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LEZIONI DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA Travi

LEZIONI INTRODUTTIVE
2. Gli istituti della giustizia amministrativa
Con l’espressione “giustizia amministrativa” sono designati alcuni istituti, non tutti di carattere giurisdizionale, diretti specificamente
ad assicurare la tutela dei cittadini nei confronti dell’Amministrazione. Nel nostro ordinamento questi istituti sono stati elaborati
per la tutela del cittadino che abbia subito una lesione da un’attività amministrativa: ancora oggi sono in genere strumenti di
tutela “successiva”, perché disciplinano la reazione del cittadino nei confronti di un’azione già svolta dall’Amministrazione. Una
parte della dottrina, nel porre in evidenza gli elementi caratteristici della giustizia amministrativa, frequentemente ha preso in
esame il rapporto fra istituti di giustizia amministrativa e controlli sull’attività amministrativa. Anche i controlli sugli atti sono
previsti per assicurare la regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa e in genere riguardano un’attività amministrativa
già conclusa.
Fra gli istituti di giustizia amministrativa sono compresi anche i ricorsi amministrativi: con essi la contestazione del cittadino è
proposta a un organo amministrativo e la decisione è assunta con un atto amministrativo, senza alcun esercizio di funzione
giurisdizionale. La controversia, in questo caso, si svolge ed è risolta nell’ambito dell’attività amministrativa. Ma non si ha, neppure
per i ricorsi amministrativi, l’esercizio di un’attività assimilabile a quella di controllo: il potere di annullamento, nel caso dei ricorsi,
è esercitato in seguito all’iniziativa di un cittadino che fa valere un suo proprio interesse e questo interesse del cittadino rappresenta
la ragione e identifica il limite dei poteri conferiti all’autorità decidente.
3. Le ragioni di un sistema di giustizia amministrativa
Nel nostro ordinamento e, in generale, nei Paesi dell’Europa continentale gli istituti di giustizia amministrativa si caratterizzano
per la loro separatezza rispetto agli strumenti ordinari di tutela del cittadino. La giustizia amministrativa in questi Paesi si
contrappone così alla giustizia “comune”, ossia agli istituti per la tutela dei cittadini nei loro rapporti con soggetti equi ordinati.
Sulla giustizia comune campeggia l’autorità giurisdizionale ordinaria.
In estrema sintesi, due motivi diversi costituiscono i problemi nodali affrontati da ogni sistema di giustizia amministrativa, tanto
che la differente rilevanza riconosciuta a questi motivi identifica i caratteri di ciascun sistema: le ragioni di specificità
dell’Amministrazione nell’ordinamento giuridico e l’esigenza di una tutela effettiva del cittadino anche nei confronti
dell’Amministrazione-autorità. Il primo motivo indirizza particolarmente verso strumenti di tutela diversi da quelli ordinari o,
talvolta, addirittura verso forme di tutela diverse da quelle giurisdizionali. Invece il secondo motivo ha indotto frequentemente a
considerare come modello la giustizia “comune”, nella quale alla parità di posizioni delle parti corrisponde l’elaborazione delle
tecniche più raffinate per la tutela del singolo.
Il primo motivo ha influenzato in modo particolare l’assetto della giustizia amministrativa anche nel nostro Paese. L’individuazione
dei profili di specificità dell’Amministrazione e della sua attività, che giustifichino l’esclusione della giurisdizione ordinaria, non
segue per criteri costanti. In alcuni ordinamenti la specificità è identificata nell’assoggettamento dell’attività amministrativa a una
disciplina speciale. La specialità della disciplina è costituita talvolta dalla sua riconduzione al diritto pubblico, anziché al diritto
privato: questo criterio oggi appare prevalentemente nell’ordinamento tedesco. In altri Paesi, invece, è dato rilievo anche alla
presenza di norme che, con riferimento ad istituti del diritto privato (come i contratti, o la responsabilità civile), derogano alle
regole comuni, quando riguardino rapporti instaurati con una Pubblica amministrazione.
Si deve comunque riconoscere che, al di là della distinzione di competenza e di ordinamento fra giudice ordinario e giudice speciale,
per la tutela del cittadino nei confronti dell’Amministrazione sia realmente determinante il grado di indipendenza riconosciuto
all’autorità giurisdizionale: molte perplessità nei confronti del giudice speciale sono dipese dalla limitatezza della sua autonomia
rispetto all’Esecutivo.
4. Le origini della giustizia amministrativa: cenni al sistema francese
La concezione dell’Amministrazione come soggetto tipicamente diverso dagli altri si afferma nelle prime fasi dello Stato liberale,
nel contesto del principio della separazione dei poteri. Nella Francia degli ultimi decenni del XVIII secolo e degli anni della
Rivoluzione con questo principio si intendeva che il Potere esecutivo, nel quale si colloca l’Amministrazione, dovesse essere un
potere distinto dagli altri, anche se non superiore agli altri: l’Esecutivo non poteva arrogarsi poteri del giudice ordinario (per es.,
a proposito delle libertà personali), ma i suoi atti non dovevano essere soggetti al sindacato dei giudici. In Francia alle origini di
questa immunità degli atti dell’Amministrazione rispetto al sindacato del giudice ordinario vi erano non solo ragioni ideologiche,
ma anche considerazioni politiche contingenti. Esse riflettevano il contrasto secolare fra il Governo e i Parlamenti. I Parlamenti, in
origine assemblee rappresentative dei ceti più elevati, erano i giudici superiori d’appello e rivendicavano una competenza anche
nelle vertenze contro gli atti dell’Amministrazione, entrando spesso in conflitto con le autorità amministrative. La fine dell’Ancien
regime travolse anche i Parlamenti; e nel 1789-1790 prima l’Assemblea nazionale e poi l’Assemblea costituente sancirono in forma
solenne che gli organi giurisdizionali non avrebbero potuto intervenire sull’Amministrazione. Altrimenti il giudice, giudicando
l’Amministrazione, avrebbe finito con l’interferire sull’attività amministrativa.
Tutto ci non comportava, per, l’esclusione di ogni possibilità di tutela per il cittadino. Nella Rivoluzione francese si afferma il
principio della “responsabilità” dell’Amministrazione nei confronti dell’assemblea legislativa. E a favore del cittadino era conservato
un rimedio specifico, costituito dal c.d. ricorso gerarchico. Questo ricorso era diretto all’organo gerarchicamente sovraordinato a
quello che aveva emanato l’atto lesivo e comportava, da parte di tale organo, la verifica della legalità dell’atto impugnato. Per
rendere più attento e serio l’esame del ricorso gerarchico, l’ordinamento francese prevedeva frequentemente che i ricorsi venissero
decisi dalle autorità competenti dopo aver acquisito il parere di alcuni organi consultivi. Fra questi il più importante fu senz’altro
il Consiglio di Stato.
Il Consiglio di Stato, istituito nel 1799, operava come organo consultivo del Governo e, nell’epoca napoleonica, anche come organo
preposto all’intero apparato amministrativo e dotato di competenze proprie. Riguardo ai ricorsi, il Consiglio di Stato formalmente
esprimeva un parere al Capo dello Stato, al quale solo, come rappresentante supremo del Potere esecutivo, spettava emanare la
decisione. Il Consiglio di Stato fu mantenuto, con le sue competenze sui ricorsi, anche con la Restaurazione (1814-1815); nel
frattempo si accentua, nell’opinione comune, il rilievo del suo parere sui ricorsi, tanto che l’intervento del Capo dello Stato fu
percepito, più che come decisione del ricorso, come sanzione che rendeva esecutiva la pronuncia del Consiglio di Stato stesso.
Nel 1872, al Consiglio di Stato fu riconosciuta formalmente la competenza a decidere il ricorso senza più la necessità di una
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sanzione da parte del Capo dello Stato. A conclusione di questa evoluzione risultava istituito un giudice capace di sindacare la
legittimità degli atti dell’Amministrazione. La separazione dei poteri era mantenuta perché competente a sindacare gli atti
dell’Amministrazione era il Consiglio di Stato, autorità ben distinta dai giudici ordinari e, soprattutto, non inserita nell’ordine
giudiziario. Inoltre, anche dopo il 1872, il Consiglio di Stato francese continua ad esercitare funzioni consultive, accanto a quelle
giurisdizionali.
5. La giustizia amministrativa in Italia: caratteri generali
Il modello francese del contenzioso amministrativo non comporta l’esclusione di ogni competenza del giudice ordinario per
controversie fra il cittadino e l’Amministrazione: anche in Francia determinate controversie con l’Amministrazione sono demandate
al giudice ordinario, o perché sono relative a rapporti in cui l’Amministrazione compare come soggetto di diritto comune, o perché
riguardano posizioni di libertà o particolari diritti del cittadino. In Francia questa previsione di competenze del giudice ordinario
ha comportato la necessità di istituire, nel 1848, un organo che potesse decidere, nei casi controversi, se la vertenza spettasse al
giudice ordinario o al giudice speciale, il Tribunale dei conflitti.
L’assetto della giustizia amministrativa in Italia è stato notevolmente influenzato, alle origini, dal modello francese. Nella seconda
metà dell’Ottocento, per, si sono affermate tendenze diverse e in ampia misura originali, che hanno orientato il rapporto fra il
giudice ordinario e il giudice amministrativo secondo la distinzione fra le posizioni qualificate del cittadino nei confronti
dell’Amministrazione. A fondamento del riparto fra le due giurisdizioni vi è, infatti, la distinzione fra diritti soggettivi e interessi
legittimi (art. 103 Cost.): la giurisdizione amministrativa giudica degli interessi legittimi, la giurisdizione ordinaria giudica dei diritti
soggettivi (anche se intercorrano con un’Amministrazione). Per, neppure il modello italiano segue in modo indiscriminato questa
classificazione, perché in alcuni ambiti la competenza del giudice amministrativo non dipende dalla configurabilità di una posizione
soggettiva come interesse legittimo, ma dipende dalla inerenza della controversia a una certa materia (c.d. giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo). Per questi ambiti sembra prevalere piuttosto la logica del modello francese del contenzioso
amministrativo. Inoltre, nei casi in cui si controverta se la giurisdizione sulla controversia spetti al giudice ordinario o al giu dice
speciale, dal 1877 è demandato alla Cassazione decidere il conflitto o la questione di giurisdizione. Pertanto, nel nostro
ordinamento, spetta a un giudice ordinario interpretare e definire i limiti della giurisdizione del giudice speciale.

LE ORIGINI DEL NOSTRO SISTEMA DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA


1. La giustizia amministrativa nel Regno di Sardegna
L’ordinamento unitario seguì svolgimenti determinati dai caratteri e dai problemi propri dell’ordinamento del Regno di Sardegna.
Il modello del contenzioso amministrativo francese fu accolto anche in Italia nell’epoca napoleonica; e fu soppresso quasi ovunque
con la Restaurazione, ma non cessa per questo di rappresentare un modello significativo.
Nel Regno di Sardegna Carlo Alberto, con editto del 1831, costituì un Consiglio di Stato, con funzioni consultive, articolato in tre
sezioni. Lo stesso editto stabiliva che il parere del Consiglio dovesse essere acquisito obbligatoriamente prima dell’adozione di
certi atti; assegnava, infine, al Consiglio alcune particolari competenze contenziose. Nel 1847 fu istituito un vero e proprio sistema
di contenzioso amministrativo. Il sistema si fondava sulla distinzione fra controversie riservate all’Amministrazione (per le quali
era ammesso un ricorso a un’autorità amministrativa, l’Intendente) e controversie di “amministrazione contenziosa” (per le quali
era previsto un ricorso in primo grado a un Consiglio di intendenza, in secondo grado alla Camera dei conti). A questi due organi
la giurisprudenza civile riconobbe carattere di organi giurisdizionali. Il ruolo di questi giudici speciali fu per oggetto di vivaci
polemiche, soprattutto dopo che lo Statuto albertino enunci come regola la riserva della funzione giurisdizionale al giudice
ordinario. Ci nonostante, una serie di decreti del 1859 accolsero e confermarono il sistema del contenzioso amministrativo,
articolato ora in Consigli di governo, organi di primo grado, designati anche come “giudici ordinari del contenzioso amministrativo”,
e Consiglio di Stato, organo principalmente di secondo grado.
Riguardo ai conflitti fra amministrazione e giudici, e fra giudici del contenzioso amministrativo e giudici ordinari: la disciplina per
la loro risoluzione fu introdotta con legge nel 1859. La decisione dei conflitti era assunta con decreto reale, previo parere del
Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell’interno, sentito il Consiglio dei ministri. La necessità del decreto reale trovava
ragione nello Statuto che riconduceva al Re entrambe le funzioni, quella giudiziaria e quella amministrativa; era per evidente che
la decisione effettiva spettava al Ministro dell’interno, cui spettava formulare la proposta del decreto. Il sistema sanciva pertanto
una prevalenza dell’autorità amministrativa su quella giurisdizionale.
2. Il declino dei tribunali del contenzioso amministrativo
Le discussioni sul sistema in atto, caratterizzato dalla presenza di giurisdizioni speciali (ricondotte, nel linguaggio comune, al
termine “contenzioso amministrativo”), non furono superate dalla riforma del 1859. A sostegno del sistema del contenzioso
amministrativo risultavano invocati particolarmente tre ordini di considerazioni: a) la tutela dell’interesso pubblico. Era considerato
essenziale che l’attuazione dell’interesse pubblico non fosse ostacolata da un intervento del giudice; b) l’esclusione delle garanzie
di inamovibilità ed imparzialità previste per i giudici ordinari. La mancanza di queste garanzie era ritenuta da alcuni un fattore
positivo, perché avrebbe consentito di far valere in modo più efficace la responsabilità dei giudici del contenzioso amministrativo;
c) la specialità del diritto dell’Amministrazione. Le controversie demandate ai giudici del contenzioso amministrativo riguardavano
istituti diversi da quelli del diritto comune.
Questi argomenti erano vivacemente criticati dagli oppositori dei modelli di contenzioso amministrativo. Essi sostenevano che
anche le controversie fra l’Amministrazione e il cittadino fossero assegnate al giudice ordinario. Solo un giudice estraneo
all’Amministrazione e dotato di tutte le garanzie previste per i giudici ordinari avrebbe potuto assicurare l’imparzialità necessaria
per una decisione. L’imparzialità appariva ancora più necessaria proprio perché una parte in causa era l’Amministrazione. Il giudice
ordinario era il giudice della libertà dei cittadini; in ogni giurisdizione speciale sembrava annidarsi invece il privilegio per
l’Amministrazione.
3. La legge 20 marzo 1865, n. 2248
Da un lato si afferma l’esigenza di un giudice speciale, che abbia un’esperienza specifica in un settore del diritto diverso da quello
comune; dall’altro si teme che l’introduzione di un giudice speciale si risolva in un regime processuale privilegiato per
l’Amministrazione, incompatibile con l’ideologia dello Stato liberale. Nel caso dei tribunali del contenzioso amministrativo in Italia,
la critica trovava facile esca nella mancanza di garanzie adeguate all’esercizio della funzione giurisdizionale, nella provenienza dei
giudici dai ranghi dell’Amministrazione, in una sfiducia sostanziale nell’imparzialità di questi giudici. Il dibattito raggiunse il suo
culmine subito dopo l’Unità; le discussioni condussero all’approvazione di una legge che aboliva i giudici ordinari del contenzioso

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amministrativo: la legge 2248/1865, allegato E (c.d. legge di abolizione del contenzioso amministrativo ). La legge attua, in alcuni
settori nodali, l’unificazione dell’ordinamento amministrativo italiano, abrogando le discipline degli Stati preunitari che erano
rimaste ancora in vigore.
I) L’allegato D disciplinava l’assetto del Consiglio di Stato. Non erano previste particolari garanzie di indipendenza né per
quanto riguarda la nomina dei suoi componenti, né per quanto riguardava la loro inamovibilità. Fu confermata l’articolazione nelle
tre sezioni precedenti (interno, grazia – giustizia – culti, finanze), che in taluni casi operavano collegialmente in adunanza generale.
Al Consiglio di Stato erano assegnate tipicamente competenze consultive: in alcuni casi il parere del Consiglio di Stato era
obbligatorio. Era precisato che “quando il provvedimento [la decisione del ricorso] sia contrario al parere del Consiglio di Stato, si
farà constare dal decreto reale essersi pure udito il Consiglio dei ministri”. Il ricorso straordinario al Re poteva essere proposto
solo dopo l’esaurimento dei rimedi ordinari, ossia dei ricorsi gerarchici. Il ricorso al Re, anche se in realtà costituiva un residuo
dell’esercizio da parte del Sovrano di poteri di giustizia ritenuti tipici dello Stato assoluto, formalmente era coerente con il dettato
dello Statuto albertino, che riferiva all’autorità del Re il complesso dell’Amministrazione.
In alcune ipotesi tassative il Consiglio di Stato esercitava, inoltre, funzioni giurisdizionali, come giudice speciale. Dall’allegato D
furono assegnate al Consiglio di Stato come giudice speciale competenze minori, per controversie in materia di debito pubblico e
di sequestri di beni ecclesiastici. Oltre a tali competenze minori, al Consiglio come giudice speciale fu conferita una competenza
di particolare rilevanza istituzionale: la risoluzione dei conflitti fra Amministrazione e autorità giurisdizionale. In questo modo
sembrava realizzato un certo equilibrio, fra l’esigenza di evitare una prevalenza dell’ordine giudiziario rispetto all’Amministrazione
(come sembrava che si sarebbe verificato se la competenza fosse stata attribuita a un giudice ordinario) e l’esigenza di assicurare
una decisione “giurisdizionale” e non “politica” del conflitto.
II) L’allegato E viene designato come “legge di abolizione del contenzioso amministrativo”, invece nessuna innovazione era
apportata alla giurisdizione dei c.d. giudici speciali del contenzioso amministrativo. Nell’allegato E fu delineato, in estrema sintesi,
il seguente assetto della giustizia amministrativa:
a) “Tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile e politico” furono
assegnate al giudice ordinario (art. 2). Rispetto a queste cause era assegnata al giudice ordinario una giurisdizione che non subiva
deroghe per il fatto che la vertenza riguardasse una Pubblica amministrazione: a un sistema nel quale la tutela giurisdizionale
contro l’Amministrazione era demandata principalmente a giudici speciali si sostituiva così un sistema imperniato sul giudice
ordinario. Nel disegno del legislatore alla soppressione dei Tribunali del contenzioso amministrativo doveva perciò corrispondere
un’estensione nell’ambito della giurisdizione ordinaria;
b) “Gli affari non compresi” nell’ipotesi precedente furono riservati alle autorità amministrative (art. 3). Si poteva trattare,
pertanto, solo di vertenze che non avessero natura penale e che non avessero come oggetto un “diritto civile e politico”. In questo
ambito riservato all’Amministrazione erano introdotte, per, alcune garanzie per i cittadini, segno che il legislatore aveva percepito
la delicatezza della loro posizione in un ambito escluso dalla tutela giurisdizionale. In primo luogo, infatti, era previsto che le
autorità amministrative avrebbero provveduto con “decreti motivati”, con l’osservanza del contraddittorio con “le parti interessate”
e previa acquisizione del parere di organi consultivi. La norma rimase, comunque, senza attuazione pratica. In secondo luogo nei
confronti dei “decreti” assunti dall’Amministrazione, fu consentito il ricorso in via gerarchica. La tutela del cittadino nei confronti
dell’Amministrazione pertanto risultava così articolata: nelle “materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico”
era ammessa la tutela giurisdizionale, davanti al giudice ordinario; nelle altre materie, la tutela del cittadino si risolveva nell’ambito
dell’Amministrazione stessa ed era ammesso perciò solo il ricorso gerarchico. In ogni caso, in base all’allegato D, la “legittimità di
provvedimenti amministrativi” poteva essere contestata dai cittadini con il ricorso al Re, (ricorso straordinario);
c) Nelle controversie di competenza del giudice ordinario le ragioni della specialità dell’amministrazione non scomparivano
del tutto, ma trovavano un riscontro nei “limiti interni” della giurisdizione civile (art. 4). L’equilibrio tra garanzia della tutela
giurisdizionale e separazione dei poteri era ricercato in primo luogo ammettendo un sindacato del giudice ordinario solo sulla
legittimità dell’atto amministrativo, e non sulla sua opportunità o convenienza. Inoltre era riconosciuta al giudice ordinario la
competenza a sindacare la legittimità dell’atto amministrativo, ma non ad annullarlo, revocarlo o modificarlo. Sempre con
riferimento ai limiti interni della giurisdizione ordinaria, l’art. 5 della legge introduceva il controverso istituto della “ disapplicazione
dell’atto amministrativo” da parte del giudice ordinario: quando la controversia investiva un atto amministrativo, il giudice ordinario
doveva prescindere, per la sua decisione, da quanto disposto nell’atto stesso, qualora tale atto fosse risultato illegittimo. L’atto
illegittimo non poteva essere annullato dal giudice, proprio perché valeva sempre la concezione secondo cui l’annullamento di atti
amministrativi sarebbe spettato istituzionalmente all’Amministrazione;
d) Si tenga presente, infine, che l’Amministrazione non era sottratta agli effetti della sentenza: essa era tenuta a
“conformarsi” al provvedimento del giudice (“giudicato”), ovviamente nei limiti del caso deciso. Questa prescrizione fondamentale
di ottemperanza al giudicato individuava un criterio del rapporto istituzionale fra potere amministrativo e potere giurisdizionale,
sancendo, sostanzialmente, la prevalenza del secondo rispetto al primo. Si trattava, per, non di una prevalenza fra organi, ma
solo di una prevalenza fra atti. Il legislatore, tuttavia, non introdusse nessuno strumento per rendere effettivo e coercibile l’obbligo
dell’Amministrazione di conformarsi al giudicato.
4. Il bilancio dell’allegato E nei primi anni successivi al 1865
Dopo l’entrata in vigore della legge del 1865, l’autorità governativa sollevò con grande frequenza dei conflitti. Il Consiglio di Stato,
nelle sue decisioni sui conflitti, propose una lettura restrittiva dei limiti esterni della giurisdizione del giudice ordinario. La situazione
fu percepita con chiarezza in alcuni scritti dell’epoca, fra i quali ebbero particolare rilievo quelli di Mantellini sui conflitti di
attribuzione. Mantellini identificò nella giurisprudenza del Consiglio di Stato sui conflitti la causa del fallimento della riforma del
1865. Il Consiglio di Stato escludeva la competenza del giudice ordinario, quando in questione fosse un provvedimento emesso a
tutela di un interesse pubblico generale, perché all’Amministrazione doveva ritenersi riservata ogni valutazione in merito; oppure,
in presenza di un’azione civile per il risarcimento dei danni, quando il pregiudizio fosse stato provocato da un atto amministrativo
discrezionale, perché sulle valutazioni discrezionali dell’Amministrazione non si doveva ammettere un’interferenza da parte del
giudice civile. In alcune decisioni il Consiglio di Stato giungeva a prospettare che la valutazione della legittimità del provvedimento
non dovesse essere affrontata una volta risolta la questione della giurisdizione, ma dovesse considerarsi in via preliminare: se
l’autorità amministrativa aveva agito correttamente, non vi sarebbe stato spazio per un’azione civile. Stabilire, per, se l’autorità
amministrativa avesse agito correttamente, spesso poteva essere valutato solo dall’Amministrazione stessa, in particolare in
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seguito a ricorso gerarchico. In conclusione, si notava nelle decisioni del Consiglio la tendenza ad escludere la competenza del
giudice civile quando la vertenza riguardasse provvedimenti dell’autorità amministrativa, e ci anche quando questi provvedimenti
non fossero fondati su valutazioni discrezionali. La competenza del giudice civile veniva ammessa esclusivamente in presenza di
atti dell’Amministrazione emanati non a tutela di un interesse pubblico generale, ma a tutela di un interesse “personale” o
patrimoniale dell’Amministrazione stessa. Appariva evidente che la soppressione dei tribunali del contenzioso amministrativo aveva
ridotto lo spazio di tutela giurisdizionale per il cittadino e non aveva per nulla comportato l’estensione della giurisdizione civile a
tutti gli ambiti precedentemente occupati dai giudici soppressi.
L’indirizzo accolto dal Consiglio di Stato appariva ad alcuni autori in evidente contrasto con gli artt. 2 e 4 della legge de l 1865,
secondo cui invece la competenza del giudice ordinario non doveva essere limitata né per il fatto che una parte in causa fosse
l’Amministrazione, né tanto meno per il fatto che si discutesse di un atto amministrativo. L’insuccesso della riforma era perciò
addebitato principalmente al Consiglio di Stato che, quale giudice dei conflitti, conosceva delle controversie insorte fra il cittadino
e l’Amministrazione e decideva se vi era, o meno, lo spazio per una tutela giurisdizionale. La scelta di assegnare questa competenza
al Consiglio era criticata, data la stretta relazione istituzionale fra questo organo e il Governo. Sembrava perciò necessario che
anche i conflitti venissero decisi da un organo indipendente e “super partes”: solo il giudice ordinario, per, dava queste garanzie.
5. La legge sui conflitti del 1877
Queste considerazioni furono all’origine di un nuovo intervento legislativo sulla materia dei conflitti, con la legge 3761/1877. La
legge attribuì alla Corte di cassazione di Roma la decisione sui conflitti insorti fra Amministrazione e autorità giudiziaria (c.d.
conflitti di attribuzione), ovvero fra giudici ordinari e giudici speciali (c.d. conflitti di giurisdizione). Alla Cassazione fu attribuito,
inoltre, il potere di decidere i ricorsi proposti contro le sentenze dei giudici speciali, impugnate per “incompetenza ed eccesso di
potere”. Nella stessa legge fu disciplinato anche il ricorso dell’Amministrazione alla Cassazione, per denunciare il difetto di
attribuzione del giudice ordinario in vertenze riservate all’autorità amministrativa.
La legge del 1877 (il cui contenuto fu poi trasfuso nel C.P.C. del 1942) comportava un nuovo assestamento dei rapporti fra
Amministrazione e potere giurisdizionale a favore di quest’ultimo. Non produsse, per, l’effetto auspicato da una parte della dottrina.
La Cassazione ne proseguì nell’indirizzo già prospettato dal Consiglio di Stato, confermandone l’interpretazione sui limiti esterni
della giurisdizione ordinaria, segno che evidentemente tale indirizzo rifletteva un’ideologia ben radicata e non una posizione
particolare del Consiglio.

L’AFFERMAZIONE DI UNA GIURISDIZIONE AMMINISTRATIVA


1. L’istituzione della Quarta sezione
I risultati della riforma del 1865 apparvero ben presto insoddisfacenti: la tutela del cittadino nei confronti dell’Amministrazione era
tutt’altro che assicurata e l’abolizione del sistema del contenzioso amministrativo aveva comportato non un perfezionamento, ma
un indebolimento delle garanzie offerte al cittadino. Esigenza di una revisione; l’argomento presentava due profili fondamentali,
fra loro connessi: a) l’attuazione di una tutela più ampia ed incisiva del cittadino nei confronti dell’Amministrazione, b)
l’individuazione dell’organo cui affidare tale tutela.
La giurisprudenza affermava una tendenziale incompatibilità fra il diritto soggettivo (situazione soggettiva la cui tutela era
demandata al giudice ordinario) e il provvedimento amministrativo: il diritto soggettivo del cittadino era riconosciuto e garantito
nei confronti dell’Amministrazione solo quando essa agiva “iure privatorum” e in poche altre ipotesi; là invece dove interveniva un
provvedimento amministrativo di regola vi erano solo interessi. Di conseguenza di delineava una contrapposizione fra i diritti, che
in quanto tali erano passibili di una tutela giurisdizionale in forza dell’art. 2, e gli interessi diversi dai diritti soggettivi, che erano
privi di una tutela giurisdizionale anche quando risultavano di grande importanza per il cittadino e concernevano profili dell’attività
amministrativa disciplinati dalla legge. Sorgeva l’esigenza di introdurre uno strumento di tutela per questi interessi.
A tale esigenza diede riscontro la legge 5992/1889. Gli “interessi” dei cittadini lesi da atti della P.A. dovevano essere tutelati con
strumenti più efficaci dei ricorsi gerarchici: la garanzia di tali interessi era perciò demandata a una autorità specifica, con un
prestigio paragonabile a quello del giudice civile, ma dotata di un potere di annullamento e perciò non inquadrata nell’ordine
giurisdizionale. In base alla legge del 1889 la tutela degli “interessi” fu demandata al Consiglio di Stato, con la precisazione, però,
che questa funzione contenziosa era assegnata non alle tre sezioni già esistenti che svolgevano una funzione consultiva per il
Governo (e che quindi avrebbero offerto minori garanzie di obiettività nel giudizio), ma a una nuova sezione, la Quarta sezione
del Consiglio di Stato. Ad essa dovevano presentare i loro ricorsi i cittadini che ritenevano di essere stati lesi nei loro “ interessi”
da atti dell’Amministrazione.
“Spetta alla sezione quarta del Consiglio di Stato di decidere i ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione
della legge contro atti e provvedimenti di un’Autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, quando i ricorsi
medesimi non siano di competenza dell’Autorità giudiziaria, né si tratti di materia spettante alla giurisdizione od alle attribuzioni
contenziose di corpi o collegi speciali”. Alla Quarta sezione era demandata la tutela di interessi, designati genericamente come
“interessi d’individui o di enti morali giuridici”. La loro distinzione rispetto ai diritti, la cui tutela disciplinata dalla legge del 1865,
si desumeva dal fatto che la competenza della Quarta sezione non poteva interferire con quella del giudice ordinario (Autorit à
giudiziaria). Al centro del contenzioso tra cittadino e amministrazione si collocava il provvedimento amministrativo. La tutela del
cittadino si configurava, nella legge del 1889, come tutela contro il provvedimento amministrativo.
I ricorsi alla Quarta sezione erano mezzi di impugnazione del provvedimento e producevano, come utilità, per il ricorrente,
l’annullamento del provvedimento impugnato. La tutela era ammessa solo nei confronti di un atto che fosse già produttivo dei
suoi effetti; era perciò una tutela successiva e non preventiva. Il ricorso poteva essere proposto dal cittadino per impugnare un
provvedimento affetto da vizi tassativamente indicati dalla legge: “ incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge ”. Per
“eccesso di potere” la Quarta sezione non intese lo “straripamento di potere”, come era invece nella legge sui conflitti del 1877,
ma intese un uso gravemente scorretto del potere discrezionale da parte della Amministrazione.
La tutela del cittadino nei confronti della P.A., nel quadro della riforma del 1889, fu ricondotta a uno schema imperniato su una
distinzione fra figure soggettive. La tutela nell’ambito dei diritti soggettivi era demandata al giudice ordinario e rispetto ad essa
non si riscontravano modificazioni di rilievo nella legge istitutiva della Quarta sezione; ai diritti soggettivi si contrapponevano per
gli “interessi” propri dei cittadini (poi designati come “interessi legittimi”), la cui tutela sarebbe stata demandata alla Quarta
sezione; infine permaneva un ambito dell’attività amministrativa riservata all’Amministrazione.

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La legge del 1889 introduceva un rapporto preciso fra il ricorso alla Quarta sezione e il ricorso gerarchico, perché il ricorso alla
Quarta sezione era ammesso solo contro un provvedimento “definitivo”, ossia contro un provvedimento per il quale fossero stati
esperiti tutti i gradi della tutela gerarchica. Per quanto riguardava invece il ricorso straordinario al Re, la legge del 1889 introduceva
la regola della sua alternatività con il ricorso alla Quarta sezione.
La competenza della Quarta sezione si incentrava nel sindacato di legittimità sull’atto amministrativo. In taluni casi particolari, per,
la legge del 1889 attribuiva alla Quarta sezione un sindacato “anche in merito”, con caratteristiche non ben definite. Fra le ipotesi
di sindacato “anche in merito” la legge prevedeva quello dei “ricorsi diretti ad ottenere l’adempimento dell’obbligo dell’autorità
amministrativa di conformarsi, in quanto riguarda il caso deciso, al giudicato dei tribunali che abbia riconosciuto la lesione di un
diritto civile o politico” (c.d. giudizio di ottemperanza).
2. La riforma del 1907
La legge 62/1907 riconobbe formalmente il carattere giurisdizionale della Quarta sezione, introducendo la distinzione fra sez ioni
“consultive” del Consiglio di Stato (le prime tre) e sezioni “giurisdizionali”, e conseguentemente contemplò espressamente la
possibilità del ricorso alla Corte di cassazione contro le decisioni delle sezioni giurisdizionali. Inoltre istituì la Quinta sezione del
Consiglio di Stato, con funzioni giurisdizionali, alla quale erano demandati i ricorsi con sindacato esteso al merito, mentre alla
Quarta erano riservati i ricorsi nei casi generali in cui il sindacato era limitato alla legittimità. Il coordinamento fra le due sezioni
era affidato alle Sezioni riunite (oggi, Adunanza plenaria). 3. La riforma del 1923 e l’istituzione della giurisdizione
esclusiva
La legge del 1907 ha segnato in modo rilevante il nostro sistema di giustizia amministrativa. Infatti ha orientato decisamente la
distinzione fra la giurisdizione amministrativa e quella ordinaria nei termini di una distinzione fra posizioni soggettive. Un sistema
imperniato sulla distinzione fra diritti soggettivi e interessi legittimi comportava, ovviamente, la necessità di identificare
puntualmente i caratteri e i contenuti delle diverse posizioni soggettive, operazione che, per, non sempre risultava agevole. Inoltre
un sistema del genere comportava l’inconveniente che, se le due posizioni soggettive erano fra loro correlate, diventava necessario
esperire due distinti giudizi.
La legge 2840/1923, cui fece seguito il t.u. delle leggi sul Consiglio di Stato (1924), cercò di porre rimedio a questi inconvenienti
attraverso due importanti ordini di innovazioni:
a) Al giudice amministrativo, nei giudizi di sua competenza, fu riconosciuta espressamente la capacità di conoscere “in via
incidentale” le posizioni di diritto soggettivo, fatta eccezione per le questioni riguardanti lo stato e la capacità delle persone e la
querela di falso, che furono riservate sempre al giudice ordinario. La possibilità di una cognizione incidentale dei diritti consentiva
di evitare che, in un giudizio amministrativo, la necessità di esaminare una questione inerente a diritti soggettivi comportasse
sempre la sospensione del giudizio e la rimessione delle parti avanti al giudice civile;
b) In alcune materie particolari elencate dalla legge, fra le quali il pubblico impiego, al giudice amministrativo fu attribuita
la possibilità di conoscere e di giudicare “in via principale” anche in tema di diritti soggettivi ( giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo).
Dalla riforma del 1923 emergeva in modo chiaro che: 1) nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, il riparto fra giurisdizione
amministrativa e giurisdizione ordinaria seguiva il criterio della distinzione per materie. 2) nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva,
la tutela dei diritti era “aggiuntiva” rispetto a quella degli interessi. Di conseguenza, si potevano avere casi di giurisdizione esclusiva
nei quali il giudice amministrativo esercitava solo una giurisdizione di legittimità (ipotesi normale), ma anche casi di giurisdizione
esclusiva nei quali il giudice amministrativo esercitava una giurisdizione “anche in merito” (ipotesi eccezionali). 3) anche nelle
ipotesi di giurisdizione esclusiva il giudice amministrativo poteva conoscere in via incidentale delle situazioni di diritto soggettivo,
non inerenti alla materia devoluta alla giurisdizione esclusiva, che fossero per rilevanti per la decisione. Al giudice amministrativo,
invece, era preclusa la cognizione, sia in via principale, sia in via incidentale, di questioni inerenti allo stato e alla capacità delle
persone, o di questioni di falso, che erano riservate pertanto al giudice ordinario. 4) al giudice ordinario, inoltre, anche nelle
materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo erano riservate “le questioni attinenti a diritti patrimoniali
conseguenziali alla pronuncia di legittimità dell’atto o provvedimento contro cui si ricorre”. I “ diritti patrimoniali conseguenziali”
furono identificati, dalla dottrina e dalla giurisprudenza con il diritto al risarcimento del danno che assumeva rilevanza in seguito
all’annullamento di un provvedimento amministrativo che avesse inciso su un diritto soggettivo.
La riforma del 1923-24 introdusse alcune modifiche anche all’ordinamento del Consiglio di Stato. Superamento della distinzione
di competenze fra Quarta e Quinta sezione: la distinzione fra le due sezioni da allora fu di ordine meramente interno. Ci consentì
di superare le previsioni (contenute nella legge del 1907) sui conflitti di competenza fra le due sezioni ed evita alle parti l’onere di
individuare quale sezione del Consiglio fosse competente per il giudizio.
4. L’entrata in vigore della Costituzione e l’istituzione dei Tar
Dopo il t.u. del 1924 la disciplina della giurisdizione amministrativa e del processo amministrativo rimase sostanzialmente immutata
per oltre 70 anni. In questo periodo si consolidò il modello di una giurisdizione amministrativa indirizzata alla tutela degli interessi
legittimi (e solo in ipotesi speciali estesa anche alla tutela dei diritti) e incentrata principalmente nell’impugnazione di atti. Anche
l’entrata in vigore della Costituzione comportò, in un primo tempo, mutamenti limitati. Nei primi anni dell’ordinamento repubblicano
le innovazioni più evidenti riguardarono l’assetto organizzativo della giurisdizione amministrativa, ma non furono condizionate
dalla Costituzione. Nel 1948 era stata istituita una Sesta sezione del Consiglio in sede giurisdizionale, omologa alla Quarta e alla
Quinta. Subito dopo, in attuazione di un art. dello Statuto speciale per la Sicilia, venne istituito il Consiglio di giustizia
amministrativa per la Regione siciliana, organo equi ordinato al Consiglio di Stato, con funzioni consultive e giurisdizionali: in
questo modo, per, divenne problematica la stessa unitarietà della giurisdizione amministrativa.
Solo nella seconda metà degli anni ’60 l’incidenza dei principi costituzionali fu più evidente, con riferimento alle norme
sull’indipendenza del giudice. La Corte costituzionale dovette dichiarare l’illegittimità di alcune giurisdizioni speciali la cui disciplina
non garantiva adeguatamente l’indipendenza dei giudici.
Gli interventi della Corte costituzionale e l’avvio delle Regioni a statuto ordinario resero più urgente l’attuazione dell’art. 125 Cost.
Sulla istituzione, in ogni Regione, di un giudice amministrativo di primo grado. Con la legge 1034/1971 (legge Tar), furono istituiti,
nei capoluoghi di ciascuna Regione, i Tribunali amministrativi regionali (Tar); successivamente, in otto Regioni furono istituite
anche sezioni staccate presso altrettanti capoluoghi di provincia.

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I Tar sono giudici amministrativi di primo grado, dotati di competenza generale per le controversie per gli interessi legittimi e per
quelle su diritti soggettivi devolute alla giurisdizione esclusiva. Inoltre ad essi sono state assegnate le controversie sulle operazioni
elettorali per le elezioni amministrative. L’appello contro le sentenze del Tar va proposto al Consiglio di Stato, organo che pertanto,
dopo la riforma del 1971, si configura come giudice amministrativo di secondo grado. La legge del 1971 estese la giurisdizione
esclusiva alle vertenze in materia di “concessioni di beni o di servizi pubblici”.
L’assetto generale della giustizia amministrativa sembrava completato, quasi contemporaneamente, dal d.p.r. 1199/1971, che fu
emanato nell’esercizio della delega legislativa attribuita al Governo, per la riforma del procedimento amministrativo. Il d.lgs.
1199/1971 dettò per la prima volta una disciplina organica dei ricorsi amministrativi: ricorso gerarchico e altri ricorsi ad esso
assimilati, e ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
5. Le innovazioni recenti e il “codice del processo amministrativo”
Le innovazioni successive all’istituzione dei Tar, per quasi un ventennio, furono piuttosto limitate, segno che sembrava raggiunto
un equilibrio di fondo. Tra gli interventi più significativi vi fu l’estensione della giurisdizione esclusiva alle controversie sulle
concessioni edilizie e sulle sanzioni amministrative per abusi edilizi. In queste controversie frequentemente si presentavano
insieme interessi legittimi e diritti soggettivi: l’introduzione della giurisdizione esclusiva rispecchiava pertanto logiche già note.
Elementi sostanziali di novità, sull’assetto della giurisdizione amministrativa del processo amministrativo, emersero invece sempre
più spesso a partire dai primi anni ’90. Gli interventi legislativi si fecero frequenti. In particolare erano riconducibili a due indirizzi:
erano introdotte discipline speciali, soprattutto per assicurare uno svolgimento più veloce del processo amministrativo per talune
vertenze, ed erano previsti nuovi casi di giurisdizione esclusiva. Così furono assegnate alla giurisdizione esclusiva le controversie
sugli atti delle autorità indipendenti per i servizi di pubblica utilità.
La tendenza ad estendere la giurisdizione esclusiva ricevette ulteriore impulso in occasione della riforma del pubblico impiego. Il
d.lgs. 29/1993 assoggettò a un nuovo regime quasi tutte le categorie dei dipendenti pubblici, trasformando il loro rapporto con
l’Amministrazione da pubblicistico in contrattuale. In seguito a tale riforma fu conferita al Governo un’ampia delega per devolvere
al giudice ordinario, a far tempo dal 1° luglio 1998, tutte le nuove controversie dei dipendenti pubblici con un rapporto
“contrattuale”. Per conservare un equilibrio complessivo fra le due giurisdizioni, il d.lgs. 80/1998 assegnava alla giurisdizione
esclusiva, agli artt. 33 e 34, le vertenze rispettivamente in materia di pubblici servizi e di edilizia e urbanistica; e per tali materie
il giudice amministrativo sarebbe stato competente anche per le domande di “risarcimento del danno ingiusto” cagionato
dall’Amministrazione (art. 35).
La legge 205/2000 riprodusse, con alcune modifiche, gli artt. 33, 34 e 35 del d.lgs. 80/1998. Oltre alla previsione della giurisdizione
esclusiva per le vertenze in materia di servizi pubblici, edilizia e urbanistica, assegnò in via generale alla giurisdizione
amministrativa le vertenze risarcitorie per le lesioni di interessi legittimi. Estese la giurisdizione esclusiva alle vertenze sulle
procedure per gli appalti pubblici. Introdusse alcuni strumenti per accelerare la definizione del giudizio e modellò un rito speciale
“accelerato” per varie vertenze di maggiore rilievo generale, come quelle sull’affidamento di appalti pubblici, sugli atti delle Autorità
indipendenti, ecc. Alla tradizionale unitarietà di disciplina del giudizio amministrativo, messa in discussione solo parzialmente dalle
riforme degli anni ’90, subentrava un sistema caratterizzato sempre di più da una varietà di riti e di tipologie di pronunce. La
tendenza ad istituire riti speciali fu rafforzata negli anni successivi, soprattutto per le controversie in materia di procedure per
opere pubbliche e per contratti pubblici.
Di fronte a questi interventi legislativi ricorrenti, ma spesso frammentari e sempre disorganici, si è affermata l’esigenza di riordinare
la disciplina del processo amministrativo. Con il d.lgs. 104/2010 sono stati approvati quattro allegati: il primo è il “ codice del
processo amministrativo”, il secondo contiene le norme d’attuazione al codice, il terzo le norme transitorie e il quarto le norme di
coordinamento e le abrogazioni. Il codice sembra nel complesso accogliere esigenze di continuità con l’assetto precedente. Il
codice ha introdotto, comunque, anche innovazioni sostanziali, non solo per rendere più razionale la disciplina (per es.,
semplificando l’ambito dei riti speciali), ma anche per ragioni più generali, come la tutela del contraddittorio. Nel nostro Paese è
il primo codice del processo amministrativo: consente finalmente di disporre, anche in questo settore, di una normativa unitaria
e più puntuale ed aggiornata. L’entrata in vigore del codice, settembre 2010, ha comportato l’abrogazione delle disposizioni
processuali del t.u. sul Consiglio di Stato del 1924, del regolamento di procedura del 1907, delle disposizioni processuali della
legge istitutiva dei Tar, e varie previsioni della legge 205/2000.

