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ELIO CASETTA

MANUALE
di
DIRITTO AMMINISTRATIVO
DICIANNOVESIMA EDIZIONE COMPLETAMENTE RIVEDUTA,
AGGIORNATA E CORREDATA DI SCHEMI GRAFICI SUL PROCESSO

A cura di FABRIZIO FRACCHIA

Giuffrè Editore
Capitolo I
L’AMMINISTRAZIONE E IL SUO DIRITTO
1. La nozione di pubblica amministrazione
Il termine “amministrazione”, in generale, indica la cura in concreto di interessi ed è riferibile ad un qualsiasi soggetto
(persona giuridica, pubblica o privata) che svolge un’attività rivolta alla soddisfazione di interessi correlati ai fini che il
soggetto stesso si propone di perseguire. Oggetto del nostro studio sarà l’analisi dell’amministrazione regolata da norme
giuridiche e svolta per la soddisfazione d’interessi pubblici, ovvero dell’amministrazione-attività, meglio nota come
amministrazione in senso oggettivo. Quest’ultima è collegata all’amministrazione in senso soggettivo: è amministrativa
l’attività posta in essere dalle persone giuridiche pubbliche e dagli organi che hanno competenza alla cura degli interessi dei
soggetti pubblici. Ambedue i concetti si completano a vicenda e nessuno dei due può prescindere l’uno dall’altro.
Nel quadro tracciato dalla Costituzione, l’attività amministrativa viene esercitata anche da organi cui istituzionalmente essa
non competerebbe e l’amministrazione in senso soggettivo esercita anche funzioni diverse da quelle istituzionalmente
proprie; da ciò deriva quindi che la nozione di amministrazione in senso oggettivo non coincide con quella di
amministrazione in senso soggettivo. Inoltre, quest’ultima si estrinseca con atti che, oltre che per il loro contenuto, si
distinguono per la forma con la quale vengono emanati: si parla a riguardo di amministrazione formale.
Nell’era feudale le funzioni amministrative venivano espletate sulla base di un diritto ereditario e gli interessi privati si
intrecciavano con quelli pubblici. Nella fase che ha preceduto la Rivoluzione Francese, il principio della separazione dei
poteri risultava ancora inattuato e quindi le funzioni che oggi chiameremmo amministrative erano strettamente connesse a
quelle giudiziali. Successivamente alla rivoluzione francese si assiste all’aumento delle dimensioni dell’amministrazione
dovuto al moltiplicarsi di esigenze di tutela provenienti da classi sociali prima relegate al margine della società.
Amministrazione in senso soggettivo equivale a dire organizzazione amministrativa: è proprio a quest’ultima che la
nostra Costituzione dedica una lacunosa disciplina. Nonostante che la Sezione II del titolo III (dedicato al Governo) della
parte II Cost. sia intitolata “La pubblica amministrazione”, l’art. 97 parla di “pubblici uffici”. In tal senso, sembra che sia
stata accolta la concezione cavouriana dell’amministrazione facente capo al governo, responsabile di fronte al parlamento.
Si tratterebbe però di un’interpretazione fallace perché la concezione cavouriana è contraddetta dall’affermazione
costituzionale del principio di autonomia e della sua realizzazione attraverso la possibilità per gli enti territoriali di darsi un
indirizzo politico amministrativo non in sintonia con quello del governo dello Stato. La crescita di centri di imputazione di
interessi autonomamente gestiti ha contribuito alla formazione di un’amministrazione tesa ad aumentare di dimensioni. Al
fine di arginare il fenomeno del dilagarsi di vari soggetti pubblici, il legislatore ha tentato di ridimensionare la situazione,
sia trasformando molti soggetti pubblici in privati (c.d. privatizzazione), sia istituendo soggetti privati con il compito di
perseguire finalità pubblicistiche, sia avvalendosi di soggetti privati preesistenti per lo svolgimento di compiti pubblicistici
(c.d. organi indiretti).
Da ciò deriva una difficoltà nel tracciare una definizione normativa di amministrazione pubblica. La più esaustiva sembra
ad oggi essere quella che si rinviene nell’art. 1.2 del d. lgs.165/01 ove si definiscono le pubbliche amministrazioni come
“tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le
aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane,
e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio,
industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le
amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle
pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al d. lgs. 300/1999”.
2. La pubblica amministrazione dopo l’entrata in vigore della Costituzione, i suoi mali recenti e i rimedi posti in atto. In
particolare: il problema della riforma della PA
Il numero degli enti pubblici è mutevole nel tempo: di conseguenza l’ambito della PA tende a estendersi o contrarsi a
seconda dei momenti storici. Al momento dell'entrata in vigore della Costituzione, la brevità della durata in carica dei
governi e l'ampliamento del numero degli uffici amministrativi ministeriali avevano generato una distanza dell'apparato
burocratico dai vertici politici dei vari dicasteri. Ciò fu reso possibile dalla sottrazione di competenze appartenenti ai singoli
ministri che vennero attribuite all’istituto della dirigenza. L'apparato dirigenziale fu al centro di un palese tentativo di
addomesticamento realizzato mediante la collocazione, nei posti di maggiore importanza dell'amministrazione dello Stato,
di persone politicamente legate ai partiti di governo. Questa abnorme crescita dei partiti e la necessità di finanziamenti
sempre maggiori ha determinato la commissione di reati contro la P.A. all'interno e all'esterno di essa, provocando una dura
reazione dell'opinione pubblica. Ecco dunque che, a partire dalla fine degli anni 80, si è messa mano alla stagione delle
riforme ispirata l'esigenza di dettare rimedi rapidi e idonei a ripristinare la moralità pubblica.
Innanzitutto, il legislatore si è mosso nella direzione dell’attuazione di norme e principi costituzionali in materia
amministrativa: si pensi alla l. 241/1990 sul procedimento amministrativo e alla legge sulle autonomie locali (n. 142/1990
modificata con n. 265/1999 ora riunite in un testo unico). Inoltre, il legislatore ha introdotto una distinzione tra indirizzo
politico e gestione. Essa emerge sia dal d.lgs. 165/2001, sia dalla normativa sugli enti locali. La “legge Bassanini uno”
(59/1997), “Bassanini bis” (127/1997) e la “Bassanini ter” (191/1998) costituiscono tre esempi di riforma la cui attuazione
ha determinato rilevanti modifiche dell'attività e dell'organizzazione amministrativa. Queste leggi hanno lo scopo di attuare
un decentramento di poteri. Una incisiva riforma costituzionale che ha importanti ripercussioni sull'amministrazione e sul
suo diritto è stata posta in essere con la l. cost. 3/2001 che ha modificato il titolo V della parte II Cost. Deve poi essere
citato anche il d.lgs. 104/2010 che ha introdotto il codice sul processo amministrativo e le numerose manovre adottate per
far fronte alla crisi economico-finanziaria affiancata a quella delle istituzioni: una risposta è stata la disciplina per la lotta
alla corruzione e alla illegalità (l. 190/2012).
Un incisivo mutamento dell’azione amministrativa dovrebbe derivare dall’attuazione della Riforma Madia (l. 124/2015) che
contiene una serie di 14 deleghe al Governo. Alcune disposizioni della legge di riforma sono state dichiarate
incostituzionali per violazione delle competenze legislative regionali. In particolare, là dove competenze statali e regionali
appaiono connesse, l'intervento del legislatore statale avrebbe dovuto spiegarsi nel rispetto del principio di leale
collaborazione. La sentenza ha determinato l'impossibilità per il governo di portare a totale compimento la riforma.
Notevole impatto avrà anche l'impiego degli strumenti legati all’e-governament nell'ambito dei rapporti tra PA e cittadini o
imprese (codice dell’amministrazione digitale con la l. 82/2005). Tra gli strumenti ricordiamo la posta elettronica
certificata che attribuisce garanzia dell’invio e della ricezione dei messaggi, nonché del riferimento temporale.
Ricordiamo, inoltre, la firma digitale, la carta d'identità elettronica, la carta nazionale dei servizi e il servizio pubblico di
identità digitale (SPID) per l'accesso ai servizi forniti dall'amministrazione. Le comunicazioni di documenti tra le pubbliche
amministrazioni avvengono mediante l'utilizzo della posta elettronica e sono valide una volta che ne sia verificata la
provenienza. Le PA, inoltre, utilizzano per le comunicazioni tra l'amministrazione e i propri dipendenti la posta elettronica
o altri strumenti informatici di comunicazione nel rispetto delle norme in materia di protezione dei dati personali. Il tema
della digitalizzazione della p.a. si lega alla trasparenza. Infine, va osservato che il sistema pubblico di connettività ha la
finalità di assicurare il coordinamento informativo dei dati tra tutte le amministrazioni e promuovere l’omogeneità nella
trasmissione dei dati stessi.
3.La nozione di diritto amministrativo
Il diritto amministrativo è la disciplina giuridica della PA nella sua organizzazione, nei beni e nell’attività ad essa
peculiari e nei rapporti che si instaurano con gli altri soggetti dell’ordinamento. Gli Stati caratterizzati dalla presenza di un
corpo di regole amministrative distinte dal diritto comune sono generalmente definiti come Stati a regime amministrativo.
Il diritto amministrativo nacque come sommatoria di più avvenimenti. La rivoluzione francese costituì un tassello decisivo:
essa, ispirandosi ai principi dell’Illuminismo, condusse all’affermazione del ruolo centrale del potere legislativo,
espressione della volontà popolare, determinando la subordinazione dell’amministrazione (potere esecutivo) alla legge.
La rivoluzione francese, inoltre, affermò definitivamente il principio della divisione dei poteri: l’azione amministrativa si
svincolò dal rispetto delle forme giurisdizionali, determinando tuttavia la scomparsa delle garanzie proprie del privato
cittadino nel processo. Questa riduzione delle garanzie venne però compensata con l’applicazione del principio di legalità,
che pose limiti al potere di arbitrio del sovrano che in precedenza poteva emanare atti del tutto svincolati dal rispetto della
legge.
Il diritto amministrativo si diffuse in Europa in concomitanza con l’estensione del modello di amministrazione napoleonica,
estremamente accentrata. In particolare, in Italia, già nel 1889 era stata completata la legislazione amministrativa
piemontese.
Dopo aver chiarito la definizione di diritto amministrativo e averne spiegato l’origine storica, occorre individuarne i limiti.
Seppure comunemente accettata, non appare giustificabile l’inclusione nel diritto amministrativo dell’attività
giurisdizionale posta in essere da organi non appartenenti alla PA. Infatti, proprio perché esercitano giurisdizione, questi
organi godono di una indipendenza che è per definizione inammissibile negli organi svolgenti esclusivamente attività
amministrativa.
Negli stati a regime amministrativo, i soggetti pubblici possono esercitare l’attività amministrativa tanto nelle forme del
diritto pubblico, quanto nelle forme del diritto privato. Occorre domandarsi se la normazione concernente gli atti di diritto
privato della PA possa essere attratta nel diritto amministrativo. La risposta è in linea di principio negativa: i principi che
regolano la relativa attività sono propri del diritto privato;
In tema di “confini” del diritto amministrativo, occorre analizzare l’art. 1.1 bis della l. 241/1990 che stabilisce: “la pubblica
amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge
disponga diversamente”. La norma, almeno se intesa letteralmente, sembra:
- consentire che l’azione amministrativa sia retta da norme di diritto privato;
- individuare nel carattere dell’autoritatività, e non nella natura pubblica o privata dell’atto, la linea di demarcazione
tra attività amministrativa retta dal diritto amministrativo e attività retta da diritto privato;
- limitare l’area di applicazione del diritto privato al settore degli atti non autoritativi ove l’amministrazione agisce
con la capacità di diritto privato senza i limiti connessi alla tassatività dei poteri;
- configurare il diritto privato come la regola dell'attività che si esplica mediante atti non autoritativi, senza che
risultino necessarie ulteriori prescrizioni normative;
- riservare l'applicazione delle norme di diritto pubblico all'area degli atti autoritativi, in coerenza con il principio di
legalità.
La portata dell’art. 1.1 bis dipende ovviamente dall’interpretazione che si dà dell’inciso “salvo che la legge disponga
diversamente” e del concetto di autoritavità. Una prima ipotesi interpretativa è quella che ritiene che tutti i poteri
amministrativi siano autoritativi. La disposizione troverebbe, dunque, attuazione nei casi in cui l’amministrazione non
eserciti poteri conferiti dalla legge, ma agisca con la capacità di diritto privato (si pensi agli atti adottati in esecuzione del
contratto). Un’opposta tesi è quella secondo cui gli atti autoritativi sarebbero solo i provvedimenti limitativi della sfera
privata (es. espropriazioni, ordini). Ciò significherebbe la soggezione al diritto privato di un ampio spettro dell’attività
amministrativa: questa tesi non convince poiché si verrebbero a privare i cittadini delle garanzie tipiche del diritto pubblico.
Dunque, la disposizione presumibilmente dovrà essere applicata in senso più riduttivo. Essa, potrebbe cioè essere
considerata come norma che pur consentendo di utilizzare strumenti privatistici per realizzare finalità di interesse pubblico,
non elimina la necessità di un procedimento di formazione della volontà amministrativa che rispetti i vincoli pubblicistici,
secondo il modello dell’evidenza pubblica. In tal modo, l'applicazione del diritto privato e l'uso di strumenti privatistici
saranno temperati da garanzie a esso estranee, creando in realtà un diritto speciale dell'amministrazione.
Disciplinata in parte dal codice civile è poi l’attività amministrativa che determina la costituzione di status, di capacità, di
rapporti di diritto privato, ad esempio mediante trascrizioni, registrazioni, documentazioni (c.d. amministrazione pubblica
del diritto privato).
Anche i rapporti tra diritto penale e amministrativo si sono fatti più stretti. Negli ultimi decenni molti reati sono stati
depenalizzati per diventare illeciti amministrativi, pur essendo rimasta immutata la loro fattispecie.
Sono diritto amministrativo anche una parte del diritto regionale, il diritto urbanistico, il diritto pubblico dell'economia, il
diritto sanitario, il diritto dell'energia, o magari altri settori che possono di volta in volta essere ritenuti meritevoli di
particolare approfondimento.
Un problema è invece quello del confine tra diritto amministrativo e rami del diritto sicuramente diversi. La principale
questione riguarda il diritto costituzionale: certamente non si può negare come nel diritto amministrativo vi sia una
normativa che ha principi generali coincidenti con quelli del diritto costituzionale.
4.La scienza del diritto amministrativo
Lo sviluppo della scienza del diritto amministrativo ha accompagnato la creazione e/o il rafforzamento degli Stati
nazionali ed è avvenuto, almeno nella fase iniziale, soprattutto in Francia e in Germania.
In Italia, la scienza del diritto amministrativo ha trovato il suo precursore in Giandomenico Romagnosi che pubblicò i
“Principi fondamentali del diritto amministrativo onde tesserne le istituzioni”. Tuttavia l’opera non ebbe seguito alcuno.
Lo sviluppo storico di amministrazione, diritto amministrativo e scienza del diritto amministrativo non è stato né omogeneo
né contestuale: ad esempio, mentre nei primi anni dell’Ottocento si espandeva il diritto amministrativo e
contemporaneamente si formava l’apparato amministrativo moderno, l’evoluzione della scienza del diritto amministrativo
era ancora agli inizi.
In Francia, le prime elaborazioni di una scienza di diritto amministrativo furono impostate su modelli di diritto privato e
sulla teorizzazione della giurisprudenza.
In Germania, la scienza del diritto amministrativo si è affermata verso la metà dell’Ottocento. Essa si inserì in quel
movimento culturale denominato pandettistica, il quale costruì le basi del formalismo giuridico che consentiva di dare
forma scientifica al diritto e di creare dogmi giuridici destinati ad essere utilizzati in modo astratto e astorico in ogni
ordinamento.
