi in conflitto con l’interesse pubblico, atteso che la legge a monte non ha ritenuto di
attribuire un potere pubblicistico che costituisca uno schermo nei confronti dell’intervento del
giudice.
In conclusione tenendo conto che il giudice civile ha giurisdizione ove manchi il potere pubblico,
dovrebbero ritenersi sempre ammissibili le sentenze di condanna nei confronti della PA presente
in un processo dinanzi al giudice medesimo, purchè munito di giurisdizione ; il criterio per
individuarne la giurisdizione, infatti coincide con quello che esclude limitazioni ai suoi poteri. Non
è un caso che l’inesistenza dei limiti venga affermata contestualmente al riconoscimento della
giurisdizione del giudice ordinario.

Azioni annullabili nei confronti della PA


Il principio ex art. 4 co 2 che vieta al giudice ordinario di intervenire sull’atto non è stato
costituzionalizzato. Sono legittime le norme che vi deroghino
La l. 689/1981 in tema di sanzioni amministrative pecuniarie consente al giudice di parte ( e
relativamente ad alcune controversie, al tribunale) di annullare, in tutto o in parte, le ordinanze
amministrative con cui vengono irrogate le sanzioni, nonché di modificare l’entità della sanzione
stessa e di sospenderne l’esecuzione.
Il procedimento di applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie nelle sue linee essenziali
è disciplinato come segue : a seguito dell’accertamento della violazione essa viene contestata al
trasgressore e agli obbligati solidali immediatamente, ovvero, quando ciò non sia possibile, entro
90 gg; ove la parte non accetti di conciliare pagando volontariamente una somma ridotta, il
soggetto che ha accertato l’infrazione presenta rapporto all’autorità competente alla decisione, la
quale decide con ordinanza motivata dopo aver esaminato gli scritti difensivi e i documenti che
l’interessato può presentare. L’ordinanza costituisce titolo. Essa può essere impugnato
dall’interessato dinanzi al pretore (oggi al giudice di pace e al tribunale del luogo in cui è stata
commessa l’infrazione entro 30 gg dalla notificazione: il giudice che può sospendere per gravi
motivi l’ordinanza, decide con sentenza la quale ove sia di accoglimento, può annullare in tutto o
in parte l’ordinanza stessa e modificarla anche limitatamente all’entità della sanzione). La sentenza
è appellabile (art. 26 d.lgs. 40/2006)
L’art. 35 l. 833/1978 prevede il ricorso al Tribunale civile avverso il provvedimento del sindaco che
sia stato convalidato dal giudice tutelare con cui si disponga l’attuazione di trattamenti sanitari
coattivi in condizione di degenza di malati di mente. La legittimazione attiva spetta al destinatario
del provvedimento, al sindaco e a chiunque vi abbia interesse. Il giudizio verte anche sul
provvedimento del sindaco, può comportare secondo dottrina, l’annullamento del provvedimento
stesso.
Il d.lgs. 196/2003 prevede la giurisdizione del giudice ordinario in relazione all’opposizione ai
provvedimenti del garante per la riservatezza dei dati personali e specifica che il tribunale, dinanzi
a cui può essere proposta opposizione provvede in camera di consiglio “anche in deroga al divieto
ex art. 4 l. cont. Amm.”
L’art. 745 c.p.c. consente al giudice ordinario di provvedere con decreto sentito il pubblico
ufficiale, nel caso di rifiuto o ritardo da parte dei cancellieri o dei depositari di pubblici registri
tenuti per legge a “spedire le copie e gli estratti degli atti giudiziali da essi detenuti”. In pratica il
giudice può ordinare ai depositari il rilascio delle copie.
L’art. 354 c.p.c. dispone che il giudice tutelare può deferire ad una PA preposta alla pubblica
assistenza la tutela dei minori che sia impossibile affidare ai parenti conosciuti e capaci.
L’art. 454 cc prevede la rettificazione degli atti dello stato civile in forza di sentenza del tribunale
passata in giudicato con la quale “si ordina all’ufficiale di stato civile di rettificare un atto smarrito
o distrutto”.
Il riconoscimento della possibilità di pronunciare tutti i tipi di sentenza nei confronti dei soggetti
pubblici è stato poi operato dalla recedente legislazione in tema di rapporto di impiego presso le
PA. In questo ambito al cui interno la PA agisce in prevalenza con i poteri del privato datore di
lavoro, sicchè si tratta di una deroga solo parziale ai principi ex art. 4 l- cont. Amm. è attribuita al
giudice ordinario la giurisdizione in ordine a tutte le controversie “ancorchè concernenti in via
incidentale atti amministrativi presupposti ai fini della disapplicazione” (art. 11 lett. g l. 59/1997)
Sono peraltro escluse dalla devoluzione al giudice ordinario le controversie relative ai rapporti di
lavoro ex art. 3 d.lgs. 165/2001 (si tratta delle controversie relative ai rapporti di lavoro sottratti
alla cd privatizzazione) e di quelle in materia di procedure concorsuali per l’assunzione di
dipendenti (art. 63 co 4)