L’INTERESSE LEGITTIMO
1. Considerazioni introduttive
Nel nostro diritto amministrativo le posizioni giuridicamente rilevanti del cittadino nei confronti dell’Amministrazione vengono
distinte in interessi legittimi e diritti soggettivi. L’interesse legittimo è una figura centrale nei rapporti fra cittadino e
Amministrazione e rappresenta l’elemento fondante per la giurisdizione amministrativa. L’interesse legittimo è inteso come una
posizione diversa e alternativa rispetto al diritto soggettivo, tant’è che in genere si tende ad escludere che, rispetto a un medesimo
“episodio della vita”, il cittadino possa essere titolare contemporaneamente nei confronti dell’Amministrazione di un diritto
soggettivo e di un interesse legittimo. La distinzione fra interessi legittimi e diritti soggettivi può apparire agevole quando si
confrontino certe ipotesi stereotipe di queste posizioni soggettive: si pensi al caso del cittadino interessato a un potere
discrezionale dell’Amministrazione e al caso del cittadino creditore di un’obbligazione pecuniaria nei confronti della stessa
amministrazione. Ma la distinzione appare molto più difficile in altre ipotesi. Si pensi al caso, molto discusso, di un’ attività vincolata
dell’Amministrazione: in questo caso la giurisprudenza e la dottrina prevalenti ammettono la configurabilità di posizioni di interesse
legittimo, ma se l’attività è vincolata si deve riconoscere che la legge prevede e quindi garantisce direttamente al cittadin o un
determinato risultato e in questo modo, almeno sul piano del diritto sostanziale, la distinzione rispetto alle obbligazioni scomparse.
Veramente irrinunciabili in uno Stato democratico sono la garanzia e l’ampiezza della tutela nei confronti dell’Amministrazione, e
non le nozioni e le forme attraverso le quali tale tutela è stata interpretata. La ragione di una attenzione particolare per la tutela
nei confronti dell’Amministrazione è costituita dall’esigenza di una maggiore adeguatezza ed efficacia della tutela, proprio per il
carattere pubblico del soggetto e per il suo porsi, rispetto al cittadino, come “autorità”. Si ricordi che solo da un decennio la Corte
di cassazione (Cass. sez. un. 500/1999), rivedendo un proprio indirizzo costantemente negativo, ha ammesso anche per la lesione
di interessi legittimi il risarcimento dei danni.

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2. L’interesse legittimo e il “potere” dell’Amministrazione


Anche se il dibattito sulla nozione di interesse legittimo e sulle caratteristiche di questa figura appare ancora aperto, si riscontra
un ampio consenso nell’identificare alcuni elementi come propri dell’interesse legittimo. Un primo elemento è costituito dal
carattere “relativo” (o “relazionale”) dell’interesse legittimo : l’interesse legittimo non è una posizione soggettiva di tipo “assoluto”
(come sono invece, per es., i diritti reali, il cui esercizio non richiede il concorso di altri soggetti), ma è una posizione correlata
all’esercizio di un potere da parte dell’Amministrazione (c.d. potere amministrativo). L’esercizio del potere produce effetti giuridici
nei confronti dei cittadini: l’Amministrazione, disponendo degli interessi che le sono devoluti dalla legge, distribuisce risorse, ad
alcuni conferisce utilità particolari, ad altri le sottrae o le nega, e così operando incide sulle posizioni giuridiche dei cittadini. In via
di prima approssimazione, l’interesse legittimo può essere definito come una posizione soggettiva “speculare” al potere
dell’Amministrazione. Va tenuto presente che anche nell’ambito dell’attività specifica dell’Amministrazione disciplinata dal diritto
pubblico sono configurabili diritti soggettivi.
In passato sono stati presi in considerazione vari profili dell’attività amministrativa nel diritto pubblico, per definire il potere tipico
dell’Amministrazione. Un riferimento a questi profili appare opportuno perché, una volta riconosciuto che la nozione di “interesse
legittimo” si riconnette a quella di “potere” dell’Amministrazione, diventa possibile, attraverso il loro esame, cogliere meglio il
modo specifico di porsi dell’interesse legittimo.
a) In alcune interpretazioni è presentato, come profilo caratteristico del “potere”, la c.d. autoritarietà o autoritativa. Di
fronte a un “potere” autoritativo dell’Amministrazione il cittadino non può opporre un diritto soggettivo, perché l’Amministrazione,
attraverso i propri provvedimenti, può estinguere legittimamente i diritti dei terzi. L’attenzione si sposta così sulla “autoritarietà”
dei provvedimenti amministrativi e quindi sulla loro incidenza estintiva rispetto a un diritto soggettivo. Ma è difficile configurare
una “autoritarietà” dell’Amministrazione in tutti i casi in cui l’attività amministrativa non comporti la sottrazione di utilità al cittadino
o consegua a una richiesta dello stesso cittadino interessato (si pensi alle autorizzazioni amministrative, ecc.). Il potere
dell’Amministrazione, anche in questi casi, ha il carattere dell’unilateralità, ma non il carattere dell’autoritarietà. Eppure anche in
questi casi (si pensi ancora alla richiesta di un’autorizzazione) viene identificato un interesse legittimo del cittadino.
b) In altre interpretazioni (e di questa posizione appare oggi tributaria anche la giurisprudenza) è considerata come
elemento caratteristico del “potere” la sua funzionalità alla realizzazione dell’interesse pubblico. Di conseguenza non si ha “potere”
quando l’attività amministrativa sia diretta istituzionalmente a soddisfare un interesse privato: è il caso, per es., della
determinazione dell’indennità di esproprio.
c) Altre interpretazioni, più o meno consapevolmente, assumono come caratteristica del “potere” amministrativo la sua
infungibilità. Va osservato, però, che il carattere dell’infungibilità non è esclusivo del “potere” amministrativo. Si configura, per
es., anche rispetto a talune obbligazioni, nei cui confronti sono configurabili pacificamente posizioni di diritto soggettivo (si pensi
al caso delle prestazioni artistiche).
d) Alcune interpretazioni, ancora, accolgono argomenti di ordine squisitamente formale e individuano come elemento tipico
del “potere” la produzione di effetti giuridici, in termini costitutivi : “potere” significa quindi capacità di assumere atti produttivi di
effetti giuridici propri. Pertanto, a questi fini, viene accolta come distinzione fondamentale quella fra procedimenti dichiarativi e
procedimenti costitutivi. In particolare si discute se possa considerarsi propriamente costitutiva anche l’attività amministrativa che
si limiti a verificare, per la produzione di effetti giuridici, condizioni già compiutamente definite dalla legge (si pensi
all’accertamento della mancata ultimazione di un edificio nel termine prescritto, ai fini della cessazione degli effetti della
concessione edilizia comminata dalla legge).
e) Secondo un’altra tesi, quando l’attività amministrativa è discrezionale, l’Amministrazione ha la possibilità di introdurre
una regola nuova, determinando, sulla base di una propria scelta, l’assetto degli interessi nel caso concreto; quando invece
l’attività è vincolata, l’Amministrazione si deve limitare ad applicare una regola già presente nell’ordinamento, senza poter
introdurre da parte sua nulla di ulteriore. Pertanto, se l’attività è vincolata, il cittadino è titolare perciò di un diritto soggettivo,
perché anche prima e indipendentemente dall’attività amministrativa è definito esattamente che cosa gli spetti e la norma
identifica già compiutamente il risultato dell’attività amministrativa nei suoi confronti. Invece, se l’attività è discrezionale, il
cittadino non può vantare una pretesa giuridica a un determinato risultato, perché ciò che gli spetta non è determinabile “a priori”
in base alla legge, ma dipende da una scelta dell’Amministrazione. In questo caso, quindi, si può solo ammettere un interesse
legittimo. Secondo questa tesi, la posizione di interesse legittimo è quindi sempre correlata a un “potere” dell’Amministrazione;
ma il “potere” dell’Amministrazione va definito sulla base della discrezionalità. Questa tesi non viene accolta dalla giurisprudenza
prevalente: essa riconosce la presenza di interessi legittimi di fronte a un’attività amministrativa discrezionale, ma esclude che
quando l’attività sia vincolata siano configurabili necessariamente diritti soggettivi. La giurisprudenza, rispetto all’attività vincolata,
ammette interessi legittimi quando si possa riconoscere che l’attività amministrativa è indirizzata a un interesse pubblico specifico;
altrimenti identifica invece diritti soggettivi.
Da ultimo si deve tener presente l’influsso sempre maggiore del diritto comunitario sul nostro ordinamento. Il diritto comunitario
impone una tutela efficace del cittadino nei confronti dell’Amministrazione; nello stesso tempo non contempla la figura
dell’interesse legittimo, anche perché essa è utilizzata quasi solo nel diritto italiano. Nel complesso, l’incidenza del diritto
comunitario potrebbe condurre nel nostro Paese ad attenuare la contrapposizione fra interesse legittimo e diritto soggettivo, nel
senso che, pur rimanendo ferme le specifiche modalità di tutela (come l’articolazione delle giurisdizioni, ecc.), che sono rimesse
all’ordinamento nazionale, i risultati sostanziali della tutela dovrebbero diventare sempre più vicini. In questo quadro così incerto
dal punto di vista sistematico e ancora in evoluzione, finisce con l’assumere rilievo determinante soprattutto la casistica elaborata
dalle sez. un. Della Cassazione, quale giudice della giurisdizione. 3. (segue): il contributo della giurisprudenza; la questione
dei diritti “costituzionalmente tutelati” La presenza di interpretazioni diverse e di varie incertezze non significa, per , che
normalmente l’identificazione di una situazione soggettiva come interesse legittimo sia controversa: soprattutto ad opera della
Corte di cassazione quale giudice della giurisdizione, si è consolidata, ormai da tempo, una interpretazione comune sulla
identificazione della maggior parte delle situazioni corrispondenti ad interessi legittimi. Certo, accanto a questo nucleo di interessi
legittimi che vengono pacificamente riconosciuti come tali, vi sono ancora casi in cui la classificazione della posizione soggettiva
come diritto soggettivo o come interesse legittimo è ancora discussa; l’esistenza di questi casi riflette la mancanza di un criterio
certo e condiviso da tutti per identificare gli interessi legittimi. Per distinguere gli interessi legittimi dai diritti soggettivi, la
giurisprudenza ha accolto una serie di criteri.
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I) Tesi della distinzione fra norme d’azione e norme di relazione. L’ordinamento comprenderebbe norme d’azione, che
disciplinano un potere e il suo esercizio, e norme di relazione, che disciplinano un rapporto intersoggettivo e i suoi effetti. A questa
coppia di norme corrisponderebbe, nel caso di violazione, la coppia di qualificazione degli atti in termini di “illegittimità-illiceità”,
e quindi, sul piano delle posizioni soggettive, la coppia “interesse legittimo-diritto soggettivo”. La figura dell’interesse legittimo
troverebbe così un fondamento positivo, nella norma che fonda quel potere dell’Amministrazione. Critiche: anche le norme che
disciplinano un potere, per il solo fatto che ne determinano le condizioni per l’esercizio nei confronti di altri soggetti, individuano
relazioni giuridiche intersoggettive.
II) Tesi della distinzione fra attività vincolata nell’interesse pubblico e attività vincolata nell’interesse privato. Secondo la
giurisprudenza, l’interesse legittimo si caratterizzerebbe per il suo confronto con un interesse pubblico. Di conseguenza se il potere
dell’Amministrazione è discrezionale, sarebbe sempre configurabile un interesse legittimo; se invece il potere è vincolato, allora si
dovrebbe distinguere se il potere sia attribuito nell’interesse del cittadino o nell’interesse dell’Amministrazione, e nel primo caso
vi sarebbe un diritto soggettivo, nel secondo un interesse legittimo. Punto controverso di questa giurisprudenza è rappresentato
dalla bipartizione delle posizioni soggettive in presenza del potere vincolato dell’Amministrazione: sulla base dell’analisi giuridica,
è impossibile capire in quali casi l’attribuzione di un potere vincolato sia funzionale a un interesse pubblico, ovvero a un interesse
privato, poiché la funzionalità di un potere vincolato non si può ricavare dalla norma giuridica.
III) Tesi della distinzione fra cattivo esercizio del potere e carenza di potere. Nel caso di cattivo esercizio di potere (vizi di
incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere) l’illegittimità del provvedimento non incide sulla sua efficacia (finché il
provvedimento non sia annullato) ed è configurabile solo una posizione di interesse legittimo, perché si è pur sempre in presenza
dell’esercizio di un potere dell’Amministrazione. Invece, nel caso di carenza di potere (straripamento di potere o incompetenza
assoluta, carenza di presupposti necessari) il vizio si riverbera sulla stessa efficacia giuridica dell’atto e la posizione soggettiva del
cittadino rimane quella originaria, come individuabile in assenza dell’intervento dell’Amministrazione. La sistematica dei vizi
dell’atto amministrativo delineata dalla legge 15/2005 dovrebbe orientare la Cassazione a coordinare la distinzione fra “cattivo
esercizio del potere” e “carenza di potere” con la distinzione fra i casi di “annullabilità” e i casi di “nullità” del provvedimento. La
giurisprudenza più recente della Cassazione testimonia per un interesse limitato per queste disposizioni ed esprime una netta
preferenza per la sistematica tradizionale.
IV) Teoria dei diritti “costituzionalmente tutelati”. Negli ultimi decenni del Novecento la giurisprudenza prospetta una
selezione delle posizioni giuridiche, individuandone alcune come dotate di una protezione giuridica qualitativamente maggiore e
perciò non modificabile per effetto dell’esercizio di un potere amministrativo. Si tratterebbe, dei c.d. diritti personalissimi (diritto
all’integrità personale, al nome, ecc.), sui quali l’Amministrazione non può incidere, dei diritti definiti come tali dal legislatore
anche in relazioni giuridiche di diritto pubblico (diritto all’indennità di esproprio), e da ultimo diritti ritenuti particolarmente
importanti sul piano costituzionale (diritto alla salute, diritto alla salubrità dell’ambiente, ecc.).
Questa teoria ha trovato riscontro nella giurisprudenza della Cassazione e sul piano pratico ha consentito un intervento più ampio
da parte del giudice ordinario nei confronti dell’Amministrazione. Resta però ancora poco chiaro il suo fondamento, specie con
riferimento ai diritti costituzionalmente rilevanti, tenuto conto del fatto che la legge attribuisce in questi casi all’Amministrazione
“poteri” tipicamente amministrativi, per es. anche ammettendo il compimento di valutazioni discrezionali.
4. L’interesse legittimo come posizione soggettiva differenziata e qualificata
Non è sufficiente, però, la configurabilità di un “potere” dell’Amministrazione, perché si possa identificare anche un interesse
legittimo. L’interesse legittimo è anzitutto una posizione che identifica un interesse proprio del cittadino: per questa ragione non
può essere considerato come una posizione meramente “riflessa” rispetto al potere dell’Amministrazione. L’interesse legittimo non
è neppure una posizione “diffusa”, di cui possano essere titolari i cittadini in quanto tali, ma è una posizione “ soggettiva”, di cui
cioè sono titolari solo soggetti determinati. L’esercizio di un potere dell’Amministrazione può interessare, seppur in modi diversi,
tutti i cittadini. Non tutti i cittadini, però, sono titolari di un interesse legittimo rispetto a quell’esercizio del potere. Si pensi al caso
di un esproprio disposto da un Comune, per un’opera pubblica: rispetto all’esercizio del potere espropriativo, titolare di un interesse
legittimo è il proprietario che viene espropriato, non invece qualsiasi cittadino di quel Comune, anche se ogni cittadino può avere
interesse a che l’ente destini nel modo migliore le proprie risorse e può essere successivamente utente di quell’opera.
Di fatto è stata la giurisprudenza che ha rivendicato a sé la capacità di individuare in quali situazioni sia configurabile la titolarità
di un interesse legittimo. Va osservato, però, che in uno stato di diritto la titolarità di una posizione soggettiva dovrebbe essere
definita dall’ordinamento giuridico e quindi dalla legge. Ad ogni modo in proposito vengono considerati comunemente due criteri
cumulativi. Il primo è quello della c.d. “differenziazione”: proprio perché l’interesse legittimo è una posizione “soggettiva”, nel
senso che si è visto, esso presuppone in capo al titolare la sussistenza di una posizione di interesse “diversa” e più “intensa”
rispetto a quella della generalità dei cittadini. L’interesse legittimo deve essere perciò “differenziato”. Ma ciò non è sufficiente; è
stato perciò proposto, ad integrazione di esso, il criterio della “qualificazione”: perché si possa avere un interesse legittimo è
necessario che il potere dell’Amministrazione coinvolga un soggetto che, rispetto a tale potere, sia titolare di un interesse non
solo differenziato, ma anche sancito e riconosciuto dall’ordinamento. Frequentemente la qualificazione viene ricavata dalla
giurisprudenza in base alla rilevanza attribuita a quell’interesse dall’ordinamento nel suo complesso e alla incidenza concreta
dell’azione amministrativa su tale interesse.
5. L’interesse legittimo come posizione di diritto sostanziale
In passato l’attenzione sulla figura dell’interesse legittimo si è concentrata particolarmente su un aspetto: quello delle modalità
della tutela nel caso di lesione di un interesse legittimo. All’interesse legittimo sembrava corrispondere una tutela tipica, di tipo
costitutivo, diretta ad elidere gli effetti del provvedimento lesivo. D’altra parte la modalità della tutela veniva assunta come un
carattere fondamentale del diritto soggettivo e quindi come un elemento distintivo rispetto all’interesse legittimo. Infatti, mentre
la tutela del diritto soggettivo soddisfarebbe direttamente la pretesa al bene della vita in cui si sostanzia il diritto, la tutela
dell’interesse legittimo attuerebbe solo un soddisfacimento indiretto, che si realizza attraverso l’eliminazione degli atti
amministrativi lesivi. La tutela dei diritti assicura la realizzazione di una pretesa che si identifica con l’interesse materiale (assicura
il c.d. adempimento dell’obbligo); invece, la tutela dell’interesse legittimo assicurerebbe solo indirettamente l’interesse materiale,
nel senso che determinerebbe solo l’eliminazione dell’atto lesivo. In passato, l’interesse legittimo sembrava emergere (nel senso
che veniva considerato dall’ordinamento) solo in seguito a una sua lesione. In questo modo era facile finire col sostenere che
l’interesse legittimo sarebbe figura di ordine squisitamente processuale, per lo meno nel senso che assumerebbe rilievo solo sul
piano dell’azione, e cioè ai fini della legittimazione al ricorso e ai fini dell’individuazione del soggetto abilitato a contestare la

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legittimità dell’operato dell’Amministrazione. Questa concezione oggi sembra recessiva, ma non è stata abbandonata del tutto, e
comunque ha condizionato in profondità la giurisprudenza.
Nel nostro ordinamento la tutela giurisdizionale dell’interesse legittimo si configura, in genere, come tutela “successiva”:
presuppone che sia già intervenuta una lesione dell’interesse protetto. Ciò comporta, sul piano della tutela giurisdizionale, una
pretesa all’annullamento dell’atto amministrativo lesivo.
Insomma: nonostante che nel nostro ordinamento la tutela dell’interesse legittimo sia stata modellata in passato secondo schemi
tipici (fondamentalmente, l’impugnazione del provvedimento avanti al giudice amministrativo), oggi è evidente che la tipicità della
tutela è subordinata alla garanzia dell’interesse.
Pertanto la modalità impugnatoria della tutela non è un elemento qualificante dell’interesse legittimo.
6. Quale “interesse” nell’interesse legittimo? L’identificazione del “bene della vita”
La conclusione che l’interesse legittimo è figura di diritto sostanziale consente di precisare alcune delle affermazioni fatte.
L’interesse legittimo non “sorge” per effetto della sua lesione ad opera di un potere dell’Amministrazione e non assume rilevanza
solo quando si verifichino i presupposti per l’impugnativa; è configurabile già nel momento in cui ha inizio il procedimento
amministrativo e forse ancora prima, quando si realizzano i presupposti per il procedimento (si pensi al caso del silenzio-rifiuto).
Perché nasca un interesse legittimo non è sufficiente che vi sia un’astratta titolarità di un potere, ma non è neppure indispensabile
che il potere sia già stato esercitato: è necessario che sussistano le condizioni in presenza delle quali l’esercizio del potere sia
doveroso.
Non assume importanza, a questo proposito, che il cittadino rispetto al potere dell’Amministrazione possa derivare una posizione
di vantaggio o invece di svantaggio. Questo aspetto ha un valore puramente descrittivo, tenuto conto anche del fatto che in molti
casi alla posizione di vantaggio per un cittadino corrisponde, simmetricamente, una posizione di svantaggio per altri, e che in
questi casi entrambi i soggetti sono titolari di un interesse legittimo. Basti pensare, in proposito, al procedimento per il rilascio di
una autorizzazione commerciale, e alle posizioni contrapposte, rispetto a tale rilascio, di chi richiede l’autorizzazione e di chi già
eserciti la medesima attività nella stessa zona: si noti che, nel caso di impugnazione del rilascio dell’autorizzazione, entrambi
questi soggetti parteciperebbero al giudizio, come ricorrenti o come controinteressati, ma comunque come portatori di interessi
legittimi.
Una volta stabilito che l’interesse legittimo è figura di diritto sostanziale, va però chiarito in che cosa consista, rispetto ad esso,
quel “bene della vita” che costituisce una componente di tutte le posizioni soggettive di diritto sostanziale.
a) Si deve evitare di confondere la modalità della tutela di un interesse con il contenuto dell’interesse. La legittimità
dell’azione amministrativa non è essa stessa un “bene della vita”, né tanto meno può essere concepita come un “bene della vita”
proprio di un soggetto determinato. La legittimità dell’azione amministrativa può essere concepita forse come l’oggetto di un
interesse generico, comune a tutti i cittadini, ma non come l’oggetto di una posizione soggettiva qualificata. Se si vuole individuare
l’oggetto di una posizione giuridica qualificata è necessario tenere in considerazione l’interesse specifico del titolare di essa.
b) per soddisfare questa esigenza viene prospettata spesso per la figura dell’interesse legittimo una dissociazione fra due
ordini di interessi: infatti, sarebbero configurabili un interesse materiale, che è proprio del titolare dell’interesse legittimo, ma che
esorbita dalla rilevanza riconosciuta dall’ordinamento all’interesse legittimo stesso, e un interesse diverso (l’interesse legittimo
vero e proprio), di cui il primo costituirebbe solo un presupposto di fatto o il substrato “economico”, e che sarebbe, questo sì,
passibile di tutela. Si pensi, per questo aspetto, al caso di un concorso pubblico: il concorrente che partecipa al concorso è
senz’altro titolare di un interesse legittimo rispetto agli atti del concorso. Questo interesse, però, secondo la tesi in esame, non
coinciderebbe con l’interesse materiale del concorrente all’esito positivo del concorso e all’assunzione, perché la tutela
dell’interesse legittimo non realizza il soddisfacimento diretto di tale pretesa (nel caso di lesione, se il ricorso è accolto, il giudice
annulla gli atti illegittimi, ma non dispone l’assunzione del ricorrente), ma si attua nella contestazione degli atti illegittimi che
abbiano pregiudicato il concorrente.
Se il concorrente non vince il concorso, ma non risulta compiuta dall’Amministrazione alcuna irregolarità, il suo interesse legittimo
è ugualmente soddisfatto: non vi è stata, infatti, alcuna lesione di esso, anche se l’interesse materiale non è certo soddisfatto. In
questo modo, però, il “bene della vita”, nell’interesse legittimo, rimarrebbe ancora in ombra o, tutt’al più, si tradurrebbe solo in
una serie di utilità secondarie e puramente strumentali (nel caso in esame, la partecipazione al concorso).
7. Interessi legittimi e diritti soggettivi
Il rapporto fra interesse legittimo e diritto soggettivo è al centro delle riflessioni della dottrina e della giurisprudenza. Analizzando
con attenzione alcuni procedimenti, come quello espropriativo, caratterizzanti dall’incidenza del potere amministrativo su un diritto
soggettivo del cittadino, fu osservato che, per effetto del decreto di esproprio, il diritto soggettivo si estingueva lasciando però
posto a un interesse legittimo (tant’è vero che, una volta emanato il decreto di esproprio, il privato lo poteva impugnare davanti
al giudice amministrativo). Il provvedimento amministrativo sembrava comportare, in questi casi, una metamorfosi nelle posizioni
soggettive, una “degradazione” del diritto soggettivo in interesse legittimo. La degradazione in genere veniva ricondotta a un
carattere del provvedimento amministrativo, la autoritatività, che determinerebbe l’estinzione del diritto soggettivo e quindi la
trasformazione in interesse legittimo.
La teoria della degradazione non è però accettabile. Nel corso di una procedura espropriativa, il proprietario del bene rimane
titolare di un diritto reale fino al decreto di esproprio. Nei confronti del potere espropriativo il proprietario è per ò titolare di un
interesse legittimo senza necessità di immaginare alcuna “degradazione”: l’Amministrazione, infatti, esercita nei suoi riguardi un
potere in senso proprio. L’interesse legittimo, inoltre, sorge con l’esercizio del potere, e quindi già prima del decreto di
esproprio.
Che non vi sia una “trasformazione” del diritto soggettivo in interesse legittimo è dimostrato dal fatto che, nell’esempio proposto,
coesistono insieme diritto e interesse: l’interesse legittimo rispetto al potere espropriativo, il diritto soggettivo ad ogni altro effetto.
8. Interessi legittimi e risarcimento del danno
Ha avuto un particolare rilievo la questione del risarcimento dei danni cagionati ad interessi legittimi: si tratta quindi di danni
provocati da provvedimento amministrativi o dal silenzio dell’Amministrazione. Nelle interpretazioni che affermavano il carattere
tipicamente processuale dell’interesse legittimo la tutela del cittadino si attuava nell’annullamento del provvedimento impugnato;
era difficile, invece, in quel contesto, ipotizzare una tutela risarcitoria, perché il diritto al risarcimento presuppone la lesione di un
interesse sostanziale.
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a) Fino alla fine degli anni ’90 la giurisprudenza era orientata nettamente in senso negativo; ammetteva una responsabilità
civile dell’Amministrazione solo nel caso di lesione di un diritto soggettivo. Di conseguenza, per es., la Cassazione negava al
cittadino il risarcimento per i danni provocati da un diniego illegittimo di un’autorizzazione o di una concessione, e ciò anche se il
diniego fosse annullato dal giudice amministrativo. Solo se il provvedimento illegittimo aveva inciso su un diritto soggettivo
preesistente estinguendolo, allora la conclusione poteva essere diversa. Si pensi al caso di un esproprio illegittimo: il cittadino,
una volta ottenuto l’annullamento del provvedimento espropriativo, risulta nuovamente titolare “ex tunc” del diritto di proprietà.
Il risarcimento era ammesso perché avrebbe riguardato il diritto di proprietà.
Applicando questo schema, il risarcimento del danno causato da provvedimenti amministrativi sarebbe stato possibile solo se il
cittadino fosse stato titolare di un diritto soggettivo prima dell’esercizio di quel potere da parte dell’Amministrazione. Inoltre,
seguendo lo stesso schema, per il risarcimento sarebbe stato sempre necessario l’annullamento del provvedimento lesivo. Una
volta verificatesi tutte queste condizioni (l’annullamento del provvedimento lesivo; la configurabilità di un pregiudizio a un diritto
soggettivo), il risarcimento sarebbe spettato, senza la necessità di verifiche concernenti l’elemento soggettivo (la colpa o il dolo)
della condotta lesiva. In questo modo la giurisprudenza non delineava solo una disciplina del risarcimento dei danni cagionati da
provvedimenti amministrativi, ma ricavava da questa disciplina anche una regola pratica sul rapporto fra le giurisdizioni. Se il
risarcimento doveva essere preceduto dall’annullamento del provvedimento lesivo, allora risultava necessario esperire l’azione di
annullamento davanti al giudice amministrativo prima dell’azione civile per i danni.
b) Questa posizione ampiamente negativa riguardo alla risarcibilità degli interessi legittimi fu abbandonata dalla Cassazione
solo con la sentenza delle Sezioni Unite 500/1999. Gli argomenti invocati per il mutamento di indirizzo furono, innanzitutto, di
diritto sostanziale e riguardarono l’interpretazione complessiva della responsabilità aquiliana nell’art. 2043 c.c. La Cassazione, nel
superare l’identificazione tradizionale del danno ingiusto con il danno a diritti soggettivi, afferma che l’art. 2043 c.c. non integrava
le disposizioni sui diritti soggettivi e sulla loro tutela, ma aveva una propria autonomia, perché assicurava in via generale la
riparazione del danno ingiustamente subito da un soggetto a causa del comportamento di un altro soggetto. Nello stesso tempo,
però, la Cassazione sottolineava la specificità dell’interesse legittimo rispetto al diritto soggettivo, rilevando che per il risarcimento
non era sufficiente la lesione dell’interesse legittimo in quanto tale, ma era necessaria anche una lesione “al bene della vita”
correlato all’interesse, bene della vita inteso dalle Sezioni Unite sempre come utilità “finale”. La Cassazione ammetteva così un
carattere diverso dell’interesse legittimo rispetto al diritto soggettivo. Infatti, nel caso del diritto, la lesione al bene della vita è la
lesione dell’interesse che si identifica col diritto soggettivo e perciò, di regola, non richiede verifiche particolari: si pensi al danno
al diritto di proprietà, che si identifica col danno alla possibilità del proprietario di godere e disporre del bene oggetto del diritto.
Invece una tale identificazione non si verifica necessariamente nel caso dell’interesse legittimo.
In concreto quando l’interesse legittimo riguarda una posizione di vantaggio che il cittadino intende conservare nei confronti
dell’Amministrazione che esercita il suo potere, il danno risarcibile si identifica con sacrificio della posizione di vantaggio (bene
della vita) ad opera del provvedimento illegittimo. Si pensi al proprietario di un immobile, in presenza di una procedura
espropriativa: il decreto di esproprio illegittimo, privando il cittadino della proprietà e del possesso dell’immobile, lo sacrifica
senz’altro ingiustamente. Questo è il caso dei c.d. interessi “oppositivi”, ossia degli interessi legittimi che ineriscono alla
conservazione di un bene o di altra posizione di vantaggio attuale. Invece se l’interesse legittimo inerisce alla pretesa del cittadino
di ottenere un provvedimento favorevole che gli attribuisca un bene o una posizione di vantaggio (c.d. interesse “protensivo”),
un danno risarcibile si configura concretamente solo se la pretesa del cittadino sarebbe stata destinata ad ottenere un esito
positivo.
In questo quadro viene meno la necessità di subordinare l’azione per danni al previo annullamento del provvedimento
amministrativo. Nel momento in cui si riconosce la risarcibilità dell’interesse legittimo, viene meno anche la necessità
dell’annullamento del provvedimento lesivo: secondo le Sez. Un. per il risarcimento dei danni era richiesto l’accertamento della
illegittimità del provvedimento, non più il suo annullamento. La Cassazione, nell’ammettere la possibilità del risarcimento per
lesioni di interessi legittimi, precis che in questo caso si doveva applicare pienamente il modello di responsabilità extracontrattuale
previsto dall’art. 2043 c.c. Sostenne, pertanto, che per il risarcimento degli interessi legittimi era essenziale la dimostrazione
dell’imputabilità dell’illecito all’Amministrazione a titolo di colpa o di dolo. La tesi precedente, che risolveva la colpa nell’illegittimità
dell’atto amministrativo, si riferiva al caso di lesione di diritti soggettivi; invece, per la lesione di interessi legittimi, resterebbe
ferma la regola generale del c.c., che comporta la necessità di una verifica puntuale dell’ elemento soggettivo.
c) Alla pronuncia della Cassazione del 1999 fecero seguito, l’anno successivo, le disposizioni della legge 205/2000 che
estesero la giurisdizione amministrativa alle vertenze risarcitorie. I giudici amministrativi, nelle loro decisioni, confermarono in
pieno il principio della risarcibilità. Nello stesso tempo, però, manifestarono indirizzi variegati sul modello di responsabilità da
applicare (se contrattuale o extracontrattuale), con riflessi importanti sulla rilevanza e sulla prova dell’elemento soggettivo. Inoltre
misero in discussione le tesi della Cassazione sul rapporto fra annullamento dell’atto e tutela risarcitoria, sostenendo in genere
che il risarcimento avrebbe richiesto il previo annullamento dell’atto lesivo. Anche sulla necessità di identificare una lesione al
bene della vita emergevano posizioni nuove: per alcuni giudici amministrativi la lesione dell’interesse legittimo avrebbe
rappresentato una condizione sufficiente per ammettere un diritto al risarcimento del pregiudizio arrecato. Alcuni giudici
amministrativi, sviluppando questo indirizzo, sostennero anzi che solo il “ritardo” nell’adozione di un provvedimento, se avesse
comportato un pregiudizio, avrebbe potuto giustificare una pretesa risarcitoria, e cioè indipendentemente dal fatto che il cittadino
avesse titolo ad ottenere un provvedimento favorevole. In questo modo, fra l’altro, si poneva in evidenza che l’interesse legittimo
può essere leso non solo nel caso di un provvedimento illegittimo, ma anche in ogni altro caso di svolgimento del procedimento
amministrativo non conforme alla legge.
9. Interessi legittimi e interessi semplici
Dal novero delle posizioni soggettive istituzionalmente garantite nel nostro ordinamento rimangono estranei i c.d. interessi
semplici. Corrispondono agli interessi che non assurgono né al livello dei diritti soggettivi, né al livello degli interessi legittimi. Sono
interessi semplici, per es., gli interessi dei cittadini che non risultino “differenziati”: fra essi la giurisprudenza include, in genere,
gli interessi dei cittadini rispetto alle modalità di un servizio pubblico reso alla collettività. La tutela degli interessi semplici è
prevista solo in casi eccezionali, da disposizioni che hanno una portata tassativa. La gravità di questa conseguenza ha suscitato
in dibattito molto ampio, che ha coinvolto sia la dottrina che la giurisprudenza. La discussione ha riguardato gli interessi c.d.
collettivi o di categoria, con riferimento alla possibilità che essi possano configurarsi come interessi legittimi delle associazioni o
degli altri enti che rappresentano la collettività o la categoria: si pensi agli ordini professionali e alle organizzazioni sindacali.

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Considerare l’interessi di categoria come un interesse legittimo che l’associazione di categoria faccia valere come proprio sembrava
incompatibile con il carattere “soggettivo” (o personale) dell’interesso legittimo. La giurisprudenza amministrativa, negli ultimi
decenni, ha valorizzato il rilievo, anche costituzionale, del momento associativo e ha riconosciuto in capo a queste associazioni la
titolarità dell’interesse di categoria.
La discussione più accesa ha riguardato, però, gli interessi diffusi, che corrispondono all’interesse generale dei cittadini a certi
beni comuni, come l’ambiente, ecc., e per i quali la giurisprudenza in passato aveva escluso ogni tutela, argomentando proprio
sulla loro distinzione dagli interessi legittimi. In seguito al dibattito suscitato, il legislatore interveniva con alcune disposizioni
speciali che ammettevano la tutela di determinati interessi diffusi, demandandola però non al singolo cittadino interessato, bensì
a particolari associazioni. Si tenga presente infine che, nel nostro ordinamento, la tutela degli interessi legittimi è assicurata, anche
da disposizioni costituzionali, con riferimento ai vizi di legittimità e solo raramente è ammessa con riferimento ai vizi di merito.
Nelle ipotesi in cui non sia prevista una tutela in sede giurisdizionale o in via amministrativa per i vizi di merito, non si può
affermare che il cittadino, rispetto ai vizi di merito, sia carente di interesse legittimo: è titolare di un interesse legittimo che però
è privo di una tutela rispetto a quei vizi.

I PRINCIPI COSTITUZIONALI SULLA TUTELA GIURISDIZIONALE DEL CITTADINO NEI CONFRONTI DELLA P.A.
1. Quadro generale
L’art. 1 c.p.a. afferma che la giurisdizione amministrativa deve attuare “una tutela piena ed effettiva secondo i principi della
Costituzione”: proclama così che anche la giurisdizione amministrativa deve conformarsi al livello della tutela del cittadino
desumibile dai principi costituzionali. Lo stesso articolo richiama, inoltre, agli stessi fini, i principi “del diritto europeo”.
Il riferimento al diritto comunitario concerne, innanzitutto, i Trattati comunitari; ma il diritto “europeo” richiamato dall’art. 1 c.p.a.
è rappresentato anche dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo ( Cedu). La Convenzione fu ratificata dall’Italia nel 1955;
alla Convenzione ha aderito di recente anche l’UE (art. 6 del Trattato sull’UE, come sostituito dal Trattato di Lisbona 130/2008).
Negli ultimi anni il rilievo della Convenzione europea nel nostro ordinamento è cresciuto, perché la Corte costituzionale ha
affermato che la sua violazione può essere motivo di illegittimità costituzionale. Ai nostri fini interessa soprattutto l’art. 6 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che riconosce il diritto di ogni persona ad un processo “equo”.
Per valutare, rispetto al nostro ordinamento, i caratteri fondamentali del diritto del cittadino alla tutela giurisdizionale nei confronti
dell’Amministrazione, è però essenziale riferirsi alla Costituzione. La tutela del cittadino nei confronti dell’Amministrazione è nodale
per definire la posizione del cittadino rispetto ai pubblici poteri. La Costituzione repubblicana indirizza verso un’Amministrazione
ispirata ai principi democratici e caratterizzata perciò dal superamento della tradizionale contrapposizione ed “estraneità” del
cittadino rispetto all’Amministrazione. Le principali disposizioni costituzionali che attengono alla tutela del cittadino nei confronti
dell’Amministrazione possono essere articolate in disposizioni “sul giudice”, e in particolare sui giudici speciali, in disposizioni
“sull’azione”, e in disposizioni sull’assetto della giurisdizione amministrativa. Alcuni dei principi “sul giudice”, come l’imparzialità, e
“sull’azione”, come la garanzia del contraddittorio e la parità delle parti in giudizio, confluiscono anche nel principio del “giusto
processo”, introdotto dall’art. 111 Cost. oggi richiamato dall’art. 2 c.p.a. Vanno considerate anche altre disposizioni di rilievo per
l’attività giurisdizionale in generale. E’ il caso, in particolare, dell’art. 111 c.6, sulla necessità che i provvedimenti giurisdizionali
siano motivati: il principio è richiamato anche dall’art. 3 c.p.a. Ancora più in generale vanno considerati il principio di eguaglianza
e il principio di ragionevolezza, sanciti nell’art. 3 Cost.
2. I principi sul giudice
L’imparzialità e la terzietà del giudice sono considerate dall’art. 111 c.2 Cost. E ineriscono direttamente all’esercizio della
giurisdizione, come componenti del c.d. giusto processo. L’indipendenza del giudice, invece, inerisce alla relazione dell’organo
giurisdizionale con soggetti estranei al rapporto processuale, che potrebbero influire sulle sue decisioni: si tratta del Governo e
del potere politico in generale.
Come si è già accennato, i giudici amministrativi non sono soggetti al Consiglio superiore della magistratura, che è o rgano di
autogoverno dei soli magistrati ordinari. Presso il Consiglio di Stato è istituito un apposito organo di autogoverno dei giudici
amministrativi, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa . L’introduzione nel 1999 del principio del giusto processo
ha dato nuovo vigore al dibattito sull’attuazione dei principi di indipendenza, imparzialità e terzietà nella giurisdizione
amministrativa. La discussione non si è ancora spenta e verte particolarmente sulla contiguità, nel Consiglio di Stato, di funzioni
giurisdizionali e di funzioni consultive (esercitate da sezioni sì distinte, ma pur sempre componenti di un medesimo organo, e con
un normale avvicendamento dei consiglieri dalle une alle altre sezioni); sulla prassi dei Governi di assegnare a consiglieri di Stato
incarichi di stretta collaborazione con autorità politiche (il consigliere di Stato, in questi casi, di regola è collocato “fuori ruolo”, ma
alla cessazione dell’incarico riprende normalmente l’esercizio delle funzioni giurisdizionali); sulle norme per il reclutamento (in
riferimento alle nomine governative).
3. I principi sull’azione: l’art. 24 c.1 e 2, e l’art. 111 c.2 Cost.
Ricapitolando, negli artt. 1 e 2 c.p.a. sono richiamati la pienezza e l’effettività della tutela, la garanzia del contraddittorio, la parità
delle parti e più in generale il “giusto processo”. Queste previsioni richiamano l’importanza, per il processo amministrativo, di
alcuni principi enunciati negli artt. 24 e 111 Cost. E fondamentali anche per la tutela giurisdizionale nei confronti
dell’Amministrazione.
L’art. 24 c.1 Cost. Garantisce il diritto d’azione, configurando tale diritto sia con riferimento alla tutela di diritti soggettivi, che con
riferimento alla tutela di interessi legittimi; questa garanzia è estesa e precisata nel c.2 rispetto al diritto di difesa. La norma
costituzionale, anche per la sua formulazione, ha posto una serie di vincoli e di problemi. In particolare: la collocazione, sullo
stesso piano, dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi ha fatto sorgere la convinzione che la Cost. Sancisse una certa
interpretazione dell’interesse legittimo, da intendersi come posizione qualificata di carattere sostanziale, proprio perché anche il
diritto soggettivo è tipicamente posizione di carattere sostanziale. Di conseguenza, per effetto dell’interpretazione accolta dalla
norma costituzionale, l’interesse legittimo assurgerebbe al rango di interesse “individuale” del cittadino che lo fa valere, e non
potrebbe più essere considerato solo come una posizione processuale, o come un mero riflesso di un interesse pubblico al corretto
esercizio del potere da parte dell’Amministrazione. In realtà non sembra che da una posizione costituzionale come l’art. 24 c.1 si
possano desumere argomenti specifici a favore dell’interpretazione sostanziale dell’interesse legittimo: l’Assemblea costituente
intendeva solo assicurare che la garanzia costituzionale del diritto d’azione non venisse circoscritta ai diritti soggettivi, e
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comprendesse a pieno titolo anche gli interessi legittimi. L’interpretazione dell’interesse legittimo come posizione di carattere
sostanziale va condivisa, ma non è imposta dalla norma costituzionale.
L’art. 24 identifica il criterio fondamentale al quale deve uniformarsi ogni ricostruzione dei rapporti processuali e dei pot eri del
giudice. Questioni generali affrontate dalla Corte:
a) Rilevanza del principio della effettività della tutela giurisdizionale rispetto alla tutela cautelare.
Il ricorso al giudice amministrativo, di regola, non sospende l’esecuzione del provvedimento impugnato: solo con istanza della
parte, per evitare “un pregiudizio grave e irreparabile”, è possibile ottenere la sospensione del provvedimento stesso. La possibilità
di una tutela cautelare risulta quindi fondamentale. Nel caso del processo amministrativo la Corte Cost. Ha sempre valutato con
rigore gli interventi del legislatore che limitavano la possibilità di una tutela cautelare.
b) Rilevanza del principio della effettività della tutela giurisdizionale nel giudizio in materia di pubblico impiego.
In questa materia la Corte Cost. Ha considerato anche l’esigenza di assicurare per i pubblici dipendenti una tutela equipollente a
quella ammessa, in situazioni analoghe, ai dipendenti con rapporto di lavoro privato. Oggi, in base al codice, in via generale la
tutela cautelare nel processo amministrativo ha una ampiezza analoga a quella ammessa nel processo civile. Per quanto concerne
i mezzi istruttori, il quadro risultante dal recente codice appare invece più complesso ed è stato sostenuto che nelle vertenze in
materia di pubblico impiego i principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale non sarebbero pienamente osservati.
c) Rilevanza del principio della effettività della tutela giurisdizionale e limiti alla c.d. giurisdizione condizionata. Per “giurisdizione
condizionata” si intende l’accesso alla tutela giurisdizionale che risulti subordinata al previo esperimento di un ricorso in via
amministrativa. In questi casi, poiché l’azione giurisdizionale è ammessa solo dopo la presentazione del ricorso
amministrativo, risulta impossibile adire immediatamente il giudice. La questione della ammissibilità della giurisdizione
condizionata ha pertanto due risvolti: il primo attiene alla subordinazione dell’azione giurisdizionale a un adempimento
estraneo al processo, come è il ricorso amministrativo, e il secondo attiene alla esclusione della “immediatezza” della tutela
giurisdizionale. Rispetto alla questione in esame sembra riscontrabile un’evoluzione profonda nella giurisprudenza
costituzionale.
La prima giurisprudenza della Corte affermò che l’art. 24 Cost. Non avrebbe contemplato, fra i contenuti del diritto d’azione, anche
il diritto all’immediatezza dell’azione: la garanzia costituzionale avrebbe riguardato la indefettibilità dell’azione giurisdizionale, e
non la sua immediatezza. D’altra parte l’onere della previa presentazione del ricorso amministrativo non sarebbe stato così gravoso
da compromettere la possibilità del ricorso giurisdizionale.
A partire dalla fine degli anni ’80 è maturato un diverso indirizzo della Corte Cost. che ha considerato con maggiore severità le
disposizioni che condizionavano l’ammissibilità della tutela giurisdizionale al previo esperimento di un ricorso amministrativo: in
alcune pronunce sulla giurisdizione condizionata la Corte sembra considerarla incompatibile con l’art. 24 Cost.
Il tema della giurisdizione condizionata ha assunto nuovo rilievo, per l’esigenza di indirizzare anche nel nostro Paese la tutela del
cittadino verso rimedi più semplici, alternativi all’azione giurisdizionale. Dai principi costituzionali, e alla luce della giurisprudenza
maturata soprattutto nel processo civile in materia di lavoro e di previdenza obbligatoria, emerge che nel nostro ordinamento la
possibilità di un accesso immediato al giudice sia principio generale, ma non assoluto. Infine, il rimedio amministrativo dovrebbe
condizionare l’esercizio del diritto d’azione giurisdizionale solo nei termini di mera procedibilità: ciò significa che il giudice, se
verifica che non sia stato proposto il ricorso amministrativo richiesto dalla legge, deve sospendere il giudizio ed assegnare all’attore
un termine per presentare tale ricorso, ma non può decidere la controversia respingendo senz’altro la domanda.