Le concezioni tedesche influenzarono grandemente e profondamente la dottrina italiana. Con la fine del secolo l’Italia trovò
in V.E Orlando il propugnatore di una nuova scuola volta alla ricostruzione del diritto pubblico attraverso il metodo
giuridico, ossia alla rifondazione di una scienza giuridica dalla quale doveva essere eliminata ogni considerazione relativa
alla politica, alla sociologia e all’economia. Questa impostazione ebbe un’enorme influenza sullo sviluppo successivo della
scienza amministrativistica italiana che tra i suoi fondatori, oltre ad Orlando, vanta Santi Romano, Ranelletti e Cammeo. Il
metodo elaborato e seguito dagli appartenenti alla Scuola di diritto pubblico, se applicato in modo acritico, comportava una
sorta di chiusura nei confronti della realtà della storia e della politica. Per questo motivo, sotto il punto di vista
metodologico, si affacciarono nuove proposte che recepivano la necessità di volgere l'attenzione alla realtà e alla storia, di
verificare le soluzioni nel concreto e di abbandonare gli schemi formalistici (cd. formalismo giuridico) per dare invece
voce alle pulsioni della società in continuo divenire.
In questo quadro, ebbero influenza rilevante non tanto la concezione gradualistica dell’ordinamento giuridico propugnata da
Kelsen, quanto soprattutto la teoria istituzionale proposta in Italia da Santi Romano e l’indirizzo realistico. In particolare,
l’istituzionalismo portò alla ribalta il tema dell’organizzazione amministrativa, evidenziando in essa la nozione di
ordinamento giuridico interno. Il realismo giuridico, caratterizzato dall’abbandono della teoria fine a sé stessa e delle
pretese di unità ad ogni costo, si contrappose nettamente al formalismo giuridico.
Il metodo giuridico dominante in Italia, dalla fine del secolo scorso, è stato abbandonato dalla dottrina più recente. La
necessità di rivedere l’impostazione metodologica affonda le sue radici nella rapida evoluzione della società. Si pensi
all’intervento accresciuto dello Stato nell’economia, allo sviluppo tecnologico, alla maggiore richiesta dei cittadini di
partecipare alla gestione dell’attività amministrativa.
La scienza del diritto amministrativo dei nostri giorni deve confrontarsi con alcuni dati che vanno messi in evidenza.
Innanzitutto, non esiste solo il potere statuale, ma sussistono anche altri poteri che debbono rapportarsi ad un ordinamento
generale. In secondo luogo, il diritto amministrativo è sempre più spesso diritto prodotto delle fonti europee. Il fenomeno
mette in luce l’incapienza della formula che identifica il diritto con le norme prodotte dalle sole fonti statali, confermando
per altro verso che il diritto comune europeo è soprattutto diritto amministrativo. In terzo luogo, le aree di privilegio dello
Stato vanno progressivamente restringendosi e risultano occupate dal diritto comune.
L’autoritarietà non pare comunque destinata a soccombere e un diritto speciale in questo senso dovrà pur sempre
permanere poiché esso assicura forme di tutela aggiuntive in capo ai cittadini.
5.L’amministrazione europea e il diritto amministrativo dell’Unione Europea
Le organizzazioni internazionali sono dotate di una propria struttura amministrativa e spesso intrattengono relazioni con gli
Stati e con le amministrazioni nazionali. Qui ci occuperemo soltanto dell’amministrazione europea e cioè della disciplina
amministrativa posta dalle fonti europee (direttive e regolamenti). Al fine di descrivere tale complesso di normative viene
usata l’espressione “diritto amministrativo dell’Unione Europea”. Con tale formula si indicano le regole comuni ai vari
diritti amministrativi degli Stati membri prodotte da fonti comunitarie che prevalgono sui diritti interni. Tra i numerosissimi
esempi di normativa italiana di matrice europea possiamo ricordare quella relativa agli appalti pubblici e quella in tema di
servizi pubblici. Più in generale, la disciplina europea ha:
- rafforzato il principio di proporzionalità, che può fungere da freno alla moltiplicazione dei poteri amministrativi;
- introdotto ulteriori limiti che la nostra Costituzione non si era incaricata di esplicitare con riferimento all’attività
economica (mentre per quella non economica esistono spazi in cui i pubblici poteri non possono interferire
invocando la cura di interessi pubblici);
- favorito la formazione di un nuovo modello di potere pubblico (le autorità indipendenti) e di una nuova funzione
(quella regolativa dei mercati);
- accentuato la rilevanza del mercato e della tutela dei consumatori.
Nel nostro ordinamento i principali riferimenti al diritto europeo sono costituiti dall’art.117 Cost. che limita la potestà
legislativa, indicando il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, e dall’art. 1 della l. 241/1990 che
richiama, tra i principi dell’attività amministrativa, quelli generali dell’ordinamento comunitario. Un atto importante è il
Trattato di Nizza ratificato dall'Italia con la l. 102/2002. Tra i protocolli allegati sono di particolare rilievo quello attinente
all'allargamento dell'Unione e i provvedimenti conseguenti. A Nizza è stata proclamata la Carta dei diritti fondamentali
dell'Unione Europea che riafferma diritti già riconosciuti dalla giurisprudenza comunitaria.
La conferenza del 2004 a Bruxelles ha approvato un testo finale di costituzione europea, ma il relativo processo di ratifica
da parte degli Stati membri ha avuto una battuta d'arresto a seguito del rifiuto da parte di Francia e Olanda. Si è allora
deciso di abbandonare la prospettiva costituzionale adottando il successivo Trattato di Lisbona (entrato in vigore il 1°
dicembre 2009) che ha modificato sia il Trattato sull'Unione sia il Trattato che istituisce la comunità europea. Il Trattato di
Lisbona disegna l'Unione come un ordinamento unitario, riconosce efficacia giuridicamente vincolante alla Carta dei diritti
fondamentali e dà impulso all'adesione dell'Unione Europea alla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo. A tale ultimo
proposito, si noti che un'influenza crescente con riferimento ad alcuni settori del diritto amministrativo è destinata a
produrre la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. La Corte
Cost., con due decisioni in tema di occupazione acquisitiva e di espropriazione, si è pronunciata sulla posizione della CEDU
nel nostro ordinamento, riconoscendo alle disposizioni della stessa il valore di norme interposte che integrano il parametro
costituzionale di cui all'art 117. 1 Cost. nella parte in cui lo stesso impone la conformazione della legislazione interna ai
vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. Secondo queste pronunce, in caso di contrasto tra una norma interna e una
disposizione della CEDU, il giudice comune non può disapplicare la prima, ma deve sottoporla a scrutinio di
costituzionalità per violazione dell'articolo 117.1 Cost.
In risposta ai tentativi di operare una “comunitarizzazione” della CEDU, nel 2011 la Corte Costituzionale ha ribadito che la
Convenzione svolge un ruolo solo strumentale all'individuazione dei principi generali stabiliti dal diritto dell'Unione e che
essa non diviene direttamente operante negli ordinamenti nazionali degli Stati membri. Un ulteriore sviluppo si è avuto nel
2015 quando la Corte Cost. ha, da un lato, affermato il dovere di tutti i giudici di operare un’interpretazione conforme alla
giurisprudenza CEDU e, dall'altro, ha escluso questo obbligo nei confronti di sentenze che esprimono non un orientamento
consolidato, bensì soluzioni ancora provvisorie.
Di particolare rilievo è l'art 6 della Convenzione, sul giusto processo: in virtù di una applicazione estensiva della norma, la
Corte europea dei diritti dell'uomo è giunta ad affermarne l’applicabilità ad alcuni procedimenti amministrativi, statuendo
che ove il giusto processo non sia garantito nel momento procedimentale, esso deve esserlo in modo pieno nella successiva
fase processuale. Con riferimento all’Italia, ciò implicherebbe un sindacato più pregnante da parte del giudice
amministrativo.
Tornando al diritto amministrativo comunitario, in senso proprio esso è soltanto quello avente ad oggetto
l’amministrazione comunitaria. Siffatto diritto, derivando anche dall’elaborazione e della sintesi del diritto dei Paesi
membri, può peraltro trasformarsi in uno strumento di circolazione di modelli giuridici.
Per amministrazione europea si intende l’insieme degli organismi e delle istituzioni dell’Unione europea cui è affidato il
compito di svolgere attività sostanzialmente amministrativa e di emanare atti amministrativi. Nell’ambito del diritto
dell’Unione europea, di estremo rilievo è il principio di sussidiarietà. Esso rappresenta due facce. Una garantista a favore
del decentramento e dei poteri locali, ai quali sono riservate le competenze salvo che non siano in grado di assicurare la
realizzazione degli obbiettivi che devono perseguire. L’altra che, viceversa, può agevolare processi di accentramento a
favore del livello di governo superiore, consentendo a quest’ultimo di agire anche al di là delle competenze ad esso
attribuite formalmente ogni qual volta l’azione comunitaria si presenti la più efficace. Questo principio, che è stato anche
introdotto nel nostro ordinamento, costituisce una vera e propria regola di riparto delle competenze tra Stati membri e
Unione, nei settori di competenza non esclusiva dell’Unione.
La presenza dell’amministrazione dell’Unione, infine, determina un mutamento del ruolo delle amministrazioni nazionali,
le quali sono spesso chiamate a svolgere compiti esecutivi delle decisioni dettate dall’amministrazione comunitaria. Ciò
determina una complicazione del procedimento amministrativo, nel senso che si assiste alla partecipazione ad esso sia
delle amministrazioni italiane, sia dell’amministrazione comunitaria, che emana l’atto finale destinato a produrre effetti per
i cittadini; situazione che crea confusione in ordine al giudice (nazionale o dell’Unione europea) al quale deve rivolgersi il
privato che si ritenga leso dall’azione procedimentale.
L’analisi tra amministrazione nazionale e amministrazione dell’Unione consente di individuare altri problemi: in particolare
deve essere chiarito che cosa si intende per esecuzione nel diritto dell’Unione europea; occorre poi indicare a quali atti
l’amministrazione comunitaria è chiamata a dare esecuzione ed infine è necessario individuare l’organo titolare della
funzione esecutiva. L’esecuzione di molte decisioni è rimessa alle amministrazioni nazionali. Anche l’attuazione dei
regolamenti e direttive spetta agli Stati membri che agiscono adottando atti legislativi e amministrativi. In realtà si deve
distinguere esecuzione in via diretta ed esecuzione in via indiretta, che avviene avvalendosi della collaborazione degli
Stati membri. L’esecuzione diretta è caratterizzata da funzioni svolte direttamente dall’Unione, il che determina un
conseguente aumento delle dimensioni organizzative dell’apparato amministrativo che a essa fa capo. La Commissione si
avvale oggi di apparati esecutivi, di uffici e di comitati che si sono creati in maniera non organica, mediante decisioni ad
hoc. La necessità di non ampliare eccessivamente le funzioni e l’organizzazione della Commissione ha poi determinato la
scelta di diversificare le strutture chiamate a svolgere funzioni amministrative. In particolare, oltre alla creazione di
organismi quali il Fondo sociale europeo e la Banca europea per gli investimenti, previsti direttamente dal Trattato, si è
assistito all’istituzione di molteplici agenzie.
Occorre ora individuare con maggior precisione che cosa si debba intendere, sotto il profilo soggettivo, per
amministrazione dell’Unione. Assume certamente un ruolo rilevante la Commissione; tuttavia, soltanto in linea di
massima e in via tendenziale, si può affermare che la funzione esecutiva è esercitata dalla Commissione, essendo distribuite
le funzioni normative e amministrative tra Consiglio e Commissione.
Capitolo II
ORDINAMENTO GIURIDICO E AMMINISTRAZIONE: LA DISCIPLINA COSTITUZIONALE
1. Diritto amministrativo e nozione di ordinamento giuridico
In via di approssimazione con il termine ordinamento giuridico generale si indica l’assetto giuridico e l’insieme delle
norme giuridiche che si riferiscono ad un particolare gruppo sociale. La concezione istituzionale del diritto pone
l’equivalenza tra ordinamento giuridico e istituzione e concepisce il diritto non già come semplice complesso di norme,
bensì come organizzazione di un ente sociale.
Compito essenziale dell’ordinamento giuridico generale, che proprio perché generale considera tutti i soggetti, è quello di
fornire soluzione ai conflitti di interessi che possono sorgere tra gli stessi, riconoscendo o attribuendo loro possibilità
d’azione.
Oltre a ciò l’ordinamento deve riconoscere o istituire i soggetti dell’ordinamento stesso. In questo senso, l’amministrazione
non è altro che uno tra i molti soggetti dell’ordinamento e si presenta sullo scenario giuridico priva di qualsiasi aprioristica
posizione di supremazia. A loro volta, alcuni tra i soggetti giuridici così riconosciuti o istituiti possono dar vita ad
ordinamenti giuridici derivati, caratterizzati da una propria normazione.
Molte tra le norme che riconoscono e limitano i soggetti dell’ordinamento sono costituite da prescrizioni costituzionali. Ad
esempio l’art. 33 stabilisce che “le istituzioni di alta cultura, università e accademie, hanno diritto di darsi ordinamenti
autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”. Le leggi dello Stato (cioè dell’ordinamento generale) stabiliscono i
limiti nel rispetto dei quali possono essere emanati gli atti i quali, se rispettosi di tali limiti, sono riconosciuti come efficaci
nell’ordinamento generale.
Non soltanto nella costituzione troviamo indicate le norme che realizzano gli assetti intersoggettivi che si profilano sul
piano dell’ordinamento generale, posto che moltissime leggi assolvono alla stessa funzione.
Non va, inoltre, dimenticata l’importanza del diritto europeo: esso ha favorito la definizione di un nuovo modello
(l’amministrazione si occupa di regolazione) e consente di individuare limiti alla proliferazione dei poteri affidati alle
amministrazioni nel loro complesso e ulteriori importanti principi (in particolare quelli di proporzionalità, affidamento e
ragionevolezza).
2. L’amministrazione nella costituzione: in particolare, il “modello” di amministrazione emergente dagli artt. 5, 95, 97 e 98
Dal quadro normativo costituzionale emergono diversi modelli di amministrazione, nessuno dei quali può peraltro assurgere
al rango di modello principale. Ai sensi dell’art. 98 Cost, l’amministrazione pare in primo luogo direttamente legata alla
collettività nazionale, al cui servizio i suoi impiegati sono posti. Vi è poi il modello espresso dall’art. 5 Cost. caratterizzato
dal disegno del decentramento amministrativo e dalla promozione delle autonomie locali, capaci di esprimere un proprio
indirizzo politico-amministrativo. Ancora diverso è lo schema presupposto dall’art. 97 Cost., che contiene una riserva di
legge e mira a sottrarre l’amministrazione, regolata dalla legge, al potere politico del governo tipico del periodo storico che
ha preceduto l’entrata in vigore della costituzione. L’art. 97 pone anche dei limiti anche al legislatore, il quale può incidere
sull’amministrazione soltanto dettando regole per la disciplina della sua organizzazione.
L’idea di amministrazione servente del governo pare scaturire dall’art. 95 Cost. ove si dispone che “il Presidente del
Consiglio dei ministri dirige la politica generale del governo e ne è responsabile, mantiene l’unità di indirizzo politico e
amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri”. Sempre secondo tale articolo, ciascun ministro è a capo
di un settore dell’amministrazione ed è responsabile degli atti del proprio dicastero. Individuando una precisa responsabilità
ministeriale, questa norma, per altro verso, pare implicare in qualche modo l’introduzione della politica
nell’amministrazione sulla quale il ministro-politico, proprio perché personalmente responsabile, deve pur potere incidere.
Il governo, assieme al Parlamento, esprime un indirizzo, qualificato dall’art. 95, come indirizzo politico e amministrativo.