PA ed esecuzione forzata
Vediamo le limitazioni dei poteri del giudice civile rispetto al processo di esecuzione.
Nei casi in cui siano ammissibili sentenze di condanna si pone il problema della tutela che può
essere offerta al privato ove la PA si rifiuti di eseguirle spontaneamente.
Il c.p.c. prevede il rimedio della esecuzione in forma specifica e quello dell’espropriazione. In
particolare con quest’ultimo, previa vendita dei beni del debitore, si consente al creditore di
soddisfare le proprie pretese sulla somma da essa derivante.
Un primo limite all’esecuzione forzata deriva dal regime sostanziale dei beni che costituiscono il
patrimonio della PA debitrice. I beni indisponibili e quelli demaniali non possono essere sottratti
alla loro funzione pubblicistica e quindi sono inespropriabili.
Per le somme di denaro presenti nelle casse degli enti e i crediti monetari, si ricordi che nel
bilancio sono previsti capitoli destinati al pagamento di spese per liti giudiziarie. Il problema sorge
quando tali capitoli siano incapienti.
In seguito si è negato che le destinazioni attribuite al denaro in sede di bilancio potessero
trasformalo in beni indisponibili (corte cost. 138/1981) impedendo l’esecuzione forzata e la
soddisfazione dei diritti dei terzi. A fronte dell’obbligo di adempiere la PA non dispone di
discrezionalità, onde l’esecuzione forzata non ne implica l’incisione.
Ricordiamo che ex art. 514 c.p.c. sono impignorabili i beni mobili “che il debitore ha l’obbligo di
conservare per l’adempimento di un pubblico servizio”
Per i crediti della PA relativi al denaro depositato presso le tesorerie parte della giurisprudenza
ritiene ammissibile l’esecuzione forzata da parte del terzo anche se trattasi di crediti illiquidi e
inesigibili in quanto non vi sia stata l’approvazione del bilancio.
Se quella descritta è la regola generale la giurisprudenza continua a ritenere che denaro e crediti
siano impignorabili quando siano stati oggetto di una specifica destinazione univoca, precisa e
concreta da parte del soggetto pubblico, anche se riconosce l’insufficienza a tali fini, dell’iscrizione
della somma a bilancio richiedendo un provvedimento o una norma di legge che li vincoli alla
destinazione a pubblico servizio con effetto esterno.
Per altro verso pure i crediti per entrate tributarie o di natura pubblicistica sono ritenuti non
espropriabili dalla giurisprudenza
Per l’esecuzione delle sentenze di condanna si ammette dal Consiglio di Stato la via, alternativa
rispetto alla esecuzione del c.p.c., rappresentata dal giudizio di ottemperanza che consente al
giudice amministrativo di sostituirsi alla PA.
L’art. 112 d.lgs. 104/2010 (c.p.a.) prevede l’ammissibilità del giudizio di ottemperanza per
l’esecuzione delle sentenze del giudice ordinario passate in giudicato.
Va aggiunto che la legislazione speciale limita molto spesso l’espropriabilità delle somme delle PA
in vista dell’esigenza di garantire che le funzioni pubblicistiche siano esercitate.
L’art. 159 t.u. enti locali stabilisce che ”Non sono ammesse procedure di esecuzione e di
espropriazione forzata nei confronti degli enti locali presso soggetti diversi dai rispettivi tesorieri.
Gli atti esecutivi eventualmente intrapresi non determinano vincoli sui beni oggetto della
procedura espropriativa.
Non sono soggette ad esecuzione forzata, a pena di nullità rilevabile anche d'ufficio dal giudice, le
somme di competenza degli enti locali destinate a :
a) pagamento delle retribuzioni al personale dipendente e dei conseguenti oneri previdenziali per
i tre mesi successivi;
b) pagamento delle rate di mutui e di prestiti obbligazionari scadenti nel semestre in corso;
c) espletamento dei servizi locali indispensabili.
Per l'operatività dei limiti all'esecuzione forzata di cui al comma 2 occorre che l'organo esecutivo,
con deliberazione da adottarsi per ogni semestre e notificata al tesoriere, quantifichi
preventivamente gli importi delle somme destinate alle suddette finalità.
Le procedure esecutive eventualmente intraprese in violazione del comma 2 non determinano
vincoli sulle somme né limitazioni all'attività del tesoriere.”
Nei limiti sopra indicati è ammessa la pignorabilità delle somme degli enti depositate presso il
tesoriere- terzo : ulteriori e delicate questioni sorgono poi in conseguenza del fatto che il pubblico
denaro di molti enti resta in gran parte depositato presso la tesoreria unica (sistema in via di
superamento)
Ex art. 14 d.l. 669/1996 conv. In l. 30/1997 le PA dello stato e gli enti pubblici non economici
completano le procedure per l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali
aventi efficacia esecutiva e comportanti l’obbligo di pagamento di somme di denaro entro il
termine di 120 gg dalla notificazione del titolo esecutivo. Prima di tale termine dilatorio il