d) Rilevanza del principio della effettività della tutela giurisdizionale e subordinazione della tutela giurisdizionale dei diritti
soggettivi al previo espletamento di un procedimento amministrativo.
In passato nella legislazione sulle espropriazioni per pubblica utilità era previsto che la pretesa del cittadino all’indennità potesse
essere azionata in sede giudiziale solo dopo la determinazione dell’indennità in via amministrativa. Di conseguenza, fino al
momento in cui l’Amministrazione non avesse emanato il provvedimento di determinazione dell’indennità, il proprietario
espropriato, pur essendo titolare di un diritto soggettivo all’indennità stessa, non avrebbe potuto farlo valere in giudizio. La Corte
Cost. attribuendo rilievo anche alla circostanza che la legge non garantiva un sollecito espletamento del procedimento
amministrativo di determinazione dell’indennità, affermò che queste disposizioni erano incompatibili con l’art. 24 c.1.
e) Illegittimità dell’arbitrato obbligatorio.
La possibilità per le parti di convenire che una vertenza sia decisa da arbitri, anziché dal giudice, è ammessa pacificamente nel
nostro ordinamento per quanto concerne le vertenze in tema di diritti soggettivi (disponibili). Il codice di procedura civile, nel
disciplinare la devoluzione ad arbitri di controversie, non pone limitazioni particolari rispetto alle controversie con una P .A. In
passato la Corte di cassazione escludeva che le parti potessero rimettere ad arbitrato le vertenze devolute alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo. A far tempo dalla legge 205/2000 è stato previsto che anche le controversie su diritti
soggettivi devolute alla giurisdizione esclusiva possano essere risolte mediante arbitrato: in questi casi, però, è ammesso solo
l’arbitrato rituale di diritto.
La devoluzione ad arbitri di una controversia richiede un accordo fra le parti, ma alcune leggi speciali hanno previsto talvolta forme
di arbitrato obbligatorio. La Corte Cost. Ha ritenuto illegittime queste disposizioni, rilevando che, in base ai principi costituzionali,
l’esclusione della competenza del giudice può trovare fondamento solo in una scelta compiuta dalle parti: la previsione di un
arbitrato obbligatorio risulta in contrasto con l’art. 24 Cost. che garantisce l’accesso alla tutela giurisdizionale.
In passato le previsioni di arbitrati obbligatori avevano riguardato soprattutto l’ambito dei contratti pubblici. Attualmente, in questo
ambito, la devoluzione della controversia ad arbitri non è imposta dalla legge, ma è rimessa sempre ad una scelta
dell’amministrazione, che deve essere dichiarata all’inizio della procedura di evidenza pubblica; all’aggiudicatario, inoltre, è
riconosciuta la facoltà, da esercitarsi entro certi termini, di escludere l’arbitrato. La legislazione sembra quindi adeguarsi ai principi
affermati dalla Corte Cost.
L’art. 111 c.2 stabilisce che il processo deve svolgersi nel contraddittorio fra le parti. Il principio del contraddittorio si esprime in
primo luogo nella regola secondo cui il giudice non può statuire sulla domanda se le parti nei cui confronti sia stata proposta non
siano state regolarmente evocate in giudizio. La garanzia del contraddittorio è completata dal principio della parità processuale
delle parti. In questa prospettiva il principio del contraddittorio integra innanzitutto il diritto alla difesa. Nel processo amministrativo

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il principio del contraddittorio, nella sua portata generale, è parso talvolta in conflitto con l’esigenza di rendere più spedito il
giudizio, soprattutto nelle vertenze rispetto alle quali la durata del processo può compromettere interessi pubblici molto importanti,
anche di ordine finanziario. Il bilanciamento fra la garanzia del contraddittorio e l’obiettivo di celerità del giudizio non è sempre
facile. D’altra parte la celerità della decisione non è un fattore secondario: oggi ha rilievo anche costituzionale, come componente
essenziale del principio della “ragionevole durata” sancito dall’art. 111 Cost. Inoltre, la mancanza di risorse economiche adeguate
ha indirizzato il legislatore a perseguire il canone della “ragionevole durata” essenzialmente attraverso misure di accelerazione del
processo. A questi fini il legislatore è intervenuto in vari modi: ha previsto in alcune materie riti speciali accelerati (o “abbreviati”)
e ha ammesso la possibilità di anticipare la decisione del ricorso già nella fase cautelare. La Corte non ha ritenuto che queste
previsioni fossero illegittime: ha affermato infatti che la legge può ammettere una decisione del giudice prima della decorrenza di
tutti i termini fissati per l’esercizio delle attività di difesa. Ha però sostenuto che il giudice non può adottare una decisione accelerata
se le parti abbiano richiesto di svolgere ulteriori attività processuali che risultino obiettivamente rilevanti per il giudizio.
4. I principi sull’azione: l’art. 113 Cost.
L’art. 113 Cost. Detta una serie di regole che attengono alla tutela del cittadino nei confronti della P.A.
L’art. 113 c.1 definisce il rapporto fra la garanzia della tutela giurisdizionale e la posizione dell’Amministrazione. La tutela
giurisdizionale “contro gli atti della pubblica amministrazione … è sempre ammessa”. La norma costituzionale precisa che la
garanzia della tutela giurisdizionale contro gli atti dell’Amministrazione vale sia per i diritti soggettivi che per gli interessi legittimi.
La distribuzione della giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo deve essere tale da assicurare la pienezza di tale
tutela.
L’art. 113 c.2 impedisce di circoscrivere i margini della tutela giurisdizionale, in relazione alla tipologia degli atti amministrativi
impugnati o alla tipologia dei vizi fatti valere in giudizio. La garanzia si estende, però, solo ai vizi di legittimità (esclusa per vizi di
merito).
L’art. 113 c.3 rinvia alla “legge” per l’individuazione dei giudici competenti ad annullare gli atti amministrativi e dei relativi casi ed
effetti. La norma esclude che nel nostro ordinamento valga una riserva costituzionale a favore del giudice amministrativo del
potere di annullamento degli atti amministrativi. Il coordinamento con il principio affermato nel c.1 dello stesso art. 113 va ricercato
nei termini che al giudice è sempre garantito il potere di sindacare la legittimità dell’atto amministrativo, ma non è sempre garantito
che tale sindacato si debba risolvere necessariamente in un potere di annullamento.
5. I principi sull’assetto della giurisdizione amministrativa
La Cost. Dopo aver richiamato il ruolo del Consiglio di Stato come “organo … di tutela della giustizia nell’Amministrazione” (art.
100 Cost.), ha affermato il ruolo del “Consiglio di Stato e degli altri organi di giustizia amministrativa” come giudici “per la tutela
nei confronti della P.A. degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi” (art. 103
Cost.). Si tenga presente che per la giurisdizione amministrativa, trattandosi di una giurisdizione speciale, era necessario indicare
nella Cost. Quale fosse il suo ruolo rispetto alla giurisdizione ordinaria. Questa esigenza fu soddisfatta appunto dall’art. 103 c.1
che sancisce, assegnandole rilievo costituzionale, la distinzione fra giurisdizione civile e giurisdizione amministrativa ed individua
come criterio principale di riparto la distinzione fra tutela dei diritti e tutela degli interessi legittimi. Lo stesso art. 103 c.1 riconosce
espressamente la possibilità che la giurisdizione amministrativa sia estesa anche a vertenze con l’amministrazione in tema di diritti
soggettivi: è la c.d. giurisdizione esclusiva. La norma costituzionale la ammette “in particolari materie indicate dalla legge”.
Secondo la Corte, l’assegnazione di una vertenza alla giurisdizione esclusiva non può trovare fondamento nella “mera
partecipazione della P.A. al giudizio”, né in un “generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia”, ma deve
trovare fondamento nel collegamento fra la materia cui inerisce la vertenza e una posizione di potere dell’Amministrazione.
La complessità del riparto di giurisdizione rende concreto il rischio che il cittadino promuova l’azione contro l’Amministrazione
davanti a un giudice privo di giurisdizione per quella controversia. In passato l’errore nella individuazione del giudice dotato di
giurisdizione produceva spesso conseguenze irreparabili: una volta che il giudice adito avesse dichiarato il proprio difetto di
giurisdizione, la parte in teoria avrebbe potuto riproporre la domanda davanti al giudice dotato di giurisdizione, ma, se nel
frattempo fosse maturato un termine di decadenza, la nuova domanda sarebbe stata dichiarata certamente inammissibile. Il
ricorso al giudice amministrativo, quando sia impugnato in provvedimento, è soggetto a un termine di decadenza di 60 giorni.
Intervenne la Corte costituzionale nel 2007; la sentenza esprime la convinzione che il riparto di giurisdizione non debba
compromettere l’unitarietà della funzione giurisdizionale. Si arriva così alla c.d. translatio iudicii. L’istituto della translatio iudicii è
stato codificato in termini generali nell’art. 59 della legge 69/2009.
L’art. 103 c.1 menziona, oltre al Consiglio di Stato, anche “altri organi della giustizia amministrativa”. La giurisdizione
amministrativa “generale” non si esaurisce, nella Costituzione, nel Consiglio di Stato, ma include anche un giudice amministrativo
di primo grado (art. 125 Cost.), costituito poi nei Tar. Il riferimento, nell’art. 125 Cost. A “organi di giustizia amministrativa di
primo grado” è all’origine della interpretazione secondo cui il doppio grado di giurisdizione, nel caso del giudice amministrativo,
sarebbe costituzionalizzato. L’interpretazione sembrò inizialmente essere accolta dalla Corte Cost. In due sentenze del 1975 e
1982; Corte Cost. Che successivamente sembra essersi orientata nel senso di una interpretazione più riduttiva della norma in
esame. Questa norma, d’altra parte, era stata pensata per assicurare l’istituzione di un giudice amministrativo periferico, su base
regionale, anche come elemento di garanzia e di equilibrio dei poteri riconosciuti dalla Cost. Alle Regioni e alle autonomie locali.
Comunque la Corte Cost. Con sentenza del 1988 ha escluso che l’art. 125 imponesse il principio del doppio grado nella giurisdizione
amministrativa: la norma costituzionale avrebbe imposto solo di ammettere l’ appellabilità delle sentenze dei Tar. Di conseguenza,
il legislatore ordinario può ben assegnare al Consiglio di Stato, in talune ipotesi, una competenza in unico grado.
Il “raccordo” fra la giurisdizione amministrativa e la giurisdizione ordinaria è assicurato, nell’art. 111 c.8 dalla previsione che contro
le decisioni della Corte dei Conti e del Consiglio di Stato sia ammesso il ricorso alla Corte di Cassazione “per (…) motivi inerenti
alla giurisdizione”.

LA GIURISDIZIONE ORDINARIA NEI CONFRONTI DELLA P.A.


1. I criteri accolti per il riparto fra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa
Fino all’istituzione della Quarta sezione, con la legge Crispi del 1889, la questione dei limiti della giurisdizione civile fu affrontata
per i rapporti fra sindacato giurisdizionale e autorità amministrativa: si trattava, in particolare, di stabilire quale ambito dell’attività
amministrativa fosse immune dal sindacato giurisdizionale. A questo proposito ebbe particolare rilievo la tesi della distinzione fra
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atti di gestione e atti d’imperio. La contrapposizione avrebbe consentito, in particolare, di determinare quali atti
dell’Amministrazione fossero soggetti alla disciplina dell’art. 4 dell’allegato E nei confronti di quali atti dell’Amministrazione potesse
ammettersi il ricorso alla Quarta sezione.
Dopo la legge del 1889, la previsione di due ordini di giurisdizioni per la tutela del cittadino nei confronti dell’Amministrazione ha
indirizzato l’indagine soprattutto verso la ricerca di regole certe per il riparto della competenza fra giudice ordinario e Quarta
sezione. Dopo l’istituzione della Quarta sezione, il dibattito in questa materia si è incentrato intorno a indirizzi o a prese di posizione
della Corte di cassazione, che hanno valorizzato particolarmente il suo ruolo di giudice delle giurisdizioni.
a) Le origini del dibattito vengono ricondotte, tradizionalmente, a una sentenza della Cassazione del 1891 (c.d. caso
Laurens) e ai successivi interventi di parte della dottrina, dalla quale fu prospettato il c.d. criterio del petitum. In base alla
elaborazione più elementare di questo criterio, il dato caratterizzante della giurisdizione amministrativa era rappresentato dal
potere di annullamento degli atti impugnati. Di conseguenza, nel caso di un provvedimento lesivo di un diritto soggettivo, si
doveva ammettere la possibilità per il cittadino di ricorrere avanti al giudice amministrativo per ottenere l’annullamento dell’atto:
la giurisdizione amministrativa avrebbe così integrato quella ordinaria, consentendo di rimediare al divieto di annullamento degli
atti amministrativi sancito dall’art. 4 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo. Una volta respinte, anche in seguito
alla legge del 1907, le proposte di fondare la giurisdizione amministrativa sul potere di annullamento, il criterio in esame perse
spessore. Critiche: in primo luogo è stato rilevato che interessi legittimi e diritti soggettivi sono posizioni distinte “qualitativamente”
e non in termini di minore o maggiore tutela, in secondo luogo è stato rilevato che la tesi del petitum finiva con l’aprire la strada
a una doppia tutela, nel senso che la medesima posizione soggettiva poteva essere fatta valere alternativamente o
cumulativamente, a scelta del ricorrente, avanti a ciascuno dei due giudici. La doppia tutela sembrava incompatibile con l’esigenza
di una distinzione fra le giurisdizioni basata su criteri oggettivamente verificabili.
La giurisprudenza ha quindi escluso la possibilità di una “doppia tutela” della medesima posizione soggettiva del cittadino n ei
confronti dell’Amministrazione. Oggi l’espressione “doppia tutela” viene richiamata in tutt’altro senso, per designare alcune ipotesi
particolari in cui il cittadino, in una stessa situazione materiale, può agire davanti al giudice ordinario per far valere un proprio
diritto, oppure può agire davanti al giudice amministrativo per far valere un proprio interesse legittimo. L’ipotesi più nota è quella
delle vertenze in materia edilizia: il proprietario pregiudicato da una nuova costruzione del vicino, può agire contro questi in sede
civile, e può agire contemporaneamente davanti al giudice amministrativo, impugnando il permesso di costruire rilasciato dal
Comune per la nuova costruzione. In tal caso, il cittadino è titolare di due posizioni soggettive distinte, una di interesse legittimo
e l’altra di diritto soggettivo. Se fa valere il suo interesse legittimo deve impugnare il permesso di costruire, promuovendo il
giudizio contro l’Amministrazione che ha leso col suo provvedimento l’interesse legittimo del cittadino; se fa valere il suo diritto
soggettivo deve agire contro il vicino, chiedendo la sua condanna alla riduzione in pristino della costruzione o al risarcimento dei
danni cagionati.
b) Il rigetto della tesi del petitum induce a valorizzare fortemente l’altro elemento tradizionale dell’azione, rappresentato
dalla causa petendi: la controversia è di competenza del giudice amministrativo, se è fatto valere un interesse legittimo; è di
competenza del giudice ordinario, se è fatto valere un diritto soggettivo. Il problema, però, in questo modo non è completamente
risolto: si deve ancora capire alla stregua di quali circostanze si possa stabilire se sia fatto valere un diritto soggettivo o un
interesse legittimo. A questo proposito costituisce un termine ricorrente di confronto la c.d. teoria della prospettazione. Secondo
questa teoria si deve attribuire rilievo decisivo alla “prospettazione” della posizione giuridica soggettiva, come risulta dagli atti
introduttivi del giudizio. La Cassazione ha respinto la tesi della prospettazione fin dal 1897, rilevando come essa conducesse a
una incertezza di fondo nel riparto delle giurisdizioni, proprio perché assumeva come dato fisiologico che la decisione ultima
sull’individuazione del giudice competente potesse dipendere da valutazioni o da scelte di convenienza della parte.
c) La tesi accolta dalla Cassazione è stata designata più di recente come tesi del “petitum sostanziale”: ciò che rileva ai fini
del riparto di giurisdizione non è la prospettazione ad opera della parte della situazione giuridica fatta valere in giudizio, ma è
l’effettiva natura di questa posizione e la sua oggettiva qualificazione come diritto soggettivo o interesse legittimo. Nonostante
l’adozione del criterio del “petitum sostanziale” non si è formato un orientamento unitario dei due ordini di giudici in merito alla
verifica e alla rilevanza della giurisdizione. Infatti, l’insussistenza di una posizione di diritto soggettivo comporta, per il giudice
ordinario che sia stato adito, una pronuncia di rigetto della domanda per infondatezza, mentre il giudice amministrativo, ove rilevi
l’insussistenza di un interesse legittimo, è solito dichiarare inammissibile il ricorso (per difetto di giurisdizione), invece di respingerlo
perché infondato.
2. I limiti interni della giurisdizione ordinaria nel processo di cognizione
Il tema dei “limiti interni” della giurisdizione ordinaria coinvolge particolarmente l’interpretazione dell’art. 4 della legge di abolizione
del contenzioso amministrativo. Ciò vale non solo perché questa norma vieta al giudice ordinario di “revocare o modificare” “l’atto
amministrativo”, ma anche perché il divieto di revoca e di modifica è stato interpretato estensivamente, fino a considerare oggetto
di protezione qualsiasi espressione di attività amministrativa che non fosse riducibile al mero diritto privato.
a) Considerazioni sulla nozione di “atto amministrativo”: una prima interpretazione portava a identificare tale nozione con
qualsiasi atto dell’Amministrazione posto in essere nell’interesse pubblico. Accettando questa interpretazione, si deve concludere
che oggetto di protezione non possono essere solo i provvedimenti amministrativi, ma devono essere anche i comportamenti
materiali dell’amministrazione di per sé non regolari, ma comunque indirizzati a soddisfare un interesse pubblico. Questi
comportamenti materiali dell’Amministrazione sarebbero in realtà provvedimenti amministrativi taciti, ossia espressioni di volontà
dell’Amministrazione desumibili da un comportamento. Questa interpretazione è stata accolta a lungo con favore dalla Cassazione.
Essa comporta una netta riduzione dei poteri del giudice ordinario, in funzione dell’esigenza generica di garantire l’interesse
pubblico.
Dopo l’entrata in vigore della Cost. Questa interpretazione non ha più alcuna ragion d’essere. Oggetto di protezione non può
essere una qualsiasi modalità con cui l’Amministrazione persegua l’interesse pubblico, ma può essere solo ciò che già in base alla
legge è soggetto a un regime differenziato. La garanzia non può riguardare l’Amministrazione in quanto tale, ma può riguardare
solo l’atto amministrativo, come espressione del “potere” dell’Amministrazione; pertanto là dove l’Amministrazione non esercita
un potere conferitole dalla legge, non si può ammettere alcuna limitazione ai poteri del giudice. La garanzia dell’atto
amministrativo, in definitiva, trova la sua ragione e la definizione del suo ambito nel principio di legalità.
In conclusione, il limite interno della giurisdizione civile non va esteso a tutto ciò che non sia strettamente diritto privato, ma va
circoscritto a tutto ciò che costituisca, in base alla legge, espressione di un potere pubblico.

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b) La questione dei limiti interni della giurisdizione civile è stata affrontata, però, soprattutto con riferimento alle tipologie
di sentenze che il giudice ordinario può emettere nei confronti dell’amministrazione. Anche in questo caso il dibattito trae origine
da un’interpretazione estensiva dei limiti posti dall’art. 4 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo. Si sostiene che,
anche nelle vertenze su rapporti di diritto privato, l’art. 4 vieterebbe al giudice ordinario non solo di incidere direttamente su atti
amministrativi, o di condannare l’Amministrazione a “revocare o modificare” propri atti, ma anche di emettere sentenze per la cui
esecuzione l’Amministrazione fosse tenuta a svolgere un’attività amministrativa. In questa logica le uniche sentenze compatibili
con l’art. 4 sembravano essere le sentenze di mero accertamento e le sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro.
In conclusione, il principio affermato dall’art. 4 della legge del 1865 sancirebbe la distinzione tra attività giurisdizionale e attività
amministrativa: ciò che è configurato come attività specifica dell’Amministrazione non può essere oggetto di interferenze del
giudice, anche se il rapporto dedotto in giudizio inerisce al diritto comune. Pertanto tutte le obbligazioni a carico
dell’Amministrazione non avrebbero mai, sul piano della tutela giurisdizionale, una garanzia di adempimento specifico: la tutela
giurisdizionale, nel caso di inadempimento, potrebbe essere solo di tipo risarcitorio.
Il confronto di questa interpretazione con i principi costituzionali ha imposto di ricercare ben altri limiti per i poteri del giudice
ordinario nei confronti dell’Amministrazione. Se la tutela del diritto soggettivo nei confronti dell’Amministrazione deve essere piena
e completa, si deve anche permettere al giudice di emettere quel tipo di sentenza che sia più idoneo e adeguato per la garanzia
del diritto fatto valere in giudizio. Questa conclusione risulta particolarmente chiara rispetto all’ attività di diritto privato
dell’Amministrazione: se l’Amministrazione opera nel diritto comune è assoggettata necessariamente alla disciplina privatistica.
L’azione dell’Amministrazione come “autorità” è tutelata dall’art. 4 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo,
attraverso il riferimento specifico all’ “atto amministrativo”, ma esso non può essere definito in termini diversi da quelli risultanti
dal principio di legalità; pertanto l’attività amministrativa che non è soggetta al principio di legalità non può essere protetta del
privilegio desunto dall’art. 4 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo.
Non si può quindi ammettere più una preclusione generale, per il giudice ordinario, a pronunciare sentenze costitutive o di
condanna nei confronti dell’Amministrazione. Come si è appena visto, residua solo la possibilità di una garanzia dell’atto
amministrativo, intesa come garanzia non rispetto a un potere di cognizione giurisdizionale circa la legittimità dell’atto, ma rispetto
a un potere di annullamento o a una sovrapposizione della sentenza al potere esercitato dall’Amministrazione col provvedimento.
Il giudice, quand’anche il cittadino avesse un diritto soggettivo all’emanazione di un provvedimento, non potrebbe condannare
l’Amministrazione ad emettere il provvedimento richiesto e potrebbe solo emettere sentenza di condanna al risarcimento dei
danni. Tuttavia, esclusa la possibilità che la sentenza possa avere come contenuto l’intervento su un provvedimento
amministrativo, per il resto il giudice può pronunciare qualsiasi tipo di sentenza nei confronti dell’Amministrazione e può assumere
ogni altra decisione prevista dalla legge, purché coerente con il diritto fatto valere in giudizio.
3. La disapplicazione degli atti amministrativi
Come si è già accennato, al giudice ordinario la legge di abolizione del contenzioso amministrativo assegnò, quasi a compensare
l’esclusione di un potere di annullamento degli atti amministrativi, la capacità di procedere alla c.d. disapplicazione. L’art. 5 ha
suscitato interpretazioni molto varie. Punti fermi, condivisi con ampiezza dalla dottrina e dalla giurisprudenza, sono praticamente
solo i seguenti: la disapplicazione presuppone l’esistenza di una controversia inerente a un diritto soggettivo ; la valutazione degli
atti amministrativi e dei regolamenti ai fini della loro disapplicazione concerne solo la legittimità; attraverso la disapplicazione il
giudice può sindacare la legittimità dell’atto amministrativo anche d’ufficio, per il solo fatto che l’atto è un elemento rilevante per
la decisione, e senza essere vincolato all’osservanza di alcun termine particolare. Così configurata, la disapplicazione si configura
come elemento di un modello di tutela alternativo rispetto all’impugnazione del provvedimento, e non come una sorta di
compensazione per il giudice ordinario del divieto di annullamento.
L’istituto della disapplicazione è stato utilizzato in due ipotesi: nel caso di una pretesa di un privato verso l’Amministrazione che si
fondi su di un atto amministrativo, e nella controversia tra privati, in cui sia rilevante un titolo rappresentato da un atto
amministrativo. Si pensi alla controversia fra due privati, che facciano valere entrambi la qualità di concessionari del medesimo
bene demaniale: criterio di preferenza fra le due pretese non può che essere la legittimità della concessione; a tal fine il giudice
civile esercita il suo potere di disapplicazione, in seguito alla verifica della legittimità di ciascuno dei due provvedimenti di
concessione.

4. Il giudice ordinario e i procedimenti speciali nei confronti dell’Amministrazione


Le regole desumibili dagli artt. 4 e 5 hanno una portata generale. Ciò non significa, però, che esse non incontrino deroghe od
eccezioni. Di conseguenza, per es., è stato escluso che l’art. 4 potesse precludere al giudice ordinario di condannare
l’Amministrazione a un facere specifico o a un patì, anche con incidenza diretta sull’attuazione di provvedimenti amministrativi,
quando ciò fosse richiesto dalla tutela di un diritto perfetto. Questa giurisprudenza ha riguardato soprattutto la tutela del diritto
alla salute; si tenga presente, però, che oggi, molte vertenze in materia sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo. In alcuni casi, comunque, il legislatore ha disciplinato alcuni giudizi sulla base di un assetto diverso dei limiti
“interni” della giurisdizione ordinaria nei confronti dell’Amministrazione.
a) La tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti dei provvedimenti amministrativi con cui siano state
applicate sanzioni amministrative pecuniarie (ordinanze-ingiunzioni) spetta per legge al giudice ordinario. La Corte di
Cassazione e la Corte Cost. Hanno affermato che in questi casi il cittadino sarebbe titolare di un diritto soggettivo alla propria
integrità patrimoniale e che quindi la competenza de giudice ordinario rifletterebbe i principi generali. In materia di sanzioni
amministrative il cittadino può ricorrere proponendo opposizione contro l’ordinanza-ingiunzione, mentre prima dell’emanazione
del provvedimento sanzionatorio è ammessa solo una tutela in via amministrativa, con la presentazione di difese e documenti nel
procedimento sanzionatorio. Il giudice dell’opposizione può sospendere cautelarmente l’ordinanza ingiunzione e, se accoglie
l’opposizione, “annulla in tutto o in parte l’ordinanza o la modifica anche limitatamente all’entità della sanzione dovuta”. In questo
caso, quindi, il giudizio non segue la logica dell’art. 4: al giudice ordinario è conferito espressamente un potere di sospensione e
di annullamento del provvedimento amministrativo.
b) Nei confronti dei provvedimenti del Prefetto di espulsione di stranieri, la legge prevede che la tutela vada
esperita in genere avanti al giudice ordinario: il ricorso va proposto entro 60 giorni al giudice civile. L’attribuzione della
giurisdizione al magistrato ordinario riflette la convinzione che nei confronti di un provvedimento di espulsione siano in gioco
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posizioni di libertà e diritti della persona; tuttavia il quadro complessivo non appare omogeneo, perché nell’ipotesi di espulsione
dello straniero disposta per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato è competente il Tar.
c) La decisione del Garante su un ricorso proposto a tutela dei diritti di privacy può essere impugnata dagli
interessati, entro 60 giorni dalla comunicazione, davanti al Tribunale civile. Il Tribunale dispone del potere di sospendere in via
cautelare l’esecuzione della decisione del garante, inoltre, il giudice civile, in queste vertenze, provvede “anche in deroga al divieto
di cui all’art. 4” della legge di abolizione del contenzioso amministrativo.

5. Le disposizioni processuali particolari per il giudizio in cui sia parte un’Amministrazione statale La circostanza che
parte in giudizio sia una P.A. non comporta, di per sé, alcuna variazione delle regole del processo comune. Una variazione di
rilievo rispetto alla regola ordinaria è quella determinata dalla disciplina dell’ Avvocatura dello Stato, nel caso di giudizi in cui sia
parte un’Amministrazione statale. La difesa in giudizio delle Amministrazioni statali spetta all’Avvocatura dello Stato, che ha sede
presso ciascun distretto di Corte d’appello (a Roma invece ha sede l’Avvocatura generale dello Stato, che assicura la difesa delle
Amministrazioni statali, oltre che avanti agli organi giudiziari del distretto, anche avanti alle giurisdizioni superiori, come la Corte
di cassazione). L’Avvocatura dello Stato rappresenta e assiste l’Amministrazione statale in forza della legge, senza la necessità di
uno specifico mandato; di conseguenza può compiere gli atti processuali per l’Amministrazione statale senza la necessità di una
procura.
Per i giudizi civili in cui sia parte un’Amministrazione statale, l’art. 25 C.P.C. assegna la competenza territoriale al giudice del luogo
ove ha sede l’Avvocatura dello Stato (c.d. foro erariale): la modifica alla disciplina generale vale, però, solo per le cause di
competenza dei Tribunali e delle Corti d’appello e non si estende alle controversie di lavoro.
Inoltre, nelle cause promosse contro Amministrazioni statali, gli atti introduttivi del giudizio devono essere notificati
all’Amministrazione statale (intesa come Ministero) competente, nella persona del rispettivo Ministro, presso l’ufficio
dell’Avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede il giudice adito. L’eventuale errore nella identificazione dell’Amministrazione
statale competente deve essere eccepito dall’Avvocatura dello Stato non oltre la prima udienza, con contestuale indicazione
dell’Amministrazione competente: se viene eccepito, il giudice fissa un termine per la rinnovazione dell’atto e la rinnovazione
tempestiva preclude qualsiasi decadenza.

6. Il giudice ordinario e le controversie di lavoro dei dipendenti delle Amministrazioni


Prima della riforma del 1993 per i dipendenti degli enti pubblici erano previste due diverse discipline: i dipendenti degli enti
pubblici economici erano soggetti a un rapporto di lavoro di diritto privato, secondo le regole del c.c., mentre i dipendenti degli
altri enti pubblici erano soggetti in genere a un rapporto pubblicistico, il c.d. rapporto di pubblico impiego. La diversità di
regime sostanziale si rifletteva anche sulla tutela processuale: per le vertenze dei dipendenti degli enti pubblici economici era
competente il giudice civile (giudice del lavoro), mentre per le vertenze inerenti al pubblico impiego era competente il giudice
amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva.
Il d.lgs. 29/1993 ha introdotto una riforma generale del pubblico impiego, ispirata all’obiettivo della c.d. privatizzazione, o,
meglio, “contrattualizzazione”, del rapporto di pubblico impiego. La disciplina è stata da ultimo raccolta nel d.lgs. 165/2001.
In base a queste disposizioni i rapporti di lavoro dei dipendenti delle P.A. assoggettati precedentemente alla disciplina del pubblico
impiego sono ora regolati innanzitutto dalle disposizioni del c.c. sul rapporto di lavoro dipendente. La disciplina non è
corrispondente in tutto a quella privatistica, perché sono dettate disposizioni speciali sul rapporto di lavoro dei dipendenti delle
Amministrazioni; queste disposizioni speciali, però, non identificano una disciplina alternativa a quella del settore privato (come
era invece per il rapporto di pubblico impiego), ma comportano solo deroghe ad essa. La nuova disciplina, però, non si applica a
tutte le categorie di dipendenti di P.A. Rimangono regolate dai principi sul rapporto di pubblico impiego alcune
categorie di dipendenti dell’Amministrazione statale: i magistrati ordinari e amministrativi, gli avvocati dello Stato, il
personale militare e delle forze di polizia, ecc. Si è delineata pertanto una netta distinzione fra due settori del personale
delle medesime Amministrazioni pubbliche, uno assoggettato al regime contrattuale, l’altro a quello del pubblico impiego,
distinzione che ha riflessi significativi anche sulla tutela giurisdizionale.
La giurisdizione ordinaria non si estende, però, a tutte le vertenze inerenti al personale con rapporto contrattuale: la giurisdizione
amministrativa è stata conservata per le vertenze concernenti le procedure di concorso per l’assunzione del personale. Si tenga
presente che, invece, nel caso degli enti pubblici economici, anche le controversie relative alle procedure concorsuali di assunzione
sono di competenza del giudice ordinario, in coerenza con la convinzione che si tratti di concorsi assoggettati ai principi privatistici.
Si ritiene infatti che l’art. 97 Cost. che prevede fra l’altro la necessità di pubblici concorsi per l’assunzione del personale “nelle
P.A.”, non si riferisca anche agli enti pubblici economici.
La competenza territoriale, per le vertenze di lavoro, spetta al Tribunale civile nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio al quale è
addetto il dipendente o al quale era addetto al momento della cessazione del rapporto: pertanto non si applica la disciplina del
foro erariale. Le Amministrazioni possono avvalersi di propri funzionari per la difesa in giudizio di primo grado, fatta salva la
possibilità, per le Amministrazioni statali, che la difesa sia assunta direttamente dall’Avvocatura dello Stato.
Riguardo ai poteri riconosciuti al giudice ordinario nelle controversie di lavoro con P.A.: è riconosciuta
espressamente al giudice la capacità di adottare qualsiasi ordine di pronuncia, di accertamento, costitutiva o di
condanna, richiesta “dalla natura dei diritti tutelati”. Gli atti unilaterali dell’Amministrazione che ineriscano direttamente al
rapporto con i propri dipendenti sono atti di diritto privato (atti datoriali), e non atti amministrativi. Come si è visto, il giudice può
incidere direttamente sugli atti di diritto comune assunti dall’Amministrazione, anche con pronunce costitutive, mentre nel caso
degli atti amministrativi può solo “disapplicare”. Gli atti amministrativi possono configurarsi solo in una fase logicamente
precedente rispetto agli atti di gestione del rapporto di lavoro: possono rilevare solo come “atti presupposti”.
Nel caso siano pendenti contemporaneamente un giudizio civile in cui l’atto amministrativo rilevi come “presupposto” (fra tali atti
amministrativi, nel caso dello Stato e degli enti pubblici istituzionali, vi sono gli atti di organizzazione) e sia passibile di
disapplicazione, e un giudizio amministrativo in cui lo stesso atto sia oggetto di impugnazione e sia passibile di annullamento (in
tal caso l’atto di organizzazione lede direttamente l’interesse legittimo del dipendente), la pendenza del giudizio amministrativo
non costituisce causa di sospensione del giudizio civile. Il potere del giudice ordinario di verificare la legittimità dell’atto
amministrativo non è subordinato a quello del giudice amministrativo. L’esclusione della sospensione rende maggiore la possibilità
di un contrasto, seppur solo materiale, fra giudicati.

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7. L’esecuzione forzata nei confronti dell’Amministrazione


I principi già considerati a proposito del giudizio di cognizione hanno una portata generale e valgono perciò anche per
l’esecuzione forzata. Di conseguenza si devono ritenere esperibili nei confronti dell’Amministrazione tutte le forme di esecuzione
forzata previste dal C.P.C.
a) Non tutti i beni dell’Amministrazione possono essere soggetti a esecuzione forzata. Non possono essere
assoggettati ad esecuzione forzata i beni demaniali. Si ritiene che non possano essere assoggettati ad esecuzione forzata neppure
i beni del patrimonio indisponibile. Si deve perciò concludere che solo i beni del patrimonio disponibile sono passibili di esecuzione
forzata. In realtà, come si vedrà (sub c) è in atto una tendenza che tende a limitare anche la pignorabilità dei beni del patrimonio
disponibile.
b) L’espropriazione di crediti dell’Amministrazione è stata oggetto in passato di vivaci discussioni, che non sembrano
ancora superate. Innanzitutto era esclusa la possibilità di espropriare crediti di cui l’Amministrazione fosse titolare in virtù di
rapporti pubblicistici, ed è questo tuttora l’indirizzo della giurisprudenza in tema di crediti per entrate tributarie. Rispetto alle
somme già nella disponibilità dell’Amministrazione, si tendeva a limitare pesantemente la possibilità di una espropriazione, perché
si riconosceva all’Amministrazione una sorta di discrezionalità nella graduazione del pagamento dei suoi debitori. In pratica, se
l’Ente pubblico non aveva stanziato nel suo bilancio una somma ad hoc, l’esecuzione era esclusa. Solo intorno al 1980 la Cassazione
ha mutato indirizzo, riconoscendo che le previsioni dei bilanci degli Enti non possono limitare le possibilità di esecuzione forzata.
Alle procedure di pagamento e ai bilanci deve essere riconosciuta una rilevanza sostanzialmente “interna”. La Cassazione (Cass.
sez. I, 2000) sembra fare eccezione solo per quei fondi pubblici che siano soggetti a un particolare vincolo di destinazione specifica,
diverso da quello risultante dal bilancio o da un mero impegno di spesa, e imposto da una legge speciale. In questo caso
l’impignorabilità discenderebbe dal fatto che il vincolo di destinazione avrebbe una rilevanza esterna.
c) Su questo quadro incide, però, pesantemente una legislazione speciale. Il legislatore ha introdotto nuovi limiti
all’espropriabilità dei beni dell’Amministrazione, precludendo del tutto l’espropriazione di beni e limitando l’espropriazione dei
crediti alle somme non impegnate dall’Ente per “servizi pubblici essenziali”. In altre ipotesi le innovazioni hanno riguardato i
termini per l’adempimento di sentenze di condanna, introducendo un termine dilatorio per l’esecuzione forzata nei confronti
delle Amministrazioni pubbliche e degli enti pubblici non economici. Questo indirizzo legislativo è di dubbia legittimità
costituzionale, ma la Corte Cost. Ha respinto fino ad oggi le censure di illegittimità costituzionale.
d) La sentenza del giudice civile può essere eseguita, oltre che nelle forme previste dal C.P.C., anche nelle
forme del giudizio di ottemperanza, davanti al giudice amministrativo. Accettata la tesi secondo cui il creditore
dell’Amministrazione avrebbe la facoltà di scegliere se promuovere l’esecuzione forzata o il giudizio di ottemperanza. L’art. 112
c.p.a. riconosce oggi in via generale l’ammissibilità del giudizio di ottemperanza per l’esecuzione delle sentenze del
giudice ordinario passate in giudicato. Si tenga presente che nel giudizio di ottemperanza il giudice amministrativo esercita
una giurisdizione “anche in merito” e può provvedere ad assumere tutte le iniziative necessarie per eseguire la sentenza. Di
conseguenza non incontra limiti particolari connessi alla garanzia della posizione dell’Amministrazione.

I RICORSI AMMINISTRATIVI
1. Principi generali
L’art. 3 dell’allegato E alla legge del 1865 contemplava il “ricorso in via gerarchica” come rimedio generale per
l’impugnazione dei provvedimenti amministrativi; l’art. 9 dell’allegato D contemplava il ricorso straordinario come
rimedio generale per l’impugnazione, per motivi di legittimità, dei provvedimenti amministrativi definitivi. Fino
all’istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato, i ricorsi in via amministrativa rappresentarono lo strumento fondamentale per
la tutela delle posizioni soggettive non tutelabili davanti al giudice ordinario e per ottenere l’annullamento dei provvedimenti
amministrativi. Ricorso gerarchico e ricorso straordinario sono gli esempi più importanti di ricorsi amministrativi. Questi ricorsi
sono rimedi giuridici, diretti a un’autorità amministrativa per ottenere da essa l’annullamento di un provvedimento amministrativo,
o la sua riforma, nel caso del ricorso gerarchico e del ricorso in opposizione. L’atto con cui l’organo competente provvede su un
ricorso amministrativo non è un atto giurisdizionale, ma è un provvedimento amministrativo.
La collocazione dei ricorsi amministrativi nel contesto della funzione amministrativa, e non della funzione giurisdizionale, non deve,
però, far passare in secondo piano la specificità della funzione amministrativa attivata da un ricorso. I ricorsi amministrativi sono
strumenti di tutela di interessi qualificati e, quindi, di interessi legittimi o diritti soggettivi. Ciò comporta, innanzitutto, una
legittimazione limitata per la presentazione del ricorso. In secondo luogo, la “funzionalità” alla tutela del cittadino comporta che
l’autorità competente, nel valutare e decidere un ricorso, debba attenersi al ricorso stesso e non possa introdurre d’ufficio motivi
diversi da quelli dedotti nel ricorso: vige, insomma, un principio dispositivo (o, meglio, principio della domanda).
Nel nostro ordinamento sono previste varie tipologie di ricorsi amministrativi: la loro disciplina generale è contenuta
nel d.p.r. 1199/1971. In questo d.lgs. sono contemplate quattro tipologie di ricorsi: gerarchico, gerarchico improprio,
di opposizione, straordinario. Hanno carattere di rimedi generali il ricorso gerarchico e il ricorso straordinario. Gli altri,
invece, hanno carattere di rimedi tassativi, perché sono esperibili solo quando siano espressamente previsti da una specifica
disposizione.

a) distinzione fra ricorsi ordinari e ricorso straordinario.