L’indirizzo politico può definirsi come il complesso di manifestazioni di volontà in funzione del conseguimento di un fine
unico, mentre l’indirizzo amministrativo, che deve comunque essere stabilito nel rispetto dell’indirizzo politico, consiste
nella prefissione di obiettivi dell’azione amministrativa. L’ordinamento fa anche riferimento all’indirizzo politico-
amministrativo svolto dagli organi di governo delle varie amministrazioni, caratterizzato dalla definizione di obbiettivi,
priorità, piani, programmi e direttive generali per l’azione amministrativa e la gestione.
Il momento amministrativo non è dunque totalmente estraneo al governo; per converso, posto che il governo è espressione
delle forze politiche di maggioranza, allorché esso si ingerisca nell’amministrazione, vi introduce un elemento di
“politicità”. L’amministrazione non si scinde dunque chiaramente dal governare; punto di incontro tradizionale è il
ministro, unico organo a un tempo politico e amministrativo.
Interessante è l’analisi dell’atteggiamento della scienza del diritto in ordine al problema dei rapporti tra amministrazione e
politica. Il tema della politica in quanto tale è stato espunto dalla pubblicistica a partire dalla Scuola italiana di diritto
pubblico, ritenendosi la politica elemento contaminatore della purezza del metodo giuridico che doveva unicamente
occuparsi della disciplina del potere politico. Il rischio del formalismo non può essere taciuto: infatti, dalla neutralità delle
categorie giuridiche breve è il passo che conduce alla cristallizzazione di un modello di Stato insensibile alle vicende
politiche e sociali. L’importanza del momento politico nell’ambito giuridico fu affrontata dai costituzionalisti: la
dimensione politica emerse in occasione di un acceso dibattito sul tema dell’indirizzo politico che scaturì nella dottrina
italiana a partire dagli anni Trenta.
Sicuramente imprescindibile per lo studioso di diritto amministrativo è l’analisi delle norme costituzionali che si occupano
di amministrazione e di governo. Oltre a ciò è importante ricordare che la politica fa parte del sistema, ne condiziona le
scelte e costituisce la trama dell’agire anche delle amministrazioni.
Un modello ancora differente di PA, che ha copertura costituzionale soltanto parziale, è infine costituito dalle autonomie
funzionali (università, istituzioni scolastiche e camere di commercio): si tratta di soggetti ai quali non è riferibile
l’autonomia di indirizzo politico.
3.Ancora sui modelli di amministrazione nella Costituzione. La distinzione tra indirizzo politico e attività di gestione. Per
smentire il carattere servente della PA nei confronti del governo basta ricordare l’art. 97 Cost. il quale, riferendosi alle
attribuzioni dei funzionari, riconosce al personale burocratico anche competenze esterne e decisionali. L’art. 97, inoltre,
rende l’amministrazione più indipendente dal governo, sottraendo parte dell’organizzazione amministrativa alle scelte dello
stesso.
Tuttavia, pur affermando la sua indipendenza ed imparzialità, la pubblica amministrazione deve essere leale verso il
governo: l’amministrazione deve essere lo strumento di esecuzione delle direttive politiche impartite dai ministri.
Pertanto, se da un lato l’amministrazione non può essere semplice momento esecutivo del governo, dall’altro lato la sua
attività deve essere orientata all’indirizzo politico-governativo deciso dal Governo. Per questo motivo è difficile oggi
distinguere tra amministrazione e politica. Al riguardo, è l’ordinamento stesso che introduce una tendenziale distinzione tra
i due ambiti: ad esempio la disciplina dell’organizzazione del lavoro presso le PA mira a delimitare le attribuzioni della
componente politica rispetto a quelle della componente non politica, sul presupposto che un organo non politico possa agire
in modo maggiormente imparziale ed efficiente. Ulteriore soluzione al problema della distinzione è rappresentata dalla
istituzione di autorità o amministrazioni indipendenti.
Il d.lgs. 165/2001 non è quello di riservare l'attività di indirizzo ai soli organi politici, bensì di identificare i contenuti
dell'attività qualificata come “indirizzo politico-amministrativo”, sottratta ai dirigenti.
L’attuale normativa sull' organizzazione pubblica non è tanto orientata nel senso di realizzare una netta separazione tra
politica e amministrazione, quanto caratterizzata per il suo significato “garantista” rispetto a ciò che essa esclude: la
trasformazione dell'amministrazione in meno apparato subordinato agli organi politici. Questi ultimi, dunque, possono
controllare e indirizzare il livello più alto dell’amministrazione, cioè la dirigenza, soltanto utilizzando gli strumenti di cui al
d.lgs. 165/2001 che siano compatibili con il riconoscimento di poteri di gestione autonoma alla dirigenza stessa. Quello che
emerge è come l’influenza della politica nella PA si sia ristretta ma, tuttavia, in capo ai politici rimane l’importante potere
di conferire gli incarichi ai dirigenti: a riguardo emerge la sussistenza di uno stretto vincolo fiduciario tra organo politico e
vertice dirigenziale a tal punto che alcuni incarichi (per es. gli incarichi di segretario generale di ministeri) cessano decorsi
90 gg dal voto sulla fiducia al nuovo esecutivo: si tratta del meccanismo dello spoils system, oggetto di giudizio di
legittimità nel 2006. A riguardo la Corte Cost. ha stabilito che “la previsione di un meccanismo di valutazione tecnica della
professionalità e competenza di coloro che vengono nominati non si configura come misura costituzionalmente vincolata,
visto che le cariche che vengono affidate sulla base di un rapporto di fiducia cessano all’atto di insediamento di nuovi
organi politici, i quali hanno la possibilità di rinnovarle scegliendo soggetti idonei a garantire l’efficienza e il buon
andamento dell’azione amministrativa”. Tale istituto è stato poi oggetto di un nuovo giudizio costituzionale nel 2010:
questa volta la Corte lo ha delimitato nella sua efficacia, poiché ritenuto contrario rispetto agli artt. 97 e 98 Cost. Nel caso di
specie è stata dichiarata la contrarietà dell’azzeramento automatico dell’intera dirigenza e dell’estensione del meccanismo
dello spoils system alla dirigenza di livello generale. La Corte, nell’operare un bilanciamento tra le diverse situazioni
giuridiche, ha fatto prevalere il principio di imparzialità e buon andamento, intendendo quest’ultimo come continuità
dell’azione amministrativa posta in essere dai dirigenti.
Nell’analisi dei rapporti tra politica e amministrazione, un problema di interesse è quello che attiene alla distinzione tra atti
amministrativi e atti politici. Questi ultimi sono atti posti in essere dal Governo, sottratti al sindacato del giudice
amministrativo ex art. 7 d.lgs. 104/2010. Questo accade perché tali atti si pongono al di fuori dell’area del principio di
legalità. Essi, inoltre, non contrastano nemmeno con l’art. 113 Cost. poiché data la loro natura estremamente discrezionale
non ledono diritti soggettivi o interessi legittimi: è il caso, ad esempio, dello scioglimento dei consigli regionali o della
decisione di porre la questione di fiducia.
L’esigenza di recuperare al giuridico il momento politico ha prodotto la sua influenza anche nel diritto amministrativo ove è
stata elaborata la figura dei c.d. atti di alta amministrazione (es. provvedimenti di nomina dei direttori generali delle Asl):
essi godono di un’ampissima discrezionalità, sono l’elemento di collegamento tra indirizzo politico e attività amministrativa
in senso stretto e sono soggetti alla legge e al sindacato giurisdizionale.
4.I principi costituzionali della pubblica amministrazione: la responsabilità
Il principio di responsabilità è enunciato dall’art. 28 Cost.: “I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici
sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In
tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”. Tale articolo, occorre precisare, non copre tutte le
ipotesi di responsabilità dell’amministrazione: i danni cagionati da cose in custodia o da animali sotto la responsabilità della
PA è regolata dagli artt. 2051 e 2052 cc.
Con il termine “responsabilità”, l’art. 28 Cost. intende l’assoggettabilità dell’autore di un illecito alla sanzione. È il caso, ad
esempio, del responsabile del procedimento, figura che, però, non può considerarsi come diretta applicazione dell’art. 28
Cost. Tale figura infatti va a soddisfare quelle esigenze di trasparenza e identificabilità di un contraddittore all’interno
dell’amministrazione che sta procedendo.
4.1.Segue: il principio di legalità
Il principio di legalità esprime l’esigenza che l’amministrazione sia assoggettata alla legge e ai principi giuridici: questo
principio si ricollega all’idea della legge quale espressione della volontà generale che si pone alla base di tutte le
manifestazioni pubbliche dell’ordinamento. Il principio di legalità può però essere concepito in diversi modi:
1. come non contraddittorietà dell’atto amministrativo rispetto alla legge (preferenza della legge). Questa
accezione corrispondere all’idea di un’amministrazione che può fare tutto ciò che non sia vietato dalla legge:
siffatta opinione è stata successivamente superata dall’elaborazione della tesi della legalità formale e sostanziale.
2. come conformità formale: il rapporto tra legge e amministrazione è impostato non solo sul divieto di quest’ultima
di contraddire la legge ma anche sul dovere della stessa di agire nelle ipotesi ed entro i limiti fissati dalla legge che
attribuisce il relativo potere. Alla luce di ciò si ricava come i poteri dell’amministrazione devono essere
espressamente attribuiti ex lege. Al riguardo, sorgono molti dubbi sul riconoscimento di poteri impliciti in capo
all’amministrazione. La giurisprudenza del Tar Lombardia, nel 2002, ha negato l’esistenza di tali poteri. Al di fuori
del perimetro dei poteri conferiti, l’amministrazione può solo agire con la capacità di diritto privato.
3. come conformità sostanziale: vi è la necessità che l’amministrazione agisca non solo entro i limiti di legge, ma
altresì in conformità della disciplina sostanziale posta dalla legge stessa. Tale concezione si ricava dalle ipotesi in
cui la Costituzione prevede una riserva di legge. Imponendo una disciplina legislativa delle condizioni di esistenza
del potere amministrativo e delle modalità del suo esercizio, la riserva di legge, però, finisce col confondersi col
principio di legalità inteso in senso sostanziale. Tale principio così inteso cerca di contemperare due esigenze: la
prima relativa al garantire e tutelare i privati (legalità-garanzia) e la seconda relativa al lasciare spazi adeguati
all’azione dell’amministrazione evitando eccessivi vincoli per l’esercizio della sua azione. La mancanza del rispetto
di tale principio comporta un eccesso di potere che è un vizio di legittimità.
Dalla disamina del principio di legalità si constata come la possibilità dell’amministrazione di agire in assenza di
disposizioni legislative sussiste solo nell’ambito dell’esercizio del potere: infatti, l’attribuzione dei poteri che possono
condizionare i diritti dei privati è sempre effettuata dalla legge e il rispetto della legge è condizione perché si possano
produrre gli effetti come risultato dell’esercizio dei poteri.
Il problema dell'eventuale mancato rispetto del principio di legalità attiene anche al piano dell'esercizio dei poteri medesimi.
I parametri ai quali l'attività amministrativa deve fare riferimento sono più ampi della sola legge in senso formale: ciò
consente di spiegare perché si parli in dottrina non solo di legalità ma altresì di legittimità, la quale consiste nella
conformità del provvedimento e dell'azione amministrativa a parametri diversi dalla legge e in particolare ai principi
giuridici elaborati dal giudice. Questo allargamento della legalità è il risultato dello sforzo del giudice amministrativo di
assicurare una maggiore tutela nei confronti degli atti dei pubblici poteri (che possono così essere sindacati in ragione della
loro conformità a parametri diversi dalla legge). Tale ultimo aspetto, detto legalità-indirizzo, consente di estendere il
principio di legalità al di là dell'area dell'attività provvedimentale, e cioè anche all'attività di diritto privato
dell'amministrazione. Questo accade perché la legge è espressione della sovranità popolare che funge da guida dell'azione
amministrativa nel suo complesso, indicando i fini che essa deve perseguire.
Deve ancora essere ricordata una diversa accezione del principio di legalità che emerge dalla giurisprudenza della Corte di
Strasburgo: affinché vi sia violazione è necessaria la prevedibilità del comportamento dell'amministrazione,
indipendentemente dal tipo di fonte che costituisce il parametro di riferimento.
In sintesi, si può osservare che la legalità-indirizzo è la forma più attenuata e più ampia di legalità che, unitamente alla non
contraddittorietà, abbraccia tutta l'attività amministrativa, imponendo che essa sia conforme alla volontà popolare. La
legalità intesa come conformità poi si applica all’attività provvedimentale (legalità-garanzia). Esiste, inoltre, la legalità
intesa come “raffrontabilità” a parametri predefiniti. Vi sono, infine, la legalità “prevedibilità” e quella “procedurale”.
Quest'ultima è intesa sotto forma di garanzia del contraddittorio ed è invocata come compensazione nel caso di deficit di
legalità sostanziale.
Va ancora ricordato che, ai sensi dell'art 1.1 bis della l. 241/1990, la PA nell'adozione di atti di natura non autoritativa
agisce secondo le norme del diritto privato. Ciò significa che la legge cui l'amministrazione è soggetta può essere costituita
da norme di diritto privato per l’attività non autoritativa. Quanto le norme di diritto pubblico è invece importante notare che
esse sono sempre imperative e non derogabili.
Tornando alla legalità-garanzia, considerando che il potere si concretizza nel provvedimento, il principio di legalità si
risolve nel principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi: se l’amministrazione può esercitare esclusivamente i
poteri che la legge le attribuisce, essa può emanare solo quei provvedimenti stabiliti tassativamente dalla legge stessa.
Espressione di tale affermazione si riscontra nell’art. 1.1 della l. 241/1990 ove si dice che “L’attività amministrativa
persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza
secondo le modalità previste dalla legge stessa e dalle altre disposizioni che disciplinano i singoli procedimenti”.
Per quanto attiene gli atti di natura non autoritativa, la legge stabilisce che “L’amministrazione agisce secondo le norme
di diritto privato, salvo che sia diversamente disposto” (art. 1.1. bis).
Il principio di legalità si manifesta inoltre nell’art. 21 octies della l. 241/1990 dove si prevede che “Non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento
qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato”. Qui appare evidente come il mancato rispetto di alcune regole può divenire irrilevante sotto il
profilo dell’annullabilità dell’atto, così dequotando il principio di legalità per valorizzare il principio del raggiungimento
del risultato.
4.2.Il principio di imparzialità
L’art. 97 Cost. pone espressamente due principi relativi all’amministrazione: quello del buon andamento e quello di
imparzialità. Comune ad entrambi è il problema teorico del loro campo di applicazione: la norma, infatti, sembra riferirli
esclusivamente all’organizzazione amministrativa. è manifestazione espressa di tale principio. Dottrina e giurisprudenza
hanno affermato che tale norma abbia natura precettiva non meramente programmatica e, in ragione di una sua
interpretazione estensiva, si è affermato come la diretta applicabilità del principio attiene sia all’organizzazione sia
all’attività amministrativa.
Per quanto concerne il concetto di imparzialità, si osserva che esso esprime il dovere dell’amministrazione di non
discriminare la posizione dei soggetti coinvolti dalla sua azione nel perseguimento degli interessi affidati alla sua cura.
L’imparzialità impone innanzitutto che l'amministrazione sia strutturata in modo da assicurare una condizione oggettiva di
aparzialità: in questo senso, il precetto costituzionale si rivolge sia al legislatore, sia all'amministrazione in quanto ponga la
disciplina della propria organizzazione e le concrete misure di organizzazione (in tal senso la norma costituzionale
conterebbe una riserva di organizzazione in capo all’esecutivo).
L’art. 6 bis l. 241/1990 afferma proprio l’imparzialità dell’azione amministrativa: “Il responsabile del procedimento e i
titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento
finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale”.