creditore non ha diritto a procedere ad esecuzione forzata nei confronti delle suddette
amministrazioni.
Deroghe al diritto processuale comune
La presenza in causa della PA comporta variazioni rispetto al generale regime processuale, la
difesa in giudizio della PA spetta all’avvocatura dello Stato avente sede presso ciascun distretto di
Corte d’Appello ad eccezione dei giudizi dinanzi al giudice di pace ove le PA possono avvalersi
anche di propri funzionari. Ex art. 417 bis c.p.c. nelle controversie relative ai rapporti di lavoro dei
dipendenti delle PA le PA stesse limitatamente al giudizio di 1° grado possono stare in giudizio
avvalendosi direttamente di propri dipendenti. Per le PA difese dall’avvocatura dello Stato si
applica tale regola salvo che l’avvocatura competente per territorio determini di assumere
direttamente la trattazione della causa. L’avvocatura è domiciliata per legge per tutte le PA per le
quali abbia patrocinio obbligatorio.
Risulta modificata la disciplina della competenza per territorio e delle modalità di proposizione
dell’azione.
Nel caso in cui parte del giudizio sia una PA statale, l’art. 25 c.p.c. e l’art. 6 t.u. avv. Stato
stabiliscono la regola del cd foro erariale la competenza spetta al giudice del luogo dove ha sede
l’avvocatura dello Stato nel cui distretto si trova il giudice che sarebbe competente secondo le
norme ordinarie. In pratica ove nella sede del giudice che sarebbe competente secondo le normali
regole non si trovi alcun ufficio dell’avvocatura, la competenza si radica a favore del tribunale del
luogo in cui ha sede l’avvocatura dello Stato nel cui distretto è ricompreso il primo giudice.
Quando la PA è convenuta il distretto si determina con riguardo al giudice del luogo in cui è sorta o
deve eseguirsi l’obbligazione o in cui si trova la cosa mobile o immobile oggetto della domanda.
La regola del foro erariale vale solo per le cause di competenza dei tribunali e delle corti d’appello
(art. 6 T.u. 1611/1933) e non si estende alle controversie di lavoro (art. 413 co 6 c.p.c.) alle cause
ereditarie ai provvedimenti esecutivi e fallimentari.
L’appello delle sentenze dei tribunali emesse in tali giudizi va proposto alla Corte d’appello
individuata con la regola del foro erariale. La competenza del foro erariale è inderogabile; il suo
difetto può essere rilevato anche d’ufficio in qualsiasi stato e grado del giudizio (art. 9 T.u. avv.
Stato)
La competenza rimane ferma anche nei casi in cui la PA chiamata in causa venga estromessa dal
giudizio.
Nelle cause proposte contro la PA statale la capacità di stare in giudizio (rappresentanza
processuale) spetta al Ministro in carica per materia, gli atti introduttivi sono notificati alla PA in
persona del Ministro competente presso l’ufficio dell’avvocatura di Stat nel cui distretto ha sede il
giudice adito. L’eventuale errore nella identificazione della PA deve essere stato eccepito
dall’avvocatura dello Stato non oltre la prima udienza. Così il giudice fissa (dopo l’indicazione del
Ministro competente) un termine per la rinnovazione dell’atto introduttivo del giudizio. La
rinnovazione preclude qualsiasi decadenza (art. 4 l. 260/1958), siffatta disciplina tiene in
considerazione la difficoltà che spesso incontra il privato nell’identificazione del ministero
competente.
Si è avvertito in precedenza che l’avvocatura dello Stato è domiciliataria ex lege per le PA per le
quali abbia il patrocinio legale: la notificazione delle citazioni e dei ricorsi è effettuata presso la
sede dell’avvocatura. In caso contrario sono nulle ma sanabili ove l’avvocatura si costituisca in
giudizio. Ai fini della cd notifica in proprio le avvocature si dotano di un registro cronologico
occorrendo “la previa numerazione vidimazione in ogni mezzo foglio da parte dell’avvocato
generale dello Stato e di un avvocato dello Stato allo scopo delegato, ovvero dell’avvocato
distrettuale dello Stato”.
Gli enti pubblici dallo Stato stanno in giudizio in persona del loro legale rappresentante.
Sono ammissibili confessione e giuramento che predispongono la piena disponibilità della
situazione dedotta in giudizio? Gli atti della PA vanno sempre considerati come corrispondenti al
vero fino a prova contraria.
Gli atti giudiziari nell’interesse della PA stabiliscono che l’azione giudiziaria debba essere
preceduta dalla proposizione di un ricorso o reclamo amministrativo (in tema di previdenza e
assistenza ex art. 443 c.p.c.)
Nel giudizio relativo ai rapporti di lavoro privatizzati dei dipendenti pubblici è previsto poi il
tentativo di conciliazione , e la mediazione finalizzata alla conciliazione.

Segue: il giudizio di ottemperanza


La PA ha l’obbligo di conformarsi al giudicato.
Non tutte le sentenze necessitano di attività esecutiva della PA

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