I ricorsi ordinari sono ammessi solo nei confronti di un provvedimento non definitivo. Con il d.p.r. 1199/1971 è stata introdotta la
regola secondo cui il ricorso ordinario è ammesso in unico grado: di conseguenza, se l’atto amministrativo da impugnare non è
già di per sé definitivo, la definitività si consegue dopo aver esperito solo un grado di ricorso amministrativo. Ricorsi ordinari sono
il ricorso gerarchico (proprio e improprio) e il ricorso in opposizione. Si ricordi che definitività significa ora solamente che quell’atto
non è assoggettato a ricorsi ordinari.
Per valutare la rilevanza che assume oggi (dopo la riforma del 1971) la distinzione fra ricorsi ordinari e ricorso
straordinario, è utile considerare che:
--‐ nei confronti dei provvedimenti non definitivi lesivi di interessi legittimi, oggi, dopo l’istituzione dei Tar, sono
ammessi sia il ricorso al giudice amministrativo, che
17il ricorso amministrativo ordinario;

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--‐ nei confronti dei provvedimenti definitivi lesivi di interessi legittimi, sono ammessi sia il ricorso al giudice
amministrativo, che (in alternativa al primo) il ricorso straordinario;
--‐ il ricorso al giudice amministrativo può essere esperito sia nei confronti di un provvedimento definitivo, che
nei confronti di un provvedimento non definitivo;
--‐ nei confronti dei provvedimenti lesivi di diritti soggettivi, il ricorso amministrativo ordinario di regola è facoltativo
(e quindi l’azione avanti al giudice civile è ammessa anche in relazione a provvedimenti non definitivi); fanno eccezione
i casi di giurisdizione condizionata.
--‐
b) Distinzione fra rimedi rinnovatori e rimedi eliminatori (o cassatori).
Alcuni ricorsi amministrativi possono comportare solo “l’eliminazione” (l’ annullamento) del provvedimento impugnato.
L’eliminazione dell’atto impugnato non comporta necessariamente la conclusione della pratica. L’eliminazione del provvedimento
impugnato, di regola, fa salva pertanto la possibilità di ulteriori provvedimenti sulla medesima pratica, provvedimenti che non
attengono alla decisione del ricorso, ma all’esercizio di funzioni di amministrazione attiva.
Altri ricorsi amministrativi comportano, invece, la devoluzione dell’intera pratica all’organo competente a decidere il ricorso. Nella
decisione del ricorso, in questo caso, non solo sono effettuate le valutazioni circa la legittimità o l’opportunità dell’atto impugnato,
ma anche è assunta la determinazione concreta sulla pratica. Nel caso dei ricorsi “rinnovatori” la decisione assorbe in sé, oltre
alle valutazioni sull’atto impugnato, anche il riesame della pratica: col ricorso si avvia un procedimento che comporta, oltre
all’eliminazione dell’atto, anche la sua sostituzione con un altro (“riforma”). Sono rimedi rinnovatori il ricorso gerarchico proprio e
il ricorso in opposizione. E’ solo eliminatorio il ricorso straordinario. Il ricorso gerarchico improprio ha normalmente carattere
eliminatorio.

c) Distinzione fra ricorsi ammessi solo per vizi di legittimità e ricorsi ammessi anche per vizi di merito.
Il ricorso gerarchico è rimedio attraverso il quale viene richiesto un nuovo esercizio del potere amministrativo all’organo
gerarchicamente sovraordinato, per qualsiasi ordine di censure prospettate da un cittadino. L’utilità del ricorso non è circoscritta
ai soli vizi di legittimità, perché l’organo adito col ricorso ha già di per sé una capacità di provvedere che si estende a qualsiasi
profilo dell’atto impugnato, proprio in virtù del rapporto gerarchico che la collega con l’organo che ha emanato l’atto di primo
grado. In questo contesto il ricorso gerarchico finisce con l’assumere un rilievo nuovo, nell’organizzazione amministrativa: non è
più riflesso dei poteri riconosciuti al superiore gerarchico, ma è esso stesso strumento per introdurre un potere di ingerenza
dell’organo superiore rispetto all’operato dell’organo di primo grado. Il ricorso straordinario è invece rimedio ammesso solo per
vizi di legittimità.
La situazione soggettiva qualificata fatta valere dal ricorrente non rappresenta invece, in via di principio, un
elemento discriminante nel quadro dei ricorsi amministrativi. Tale situazione può corrispondere indifferentemente a un
diritto soggettivo o a un interesse legittimo: la ragione dei ricorsi amministrativi non è la tutela di una particolare situazione
soggettiva, ma è la garanzia del cittadino che assume di essere stato leso da un provvedimento illegittimo dell’Amministrazione e
che ne chiede perciò la rimozione.
Riguardo il problema della tutelabilità anche degli interessi semplici o di fatto: l’esclusione di questi interessi appare coerente con
la constatazione che nel nostro ordinamento i rimedi giuridici sono di regola strumenti “a legittimazione limitata”, proponibili, cioè,
solo da parte di certe categorie di soggetti, selezionati in base agli interessi di cui assumono di essere titolari. I rimedi “a
legittimazione diffusa” sono assolutamente eccezionali e corrispondono alle c.d. azioni popolari, molto rare anche nell’ambito dei
ricorsi amministrativi.
Tutti i ricorsi amministrativi hanno carattere di “rimedi formali”: sono assoggettati a modalità particolari di presentazione e a
termini tassativi di proposizione. La loro violazione preclude la stessa configurabilità dell’impugnativa come ricorso e, secondo
l’interpretazione prevalente, la contestazione della legittimità dell’atto impugnato varrebbe, in questo caso, come semplice
esposto.

2. Il ricorso gerarchico: procedimento e decisione


Il d.p.r. 1199/1971 detta una disciplina del ricorso gerarchico ispirata all’esigenza di assicurare una grande semplicità di forme e
la limitazione degli adempimenti a quelli strettamente essenziali per il rimedio stesso. Il ricorso deve essere diretto all’organo
gerarchicamente sovraordinato a quello che ha emanato l’atto impugnato e va proposto entro 30 giorni dalla notificazione, o
comunicazione, o pubblicazione o piena conoscenza dell’atto da impugnare. La presentazione è agevolata dal fatto che può
avvenire anche a mezzo del servizio postale e in tal caso, in deroga alle regole generali, la data di spedizione con raccomandata
a.r. vale come data di presentazione. Il ricorso erroneamente rivolto a un organo diverso da quello competente, ma appartenente
alla stessa Amministrazione di quest’ultimo, non è irricevibile: l’organo che lo ha ricevuto provvede d’ufficio a trasmetterlo
all’organo competente (art. 2). Anche il ricorso gerarchico non sospende l’efficacia del provvedimento impugnato: “per gravi
motivi” l’organo competente per la decisione del ricorso può sospenderne, anche d’ufficio, l’esecuzione (art. 3). Dopo aver acquisito
le eventuali deduzioni dei controinteressati e aver effettuato gli adempimenti istruttori che ritiene opportuni (art. 4), l’organo
competente decide il ricorso, esercitando, nel caso di accoglimento, anche poteri rinnovatori (art. 5). Approfondiamo alcuni punti:

a) individuazione dell’organo cui è diretto il ricorso gerarchico (“organo sovraordinato”) (art. 1 c.1 d.p.r.
1199/1971).
Dato che il ricorso gerarchico, in seguito alla riforma del 1971, è ammesso in unico grado, la norma va interpretata nel senso che
il ricorso va diretto all’organo “immediatamente” sovraordinato rispetto a quello di primo grado: se una legge speciale non prevede
diversamente, la competenza a decidere il ricorso gerarchico non spetta più all’organo situato al vertice dell’Amministrazione. La
relazione di gerarchia che rileva ai fini dell’ammissibilità del ricorso gerarchico è solo quella di ordine “esterno”. La gerarchia
interna non interessa ai fini del ricorso gerarchico, perché non incide sui rapporti fra amministrazione e cittadino, ma rigu arda
solo l’organizzazione interna del lavoro in un apparato burocratico e, in particolare, i rapporti fra due persone appartenenti a una
medesima struttura organizzativa. La gerarchia esterna è tipica dell’amministrazione statale: si pensi al rapporto fra il Prefetto e
il Questore. La gerarchia esterna può sussistere anche in amministrazioni diverse da quella statale; invece, di regola, non è

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configurabile nei rapporti fra gli organi di un ente locale (Comune o Provincia), o di una Regione. b) tutela del contraddittorio
(art. 4 c.1 e 2).
Il ricorrente non è tenuto a dare notizia del ricorso né all’organo che ha emesso l’atto di primo grado, né ai c.d. controinteressati
(ossia ai soggetti che hanno un interesse qualificato alla conservazione dell’atto impugnato). Rispetto all’organo di primo grado
non è prevista alcuna forma di contraddittorio: nel ricorso gerarchico l’interesse istituzionale dell’Amministrazione è già garantito
dal fatto che il ricorso sia diretto all’organo sovraordinato a quello che ha emanato l’atto impugnato. Per quanto riguarda i
controinteressati, si impone all’organo adito con il ricorso di comunicarlo (il ricorso) ai controinteressati stessi, per consentire ad
essi di presentare “deduzioni (memorie scritte) e documenti”. Nel ricorso gerarchico non vi è una garanzia piena del
contraddittorio, come invece è prescritto per il procedimento giurisdizionale. Per es., non è neppure garantito al ricorrente il diritto
di replicare alle “deduzioni” dei controinteressati. c) istruttoria (art. 4 c.3).
I poteri istruttori di cui dispone l’organo competente a decidere il ricorso gerarchico sono definiti molto sommariamente nell’art.
4 c.3: l’Amministrazione può disporre tutti gli “accertamenti utili ai fini della decisione”. Si ritiene che l’Amministrazione possa
disporre ogni mezzo istruttorio opportuno, purché sia congruente con le questioni sollevate nel ricorso. Sulle parti (e, in particolare,
sul ricorrente) non grava alcun onere della prova, e perciò la verifica dei fatti segnalati dalle parti è a carico esclusivo
dell’amministrazione. Riguardo all’introduzione d’ufficio di fatti diversi da quelli acquisiti nel procedimento concluso con l’atto
impugnato o allegati nel ricorso gerarchico: preferibile la tesi negativa. d) decisione (art. 5).
L’art. 5 individua i contenuti possibili della decisione del ricorso gerarchico. Tali contenuti riflettono: la distinzione generale fra
decisioni di rito (rispetto alle quali è assorbente una questione attinente alle condizioni di ammissibilità del ricorso) e decisioni di
merito (decisioni sulla fondatezza o meno dei motivi del ricorso), il carattere rinnovatorio del ricorso gerarchico (è contemplata la
“riforma” dell’atto di primo grado), la pregnanza del principio della domanda (l’autorità competente può decidere il ricorso
esercitando poteri rinnovatori solo se in tali senso sia richiesto nel ricorso stesso; altrimenti è necessario “il rinvio dell’affare”
all’autorità di primo grado).
e) Rapporti con il ricorso giurisdizionale.
Se nei confronti dello stesso atto venga proposto, dal medesimo cittadino, sia il ricorso gerarchico che quello giurisdizionale,
secondo la giurisprudenza prevarrebbe sempre il ricorso giurisdizionale, con la conseguenza che il ricorso gerarchico, se proposto
per primo, diventerebbe improcedibile, ovvero, se proposto dopo quello giurisdizionale, sarebbe inammissibile. Questa regola
riflette la convinzione che non sia possibile la contemporanea pendenza di due rimedi equipollenti nei confronti di un medesimo
atto e che, come criterio per valutare a quale rimedio si debba accordare la preferenza, dovrebbe valere la maggiore compiutezza
di garanzie offerte dalla tutela giurisdizionale.
L’incompatibilità dei due rimedi era sancita dalla legge Tar (art. 20 c.2), con riferimento al caso di un atto che avesse leso gli
interessi legittimi di più cittadini. Se alcuni cittadini avessero proposto contro quell’atto un ricorso giurisdizionale, il ricorso
gerarchico proposto dagli altri diventava improcedibile e i ricorrenti in sede gerarchica avrebbero dovuto riproporre il loro ricorso
in sede giurisdizionale; a tal fine l’amministrazione era obbligata ad informare i ricorrenti in sede gerarchica della pendenza del
ricorso giurisdizionale. Questa disposizione, però, è stata abrogata con l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo
(d.lgs. 104/2010), senza essere sostituita da altre previsioni.
La tesi della prevalenza del ricorso giurisdizionale non sembra invece considerare l’ipotesi della contemporanea pendenza dei due
ricorsi, quando essi però abbiano contenuti diversi: si pensi al caso di un ricorso gerarchico che contenga solo censure di merito
e al ricorso giurisdizionale proposto per motivi di legittimità. Ritenere che anche in questo caso si abbia una incompatibilità fra i
due ricorsi e, pertanto, prevalga il ricorso giurisdizionale comporta effetti negativi per il cittadino che abbia proposto ricorso in
sede gerarchica: di regola, in sede giurisdizionale, non sono ammessi ricorsi per motivi di merito.

f) Rimedi ammessi contro la decisione del ricorso gerarchico.


La decisione del ricorso gerarchico costituisce un provvedimento definitivo. Essa pertanto è impugnabile con ricorso straordinario
oppure, se lede interessi legittimi, anche con ricorso al giudice amministrativo (e fatta salva, in ogni caso, la tutela dei diritti
davanti al giudice civile). In quest’ultimo senso disponeva l’art. 20 c.1, legge Tar, ora abrogato. Pertanto oggi la possibilità di
impugnare in sede giurisdizionale la decisione del ricorso gerarchico si fonda sui principi generali in tema di tutela giurisdizionale
contro gli atti amministrativi.

3. Il ricorso gerarchico: il problema del “silenzio”


Questa situazione è considerata oggi dall’art. 6 d.p.r. 1199/1971 e dall’art. 20 c.1 legge Tar. Da queste due disposizioni si desume
la fissazione di un termine di 90 giorni perché l’Amministrazione decida il ricorso gerarchico. Quali effetti produca, però, la scadenza
del termine è oggetto tuttora di ampie discussioni. Le stesse elaborazioni della giurisprudenza si incentrano ormai su conclusioni
distanti dalla formulazione delle due disposizioni, tanto che, per capire quale sia la posizione accolta più di recente dal Consiglio
di Stato, è necessario seguire le evoluzioni interne alla giurisprudenza stessa.
La prima giurisprudenza della Quarta sezione prospettò la conclusione che, in concorso con altre circostanze, il silenzio mantenuto
su un ricorso gerarchico non precludesse la possibilità di proporre il ricorso giurisdizionale. Il ricorso giurisdizionale doveva ritenersi
possibile, perché il “silenzio” mantenuto dall’Amministrazione doveva interpretarsi come reiezione del ricorso. Nel silenzio si doveva
individuare una decisione di rigetto: da qui il termine “silenzio-rigetto”. La possibilità di individuare in un comportamento omissivo
dell’Amministrazione un atto amministrativo rifletteva certamente un modo di ragionare tipico di quell’epoca. Oggi questo modo
di ragionare in genere non viene più condiviso (oggi, nel silenzio, non si può identificare alcun atto). Tuttavia, l’interpretazione
del silenzio come atto realizzava una precisa utilità, perché consentiva la tutela giurisdizionale in casi in cui essa, altrimenti,
sarebbe risultata esclusa.
Dopo la riforma del 1971, superata l’interpretazione tradizionale del “silenzio-rigetto”, emersero posizioni molto eterogenee.
Finalmente, nel 1978 l’Adunanza plenaria riprendeva in esame la questione, alla luce specificamente delle due disposizioni citate
all’inizio, e prospettava le seguenti conclusioni:
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a) nel silenzio mantenuto su un ricorso gerarchico non è identificabile un provvedimento di rigetto; b) in ogni caso,
in ossequio al dettato normativo, una volta formatosi il silenzio-rigetto, il ricorso giurisdizionale si può proporre
solo contro l’atto di primo grado, già impugnato in via gerarchica; c) proprio perché la decorrenza del termine, anche
se non implica l’assunzione di un atto amministrativo, ha pur sempre “valore” equipollente a una decisione di rigetto,
ogni eventuale decisione successiva di accoglimento del ricorso deve ritenersi illegittima, perché assunta in
violazione del principio “ne bis in idem” (“non si giudichi due volte sul medesimo fatto”);
d) viceversa, la decisione successiva di rigetto esplicito del ricorso deve ritenersi improduttiva di effetti giuridici
nuovi e, quindi, deve considerarsi come atto meramente “confermativo”, di per sé non impugnabile perché meramente
riproduttivo di effetti precedenti.
La soluzione dell’Adunanza plenaria sembrava risolvere in modo adeguato varie questioni; ma altri problemi, però, non venivano
risolti. In particolare non si capiva perché una decisione tardiva di accoglimento dovesse ritenersi per ciò solo illegittima, con la
conseguenza che il ritardo nella decisione provocato da un fatto dell’Amministrazione si risolverebbe in un danno per il cittadino.
Nel 1989 il tema fu nuovamente preso in esame dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato. In quest’occasione, ha sostenuto
che la formazione del silenzio-rigetto non priva l’Amministrazione del potere di decidere il ricorso gerarchico (e quindi le decisioni
tardive non sono di per sé illegittime), ma consente al ricorrente di scegliere fra la possibilità di un ricorso giurisdizionale o
straordinario contro l’atto impugnato in via gerarchica, e la possibilità di attendere la decisione del ricorso gerarchico.
Si noti che, alla stregua di questa interpretazione più recente, sulla quale si è basata la giurisprudenza successiva, il silenzio-
rigetto finirebbe col rappresentare sempre di meno uno strumento di raccordo fra il ricorso amministrativo e il ricorso
giurisdizionale (o straordinario). Invece assumerebbe sempre di più il ruolo di strumento produttivo di utilità proprie, in particolare
di rimedio idoneo a garantire effettivamente una tutela estesa al merito, anche se il ricorso giurisdizionale rimane circoscritto ai
profili di mera legittimità.

4. Il ricorso gerarchico improprio e il ricorso in opposizione


Il ricorso gerarchico improprio e il ricorso in opposizione sono rimedi eccezionali: la loro esperibilità presuppone una
specifica previsione normativa. L’art. 1 c.2 d.p.r. 1199/1971, sul ricorso gerarchico improprio, esclude che un tale disposizione
normativa debba essere costituita necessariamente da una disposizione di legge: infatti sono contemplati espressamente, in
alternativa alla legge, gli “ordinamenti dei singoli enti”. Il ricorso gerarchico improprio si caratterizza per essere diretto a un organo
non gerarchicamente sovraordinato rispetto a quello che ha emanato l’atto impugnato, il ricorso in opposizione è invece diretto
allo stesso organo che ha emanato l’atto impugnato. La disciplina dei due rimedi è la stessa prevista per il ricorso gerarchico,
salvo che per quanto diversamente previsto da singole normative speciali.
Il ricorso gerarchico improprio è un rimedio previsto in alcune materie particolari (impiego scolastico, ordinamenti
professionali, commercio, ecc.), in ipotesi nelle quali l’atto da impugnare sarebbe stato, alla stregua dei principi, già di per sé
definitivo. Si pensi al caso di un atto emesso da un organo che sia collocato istituzionalmente al vertice della scala gerarchica,
ovvero all’atto emesso da un organo collegiale (gli organi collegiali sono considerati tradizionalmente come organi estranei a
vincoli gerarchici). In queste ipotesi talvolta è ammesso ugualmente un ricorso ad un organo diverso, anche se manca una
giustificazione in un rapporto gerarchico. Sembra logico concludere che il ricorso gerarchico improprio debba essere ammesso
solo nell’ambito di una identica Amministrazione, e non nell’ambito di Amministrazioni diverse, caratterizzate reciprocamente da
posizioni di autonomia costituzionalmente garantite (si pensi ai rapporti fra enti locali, Regionali e Stato). Questa impostazione
non è accolta, però, dal Consiglio di Stato, che in sostanza tende a considerare con una certa larghezza la possibilità di ricorsi che
coinvolgano Amministrazioni diverse, in omaggio ad un preteso carattere “giustiziale” dei ricorsi amministrativi, che li renderebbe
estranei a qualsiasi logica di controllo. Quindi sarebbe possibile il ricorso gerarchico improprio ad autorità statale, anche nei
confronti di un atto regionale (es., in materia di revisione prezzi per gli appalti pubblici). Il ricorso in opposizione rappresenta
uno strumento di limitata utilizzazione, previsto in ipotesi molto particolari, che ricorrono soprattutto nel pubblico impiego. Scarso
sviluppo dovuto alla diffidenza verso la capacità dell’autorità che abbia emanato l’atto impugnato di valutare in modo
effettivamente imparziale il ricorso diretto contro il proprio atto. Anche in questo caso il ricorso dà inizio a un procedimento
contenzioso, di secondo grado, e non a un procedimento di amministrazione attiva.

5. Il ricorso straordinario
Fra i ricorsi amministrativi il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (nella Regione siciliana al Presidente della
Regione) si caratterizza per l’attuazione più puntuale della garanzia del contraddittorio e, soprattutto, per l’introduzione di uno
strumento specifico di garanzia, rappresentato dal parere del Consiglio di Stato. E’ previsto un termine per la presentazione del
ricorso di 120 giorni. Il ricorso straordinario è ammesso contro provvedimenti definitivi, in relazione solo a censure di
legittimità, per l’annullamento dell’atto impugnato. Il codice del processo amministrativo, però, ne ha circoscritto la portata
alle sole vertenze che risultino devolute al giudice amministrativo; inoltre ne ha escluso l’esperibilità nelle vertenze concernenti le
procedure per l’affidamento di contratti pubblici.
Entro 120 giorni dalla comunicazione, notificazione, ecc., il ricorso straordinario, a pena di inammissibilità, deve essere notificato
ad almeno uno dei controinteressati e presentato all’autorità amministrativa che ha emanato l’atto impugnato o al Ministero
competente per materia. Se la presentazione avviene tramite raccomandata a.r. vale la data di spedizione. I controinteressati
entro 60 giorni dalla notificazione del ricorso possono presentare “deduzioni e documenti”, ed eventualmente un ricorso
incidentale. Avvenuta la notificazione ad almeno uno dei controinteressati, il Ministero competente dispone l’integrazione del
contraddittorio. Su richiesta del ricorrente il Ministero può sospendere, in via cautelare, l’atto impugnato, previo parere conforme
del Consiglio di Stato.
Una volta presentato il ricorso ed integrato il contraddittorio, il Ministero competente deve procedere all’istruzione del ricorso,
raccogliendo tutti gli elementi utili per la valutazione del ricorso. L’istruttoria va completata nei 120 giorni successivi al termine
per le deduzioni del controinteressati. Scaduto inutilmente il termine (come si verifica di frequente), è consentito al ricor rente
procedere all’interpello del Ministero e successivamente depositare direttamente il ricorso presso il Consiglio di Stato, per il parere
prescritto. Una volta conclusa l’istruttoria, il ricorso, con tutti gli atti relativi, è trasmesso dal Ministero al Consiglio di Stato per il
suo parere. Sulla base del parere del Consiglio, il Ministro formula la sua proposta di decreto al Presidente della Repubblica. In
passato, il parere del Consiglio di Stato non era vincolante. Oggi, invece, l’art. 69 della legge 69/2009 ha stabilito che la proposta
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del Ministro deve essere “conforme al parere del Consiglio di Stato”. In passato si riconosceva al Ministro un potere decisorio,
ancorché temperato dall’intervento consultivo del Consiglio; se disattendeva il parere del Consiglio, investiva del ricorso il Consiglio
dei ministri. Invece oggi, essendo il parere vincolante, l’esito del ricorso è rimesso al Consiglio. Il Consiglio, ai fini della decisione
del ricorso straordinario, può sollevare questioni di legittimità costituzionale. La decisione del ricorso è impugnabile per
revocazione, con ricorso da proporre nelle stesse forme del ricorso straordinario; inoltre è ammessa l’impugnazione in sede
giurisdizionale.
Il profilo più peculiare della disciplina del ricorso straordinario è costituito dalla sua alternatività con il ricorso al giudice
amministrativo: non solo i due rimedi non possono essere proposti contro il medesimo atto, ma non vale neppure un criterio di
preferenza per il ricorso giurisdizionale e la presentazione del ricorso straordinario preclude la proposizione del ricorso
giurisdizionale. L’alternatività si spiega con l’esigenza di evitare una concorrenza fra il Consiglio di Stato in sede consultiva e il
Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (che in passato si pronunciava in unico grado e oggi si esprime in grado d’appello sui
ricorsi giurisdizionali).
L’alternatività fra il ricorso straordinario e il ricorso giurisdizionale comporta l’inammissibilità del ricorso al giudice amministrativo,
proposto contro il medesimo atto impugnato in via straordinaria. La preclusione della tutela giurisdizionale potrebbe ledere i diritti
dei controinteressati, i quali sarebbero assoggettati alla scelta del ricorrente e non potrebbero quindi ottenere, sul medesimo
provvedimento, una decisione giurisdizionale. Per evitare questa conseguenza l’art. 10 d.p.r. 1199/1971 contempla l’istituto
dell’opposizione dei controinteressati: essi, entro 60 giorni dalla notificazione del ricorso straordinario, possono chiedere che il
ricorso sia deciso in sede giurisdizionale. A questo punto il ricorrente, se vuole insistere nell’impugnazione, ha l’onere di costituirsi
entro 60 giorni avanti al Tar e di notificarne avviso alle altre parti.
Per identità di ragioni, la facoltà riconosciuta dalla legge ai controinteressati può essere esercitata anche dall’Amministrazione non
statale che abbia emanato il provvedimento impugnato. E alla luce dell’art. 69 legge 69/2009, il Ministro non è più titolare di un
effettivo potere decisorio e perciò sono venute meno le ragioni su cui si fondava l’esclusione per le amministrazioni statali della
facoltà di proporre opposizione (tali ragioni si fondavano, infatti, sulla considerazione che l’esito del ricorso sarebbe stato deciso
dal Ministro).
Il principio dell’alternatività ha riflessi anche sull’ impugnazione giurisdizionale della decisione del ricorso straordinario.
L’impugnazione della decisione avanti al giudice amministrativo (il Tar) è ammessa solo per “vizi di forma o di procedimento”. La
limitazione del diritto d’azione è giustificata, nel caso del ricorrente, per il fatto che essa consegue alla sua scelta di proporre il
rimedio straordinario (anziché quello giurisdizionale) e, nel caso del controinteressato, per il fatto che essa consegue alla scelta
di non proporre “l’opposizione” appena esaminata.
Il ricorso straordinario è parso a molti un istituto superato. Tuttavia il legislatore ha preferito conservare l’istituto, seppur
con modifiche sostanziali. Come per gli altri ricorsi amministrativi, l’utilità dell’istituto non va valutata in astratto: si tratta invece
di capire in quale misura il ricorso possa rendere più efficace la tutela del cittadino. Da questo punto di vista va segnalata l’attività
svolta nell’ultimo decennio dal Consiglio per accelerare i tempi di decisione del ricorso straordinario. Oggi la decisione del ricorso
straordinario può intervenire con maggiore sollecitudine della decisione di un ricorso giurisdizionale e questo è senz’altro un punto
a favore dell’istituto. Ovviamente, la decisione del ricorso straordinario non può essere assimilata, dal punto di vista giuridico, a
una decisione giurisdizionale: la decisione del ricorso straordinario è comunque solo un atto amministrativo.

QUADRO GENERALE DELLA GIURISDIZIONE AMMINISTRATIVA


1. Premessa
Come si è visto, il ricorso alla Quarta sezione fu introdotto per estendere la tutela del cittadino nei confronti dell’Amministrazione,
offrendogli la possibilità di ottenere dal Consiglio di Stato una pronuncia costitutiva, di annullamento di un atto amministrativo
illegittimo. Il ricorso al giudice amministrativo fu configurato innanzitutto come mezzo di impugnazione dell’atto amministrativo.
Accanto a questo primo obiettivo, il ricorso al Consiglio ha assicurato un obiettivo ulteriore: la garanzia dell’interesse legittimo. E
ragione essenziale della giurisdizione amministrativa è considerata non tanto l’impugnazione dei provvedimenti, quanto la tutela
dell’interesse legittimo. Questo carattere risulta sancito dall’art. 103 Cost. che identifica la competenza generale del giudice
amministrativo con “la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi”. Di conseguenza la tutela degli
interessi legittimi è devoluta al giudice amministrativo anche quando non sia possibile l’impugnazione di un provvedimento
amministrativo: si pensi, in particolare, alla tutela rispetto al “silenzio” dell’Amministrazione. Queste considerazioni hanno
comportato la necessità di un adeguamento della disciplina al ruolo primario, di garanzia degli interessi legittimi, riconosciuto
anche dalla Costituzione al giudice amministrativo.
Così, nell’esempio già proposto del giudizio in tema di “ silenzio” dell’Amministrazione su richieste di provvedimenti (c.d. silenzio-
rifiuto), a partire dagli anni ’60 fu ammesso un giudizio che prescindeva da un’impugnazione, ancorché fittizia, di un atto
amministrativo e fu costruita un’azione dichiarativa non prevista da alcuna disposizione di legge. Solo con la legge 205/2000
veniva espressamente introdotta una tutela non impugnatoria nei confronti del “silenzio”.
Un ulteriore elemento di complessità, per valutare il quadro generale del giudizio amministrativo, è rappresentato dalla
giurisdizione esclusiva. Nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, il Consiglio alla fine degli anni ’30 ammetteva che il ricorso al giudice
amministrativo non fosse subordinato all’impugnazione di un provvedimento: nei confronti dell’Amministrazione il cittadino può
far valere il suo diritto all’adempimento di un’obbligazione. Sulle aperture giurisprudenziali si è innestato, di recente, anche
l’intervento legislativo. In particolare, uno dei principali obiettivi del codice è stata l’introduzione di modalità di tutela più congrue
per i diritti, non più condizionate dal modello impugnatorio, per es. introducendo in via generale un’azione di condanna.
Nel codice del processo amministrativo sono previste azioni diverse, talvolta articolate nella distinzione fra tutela degli interessi
legittimi e tutela dei diritti soggettivi, e a tali azioni corrispondono contenuti diversi delle sentenze di merito. E’ evidente lo sforzo
di adeguare la disciplina del processo amministrativo al superamento del modello che identificava la tutela nella impugnazione
degli atti amministrativi. Nello stesso tempo, però, emerge anche la volontà di assicurare una omogeneità del processo
amministrativo, proponendone una disciplina unitaria, talvolta a costo di qualche forzatura. Il processo amministrativo è
assoggettato a tutta una serie di regole comuni che investono profili nodali, come, per es., le modalità di introduzione del giudizio,
l’attuazione della garanzia del contraddittorio, lo svolgimento del giudizio, i mezzi istruttori, ecc.

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2. Le classificazioni generali: la giurisdizione di legittimità


L’art. 7 c.3 c.p.a. conferma l’articolazione tradizionale della giurisdizione amministrativa in “giurisdizione generale di legittimità,
esclusiva ed estesa al merito”. Nel comma successivo viene definito il suo ambito. Il riferimento nell’art. 7 c.4 alle vertenze relative
ad atti e provvedimenti va letto considerando la tutela degli interessi legittimi; anche il riferimento alle vertenze concernenti le
“omissioni” attiene essenzialmente alla tutela degli interessi legittimi, lesi dal “silenzio” dell’amministrazione. L’imprecisione del
dettato normativo va innanzitutto alla circostanza che il codice assegna in via generale al giudice amministrativo la giurisdizione
per le vertenze risarcitorie per lesione di interessi legittimi , anche quando esse siano proposte in via autonoma. E le domande
risarcitorie, anche quando sia stato leso un interesse legittimo, hanno ad oggetto un diritto soggettivo, il diritto al risar cimento
dei danni. Pertanto il giudice amministrativo può sempre pronunciarsi con forza di giudicato sul diritto al risarcimento dei danni
cagionati dall’Amministrazione in violazione di interessi legittimi. Ma l’assegnazione al giudice amministrativo consente di
concentrare in un’unica giurisdizione tutte le vertenze derivanti dalla lesione di un interesse legittimo, indipendentemente dal tipo
di azione (impugnatoria o risarcitoria) concretamente esperita dal cittadino: evitando la necessità di due giudizi distinti su un
medesimo episodio di illegittimità amministrativa, la tutela giurisdizionale risulta più agevole e può attuarsi più celermente,
concorrendo così all’obiettivo della “ragionevole durata del processo”.
Rimane fermo, in conclusione, che la giurisdizione di legittimità ha come oggetto essenziale la tutela degli interessi
legittimi. Nei casi di giurisdizione di legittimità (in una controversia su interessi legittimi) la decisione sugli interessi legittimi può
comportare la necessità di un esame e di una pronuncia anche rispetto a diritti soggettivi. In un primo tempo le questioni relative
a diritti furono sempre riservate al giudice ordinario, poi con la riforma del 1923 fu sancito espressamente che il Consiglio potesse
“decidere di tutte le questioni pregiudiziali od incidentali relative a diritti la cui risoluzione sia necessaria per pronunciare sulla
questione principale di sua competenza”.
Solo per le questioni concernenti lo stato e la capacità delle persone (fatta eccezione per la capacità di stare in giudizio, di cui
ciascun giudice può decidere in via principale) e per l’incidente di falso, ogni decisione è riservata al giudice ordinario. Infatti, si
tratta di questioni che si ritiene possano essere decise solo con efficacia di giudicato e che perciò non possono essere oggetto di
cognizione, neppure soltanto in via incidentale, da parte di un giudice diverso da quello istituzionalmente competente.
Rispetto alla giurisdizione estesa al merito: nei casi di giurisdizione di legittimità il giudice amministrativo, che accolga un ricorso
proposto contro un provvedimento, di regola può annullare l’atto impugnato, se lo ritenga viziato per incompetenza, violazione
di legge ed eccesso di potere, ma non può sostituirlo con un proprio atto; nei giudizi sul silenzio, può tutt’al più ordinare
all’amministrazione di provvedere entro un determinato termine, senza per poter provvedere lui stesso in via sostitutiva.

3. (segue): la giurisdizione esclusiva


Accanto alla giurisdizione generale sugli interessi legittimi, in alcune ipotesi è assegnata al giudice amministrativo una
giurisdizione anche sui diritti soggettivi (c.d. giurisdizione esclusiva). In queste ipotesi il cittadino può agire davanti al giudice
amministrativo non solo per tutelare i suoi interessi legittimi che ritenga lesi dall’Amministrazione o per ottenere il risarcimento
dei danni cagionati a tali interessi, ma anche più in generale per tutelare i diritti soggettivi che egli vanti nei confronti di una P.A.
Il giudizio può quindi vertere anche solo su diritti soggettivi diversi dal risarcimento dei danni per lesione di interessi legittimi. Le
materie di giurisdizione esclusiva sono sempre più numerose e importanti, come risulta anche dal loro elenco nell’art. 133 c.p.a.
Le materie più significative devolute alla giurisdizione esclusiva:
--‐ le controversie in tema di risarcimento del danno per inosservanza del termine per la conclusione del procedimento, in
tema di accordi pubblici, in tema di segnalazione certificata di inizio attività, in tema di silenzio-assenso, in tema di
indennizzo dovuto per la revoca di provvedimenti, in tema di accesso ai documenti amministrativi. In questi casi la
giurisdizione esclusiva trova ragione nella correlazione fra le questioni su tali diritti e gli atti o i procedimenti
amministrativi, o (come nel caso degli accordi pubblici) per una affinità di questioni, di caratteri e di effetti con
provvedimenti amministrativi;
--‐ le controversie concernenti la concessione di beni pubblici. La giurisdizione esclusiva non si estende alle controversie
concernenti indennità, canoni o corrispettivi; inoltre non si estende alle controversie sulle concessioni di beni del demanio
idrico, per le quali è competente un giudice speciale;
--‐ varie controversie in materia di pubblici servizi. La Corte Cost. Ha circoscritto la giurisdizione esclusiva in materia di
pubblici servizi alle vertenze sulle concessioni dei servizi, alle vertenze per l’affidamento di un pubblico servizio. Inoltre
sono assegnate alla giurisdizione esclusiva le vertenze in tema di vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato
mobiliare e quelle sul servizio farmaceutico, sui trasporti, sulle telecomunicazioni e sugli altri servizi di pubblica utilità
(energia elettrica e gas);
--‐ le controversie relative alle procedure per l’affidamento di lavori, servizi o forniture da parte di P.A. La giurisdizione
esclusiva riguarda le vertenze relative solo alle “procedure di affidamento”; ma si estende anche alla dichiarazione di
inefficacia del contratto in seguito all’annullamento dell’aggiudicazione;
--‐ le controversie concernenti atti o provvedimenti in materia di urbanistica e di edilizia;
--‐ le controversie in materia di occupazioni d’urgenza o espropriazioni per pubblica utilità, escluse le vertenze in tema
di indennità di occupazione o di esproprio, che sono sempre riservate al giudice ordinario;
--‐ le controversie relative ai rapporti di lavoro del personale in regime pubblicistico (c.d. pubblico impiego). Le vertenze
in materia di pubblico impiego costituivano nella riforma del 1923 l’ambito più importante della giurisdizione esclusiva.
Oggi la loro rilevanza pratica è minore, per effetto della c.d. privatizzazione attuata fra il 1993 e il 1998. Infatti la
disciplina del pubblico impiego ormai riguarda solo quel settore limitato dei dipendenti di enti pubblici con un rapporto
di lavoro non contrattuale;
--‐ le controversie (escluse quelle per rapporti di lavoro) concernenti i provvedimenti anche sanzionatori adottati dalla Banca
d’Italia, da alcune Autorità indipendenti o da Autorità affini (Consob, Autorità per le garanzie nelle comunicazioni,
Isvap, ecc.);
--‐ le controversie concernenti i provvedimenti del Sindaco in materia di ordine e sicurezza pubblica, di incolumità pubblica
e di sicurezza urbana, di edilizia, d’igiene pubblica; --‐ le controversie in materia di debito pubblico.
Nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva il giudice amministrativo può pronunciarsi, con efficacia di giudicato, sia su interessi legittimi
che su diritti soggettivi, ferma restando la competenza del giudice ordinario per le questioni concernenti lo stato e la capacità

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delle persone e per l’incidente di falso. La competenza del giudice amministrativo, nelle materie devolute alla giurisdizione
esclusiva, si estende alle domande risarcitorie, sia per lesione di diritti soggettivi che per lesione di interessi legittimi. Questa
regola risulta oggi definitivamente sancita dall’art. 7 c.5 c.p.a.
L’ampiezza raggiunta dalla giurisdizione esclusiva comporta con maggiore frequenza che il giudizio amministrativo sia promosso
non da un soggetto privato contro un’Amministrazione, ma da un’Amministrazione contro un privato, o da un soggetto privato
contro un altro privato. Questi casi meritano particolare attenzione, dato che la norma costituzionale assegna al giudice
amministrativo “la tutela nei confronti della P.A.”. Di conseguenza l’assegnazione al giudice amministrativo di vertenze promosse
contro soggetti privati va valutata sulla base di canoni rigorosi di coerenza e di ragionevolezza; l’assegnazione al giudice
amministrativo di vertenze promosse contro privati è giustificata dal fatto che il privato svolge compiti di specifica rilevanza
pubblicistica, omogenei a quelli che può svolgere un’amministrazione. Ne è esempio la devoluzione al giudice amministrativo in
via esclusiva delle controversie sul diritto d’accesso, anche quando siano promosse nei confronti di privati “gestori di pubblici
servizi”, o “limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”.

4. La giurisdizione esclusiva nel codice del processo amministrativo: problemi aperti e nuove prospettive
La giurisdizione esclusiva fu introdotta dal legislatore perché in molte vertenze (come in quelle in materia di pubblico impiego)
interessi legittimi e diritti soggettivi risultavano strettamente correlati. In questi casi un riparto fondato sulla natura delle posizioni
soggettive avrebbe potuto obbligare il cittadino a promuovere una pluralità di giudizi, davanti al giudice amministrativo e davanti
al giudice ordinario, in relazione a una identica vicenda: l’assegnazione di una vertenza alla giurisdizione esclusiva doveva invece
rappresentare un elemento di semplificazione. Fra l’altro, in questo modo, per individuare il giudice competente non sarebbe stato
più necessario procedere alla verifica, spesso complessa, della natura delle posizioni soggettive e sarebbe stato sufficiente stabilire
se la vertenza rientrava o meno nell’ambito devoluto dal legislatore al giudice amministrativo in via esclusiva. Il riparto fra giudice
amministrativo e giudice ordinario, nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, segue pertanto il criterio della “materia”: art. 7 c.5 c.p.a.
Le vertenze riconducibili a quella certa materia vanno proposte avanti al giudice amministrativo, anche se il cittadino faccia valere
in giudizio un diritto soggettivo. Stabilire, però, se la vertenza inerisca o meno alla “materia” devoluta alla giurisdizione esclusiva
non è sempre agevole. Le difficoltà nascono da vari fattori. Innanzitutto anche nel codice le disposizioni sulla giurisdizione esclusiva
non sono omogenee e rispecchiano una nozione di “materia” non uniforme.
Oggi, risulta centrale il richiamo alla Corte Cost. che con la sentenza 204/2004, ha sottolineato l’esigenza di una interpretazione
della giurisdizione esclusiva rispettosa dell’art. 103 Cost. Secondo la Corte, l’assegnazione, da parte del legislatore, di materie alla
giurisdizione esclusiva deve presupporre una relazione (“coinvolgimento”) fra l’ambito devoluto alla giurisdizione esclusiva e un
“potere amministrativo”. Maggiori problemi sono sorti nel caso in cui il cittadino sia leso non da un provvedimento, ma da
comportamenti non riconducibili alla titolarità di un potere: si pensi all’inadempimento di un’obbligazione da parte
dell’Amministrazione. Nel corso degli anni ’30 la Cassazione sostenne che l’art. 29 t.u. Cons. Stato, che assegnava al giudice
amministrativo, in via esclusiva, i “ricorsi relativi al rapporto d’impiego”, ricomprendeva anche controversie di questo genere.
Tuttavia, ammettere una tutela dei diritti senza che vi fosse un provvedimento da impugnare comportava notevoli difficoltà. La
disciplina del processo amministrativo, allora dettata dal t.u. Cons. Stato del 1924, prevedeva sempre che il giudizio fosse
introdotto con un ricorso contro un provvedimento, da proporre entro un termine di decadenza. Nessuna disposizione considerava,
invece, l’ipotesi di un diritto fatto valere senza che vi fosse un provvedimento da impugnare. Il Consiglio di Stato, alla fine degli
anni ’30, superò l’equivalenza fra ricorso al giudice amministrativo e impugnazione di un provvedimento, elaborando la distinzione
fra provvedimenti ed “atti paritetici”. Quando sia in discussione un diritto soggettivo del cittadino e l’atto dell’Amministrazione non
costituisca l’esercizio di un “potere”, ma sia meramente “ripetitivo” di un assetto già stabilito dalla norma, allora non è richiesta
l’impugnazione dell’atto, perché comunque la posizione soggettiva fatta valere in giudizio non dipende da esso. Pertanto, in
presenza di un atto “paritetico” non vi è necessità di impugnare l’atto dell’Amministrazione e il ricorso non è neppure soggetto a
un termine di decadenza. La vicenda degli “atti paritetici” riflette la difficoltà di una tutela adeguata dei diritti soggettivi nel
processo amministrativo. Il Consiglio di Stato, con la sua innovazione pretoria, attraverso la nozione di “atto paritetico” configurò,
in un ambito non marginale, un processo svincolato da un rigido modello impugnatorio e superò, per le vertenze concernenti
diritti soggettivi non pregiudicati da provvedimenti, la necessità di proporre il ricorso entro termini di decadenza. Tuttavia il termine
per il ricorso non era l’unico elemento della disciplina del processo amministrativo che non risultava adeguato per la tutela dei
diritti. La disciplina positiva era carente anche per altri profili nodali: per es., per i contenuti della tutela cautelare (nel processo
amministrativo la tutela cautelare si incentrava nella sospensione del provvedimento impugnatorio), per la limitatezza dei mezzi
istruttori (di regola il giudice amministrativo non poteva disporre consulenze tecniche né prove testimoniali). Eppure i contenuti
di un diritto soggettivo sono strettamente legati alle potenzialità della sua tutela giurisdizionale.
Oggi, l’esigenza di assicurare una tutela efficace dei diritti anche nella giurisdizione esclusiva è divenuta ancora più stringente. A
tale esigenza ha dato una prima risposta il codice. La tutela dei diritti è arricchita dall’ampiezza riconosciuta alle misure cautelari,
dal nuovo quadro dei mezzi istruttori, dalla introduzione del procedimento per ingiunzione, soprattutto dalla previsione generale
di sentenze di condanna. In questo modo sembra trovare riscontro il criterio secondo cui la tutela dei diritti soggettivi assegnati
alla giurisdizione esclusiva non deve essere qualitativamente inferiore a quella offerta dal giudice civile. Nella stessa logica si pone
l’art. 12 c.p.a., che consente la devoluzione ad arbitrato (rituale di diritto) delle vertenze sui diritti assegnate alla giurisdizione
esclusiva. E’ dunque superato l’indirizzo della Cassazione che non ammetteva l’arbitrato per le vertenze spettanti a giudici speciali
e che riteneva prevalente l’elemento rappresentato dalla specialità della giurisdizione rispetto all’elemento rappresentato dai criteri
del diritto soggettivo. Queste innovazioni non comportano, però, che nel giudizio amministrativo possano essere esperite, a tutela
dei diritti, tutte le azioni ammesse dal codice di procedura civile.
L’assegnazione della tutela di un diritto al giudice amministrativo può quindi incidere tuttora sui contenuti della tutela. Le previsioni
di giurisdizione esclusiva hanno però conseguenze importanti anche su un piano più generale. In particolare la devoluzione di una
vertenza su diritti alla giurisdizione esclusiva comporta che l’ultima parola sull’interpretazione delle norme applicabili alla vertenza
spetti al Consiglio di Stato, e non alla Cassazione. Infatti, in base all’art. 111 Cost. il ricorso contro le decisioni del Consiglio di
Stato alla Corte di Cassazione è ammesso solo per motivi di giurisdizione, e non per violazione di legge. Di conseguenza,
soprattutto nel caso di ricorsi a tutela dei diritti soggettivi, sulle medesime disposizioni di legge si può formare una giurisprudenza
amministrativa divergente da quella civile. L’estensione della giurisdizione esclusiva incide pertanto anche sul ruolo “nomofilattico”
della Cassazione. Ciò sottolinea l’esigenza di interventi molto23 mirati dal legislatore.