Tema collegato a quello dell’imparzialità è quello della predeterminazione dei criteri e modalità cui le amministrazioni si
debbono attenere nelle scelte successive, il quale consente di verificare la rispondenza delle scelte concrete ai criteri che
l’amministrazione ha prefissato (cd. autolimite). L’autolimite è disciplinato dall’art. 12 della l. 241/1990 che dispone che
“La concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque
genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione da parte delle amministrazioni
procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono
attenersi”. Quanto detto parrebbe implicare che il principio di imparzialità si risolva nel dovere di evitare disparità di
trattamento. Tuttavia non sempre l'azione dell'amministrazione è tale da consentire un confronto con altre situazioni
analoghe, ovvero la soddisfazione, in egual misura, di tutti gli interessi implicati. In tali ipotesi, dunque, il principio di
imparzialità postula qualcosa di differente: esso attiene alla decisione in se considerata piuttosto che all'attività complessiva
dell'amministrazione. Dunque, si ha parzialità quando sussiste un ingiustificato pregiudizio o un’indebita interferenza di
alcuni interessi; si ha, invece, imparzialità quando vi è congruità delle valutazioni finali e delle modalità di azione prescelte.
Con riguardo alle autorità indipendenti, l'imparzialità si trasfigura in terzietà. Va, infine, ricordata la scelta di distinguere
sotto il profilo organizzativo organi politici e dirigenti sul presupposto che gli organi politici siano meno idonei a svolgere
attività in modo imparziale.
4.3.Il principio di buon andamento
Tale principio, disciplinato sempre nell’art. 97 Cost., impone che l’amministrazione agisca nel modo più adeguato e
conveniente possibile. Tale principio, nell’ambito del procedimento ex l. 214/1990, trova attuazione nella previsione del
criterio di non aggravamento del procedimento stesso, se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo
svolgimento dell’istruttoria.
Il buon andamento va riferito alla pubblica amministrazione nel suo complesso (intesa qui come ente e non in riferimento al
singolo funzionario), pertanto il problema del buon andamento non va confuso con quel del dovere funzionale di buona
amministrazione a carico dei pubblici dipendenti.
4.4.1. I criteri di efficacia, economicità, efficienza, imparzialità, pubblicità e trasparenza. La lotta alla corruzione e
all'illegalità
Tali principi sono previsti dall’art. 1 della l. 241/1990 e sono veri e propri parametri giuridici dell’attività e
dell’organizzazione amministrativa.
Il criterio di efficienza indica la necessità di misurare il rapporto tra il risultato dell’azione organizzativa e la quantità di
risorse impiegate per ottenere quel dato risultato.
Il criterio di efficacia è, invece, collegato al rapporto tra ciò che si è effettivamente realizzato e quanto si sarebbe dovuto
realizzare sulla base di un piano o programma.
Nella prospettiva di assicurare efficienza ed efficacia deve essere letta anche la disciplina che intende perseguire il risultato
della misurabilità delle prestazioni offerte da enti pubblici e da privati concessionari di servizi.
I criteri di efficienza ed efficacia sembrano essere valorizzati e rivisitati alla luce del principio costituzionale di equilibrio
di bilancio che, imponendo di tener conto dell’interesse al rispetto di un equilibrio economico complessivo, vincola le
amministrazioni ad usare nel modo più efficiente le risorse disponibili per conseguire con efficacia gli obiettivi pubblici.
I criteri di pubblicità e trasparenza sono applicazioni del principio di imparzialità e possono essere riferiti sia
all’organizzazione sia all’attività amministrativa. Per pubblicità si intende lo sforzo che l’amministrazione compie per
comunicare le notizie ai cittadini; per trasparenza si intende, invece, il vincolo in capo alla PA di pubblicare i dati che essa
detiene (solo quei dati previsti ex lege). A sua volta il principio di trasparenza prevede al suo interno istituti procedimentali
quali il diritto di accesso e la motivazione, al fine di assicurare forme diffuse di controllo sociale.
La trasparenza serve non soltanto a consentire l'accessibilità a situazioni e momenti procedimentali, ma investe anche ogni
aspetto dell'organizzazione. È, infatti, emersa una nozione di trasparenza declinata come accessibilità totale: essa appare un
istituto piegato all'esigenza di assicurare forme diffuse di controllo sociale onde incentivare azioni virtuose delle
amministrazioni in un contesto caratterizzato dall'assenza di un mercato.
La normativa in tema di lotta all'illegalità e alla corruzione (l. 190/2012; d.lgs. 33/2013, poi modificato dal d.lgs. 97/2016;
d.lgs. 39/2013) comporta un arricchimento della nozione: la trasparenza, infatti, è disciplinata non solo per tutelare i diritti
dei cittadini e promuovere la partecipazione, ma anche in funzione di lotta alla corruzione e all'illegalità. Essa, più in
generale, pare essere considerata dal legislatore come uno strumento essenziale per assicurare la democrazia e per garantire
il corretto funzionamento dell'amministrazione.
Nella logica volta all’importanza del risultato, può crearsi un conflitto tra la trasparenza e le esigenze di efficienza e
prontezza dell’azione amministrativa: qui la questione pare di difficile soluzione perché la prevalenza dell’uno o dell’altro
principio implica necessariamente un sacrificio.
Ma i conflitti vi possono essere anche nel bilanciamento tra il principio di trasparenza/pubblicità con la tutela della
riservatezza: qui oggigiorno l’obiettivo portante è quello volto alla repressione del fenomeno corruttivo all’interno della
PA. La strategia scelta dal legislatore è delineata dalla l. 190/2012: si è partiti dalla constatazione che la corruzione dilaga
dove non c'è trasparenza ed etica nei comportamenti di dipendenti e dirigenti; così è stato immaginato un controllo
esercitato dal basso, dai cittadini che possono vedere come è strutturata l'amministrazione. Le 9 principali misure previste
sono:
1) l’adozione di un modello di risk management in chiave preventiva attraverso il quale si identificano i settori più
a rischio corruzione e si predispongono protocolli di comportamento successivamente verificati. Il responsabile
della prevenzione della corruzione e della trasparenza risponde in tutti i casi in cui all'interno
dell'amministrazione sia commesso un reato di corruzione, salvo che dimostri di aver predisposto il Piano
Triennale di prevenzione della corruzione e di aver vigilato sulla sua osservanza. In generale, la legge muove dal
presupposto che, accanto ai meccanismi repressivi, occorre rafforzare la prospettiva della prevenzione;
2) meccanismi repressivi, di controllo e un insieme di obblighi e divieti.
3) Tra gli obblighi merita una menzione la disciplina sul conflitto di interessi
4) divieto di pantouflage: i dipendenti che, negli ultimi 3 anni di servizio hanno esercitato poteri autoritativi o
negoziali per conto della PA, per i 3 anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego non possono
svolgere attività lavorativa o professionale presso soggetti privati destinatari dell’attività della PA.
5) una rete di protezione nei confronti del dipendente che segnala illeciti (whistleblowing): il dipendente pubblico che
riferisce al suo superiore condotte illecite di cui è venuto a conoscenza a causa del rapporto di lavoro non può
essere sanzionato, licenziato o sottoposto a misura discriminatoria.
6) Il divieto per coloro che sono stati condannati per reati contro la PA di far parte di commissioni per l’accesso o la
selezione a pubblici impieghi.
7) L’obbligo di rotazione degli incarichi nelle aree considerate a rischio.
8) Numerose sono le norme su inconferibilità e incompatibilità di incarichi poste dal d.lgs. 39/2013.
9) Altro importante strumento è il codice di comportamento.
Quanto ai soggetti coinvolti, un ruolo assai importante è svolto dall’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) che
coordina l’attuazione delle strategie di prevenzione e contrasto della corruzione e dell’illegalità nella PA. Questo organo ha
natura collegiale (5 membri) e i membri sono nominati dal Presidente della repubblica previa deliberazione del consiglio dei
ministri e parere favorevole delle commissioni parlamentari (richiesta maggioranza dei 2/3). Tra i suoi compiti, essa può
svolgere accertamenti, indagini e fare relazioni all’ispettorato per la funzione pubblica. Quest’organo ha inoltre il compito
di approvare il piano nazionale anticorruzione, può ricever segnalazione di illeciti, analizzare cause e fattori della
corruzione, vigilare sulle pubbliche amministrazioni. Particolarmente importanti sono le funzioni in materia di appalti, uno
dei settori maggiormente esposti alla corruzione e che è presidiato in chiave preventiva dall'Anac. Tale autorità, ai sensi del
d.lgs. 50/2016, può in particolare svolgere ispezioni, anche avvalendosi della guardia di finanza, ha compiti di vigilanza,
regolazione, risoluzione di controversie e sanzionatori.
Le pubbliche amministrazioni centrali definiscono e trasmettono al dipartimento della funzione pubblica: a) un piano di
prevenzione della corruzione; b) procedure idonee alla selezione e formazione dei dipendenti che devono operare nei settori
a rischio. L’organo di indirizzo politico adotta il piano anticorruzione su proposta del responsabile della prevenzione
della corruzione e della trasparenza. La figura del responsabile è individuata dall’organo di indirizzo politico: per la sede
centrale la nomina viene effettuata dal ministro; per gli enti locali questo compito è affidato al segretario. Il responsabile
elabora la proposta di piano e deve vigilare poi sulla sua attuazione, sul funzionamento e sull’osservanza del piano e
verificare l’effettiva rotazione degli incarichi. Nel caso in cui il soggetto in questione commetta un reato contro la PA
(accertato con sentenza passata in giudicato) scatta la responsabilità dirigenziale: il suo incarico non può essere rinnovato
e, nei casi più gravi, può essere licenziato ed essere sottoposto a responsabilità per danno erariale e all’immagine della PA.
Per i dipendenti, la violazione del piano anticorruzione è oggetto di misure disciplinari.
Tornando alla trasparenza, essa dovrebbe implicare un controllo diffuso da parte della cittadinanza e trasformare la
corruzione in un costo anche sociale non accettabile. La l. 190/2012 dispone che la trasparenza è assicurata mediante la
pubblicazione delle informazioni relative ai procedimenti amministrativi. La legge impone che ciò avvenga secondo criteri
di facile accessibilità, completezza e semplicità di consultazione, nel rispetto delle disposizioni in materia di Segreto di
Stato, di Segreto d’ufficio e di protezione dei dati personali.
Il d.lgs. 33/2013, che attua i principi della l. 190/2012, dispone che “La trasparenza va intesa come accessibilità totale delle
informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni, allo scopo di favorire forme diffuse
di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali”.
Viene inoltre affermato: “La trasparenza concorre ad attuare il principio democratico e i principi costituzionali di
eguaglianza, imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell’utilizzo di risorse pubbliche, integrità
e lealtà nel servizio della nazione”.
Il d.lgs. 33/2013 (modificato dal d.lgs. 97/2016) dispone, in primo luogo, che “la trasparenza è intesa come accessibilità
totale dei dati e documenti detenuti dalle PA, allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli
interessati all'attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull'utilizzo delle risorse pubbliche”. La trasparenza, inoltre, concorre ad attuare il principio democratico e i principi
costituzionali di uguaglianza, di imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell'utilizzo di
risorse pubbliche. Essa, dunque, concorre alla realizzazione di una amministrazione aperta al servizio del cittadino.
Dal punto di vista soggettivo, per “pubbliche amministrazioni” si intendono tutte le amministrazioni di cui al d.lgs.
165/2001, ivi comprese le autorità portuali e quelle indipendenti di garanzia, vigilanza e regolazione. L'art 2 bis d.lgs.
33/2013, inoltre, estende, in quanto compatibile, la disciplina ad una serie di soggetti come enti pubblici economici, ordini
professionali, società in controllo pubblico, ecc. Per una terza categoria di soggetti (società in partecipazione pubblica,
associazioni, ecc.), la disciplina si applica, in quanto compatibile, limitatamente ai dati e ai documenti inerenti all'attività di
pubblico interesse.
La trasparenza mira, inoltre, a tutelare i diritti dei cittadini, dà sostanza alla libertà di accesso di “chiunque” ed è assicurata
attraverso due strumenti: la pubblicazione e l'accesso civico. I due istituti presidiano l'area pubblica dei documenti, delle
informazioni e dei dati, oggetto del diritto di chiunque di conoscerne, di fruirne gratuitamente, di utilizzarli e riutilizzarli.
Lo strumento dell'accesso civico, tuttavia, consente di avere accesso anche a informazioni, dati e documenti detenuti dalle
amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione.
Per quanto riguarda l’obbligo di pubblicazione di dati (prima questi obblighi erano sparsi in diverse leggi speciali, oggi
sono stati riunificati e riordinati in un unico decreto), ciò avviene su siti istituzionali e su quelli delle pubbliche
amministrazioni, ove si pubblicano dati riguardanti le attività e l’organizzazione delle pubbliche amministrazioni. L'Anac,
con il piano Nazionale anticorruzione, può peraltro modulare gli obblighi di pubblicazione in relazione alla natura dei
soggetti, alla loro dimensione organizzativa e alle attività svolte. Ulteriori limiti infatti derivano dal principio di
riservatezza. Viene, poi, previsto che la qualità dei dati pubblicati non venga opacizzata, pertanto le pubbliche
amministrazioni devono aggiornare frequentemente i siti istituzionali, completare i dati, renderli comprensibili ed omogenei
e facilmente accessibili.
Per quanto riguarda l’accesso civico, esso si riferisce a due aree diverse. Viene in evidenza, in primo luogo (accesso
incondizionato) il medesimo perimetro cui si è fatto cenno, quello cioè delle informazioni oggetto di pubblicazione
obbligatoria. Sul mero presupposto dell'inadempimento del soggetto pubblico dell'obbligo di pubblicare, l'istituto assicura
la pretesa di chiunque a ottenere le informazioni. Questo diritto, dunque, diventa uno strumento di enforcement per
costringere l'amministrazione ad adempiere. In secondo luogo, oggetto di accesso civico possono essere anche dati e
documenti ulteriori, non sottoposti a pubblicazione obbligatoria. Tutto ciò allo scopo di favorire forme diffuse di controllo
sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche.
Al solito, la trasparenza può confliggere con la riservatezza. Il punto di equilibrio individuato dalla normativa è il
seguente:
• per quanto attiene all'obbligo di pubblicazione, in presenza di un vincolo normativo e nell'area determinata dal
legislatore, tutto va pubblicato; le pubbliche amministrazioni, però, provvedono a rendere non intellegibili (cd.
mascheramento) i dati sensibili e giudiziari la cui conoscenza non risulti indispensabile alla finalità della
trasparenza; per quanto attiene, invece, ai dati personali non sensibili e non giudiziari, le pubbliche
amministrazioni provvedono a rendere non intellegibili i dati personali non pertinenti. Restano, poi, fermi i limiti
alla diffusione e all'accesso delle informazioni previsti dalla disciplina vigente, nonché quelli relativi alla
diffusione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale.
• In ordine, invece, all'accesso civico, anche in questo caso la disciplina si preoccupa di definire esclusioni e limiti
al relativo diritto. Quanto alle misure amministrative e ai soggetti coinvolti nell'implementazione della disciplina, è
previsto che ogni amministrazione indichi, in un'apposita sezione del Piano Triennale di prevenzione alla
corruzione, i responsabili della trasmissione e della pubblicazione dei documenti. All'interno di ogni
amministrazione, il responsabile per la prevenzione della corruzione svolge anche le funzioni di responsabile per
la trasparenza. I dirigenti responsabili degli uffici dell'amministrazione garantiscono il tempestivo e regolare
flusso delle informazioni da pubblicare ai fini del rispetto dei termini stabiliti dalla legge.
Passando alle sanzioni, si prevede che l'inadempimento degli obblighi di pubblicazione previsti dalla normativa vigente o
il rifiuto, il differimento e la limitazione dell'accesso civico costituiscono elemento di valutazione della responsabilità
dirigenziale, eventuale causa di responsabilità per danno all'immagine dell'amministrazione. Il mancato rispetto
dell'obbligo di pubblicazione, inoltre, costituisce illecito disciplinare. La l. 190/2012 prevede invece che la mancata o
incompleta pubblicazione delle informazioni costituisce violazione degli standard qualitativi ed economici rilevante ai
sensi della disciplina sulla class action pubblica ed è comunque valutata ai sensi della normativa sulla responsabilità
dirigenziale. Eventuali ritardi nell'aggiornamento dei contenuti sugli strumenti informatici sono sanzionati a carico dei
responsabili del servizio.
Ai sensi dell'art. 45 d.lgs. 33/2013, l'Anac controlla l'esatto adempimento degli obblighi di pubblicazione, esercitando
poteri ispettivi e ordinando l'adozione di atti o provvedimenti o la rimozione di comportamenti o atti contrastanti con i
piani sulla trasparenza.
Sebbene si tratti di un’importante novità legislativa, la legge presenta tuttavia delle criticità: essa non va ad incidere sulle
misure di contrasto al riciclaggio, pone il rischio di un’eccessiva burocratizzazione, manca la previsione di una specifica
struttura tecnica chiamata a definire e gestire la politica di prevenzione, vi è un eccessivo aumento delle sanzioni.
4.5.I principi di azionabilità delle situazioni giuridiche dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione e di
sindacabilità degli atti amministrativi. Il problema della riserva di amministrazione
L’art. 24 comma 1 Cost. dispone che “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”.
L’art. 113 Cost. dispone: “Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei
diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Tale tutela giurisdizionale
non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti. La legge determina
quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla
legge stessa”. La disciplina in questione esprime l’esigenza che ogni atto della PA possa essere oggetto di sindacato da
parte di un giudice e che tale sindacato attenga a qualsiasi vizio di legittimità: si tratta del principio di azionabilità delle
situazioni giuridiche dei cittadini nei confronti dell’amministrazione e del principio di sindacabilità degli atti
amministrativi. Secondo la Corte Cost., la norma non impedisce l’emanazione delle cd. leggi provvedimento che sono
quelle che hanno contenuto puntuale e concreto alla stessa stregua dei provvedimenti amministrativi. L’adozione di tali
leggi, però determina la grave impossibilità per il cittadino di ottenere la tutela giurisdizionale, potendo la legge
provvedimento essere sindacata solo dalla Corte costituzionale alla quale non è possibile proporre direttamente ricorso da
parte dei soggetti privati lesi.
A questo proposito, emerge il problema della riserva di amministrazione: ci si deve chiedere cioè se esista un ambito di
attività riservato alla PA. Di riserva dell'amministrazione potrebbe in primo luogo parlarsi nei confronti della funzione
giurisdizionale: in questo senso esiste un ambito sottratto al sindacato dei giudici costituito dal merito. In talune ipotesi però
l'ordinamento dispone il superamento di tale riserva prevedendo che il giudice amministrativo abbia giurisdizione di merito,
la quale consente di sindacare l'opportunità delle scelte amministrative.
L'idea di una riserva di funzione amministrativa nei confronti del legislativo sembra confliggere con tutta una serie di
principi, tra cui spicca il principio di preferenza della legge che chiaramente informa il nostro ordinamento giuridico. Né
la riserva di amministrazione pare ricavabile dal principio del giusto procedimento in forza del quale, allorché il legislatore
decide di limitare i diritti dei singoli, deve prevedere ipotesi astratte e predisporre un procedimento amministrativo
nell'ambito del quale i privati possono intervenire per esporre le proprie ragioni. Il principio del giusto procedimento è stato
qualificato dalla Corte Cost. come principio generale dell'ordinamento e di conseguenza non è ritenuto vincolante per il
legislatore statale che può derogare e limitare la sfera di operatività dell'amministrazione.
A nostro giudizio, una legge che disponesse in via puntuale e concreta in una situazione caratterizzata dalla presenza di più
interessi in cui occorre effettuare una valutazione, violerebbe il principio di imparzialità cui il legislatore è vincolato in tema
di attività amministrativa.
4.6. Il principio dell’equilibrio di bilancio
Ai sensi dell’art. 81 Cost. (così come sostituito dalla l. cost. 1/2012 emanata in seguito ad impegni assunti dall’Italia in sede
europea) “Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e
delle fasi favorevoli del ciclo economico”. Con questo principio viene impedito il ricorso all’indebitamento ma, allo stesso
tempo, si lascia aperta la strada alla possibilità di adottare politiche anticicliche. In questo secondo caso, previa
autorizzazione delle camere (adottata a maggioranza assoluta), nel caso si verifichino eventi eccezionali, si può ricorrere
all’indebitamento.
L’ultimo comma dell’art. 81 Cost. introduce una riserva di legge rinforzata: la legge di autorizzazione va approvata a
maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera e va inoltre stabilito il contenuto della legge di bilancio, le norme
e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra entrate e spese dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico.
Il dovere di assicurare l'equilibrio di bilancio e la sostenibilità del debito complessivo è esteso al complesso delle
pubbliche amministrazioni. Un ruolo di assoluto rilievo è stato conferito alla Corte dei Conti dal d.l. 174/2012. Il quadro si
completa con la Golden rule di cui all'art 119 Cost. secondo cui i comuni, province, città metropolitane e regioni hanno
autonomia finanziaria di entrata e di spesa.
L'art 81 rimette allo Stato le scelte fondamentali relative alla sostenibilità complessiva del debito; anche la competenza
legislativa in tema di armonizzazione dei bilanci pubblici spetta in via esclusiva allo Stato. Sicuramente l’entrata in vigore
di questo principio condiziona le scelte amministrative che comportano spese, andando ad incidere sull’efficacia, efficienza
e buon andamento, riducendo o condizionando la discrezionalità della PA.
5. Il principio della finalizzazione dell’amministrazione pubblica agli interessi pubblici
L’art. 97 Cost. contiene in sé il principio di finalizzazione dell’amministrazione pubblica: buon andamento vuol dire
congruità dell’azione in relazione all’interesse pubblico. Si può dedurre come la finalizzazione permea l’amministrazione
nel suo complesso e si riflette sui poteri che ad essa sono attribuiti.
6.I principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza
Il principio di sussidiarietà è inteso nel senso di attribuzione di funzioni al livello superiore di governo esercitabili soltanto
nelle ipotesi in cui il livello inferiore non riesca a curare gli interessi ad esso affidati. Sembra che l’art. 5 Cost. sottintenda
tale principio, escludendo ogni indebita intromissione da parte di un potere pubblico superiore all’interno di ogni capacità
riconosciuta ai vari soggetti. Tuttavia tale articolo attiene al decentramento, figura attribuibile in generale a tutti i poteri
decisori e che implica la necessità che tali poteri non siano tutti racchiusi in un centro. In questo senso, l’art. 5 stabilisce che
“La repubblica attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo”. Tale fenomeno può
assumere forme diverse: forma burocratica (trasferimento delle competenze da organi centrali a organi periferici di uno
stesso ente) o forma autarchica (affidamento a enti diversi dallo Stato del compito di soddisfare la cura di alcuni bisogni
pubblici).
Il principio di sussidiarietà può essere inteso in senso non solo verticale (relativamente cioè alla distribuzione delle
competenze tra centro e periferia), ma anche orizzontale con riguardo i rapporti tra poteri pubblici e organizzazioni della
società. La legge costituzionale 3/2001 ha costituzionalizzato il principio di sussidiarietà, che ora viene declinato sia in
senso verticale sia in senso orizzontale: l’art. 118 Cost stabilisce che “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni
salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei
princìpi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”. In prima battuta perciò le funzioni amministrative spettano al
Comune. Il comma 3 precisa: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa
dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
7.I principi costituzionali applicabili alla pubblica amministrazione: l’eguaglianza, la solidarietà, la democrazia.
Alla PA si applicano, senza ombra di dubbio, il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) e solidarietà (art. 2 Cost.), nonché
l’art. 1, ove si parla di “Italia repubblica democratica”: il principio democratico informa anche l’ordinamento militare (a tal
proposito si veda l’art. 52 Cost.), nonché l’amministrazione. Con riguardo a quest’ultima, democratica deve essere anche
l’azione amministrativa, che deve concorrere alla realizzazione di una società più democratica, rimuovendo gli ostacoli che
impediscono la piena eguaglianza dei cittadini (art. 3 comma 2 Cost.).
8.L’amministrazione nella Costituzione come “potere dello Stato”
L’amministrazione (più precisamente il governo) è dotato di un particolare grado di autonomia ed è perciò qualificabile
come potere dello Stato, alla pari di quello legislativo e giudiziario. Ma tra i vari poteri possono sorgere dei conflitti di
natura positiva (due poteri affermano la titolarità della medesima potestà), negativa (il potere che dovrebbe esercitare
potestà nega di averla), reale (il conflitto sfocia in pronunce contrastanti di autorità diverse), virtuale (quando vi è una
potenziale situazione di conflitto, non ancora verificatasi concretamente). Ma i conflitti possono essere anche tra organi
appartenenti a diversi ordini giurisdizionali (c.d. conflitti di giurisdizione) o tra organi appartenenti allo stesso potere
(conflitti di competenza).
In costituzione sono disciplinati solo i conflitti di attribuzione (cioè quelli tra soggetti distinti dell’ordinamento e aventi
una sfera di competenza costituzionalmente riservata), e in particolar modo quelli tra Stato e regioni e tra regioni, che
vengono risolti dalla Corte costituzionale.
Gli atti invasivi del potere altrui sono spesso quelli amministrativi: in questo caso l’atto è impugnabile davanti al giudice
amministrativo ma anche conoscibile dal giudice ordinario e ciò rende evidenti i problemi di interferenza tra giudizio
ordinario/amministrativo e giudizio costituzionale. La concorrenza delle due azioni giurisdizionali per la soluzione dello
stesso problema implica la possibilità di decisioni contrastanti: per arginare il problema si potrebbe sospendere il giudizio
comune in attesa della pronuncia della Corte costituzionale.
Nel caso di conflitti, invece, tra poteri e pubblica amministrazione, coloro che possono sollevare conflitto tra poteri sono il
Presidente del Consiglio, il Consiglio dei ministri e il Ministro di giustizia.
Capitolo III
L’ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA: PROFILI GENERALI
1.Introduzione
Ciascun ordinamento si preoccupa di individuare i soggetti che ne fanno parte. Oltre a riconoscere la soggettività e la
capacità giuridica a tutte le persone fisiche, l'ordinamento istituisce altri soggetti-persone giuridiche o le configura in
astratto. Ciò vale anche per le persone giuridiche pubbliche, entro un quadro articolato, tanto che uno dei caratteri che
viene solitamente richiamato in tema di enti pubblici è il profilo della loro atipicità.
2.I soggetti di diritto nel diritto amministrativo: gli enti pubblici
L’amministrazione, in senso soggettivo, si compone di vari enti pubblici che sono soggetti dotati di capacità giuridica e
perciò sono idonei ad essere titolari di poteri amministrativi: in questo senso possono essere definiti come centri di potere.
Una prima articolazione dell’ente è l’amministrazione statale che viene affiancata dalle amministrazioni regionali e dagli
enti che rappresentano le comunità locali.
Il passaggio da un modello di Stato liberale al modello c.d. sociale ha determinato la necessità di avvalersi sempre di più
all’apporto dei privati che, in quanto chiamati a svolgere alcuni servizi di rilievo pubblicistico, sono stati “attratti”
nell’ambito dell’organizzazione pubblica.
Accanto agli enti territoriali tradizionali, si sono aggiunti col tempo “altri soggetti”: tra questi si ritrovano ordini
professionali, enti sportivi etc. che svolgono attività rilevanti per il settore pubblico.
3.Il problema dei caratteri dell’ente pubblico
L’art. 97 Cost. stabilisce che “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge” e l’art. 4 della l. 70/1975
dispone che “nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge”: spetta perciò
all’ordinamento generale e alle sue fonti individuare quei soggetti che operano al suo interno. Occorre tuttavia constatare
come oggi molti enti vengono ad essere, a loro volta, istituiti da altri enti pubblici “sulla base di legge” e non “per legge”: si
tratta, in questo caso, di configurazione astratta dell’ente.
Il problema di stabilire se un ente sia o meno pubblico si pone per tutta una serie di organizzazioni istituite da leggi che non
ne qualificavano la pubblicità o addirittura carenti di una legge istitutiva. La questione è particolarmente complessa ma è
stata risolta dalla giurisprudenza, che ha fatto ricorso ai c.d. indici esteriori che sono ritenuti idonei ove considerati nel loro
complesso. Tra questi indici vi sono: la costituzione dell’ente da parte di un soggetto pubblico; la nomina degli organi
direttivi in tutto o in parte di competenza dello Stato o di altro ente pubblico; l’esistenza di controlli o di finanziamenti
pubblici (con riguardo ai finanziamenti pubblici, il fatto di utilizzare delle risorse provenienti dalla collettività rende
responsabile il soggetto nei confronti della collettività stessa e impone che la sua attività sia svolta nel rispetto dei canoni
costituzionali di imparzialità e buon andamento); l’attribuzione di poteri autoritativi. La delicatezza dell'operazione
qualificatoria dipende dalla detipicizzazione degli enti pubblici derivante dell'evoluzione storica che genera difficoltà
nell'individuazione di un momento comune unificante del regime pubblico di un ente.
4.La definizione di ente pubblico e le conseguenze della pubblicità
Talvolta, per affermare se un ente è o meno pubblico, non è sufficiente nemmeno la qualificazione operata dalla legge: la
giurisprudenza, infatti, è intervenuta per superare, in termini privatistici, la qualificazione di alcuni soggetti. Sul punto
importante è la sentenza 466/1999 Corte Cost., che ha dichiarato che spetta alla Corte dei conti il potere di controllo sulla
gestione finanziaria delle s.p.a. costituite a seguito di trasformazione di enti pubblici economici. Sulla base di tale
orientamento, si constata che l’ente pubblico è quello che, al di là della mera definizione ex lege, viene ritenuto tale dalla
giurisprudenza. Alla luce di ciò si afferma che l’interesse è pubblico in quanto la legge l’ha imputato ad una persona
giuridica e che l’ente pubblico viene istituito con una specifica vocazione allo svolgimento di una peculiare attività di
rilevanza collettiva: a riguardo ecco che l’ente non può disporre della propria esistenza.
Spesso non è semplice individuare l'imputazione legislativa cui si è fatto cenno: si ritiene comunque che possano soccorrere
alcuni elementi rivelatori, tra i quali è particolarmente importante l'utilizzo di denaro pubblico da parte dell'ente. La
circostanza di impiegare risorse provenienti dalla collettività rende responsabile il soggetto nei confronti della collettività
stessa e impone che la sua attività sia svolta nel rispetto dell’imparzialità e del buon andamento.
Qualora venga meno la pubblicità dell’interesse perseguito (conditio sine qua non per qualificare un ente come pubblico), la
legge può intervenire per estinguere l’ente o decidere di trasformalo in soggetto privato (gli artt. 11 e 14 della l. 59/1997
prevedono la trasformazione in associazioni o in persone giuridiche di diritto privato di enti nazionali che “non svolgono
funzioni o servizi di rilevante interesse pubblico”). A riguardo, vi sono stati casi di trasformazione dell’ente in soggetto
privato, in particolare la trasformazione in fondazioni: si ricordi gli enti di prioritario interesse nazionale che operano nel
settore musicale, come la “Biennale di Venezia”.
Talora l'ordinamento considera di pubblico interesse la presenza necessaria di un soggetto sul mercato, sicché il pubblico
interesse è individuato nel fatto che tale soggetto svolga attività economiche, avvalendosi degli strumenti giuridici degli
altri soggetti operanti nel settore: vengono così istituiti gli enti pubblici economici che non hanno poteri autoritativi.