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5. Le classificazioni generali: la giurisdizione estesa al merito


Dopo l’istituzione della giurisdizione esclusiva, in alcuni casi particolari anche la giurisdizione sui diritti fu associata alla giurisdizione
di merito (art. 29 c.3 t.u. Cons. Stato): in questo modo, mentre la giurisdizione di legittimità identificava la modalità generale di
tutela degli interessi legittimi, la giurisdizione di merito identificava una modalità particolare di tutela che poteva
riguardare, oltre che interessi legittimi, anche diritti soggettivi. La stessa soluzione è stata attuata nel codice del processo
amministrativo, dove l’estensione della giurisdizione “al merito” non è specifica della tutela degli interessi legittimi (art. 7 c.3).
L’estensione riguarda ipotesi particolari, corrispondenti alla c.d. giurisdizione di merito, rappresentate da alcuni ordini di
controversie inerenti spesso a diritti soggettivi. Il codice le ha sensibilmente ridotte di numero e le ha elencate tassativamente
nell’art. 134 c.p.a. I casi di giurisdizione di merito hanno pertanto carattere di eccezionalità e non sono passibili di interpretazione
analogica.
Le ipotesi di giurisdizione di merito previste dal codice concernono:
--‐ i ricorsi per l’attuazione delle pronunce giurisdizionali del giudice civile o del giudice amministrativo. Sono i ricorsi che
introducono il giudizio di ottemperanza, disciplinato dagli artt.
112 ss. c.p.a.;
--‐ i ricorsi contro gli atti e le operazioni in materia elettorale, quando il contenzioso sia devoluto al giudice
amministrativo;
--‐ i ricorsi contro le sanzioni amministrative pecuniarie, nei casi particolari in cui la tutela rispetto ad esse sia devoluta
al giudice amministrativo. La giurisdizione sulle sanzioni amministrative pecuniarie è devoluta di regola al giudice ordinario,
perché concerne diritti soggettivi; tuttavia in alcune ipotesi la giurisdizione è devoluta in via esclusiva al giudice
amministrativo; --‐ i ricorsi in materia di contestazioni sui confini degli enti territoriali;
--‐ i ricorsi contro il diniego di nulla-osta per la c.d. censura cinematografica.
In passato la giurisdizione di merito si caratterizzava per l’attribuzione al giudice amministrativo, oltre ai normali poteri che gli
sono attribuiti nella giurisdizione di legittimità, anche di alcuni poteri aggiuntivi per la cognizione e la decisione della controversia.
In particolare, il giudice amministrativo, nei casi di giurisdizione di merito, poteva disporre di mezzi istruttori aggiuntivi rispetto a
quelli ammessi nella giurisdizione di legittimità, e quindi poteva fruire di una cognizione più ampia dei fatti. Inoltre, nel caso di
accoglimento del ricorso, oltre ad annullare l’atto impugnato, poteva anche riformarlo “o sostituirlo” e, quindi, introdurre
direttamente le modifiche necessarie per rendere il contenuto dell’atto immune dai vizi riscontrati. I caratteri generali della
giurisdizione di merito non erano però chiari ed erano oggetto di varie interpretazioni.
Nel codice del processo amministrativo la giurisdizione di merito viene caratterizzata per l’ampiezza dei poteri
decisori del giudice: nell’esercizio della giurisdizione di merito, il giudice amministrativo “può sostituirsi
all’amministrazione”. Di conseguenza negli stessi casi il giudice, se accoglie il ricorso, “adotta un nuovo atto, ovvero modifica
o riforma quello impugnato”. Oggi la giurisdizione di merito si caratterizza per la capacità del giudice amministrativo di adottare
pronunce che possono sostituire il contenuto dell’atto impugnato.

L’AZIONE NEL PROCESSO AMMINISTRATIVO

1. Le condizioni generali per l’azione nel processo amministrativo


Tradizionalmente, per il processo amministrativo la dottrina e la giurisprudenza richiamano, come condizioni generali per l’azione,
l’interesse a ricorrere e la legittimazione a ricorrere in capo a chi promuova il giudizio.
a) La legittimazione a ricorrere è ricondotta in genere alla titolarità di posizioni di interesse qualificato: interesse legittimo
o anche diritto soggettivo nel caso della giurisdizione esclusiva. La legittimazione a ricorrere viene ancora interpretata dalla
giurisprudenza amministrativa non come affermazione della titolarità della posizione qualificata necessaria ai fini del ricorso, ma
come effettiva titolarità di tale posizione. Pertanto il giudice amministrativo, quando accerta che il ricorrente non è titolare di tale
posizione qualificata, dichiara il ricorso inammissibile, e non infondato.
In alcune ipotesi la legittimazione a ricorrere è costituita semplicemente da una condizione formale del ricorrente, e non
dall’affermazione o dalla titolarità di un interesse qualificato. Ciò si verifica, in particolare, nel caso delle azioni popolari, per le
quali la legittimazione a ricorrere si identifica con la qualità generica di cittadino. Ciò si verifica, inoltre, per effetto di altre
disposizioni particolari, che attribuiscono a certi organi amministrativi la possibilità di impugnare un atto di un’Amministrazione
avanti al Tar, indipendentemente dal coinvolgimento di un loro interesse. Alle azioni popolari sono accostate alcune previsioni a
proposito della tutela di interessi diffusi; e la rilevanza riconosciuta a certe associazioni ai fini della legittimazione a ricorrere a
tutela degli interessi diffusi può richiamare, per alcuni profili, la tutela degli interessi collettivi. I due modelli, però, presentano
divergenze sostanziali. Nel caso dell’interesse collettivo la legittimazione riconosciuta all’associazione si cumula con quella del
singolo cittadino appartenente alla categoria interessata: è perciò una legittimazione “aggiuntiva”, dato che ciascun appartenente
alla categoria può agire autonomamente, a tutela del proprio interesse legittimo.
b) Fra le condizioni per l’azione, la figura più controversa è certamente quella dell’interesse a ricorrere. In alcune ipotesi,
pur essendo configurabile la lesione di un interesse legittimo, non sarebbe assicurata una tutela giurisdizionale per mancanz a
dell’interesse a ricorrere. Si pensi a una graduatoria concorsuale per l’assunzione di pubblici dipendenti, la cui legittimità sia
contestata per l’attribuzione a un candidato di un punteggio inferiore al dovuto: la giurisprudenza amministrativa ritiene
ammissibile il ricorso solo nel caso che il candidato dimostri che l’attribuzione del punteggio corretto lo avrebbe collocato in una
posizione utile per l’assunzione. In caso contrario il ricorso viene ritenuto inammissibile, per “carenza d’interesse” a ricorrere.
La rilevanza dell’interesse a ricorrere è sottolineata dalla giurisprudenza amministrativa anche da altri punti di vista. Dell’interesse
a ricorrere vengono predicati gli attributi della personalità (il risultato di vantaggio deve riguardare specificamente e direttamente
il ricorrente), dell’attualità (l’interesse deve poter sussistere al momento del ricorso; non è sufficiente configurare l’eventualità o
l’ipotesi di una lesione), della concretezza (l’interesse a ricorrere va valutato con riferimento a un pregiudizio concretamente
verificatosi ai danni del ricorrente). Inoltre, l’interesse deve permanere fino al momento della decisione dei ricorso (c.d. interesse
alla decisione).

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2. La tipologia delle azioni nel processo amministrativo


Anche nella giurisdizione amministrativa si possono identificare un processo di cognizione, un processo di esecuzione (che si
identifica col giudizio di ottemperanza). Nel processo di cognizione, inoltre, può avere ingresso una fase cautelare.
Nel processo civile, rispetto al giudizio di cognizione, si usa distinguere fra azioni di mero accertamento (o azioni dichiarative),
azioni costitutive e azioni di condanna. Nel corso della redazione del codice del processo amministrativo fu proposto di accogliere
abbastanza fedelmente questa classificazione, ma, nel testo finale del codice, nel “capo” dedicato alle azioni di cognizione è
scomparso il riferimento all’azione di accertamento in generale. Nel testo finale del codice: l’azione costitutiva è risolta nell’azione
di annullamento, con accenni minori alle pronunce sostitutive ammesse nella giurisdizione di merito; è considerata l’azione di
condanna; infine è disciplinata autonomamente l’azione nei confronti del silenzio. Il quadro nel codice è completato da alcune
azioni previste per taluni riti speciali (nel giudizio sull’accesso; nei giudizi sulle procedure per l’aggiudicazione di contratti pubblici;
ecc.). Infine una parte della giurisprudenza ammette un’azione specifica per i giudizi contro l’amministrazione concernenti una
dichiarazione d’inizio attività.
Alcuni autori hanno sostenuto che ormai oggi anche nel nostro processo amministrativo varrebbe un canone di “atipicità”: anche
nelle vertenze per interessi legittimi, si dovrebbero ammettere tutte le azioni più appropriate per la tutela delle pretese giuridiche
del ricorrente, indipendentemente dal fatto che tali azioni siano disciplinate o meno dal codice o da altre leggi. Questa tesi è stata
sviluppata soprattutto con un obiettivo: per sostenere l’esperibilità oggi, nel processo amministrativo, di un’azione di adempimento,
con contenuti tendenzialmente innominati, a tutela degli interessi legittimi. Sull’argomento generale, dopo l’entrata in vigore del
codice, si è aperto un vivace dibattito. Altri autori hanno sostenuto, infatti, che il codice si ispirerebbe ancora a un canone di
tipicità, che sarebbe testimoniato dall’orientamento manifestato dal legislatore espungendo dal testo finale proprio l’azione di
adempimento. Le posizioni giuridiche soggettive riceverebbero comunque una tutela sufficiente, tenuto conto, oltre che delle
azioni di cognizione, anche delle utilità conseguibili attraverso il giudizio di ottemperanza.
La tripartizione tradizionale delle azioni rispecchia la struttura del processo civile, testimoniata dal collegamento stretto fra
condanna civile ed esecuzione forzata. Nel processo amministrativo assumono rilievo anche fattori ulteriori, attinenti, oltre che
alle ragioni specifiche degli interessi legittimi, anche alla presenza, per l’esecuzione, del giudizio di ottemperanza.
Sempre nei giudizi promossi a tutela di interessi legittimi, prima del codice la giurisprudenza escludeva l’azione di accertamento
nel caso in cui sarebbe stata proponibile l’azione di annullamento e questo principio è oggi sancito puntualmente nel codice:
rappresenta un criterio basilare del nostro processo amministrativo (“il giudice non può conoscere della legittimità degli atti che il
ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l’azione di annullamento”: art. 34 c.2). La contestazione della legittimità di un
provvedimento amministrativo può essere svolta solo attraverso un’azione costitutiva, impugnando quell’atto per chiederne
l’annullamento, e nello stesso caso non è ammessa un’azione di accertamento.
Nei giudizi a tutela di diritti soggettivi, è ammessa anche un’azione di condanna. Oggi sembra ammessa in via generale; nel codice,
comunque, l’attenzione per l’azione di condanna è concentrata soprattutto sulle vertenze risarcitorie. In generale, nel processo
amministrativo è ammesso il cumulo di domande, purché “connesse”.

3. L’azione di annullamento
La disciplina del processo amministrativo si incentra storicamente su un’azione costitutiva: il ricorso al giudice amministrativo è
inteso innanzitutto come strumento per impugnare un atto amministrativo al fine di ottenerne l’annullamento (o, nel caso di
giurisdizione di merito, anche la modifica o “riforma”). Si tratta perciò di una tutela tipicamente “successiva”, perché presuppone
che l’Amministrazione abbia già leso l’interesse del cittadino. Il risultato offerto dalla tutela costitutiva nel processo amministrativo
è di regola l’annullamento del provvedimento impugnato ; solo nei casi di giurisdizione di merito è ammessa anche la riforma. Nel
processo amministrativo l’azione di annullamento ha carattere generale. Al carattere generale si associa il carattere di necessarietà
dell’azione di annullamento. La contestazione della legittimità di un provvedimento amministrativo, nel processo amministrativo,
è ammessa solo se sia stata proposta un’azione di annullamento.

4. L’azione di mero accertamento


Di azione di mero accertamento (o azione dichiarativa) nel processo amministrativo si parla propriamente con riguardo a vertenze
per diritti soggettivi nelle materie di giurisdizione esclusiva. Invece un’azione di mero accertamento a tutela di interessi legittimi
è esclusa nei casi in cui sia possibile l’impugnazione di un provvedimento e, come si vedrà, problemi particolari concernono la
tutela degli interessi legittimi nei casi in cui la lesione non sia riconducibile a un provvedimento amministrativo (si pensi al caso
del silenzio).
Oggetto di accertamento può essere sia un diritto patrimoniale, che un diritto non patrimoniale. Per analogia con la disciplina
generale sulla tutela dei diritti soggettivi, la giurisprudenza ritiene che l’azione di accertamento non sia soggetta al termine di
decadenza di 60 giorni previsto invece per l’impugnazione dei provvedimenti.
Si deve considerare il principio sancito dall’art. 4 della legge del 1865, secondo cui l’Amministrazione è sempre tenuta a
“conformarsi al giudicato”. Di conseguenza, indipendentemente dalla tipologia dell’azione esperita, l’Amministrazione deve porre
in essere l’attività necessaria per adeguare la situazione di fatto a quella di diritto affermata nella sentenza. Nel caso di
inosservanza del dovere dell’Amministrazione di conformarsi al giudicato, è esperibile il giudizio di ottemperanza, che assicura
l’esecuzione della sentenza e di tutti gli obblighi che ne derivano. In questo modo, anche una sentenza di accertamento nei
confronti di una P.A. può essere idonea ad innescare una tutela esecutiva.
In conclusione, nelle vertenze su diritti devolute alla giurisdizione esclusiva, l’azione di accertamento può essere anche il rimedio
a una lesione concreta di un diritto soggettivo provocata dall’Amministrazione e può essere esperita in vista di una esecuzione,
da attuarsi attraverso il giudizio di ottemperanza.
Un’azione di accertamento deve ammettersi anche quando la vertenza abbia ad oggetto un provvedimento nullo. Una azione di
accertamento rispetto ad un atto amministrativo nullo appare di minore rilievo, almeno sul piano pratico, nei casi di giurisdizione
di legittimità: il provvedimento non producendo effetti giuridici non estingue neppure eventuali situazioni di diritto soggettivo del
cittadino e pertanto la relativa vertenza è devoluta al giudice ordinario. Invece risulta di maggior rilievo nelle materie devolute
alla giurisdizione esclusiva, dato che in queste materie il giudice amministrativo è competente anche ad accertare la nullità di un
provvedimento. Il codice ha introdotto una disciplina specifica dell’azione per l’accertamento della nullità di un provvedimento o
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di un atto amministrativo, per tutti i casi in cui la relativa controversia sia di competenza del giudice amministrativo. In particolare,
il relativo ricorso deve essere proposto nel rispetto di un termine di decadenza di 180 giorni. In ogni caso la scadenza del termine
non ha riflessi sull’efficacia dell’atto: l’atto nullo rimane improduttivo di effetti giuridici.
Una parte della giurisprudenza si è richiamata all’azione di accertamento anche per individuare una modalità di tutela contro
l’amministrazione nelle controversie concernenti una dichiarazione d’inizio attività
(Oggi, segnalazione certificata d’inizio attività). Le relative controversie, infatti, sono devolute alla giurisdizione esclusiva. Secondo
questa giurisprudenza il terzo che si ritenga leso dagli effetti di una dichiarazione di inizio di attività potrebbe promuovere un’azione
di accertamento davanti al giudice amministrativo, per ottenere la declaratoria che non sussistevano i presupposti prescritti per
quell’attività; in seguito alla sentenza di accertamento, l’amministrazione sarebbe tenuta ad adottare i provvedimenti repressivi
previsti dalla legge. Il codice non ha preso in considerazione la tutela del cittadino in relazione ad una dichiarazione di inizio di
attività e si tratta probabilmente di una delle sue lacune più gravi.
5. L’azione di condanna
L’azione di condanna nel processo amministrativo fu introdotta dalla legge Tar, con riferimento alla giurisdizione esclusiva ed
esclusivamente per il pagamento di somme di denaro dovute dall’amministrazione. L’utilità specifica della condanna, rispetto a
una sentenza di accertamento del debito, era rappresentata dalla possibilità per il creditore di disporre di un titolo esecutivo,
idoneo a consentire l’esecuzione forzata.
Oggi, nella giurisdizione di legittimità può avere ad oggetto solo il risarcimento dei danni per lesione di interessi legittimi, ma nelle
materie di giurisdizione esclusiva può riguardare l’adempimento di qualsiasi obbligazione, devoluta alla giurisdizione esclusiva.
Rispetto a questa estensione, in alcune disposizioni emergono elementi dissonanti: l’art. 115 c.2, sulla idoneità delle sentenze
amministrative a costituire titolo esecutivo ai fini dell’esecuzione civile, menziona soltanto le sentenze di condanna al pagamento
di somme di denaro. Non sembra trattarsi di un mero difetto di coordinamento: emerge invece la volontà di sottrarre alla disciplina
comune dell’esecuzione le sentenze di condanna a prestazioni non pecuniarie e di riservare anche l’esecuzione di queste sentenze
(che normalmente è più complessa) al giudice amministrativo, attraverso il giudizio di ottemperanza.
La legge istitutiva dei Tar ammetteva la condanna solo nei confronti dell’Amministrazione. Il codice non contempla più tale
limitazione; di conseguenza si deve ritenere che, nelle materie di giurisdizione esclusiva, l’azione di condanna possa essere
proposta anche dall’Amministrazione, per l’adempimento di obbligazioni gravanti su un privato. La legge istitutiva dei Tar, inoltre,
ammetteva la condanna solo per l’adempimento di obbligazioni pecuniarie. In realtà, nelle materie demandate alla giurisdizione
esclusiva, il cittadino può essere titolare anche del diritto a prestazioni con un contenuto diverso da quello pecuniario: si pensi, al
diritto alla restituzione di un immobile.
Un’attenzione particolare, nel codice, è riservata all’azione di condanna nelle vertenze risarcitorie (art. 30 c.p.a.). In particolare
sono affrontati due profili di rilievo. Il primo profilo è rappresentato dai risultati conseguibili con la tutela risarcitoria. Viene
precisato che la domanda di risarcimento del danno può avere ad oggetto, oltre che il risarcimento per equivalente, anche il
risarcimento in forma specifica. Il secondo profilo di rilievo è rappresentato dai rapporti fra tutela impugnatoria e tutela risarcitoria,
ossia fra la domanda di annullamento di un provvedimento lesivo e la domanda di risarcimento dei danni provocati da quel
provvedimento. Prima del codice la Corte di cassazione e il Consiglio di Stato sostenevano soluzioni opposte sulla possibilità che
la domanda di risarcimento dei danni per lesione di interessi legittimi potesse essere proposta in assenza di una domanda di
annullamento del provvedimento lesivo. Invece la giurisprudenza civile sosteneva in prevalenza la tesi della autonomia delle due
tutele. La discussione sembra superata dal codice, che ammette in via di principio l’autonomia della domanda di risarcitoria.
Questa soluzione, però, è temperata dall’introduzione di un termine di decadenza di 120 giorni per l’azione risarcitoria nel caso di
lesione a interessi legittimi. Se il provvedimento lesivo sia stato impugnato, la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso
del giudizio o successivamente alla sentenza di annullamento, fino a 120 giorni dal suo passaggio in giudicato. Con questa
disciplina viene respinta la teoria della “pregiudizialità amministrativa”.
Il codice ha anche dettato alcuni criteri per la liquidazione del danno, precisando che va escluso il risarcimento “dei danni che si
sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”.

6. La tutela nei confronti del silenzio e il dibattito sull’azione di adempimento; la tutela del diritto d’accesso
Anche nel processo amministrativo, come nel processo civile, la distinzione fra le azioni di mero accertamento e le azioni di
condanna non è del tutto pacifica. Chi ritiene che la condanna sia preordinata alla formazione di un titolo esecutivo, che consenta
l’esecuzione forzata nelle forme previste dal C.P.C. (art. 474), considera come azioni di condanna solo quelle che possono condurre
a un titolo esecutivo. Conclusioni opposte sono proposte da chi, invece, considera come pronunce di condanna anche quelle che
non si limitino a chiarire una situazione di incertezza e impongano espressamente anche una condotta a carico della parte
soccombente, indipendentemente dalla loro idoneità a formare un titolo esecutivo. Pronunce “ordinatorie” di questo genere sono
previste, in particolare, nel giudizio sul silenzio-rifiuto e nel giudizio per l’accesso a documenti amministrativi. Il contenuto
“ordinatorio” della sentenza è all’origine dell’accostamento alle pronunce di condanna, anche se le sentenze in esame non valgono
come titolo, ai sensi dell’art. 474 C.P.C., per un’esecuzione forzata nelle forme del C.P.C.: la loro esecuzione si può svolgere solo
attraverso il giudizio di ottemperanza.
a) Il c.d. silenzio (o silenzio-rifiuto) è la situazione che si verifica quando un’Amministrazione non abbia assunto alcun
provvedimento, pur in presenza di un dovere di provvedere. Fino alla riforma del 2005, la giurisprudenza sosteneva che il “silenzio”
si formasse dopo che fossero decorsi 60 giorni dalla presentazione di una richiesta di provvedimento e dopo che fosse stata
notificata all’Amministrazione una diffida a provvedere entro 30 giorni. La legge 80/2005 ha stabilito che il “silenzio” si forma alla
scadenza del termine per la conclusione del procedimento e senza la necessità di alcuna diffida. Questa regola è stata confermata
nel codice (art. 31).
In passato, per ammettere una tutela giurisdizionale anche in caso di silenzio dell’Amministrazione, il Consiglio di Stato aveva
finito con l’accogliere una interpretazione che assimilava il “silenzio” a un provvedimenti negativo. Secondo questa interpretazione
l’Amministrazione, non provvedendo, esprimerebbe un a volontà sfavorevole all’accoglimento dell’istanza o della domanda e nei
confronti di questa sorta di atto negativo si dovrebbe proporre impugnazione. Questa interpretazione offriva il vantaggio di
affermare la piena configurabilità di un interesse legittimo; anche se l’assimilazione fra “silenzio” e “atto amministrativo” non era
fondata, veniva garantita una tutela giurisdizionale nel caso di “silenzio” dell’Amministrazione.

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Superata l’assimilazione fra silenzio e provvedimento negativo, l’azione nei confronti del silenzio dell’Amministrazione ha assunto,
per alcuni profili, un carattere “preventivo”: non viene impugnato un provvedimento e non è intervenuto alcun provvedimento
che possa ledere l’interesse del cittadino. La giurisprudenza, però, sottolinea la circostanza che nel caso di “silenzio” vi sarebbe
comunque una lesione di un interesse legittimo. La tutela dell’interesse legittimo non poteva realizzarsi attraverso l’azione di
annullamento, perché nel silenzio non era identificabile un atto amministrativo e, di conseguenza, il silenzio non era impugnabile:
la tutela poteva ammettersi solo nelle forme di un’azione di mero accertamento. Novità del codice: il ricorso non è soggetto al
termine ordinario di decadenza di 60 giorni, ma può essere proposto finché l’amministrazione ometta di provvedere, purché entro
un anno dalla scadenza del termine per l’ultimazione del procedimento (art. 31 c.2). Inoltre il giudice, se accoglie il ricorso, “ordina
all’amministrazione di provvedere” entro un termine congruo, di regola non superiore a 30 giorni. L’ordine “di provvedere” può
avere anche un contenuto “specifico”. Naturalmente il giudice amministrativo non può sostituire proprie valutazioni a quelle che
la legge demanda alla discrezionalità amministrativa; di conseguenza l’ordine all’Amministrazione di provvedere in un modo
specifico può intervenire solo rispetto a profili vincolati dell’azione amministrativa.
b) La disciplina del giudizio sul silenzio dell’Amministrazione introduce una tutela modellata su un’ azione di adempimento.
Con l’azione di adempimento il cittadino che contesti un provvedimento negativo dell’Amministrazione può chiedere una pronuncia
giurisdizionale che non si limiti ad annullare il provvedimento illegittimo, ma che accerti anche ciò che sarebbe spettato al
ricorrente se l’Amministrazione avesse agito legittimamente. Nel testo finale del codice l’articolo dedicato all’azione di
adempimento fu espunto dal Governo. Alcune disposizioni del testo elaborato dal Consiglio di Stato non sono state però modificate.
Infatti, il modello dell’azione di adempimento è recepito dal codice nell’azione nei confronti del silenzio. Su questa concezione si
è aperto subito un dibattito vivace.
c) L’azione a tutela del diritto d’accesso ai documenti amministrativi. Se l’amministrazione nega l’accesso a un documento
o non risponde a una richiesta di accesso (il silenzio si forma qui per il mero decorso di un termine di 30 giorni dalla presentazione
della richiesta), il cittadino interessato può ricorrere al Tar; il giudice amministrativo, se accoglie il ricorso, “ordina”
all’Amministrazione di esibire il documento. Dunque il giudizio, in caso di accoglimento del ricorso, non attua una tutela costitutiva,
di annullamento del diniego di accesso, né si risolve, nel caso di silenzio, in un ordine generico di provvedere, ma si conclude con
una sentenza che contiene un ordine specifico: all’Amministrazione è imposto di esibire il documento del cui accesso si discuteva.
Anche il ricorso a tutela del diritto d’accesso va proposto entro un termine breve di 30 giorni.

7. L’azione per l’efficienza dell’amministrazione


Il d.lgs. 198/2009 ha introdotto un’azione particolare per porre rimedio all’ inefficienza dell’amministrazione e dei concessionari di
pubblici servizi, introducendo anche in questo caso un nuovo rito speciale. Il giudizio verte sulla pretesa dei cittadini al “corretto
svolgimento di una funzione amministrativa” o alla “corretta erogazione di un servizio”. L’azione è promossa, davanti al giudice
amministrativo, da chi, vantando un interesse legittimo o un diritto soggettivo, lamenti “una lesione diretta, concreta ed attuale
dei propri interessi” per effetto di inadempimenti di un’amministrazione o del concessionario di un pubblico servizio. E’ sempre
necessario che il ricorrente vanti un interesse “omogeneo” a quello di una pluralità di utenti o di consumatori. Per questa ragione
in giudizio in esame è stato accostato a una “ class action”. Il ricorso deve essere preceduto da una fase “amministrativa”, che
comporta la notifica di una apposita diffida all’amministrazione o al concessionario inadempiente, perché rimedi all’inefficienza
lamentata: il ricorso può essere proposto solo dopo che siano decorsi invano 90 giorni dalla notifica, ed entro un anno da tale
scadenza. Il giudice amministrativo, nel giudizio in esame, non può disporre alcun risarcimento del danno, e ciò sottolinea le
finalità di interesse generale e “correttive” dell’azione.

ELEMENTI PRELIMINARI PER LO STUDIO DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO

1. Il giudice amministrativo e la sua competenza


La giurisdizione amministrativa è esercitata in primo grado dai Tribunali amministrativi regionali (Tar), in secondo grado dal
Consiglio di Stato e dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana. I Tar sono istituiti in ogni Regione e hanno
sede nei rispettivi capoluoghi; in otto Regioni sono istituite anche sezioni staccate che hanno sede in un capoluogo di provincia.
a) i criteri generali di riparto della competenza fra i Tar sono disciplinati dall’art. 13 c.p.a. E’ dato rilievo, innanzitutto, alla sede
dell’organo che ha emanato l’atto impugnato. Il criterio della sede dell’organo è però temperato da quello della efficacia dell’atto,
per non cumulare sul Tar Lazio un carico eccessivo di ricorsi: se gli atti impugnati hanno effetti “diretti” che sono limitati al
territorio di una regione o di una parte di essa, è competente il Tar nella cui circoscrizione si producono gli effetti dell’atto, anche
se si tratta di atti emanati da organi dello Stato o di enti pubblici che hanno la loro sede in altre circoscrizioni. Per i ricorsi proposti
in materia di pubblico impiego dal personale in servizio, è competente il Tar nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio del pubblico
dipendente (c.d. foro del pubblico impiego). I rapporti fra i tre criteri generali esposti non sono definiti puntualmente dal codice
e lasciano spazio ad ampie incertezze; alcuni profili controversi, però, erano stati chiariti dalla giurisprudenza precedente, con la
quale appaiono coerenti anche le disposizioni del codice.
Ad ogni modo, i tre criteri generali sulla competenza hanno carattere inderogabile: la loro violazione può essere rilevata d’ufficio
dal Tar, con ordinanza impugnabile avanti al Consiglio di Stato con regolamento di competenza, e può costituire motivo d’appello
(se l’appello viene accolto, il Consiglio di Stato non decide nel merito il ricorso, ma rimette gli atti al Tar competente). Quando il
Tar dichiara la propria incompetenza provvede con ordinanza, che indica anche quale sia il Tar ritenuto competente. Se la causa
viene riassunta tempestivamente (entro 30 giorni dalla comunicazione dell’ordinanza) avanti al giudice così indicato, il giudizio
prosegue e non matura alcuna decadenza.
L’inderogabilità della competenza è una delle innovazioni più evidenti del codice rispetto alla disciplina precedente, che invece
accoglieva la regola opposta: l’incompetenza non poteva essere rilevata d’ufficio, poteva essere eccepita dalle parti costituite solo
entro termini perentori e non poteva costituire motivo d’appello.
I rapporti fra i Tar con sede nel capoluogo regionale e i Tar nelle sedi staccate sono regolati da principi diversi. Le relative questioni
sono risolte dal Presidente del Tar che ha sede nel capoluogo regionale.
b) Nel giudizio di primo grado, fino a quando non sia intervenuta una sentenza, l’incompetenza del Tar può essere dedotta
dalla parte con regolamento di competenza. Il regolamento è proposto con un’istanza, notificata alle altre parti e depositata nei
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successivi 15 giorni presso il Consiglio di Stato con gli atti ritenuti utili per la pronuncia sulla competenza. Il Consiglio decide con
ordinanza, vincolante per i Tar, nella quale indica quale Tar sia competente e provvede anche sulle spese. Per evitare “vuoti”
nella tutela cautelare, il codice prevede che, se il Tar originariamente adito viene dichiarato incompetente, le misure cautelari da
esso adottate hanno una “ultrattività”, perché conservano la loro efficacia per 30 giorni dalla pubblicazione dell’ordinanza del
Consiglio.
Come si è visto, l’incompetenza può essere rilevata anche d’ufficio. Il Tar avanti al quale sia stato riassunto tempestivamente il
giudizio, in seguito all’ordinanza con cui il Tar originariamente adito si sia dichiarato incompetente, deve richiedere d’ufficio il
regolamento di competenza, se si ritenga a sua volta incompetente. Se il Tar richiede d’ufficio il regolamento di competenza, non
può più adottare misure cautelari ed esse devono essere richieste al Tar indicato come competente nell’ordinanza.
c) La regola dell’inderogabilità della competenza è stata introdotta nelle ultime fasi di redazione del codice; in precedenza
l’inderogabilità sembrava circoscritta ad alcune ipotesi particolari e solo rispetto ad esse sarebbe stata configurabile una
competenza “funzionale” di determinati Tar. Nel testo finale le ipotesi di competenza funzionale sono rimaste: si caratterizzano
ormai non tanto per l’inderogabilità della competenza, che è assurto a principio generale, quanto per il fatto che la competenza
territoriale del Tar si fonda in questi casi su norme speciali. I casi di competenza “funzionale” nel codice rispecchiano innanzitutto
una tendenza affermatasi nell’ultimo decennio, di assegnare al Tar Lazio varie controversie in relazione al coinvolgimento di
interessi generali e non frazionabili (es. in tema di espulsione di stranieri per motivi di sicurezza). La Corte costituzionale non ha
mai ravvisato una violazione di principi costituzionali; ma va osservato che la frequenza e l’importanza di tali previsioni finisce
anche con l’attribuire al Tar Lazio, rispetto agli altri Tar, un ruolo di preminenza che non sembra trovare riscontro nella Cost.
d) Però quanto riguarda il Consiglio di Stato, il riparto di competenze fra le sue sezioni giurisdizionali (Quarta, Quinta e
Sesta) ha assunto solo un rilievo interno. Il Consiglio di Stato è oggi quasi esclusivamente giudice d’appello. Se la questione
sottopostagli può dar luogo a contrasti di giurisprudenza o risulti di particolare importanza, rispettivamente la sezione o il
Presidente del Consiglio possono rimettere il ricorso all’ Adunanza plenaria, che è costituita da componenti delle sezioni
giurisdizionali.

2. Le parti: le parti necessarie


Nel processo amministrativo parti necessarie sono, oltre al ricorrente, anche l’Amministrazione resistente e i controinteress ati,
soggetti titolari di un interesse qualificato che può essere pregiudicato dal ricorso e su cui può avere incidenza diretta il giudicato.
a) Il ricorrente fa valere in giudizio un proprio interesse legittimo o, nei casi di giurisdizione esclusiva, un proprio diritto
soggettivo. L’introduzione del giudizio dipende da un suo atto di iniziativa: il ricorso.
b) Parte necessaria nel processo amministrativo è anche l’Amministrazione che ha emanato l’atto impugnato, o nei cui
confronti viene fatto valere il diritto soggettivo, in caso di giurisdizione esclusiva. Art. 41 c.2, per “Amministrazione” deve intendersi
l’ente pubblico (on le caso dell’Amministrazione statale, il Ministero), e non un organo di essa. L’Amministrazione resistente è
parte nel processo, e non autorità: di conseguenza è soggetta in tutto e per tutto alle regole del processo, su un piano di parità
rispetto alle altre parti. In seguito alle recenti innovazioni legislative, il ricorso al giudice amministrativo può essere proposto, in
alcune ipotesi, anche nei confronti di un soggetto privato. In queste ipotesi, anche la sua posizione processuale viene modellata
su quella dell’Amministrazione resistente.
c) Infine, sono parti necessarie i controinteressati. Sono tali i soggetti ai quali l’atto impugnato conferisce un’utilità specifica;
di conseguenza sono titolari di un interesse qualificato alla conservazione dell’atto impugnato (si pensi al vincitore di un concorso,
rispetto all’impugnazione della relativa graduatoria). Ad essi deve essere notificato il ricorso. Nel caso in cui i controinteressati
siano più di uno, il ricorso è ammissibile anche se notificato a uno solo di essi; nei confronti degli altri, però, deve essere effettuata
l’integrazione del contraddittorio.
Ai fini della identificazione dei controinteressati, secondo la giurisprudenza maturata prima del codice, non è sufficiente, però, il
requisito di ordine sostanziale richiamato all’inizio e rappresentato dall’attribuzione a tali soggetti di un’utilità specifica ad opera
del provvedimento impugnato. E’ necessario anche un requisito di ordine formale, e cioè che il controinteressato sia identificato
o facilmente identificabile alla stregua dell’atto amministrativo stesso. I controinteressati non identificati nell’atto amministrativo
(c.d. controinteressati non intimati o controinteressati sostanziali) possono intervenire nel processo amministrativo e proporre
ogni difesa ammessa per i controinteressati; inoltre, se intervenuti, possono proporre un ricorso incidentale. Infine possono
impugnare la sentenza con il rimedio dell’opposizione di terzo.

3. (segue): le parti non necessarie


Il codice definisce in termini omogenei le modalità per l’ingresso nel processo di una parte non necessaria (art. 50), stabilendo
che tale ingresso deve avvenire con la notifica di un atto di intervento in giudizio.
a) Prima del codice, la giurisprudenza tendeva ad escludere che potessero partecipare al giudizio i controinteressati, e cioè
i soggetti titolari di un interesse legittimo analogo a quello del ricorrente (si pensi al caso di più soggetti esclusi da un bando di
gara, dei quali solo alcuni propongano ricorso: i soggetti che non hanno proposto ricorso sono controinteressati rispetto
all’impugnazione proposta dagli altri). Essi, in quanto titolari di un interesse analogo a quello del ricorrente, avrebbero potuto
impugnare autonomamente l’atto amministrativo. Un approccio differente è accolto nel c.p.a. I controinteressati possono
intervenire in giudizio purché non siano ancora scaduti i termini per un loro ricorso principale e il loro intervento può essere a
carattere litisconsortile. Naturalmente, se preferiscono intervenire nel giudizio promosso da altri, accettano “lo stato e i grado in
cui il giudizio si trova”.
b) Innanzitutto si ammette la partecipazione al giudizio per chi subisca gli effetti del provvedimento impugnato solo in via
indiretta, in virtù di una relazione giuridica con una parte necessaria (si pensi al caso dell’inquilino, rispetto all’impugnazione, da
parte del proprietario, dell’ordinanza sindacale che imponga a quest’ultimo l’esecuzione di certi lavori nell’edificio locato). In questo
caso l’intervento è ammesso a tutela di un interesse “dipendente”.
Oltre ai soggetti titolari di un interesse “dipendente” da quello dell’Amministrazione o dei controinteressati, vi sono soggetti che
sono titolari di un interesse giuridico autonomo alla conservazione dell’atto impugnato, senza per essere controinteressati, perché

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non sono destinatari di specifiche utilità giuridiche assegnate loro dal provvedimento amministrativo (si pensi al caso del vicino,
rispetto all’impugnazione, da parte del titolare di un permesso di costruire, del provvedimento di annullamento del permesso
stesso). Pur non essendo parti necessarie del processo di primo grado, se siano intervenuti in giudizio possono impugnare la
sentenza loro sfavorevole.

4. La capacità processuale e il patrocinio legale


Per quanto riguarda la capacità processuale vigono, nel processo amministrativo, i principi vigenti anche per il processo civile. In
particolare, le persone giuridiche, sia pubbliche che private, stanno in giudizio a mezzo dei loro legali rappresentanti. Nel processo
amministrativo è obbligatorio il patrocinio di un avvocato: solo nel giudizio di primo grado in materia elettorale, nel giudizio in
materia di accesso ai documenti amministrativi e in altre ipotesi minori la parte può stare in giudizio personalmente. Nel giudizio
avanti al Consiglio di Stato, la parte non può mai stare in giudizio personalmente e deve essere assistita da un avvocato abilitato
al patrocinio avanti alle giurisdizioni superiori (art. 22 c.2 c.p.a.). Il codice precisa che la procura conferita all’avvocato lo abilita,
di regola, anche a proporre per la parte il ricorso incidentale e i motivi aggiunti: di conseguenza, in questi casi, consente al
difensore anche di proporre domande nuove. L’Amministrazione statale è rappresentata e assistita dall’Avvocatura dello Stato.

5. I principi generali del processo


Il processo amministrativo è soggetto al c.d. principio della domanda. Il giudice amministrativo non può esercitare le sue funzioni
giurisdizionali d’ufficio; l’esercizio delle sue funzioni presuppone l’iniziativa della parte. La parte, una volta proposto il ricorso, può
sempre rinunciarvi (in base all’art. 84 c.p.a. le altre parti possono opporsi alla rinuncia solo se hanno interesse alla prosecuzione
del giudizio, situazione che appare improbabile in un giudizio d’annullamento). La domanda su cui deve pronunciarsi il giudice
amministrativo è identificata dal ricorso principale e può essere integrata solo dai motivi aggiunti e dal ricorso incidentale. Pertanto
la deduzione di un nuovo vizio dell’atto impugnato identifica una domanda nuova.
Nel processo amministrativo vige, inoltre, il principio del contraddittorio: il giudice non si può pronunciare sulla domanda, se prima
non sia stato integrato il contraddittorio rispetto a tutte le parti necessarie del giudizio. Come visto, di regola il ricorso al giudice
amministrativo deve essere previamente notificato, a pena di inammissibilità, all’autorità amministrativa che ha emanato l’atto
impugnato (se l’atto è imputabile a più di una autorità, va notificato a ciascuna di esse) e ad almeno uno dei controinteress ati
(art. 41 c.p.a.). Se il ricorso è stato notificato all’autorità che ha emanato l’atto e solo ad un controinteressato, ma vi sono anche
altri controinteressati, il giudice amministrativo, prima di procedere alla decisione del ricorso, deve ordinare al ricorrente di
integrare il contraddittorio con la notifica del ricorso agli altri controinteressati (artt. 27 e 49 c.p.a.) e il ricorso può essere deciso
solo dopo che a tutti i controinteressati sia stata data la possibilità di costituirsi in giudizio.
Elementi introdotti dal codice: il primo è rappresentato dal bilanciamento fra la garanzia del contraddittorio e l’obiettivo di
assicurare una celere definizione del giudizio. L’art. 49 c.2 stabilisce che nel giudizio di primo grado l’integrazione del
contraddittorio non sia necessaria, nei casi in cui il ricorso “sia manifestamente irricevibile, inammissibile o infondato”. Non è
sembrato necessario subordinare la conclusione del processo all’integrazione del contraddittorio. Un’ulteriore innovazione di rilievo
è rappresentata dal principio in base al quale il contraddittorio deve essere assicurato in modo pieno, oltre che ai fini della decisione
sul ricorso, anche ai fini della pronuncia sull’istanza cautelare. Questa soluzione, però, potrebbe rischiare di pregiudicare le
esigenze di urgenza che sono proprie della tutela cautelare. Il bilanciamento è attuato dalla previsione che comunque, prima
dell’integrazione del contraddittorio, possono essere concesse misure cautelari “provvisorie”.
Il processo amministrativo è assoggettato a un impulso di parte: una volta depositato il ricorso, il giudizio cade in “perenzione” e
ne va dichiarata l’estinzione, se entro un anno una delle parti costituite non abbia presentato l’istanza per la fissazione dell’udienza
di discussione. La necessità dell’istanza di discussione è esclusa, invece, per i ricorsi che vengono decisi in camera di consiglio,
come quelli in materia di silenzio, di accesso ai documenti amministrativi e per l’ottemperanza. In questo casi la camera di consiglio
è fissata d’ufficio.

6. Il rapporto con la disciplina del processo civile


In vari casi il c.p.a. rinvia espressamente a disposizioni del C.P.C. (per es., per la disciplina del regolamento di giurisdizione, per
le cause di astensione e di ricusazione del giudice, per le spese di giudizio, per le cause di sospensione del processo, ecc.). Inoltre,
in molti casi le disposizioni del c.p.a. riproducono il testo di articoli del C.P.C. L’art. 39 c.p.a. contempla, però, anche un rinvio più
generale: le disposizioni del C.P.C. si applicano al processo amministrativo “per quanto non disposto dal presente codice” e “in
quanto compatibili o espressione di principi generali”. L’art. 39 c.p.a. solleva vari interrogativi.

IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO

1. L’introduzione del giudizio


Il secondo libro del c.p.a. è dedicato alla disciplina del giudizio di primo grado. Tale disciplina, in forza del “rinvio interno” disposto
dall’art. 38, ha carattere generale: pertanto, per tutto quanto non diversamente disposto, vale anche per i giudizi d’impugnazione,
per i riti speciali e per il giudizio di ottemperanza. Il giudizio avanti al Tar è introdotto con un ricorso (art. 41 c.p.a.). Oggi il ricorso
ha perso la connotazione specifica di reazione a un provvedimento lesivo e costituisce semplicemente l’atto processuale che
introduce il giudizio amministrativo e col quale è proposta la domanda giudiziale, indipendentemente dai suoi contenuti o dagli
interessi coinvolti.
a) I contenuti necessari del ricorso sono descritti nell’art. 40 c.p.a. Il ricorso deve indicare, oltre all’organo giurisdizionale
cui è diretto, le generalità del ricorrente, del suo difensore e delle altre parti necessarie; deve indicare l’oggetto della domanda,
identificando, nel caso dell’azione di annullamento, l’atto impugnato; inoltre, deve contenere l’esposizione sommaria dei fatti e i
“motivi specifici” su cui si fonda la domanda; deve indicare, ancora, “i mezzi di prova” e “i provvedimenti chiesti al giudice”
(l’annullamento dell’atto impugnato, la riforma dell’atto nel caso di giurisdizione di merito, l’accertamento del diritto soggettivo,
ecc.). Con riferimento all’ “oggetto della domanda”, nell’azione di annullamento, la domanda è identificata dalla richiesta di
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annullamento di un certo atto in relazione alle censure proposte. Le censure sono costituite dall’enunciazione dei vizi che s ono
dedotti rispetto all’atto impugnato e in base ai quali è richiesto pertanto il suo annullamento. In difetto dell’indicazione dei vizi, il
ricorso proposto contro un provvedimento è inammissibile.
Il vizio dell’atto impugnato, nel processo amministrativo, viene considerato un elemento per l’identificazione della domanda. Per
“vizio” di un atto amministrativo si intende in genere uno dei tre ordini di vizi di legittimità che comportano l’annullabilità dell’atto:
incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere. In realtà ai fini della identificazione dell’azione, per “vizio” dell’atto va inteso
il profilo specifico in cui si sia storicamente concretato il contrasto fra l’atto impugnato e l’ordinamento giuridico (e quindi
l’inosservanza di una certa disposizione, la disparità di trattamento rispetto ad un altro atto discrezionale, ecc.), e non la “categoria”
di illegittimità (come invece sarebbero l’incompetenza, la violazione di legge e l’eccesso di potere, nelle sue varie configurazioni).
Ciò che rileva, a pena di inammissibilità, è che il vizio sia oggettivamente identificato nei suoi elementi concreti, in relazione al
provvedimento impugnato.
L’individuazione dell’oggetto della domanda e dei motivi specifici su cui essa si fonda deve essere adattata all’azione concretamente
esperita. Per es., nel giudizio sul silenzio non è proposta alcuna impugnazione e di conseguenza non sono neppure configurabili
censure per vizi di legittimità di un atto: la lesione dell’interesse legittimo è causata in questo caso dall’omissione del
provvedimento in una certa situazione o in presenza di una data istanza e nel ricorso dovranno essere allegate le relative
circostanze. Inoltre, sempre nel caso del silenzio, il cittadino deve definire più puntualmente la sua domanda giudiziale, quando
non si limiti a richiedere al giudice di ordinare all’Amministrazione in modo generico di provvedere, ma richieda un ordine di
provvedere secondo certe modalità specifiche. Nei casi di giurisdizione esclusiva, quando non sia impugnato un provvedimento e
la controversia verta su diritti soggettivi, nel ricorso deve essere identificato il diritto fatto valere in giudizio, alla stregua dei
principi sull’identificazione delle azioni accolti anche per il processo civile.
b) Il ricorso per l’annullamento di un provvedimento amministrativo deve essere notificato, a pena di inammissibilità,
all’Amministrazione che ha emanato il provvedimento impugnato e ad almeno uno dei controinteressati, entro 60 giorni dalla
comunicazione, o pubblicazione o piena conoscenza del provvedimento stesso (artt. 29 e 41 c.p.a.). La notifica a
un’Amministrazione statale deve essere effettuata presso l’Avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede il Tar competente; se
giudice competente è il Tar Lazio o il Consiglio di Stato, la notifica deve essere effettuata presso l’Avvocatura generale dello Stato,
che ha sede a Roma. Per la parte destinataria della notifica, la notifica si perfeziona con il ricevimento dell’atto.
Può stupire il fatto che un ricorso proposto per far rilevare l’illegittimità di un atto amministrativo sia assoggettato a un termine
perentorio, fra l’altro piuttosto breve (di regola, 60 giorni). La previsione di un termine decadenziale, di durata limitata, riflette
l’esigenza di certezza nelle situazioni giuridiche, per l’Amministrazione e per i cittadini interessati che possono aver prestato
affidamento nel provvedimento in questione. Le ragioni della tutela del cittadino, leso in un suo interesse legittimo da un
provvedimento amministrativo, devono così conciliarsi con quelle generali e di garanzia dei terzi.
Per i giudizi proposti a tutela di diritti soggettivi che non comportino l’impugnazione di provvedimenti, non opera un termine di
decadenza per il ricorso. Si è discusso a lungo se la stessa logica potesse valere anche per il ricorso nel caso di silenzio
dell’Amministrazione. Il codice ha stabilito che nel caso di silenzio il ricorso può essere proposto “fintanto che dura
l’inadempimento”; è stato però introdotto uno specifico termine decadenziale di un anno, decorrente dalla scadenza del termine
per l’ultimazione del procedimento (art. 31 c.2 c.p.a.). Un termine particolare, pari a 180 giorni, è stato introdotto dal codice per
la notifica del ricorso diretto a far dichiarare la nullità di un atto amministrativo. Si tenga presente che la nullità può comunque
essere eccepita dalla parte resistente o rilevata d’ufficio dal giudice, anche dopo il decorso di tale termine (art. 31 c.4).
c) L’originale del ricorso, con la prova della notifica, deve essere depositato, a pena di irricevibilità, entro 30 giorni dal
perfezionamento dell’ultima notifica, presso la segreteria del Tar adito (art. 45 c.p.a.). Con il deposito del ricorso presso la
segreteria del Tar si attua la costituzione in giudizio del ricorrente. L’Amministrazione resistente, all’atto della costituzione, è
tenuta a depositare l’atto impugnato e gli altri atti del relativo procedimento.
d) Nel caso di impugnazione di un provvedimento, l’assoggettamento della notifica del ricorso a un termine perentorio
dovrebbe comportare sempre l’inammissibilità del ricorso, quando il termine non sia stato rispettato. In realtà si ammette che,
quando l’inosservanza del termine sia stata determinata da un errore scusabile, il giudice amministrativo possa concedere alla
parte la rimessione in termini per consentirle di procedere a una nuova notifica. Il codice ha inoltre esteso la possibilità della
rimessione in termini anche alle inosservanze determinate da “gravi impedimenti di fatto”. Nel caso di nullità della notifica del
ricorso, la costituzione delle parti intimate ha effetto sanante.

2. I motivi aggiunti
L’assoggettamento dell’azione d’annullamento a un termine perentorio (art. 29) comporta che una volta decorso il termine per
l’impugnazione siano precluse ulteriori censure nei confronti dell’atto impugnato. Questa regola, se fosse applicata in modo
drastico e indiscriminato, potrebbe compromettere lo stesso diritto all’azione. Infatti spesso il cittadino viene a conoscenza di un
vizio del provvedimento solo in un secondo tempo, dopo che è decorso il termine per proporre il ricorso. La giurisprudenza ha
ammesso che il ricorrente che abbia già impugnato un provvedimento e solo successivamente venga a conoscenza di un vizio
possa integrare il ricorso originario con i c.d. motivi aggiunti. Originariamente i motivi aggiunti erano l’atto processuale col quale
il ricorrente modificava la domanda, facendo valere anche i vizi del provvedimento impugnato dei quali egli fosse venuto a
conoscenza solo dopo la notifica del ricorso. Una parte della giurisprudenza ha ritenuto che il ricorrente, con i motivi aggiunti,
potesse introdurre nel giudizio non solo vizi ulteriori dell’atto già impugnato, ma anche vizi di altri provvedimenti, purché connessi
con quello impugnato. Queste esigenze furono accolte nella legge 205/2000, che anzi introdusse l’onere per il ricorrente di
impugnare con i motivi aggiunti anche gli atti sopravvenuti nel corso del giudizio, che fossero connessi con quello impugnato. La
stessa soluzione deve ritenersi accolta nel codice (art. 43 c.p.a.).
Il codice ha superato anche un dubbio sorto con la legge 205/2000 riguardo all’impugnazione di un atto sopravvenuto con un
ricorso autonomo: unica conseguenza di un ricorso autonomo, nel caso di impugnazione di atti connessi, è il dovere per il giudice
di procedere alla riunione dei ricorsi.

3. La costituzione delle altre parti e il ricorso incidentale


Entro 60 giorni dalla notifica del ricorso, l’ Amministrazione resistente e i controinteressati possono costituirsi in giudizio,
depositando una memoria con le loro difese e istanze istruttorie (c.d. controricorso) e i relativi documenti (art. 46). Se il ricorso
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principale non è stato notificato a tutti i controinteressati, ma è stato notificato ad almeno uno di essi, il giudice amministrativo
ordina l’integrazione del contraddittorio. Le parti nei cui confronti sia stato integrato il contraddittorio, da tale momento possono
svolgere tutte le attività processuali che ritengano opportune. Non può opporsi ad esse che si siano già esaurite determinate fasi
del giudizio.
Si è già accennato che il ricorrente non è più tenuto, a pena di inammissibilità del ricorso, a depositare in giudizio il provvedimento
impugnato: la legge pone tale onere a carico dell’Amministrazione. Se l’Amministrazione non provvede spontaneamente al
deposito, il giudice le ordina di procedere all’adempimento.
Del deposito dei documenti da parte dell’amministrazione la segreteria del Tar deve dare notizia alle parti costituite. Questo
adempimento è importante, perché consente alle parti di venire a conoscenza di vizi o di atti non precedentemente noti; in
relazione ad essi, possono proporre motivi aggiunti. Il termine di 60 giorni per la notifica dei motivi aggiunti decorre pertanto da
tale comunicazione; dopo la notifica, vanno depositati entro 30 giorni.
Entro 60 giorni dalla notifica del ricorso, le parti resistenti e i controinteressati possono proporre ricorso incidentale (art. 42 c.p.a.).
Anche il ricorso incidentale deve essere notificato alle altre parti e depositato nei successivi 30 giorni.
Originariamente, col ricorso incidentale il controinteressato poteva impugnare, nel medesimo giudizio, lo stesso provvedimento
già impugnato dal ricorrente, facendo valere però vizi il cui accertamento avrebbe potuto comportare, in caso di accoglimento del
ricorso principale, un risultato a lui favorevole. Più di recente la giurisprudenza ha consentito al controinteressato di impugnare
col ricorso incidentale anche un atto diverso da quello impugnato dal ricorrente principale, quando da tale atto diverso dipendano
la legittimazione, o l’interesse a ricorrere, o comunque un vantaggio rilevante per il ricorrente principale. Il codice del processo
amministrativo conferma tutte queste conclusioni, con una novità di rilievo (art. 42). Il codice, oggi, riconosce anche alle “parti
resistenti” la legittimazione a proporre il ricorso incidentale (art. 42 c.1). E tale espressione è idonea a designare l’Amministrazione
che abbia emanato l’atto impugnato. La previsione del ricorso incidentale è espressione del principio della “parità delle armi”, che
oggi trova affermazione nell’art. 111 Cost. Nello stesso tempo il ricorso incidentale risulta condizionato al ricorso principale. Di
conseguenza, se il ricorso principale viene respinto o dichiarato inammissibile, anche il ricorso incidentale diventa improcedibile.
Nelle controversie su diritti demandate alla giurisdizione esclusiva, la parità fra le parti è garantita anche attraverso la possibilità
di proporre domande riconvenzionali.
Nel giudizio proposto per l’annullamento di un provvedimento, i termini per il ricorso principale, i motivi aggiunti e il ricorso
incidentale, sono pertanto identici: sono pari a 60 giorni. Invece i termini stabiliti per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente
tradizionalmente non vengono ritenuti perentori: la costituzione può intervenire fino all’udienza di discussione del ricorso, fermi
restando i termini di legge per la presentazione di documenti o di difese scritte.
In passato la giurisprudenza e la dottrina erano pressoché unanimi nell’ammettere, come unica modalità di intervento nel processo
amministrativo, l’intervento volontario. Le ragioni di economia dei giudizi che sono alla base dell’intervento iussu iudicis (art. 107
C.P.C.) inducevano a ritenere che anche il giudice amministrativo potesse disporre tale intervento, per lo meno con riferimento ai
soggetti che potrebbero proporre l’opposizione di terzo. Altrimenti, nei casi in cui era ammessa l’opposizione di terzo, il giudice
sarebbe stato obbligato ad emettere la sentenza anche in assenza del contraddittorio con un soggetto che successivamente,
attraverso l’opposizione, avrebbe potuto porre in discussione la sentenza. Alla luce di queste considerazioni, il codice ha previsto
espressamente che il giudice possa ordinare la chiamata in causa di un terzo, in tutti i casi in cui ritenga “opportuno che il processo
si svolga nei confronti di un terzo”.

4. L’istruttoria: i principi
L’istruzione è l’attività del giudice diretta a conoscere i fatti rilevanti per il giudizio. La circostanza che normalmente alla attività di
interpretazione delle norme si accompagni un’attività, del giudice, di conoscenza e di valutazione dei fatti non significa, però, che
una particolare indagine sui fatti debba sempre aversi. La necessità di un’indagine particolare è esclusa, per es., quando i fatti
non siano controversi, perché le parti ne forniscono una rappresentazione coincidente. Un’indagine istruttoria va esclusa anche
rispetto ai fatti che siano stati allegati da una parte e che non siano stati puntualmente contestati dalle altri parti: il codice ha
sancito un onere di specifica contestazione dei fatti a carico delle parti costituite, con la conseguenza fra l’altro che il giudice nella
sua decisione deve attenersi ai fatti non contestati. Nel processo non si deve sempre ammettere una “fase” istruttoria
caratterizzata da una sua propria autonoma rilevanza, come si configura, per es., nel processo civile ordinario.
Il tema dell’istruzione probatoria ruota anche nel processo amministrativo intorno a tre profili fondamentali:
I) Il rapporto fra le allegazioni di fatti riservate alle parti e i poteri di cognizione del giudice;
II) I vincoli e gli effetti che comportano, per i poteri istruttori del giudice, le istanze istruttorie delle parti;
III) I vincoli che comportano, per la decisione, le risultanze dell’istruttoria.

I) Il primo profilo di rilievo concerne l’individuazione dei fatti che possono essere allegati solo dalle parti. L’individuazione
di questi fatti è importante, perché alle manchevolezze delle parti non può supplire un intervento d’ufficio del giudice. Anche nel
processo amministrativo si tende ad accogliere la distinzione fra fatti principali e fatti secondari: però il criterio per la distinzione
fra questi ordini di fatti non è pacifico. Nel caso dell’azione di annullamento, appare logico aderire all’interpretazione secondo cui
i fatti principali corrispondono ai fatti materiali su cui si fonda la pretesa dell’annullamento dell’atto impugnato.
E’ pacifico che nel processo amministrativo i fatti principali e secondari possono essere introdotti solo dalle parti: altrimenti sarebbe
messa in discussione la vigenza del c.d. principio della domanda ed opererebbe un principio inquisitorio.

II) Il secondo profilo di rilievo attiene invece alla prova dei fatti. Nel processo amministrativo, come è espressamente sancito
dall’art. 63, vale il principio generale sancito dall’art. 2697 c.c., sull’onere della prova. Il giudice amministrativo poteva disporre
anche d’ufficio tutti i mezzi istruttori a sua disposizione, fermo restando che oggetto di prova potevano essere solo i fatti allegati
dalle parti. Il processo amministrativo per quanto concerne l’istruttoria sarebbe stato caratterizzato da tale potere d’ufficio del
giudice nella prova dei fatti. In ciò consiste il c.d. metodo acquisitivo, al quale si conformerebbe l’assetto dell’istruttoria nel giudizio
amministrativo. Nel codice la materia viene affrontata in alcune disposizioni imprecise e contraddittorie. Tuttavia, l’art. 63, a
proposito dei singoli mezzi di prova, e l’art. 64 c.3, a proposito della richiesta di informazioni e di documenti all’amministrazione,
prevedono sempre che il giudice possa procedere d’ufficio; unica 31 eccezione è la prova testimoniale, che può essere ammessa solo

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su istanza di parte, ma che nel processo amministrativo è soggetta a limitazioni sostanziali. L’istruttoria nel processo
amministrativo si ispira ancora al “metodo acquisitivo”: in generale vale sempre il principio della officiosità dell’iniziativa istruttoria
del giudice. L’art. 64 c.4 riconosce espressamente anche al giudice amministrativo di “desumere argomenti di prova dal
comportamento tenuto dalle parti nel corso del processo”. In conclusione, la previsione di poteri d’ufficio è coerente con l’assetto
complessivo del processo amministrativo ed è riconducibile, oggi, anche al principio costituzionale della parità delle parti. Tutto
ciò non comporta, comunque, un netto distacco rispetto ai modelli processual-civilistici. Anche nel processo civile ordinario certi
mezzi di prova possono essere disposti d’ufficio dal giudice (basti pensare alla consulenza tecnica e all’ispezione).
Le parti, naturalmente, sono pienamente legittimate a formulare istanze istruttorie; su di esse il giudice è tenuto a provvedere. Il
giudice, però, non è vincolato ad esse, perché può disporre mezzi istruttori anche in assenza di una specifica istanza delle parti.
E’ necessario capire, a questo punto, se l’esercizio di questi poteri istruttori del giudice presupponga almeno un “contributo” della
parte. Prima del codice, infatti, secondo la giurisprudenza l’esercizio dei poteri istruttori del giudice richiedeva che la parte avesse
fornito un “principio di prova” dei fatti da dimostrare. E’ prevedibile che la stessa conclusione venga accolta dalla giurisprudenza
anche dopo il codice, dato che il modello precedente, basato sul metodo acquisitivo, è stato confermato.

III) Però quanto riguarda il terzo profilo fondamentale, relativo al vincolo che comporta il risultato dell’istruttoria per la
decisione del giudice, va tenuto presente che il processo amministrativo si basa sul principio del libero apprezzamento del giudice:
le prove raccolte nel giudizio sono rimesse, quanto alla loro valutazione, al prudente apprezzamento del giudice (art. 64 c.3).
Questo principio comporta l’esclusione delle prove legali, come il giuramento e la confessione, che si caratterizzano invece per
vincolare il giudice alla verità di un certo fatto, precludendogli di assumere una decisione difforme. All’esclusione delle prove legali,
fa eccezione la disciplina dell’atto pubblico, che anche nel processo amministrativo ha l’efficacia prevista dall’art. 2700 c.c. (l’atto
pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale …).

5. (segue): i provvedimenti istruttori e i singoli mezzi istruttori


La disciplina precedente si fondava sulla distinzione fra i tre ordini di giurisdizione amministrativa (giurisdizione di legittimità, di
merito ed esclusiva) e rispetto a ciascuno di essi articolava diversamente i mezzi istruttori. Nel codice la disciplina dei mezzi
istruttori viene ricondotta ad unità. Sono confermati nel codice i tre mezzi istruttori tradizionalmente contemplati dalle leggi sul
processo amministrativo: la richiesta di chiarimenti all’amministrazione, la richiesta di documenti e le verificazioni.
La richiesta di chiarimenti consiste nella richiesta all’Amministrazione di informazioni su fatti rilevanti per il giudizio. A differenza
di quanto vale nel processo civile, può essere indirizzata anche nei confronti di un’Amministrazione che sia parte in causa. La
richiesta di documenti può avere per oggetto qualsiasi documento inerente alla materia del contendere che risulti nella disponibilità
dell’Amministrazione. Inoltre, il giudice amministrativo può richiedere l’esibizione dei documenti anche nei confronti delle altre
parti e nei confronti di terzi. Le verificazioni possono avere contenuti molto ampi e in particolare, secondo la giurisprudenza,
possono riguardare anche l’accertamento di fatti o di situazioni complesse. Il giudice può acquisire in questo modo anche gli
elementi tecnici che sono necessari per un apprezzamento dei fatti, analogamente a quanto si verifica con la consulenza tecnica.
Prima del codice, la verificazione era demandata esclusivamente all’Amministrazione. L’istituto era perciò oggetto di critiche vivaci,
perché comportava il riconoscimento all’amministrazione di un ruolo preminente nell’istruttoria, in contrasto con il principio della
parità delle parti. E’ evidente che l’imparzialità di un soggetto che sia parte in causa è sempre dubbia e relativa. Il codice ha
cercato di riproporre l’istituto, con alcune innovazioni dirette a renderlo più coerente coi principi generali, ma l’estensione
dell’ambito dei soggetti (“organismi”) cui demandare la verificazione non impedisce che della verificazione possa essere incaricata
un’Amministrazione interessata al giudizio.
In considerazione di questi limiti sarebbe logico assegnare uno spazio più ampio alla consulenza tecnica, espressamente
contemplata dal codice all’art. 63 c.4. La consulenza, infatti, è affidata a un perito che deve essere in condizioni di terzietà rispetto
alle parti. Ma il codice ha stabilito che la consulenza tecnica possa essere disposta solo eccezionalmente (nell’art. 63 c.4 è usata
l’espressione “se indispensabile”). Di regola, pertanto, il giudice deve dare la precedenza alla verificazione. Questa soluzione
rappresenta uno dei profili maggiormente critici nella disciplina complessiva dell’istruttoria nel c.p.a.
Il giudice può sempre chiedere alle parti chiarimenti sui fatti rilevanti per il giudizio. Questa possibilità, che riequilibra, nel rispetto
della parità delle parti, il potere del giudice di chiedere chiarimenti all’Amministrazione, è contemplata nel codice con una formula
molto ampia (art. 63 c.1).
Comunque il codice contempla in via generale anche vari altri mezzi istruttori. Su istanza di parte il giudice amministrativo può
ammettere la prova testimoniale. La prova testimoniale, però, è ammessa solo in forma scritta (art. 63 c.3). Obiettivo del codice
era di introdurre nel processo amministrativo una prova testimoniale necessariamente in forma scritta, per accelerare lo
svolgimento dell’istruttoria nel processo amministrativo e per evitare l’impegno richiesto dall’audizione diretta del teste da parte
del giudice, ma la disciplina proposta risulta inadeguata. Il giudice amministrativo può disporre anche l’ispezione e più in generale
tutti gli altri mezzi di prova previsti dal C.P.C. Rimane comunque sempre ferma l’esclusione dell’interrogatorio formale e del
giuramento.
L’istruttoria nel giudizio ha come obiettivo non la revisione o la correzione del procedimento amministrativo, ma l’acquisizione di
tutti gli elementi di fatto utili per la decisione giurisdizionale. Tant’è vero che se il giudice amministrativo ravvisa una inadeguatezza
nell’istruttoria svolta dall’Amministrazione nel procedimento, non restituisce gli atti all’Amministrazione perché provveda a
integrare l’istruttoria, ma assume egli stesso le conseguenti decisioni in ordine alla legittimità dell’atto impugnato. I provvedimenti
istruttori sono adottati con ordinanza (art. 36 c.p.a.).

6. Gli incidenti del giudizio


Per quanto concerne la sospensione necessaria per ragioni di pregiudizialità, vanno considerate le questioni inerenti allo stato e
alla capacità delle persone e di incidente di falso: la decisione su queste questioni è riservata al giudice civile e il giudice
amministrativo non può provvedere su di esse neppure in via incidentale. La sospensione è invece rimessa a una valutazione di
opportunità del giudice amministrativo, quando sia pendente un procedimento penale relativo ai medesimi fatti di cui si controverte
nel processo amministrativo. Il processo amministrativo deve essere sospeso, inoltre, quando il collegio abbia sollevato una
questione di legittimità costituzionale. In tali ipotesi e in ogni altra ipotesi di sospensione necessaria del giudizio, la sospensione

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viene disposta con ordinanza appellabile (art. 79 c.p.a.) e non preclude comunque la possibilità di richiedere al giudice
amministrativo pronunce cautelari (art. 10 c.2).
Anche nel processo amministrativo è ammesso il regolamento preventivo di giurisdizione: il regolamento è proposto dalle parti,
con istanza diretta alla Corte di cassazione, finché sul ricorso non sia intervenuta una decisione del Tar. La proposizione del
regolamento non comporta però automaticamente la sospensione del giudizio: la sospensione è disposta dal Tar, solo dopo aver
verificato che l’istanza di regolamento non sia manifestamente inammissibile o infondata.
Il codice non contempla espressamente la sospensione su richiesta delle parti (c.d. sospensione facoltativa); però, il richiamo
ampio del codice alla disciplina della sospensione nel processo civile consente di dare spazio alla soluzione affermativa. La
sospensione è disposta dal Tar con ordinanza. Le ordinanze di sospensione del processo sono suscettibili di appello al Consiglio
di Stato.
Infine, nel codice del processo amministrativo è richiamato l’istituto dell’ interruzione del processo. Quando sia cessata la causa di
sospensione del giudizio o si sia prodotta l’interruzione, per la prosecuzione del giudizio è necessario un nuovo atto d’impulso. Nel
processo amministrativo tale atto si identifica normalmente con una istanza di discussione del ricorso.

7. La decisione
Perché il ricorso possa essere deciso è necessario, di regola, che sia richiesta, con apposita istanza, la fissazione dell’udienza di
discussione del ricorso stesso. In seguito alla presentazione dell’istanza, il Presidente fissa l’udienza di discussione del ricorso, di
cui deve essere data comunicazione alle parti con un preavviso di almeno 60 giorni. Per evitare che eventuali misure cautelari
possano produrre effetti per un tempo indeterminato, il codice ha stabilito che l’ordinanza del Tar che disponga una misura
cautelare deve anche fissare l’udienza di discussione; se non sia stata fissata l’udienza, è ammesso anche solo a questi fini l’appello
al Consiglio di Stato.
Le parti costituite possono depositare documenti fino a 40 giorni liberi prima dell’udienza, memorie conclusionali fino a 30 giorni
prima e memorie di replica fino a 20 giorni prima (art. 73). Nell’udienza, che è pubblica, ciascuna delle parti può intervenire,
attraverso il proprio difensore, per illustrare “sinteticamente” le proprie ragioni. Una volta conclusa la discussione, il Tar, procede
alla decisione del ricorso e pronuncia la sentenza (art. 75).
In base all’art. 74 c.p.a. in alcuni casi il giudice amministrativo può decidere il ricorso, con una sentenza in forma semplificata. La
sentenza in forma semplificata si caratterizza per una motivazione sintetica. E’ ammessa in via generale quando il ricorso risulti
manifestamente fondato o manifestamente infondato, inammissibile, improcedibile o irricevibile e perciò quando, per il carattere
“evidente” della decisione, sia superflua un’ampia motivazione. La decisione del ricorso può intervenire, sempre con una sentenza
in forma semplificata, anche in via “anticipata”, nella fase cautelare. Se nella camera di consiglio per l’esame dell’istanza cautelare
l’esito finale del ricorso risulta già chiaro, non ha senso prolungare oltre il giudizio. Quando sia possibile la decisione del ricorso in
esito all’istanza cautelare, la sentenza può intervenire prima che siano scaduti tutti i termini concessi dalla legge alle parti per
l’esercizio dei loro poteri di difesa. Per la decisione del ricorso è sufficiente che sia verificata la “completezza del contraddittorio e
dell’istruttoria”; il collegio può decidere il ricorso in esito all’istanza cautelare solo se prima sul punto ha “sentito le parti”, che
possono quindi segnalare la necessità di particolari attività istruttorie o di difesa. Inoltre il collegio non può procedere alla decisione
del ricorso se le parti dichiarino di voler proporre motivi aggiunti, o ricorso incidentale, o regolamento di giurisdizione o di
competenza.
Infine il codice ammette che in taluni casi il giudizio sia definito con un decreto presidenziale. Il decreto è previsto nel caso che si
sia verificata l’estinzione del giudizio (per es., perché è maturata la perenzione, o perché il ricorrente ha rinunciato), o nel caso
che il ricorso sia improcedibile (per es., perché non è stato integrato il contraddittorio). In questi casi provvedere direttamente
con decreto il Presidente del Tar. Nei confronti del decreto le parti possono proporre opposizione al collegio; il procedimento è
soggetto al rito camerale. Il collegio decide con un’ordinanza suscettibile d’appello.

8. Il rito camerale
Oltre al rito ordinario sono contemplati anche vari riti speciali. Per alcune controversie, e precisamente, per il giudizio di
ottemperanza, per il giudizio sul silenzio, in materia di accesso, e per le opposizioni ai decreti presidenziali di estinzione o
improcedibilità del giudizio, il codice del processo amministrativo prevede uno svolgimento più celere di quello ordinario (art. 87
c.p.a.). Pertanto anche gli adempimenti delle parti sono assoggettati a termini abbreviati: tutti i termini processuali, salvo quelli
per la notifica del ricorso principale, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti, sono ridotti a metà. Nelle controversie in esame,
per la decisione dei ricorsi non è necessaria un’istanza di fissazione d’udienza e la trattazione è fissata d’ufficio, con particolare
celerità. Il giudice amministrativo decide il ricorso senza necessità di un’udienza pubblica, ma semplicemente in camera di
consiglio. I legali delle parti possono comunque chiedere di essere sentiti e di discutere la controversia all’inizio della camera di
consiglio.

LA TUTELA CAUTELARE

1. I caratteri generali della tutela cautelare nel processo amministrativo


La tutela cautelare, anche nel processo amministrativo, ha sempre carattere di “ strumentalità”: la misura cautelare ha “lo scopo
immediato di assicurare la efficacia pratica del provvedimento definitivo”. L’esecuzione di un provvedimento amministrativo può
compromettere in modo molto grave, o addirittura irreversibile, la posizione del destinatario del provvedimento stesso (si pensi al
caso dell’esecuzione di un provvedimento di esproprio, dalla quale può derivare una trasformazione dell’area, tale da precludere
la stessa possibilità di restituzione al privato). In queste ipotesi, anche se il provvedimento fosse illegittimo e perciò venisse in un
secondo tempo annullato dal giudice amministrativo, la sentenza di annullamento non sarebbe idonea a soddisfare effettivamente
l’interesse del cittadino: è necessaria una tutela cautelare, che operi prevenendo la realizzazione del danno, consentendo di evitare
l’esecuzione del provvedimento nel corso del giudizio.
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La legge Crispi del 1889 dettava la regola secondo cui l’impugnazione del provvedimento non ha “effetto sospensivo”: il ricorso al
giudice amministrativo non incide sull’efficacia e sull’esecuzione del provvedimento impugnato. Il codice del processo
amministrativo si attiene alla regola secondo cui, nel giudizio promosso per l’annullamento di un provvedimento, la presentazione
del ricorso non sospende l’esecuzione del provvedimento impugnato. Di conseguenza spetta alla parte interessata (normalmente
si tratta del ricorrente) richiedere una misura cautelare del giudice amministrativo, per evitare che le sue ragioni possano essere
compromesse durante il tempo necessario per la decisione del ricorso. In base ai principi generali, la concessione della misu ra
cautelare da parte del giudice presuppone l’accertamento di un “ fumus boni iuris” e di un “periculum in mora”. Il primo elemento,
che è espressamente richiamato nell’art. 55 c.9 c.p.a. consiste in una valutazione sommaria sul merito della pretesa fatta va lere
dal cittadino con l’impugnazione. La concessione della misura cautelare è subordinata a una valutazione del giudice sulla
“ragionevole previsione sull’esito del ricorso”. Particolare rilievo assume, nel processo amministrativo, il profilo costituito dal
“periculum in mora”. L’art. 55 c.1 identifica questo elemento nella possibilità di “subire un pregiudizio grave e irreparabile” dal
provvedimento impugnato “durante il tempo necessario a giungere alla decisione del ricorso”. Tale pregiudizio deve essere
specificamente allegato dal ricorrente nella istanza cautelare e perciò il giudice non può d’ufficio ipotizzarne l’esistenza né
introdurlo nel processo. Il giudice amministrativo, ai fini dell’accoglimento dell’istanza cautelare, deve effettuare una valutazione
“comparata” dei vari interessi in gioco (per es., il provvedimento potrebbe comportare la distruzione di un bene, la cessazione di
un’attività; oppure, potrebbe comportare una sanzione, il cui ammontare sia esorbitante rispetto al reddito del ricorrente; ancora,
la sospensione del provvedimento impugnato, molte volte, può comportare la perdita del relativo finanziamento per
l’Amministrazione e quindi può pregiudicare pesantemente l’interesse pubblico), sulla base del suo prudente apprezzamento. La
concessione o il diniego della misura cautelare può essere subordinata a una cauzione, a garanzia del pregiudizio subito dalla
parte su cui grava la pronuncia del giudice. La cauzione non è ammessa, però, quando siano in gioco “interessi essenziali della
persona, quali il diritto alla salute o all’integrità dell’ambiente”.

2. La tipologia e i contenuti delle misure cautelari


La tutela cautelare nel processo amministrativo si è incentrata a lungo in una misura tipica e generale, la sospensione del
provvedimento impugnato. La tutela cautelare si incentrava così in una misura “ablatoria” rispetto al provvedimento
amministrativo, perché precludeva la produzione degli effetti propri del provvedimento impugnato o inibiva all’Amministrazione di
attuarne l’esecuzione materiale. Per es., la sospensione di un decreto di esproprio comportava per il proprietario espropriato il
recupero della titolarità del bene; la sospensione di un ordine di demolizione inibiva all’Amministrazione di procedere alla
demolizione.
Questa configurazione della tutela cautelare risultava inadeguata già nel giudizio promosso a tutela di interessi legittimi, che
riguardasse provvedimenti negativi o il silenzio dell’Amministrazione. La sospensione di un provvedimento negativo (si pensi al
caso dell’impugnazione di un diniego di autorizzazione, con esito negativo) o del silenzio-rifiuto non comporta alcun beneficio per
il ricorrente, perché in questi casi il pregiudizio materiale non è superato dalla preclusione degli effetti del provvedimento: può
essere superato solo da un diverso esito del procedimento.
La sospensione di un silenzio-rifiuto o di un provvedimento negativo diventa, in realtà, l’ordine all’Amministrazione di pronunciarsi
sulla richiesta di provvedimento. Questa soluzione estrema sembrava comunque acquistare sempre maggiori consensi, in
giurisprudenza, anche per l’influenza dell’ordinamento comunitario, che imporrebbe una tutela cautelare “ad ampio raggio”. Il
d.lgs. 80/1998 ampliando ulteriormente la giurisdizione esclusiva, pose definitivamente in crisi il modello di tutela cautelare fondato
sulla sospensione del provvedimento impugnato.
Il codice del processo amministrativo ha previsto che la tutela cautelare non si risolva più in una misura tipica, quella della
“sospensione”, ma si attui con misure di contenuto atipico, modellate sul caso concreto (art. 55 c.1). Esse possono consistere,
infatti, nelle misure “più idonee ad assicurare interinalmente (provvisoriamente) gli effetti della decisione sul ricorso”. La portata
dell’innovazione è chiarita ulteriormente dalla previsione che la misura cautelare può tradursi anche in un ordine di pagamento di
una somma di denaro. Di conseguenza molti ritengono che oggi il giudice possa intimare all’Amministrazione di assumere
determinati atti, ovvero possa lui stesso autorizzare lo svolgimento dell’attività richiesta dal ricorrente (si pensi alla tutela cautelare
contro un diniego di autorizzazione), ecc.
In questo contesto, rimane comunque ferma l’esigenza di considerare alcuni limiti generali ai poteri cautelari del giudice
amministrativo. In primo luogo una misura cautelare, anche se con i contenuti più ampi previsti dal codice, non può determinare,
neppure in via di fatto, la definizione del giudizio. In secondo luogo si dubita della possibilità per il giudice amministrativo di
definire, seppure in sede cautelare, l’assetto di interessi che sia demandato dalla legge alla discrezionalità amministrativa. Rispetto
a questi stessi ambiti, infatti, la valutazione discrezionale dell’Amministrazione dovrebbe ritenersi infungibile.

3. La procedura “ordinaria”
La disciplina della tutela cautelare nel processo amministrativo, per i profili procedimentali, era costituita da poche disposizioni.
Su questo assetto è intervenuta prima la legge 205/2000, poi, più in profondità, il codice del processo amministrativo. Le
innovazioni hanno riguardato principalmente tre profili: la garanzia del contraddittorio, rispetto alla quale la normativa precedente
era molto lacunosa, la previsione di modalità più celeri e più semplici di accesso alla tutela cautelare, nei casi di particolare
urgenza, e la valorizzazione della fase cautelare del processo anche ai fini di una sollecita decisione del ricorso. In gioco, rispetto
a questi punti, sono pertanto alcuni principi fondamentali sulla tutela giurisdizionale: la parità delle parti, l’irrinunciabilità di una
tutela cautelare “adeguata” alla garanzia del diritto d’azione del ricorrente e la ragionevole durata del processo.
La domanda di una misura cautelare è presentata dal ricorrente (o da altra parte interessata) al giudice adito per il ricorso
principale. E’ richiesta una istanza scritta, che deve essere notificata all’Amministrazione resistente e ai controinteressati. Prima,
con la legge 205/2000, ed oggi, col codice, è stato chiarito che il giudice amministrativo può provvedere definitivamente sull’istanza
cautelare solo dopo l’integrazione del contraddittorio con tutte le parti necessarie del giudizio. Prima dell’integrazione del
contraddittorio, il giudice amministrativo può assumere solo misure cautelari provvisorie (“interinali”), soggette necessariamente
ad essere riesaminate, una volta che tutte le parti necessarie siano state evocate in giudizio. Sulla domanda di misura cautelare
provvede ordinariamente il collegio, in camera di consiglio, decorsi almeno 20 giorni dalla notifica dell’istanza e 10 dal suo deposito;
tali termini sono stabiliti a garanzia del contraddittorio. Nella camera di consiglio sono sentiti i difensori delle parti che ne abbiano
fatto richiesta, per discutere l’istanza cautelare. La domanda di una misura cautelare non può essere trattata fino a quando non

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sia stata depositata l’istanza di fissazione dell’udienza di discussione (fatti salvi, ovviamente, i giudizi assoggettati al rito camerale
o per i quali l’udienza di discussione debba essere fissata d’ufficio). La stretta relazione fra tutela cautelare e fissazione dell’udienza
di discussione così instaurata nel codice rispecchia l’esigenza di contenere la misura cautelare nella sua dimensione propria, di
misura interinale, destinata a produrre effetti solo per il tempo necessario affinché il giudice possa pronunciarsi con pienezza sulla
controversia con la sentenza. Il collegio chiamato a provvedere sulla domanda di misura cautelare innanzitutto deve verificare la
propria competenza. Sulla domanda di misura cautelare il collegio provvede con una ordinanza motivata. Nell’ordinanza che
provvede sulla domanda cautelare il giudice liquida anche le spese della fase cautelare del giudizio.
Nella legislazione più recente si è affermata la tendenza a collegare la fase cautelare con la decisione del ricorso, per due ordini
di contingenze, che trovano piena considerazione anche nel codice. Innanzitutto il collegio, se ritiene che l’istanza cautelare sia
fondata e nello stesso tempo che le ragioni per la tutela cautelare possano essere soddisfatte con una decisione sollecita del
ricorso, può limitarsi a fissare la data dell’udienza di discussione. In casi del genere, infatti, le esigenze all’origine della domanda
di misura cautelare possono trovare piena realizzazione in una decisione del ricorso in tempi ravvicinati. Inoltre, se si verificano
le condizioni stabilite nell’art. 60, il collegio può definire il giudizio in camera di consiglio con sentenza in forma semplificata.

4. La tutela cautelare nei casi di particolare urgenza


In base al codice, in caso di estrema gravità e urgenza, “tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di
consiglio”, la misura cautelare può essere richiesta al Presidente del Tar, previa notifica della relativa istanza alle altre parti. Il
Presidente, o il magistrato da lui delegato, dopo aver verificato la competenza del Tar adito, provvede con un decreto motivato,
non impugnabile ma revocabile. Il decreto che provvede su un’istanza cautelare è efficace fino all’ordinanza del collegio, al quale
va sottoposta l’istanza cautelare nella prima camera di consiglio utile (art. 56). Anche in quest’ultimo caso, comunque, la tutela
cautelare ha carattere incidentale e si svolge nell’ambito di un giudizio instaurato col ricorso principale. Il codice ha precisato che
il decreto presidenziale non possa essere pronunciato se la notifica del ricorso non si sia perfezionata nei confronti almeno
dell’Amministrazione resistente e di almeno un controinteressato. Il contraddittorio si attua pertanto in una forma limitata. I
soggetti cui sia stata notificata l’istanza cautelare possono chiedere di essere sentiti dal Presidente prima del decreto, “fuori
udienza e senza formalità, … anche separatamente”. La disciplina descritta di applica anche al giudizio avanti al Consiglio di Stato.
Nel processo amministrativo, fino a tempi più recenti, non era contemplata in generale una tutela cautelare precedente
all’instaurazione del giudizio. Il codice ha esteso la possibilità di una tutela cautelare “ante causam” ad ogni ordine di vertenze
devolute al giudice amministrativo (art. 61). Infatti, “in caso di eccezionale gravità e urgenza, tale da non consentire neppure la
previa notifica del ricorso” chi sia legittimato a proporre un ricorso può presentare un’istanza al Presidente del Tar e chiedere
l’adozione delle misure cautelari interinali, necessarie per assicurare la tutela fino a quando non possa essere proposto il ricorso
e non possa essere trattata l’istanza cautelare nelle forme ordinarie.