Altra caratteristica fondamentale per ritenere un ente pubblico è il suo inserimento nell’organizzazione amministrativa
pubblica. La qualificazione di un ente come pubblico è importante perché comporta conseguenze giuridiche di rilievo:
a) solo gli enti pubblici possono emanare provvedimenti che hanno efficacia sul piano dell’ordinamento generale alla
stessa stregua dei provvedimenti dello Stato, che sono impugnabili davanti al giudice amministrativo. L’ente
pubblico può quindi agire in autonomia: con tale espressione si intende la possibilità per l’ente di effettuare da sé
le proprie scelte al fine di agire per il conseguimento dei propri fini, ponendo in essere norme aventi contenuto
generale ed astratto (autarchia). Ma l’autonomia può anche essere intesa come autonomia di indirizzo, vale a dire
la possibilità per l’amministrazione di determinare da sé i propri scopi e darsi obiettivi anche diversi da quelli
statali, come per esempio accade per gli enti territoriali.
b) solo agli enti pubblici è riconosciuta la potestà di autotutela: gli enti possono risolvere un conflitto attuale o
potenziale di interessi e sindacare la validità dei propri atti producendo effetti che incidono su di essi, prescindendo
dall’intervento del giudice. L’ambito di operatività dell’autotutela non è limitato esclusivamente ai rapporti di
diritto pubblici; si ammette infatti che si può esercitare autotutela anche per alcuni rapporti di diritto privato che
fanno capo all’amministrazione. L’autotutela è espressione dell’esercizio di una funzione amministrativa che ha
come fine quello di curare l’interesse pubblico nazionale; perciò l’autotutela è soggetta alle regole generali della
funzione amministrativa attiva e l’amministrazione deve dimostrare sempre l’esistenza di un interesse pubblico in
base al quale viene emanato l’atto. L’autotutela è inoltre espressione di un potere discrezionale nel corso di un
procedimento che inizia d’ufficio.
c) le persone fisiche legate da un rapporto di servizio agli enti pubblici sono assoggettate a un particolare regime di
responsabilità penale, civile ed amministrativa. Per quanto riguarda i reati, le persone fisiche rispondono per le
condotte qualificate come reati propri, come per esempio il peculato, la concussione, la corruzione per l’esercizio
della funzione, la corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, l’induzione indebita a dare/promettere un’utilità,
l’abuso d’ufficio, il rifiuto/omissione di atti d’ufficio.
d) gli enti pubblici sono tenuti al rispetto dei principi applicabili alla PA e sono soggetti al controllo da parte della
Corte dei conti.
e) l’attività che costituisce esercizio di poteri amministrativi è di regola retta da norme peculiari.
f) agli enti pubblici si applicano le disposizioni per l’esecuzione coattiva dei crediti dello Stato: gli enti pubblici
possono perciò ricorrere a procedura privilegiate per la riscossione delle entrate patrimoniali. La riscossione
coattiva delle entrate pubbliche può però anche essere attuata mediante iscrizione a ruolo (affidata ora all’Agenzia
Entrate-Riscossioni, dopo che è stato sospeso anche il sistema esattoriale).
g) se gli enti pubblici hanno partecipazioni in s.p.a. vige una particolare disciplina sui poteri di questi
h) gli enti pubblici sono soggetti a particolari rapporti o relazioni la cui intensità varia in ragione dell’autonomia
dell’ente. Al riguardo, importante è la nozione di autodichia: con essa si intende la possibilità che spetta ad alcuni
organi costituzionali, in ragione della loro indipendenza, di sottrarsi alla giurisdizione degli organi giurisdizionali
ordinari; tale possibilità è riconosciuta alla Camera dei deputati, Senato e alla Corte costituzionale.
5.Il problema della classificazione degli enti pubblici
Gli enti pubblici possono essere suddivisi in gruppi. A riguardo in dottrina si distingue tra: enti con compiti di disciplina di
settori di attività, enti con compiti di promozione, enti con compiti di produzione di beni e servizi in forma imprenditoriale,
enti con compiti di erogazione di servizi pubblici. In base ai poteri attribuiti si possono differenziare gli enti che posseggono
potestà normativa dagli enti che fruiscono di poteri amministrativi e da quelli che fanno uso della sola capacità di diritto
privato. La dottrina così classifica gli:
a) enti a struttura istituzionale -> la nomina degli amministratori è determinata da soggetti estranei all’ente
b) enti associativi -> i soggetti che fanno parte del corpo sociale sottostante determinano direttamente o a mezzo di
rappresentanti eletti o delegati le decisioni fondamentali dell’ente. In essi si verifica quindi il fenomeno
dell’autoamministrazione. Questi enti sono caratterizzati dalla presenza di un’assemblea, avente soprattutto
compiti deliberanti (v. Coni, ordini e collegi professionali, accademie di natura pubblica).
In alcuni enti, poi, detti a struttura rappresentativa, i soggetti interessati determinano la nomina della maggioranza degli
amministratori non direttamente, ma attraverso le proprie organizzazioni.
Tuttavia, le classificazioni più importanti sono indubbiamente quelle operate dal legislatore: all'art. 5 Cost. vengono
contemplati gli enti autonomi (“autonomie locali”) e, ai fini della sottoposizione al controllo della Corte dei conti, all'art.
100 Cost gli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. Il principio dell’autonomia nei limiti fissati
dall’ordinamento è alla base altresì della disciplina costituzionale delle università, delle istituzioni di alta cultura e delle
accademie, soggetti che possono darsi ordinamenti autonomi.
La legge ha poi introdotto la categoria delle autonomie funzionali: tali sono quegli enti cui possono essere conferiti
funzioni e compiti, come per esempio le scuole, camere di commercio, università.
Un’altra categoria di enti pubblici ricavabile dal diritto positivo è costituita dagli enti pubblici economici che svolgono
esclusivamente o prevalentemente attività economica.
Importante è la classificazione contenuta nella l. 70/1975 che, in ordine agli enti statali non economici (cd. parastatali),
pone una regolamentazione attinente al rapporto di impiego, alla gestione contabile e al controllo ministeriale.
Quanto agli enti a struttura associativa, essi vengono sottratti ex lege all’estinzione in ragione che la formazione di cui
essi sono esponenti non può cessare di esistere.
Un’ulteriore e importante categoria è quella degli enti territoriali: comuni, province, città metropolitane, regioni e Stato. Il
territorio, dunque, consente di individuare gli enti stessi, nonché le persone che vi appartengono per il solo fatto di esservi
stanziate (si utilizza il criterio della residenza). Ciò significa che, in primo luogo, l’ente è politicamente rappresentativo del
gruppo che si trova sul territorio e opera nell’interesse di tutto il gruppo; da ciò consegue che l’esercizio del potere che non
rispetta il limite territoriale determina la nullità del relativo atto. Infine, soltanto gli enti territoriali possono essere titolari di
beni demaniali, posti al servizio di tutta la collettività.
Gli enti pubblici non territoriali, pur esponenziali di gruppi sociali, sono accomunati in virtù del perseguimento di interessi
settoriali; a differenza degli enti territoriali, non perseguendo interessi generali, essi vengono detti enti monofunzionali.
In ragione dell’atipicità degli enti pubblici, vi è la tendenza ad introdurre regimi di diritto speciale, per esempio la legge ha
istituito una serie di agenzie come strutture serventi ad un ministero. Tra questi vi sono: 1) l’agenzia per i servizi sanitari
regionali; 2) l’agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni; 3) l’agenzia spaziale italiana; 4)
l’agenzia per le erogazioni in agricoltura; 5) l’agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese
italiane.
6.Relazioni e rapporti intersoggettivi; forme associative.
Un primo tipo di relazione intersoggettiva tra enti pubblici è quello sorto dalla entificazione di apparati organizzativi già
propri di un altro ente, vale a dire dalla situazione di strumentalità strutturale e organizzativa di un ente, stabilita dalla
legge, nei confronti di un altro ente, nella quale il primo viene a rivestire una posizione sotto alcuni profili simile a quella di
un organo (es. gli enti dipendenti dalle regioni).
Un secondo tipo di relazione intersoggettiva comprende enti dotati di una posizione di maggior autonomia che non si
trovano in una situazione di strumentalità organizzativa e strutturale così marcata come nel caso precedente: sono i c.d. enti
che svolgono un’attività che si presenta come rilevante per un altro ente pubblico territoriale. La dipendenza e la
strumentalità hanno perciò natura funzionale (in questa tipologia possiamo ricomprendere la Siae e gli enti parastatali).
Sono, poi, individuabili enti “autonomi” che non si pongono in relazione di strumentalità con lo Stato o con altro ente
pubblico (qui vi rientrano enti di formazioni sociali che godono della possibilità di autodeterminarsi).
Una posizione di più marcata indipendenza è infine assicurata alle autorità indipendenti dotate di personalità giuridica,
caratterizzata dal fatto che esse sono sottratte all’indirizzo politico-amministrativo del governo.
Il contenuto di queste relazioni varia caso per caso e dipende dal tipo di poteri che lo Stato può esercitare nei confronti
dell’ente. In particolare, ricordiamo i poteri di:
• vigilanza -> il suo contenuto non si esaurisce nel mero controllo in quanto esso si estrinseca anche nell’adozione di
una serie di atti, quali l’approvazione dei bilanci e delle delibere particolarmente importanti dell’ente vigilato, nella
nomina di commissari straordinari, nello scioglimento di organi dell’ente. Ciò indica che tra vigilanza e potere di
controllo v’è differenza, perché la vigilanza si esplica mediante attività di amministrazione attiva. La vigilanza non
è una vera e propria relazione organizzativa, ma un potere strumentale esercitabile anche all’interno di altre
relazioni intersoggettive.
• direzione -> è una situazione di sovraordinazione tra enti che implica il rispetto, da parte dell’ente sovraordinato, di
un ambito di autonomia dell’ente subordinato. In particolare, la direzione di estrinseca in una serie di atti, le
direttive, che determinano l’indirizzo dell’ente, lasciando allo stesso la possibilità di scegliere le modalità attraverso
le quali conseguire gli obiettivi prefissati.
Dalle relazioni stabili e continuative occorre tenere distinti i rapporti che possono instaurarsi di volta in volta tra enti. Essi
sono:
• avvalimento -> istituto previsto nell’ultimo comma dell’art. 118 Cost. vecchia formulazione, in relazione a regioni
e province, comuni ed enti locali. La l. cost. 3/2001 ha abrogato l’avvalimento, sebbene venga tuttora previsto dalla
legge ordinaria 59/1997, ma non comporta trasferimenti di funzioni ed è caratterizzato dall’uso da parte di un ente
degli uffici di un altro ente e tali uffici svolgono attività di tipo ausiliario.
• sostituzione -> istituto mediante il quale un soggetto (sostituto) è legittimato a far valere un diritto, un obbligo o
un’attribuzione che rientrano nella sfera di competenza di un altro soggetto (sostituito), operando in nome proprio e
sotto la propria responsabilità. L’ordinamento disciplina il potere sostitutivo tra enti nei casi in cui un soggetto non
ponga in essere un atto obbligatorio per legge o non eserciti le funzioni amministrative ad esso conferite. Per
esercitare tale potere, secondo la giurisprudenza, è sempre necessaria la previa diffida ad adempiere. In caso
contrario il potere sostitutivo può essere esercitato direttamente da un organo dell’ente sostituto o da un
commissario nominato dall’ente sostituto.
Occorre far cenno anche alla delega di funzioni amministrative, istituto abrogato con l. cost. 3/2001, che ha però
configurato l’istituto del conferimento di funzioni amministrative ai vari livelli di governo locale sulla base dei principi di
sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.
A fianco agli enti di diritto pubblico, vi sono poi le c.d. forme associative (distinte in consorzi e federazioni) che possono
essere costituite tra enti. Le federazioni di enti (si pensi all’Aci) svolgono attività di coordinamento e di indirizzo delle
attività degli enti federati nonché attività di rappresentanza degli stessi. Essi non si sostituiscono, tuttavia, mai agli enti
federati nello svolgimento di compiti loro propri.
I consorzi sono una struttura stabile volta alla diretta realizzazione di finalità comuni a più soggetti. Agiscono nel rispetto
di alcuni limiti derivanti dall’esercizio del potere direttivo e di controllo spettante ai consorziati; gestiscono e realizzano
opere o servizi di interesse comune agli enti consorziati, i quali restano comunque titolari delle opere o servizi. I consorzi
sono obbligatori quando un rilevante interesse pubblico ne imponga la necessaria presenza.
Tra le forme associative occorre inoltre ricordare le unioni di comuni.
7.La disciplina dell’Unione Europea: in particolare, gli organismi di diritto pubblico
Per amministrazione europea si intende l’insieme degli organismi e delle istituzioni dell’Ue cui è affidato il compito di
svolgere attività sostanzialmente amministrativa e di emanare atti amministrativi. Ma quali sono i soggetti, o meglio i
pubblici poteri, che il diritto amministrativo italiano qualifica come enti? Qui è necessario ricordare sia l’intervento della
corte di giustizia dell’Ue che per “pubblici poteri intende quella serie di attività o impiego svolto dall’ente che sia
caratterizzato dall’autoritatività” sia la posizione del legislatore europeo, che estende la disciplina pubblicistica a tutti quei
soggetti la cui azione e presenza sono suscettibili di pregiudicare il libero gioco della concorrenza.
L’intervento comunitario, nel definire quali siano gli organismi di diritto pubblico, condiziona però la concorrenza sotto una
duplice prospettiva: in quanto soggetto che, a mezzo di proprie imprese, presta servizi e produce beni in un regime
particolare; e in quanto operatore che detiene una quota di domanda di beni e servizi rilevante.
Stando alla prima prospettiva, i problemi principali sono individuare la nozione di “impresa pubblica” e la disciplina degli
aiuti e dei finanziamenti pubblici. Per imprese pubbliche, l’Ue intende quelle imprese nei confronti delle quali i pubblici
poteri possono esercitare, direttamente o indirettamente, un’influenza dominante per ragioni di proprietà, di partecipazione
finanziaria o della normativa che le disciplina.
Con riguardo alla seconda prospettiva l’amministrazione, per soddisfare le esigenze collettive, non avendo mezzi e
organizzazioni sufficienti, deve ricercare contraenti sul mercato per affidargli la realizzazione di opere o per richiedere la
prestazione di beni.
Le condizioni di concorrenza vengono create artificialmente in virtù del principio di non discriminazione, pertanto vengono
indette gare e vige la trasparenza delle operazioni concorsuali.
Legata alla seconda prospettiva è poi la nozione di organismo di diritto pubblico: in specie, la legislazione Ue in materia
di appalti ricomprende tale figura tra le amministrazioni aggiudicatrici. Questi sono organismi:
a) istituiti per soddisfare bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale;
b) dotati di personalità giuridica;
c) la cui attività è finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico.
Queste 3 condizioni sono cumulative.
8.Le figure di incerta qualificazione: in particolare, le società per azioni a partecipazione pubblica; le fondazioni. Cenni al
rapporto tra potere pubblico e mercato
Per inquadrare lo studio delle società, è necessario fare cenno a due profili.
In primo luogo, è opportuno ricordare la tendenza a esternalizzare compiti, servizi e funzioni ed affidarne la gestione a
soggetti esterni al perimetro tradizionale delle amministrazioni: vengono quindi in rilievo le società a capitale pubblico
nonché il problema della concorrenza e dei margini entro cui è consentito derogare ad esse al momento dell’affidamento dei
compiti alle società medesime. Mentre in un caso la gestione rimane diretta (in house), in altri casi l’amministrazione
proietta al di fuori del proprio perimetro lo svolgimento di un’attività, pur utilizzando una società di cui detiene quote.