5. I rimedi ammessi nei confronti delle ordinanze cautelari


L’ordinanza cautelare adottata dal collegio di regola ha effetto fino alla sentenza che definisce quel grado di giudizio. Se il giudizio
si estingue, la misura cautelare perde la sua efficacia. Una ultrattività della misura cautelare del giudice amministrativo è prevista
nel caso in cui venga dichiarato il difetto di giurisdizione o di competenza: in questi casi l’ordinanza conserva i suoi effetti per 30
giorni, così da consentire alla parte di riassumere il processo.
L’ordinanza che provvede su una istanza cautelare non “fa stato” nel giudizio: anche le eventuali valutazioni circa la fondatezza
dei motivi di ricorso non producono alcun vincolo sulla sentenza. Inoltre l’ordinanza è passibile di revoca, su richiesta della parte
che vi abbia interesse e, nel caso di rigetto dell’istanza cautelare, l’istanza può essere riproposta. Può essere richiesta la revoca
dell’ordinanza (o può essere riproposta l’istanza cautelare, se sia stata già respinta) nel caso di sopravvenienza di elementi nuovi,
esterni rispetto al giudizio. Si tratta del mutamento della situazione di fatto o del mutamento della situazione di diritto. La revoca
può essere pronunciata solo su istanza di parte.
A differenza dell’istanza di revoca, l’appello al Consiglio di Stato è ammesso non per fatti nuovi, sopravvenuti dopo l’ordinanza
cautelare, ma per “l’ingiustizia” dell’ordinanza stessa. L’appello va notificato entro 30 giorni dalla notifica dell’ordinanza, ovvero,
in mancanza di notifica, entro 60 dalla sua pubblicazione, e deve essere depositato entro 30 giorni dalla notifica. La decisione
sull’appello cautelare è assunta dal Consiglio di Stato con ordinanza: se in accoglimento dell’appello viene concessa una misura
cautelare, l’ordinanza è comunicata al Tar per la fissazione dell’udienza di merito.

6. L’esecuzione delle ordinanze cautelari


La sospensione del provvedimento impugnato può risultare talvolta già di per sé idonea ad assicurare che l’interesse del ricorrente
non sia irrimediabilmente pregiudicato dalla durata del giudizio: ci vale, in particolare, nei casi in cui la sospensione del
provvedimento comporti, come utilità, l’impossibilità per l’Amministrazione di dar corso ad atti di esecuzione (si pensi alla
sospensione di un decreto di occupazione, nel caso in cui esso non sia ancora stato eseguito). Altre volte, invece, la misura
cautelare comporta la necessità per l’Amministrazione di compiere una certa attività e di attenersi quindi a un certo
comportamento: si pensi al caso della sospensione di un provvedimento di licenziamento di un pubblico dipendente, che obbliga
l’Amministrazione a riammettere il dipendente in servizio.
Per assicurare l’esecuzione di una pronuncia del giudice amministrativo è istituito il rimedio del giudizio di ottemperanza. L’art. 59
c.p.a. precisa che, se l’Amministrazione non ha eseguito un’ordinanza cautelare, la parte interessata, con istanza che deve essere
notificata alle altre parti, può rivolgersi al giudice che ha emesso l’ordinanza. Il giudice amministrativo adotta le misure necessarie
per assicurare l’esecuzione dell’ordinanza cautelare e, a tal fine, dispone di tutti i poteri che sono ammessi per il giudizio di
ottemperanza. In particolare può dettare ordini all’Amministrazione, può nominare Commissari che si sostituiscano all’organo
inadempiente, ecc.

LA DECISIONE DEL RICORSO E I RIMEDI NEI CONFRONTI DELLA SENTENZA

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1. La decisione del ricorso


Il giudizio amministrativo è definito in genere da una sentenza, che viene deliberata dal collegio giudicante (art. 33); solo in alcuni
casi, quando si sia verificata una causa di estinzione del giudizio, ovvero il ricorso sia divenuto improcedibile, alla relativa
declaratoria provvede il Presidente con un decreto.
Con riferimento alle sentenze, si è soliti distinguere fra sentenze di rito e sentenze di merito. L’art. 35 del codice riconduce alle
prime le pronunce di irricevibilità, di inammissibilità, o di improcedibilità del ricorso, nonché le pronunce che dichiarino l’estinzione
del giudizio. Invece il codice include fra le “sentenze di merito” anche quelle che dichiarano la cessazione della materia del
contendere. La cessazione della materia del contendere si verifica quando nel corso del giudizio “la pretesa del ricorrente risulti
pienamente soddisfatta”: si pensi, nel giudizio per l’impugnazione di un provvedimento, al caso che il provvedimento impugnato
venga annullato d’ufficio dall’Amministrazione, in termini conformi all’interesse del ricorrente. Nei casi di estinzione del processo
o di improcedibilità del ricorso, il giudizio, come si è già segnalato, può essere definito anche dal Presidente con un proprio decreto
(art. 85). Negli stessi casi, se invece la controversia è già all’esame del collegio (per es., nella camera di consiglio fissata per
l’esame di un’istanza cautelare o in un’udienza pubblica), provvede il medesimo collegio con una “sentenza” di rito.
Nel caso di declinatoria della giurisdizione, il Tar deve indicare nella sentenza quale sia il giudice dotato di giurisdizione. Se la
parte ripropone tempestivamente la sua domanda davanti al giudice così indicato, sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali
della domanda presentata avanti al Tar (translatio iudicii). La domanda deve essere riassunta nel termine perentorio di 3 mesi.
Le misure cautelari del primo giudice mantengono la loro efficacia fino a 30 giorni dopo la pubblicazione della sentenza che
dichiara il difetto di giurisdizione. Il secondo giudice adito, se ritiene a sua volta di essere privo di giurisdizione, nella prima udienza
può sollevare d’ufficio un conflitto di giurisdizione, sul quale si pronuncerà la Corte di cassazione. La disciplina appena descritta è
dettata dal c.p.a. sia per il caso di una declinatoria di giurisdizione del giudice amministrativo a favore di altro giudice nazionale,
sia per il caso di una declinatoria di giurisdizione di un altro giudice nazionale rispetto al giudice amministrativo. Il cod ice, in
questo caso particolare, dispone pertanto anche rispetto all’attività giurisdizionale di giudici diversi da quello amministrativo.
Le sentenze di merito intervengono invece sul contenuto della domanda, accogliendola o dichiarandola infondata. In coerenza
con il principio della domanda, il giudice amministrativo è tenuto a pronunciarsi “su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa”.
Nell’esame della domanda, deve tener conto del vincolo di pregiudizialità che può sussistere fra le varie questioni rilevanti per la
decisione, con la conseguenza che la decisione su questioni pregiudiziali può definire il giudizio. Fenomeno diverso da quello della
pregiudizialità è il c.d. assorbimento delle questioni. Si verifica quando le questioni sollevate, pur non essendo collegate fra loro
secondo una relazione di pregiudizialità in senso tecnico, seguono un preciso ordine logico, che il giudice deve seguire ai fini della
decisione: si pensi al caso di censure che siano correlate secondo un rapporto di subordinazione, di alternatività o di continenza,
così che il rigetto (o l’accoglimento) dell’una renda superfluo l’esame dell’altra. Il giudice amministrativo, comunque, suole disporre
frequentemente l’assorbimento dei motivi di ricorso anche senza che sia identificabile un preciso ordine logico fra le questioni
sollevate, talvolta sulla base di criteri di mera opportunità pratica, come quando in presenza di più censure si limita ad esaminare
quella più facilmente verificabile, se da essa consegue l’annullamento del provvedimento impugnato (c.d. assorbimento improprio).
Questo uso strumentale dell’istituto dell’assorbimento viene spesso criticato, perché determina di fatto una pronuncia incompleta
sul ricorso e impedisce al cittadino di conseguire tutte le utilità che potrebbero derivare dall’accoglimento degli altri motivi di
impugnazione. Nella sentenza il giudice “non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle
parti”. Il giudice amministrativo, comunque, può sempre accertare d’ufficio la nullità di un provvedimento.
In talune situazioni processuali o per intere materie, il giudice si pronuncia sul ricorso con “ sentenza in forma semplificata” (art.
74). Il codice ammette una motivazione succinta per rendere più celere la decisione del ricorso, ma senza che ciò possa andare
a detrimento delle garanzie essenziali del processo. Una sentenza con caratteri peculiari è prevista per le controversie relative ad
obbligazioni pecuniarie (questa possibilità era contemplata in precedenza solo per le vertenze risarcitorie). Il giudice
amministrativo, quando accoglie la domanda di condanna, se nessuna delle parti gli richiede espressamente di provvedere
direttamente alla liquidazione, può limitarsi a fissare nella sentenza i “criteri” per liquidare l’importo dovuto. In questo caso, entro
un termine fissato nella sentenza la parte debitrice ha l’onere di formulare, sulla base di tali “criteri”, una proposta di pagamento;
in mancanza della proposta, o se essa non viene accolta, o se essa sia stata accolta ma il debitore non abbia adempiuto, la
liquidazione può essere richiesta dalla parte creditrice nelle forme previste per il giudizio di ottemperanza.
Il deposito della sentenza presso la segreteria del Tar comporta la pubblicazione della stessa: da quel momento la sentenza
produce i suoi effetti e decorre il termine annuale per l’eventuale impugnazione. Del deposito della sentenza la segreteria dà
comunicazione alle parti; la notifica della sentenza costituisce, invece, un onere delle parti, che determina la decorrenza del
termine breve per l’eventuale impugnazione.

2. Gli effetti della sentenza di annullamento


Il giudizio amministrativo è stato concepito storicamente innanzitutto come giudizio di impugnazione di un provvedimento. Di
conseguenza proprio la sentenza che accoglie il ricorso e annulla il provvedimento impugnato è stata considerata a lungo come
l’espressione tipica della funzione giurisdizionale amministrativa ed ha rappresentato l’oggetto specifico della disciplina legislativa.
Il nucleo della sentenza di annullamento è stato identificato a lungo con l’accertamento della illegittimità del provvedimento
impugnato. A questa concezione col tempo se ne è contrapposta un’altra. Anch’essa identifica come centrale il momento
dell’accertamento, ma si concentra in modo particolare sulla situazione giuridica tutelata nel processo amministrativo: la sentenza
di annullamento accerta infatti la lesione di un interesse legittimo. In questo modo, fra l’altro, si ricostituirebbe un legame più
stretto fra il processo amministrativo e il processo civile, che è di regola processo su posizioni soggettive e che ammette solo
eccezionalmente il giudicato sul fatto.
La dottrina e la giurisprudenza hanno identificato effetti della sentenza di annullamento ulteriori rispetto all’eliminazione del
provvedimento impugnato. Si tratta di effetti che non hanno un carattere “reale”, come invece la caducazione dell’atto impugnato,
ma hanno un carattere “obbligatorio”, nel senso che costituiscono a carico dell’Amministrazione doveri di condotta. In questo
modo la sentenza di annullamento del giudice amministrativo si configura come una sentenza “non meramente” costitutiva. In
argomento appare significativa la sistematica proposta da alcuni autori, che ha trovato ampio seguito nella giurisprudenza e alla
quale allude in alcune disposizioni anche il c.p.a. (art. 113 c.1). Questa sistematica individua tre ordini di effetti della sentenza di
annullamento:

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--‐ un effetto “eliminatorio” o “caducatorio”. La sentenza di annullamento comporta l’eliminazione dalla c.d. realtà giuridica
del provvedimento annullato, annullamento che determina il venir meno degli effetti prodotti dal provvedimento.
L’annullamento di un decreto di esproprio comporta come effetto il venir meno del titolo giuridico in forza del quale il
destinatario dell’esproprio è divenuto proprietario del bene: titolare del diritto sul bene, in seguito alla sentenza, è
nuovamente il proprietario espropriato;
--‐ un effetto “ripristinatorio”. La sentenza di annullamento opera “ex tunc”. L’annullamento del decreto di esproprio
obbliga pertanto l’Amministrazione a restituire al proprietario espropriato i frutti percepiti dopo l’emanazione del decreto
di esproprio;
--‐ un effetto “conformativo”. L’accertamento contenuto nella sentenza non può essere disatteso dall’Amministrazione.
Pertanto nella rinnovazione del procedimento l’Amministrazione non può riprodurre il vizio già accertato nella sentenza.
Di conseguenza, nel caso di annullamento di un decreto di esproprio, l’Amministrazione non può assumere nuovamente
un decreto di esproprio che, oltre ad avere il medesimo contenuto di quello annullato, ne riproduca la stessa motivazione:
i nuovi provvedimenti non sarebbero semplicemente viziati per difetto di motivazione, ma sarebbero viziati più
radicalmente per la violazione della sentenza di annullamento.
Se l’annullamento è stato disposto per un vizio di legittimità sostanziale il vantaggio che ha ottenuto il ricorrente è maggiore,
perché l’annullamento per vizi di legittimità sostanziale impedisce l’emanazione di un nuovo provvedimento con quel contenuto.
Si pensi all’annullamento di un decreto di esproprio per violazione di una norma di legge che escluda quei beni particolari
dall’esproprio: l’accertamento di un vizio del genere preclude all’Amministrazione la possibilità di un nuovo esproprio dello stesso
bene. Se invece l’annullamento è disposto per un vizio di legittimità formale, in genere il vantaggio che ottiene il ricorrente è
minore, perché l’annullamento non impedisce di per sé l’emanazione di un nuovo atto con lo stesso contenuto, purché l’atto stesso
sia emendato dai vizi accertati nella sentenza. Se però il potere dell’Amministrazione, in base a una norma sostanziale, era soggetto
a un termine perentorio che ne precludeva la rinnovazione o comunque poteva essere esercitato una volta sola (si pensi al caso
dei poteri di controllo), allora in questo caso anche l’annullamento per un vizio formale risulta pienamente satisfattivo per il
ricorrente, perché la rinnovazione del procedimento è preclusa.
Quanto, invece, alla sentenza che rigetti un ricorso perché infondato, ovviamente, la sentenza di rigetto non comporta in alc un
modo un accertamento della legittimità dell’atto: il giudice si pronuncia soltanto sulle censure proposte con un determinato ricorso.
Secondo una parte della dottrina anche questa sentenza comporterebbe vincoli sull’attività amministrativa successiva: infatti
precluderebbe all’Amministrazione di annullare d’ufficio quel provvedimento, per il vizio ritenuto insussistente nella sentenza. L’ art.
21-octies legge 241/1990, introdotto dalla legge 15/2005, esclude l’annullamento del provvedimento “adottato in violazione di
norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso”. Questa disposizione è tuttora oggetto di interpretazioni disparate.

3. Le impugnazioni (in generale)


Nei confronti delle sentenze del giudice amministrativo sono previsti vari mezzi di impugnazione: nei confronti delle sentenze dei
Tar è ammesso l’appello al Consiglio di Stato, nei confronti delle sentenze del Consiglio di Stato è ammesso il ricorso per cassazione
per motivi di giurisdizione, nei confronti delle sentenze dei Tar e del Consiglio sono ammessi, infine, la revocazione e l’opposizione
di terzo. A questi mezzi di impugnazione va accostato il regolamento di competenza, quando sia proposto nei confronti
dell’ordinanza del Tar che si pronunci sulla competenza. Prima del codice, la disciplina delle impugnazioni nelle leggi sul processo
amministrativo era piuttosto lacunosa; la legge istitutiva dei Tar aveva introdotto il doppio grado di giudizio: all’appello erano
dedicate in questa legge solo poche e scarne disposizioni. Il codice del processo amministrativo introduce una disciplina più
puntuale delle impugnazioni, con la quale viene data risposta a molti degli interrogativi ancora aperti; ad altri interrogativi è dato
riscontro attraverso rinvii espliciti alle disposizioni del codice di procedura civile. Residuano comunque alcune lacune. Il codice del
processo amministrativo ha premesso alcune disposizioni dedicate alle “impugnazioni in generale” (artt. 9199).
I termini per proporre le impugnazioni sono di due ordini (art. 92): il termine “breve”, che decorre dalla notifica della sentenza,
è di regola pari a 60 giorni, mentre il termine “lungo”, per il caso non sia intervenuta la notifica della sentenza, è di regola pari a
6 mesi dalla pubblicazione di essa. Tali termini sono perentori; è però confermata la possibilità, prevista anche dal C.P.C., per la
parte non costituita nel grado precedente di giudizio, di dimostrare di non aver avuto conoscenza del processo per la nullità del
ricorso o della sua notifica. In tal caso è ammessa un’impugnazione tardiva. Alla notifica dell’impugnazione deve seguire il suo
deposito presso la cancelleria del giudice adito. Il deposito dell’appello, della revocazione e dell’opposizione di terzo va effettuato
entro 30 giorni dall’ultima notifica; insieme con l’atto di impugnazione notificato, va depositata anche una copia della sentenza
impugnata (art. 94).

a) Il contraddittorio è disciplinato per due profili nodali: l’individuazione delle parti del precedente grado di giudizio che siano
anche parti necessarie nel grado successivo e le modalità per evocarle in giudizio (art. 95). Rispetto al secondo profilo il
codice ripropone le soluzione accolte dalla giurisprudenza precedente. E’ sufficiente notificare l’impugnazione a una sola delle
controparti, non è invece necessaria la notificazione ad almeno uno tra gli eventuali controinteressati (come invece vale per
il ricorso di primo grado); nei confronti di tutte le altre parti l’integrazione del contraddittorio può essere ordinata
successivamente dal giudice. Per quanto riguarda invece il primo profilo, il codice identifica come parti necessarie del giudizio
d’impugnazione “tutte le parti in causa” nelle cause “inscindibili” (litisconsorzio necessario), nonché “le parti che hanno
interesse a contraddire” “negli altri casi” (evidente soprattutto nei casi di vertenze su diritti devolute alla giurisdizione
esclusiva, anche per assicurare una certa omogeneità di trattamento rispetto al processo civile). Il codice del processo
amministrativo, però, non si limita a questa previsione. Con riferimento “agli altri casi” stabilisce che la notifica
dell’impugnazione (o, se l’impugnazione sia stata notificata a una sola delle controparti, l’integrazione del contraddittorio) è
necessaria nei confronti delle sole parti “che hanno interesse a contraddire”. Il codice ha escluso la necessità di integrare il
contraddittorio nei confronti dei c.d. co-soccombenti, ossia di quelle parti che, risultate soccombenti nel giudizio del
precedente grado, avrebbero ben potuto proporre in termini una loro impugnazione e non l’abbiano però proposta.

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b) Il tema delle impugnazioni incidentali. In proposito, analogamente al C.P.C., il codice del processo amministrativo sancisce
l’obiettivo della concentrazione delle impugnazioni di una medesima sentenza, per realizzare una economia processuale, per
ottenere che tutte le parti si confrontino in un unico grado e, soprattutto, per evitare decisioni contrastanti. Infatti è richiamato
espressamente (art. 96) l’art. 333 C.P.C. Di conseguenza, anche nel processo amministrativo vige la regola secondo cui tutte
le impugnazioni successive alla prima devono essere proposte dalle altre parti con una impugnazioni incidentale, nel giudizio
promosso per effetto della prima impugnazione. Il codice presenta però anche alcune particolarità di rilievo.
Nel processo amministrativo appare maggiore il rischio che nei confronti di un’identica sentenza sia proposta una pluralità di
impugnazioni separate (in particolare, su iniziativa di parti che non siano al corrente della prima impugnazione). D’altra parte
questo rischio sembra essere accettato dallo stesso codice, che infatti tempera alcune delle conseguenze previste nel processo
civile per il caso di inosservanza dell’onere di appello incidentale: in particolare, il c.p.a., pur richiamando espressamente l’art. 333
C.P.C., non sembra comminare alcuna decadenza, se una parte abbia proposto la propria impugnazione in via principale (e perciò
un processo distinto), anziché in via incidentale, tant’è vero che impone tassativamente al giudice di procedere alla riunion e di
“tutte le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza” (art. 96 c.1). Inoltre, con una disposizione che mancherà
di sollevare non pochi problemi pratici, stabilisce che, nel caso non sia stata disposta la riunione, “la decisione di una delle
impugnazioni non determina l’improcedibilità delle altre” (art. 96 c.6). Di conseguenza la prima decisione che intervenga su una
delle impugnazioni non può essere opposta alle parti che abbiano notificato una impugnazione separata contro la stessa sentenza:
il coordinamento va cercato sul piano sostanziale, e non su quello meramente processuale.

c) L’impugnazione incidentale di regola deve essere notificata alle altre parti nel termine di 60 giorni dalla notifica della prima
impugnazione, e comunque prima della decorrenza dei termini per il passaggio in giudicato della sentenza (art. 96 c.3). Il
C.P.C. ammette che la controparte alla quale sia stata notificata la prima impugnazione e le parti nei cui confronti sia stata
ordinata l’integrazione del contraddittorio in cause “inscindibili” possano proporre le loro impugnazioni incidentali anche se
per esse sia decorso il termine per proporre l’impugnazione o se abbiano fatto acquiescenza alla sentenza (si tratta della c.d.
impugnazione incidentale tardiva). La notifica della prima impugnazione, in questo caso, modifica il quadro degli interessi
delle altre parti quale era determinato dalla sentenza; di conseguenza tali parti potrebbero orientarsi a proporre
un’impugnazione incidentale anche se inizialmente potevano essere disposte ad accettare la sentenza (art. 334 C.P.C.). La
giurisprudenza civile, oggi, consente l’impugnazione incidentale tardiva anche nei confronti di un capo di sentenza diverso
da quello censurato nella prima impugnazione; per il suo carattere di dipendenza da essa, l’impugnazione “tardiva” perde
però ogni efficacia se la prima impugnazione sia dichiarata a sua volta inammissibile.
Il c.p.a. richiama espressamente tale disciplina (art. 96 c.4) e precisa che l’impugnazione incidentale tardiva può riguardare anche
“capi autonomi della sentenza” (sempre restando fermo che l’impugnazione tardiva perde ogni efficacia se l’impugnazione
principale sia dichiarata a sua volta inammissibile). La precisazione è opportuna, perché invece, prima del codice, la giurisprudenza
amministrativa era orientata in prevalenza nel senso che l’impugnazione tardiva potesse riguardare solo gli stessi capi di sentenza
censurati nella prima impugnazione, sull’argomento che rispetto agli altri capi la decorrenza dei termini per l’impugnazione avrebbe
comportato il loro passaggio in giudicato.

d) L’impugnazione può riguardare uno o più capi di sentenza; rispetto a quelli non gravati da impugnazione, in linea di principio,
se non intervenga un’impugnazione incidentale, si forma il giudicato.

e) Nel processo amministrativo, nel giudizio d’impugnazione, può intervenire “chi vi ha interesse”. L’intervento deve essere
proposto con un atto da notificare alle altre parti (art. 97). Per questo aspetto la disciplina delle impugnazioni nel processo
amministrativo si differenzia da quella del processo civile, che di regola ammette l’intervento solo dei soggetti che potrebbero
proporre l’opposizione di terzo.

f) Nel giudizio promosso in seguito all’impugnazione della sentenza può essere richiesta la sospensione dell’esecuzione della
sentenza stessa (art. 98).

Il codice ha inserito anche un articolo sul deferimento di questioni all’ adunanza plenaria del Consiglio di Stato (art. 99). Questa
disciplina è dunque dettata particolarmente per l’appello; può assumere rilievo, però, anche nel caso di revocazione o di
opposizione di terzo, se competente a decidere sia il Consiglio di Stato. La rimessione all’adunanza plenaria può essere disposta
dalla sezione del Consiglio chiamata a decidere l’impugnazione o prima ancora dal Presidente del Consiglio, anche d’ufficio; nel
primo caso è determinata dalla circostanza che in discussione è un punto di diritto che ha dato luogo o che possa dar luogo a
contrasti giurisprudenziali, nel secondo caso assume rilievo anche la particolare importanza della questione da risolvere.
All’adunanza plenaria è riconosciuta una funzione nomofilattica, analoga a quella riconosciuta alle sez. un. Della Cassazione;
questa funzione si risolve nell’enunciazione, nella sentenza, di un “principio di diritto”. Se una sezione ritiene di non condividere il
principio di diritto, deve rimettere il giudizio all’adunanza plenaria, con un’ordinanza motivata.
La circostanza che nei confronti delle decisioni del Consiglio il ricorso per cassazione sia ammesso solo per motivi inerenti alla
giurisdizione e non per violazione di legge non deve pregiudicare l’univocità della giurisprudenza, che è considerata
tradizionalmente un fattore di garanzia per la certezza del diritto.

4. L’appello al Consiglio di Stato: considerazioni preliminari


In seguito all’istituzione dei Tar, nel processo amministrativo vige con carattere di generalità il c.d. doppio grado di giurisdizione:
nei confronti delle sentenze dei Tar la parte soccombente può proporre l’appello al Consiglio di Stato (art. 100 c.p.a.). Legittimate
a proporre l’appello sono le parti necessarie nel giudizio di primo grado. La legittimazione a proporre l’appello è riconosciuta dal
codice anche all’interventore ad opponendum nel giudizio di primo grado, quando esso risulti titolare di una posizione giuridica
autonoma rispetto alle altre parti (art. 102 c.2). Nei confronti delle sentenze non definitive la parte può proporre senz’altro l’appello
nel rispetto dei termini già segnalati, ma può anche riservarsi di impugnare la sentenza non definitiva unitamente a quella
definitiva. Sulla linea della giurisprudenza più recente, il codice riconosce finalmente l’istituto della riserva d’appello anche nel

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processo amministrativo; la riserva d’appello è proposta con un atto che va notificato alle altre parti entro il termine fissato per
l’appello e va depositato presso il Tar nei successivi 30 giorni (art. 103). L’appello al Consiglio deve essere proposto con un ricorso,
con i contenuti elencati dall’art. 101 c.p.a. Il codice richiede che siano identificati il ricorrente e il suo difensore, le parti nei cui
confronti è proposto l’appello e la sentenza di primo grado, che siano esposti sommariamente i fatti, che siano formulate le
conclusioni, ecc. Nel ricorso non solo devono essere identificati i capi di sentenza gravati d’appello, ma anche devono esser e
enunciate “le specifiche censure” contro la relativa pronuncia del giudice di primo grado (art. 101 c.1). E’ necessario pertanto che
l’appello, oltre a identificare esattamente l’oggetto della domanda, e cioè a definire l’ambito della sentenza di primo grado di cui
si invoca il riesame, enunci anche la critica ai capi di sentenza appellati. L’appellante non può limitarsi a riproporre le sue ragioni,
già disattese dal giudice di primo grado, per ottenere da parte del giudice d’appello una nuova pronuncia sulla controversia, ma
deve formulare una critica specifica alla sentenza di primo grado: a pena di inammissibilità, deve enunciare le ragioni per le quali
ritiene che la sentenza non sia corretta o condivisibile.
Si parla di un effetto devolutivo dell’appello: si designa così la riemersione “automatica”, nel giudizio d’appello, delle questioni già
sollevate nel giudizio di primo grado e, conseguentemente, del relativo materiale di cognizione e probatorio. Per valutare la
rilevanza nel processo amministrativo dell’effetto devolutivo in senso proprio è opportuno ricordare che un effetto devolutivo si
può produrre solo nei limiti dell’impugnazione proposta: pertanto può riguardare solo questioni risolte nei capi di sentenza che
siano impugnati. Le soluzioni accolte per definire la nozione di capo di sentenza condizionano, pertanto, anche l’ampiezza
dell’effetto devolutivo. Alla stregua della lettura accolta in prevalenza dalla giurisprudenza amministrativa, nel processo
amministrativo l’effetto devolutivo dell’appello avrebbe una portata molto limitata: consentirebbe al giudice di secondo grado di
conoscere d’ufficio i meri argomenti, di diritto e di fatto, esposti dalle parti in ordine alle questioni esaminate e decise (ovviamente
nei limiti dei “capi” appellati), di valutare gli elementi di prova inerenti a tali questioni acquisiti nel giudizio di primo grado (e quindi
di compiere ogni relativo apprezzamento), nonché di conoscere le istanze istruttorie proposte dalle parti nel giudizio di primo
grado. Invece riguardo alle “questioni” sollevate dalle parti sarebbe difficilmente prospettabile un effetto devolutivo. Di
conseguenza, rispetto alle “questioni”, risulta tanto maggiore l’onere di proporre appello incidentale, perché solo con l’appello
incidentale esse possono estendere la cognizione del giudice a capi della sentenza diversi da quelli censurati nell’appello principale.
Infatti l’appello incidentale è in stretto rapporto con l’effetto devolutivo: non è configurabile un onere di impugnazione, e quindi
di appello incidentale, nei casi in cui opera l’effetto devolutivo. Se opera l’effetto devolutivo, il giudice d’appello ha già di per sé la
capacità (e il dovere) di prendere in considerazione le ragioni e gli elementi non accolti dal giudice di primo grado; se la parte
intende richiamarli specificamente all’attenzione del giudice d’appello, può farlo nelle sue normali difese, senza necessità di
notificare un appello incidentale. Effetto devolutivo ed onere di appello incidentale sono dunque in una relazione di alternatività.
Prima del codice la giurisprudenza ammetteva un limitato effetto devolutivo rispetto alle “questioni assorbite”. Oggi il codice
dispone che l’appellante ha l’onere di riproporre nel suo appello anche le questioni assorbite e comunque non esaminate nella
sentenza, precisando che altrimenti devono intendersi “rinunciate” (art. 101 c.2).
Riguardo la disciplina dei “nova”: il codice conferma che con l’appello al Consiglio di Stato non è ammessa la presentazione di
nuovi motivi di ricorso contro il provvedimento impugnato in primo grado, né altre domande nuove (art. 104 c.1). La ragione di
questa esclusione è rappresentata dalla incidenza delle logiche specifiche dell’azione di annullamento, che comportano la vigenza
di un termine generale di decadenza per l’impugnazione del provvedimento amministrativo. Si comprende, in questa logica, perché
siano ammessi invece anche in grado di appello i c.d. motivi aggiunti; non costituiscono un rimedio a carenze e manchevolezze
della difesa nel precedente grado di giudizio, ma si configurano come strumento integrativo della domanda, in seguito alla
acquisizione al processo di fatti nuovi, prima non noti al ricorrente.
Nell’appello possono essere richiesti gli interessi e gli accessori maturati dopo la sentenza di primo grado, nonché il risarcimento
dei danni subiti dopo tale sentenza e, a maggior ragione, la restituzione di quanto corrisposto in base alla sentenza di primo
grado. Si deve invece escludere la possibilità che sia richiesto per la prima volta in grado d’appello il risarcimento dei danni
provocati dal provvedimento amministrativo. Per quanto riguarda invece le eccezioni nuove, il codice, confermando la
giurisprudenza amministrativa più recente e gli indirizzi maturati nel processo civile, ammette in grado d’appello solo quelle
rilevabili d’ufficio. Infine il codice estende al processo amministrativo il divieto per le parti di dedurre nuovi mezzi di prova e di
produrre nuovi documenti. Una deroga è ammessa nei soli casi in cui il collegio li ritenga “indispensabili per la decisione” e nei
casi in cui la parte non abbia potuto dedurli o produrli nel giudizio di primo grado “per causa ad essa non imputabile”. In
conclusione, nel codice la possibilità di introdurre “nova” nel giudizio d’appello risulta assolutamente limitata. Di conseguenza
l’appello al Consiglio si configura oggi più come un rimedio agli errori del giudice di primo grado, che come mezzo per ottenere
un nuovo esame della controversia da parte del giudice di grado superiore.

5. (segue): lo svolgimento del giudizio e la decisione


Lo svolgimento del giudizio d’appello avanti al Consiglio di Stato è regolato dalle disposizioni sul giudizio di primo grado. In estrema
sintesi, l’appello contro una sentenza del Tar va proposto con ricorso al Consiglio in sede giurisdizionale, da notificarsi, di regola,
entro 60 giorni dalla notifica della sentenza, o entro 6 mesi dalla data di pubblicazione della sentenza, se non sia stata notificata.
L’appello non comporta di per sé la sospensione dell’esecutività della sentenza: la sospensione può essere disposta dal Consiglio,
in seguito ad istanza dell’appellante contenuta nell’appello o in altro atto notificato alle altre parti. Gli appellanti possono costituirsi
in giudizio, depositando una memoria di costituzione (c.d. controricorso), entro il termine di 60 giorni dalla notifica dell’appello;
tale termine deve ritenersi ordinatorio. Invece è perentorio il termine di 60 giorni per proporre l’appello incidentale. Nel giudizio
d’appello è ammesso inoltre l’intervento di quanti avrebbero potuto intervenire ad adiuvandum o ad opponendum nel giudizio di
primo grado. Anche per quanto concerne la necessità dell’istanza di fissazione dell’udienza, la fase conclusiva del giudizio, la
discussione dell’appello, la decisione vale la stessa disciplina esaminata per il giudizio di primo grado.
Una peculiarità è invece prevista nei giudizi contro le pronunce dei Tar che abbiano declinato la giurisdizione: in questi casi, dato
che l’appello verte in sostanza su una sola questione (e nel caso di accoglimento verrebbe disposta la rimessione degli atti al
giudice di primo grado) e, al fine di risolvere al più presto ogni incertezza, il giudizio si svolge con in rito camerale (art. 105 c.2).
L’appello nel processo amministrativo ha carattere rinnovatorio: di conseguenza il Consiglio, se accoglie l’appello, di regola “decide
anche sulla controversia”. Ciò comporta che, nel caso sia stata proposta un’azione di annullamento, il giudice d’appello si pronuncia
anche sulla impugnazione del provvedimento amministrativo, 39 nel rispetto dei limiti dell’appello. In coerenza con il carattere

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rinnovatorio dell’appello, il Consiglio non è vincolato dalla regola del fatto enunciata nella sentenza impugnata; inoltre, nei casi
ammessi dall’art. 104 c.2, può anche acquisire nuovi elementi di prova. La distanza rispetto al ricorso per cassazione è evidente.
Il carattere rinnovatorio del giudizio d’appello consente di richiamare per le sentenze del Consiglio quanto è stato già presentato
a proposito della sentenza del Tar, con alcune precisazioni, che riguardano i vizi della sentenza appellata rilevabili d’ufficio dal
giudice d’appello e i casi in cui la sentenza del Consiglio ha un contenuto solo demolitorio della sentenza del Tar e non si risolve
quindi in una decisione sulla controversia già affrontata dal giudice di primo grado.
a) Per quanto riguarda il primo punto, va osservato che, prima del codice, il Consiglio riteneva di poter rilevare anche
d’ufficio alcuni vizi della sentenza impugnata. Nel c.p.a. il tema è affrontato rispetto alla questione di giurisdizione: viene stabilito
che nel giudizio d’appello il difetto di giurisdizione “è rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia
impugnata che, in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione”. Il codice accoglie pertanto la figura del giudicato
“implicito” sulla giurisdizione; di conseguenza in questo caso, in mancanza di specifico gravame, il Consiglio non può pronunciarsi
sulla questione di giurisdizione. Una pronuncia d’ufficio sembrerebbe possibile solo nei casi in cui non sia neppure configurabile
una pronuncia “implicita” sulla giurisdizione (per es., quando il giudice di primo grado abbia deciso la controversia rigettando il
ricorso sulla base di una questione logicamente precedente a quella di giurisdizione o che comunque prescindeva totalmente da
essa).
b) l’art. 105 prevede alcune ipotesi di decisioni del Consiglio di Stato di annullamento (senza riforma) della sentenza
appellata, con rinvio degli atti al giudice di primo grado. L’annullamento con rimessione degli atti al giudice di primo grado è
disposto in ipotesi tassative, derogatorie rispetto al principio generale confermato nello stesso art. 105 c.1, e rappresentato dal
carattere rinnovatorio dell’appello al Consiglio di Stato. Fra questi casi sono considerati innanzitutto il difetto del contraddittorio o
la lesione del “diritto di difesa di una delle parti” nel giudizio di primo grado. Inoltre l’annullamento della sentenza con rimessione
al giudice di primo grado è prevista nel caso di “nullità della sentenza” di primo grado. Questo termine è utilizzato in modo
palesemente improprio, perché qualsiasi vizio processuale nel giudizio di primo grado determina tecnicamente la nullità della
sentenza, mentre la rimessione al giudice di primo grado va disposta solo in casi particolari. E’ stato perciò proposto di fare
riferimento all’ipotesi più grave di nullità contemplata dall’art. 161 c.1 C.P.C., e spesso designata come ipotesi di “inesistenza”
giuridica della sentenza. Infine la rimessione al giudice di primo grado è prevista nel caso in cui il Consiglio riformi la sentenza del
Tar che erroneamente ha declinato la giurisdizione, o ha pronunciato sulla competenza, o ha dichiarato l’estinzione o la perenzione
del giudizio.
c) Il codice non considera invece l’ipotesi di annullamento senza rinvio, che invece era contemplata espressamente dalla
legge istitutiva dei Tar. La mancanza di riferimento non deve interpretarsi come un’esclusione di tale evenienza. Il Consiglio, se
accerta che il Tar si è pronunciato sul merito del ricorso nonostante che esso fosse affetto da un vizio insanabile dell’atto
introduttivo, o non potesse essere deciso per la presenza di cause impeditive o estintive del giudizio (perenzione, decadenza,
ecc.), o che sussistesse un difetto assoluto di giurisdizione (nel senso che nessun giudice nazionale fosse fornito di giurisdizione
per quella controversia), si limita ad annullare la sentenza di primo grado, senza un rinvio.
d) Il Consiglio, se annulla la sentenza del Tar che abbia ritenuto erroneamente di avere giurisdizione su quella controversia,
se ritiene che la giurisdizione sia devoluta a un altro giudice nazionale, lo dichiara nella sua sentenza, indicando il giudice
competente.
6. La revocazione
L’art. 106 c.p.a. ammette nei confronti delle sentenze dei Tar e del Consiglio di Stato il rimedio della revocazione. L’istituto della
revocazione viene spesso ricondotto a due ipotesi distinte: la revocazione ordinaria, ammessa nei confronti di sentenze non ancora
passate in giudicato, e la revocazione straordinaria, ammessa nei confronti delle sentenze già passate in giudicato, perché relativa
a vizi della sentenza che possono venire in evidenza solo in un secondo momento. I casi di revocazione previsti dall’art. 395 C.P.C.
riguardano:
1- La sentenza che sia effetto del dolo di una parte in danno a un’altra;
2- La sentenza pronunciata in base a prove riconosciute o dichiarate false dopo la sentenza;
3- Il caso di ritrovamento dopo la sentenza di uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in
giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario;
4- La sentenza che sia affetta da errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. L’errore deve consistere in
una errata od omessa percezione del contenuto materiale degli atti o dei documenti prodotti nel giudizio;
5- La sentenza contraddittoria con altra precedente passata in giudicato, purché non abbia pronunciato sulla relativa
eccezione;
6- La sentenza affetta da dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato.
La revocazione ordinaria è ammessa in tutti i casi previsti dall’art. 395 C.P.C.; la revocazione straordinaria è ammessa invece solo
nelle ipotesi previste dai nn. 1,2,3, e 6. Nel processo amministrativo la presentazione di ricorsi per revocazione (motivati
soprattutto con l’errore di fatto) si verifica con una certa frequenza, probabilmente anche perché nei confronti delle sentenze
pronunciate in grado d’appello non sono ammesse altre ipotesi di impugnazione (il ricorso alla Corte di cassazione, infatti, è
ammesso solo per motivi di giurisdizione).
La revocazione nei confronti delle sentenze dei Tar “è ammessa se i motivi non possono essere dedotti con l’appello” (art. 106
c.3); dato che tutti i motivi di revocazione sono astrattamente deducibili nell’appello, questa disposizione va interpretata nel senso
che la revocazione delle sentenze dei Tar è ammessa solo nei casi e alle condizioni indicati dall’art. 396 C.P.C. Si tratta dei casi di
revocazione c.d. straordinaria, corrispondenti alle situazioni elencate ai nn. 1,2,3, e 6 dell’art. 395 C.P.C. (attinenti cioè a vizi non
percepibili immediatamente dal testo della sentenza), purché il fatto che determina la revocazione sia stato scoperto o sia stato
accertato solo dopo la scadenza del termine per l’appello.
Rispetto alle sentenze del Consiglio, invece, la revocazione è proponibile in tutti i casi elencati nell’art. 395. Il ricorso per
revocazione si propone avanti al medesimo giudice che ha emesso la sentenza (art. 106 c.2).

7. L’opposizione di terzo.
Il rimedio dell’opposizione di terzo è disciplinato dal codice negli artt. 108 e 109. Attraverso l’opposizione un terzo può porre in
discussione una sentenza passata in giudicato “o comunque esecutiva” che pregiudichi i suoi diritti e che sia stata pronunciata in

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un giudizio cui sia rimasto estraneo (art. 108 c.1); il codice introduce anche la possibilità di un’opposizione di terzo “revocatoria”,
proposta dai creditori o dagli aventi causa di una delle parti nei confronti della sentenza che sia il risultato di collusione o di dolo
ai loro danni (c.2). Legittimato a proporre l’opposizione: il terzo titolare di una posizione autonoma e incompatibile. La
giurisprudenza in passato ha riconosciuto il rimedio dell’opposizione a terzi che erano titolari di un unico bene giuridico indivisibile,
che la sentenza abbia però assegnato ad altri, ma è stato proposto l’utilizzo dell’opposizione anche per i terzi che vantino una
pretesa autonoma, qualificabile come interesse legittimo, incompatibile con quella riconosciuta nella sentenza. Questa più ampia
interpretazione comporta una notevole estensione dell’ambito dell’istituto. L’art. 404 c.1 C.P.C., con riferimento al processo civile,
riferisce il pregiudizio ai “diritti” del terzo, mentre l’interpretazione esaminata assegna piena rilevanza anche agli interessi legittimi.
Il codice del processo amministrativo non considera, ai fini dell’opposizione di terzo, il controinteressato pretermesso. Si deve però
ritenere che si tratti una mera omissione e la logica dell’istituto impone senz’altro di riconoscere anche a tale soggetto la
legittimazione a proporre l’opposizione.
Invece il codice è intervenuto in modo efficace sul rapporto fra opposizione di terzo e appello. Il codice chiarisce innanzitutto che
l’opposizione di terzo va proposta avanti al giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata (art. 109 c.1): pertanto è superato
l’indirizzo secondo cui l’opposizione di terzo nei confronti delle sentenze dei Tar avrebbe dovuto essere proposta avanti al Consiglio
di Stato. La soluzione accolta nel codice comporta la possibilità che una stessa sentenza di un Tar sia oggetto, su iniziativa delle
parti, di appello al Consiglio di Stato e, su iniziativa del terzo, di opposizione di terzo. Per evitare la pendenza di due gravami
diversi, il codice afferma il principio della prevalenza del gravame ordinario. Pertanto se sia già stato proposto appello, il terzo
deve introdurre la sua domanda intervenendo nel giudizio d’appello. Invece se una parte proponga appello dopo che il terzo abbia
introdotto l’opposizione di terzo, il giudice dell’opposizione deve fissare un termine al terzo per intervenire nel giudizio d’appello e
l’opposizione diventa improcedibile.

8. Il ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione


Nei confronti della sentenza del Consiglio (nonché del Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana) è ammesso il
ricorso alla Corte di cassazione per motivi di giurisdizione (art. 110 c.p.a.). Il ricorso alla Corte di cassazione è ammesso per
denunciare la violazione dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa; la violazione dei limiti esterni può concretarsi sia in
un’erronea declinatoria di giurisdizione, sia nell’accoglimento del ricorso in ipotesi esorbitanti rispetto alla giurisdizione
amministrativa. La disciplina del ricorso contro le sentenze del Consiglio di Stato per motivi di giurisdizione è dettata dal C.P.C. Il
ricorso va proposto nel termine di 60 giorni dalla notifica della decisione del Consiglio di Stato, ovvero di 6 mesi dal deposito della
decisione, nel caso che essa non sia stata notificata. Quando sia impugnata una sentenza del Consiglio di Stato, sulla questione
di giurisdizione si pronunciano sempre le sezioni unite della Cassazione. Il codice del processo amministrativo ha introdotto la
possibilità di una sospensione dell’esecuzione della sentenza del Consiglio, in pendenza del ricorso per cassazione. La sospensione,
unitamente ad ogni altra misura cautelare, è disposta dallo stesso Consiglio, su istanza di parte “in caso di eccezionale gravità ed
urgenza”.

I RITI SPECIALI

1. I riti speciali nel processo amministrativo


Per quasi un secolo, fino alla legge istitutiva dei Tar, lo svolgimento del processo amministrativo fu assoggettato a una disciplina
uniforme. La legge istitutiva dei Tar introdusse un primo rito speciale, stabilendo che le controversie per le operazioni elettorali
fossero assoggettate alla particolare disciplina stabilita precedentemente per i giudizi avanti alle Sezioni per il contenzioso
elettorale. A partire dagli anni ’90, l’assegnazione al giudice amministrativo di compiti nuovi e l’affinamento delle modalità di tutela
favorirono l’introduzione di una serie di discipline speciali. Le ragioni che determinarono la previsione di riti speciali furono varie.
In alcuni casi la specialità della disciplina processuale rifletteva il particolare rilievo riconosciuto ad alcune procedure
amministrative: si pensi appunto al contenzioso elettorale. In altri casi rispecchiava la peculiarità di certe situazioni sostanziali,
rispetto alle quali si avvertiva l’esigenza di una disciplina tipica anche del processo: così è stato per la tutela in materia d’accesso.
In altri casi ancora, l’introduzione di una disciplina speciale trovava ragione essenzialmente nell’esigenza di accelerare la decisione,
per la particolare importanza di ordine economico, sociale, ecc. delle vertenze e per evitare che la pendenza del giudizio potesse
comprometterne interessi importanti, anche solo di ordine finanziario, dell’amministrazione o della collettività.
Prima del codice, questa proliferazione era all’origine di numerose discipline particolari. Il codice ha perseguito in questo ambito
un obiettivo di semplificazione, riducendo il numero dei riti speciali. Il codice ha proposto anche la disciplina di alcuni profili comuni.
In particolare per la prima volta è stato disciplinato il cumulo delle domande che siano di per sé assoggettate a riti diversi. Il
codice oggi ammette la possibilità del cumulo delle domande in un identico giudizio e stabilisce in via generale la prevalenza del
rito ordinario (art. 32). Questa regola generale, però, risulta limitata nella sua portata, sul piano concreto. Infatti, se una domanda
sia assoggettata a uno dei riti abbreviati previsti dagli artt. 119 ss. del codice, l’intero giudizio deve essere definito secondo il rito
speciale. Le disposizioni sui riti speciali hanno carattere derogatorio rispetto alla disciplina generale del processo amministrativo.

2. Il giudizio in materia di accesso


L’art. 116 prevede una disciplina speciale per il giudizio a tutela del diritto d’accesso ai documenti amministrativi. Il diritto è stato
riconosciuto ai cittadini che siano titolari di un interesse qualificato, per la cui realizzazione o tutela sia utile la conoscenza di un
documento amministrativo. Veniva inoltre introdotta una forma di tutela alternativa a quella giurisdizionale, per evitare sia un
aggravio eccessivo di ricorsi in capo ai Tar, sia il rischio che i costi di un ricorso giurisdizionale potessero pregiudicare la garanzia
del diritto d’accesso. Il cittadino, in base alla riforma del 2005, può presentare un’istanza amministrativa indirizzata alla
Commissione per l’accesso o al difensore civico, nel rispetto delle rispettive competenze, e diretta ad ottenere il riesame della
richiesta di accesso non accolta dall’Amministrazione. L’istanza non comporta una rinuncia all’azione giurisdizionale: il ricorso al
giudice amministrativo può essere proposto in un secondo tempo, dopo la decisione della Commissione o del difensore.
Riguardo allo svolgimento del giudizio, la disciplina del processo in materia di accesso è caratterizzata da vari elementi di
semplificazione: si segue il rito camerale, il ricorrente può stare in giudizio personalmente, l’Amministrazione può farsi
rappresentare e assistere da un proprio dipendente. Il ricorso al Tar deve essere proposto entro 30 giorni dalla comunicazione
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del rifiuto all’accesso, ovvero dalla formazione del silenzio. Entro i 30 giorni il ricorso deve essere notificato all’Amministrazione e
ad almeno uno dei controinteressati (eventuale integrazione del contraddittorio). Il giudizio si svolge secondo il rito camerale;
pertanto il ricorso deve essere depositato presso il Tar competente nei 15 giorni successivi all’ultima notifica. Il Tar decide in
camera di consiglio, pronunciandosi sempre con una sentenza “in forma semplificata”. Se accoglie il ricorso, il Tar “ordina
all’amministrazione l’esibizione dei documenti richiesti”. L’ appello al Consiglio contro le sentenze in materia di accesso è soggetto
a un termine di soli 30 giorni dalla notifica della sentenza del Tar. Per ragioni di economia processuale, nel caso in cui sia già in
corso fra le stesse parti un giudizio “cui la richiesta di accesso è connessa”, il diritto d’accesso, nel caso di diniego o di silenzio
dell’Amministrazione, può essere tutelato con un’apposita istanza da proporre nel giudizio pendente.

3. Il giudizio nei confronti del “silenzio”


L’art. 117 disciplina il giudizio nei confronti del silenzio dell’Amministrazione. Il termine per il ricorso è pari a 1 anno. Nel caso di
accoglimento del ricorso, il giudice ordina all’Amministrazione di provvedere. Inoltre, se sia stata accertata la fondatezza della
pretesa del ricorrente a un provvedimento favorevole, il giudice, su domanda del ricorrente, può ordinare all’amministrazione di
provvedere in un modo determinato, e cioè può anche imporre all’Amministrazione di adottare quel certo provvedimento. La
possibilità di una sentenza del genere comporta una conseguenza importante anche per lo svolgimento del giudizio: la sentenza
che ordini all’amministrazione di provvedere in un certo modo può incidere anche sulla situazione giuridica di soggetti terzi. In
questi casi si possono configurare soggetti controinteressati rispetto al ricorso sul silenzio, anche se il giudizio per definizione non
verte in alcun modo su un provvedimento che attribuisca benefici a terzi (infatti l’amministrazione è rimasta in silenzio). Nel
giudizio sul silenzio, necessità di notificare il ricorso al soggetto nei cui confronti, nel caso di accoglimento del ricorso, la sentenza
determinerebbe effetti sfavorevoli. Si tratta del soggetto nei cui confronti il provvedimento, che il giudice potrebbe imporre
all’amministrazione di adottare, produrrebbe in modo diretto i suoi effetti negativi. Di conseguenza anche nel giudizio sul silenzio
può ammettersi una parte controinteressata. In conclusione, il ricorso nei confronti del silenzio deve essere notificato, a pena di
inammissibilità, entro il termine annuale di decadenza, oltre che all’amministrazione rimasta inerte, anche ad almeno uno degli
eventuali controinteressati. Anche il giudizio sul silenzio si svolge secondo il rito camerale ed il giudice si pronuncia sempre con
sentenza in forma semplificata. Se accoglie il ricorso, il giudice “ordina all’amministrazione di provvedere” entro un termine, di
regola non superiore a 30 giorni, con la possibilità di nominare già nella sentenza un commissario che si sostituisca
all’Amministrazione se essa continui a rimanere inerte. In questo caso il codice non richiama le disposizioni sul giudizio di
ottemperanza; l’intervento del commissario si svolge non tanto ai fini della “esecuzione” di una sentenza, ma comporta la
sostituzione di un’Amministrazione rimasta inerte.
Il rito speciale sul silenzio fu introdotto dalla legge 205/2000. Nella vigenza di tale legge rimase controversa la disciplina della
connessione del ricorso sul silenzio con altre azioni. In particolare si verifica tuttora con frequenza che l’amministrazione resistente,
dopo la presentazione del ricorso sul silenzio, comunichi un provvedimento formale di rigetto dell’istanza del cittadino, magari
anche soltanto per prevenire una sentenza sfavorevole del giudice amministrativo. Il codice, per apprezzabili ragioni di economia
processuale, ha ammesso che in questi casi il ricorrente possa scegliere se impugnare l’ atto sopravvenuto con un ricorso
autonomo, o se impugnarlo con motivi aggiunti nel medesimo giudizio già in corso sul silenzio: se il ricorrente si orienta nel
secondo modo, l’intero giudizio prosegue con il rito ordinario (art. 117 c.5).
Inoltre, se il “silenzio” comporti per il cittadino anche un danno patrimoniale, il codice ammette che la domanda risarcitoria possa
essere proposta nello stesso ricorso sul silenzio. In questo caso il giudice si pronuncia secondo le regole del rito ordinario sia sulla
domanda concernente il silenzio che su quella concernente il risarcimento dei danni. In alternativa, però, è consentito al giudice
di decidere le due domande in modo distinto, seguendo i rispettivi riti. Questa possibilità, prevista dal c.6, appare utile sul piano
pratico soprattutto nell’ipotesi che la vertenza sul silenzio risulti di più celere definizione.

4. Il decreto ingiuntivo
Procedimento d’ingiunzione: disciplinato agli artt. 633 S.S. C.P.C. Chi è creditore di una somma liquida di denaro o di una
determinata quantità di cose fungibili, o ha diritto alla consegna di una cosa mobile determinata, può, in alternativa rispetto al
giudizio ordinario di cognizione, avvalersi di questo procedimento monitorio. Se fornisce una prova scritta del suo credito, può
ricorrere al giudice, chiedendo che sia ingiunto all’obbligato di provvedere al pagamento della somma e alla consegna delle cose;
il giudice, sulla base di una cognizione sommaria, provvede senza necessità di contraddittorio, con semplice decreto. La parte cui
è stato notificato il decreto ingiuntivo può proporre opposizione entro un termine perentorio: se non è proposta opposizione il
decreto acquista l’efficacia del giudicato; nel caso di opposizione, si apre un normale giudizio di cognizione sulla pretesa del
creditore.
La mancanza di strumenti del genere pesava negativamente, soprattutto nelle vertenze economiche in tema di servizi pubblici. La
lacuna fu colmata dalla legge 205/2000, che introdusse una disciplina specifica per le ingiunzioni nel processo amministrativo, a
garanzia dei “diritti soggettivi a natura patrimoniale”, nelle vertenze devolute alla giurisdizione esclusiva. Il codice all’art. 118 ha
confermato l’istituto del decreto ingiuntivo.
Il ricorso va depositato presso il Tar competente e su di esso si pronuncia con decreto, apposto in calce al ricorso, il Pres idente
del Tar, o un magistrato da lui delegato. Una volta emesso, il decreto, unitamente al ricorso, deve essere notificato dalla parte al
debitore; nei confronti del decreto è ammessa opposizione, da notificare alla controparte nel termine di 40 giorni decorrenti dalla
notifica del decreto stesso.

5. Il rito abbreviato
L’art. 119 disciplina una serie cospicua di ricorsi, che investono atti di particolare importanza amministrativa, o economica e
sociale. Il codice anche in questo ambito ha reso più organica la disciplina. L’elemento comune a queste controversie è
l’accelerazione dei tempi del processo e della decisione. Il rito abbreviato riguarda innanzitutto i ricorsi proposti contro
provvedimenti in tema di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture. Ai relativi giudizi si applica però anche una disciplina in
parte derogatoria e in parte del tutto particolare (art. 120 ss.). L’art. 119 concerne inoltre i ricorsi al giudice amministrativo contro
gli atti delle autorità amministrative indipendenti, i ricorsi concernenti procedure espropriative o di occupazione d’urgenza, i ricorsi
contro le ordinanze adottate nelle situazioni di urgenza dichiarate in base alla legge sulla protezione civile, i ricorsi proposti contro
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vari provvedimenti concernenti gli impianti e le infrastrutture maggiori in materia di energia elettrica, ecc. Si noti che in molti di
questi casi (non in tutti, però) il giudice amministrativo ha giurisdizione esclusiva. In tutti questi casi la competenza territoriale del
Tar ha carattere funzionale. Si tenga presente che per i ricorsi contro gli atti dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas è
competente il Tar Lombardia.
L’obiettivo di accelerare il giudizio è perseguito, per queste controversie, innanzitutto con la riduzione a metà di tutti i termini
processuali, ad eccezione di quelli stabiliti per la notifica del ricorso principale, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti (art.
119 c.2). Anche i termini per l’appello cautelare non sono soggetti a dimezzamento. L’obiettivo di celerità è inoltre persegu ito
inoltre nella fase cautelare del giudizio per evitare che una misura cautelare possa determinare una paralisi per l’attività
amministrativa e così pregiudicare interessi pubblici primari (si pensi alla sospensione di un decreto di esproprio o di occupazione
d’urgenza). Se sia stata richiesta una misura cautelare, il Tar, nella camera di consiglio fissata per l’esame dell’istanza, se ritiene
a un primo esame che il ricorso possa essere accolto e che vi sia il rischio di un danno grave e irreparabile, dispone con ordinanza
che la discussione del ricorso nel merito si tenga nella prima udienza successiva alla scadenza del termine di 30 giorni dal deposito
dell’ordinanza stessa. Comunque è previsto che “in caso di estrema gravità ed urgenza” il collegio possa disporre subito le misure
cautelari opportune (art. 119 c.4). Si tenga presente che anche nei giudizi in esame rimane comunque ferma la possibilità per il
collegio di definire il giudizio nella camera di consiglio fissata per l’esame dell’istanza cautelare, ai sensi dell’art. 60, e cioè con
sentenza in forma semplificata.
Infine, il dispositivo della sentenza è pubblicato entro 7 giorni dopo che il collegio abbia maturato la decisione del ricorso (e cioè,
normalmente, prima che sia stata redatta la motivazione), se almeno una parte ne abbia fatto richiesta nel corso dell’udienza (art.
119 c.5). In questo caso il collegio potrà provvedere in un primo tempo al deposito del solo dispositivo e in un secondo tempo al
deposito della motivazione. In conseguenza di tale disciplina, è consentito alla parte interessata di proporre l’appello al Consiglio
direttamente nei confronti del dispositivo della sentenza, entro 30 giorni dalla pubblicazione, al fine di ottenerne la sospensione.
Una volta conosciuta la motivazione la parte avrà l’onere di notificarla. Si tratta comunque di una mera facoltà: pertanto, la parte
può scegliere di attendere per l’appello di conoscere la motivazione della sentenza. La disciplina stabilita per il giudizio di primo
grado si applica anche nel giudizio avanti al Consiglio di Stato, nel caso di appello contro la sentenza.
6. Il giudizio sulle procedure contrattuali
Per effetto del codice la disciplina del rito abbreviato si estende anche alle controversie concernenti gli atti delle procedure di
affidamento di contratti di lavori, servizi e forniture (art. 119 c.1). Le controversie in esame, oltre che alle disposizioni sul rito
abbreviato, sono assoggettate anche a disposizioni del tutto particolari (artt. 120 ss.), riconducibili alla direttiva comunitaria
2007/66/CE. Il risultato di questi interventi legislativi non è sempre convincente.
La disciplina processuale in esame si estende inoltre anche alle controversie concernenti le procedure per l’affidamento degli stessi
contratti da parte di soggetti privati che però, in forza di una disposizione nazionale o comunitaria, siano tenuti ad applicare per
le loro attività contrattuali le procedure stabilite per l’amministrazione. La stessa disciplina processuale vale anche per le
concessioni di servizi. La disciplina per quanto attiene alla fase giudiziale della controversia è inserita essenzialmente nel codice;
ma sono rimaste in vigore le disposizioni del d.lgs. 53/2010 per tutto quanto vale fino alla notifica del ricorso.
a) Di regola, una volta intervenuta l’aggiudicazione a favore di un concorrente, l’amministrazione non può procedere alla stipula
del relativo contratto, se non sia decorso un termine dilatorio di 35 giorni dalla comunicazione dell’aggiudicazione definitiva agli
altri concorrenti. Questo termine dilatorio è stato introdotto proprio per consentire alle parti interessate di proporre ricorso
prima che il contratto sia stato stipulato e che sia dato inizio alla prestazione contrattuale;
b) La parte che intende proporre ricorso ha l’onere di informare preventivamente l’amministrazione della sua intenzione,
segnalando le violazioni riscontrate. Delle sue valutazioni l’amministrazione dovrebbe dare comunicazione al privato entro un
termine di 15 giorni. L’omissione dell’informativa non pregiudica il diritto del privato alla tutela giurisdizionale;
c) Esclusione del ricorso straordinario; le controversie in oggetto possono essere oggetto soltanto di ricorsi al giudice
amministrativo;
d)Il ricorso per l’annullamento di atti della procedura contrattuale va notificato entro un termine di 30 giorni. Se siano state
omesse alcune delle pubblicità prescritte, i termini hanno una diversa decorrenza. Ciò significa che il termine per il ricorso è di
30 giorni e decorre, ove non siano intervenute forme di comunicazione o pubblicità, dalla piena conoscenza dell’atto; tuttavia
una volta scaduto il termine di 6 mesi dalla stipulazione del contratto è preclusa comunque ogni ulteriore impugnativa e la
tutela può essere solo di ordine risarcitorio;
e) Il ricorso che sia stato proposto contro l’aggiudicazione di un contratto pubblico e che contenga l’istanza cautelare ha un “effetto
sospensivo”: l’amministrazione per 20 giorni dalla notifica non può stipulare il contratto;
f) Eventuali nuovi atti attinenti alla medesima procedura di gara vanno impugnati con i motivi aggiunti (art.
120 c.7);
g) Se sia stata proposta istanza cautelare, il giudizio può essere definito nella fase cautelare, secondo le regole generali (art. 60).
L’udienza di discussione è comunque fissata anche d’ufficio, senza necessità di istanza della parte;
h) Il dispositivo della sentenza è sempre pubblicato entro 7 giorni dalla deliberazione (art. 120 c.7);
i) La sentenza, di regola, è redatta “in forma semplificata” (art. 120 c.10);
l) le regole concernenti lo svolgimento del giudizio, con i necessari adattamenti, valgono anche per i giudizi in sede di gravame e
per l’appello cautelare (art. 120 c.11). Il codice ha previsioni importanti anche in tema di contenuti ed effetti della sentenza. Prima
il d.lgs. 53/2010 e poi il codice, recependo una facoltà rimessa ai legislatori nazionali dalla direttiva 2007/66/CE, hanno assegnato
al giudice amministrativo che annulli l’aggiudicazione anche il potere di dichiarare “l’inefficacia” del contratto (artt. 121 ss.).
L’inefficacia del contratto non viene però dichiarata in modo indiscriminato, per il solo fatto che sia stata annullata l’aggiudicazione.
In alcuni casi il giudice è sempre tenuto a dichiararla; in altri casi è precluso al giudice dichiararla; in altri casi ancora è rimesso
al suo prudente apprezzamento se dichiararla o meno. In ogni caso, quando la dichiarazione di inefficacia sia rimessa a valutazione
puntuale del giudice, l’interesse del ricorrente al rapporto contrattuale è solo uno dei parametri che determinano la decisione (art.
122). In tutti i casi in cui il giudice non dichiara l’inefficacia del contratto, il rapporto contrattuale prosegue fra le parti, senza che
il ricorrente possa pretendere una rinnovazione della procedura di aggiudicazione. Il pregiudizio subito dal ricorrente può essere
oggetto solo di risarcimento per equivalente (art. 124).
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La disciplina della dichiarazione di inefficacia del contratto accolta nel d.lgs. e successivamente nel codice esprime la convinzione
che tra il contratto pubblico e la procedura amministrativa che lo deve precedere sussista un legame stretto, tale che
l’annullamento dell’aggiudicazione travolga, in via di principio, anche il contratto. La dichiarazione di inefficacia del contratto, nella
sentenza di accoglimento del ricorso, è dunque considerata come l’enunciazione di una conseguenza dell’annullamento
dell’aggiudicazione.
Non è chiaro se la dichiarazione dell’inefficacia del contratto sia subordinata a una domanda del ricorrente o se possa intervenire
d’ufficio. Il ricorrente, in ogni caso, può chiedere, oltre all’annullamento dell’aggiudicazione illegittima, “di conseguire
l’aggiudicazione e il contratto”. L’accoglimento di tale domanda presuppone che il giudice dichiari l’inefficacia del contratto: se
viene accolto il ricorso contro l’aggiudicazione, ma non viene dichiarata l’inefficacia del contratto, il ricorrente ha diritto solo a un
risarcimento per equivalente (art. 124 c.1). Se però il ricorrente “senza giustificato motivo”, non chiede “di conseguire
l’aggiudicazione e il contratto”, o non sia disponibile a subentrare nel contratto che sia già in corso di esecuzione, il giudice ne
tiene conto, ai fine della liquidazione del risarcimento, perché la parte, attraverso il conseguimento dell’aggiudicazione e del
contratto o il subentro nel contratto, avrebbe potuto attenuare il danno subito (art. 124 c.2).
Anche la domanda di conseguire l’aggiudicazione e il contratto a parere di molti comporterebbe un’estensione notevole dell’ambito
d’indagine del giudice amministrativo. Questa lettura, però, non è scontata: l’art. 122 precisa, ai fini della decisione del giudice
sulla declaratoria di inefficacia del contratto, che il giudice deve considerare “l’effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire
l’aggiudicazione alla luce dei vizi riscontrati”. Il riferimento “ai vizi riscontrati” induce a ritenere che, anche in questo caso, l’indagine
non debba indirizzarsi verso la ricostruzione di un’ipotesi di comportamento legittimo dell’amministrazione (per es., attraverso una
rinnovazione da parte del giudice di particolari fasi della gara, ecc.), ma debba riguardare i vizi dell’attività illegittima già
intervenuta.
Il giudice amministrativo deve adottare nei confronti dell’amministrazione un provvedimento sanzionatorio. Si tratta di una
sanzione pecuniaria di ammontare proporzionale al valore del contratto o, anche in via cumulativa, della riduzione della durata
residua del contratto (art. 123). Questa previsione presenta vari profili singolari. Non si tratta di sanzioni processuali, perché sono
invece dirette a reprimere o a punire procedure scorrette di affidamento del contratto, che siano state oggetto di un ricorso (art.
125); ciò nonostante il giudice è tenuto ad applicarle d’ufficio, anche in assenza di una domanda del ricorrente e non è prevista
una parte pubblica che le richieda (come invece è nel processo penale) e pertanto si delinea, in un processo pur governato dal
principio della domanda, una sentenza “senza azione”. L’applicazione della sanzione presuppone una ponderazione del caso
concreto.
La disciplina del giudizio sugli atti delle procedure contrattuali dell’amministrazione si estende anche ai giudizi concernenti le
procedure di progettazione, approvazione e realizzazione delle infrastrutture pubbliche ed insediamenti produttivi. Per queste
controversie è previsto, però, che l’annullamento dell’aggiudicazione determini l’inefficacia del contratto solo nei casi stabiliti dalla
legge: pertanto la dichiarazione di inefficacia non è mai rimessa a valutazioni puntuali del giudice. Come già visto, se viene accolto
il ricorso contro l’aggiudicazione, ma non viene dichiarata l’inefficacia del contratto, il ricorrente ha titolo al risarcimento dei danni
per equivalente (art. 125 c.3).
Nella pronuncia sull’istanza cautelare il giudice amministrativo deve dare rilievo anche al “preminente interesse nazionale alla
sollecita realizzazione dell’opera” e deve operare un bilanciamento fra l’irreparabilità del pregiudizio allegata dal ricorrente e
l’interesse del soggetto aggiudicatore a una sollecita prosecuzione delle procedure amministrative (art. 125 c.2). Questa previsione
è da riferire alle pronunce con le quali il giudice amministrativo, all’esito della camera di consiglio, conceda una misura cautelare
o nei rigetti l’istanza: rimane sempre ferma la possibilità per il giudice, ove non riscontri ragioni di “estrema urgenza”, di fissare
l’udienza di discussione, nei termini per il rito abbreviato.

7. Il contenzioso elettorale
Il contenzioso elettorale preso in considerazioni nel codice del processo amministrativo concerne lo svolgimento delle operazioni
elettorali per le elezioni amministrative (ossia per il rinnovo degli organi elettivi dei Comuni e delle Province), per le elezioni
regionali e per le elezioni dei componenti italiani del Parlamento europeo. Il codice ha delineato due ordini diversi di contenzioso
elettorale di competenza del giudice amministrativo: il contenzioso relativo ad atti del procedimento preparatorio per le elezioni
amministrative e regionali (art. 129), e il contenzioso relativo alle operazioni elettorali (art. 130). In entrambi i casi il giudice
amministrativo esercita i poteri previsti per la giurisdizione di merito e può perciò adottare atti in sostituzione di quelli
dell’amministrazione dichiarati illegittimi; è esclusa invece l’esperibilità del ricorso straordinario. La distinzione fra i due ordini di
contenzioso è dovuta al fatto che tradizionalmente il contenzioso elettorale davanti al giudice amministrativo era ammesso so lo
nei confronti dell’atto di proclamazione degli eletti, perché era l’atto conclusivo del procedimento elettorale. Di conseguenza
sembrava che anche eventuali contestazioni contro l’esclusione di un candidato o di una lista dalla competizione elettorale
potessero essere promosse solo dopo la conclusione del procedimento, impugnando l’atto lesivo unitamente alla proclamazione
degli eletti. Questi argomenti sono stati recepiti nel codice, che infatti ha introdotto un rito speciale contro gli atti di esclusione di
liste o candidati dalle elezioni amministrative (comunali e provinciali) e regionali (art. 129). In questo caso il ricorso è proposto
dai delegati di lista o dai gruppi di candidati esclusi davanti al Tar competente, entro 3 giorni dalla pubblicazione o comunicazione
dell’atto. Il ricorso è ammesso soltanto nei confronti dell’atto di esclusione della lista o dei candidati: invece contro gli atti di
ammissione di liste o contro qualsiasi altro atto preparatorio del procedimento elettorale, il ricorso può essere proposto solo dopo
la conclusione del procedimento, impugnando anche l’atto di proclamazione degli eletti. Il ricorso contro l’esclusione è discusso in
pubblica udienza; il collegio decide con sentenza in forma semplificata; trattandosi di un caso di giurisdizione di merito, se il ricorso
viene accolto, il Tar può disporre direttamente l’ammissione della lista o dei candidati alle operazioni elettorali. L’appello è analogo
al primo grado.
Il giudizio relativo alle operazioni elettorali concerne invece qualsiasi altro atto del procedimento, successivo all’indizione dei comizi
elettorali; può essere promosso solo dopo la conclusione del procedimento elettorale ed oggetto di impugnazione deve essere
anche l’atto di proclamazione degli eletti. Legittimato a ricorrere, oltre che il candidato interessato, è qualsiasi elettore dell’ente
interessato dalle elezioni (art. 130 c.1): si tratta, infatti, di un’azione popolare. Il giudizio è introdotto con un ricorso che va
depositato al Tar competente entro 30 giorni dalla proclamazione degli eletti (art. 130). Subito dopo il deposito del ricorso , il
Presidente del Tar fissa d’ufficio l’udienza di discussione; solo a questo punto il ricorso, con il decreto di fissazione dell’udienza,
va notificato all’ente della cui elezione si discute e ad almeno uno dei controinteressati. Il Tar, se accoglie il ricorso, può disporre

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la rettifica dei risultati elettorali, anche con la sostituzione degli eletti. L’appello al Consiglio di Stato va proposto in un termine
breve di 20 giorni. Il giudizio di secondo grado si svolge secondo le regole del rito ordinario, ma con riduzione a metà dei termini
processuali.
8. Il giudizio per l’efficienza dell’amministrazione
Il d.lgs. 198/2009 ha introdotto un rito speciale per i ricorsi per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari dei servizi
pubblici. Tale disciplina è stata ignorata dal codice. In discussione nel giudizio non è l’impugnazione di un provvedimento, ma è
la pretesa al “corretto svolgimento di una funzione amministrativa” o alla “corretta erogazione di un servizio”. I ricorsi in materia
sono devoluti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Il giudice amministrativo, se accoglie il ricorso, “ordina”
all’amministrazione di porre rimedio all’inefficienza accertata, entro un termine “congruo”.

IL GIUDICATO AMMINISTRATIVO E L’ESECUZIONE DELLA SENTENZA

1. Il giudicato amministrativo
Il passaggio in giudicato si ha quando nei confronti della sentenza non è più ammessa un’impugnazione ordinaria: l’appello al
Consiglio, il ricorso alla Corte di cassazione per motivi di giurisdizione, la revocazione nei casi previsti dall’art. 395 nn. 4 e 5 C.P.C.
(revocazione ordinaria). Nei confronti della sentenza del giudice amministrativo passata in giudicato sono proponibili solo il ricorso
per revocazione nei casi nn. 1,2,3, e 6, e l’opposizione di terzo.
Si suole distinguere fra giudicato solo interno e giudicato anche esterno: nel primo caso la sentenza comporta un vincolo (nel
senso che la questione decisa con forza di giudicato non può più essere posta in discussione) solamente rispetto alle ulteriori fasi
di quel giudizio, mentre nel secondo caso la sentenza comporta un vincolo anche rispetto a giudizi diversi, che possano instaurarsi
fra le medesime parti, nei quali assuma rilevanza la medesima questione. Le sentenze di rito comportano tipicamente solo vincoli
“interni” (fanno eccezione le pronunce della Cassazione). Le sentenze di merito, invece, si caratterizzano per la loro idoneità a
comportare vincoli “esterni”.
Riguardo la cessazione della materia del contendere, che viene dichiarata dal giudice amministrativo se “nel corso del giudizio la
pretesa del ricorrente risulti pienamente soddisfatta” (art. 34 c.5): in questo caso si sostiene che l’accertamento compiuto dal
giudice non riguarderebbe un mero fatto processuale, ma si estenderebbe a profili di ordine diverso, rappresentati dall’idoneità
del nuovo provvedimento a soddisfare l’interesse sostanziale del ricorrente. Il codice tratta della cessazione della materia del
contendere nell’art. 34 c.5, a proposito delle sentenze di merito. Nell’art. 35, dedicato alle sentenze di rito, sono considerate le
sentenze sulle condizioni generali dell’azione (interesse a ricorrere e legittimazione a ricorrere).
Per quanto riguarda, invece, i c.d. limiti soggettivi del giudicato, una parte della giurisprudenza amministrativa ritiene che il
giudicato amministrativo di regola valga solo fra le parti, i loro successori e aventi causa, ma che nel caso di annullamento dell’atto
impugnato, se si tratta di atto amministrativo con contenuto “inscindibile” o “indivisibile”, il giudicato varrebbe nei confronti di
tutti i soggetti destinatari degli effetti dell’atto annullato. Di conseguenza, per es., nel caso di annullamento di un atto
amministrativo a contenuto normativo, come un regolamento, il giudicato avrebbe valore erga omnes. A questa giurisprudenza si
oppone chi propone di affrontare i problemi creati dall’annullamento di atti indivisibili attraverso la distinzione generale fra effetti
della sentenza e autorità del giudicato. A quanti non siano anche stati parti nel giudizio, non potrebbe essere opposto il giudicato:
essi possono risentire, invece, degli effetti dell’annullamento. In un successivo giudizio la questione inerente alla legittimità del
provvedimento e alla lesione dell’interesse legittimo potrebbe senz’altro essere riproposta da essi, senza che possa essere opposto
nei loro confronti il passaggio in giudicato della precedente sentenza di annullamento. La tesi erga omnes appare difficilmente
compatibile con i principi del diritto processuale.

2. L’esecuzione della sentenza (in generale)


La sentenza del Tar è immediatamente esecutiva. Se non sia intervenuta la sospensione della sentenza, l’Amministrazione è tenuta
a dare esecuzione alla pronuncia del giudice, adottando tutti i comportamenti e gli atti necessari per portare a compimento quanto
in essa disposto. Nel codice si coglie l’obiettivo di rendere più celere l’esecuzione della sentenza del giudice amministrativo. In
particolare, alcune statuizioni tipiche del giudizio di ottemperanza possono essere anticipate nella sentenza di merito. Infatti su
domanda del ricorrente il giudice amministrativo già nella sentenza di merito può fissare un termine per l’esecuzione e nominare
un commissario per il caso che l’Amministrazione si renda inadempiente (art. 34 c.1). Questa disposizione può sembrare una mera
ricapitolazione di quanto previsto in altra sede dal codice per la sentenza nel giudizio nei confronti del silenzio (art. 117); per data
la sua collocazione nell’art. 34, è accostata all’esecuzione della sentenza ed è distinta dalla previsione concernente la pronuncia
in tema di silenzio. A questa stregua, la sentenza del giudice amministrativo acquisterebbe in via generale una maggiore incisività,
che varrebbe anche rispetto alle sentenze di annullamento per quanto concerne l’attuazione dei doveri ripristinatori e conformativi.
Se la sentenza non viene eseguita spontaneamente, è previsto un giudizio di esecuzione, che si svolge davanti al giudice
amministrativo: si tratta del giudizio di ottemperanza. Se la sentenza del giudice amministrativo si risolve in una condanna al
pagamento di somme di denaro, nei confronti del privato può essere promossa l’esecuzione forzata nelle forme previste dal C.P.C.,
ai sensi dell’art. 115 c.2 c.p.a. Se invece la sentenza contiene statuizioni d’altro genere, l’esecuzione civile sembra esclusa; per le
altre condanne pronunciate dal giudice amministrativo, anche se concernono l’adempimento di obbligazioni, l’esecuzione
giurisdizionale è riservata al giudizio di ottemperanza.
In passato il giudizio di ottemperanza si risolveva in un intervento sostitutivo nei confronti di un’Amministrazione ed era per lo
meno dubbio che un intervento del genere potesse ammettersi anche nei confronti di un privato. Il codice, però, ha attribuito al
giudice dell’ottemperanza anche il potere di imporre, alla parte che non esegua la sentenza, o che ne ritardi l’esecuzione, il
versamento di una somma di denaro al ricorrente; la relativa statuizione costituisce titolo esecutivo. Si tratta di uno strumento di
“esecuzione indiretta”. L’introduzione di questo strumento consente di individuare un margine di efficacia del giudizio di
ottemperanza anche nei confronti di soggetti privati.

3. Il giudizio di ottemperanza
Per il caso di in esecuzione è esperibile il ricorso per l’ottemperanza al giudice amministrativo. Nel codice il giudizio di ottemperanza
è disciplinato più puntualmente, con alcune novità di indubbio rilievo. In primo luogo la disciplina del codice comporta una
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estensione delle ragioni la cui tutela è demandata al giudizio di ottemperanza. Tale giudizio non riguarda solo i casi di in esecuzione
della sentenza. In base al codice il giudizio di ottemperanza può essere esperito per ottenere anche solo chiarimenti sulle modalità
dell’ottemperanza (art. 112 c.5). Il ricorso, in questo caso, presuppone incertezze sugli effetti della sentenza da eseguire, sugli
adempimenti necessari per l’esecuzione, ecc. Inoltre il ricorso per l’ottemperanza è ammesso in una serie più articolata di casi
(art. 112 c.2). In particolare, per l’esecuzione delle sentenze del giudice amministrativo , è esperibile indipendentemente dal fatto
che siano esse passato in giudicato o solamente esecutive. Il codice equipara la sentenza esecutiva alla sentenza passata in
giudicato ai fini dell’ammissibilità del giudizio di ottemperanza, ma precisa anche che il giudice dell’ottemperanza, se la sentenza
non sia passata in giudicato, “determina le modalità esecutive”. Di conseguenza viene riconosciuta la necessità che l’esecuzione
della sentenza non ancora passata in giudicato non pregiudichi le ragioni di un eventuale appello. Il ricorso per l’ottemperanza è
esperibile anche per l’esecuzione delle sentenze passate in giudicato del giudice ordinario e dei giudici speciali avanti ai quali non
sia previsto un giudizio di ottemperanza. In questi casi, però, è ammesso solo nei confronti di un’Amministrazione. Il giudizio di
ottemperanza verte essenzialmente sull’esecuzione di una pronuncia giurisdizionale. Il codice ha introdotto però alcuni contenuti
ulteriori. In particolare, col ricorso per ottemperanza possono essere richiesti anche gli interessi maturati successivamente alla
sentenza rimasta ineseguita; può essere richiesto inoltre il risarcimento dei danni provocati dall’inadempimento della sentenza
(art. 112 c.3).
Più singolare è la previsione che nel giudizio di ottemperanza possa essere richiesto il risarcimento dei danni provocati dal
provvedimento originario (annullato dal giudice con la sentenza rimasta ineseguita), o dalla condotta lesiva di un interesse
legittimo già oggetto della sentenza. Il codice (art. 112 c.4) ammette espressamente che la domanda risarcitoria venga proposta
nel ricorso per l’ottemperanza e precisa che il cumulo delle due domande (quella per l’esecuzione e quella risarcitoria) comporta
l’assoggettamento di entrambe al rito ordinario (art. 32). Nei casi in cui competente per il giudizio di ottemperanza è il Consiglio
di Stato in unico grado, il cumulo delle domande comporta la perdita di un grado di giudizio per la controversia risarcitoria.
L’art. 134 c.1 conferma che il giudice amministrativo, nel giudizio di ottemperanza, esercita una giurisdizione estesa al merito. Al
giudice dell’ottemperanza riconosciuta la capacità di adottare anche misure ordinatorie nei confronti dell’amministrazione dirette
all’esecuzione, come la fissazione di termini per provvedere, la precisazione di modalità esecutive, ecc. (art. 114 c.4). Il codice
attribuisce al giudice dell’ottemperanza anche il potere di imporre misure pecuniarie, di esecuzione indiretta. Misure pecuniarie
disposte su richiesta del ricorrente. Il codice gli riconosce anche il potere di dichiarare la nullità degli atti adottati in violazione o
in elusione del giudicato.
Il giudizio di ottemperanza è richiamato, in un contesto particolare, dall’art. 34 c.4. Come si è già segnalato, in tutte le vertenze
che comportino una condanna pecuniaria (è il caso in particolare delle vertenze per il risarcimento dei danni per equivalente), se
le parti non si oppongano, il giudice amministrativo può limitarsi a fissare nella sentenza i criteri per la liquidazione dell’importo
dovuto, demandando alla parte debitrice di proporre, sulla base di tali criteri, un’offerta alla parte vittoriosa. Se l’offerta non viene
accolta, o se una volta accolta non viene eseguita, la determinazione del danno può essere richiesta dalla parte interessata al
giudice, con il ricorso per l’ottemperanza.

4. Il commissario “ad acta”


Il giudice amministrativo, nel giudizio di ottemperanza, esercita una giurisdizione estesa al merito e, pertanto, può sostituirsi
all’amministrazione che non abbia dato esecuzione alla sentenza. L’intervento sostitutivo del giudice può avvenire in forma diretta
o in forma indiretta, attraverso la nomina del c.d. commissario “ad acta” che si sostituisce a sua volta all’amministrazione. La
possibilità di una sostituzione del giudice all’Amministrazione, seppur inadempiente, crea molte incertezze, quando l’esecuzione
richieda valutazioni tipicamente discrezionali. Una volta nominato il commissario, il giudice non è esautorato: esercita poteri di
vigilanza anche d’ufficio sull’operato del commissario e al giudice vanno rivolte eventuali contestazioni circa tale operato (art. 114
c.6). Molto opportunamente alcuni giudici amministrativi, quando il commissario comunica di aver completato la sua attività,
fissano comunque un’udienza per verificare, con l’intervento del ricorrente, che la sentenza sia stata correttamente eseguita.
Secondo alcuni il commissario dovrebbe essere considerato come un organo straordinario dell’Amministrazione . Egli sarebbe in
grado di effettuare le scelte anche di ordine più spiccatamente discrezionale, senza coinvolgere una responsabilità del giudice,
proprio perché sarebbe organo dell’Amministrazione. Tuttavia la soluzione è stata oggetto di critiche, perché espone al rischio che
il giudizio di ottemperanza rappresenti solo la frazione di un contenzioso teoricamente infinito: dato che i suoi atti, in quanto
normali atti amministrativi, potrebbero essere impugnati davanti al giudice amministrativo.
In giurisprudenza sembra prevalere la tesi che il commissario operi come ausiliare del giudice. I suoi atti non sono atti
giurisdizionali, ma vanno comunque inquadrati nelle vicende del giudizio di esecuzione. Di conseguenza, nei confronti di tali atti,
la tutela dovrebbe essere svolta nell’ambito dello stesso giudizio di esecuzione e dovrebbe essere indirizzata dal giudice
dell’ottemperanza.
Il codice ha preso posizione su alcuni punti concreti:
- Ha considerato anche il commissario ad acta nell’art. 31 dedicato agli ausiliari del giudice, ed ha chiarito che nei suoi
confronti valgono gli stessi motivi di ricusazione previsti per il giudice. Il codice, pertanto, ha affermato nei confronti del
commissario criteri specifici di autonomia e terzietà rispetto alle pari;
- Ha assegnato al giudice dell’ottemperanza la competenza a pronunciarsi su tutte le questioni relative all’ “esatta
ottemperanza” della sentenza, precisando espressamente che fra esse sono comprese “quelle inerenti agli atti del commissario”
(art. 114 c.6). Il codice dispone pertanto che la cognizione degli atti del commissario spetti al giudice dell’ottemperanza. Per
effetto di queste disposizioni, molti dei problemi pratici che erano all’origine del dibattito sulla figura del commissario risultano
superati. Il codice dà rilievo al profilo dell’imparzialità del commissario.

5. Lo svolgimento del giudizio di ottemperanza


Il ricorso per l’ottemperanza va notificato all’Amministrazione e a tutte le altre parti del giudizio di merito (art. 114 c.1). Il ricorso
non è soggetto a termini di decadenza, anche in coerenza con la circostanza che non ha carattere impugnatorio. Può essere
proposto fino a quando non sia prescritto il diritto all’esecuzione della sentenza: prescrizione ordinaria di 10 anni, decorrenti dalla
data del passaggio in giudicato della sentenza.
Competente, se si tratta dell’esecuzione di una sentenza amministrativa, è il giudice che ha pronunciato la sentenza. Se la sentenza
del Tar è stata confermata in appello, la competenza spetta ugualmente al Tar. Invece se si tratta della esecuzione della sentenza
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di un giudice ordinario o di un altro giudice speciale diverso dal giudice amministrativo, la competenza spetta sempre al Tar nella
cui circoscrizione ha sede il giudice che ha emesso la sentenza da eseguire (art. 113). Il riparto di competenza ha carattere
funzionale. Il processo è soggetto al rito camerale; pertanto i termini processuali sono ridotti a metà (art. 87 c.2). Il giudice si
pronuncia sul ricorso sempre con una sentenza in forma semplificata.
Nei confronti delle decisioni assunte dal Tar in sede di ottemperanza sono ammessi l’appello al Consiglio di Stato e gli altri gravami
previsti dall’art. 91. La decisione del Consiglio di Stato assunta in sede di ottemperanza, come ogni altra decisione del Con siglio
di Stato, è impugnabile avanti alla Corte di cassazione, per violazione dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa. Si tratta,
però, di ipotesi di giurisdizione di merito; pertanto il giudice può esercitare poteri sostitutivi nei confronti dell’Amministrazione e
non incontra limiti neppure nella discrezionalità amministrativa. Di conseguenza risulta difficile prospettare in concreto una
violazione ai limiti imposti al giudice amministrativo nei confronti della P.A.

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