In secondo luogo, occorre far cenno alla disciplina dei rapporti economici nella carta costituzionale e al tema dei limiti
entro cui, mediante società, le amministrazioni possono svolgere attività imprenditoriali. La costituzione, come si può
vedere, oscilla tra un marcato intervento pubblico nell’economia mediante l’istituzione di imprese pubbliche e uno Stato
regolatore, la cui attività è al servizio del mercato e del suo corretto funzionamento. È questo uno dei casi in cui più ha
inciso il diritto dell’Ue che ha introdotto dei limiti all’intervento pubblico a favore della concorrenza, venendo così ad
affermare un modello di Stato regolatore. Ciò non vuol dire tuttavia scomparsa del “pubblico”, infatti lo Stato ha continuato
a condizionare il mercato attraverso strumenti quali sussidi sovvenzioni e aiuti, talvolta anche attraverso l’abbondono di
alcune imprese, che sono state privatizzate.
Con riguardo alle imprese pubbliche, esse sono di 3 tipi: aziende municipalizzate e autonome, enti pubblici economici,
partecipazioni societarie. Nei primi due casi, la gestione dell’impresa avviene da parte di un ente o suo organo; nel terzo
caso la gestione avviene con influenza pubblica su società: quest’ultimo strumento è venuto ad essere largamente utilizzato,
soprattutto a livello locale. Ciò ha consentito agli enti di raccogliere finanziamenti sul mercato in conto capitale.
Procediamo ora a descrivere i vari blocchi di norme che si occupano di società pubbliche:
• 1° blocco -> esso è costituito dalla disciplina codicistica che si riferisce alle società a partecipazione pubblica che
sono soggette ad una disciplina particolare, differenziata a seconda che si tratti di società chiuse o aperte. Per
quanto riguarda le società chiuse, l’art. 2449 cc prevede “Se lo Stato o gli enti pubblici hanno partecipazioni in una
società per azioni che non fa ricorso al mercato del capitale di rischio, lo statuto può ad essi conferire la facoltà di
nominare un numero di amministratori e sindaci, ovvero componenti del consiglio di sorveglianza, proporzionale
alla partecipazione al capitale sociale”. Ciò significa che non è possibile prevedere meccanismi in grado di garantire
automaticamente e stabilmente il governo della società al socio pubblico minoritario. Per le società aperte operano
due insiemi di regole:
o Disposizioni del comma 6 ex art 2346 cc, che si riferisce agli strumenti finanziari partecipativi: “Resta
salva la possibilità che la società, a seguito dell'apporto da parte dei soci o di terzi anche di opera o servizi,
emetta strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali o anche di diritti amministrativi, escluso il voto
nell'assemblea generale degli azionisti”. Ciò vuol dire che l’ente pubblico deve comunque partecipare alla
società per giovarsi dei relativi diritti.
o Regole che prevedono che il consiglio di amministrazione può anche proporre all’assemblea che i diritti
ammnistrativi previsti dallo statuto a favore dello Stato o degli enti pubblici siano rappresentati da una
particolare categoria di azioni: dal tenore della disposizione vengono esclusi per esempio i poteri speciali di
nomina.
• 2°blocco -> è costituito dalle fonti che direttamente e unilateralmente istituiscono società o impongono l’obbligo di
costituirle. In tali situazioni (società di diritto singolare: il d.lgs. 175/2016 stabilisce che restano ferme le
specifiche disposizioni relative a tali società costituite per l’esercizio di servizi di interesse generale) si pone il
problema di coordinare la disciplina in questione con il procedimento di costituzione delineato dal codice civile.
Centrale è a questo punto il d.lgs. 175/2016 (Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica) contenente
blocchi di norme ispirate a interessi e finalità diverse. Esso ha ad oggetto la costituzione di società da parte di
amministrazioni pubbliche, nonché l'acquisto, il mantenimento e la gestione di partecipazioni da parte di tali
amministrazioni in società a totale o parziale partecipazione pubblica, diretta o indiretta. Restano ferme le specifiche
disposizioni, contenute in leggi o regolamenti governativi, che disciplinano società a partecipazione pubblica di diritto
singolare costituita per l'esercizio della gestione di servizi di interesse generale o di interesse economico generale, nonché
le disposizioni di legge riguardanti la partecipazione di amministrazioni pubbliche a enti associativi diversi dalle società e
a fondazioni. Infine, le disposizioni del testo unico si applicano alle società quotate. Va notato che le amministrazioni
pubbliche possono partecipare esclusivamente a società costituite in forma di società per azioni o di società a
responsabilità limitata.
Prima di analizzare le norme che definiscono gli spazi di gemmazione di società da parte degli enti, è opportuno ricordare
che la presenza della società, in quanto tale, necessariamente non ostacola la concorrenza, dovendosi verificare caso per
caso il regime ad essa applicabile; neanche il diritto dell'Ue impone in linea di principio un’eliminazione delle imprese
pubbliche a favore del mercato. Quando il legislatore nel 2016 interviene, riducendo la possibilità di istituire le società
pubbliche, esprime un atteggiamento di sfavore non imposto in generale dal diritto europeo, perseguendo la finalità di
ridurre i costi degli apparati pubblici.
Tornando agli spazi di gemmazione, gli artt 4 e 5 d.lgs. 175/2016 chiariscono che le PA non sono libere di utilizzare lo
strumento societario. Non è dunque possibile, ad esempio, costituire società che agiscono liberamente in regime di mercato
o esercitare funzioni amministrative per mezzo di società. L'articolo 4, infatti, impone il divieto di costituire società aventi
per oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità
istituzionali. Lo scopo di lucro societario, in altri termini, deve essere coerente con le finalità pubblicistiche dell’ente. Posto
che i fini istituzionali sono pur sempre fissati dalla legge, qui può scorgersi un particolare vincolo legislativo che impedisce
alle amministrazioni di gemmare società che non siano coerenti con quegli scopi, sicché la tematica deve essere inquadrata
alla luce del principio di legalità. Non solo: l'art. 5 stabilisce che le amministrazioni possono costituire società, acquisire o
mantenere partecipazioni in società, esclusivamente per lo svolgimento di una serie di attività tipizzate quali la produzione
di un servizio di interesse generale, l’autoproduzione di beni o servizi strumentali all'ente e la prestazione di servizi di
committenza.
Il d.lgs. 175/2016 prevede coerentemente un'analisi periodica dell'assetto complessivo delle società in cui le
amministrazioni detengono partecipazioni e, ove si riscontri la presenza di partecipazioni non consentite, l'obbligo di
predisporre un piano di riassetto per la loro fusione o soppressione. In questo istituto si scorge, dunque, l'attenzione al buon
uso delle risorse pubbliche. La disciplina prevede poi un peculiare procedimento e impone specifici oneri di motivazione
al fine di costituire o acquisire partecipazioni in una società. La filosofia è quella di garantire che l'ente valuti tutte le
implicazioni della scelta societaria, effettui una consultazione pubblica e comunichi a Corte dei Conti la relativa a scelta.
L'atto di costituzione deve essere analiticamente motivato con riferimento alla necessità della società per il perseguimento
delle finalità istituzionali. Occorre, poi, motivare in ordine alla compatibilità dell’intervento finanziario con le norme dei
trattati europei e con la disciplina europea in materia di aiuti di Stato alle imprese.
L'art. 7 si occupa poi di ulteriori aspetti, sempre relativi al regime della deliberazione dell'ente necessaria per la costituzione
della società o di acquisto di partecipazioni in società già costituite. L'atto deliberativo è pubblicato sul sito istituzionale
dell'amministrazione pubblica partecipante. Nel caso in cui sia prevista la partecipazione all'atto costitutivo di soci privati,
la scelta di questi ultimi avviene con procedure di evidenza pubblica. Il testo unico si occupa anche delle conseguenze sul
piano societario dell'invalidità della fase pubblicistica: nel caso in cui una società a partecipazione pubblica si è costituita
senza l'atto deliberativo di una o più amministrazioni pubbliche partecipanti si procede alla liquidazione delle
partecipazioni. La mancanza o l'invalidità dell'atto deliberativo avente ad oggetto l'alienazione della partecipazione rende
inefficace l'atto di alienazione della partecipazione.
È ora è giunto il momento di analizzare i blocchi di norme che, all'interno del testo unico, si riferiscono alle varie categorie
di società pubbliche. Si assiste ad una progressiva intensificazione del regime pubblicistico partendo da un livello minimo,
quello delle società quotate, per passare alle società partecipate, fino a giungere a quella in controllo pubblico
(destinatarie di un regime più invasivo) e alle società in house (accostate agli enti pubblici). In questi due ultimi casi, il
testo unico apporta modificazioni al regime codicistico incidendo più direttamente sulla fisionomia delle società.
La macrocategoria di cui si occupa il testo unico è costituita dalle società a partecipazione pubblica, in cui confluiscono
sia le società a controllo pubblico, sia le altre società partecipate direttamente da amministrazioni pubbliche. A tali società
si applica tutta una serie di disposizioni le quali regolano profili che vanno dalla costituzione all'alienazione; dalla gestione
delle partecipazioni alla crisi d'impresa, prevedendo espressamente la possibilità del fallimento e, prima di arrivare a
questo esito estremo, la necessità di adottare un piano di risanamento. Le società a partecipazione pubblica sono soggette
alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché a quelle in materia di amministrazione straordinaria
delle grandi imprese insolventi. Qualora emergano uno o più indicatori di crisi aziendale, l'organo amministrativo della
società a controllo pubblico adotta i provvedimenti necessari al fine di prevenire l'aggravamento della crisi.
Passiamo ora alla seconda categoria di società. L'art 2.1, lettera m), stabilisce che le società a controllo pubblico (al
contempo destinatarie della disciplina dettata per le società a partecipazione pubblica) sono quelle società in cui una o più
amministrazioni pubbliche esercitano poteri di controllo. Per controllo si intende la situazione descritta dall'art 2359 cc; il
controllo può sussistere anche quando per le decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all'attività sociale è
richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo. L'art 6 incide sulla governance, prevedendo un
sistema di controlli interni più articolato rispetto alla disciplina contenuta nel diritto societario comune.
Trovano, inoltre, applicazione le disposizioni in materia di trasparenza con finalità di anticorruzione (previste dal d.lgs.
33/2013, il cui art 2 bis rinvia al testo unico) e viene posta una specifica disciplina sul personale. Dopo aver chiarito che
trovano applicazione le disposizioni del codice civile, delle leggi sul lavoro subordinato nell’impresa e dei contratti
collettivi, si prescrive che il reclutamento deve avvenire nel rispetto dei principi di trasparenza, pubblicità e imparzialità.
Altre prescrizioni sono ispirate alle esigenze di contenimento dei costi e alla moralizzazione, occupandosi di limiti al
numero dei componenti degli organi di amministrazione e controllo, di tetti ai compensi, di equilibrio di genere. L'organo
amministrativo della società a controllo pubblico è costituita da un amministratore unico. Non è consentito prevedere che
l'amministrazione sia affidata a due o più soci. Gli Statuti prevedono altresì l'attribuzione da parte del consiglio di
amministrazione di deleghe di gestione a un solo amministratore, salva l'attribuzione di deleghe al presidente ove
preventivamente autorizzato dall'assemblea. Una regola peculiare riguarda le società di cui amministrazioni pubbliche
detengono il controllo indiretto: non è consentito nominare, nei c.d.a., amministratori della società controllante, a meno
che siano attribuite ai medesimi deleghe gestionali a carattere continuativo.
Il d.lgs. 175/2016 in fine rafforza i poteri di controllo del socio pubblico anche di minoranza, stabilendo che ciascuna
amministrazione pubblica socia è legittimata a presentare denuncia di gravi irregolarità al tribunale.
I due modelli societari di cui il testo unico delinea in modo più marcato gli assetti organizzativi non comportano un
allontanamento dai tipi delineati dal c.c., ma derivano soprattutto dalla pressione del diritto dell'Ue che ha indicato i
caratteri che le società devono esibire per garantirne la compatibilità con l'ordinamento europeo.
Con riferimento al tema della concorrenza, molto importante il concetto di affidamento in house, delineato dalla
giurisprudenza comunitaria. In sostanza, si esclude che la disciplina sugli appalti trovi applicazione nei casi in cui tra
amministrazione e imprese sussiste un legame tale per cui il soggetto non possa ritenersi distinto dal punto di vista della
decisione. Più nel dettaglio, devono sussistere due requisiti: la struttura realizza la parte più importante della propria attività
con l’ente o con gli enti che la controllano (cd. vincolo di prevalenza) e l'ente pubblico esercita sulla persona giuridica un
controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi.
La disciplina della figura si rinviene oggi sia nel d.lgs. 175/2016, sia nell' art 5 d.lgs. 50/2016, che esclude gli affidamenti in
house dalla normativa in materia di contratti pubblici, aprendo anche alla partecipazione dei privati. I requisiti richiesti
sono: a) l'amministrazione aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore esercita sulla persona giuridica un controllo analogo a
quello esercitato sui propri servizi; b) oltre l’80% delle attività della persona giuridica controllata è effettuata nello
svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche
controllate dall’amministrazione aggiudicatrice; c) nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta
di capitali privati.
L’art. 16 d.lgs. 175/2016 completa la disciplina, confermando che la partecipazione dei privati è ammissibile a condizione
che sia prevista da norme di legge e che avvenga in forme che non comportino controllo o potere di veto, né l’esercizio di
un’influenza determinante sulla società controllata. Il TU si preoccupa soprattutto di definire l'allocazione dei poteri di
gestione onde consentire il controllo analogo. La norma prevede che i requisiti del controllo possono essere acquisiti anche
mediante la stipula di patti parasociali che possono avere durata superiore a 5 anni.
Per quanto attiene, invece, al requisito del vincolo di prevalenza, l'art. 16 chiarisce che gli statuti devono prevedere che oltre
l’80% del loro fatturato sia effettuato nello svolgimento dei compiti ad esse affidati dall'ente pubblico. Il mancato rispetto
del limite quantitativo indicato costituisce grave irregolarità che la società può sanare se, entro sei mesi dalla data in cui la
stessa si è manifestata, rinuncia di una parte dei rapporti di fornitura con soggetti terzi.
Per altro verso, sono possibili società in house che abbiano come oggetto sociale più di una delle attività di cui all'art 4.
Siamo comunque al cospetto di un’articolazione organizzativa dell'ente il cui regime maggiormente si avvicina a quello cui
sono assoggettate le amministrazioni.
Deve essere ancora sottolineato che la figura nata nel settore degli appalti è stata poi utilizzata anche in quello dei servizi
pubblici, onde consentire l'affidamento diretto degli stessi ai privati a condizione che sussistessero i requisiti sopra indicati.
In Italia, al fine di evitare di mettere a gara l'affidamento del servizio locale, le amministrazioni avevano tradizionalmente
utilizzato lo schema societario pubblico non necessariamente collimante con la relazione in house: questa tendenza era
dunque destinata a confrontarsi con i limiti comunitari all’in house. In particolare, l’affidamento diretto a società a capitale
misto non garantiva il controllo analogo previsto dalla Corte di giustizia. Non è un caso che il Consiglio di Stato nel 2007
avesse negato la riconducibilità delle società miste al modello delle in house providing. Ciò non escluderebbe, in linea di
principio, la compatibilità comunitaria della figura della società mista a partecipazione pubblica maggioritaria in cui il socio
privato fosse scelto con una procedura di evidenza pubblica. Tale soluzione, tuttavia, potrebbe ravvisarsi unicamente
laddove vi sia un affidamento con procedura di evidenza pubblica dell'attività operativa della società mista al partner
privato, tramite la stessa gara volta all'individuazione di quest'ultimo.
Oggi, l’art. 17 d.lgs. 175/2016 prevede che la quota di partecipazione del soggetto privato non può essere inferiore al 30% e
conferma che la selezione del medesimo si svolge con procedure di evidenza pubblica e ha ad oggetto la sottoscrizione o
l'acquisto della partecipazione societaria da parte del socio privato e l'affidamento del contratto di appalto o di concessione.
In questo caso, tale affidamento deve essere oggetto esclusivo della società mista. La durata della partecipazione privata
alla società non può essere superiore alla durata dell'appalto o della concessione.
In tema di responsabilità, l'art 12 d.lgs. 175/2016 pone il principio generale in forza del quale i componenti degli organi di
amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla
disciplina ordinaria delle società di capitali. Vi sono però due importanti spazi per la giurisdizione della Corte dei conti.
In primo luogo, nei casi in cui il danno sia arrecato dal rappresentante dell'ente all'amministrazione titolare di
partecipazione: “costituisce danno erariale il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito dagli enti partecipanti, ivi
compreso il danno conseguente alla condotta dei rappresentanti degli enti pubblici partecipanti o comunque dei titolari del
potere di decidere per essi, che, nell'esercizio dei propri diritti di socio, abbiano con dolo o colpa grave pregiudicato il
valore della partecipazione. In secondo luogo, devoluta alla corte dei conti è altresì la questione relativa al danno erariale
causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house,
Rimane il problema di inquadrare teoricamente le società pubbliche che sopravvivono. Di rilievo è l'art 11 d.lgs. 175/2016
secondo cui “per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione
pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato”. Il legislatore, dunque,
spostando la tesi secondo cui il codice civile costituisce la disciplina comune, introduce una chiara indicazione
interpretativa e sembra rigettare l'idea di una sorta di sotterranea pubblicizzazione della forma societaria. Le società
pubbliche, anche quando abbiano un oggetto sociale di interesse pubblico, vanno quindi ricondotte al paradigma
privatistico, salvi i casi di deroga che la legge deve indicare espressamente.
Abbandonando ora la disciplina di cui al d.lgs. 175/2016, volgiamoci a quella relativa alla dismissione delle partecipazioni
azionarie nelle società in cui sono stati trasformati gli enti privatizzati, che incide sui poteri dell'azionista pubblico: l’art. 2
d.l. 332/1994, accanto ai limiti al possesso azionario e al divieto della cessione della partecipazione, consentiva allo Stato di
mantenere poteri speciali (golden share). Anche in tal caso, la giurisprudenza comunitaria ha limitato i poteri speciali,
considerati come ostacoli alla circolazione dei capitali.
La disciplina vigente (d.l. 21/2012) ha sancito il passaggio dalla “golden share” alla “golden power”, nel senso che
l'esercizio di poteri speciali non è più legato alla qualità di azionista, nè alle vicende di privatizzazione, riguardando tutte le
società. Più nel dettaglio, con il d.p.c.m., possono essere esercitati alcuni poteri speciali in caso di minaccia di grave
pregiudizio per interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale. Nel settore dell'energia, dei trasporti, delle
telecomunicazioni, poi, è possibile esprimere il veto all'adozione di delibere relative a operazioni di modifica degli asset.
Un cenno meritano ulteriori figure specifiche. L'art 2451 c.c. si occupa delle società di interesse nazionale estendendo ad
esse la normativa di cui all’art. 2449, “compatibilmente con le disposizioni delle leggi speciali che stabiliscono per tali
società una particolare disciplina circa la gestione sociale, la trasferibilità delle azioni, il diritto di voto e la nomina degli
amministratori”. Tra queste società ricordiamo la Rai tv, concessionaria del servizio pubblico, la quale è stata ritenuta una
persona giuridica privata nonostante la partecipazione pubblica.
Le fondazioni costituiscono un modello, in via di diffusione nell'ambito dell'attività dell'amministrazione, caratterizzato
dalla indisponibilità dello scopo e, in Italia, attratto nella disciplina del codice civile. Esse svolgono attività in settori
contigui a quelle delle amministrazioni, rilevando quindi sotto il punto di vista del principio della sussidiarietà orizzontale.
In alcuni casi, vengono in evidenza fondazioni considerate come soggetti privati e costituenti momento finale di percorsi di
privatizzazione di soggetti pubblici. Di recente, però, alcune di quelle costituite dagli enti, aperte alla partecipazione dei
privati e anche create per attrarre i loro capitali, hanno costituito oggetto di una disciplina speciale. Si tratta delle cd.
fondazioni di partecipazione che segnano un avvicinamento al modello associativo.
9.Vicende degli enti pubblici
La costituzione degli enti pubblici può avvenire per legge o per atto amministrativo sulla base di una legge, anche se in
molti casi la legge si limita a riconoscere come enti pubblici organizzazioni nate per iniziativa privata. Al riguardo, occorre
precisare che il legislatore non è libero di rendere pubblica qualsiasi persona giuridica privata poiché esistono dei limiti
costituzionali volti a tutelare la libertà di associazione e altre attività private.
A riguardo, caso emblematico è stato quello della pubblicizzazione delle opere pie e degli enti morali a fine assistenziale ai
poveri e all’avviamento al lavoro e al miglioramento morale ed economico: la pubblicizzazione delle istituzioni pubbliche
di assistenza e di beneficienza, avvenuta con la c.d. lex Crispi (1890) è stata dichiarata illegittima dalla Corte Cost. con
sent. 396/1988, la quale ha restituito all’ambito privato ciò che dall’ambito privato era nato.
In ordine all’estinzione degli enti pubblici, deve innanzitutto osservarsi che essa può aprire una vicenda di tipo successorio
che viene normalmente regolamentata dalla legge qualora le attribuzioni dell’ente vengano assorbite da un altro ente.
L’estinzione può avvenire per legge o per atto amministrativo basato sulla legge. A tal proposito, l’art. 15 d.l. 98/2011
dispone che “quando la situazione economica, finanziaria e patrimoniale di un ente sottoposto alla vigilanza dello Stato
raggiunga un livello di criticità tale da non potere assicurare la sostenibilità e l'assolvimento delle funzioni indispensabili,
ovvero l'ente stesso non possa fare fronte ai debiti liquidi ed esigibili nei confronti dei terzi, con decreto del Ministro
vigilante, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, l'ente è posto in liquidazione coatta amministrativa; i
relativi organi decadono ed è nominato un commissario”. È invece discussa, come causa di scioglimento, la possibilità
dell’ente associativo di autosciogliersi: questi, infatti, possono estinguersi solo se vengono meno tutti gli associati, o se
viene raggiunto lo scopo o se vi è insufficienza del patrimonio.
Quanto alle modificazioni degli enti pubblici, si possono ricordare il mutamento degli scopi, le modifiche del territorio
degli enti territoriali, le modificazioni delle attribuzioni e le variazioni della consistenza patrimoniale. Per gli scopi degli
enti, specie quelli a natura associativa, il legislatore ha dei limiti ben precisi: esso non può infatti liberamente modificarne
gli scopi originali e ciò in ragione di quanto disposto dall’art. 2 Cost.
Gli enti pubblici possono poi essere oggetto di trasformazione da persone giuridiche pubbliche in persone giuridiche di
diritto privato. Possono altresì essere oggetto di riordino, tra le cui conseguenze può esserci quella dell’estinzione dell’ente
stesso o la sua trasformazione.
10.La privatizzazione degli enti pubblici
La scelta di privatizzare un ente pubblico è dovuta ad una pluralità di ragioni. In ogni caso il processo di privatizzazione
vede l’influenza dell’Ue, che impone il divieto di discriminazioni tra gli operatori economici e tende a ridurre gli ambiti nei
quali i soggetti pubblici agiscono in posizione di monopolio o comunque dispongono di privilegi: ciò determina la
limitazione dell’area del diritto derogatorio a tutto vantaggio delle regole comuni applicabili ai soggetti che gestiscano
attività di impresa. Una delle ragioni che può portare alla privatizzazione dell’ente è quella relativa alla riduzione
dell’indebitamento finanziario: l’art. 1.6 della l. 474/1994 dispone che “I proventi delle dismissioni delle partecipazioni
degli enti pubblici in società per azioni sono destinati, in via prioritaria, alla riduzione dell'indebitamento finanziario degli
enti stessi”.
La privatizzazione si articola in 2 fasi:
1. l’ente pubblico economico viene trasformato in società per azioni con capitale interamente posseduto dallo Stato;
2. si procede alla dismissione della quota pubblica: questa fase è disciplinata dal d.l. 332/1994 che fa riferimento alle
procedure di trasparenza e di non discriminazione finalizzata alla diffusione dell’azionariato tra il pubblico dei
risparmiatori e degli investitori istituzionali.
La privatizzazione opera principalmente nel settore della gestione di partecipazioni azionarie (Es. Eni), nei servizi di
pubblica utilità (es. Enel), nel settore creditizio.
Altre ipotesi di privatizzazione attengono alla trasformazione degli enti che operano nel settore musicale in fondazioni di
diritto privato e tutti i casi previsti dagli artt. 11 comma 1 lettera c) e 14 d.l. 59/1997 per quanto riguarda gli enti che
operano in settori diversi dall’assistenza e previdenza. Con il d.lgs. 419/1999 sono poi state emanate norme in materia di
privatizzazione, fusione, trasformazione e soppressione di enti pubblici nazionali: per quanto attiene la soppressione, questa
viene inoltre prevista dal d.l. 112/2008 chiamato “taglia enti” nonché dalla l. 135/2012 nota come “spending review” con
cui viene previsto che regioni, province e comuni sopprimano o accorpino enti, agenzie e organismi che esercitano funzioni
fondamentali di cui all’art. 117 comma 2 lettera p) Cost.
11.I principi in tema di organizzazione degli enti pubblici
In epoca recente si è assistito all’abbandono del modello gerarchico (modello caratterizzato da una struttura statale
accentrata, rigida) a favore di nuovi assetti organizzativi più flessibili in grado di rispondere in modo più adeguato alle
nuove esigenza che vengono ad emergere.
Per quanto attiene all’attività di organizzazione, l’art. 97 Cost. viene ad essere norma di ripartizione della funzione di
indirizzo politico tra governo e parlamento. Poiché l’attività di organizzazione è espressione di quella di indirizzo, si
desume la sussistenza di una riserva di organizzazione in capo al potere esecutivo.
In ogni caso la legge è fonte primaria di disciplina della materia organizzativa: lo Stato ha infatti potestà legislativa
esclusiva in materia di ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali.
I principi cui la legge è soggetta sono quelli di imparzialità e buon andamento, nonché sussidiarietà.
Il riconoscimento espresso di potestà di organizzazione in capo all’amministrazione è operato dall’art. 17.1 lettera d) della l.
400/1988, con cui viene prevista la figura dei regolamenti governativi disciplinanti l’organizzazione e il funzionamento
delle amministrazioni pubbliche secondo quanto previsto dalla legge. Il comma 4 dispone che “l’organizzazione e la
disciplina degli uffici dei ministeri sono determinate con regolamento governativo emanato ai sensi del comma 2 (ovvero si
tratta di un regolamento di delegificazione) su proposta del ministro competente.
Il modello di cui all’art. 97 Cost e l. 400/1988 si ripropone anche per gli enti locali, ove si stabilisce che la legge statale
disciplina gli organi di governo e funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane; gli enti locali possono
solo andare a specificare le attribuzioni ma, al contempo, essi hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina
dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite, nonché potestà statuaria”.
In merito alla potestà statuaria, è tuttavia incerto il confine tra disciplina statuaria e disciplina dello svolgimento delle
funzioni e disciplina dello svolgimento delle attività: in linea di principio si ritiene che allo statuto spetta la fissazione delle
linee organizzative di base. I regolamenti locali hanno come compito l’organizzazione collegata all’esercizio di specifiche
funzioni, mentre la disciplina delle attività concerne il momento dinamico dello svolgimento del potere.
Accanto alle norme giuridiche di organizzazione devono poi essere ricordati gli atti di organizzazione non aventi carattere
normativo, quali atti di istituzione di enti, di organi o di uffici o costitutivi di consorzi.
Il potere di organizzazione (forse il più importante) è oggi disciplinato dagli artt. 2 e 5 d.lgs. 165/2001: l’art. 2 dispone "Le
amministrazioni pubbliche definiscono, secondo principi generali fissati da disposizioni di legge e, sulla base dei medesimi,
mediante atti organizzativi secondo i rispettivi ordinamenti, le linee fondamentali di organizzazione degli uffici” mentre
l’art. 5 dispone “Le amministrazioni pubbliche assumono ogni determinazione organizzativa al fine di assicurare
l’attuazione dei principi di cui all’articolo 2, comma 1, con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro”.
Per quanto attiene la riforma del pubblico impiego presso le amministrazioni pubbliche, viene esclusa dal d.lgs. 165/2001
(poi modificato dal d.lgs. 150/2009) l’area dell’organizzazione amministrativa degli uffici dalla contrattazione collettiva.
Per quanto attiene gli accordi organizzativi, la norma fondante tale potere in capo alle amministrazioni di stipula di questi
accordi è l’art. 15 della l. 241/1990 ma anche altre disposizioni speciali come, per esempio, l’art. 30 T.u. enti locali ove si
afferma che “le amministrazioni, mediante convenzioni, possono istituire strutture comuni, caratterizzate da una notevole
flessibilità e duttilità in ragione delle esigenze concrete che le amministrazioni intendono soddisfare”. Nell’ambito delle
organizzazioni pubbliche vanno oggi ricomprese anche le società legate all’ente da relazioni in house.
12.L’organo
Ci si domanda, per quanto attiene l’organizzazione, quali siano le situazioni giuridiche e i rapporti giuridici che fanno capo
all’organo. Nelle prime elaborazioni teoriche la personalità giuridica era ammessa solo in capo allo Stato, mentre in seguito
si riconobbero altre soggettività.
Una questione di particolare interesse riguarda il modus attraverso cui la persona giuridica pubblica è in grado di agire: a
riguardo, le soluzioni prospettabili erano 2:
1. ricorso all’istituto della rappresentanza, proprio del diritto privato: in questo caso gli effetti dell’attività del
rappresentante dell’organo si imputavano in capo al rappresentato
2. altra figura prospettabile era il ricorso alla teoria dell’organo: la persona giuridica agisce e l’azione svolta
dall’organo si considera posta in essere dall’ente. Tale modello evita la moltiplicazione dei rappresentanti dell’ente
e consente l’imputazione a questo non solo degli effetti ma anche dell’attività, pertanto l’organo non viene ad essere
separato dall’ente e la sua azione diventa direttamente attività propria dell’ente. Va precisato che la capacità
giuridica spetta comunque all’ente, che è centro di imputazioni di effetti e fattispecie (secondo alcuni, però, la
capacità di agire sarebbe invece direttamente riferibile all’ente).
L’organo viene dunque ad essere uno strumento di imputazione, ovvero l’elemento dell’ente che consente di riferire all’ente
stesso atti e attività e permette all’ente di rapportarsi con altri soggetti giuridici. A riguardo, si discute se l’organo rilevi ai
fini dell’imputazione dei fatti e di illeciti: in dottrina si sostiene che per questi aspetti non occorre la presenza di un organo
poiché l’ordinamento collega gli illeciti alle persone giuridiche in forza del meccanismo che prescinde dal ruolo dell’organo
e applicando le norme di cui agli artt. 2049 ss c.c.
L’organo viene identificato nella persona fisica o nel collegio in quanto è investito della competenza attribuita
dall’ordinamento: il contratto viene stipulato dal dirigente comunale ma si considera concluso dal comune, il
provvedimento viene adottato dal sindaco ma si considera adottato dal comune etc.
Posto che i poteri vengono attribuiti solo all’ente che ha soggettività giuridica e che si avvale di più organi, ogni organo,
anche se non ne è titolare, esercita una quota di quei poteri: esercita perciò una competenza. La competenza è ripartita
secondo svariati criteri: per materia, per valore, per grado, per territorio.
La competenza va tuttavia distinta dall’attribuzione che attiene alla sfera di poteri che l’ordinamento generale conferisce
ad ogni ente pubblico.
13.L'imputazione di fattispecie in capo agli enti da parte di soggetti estranei alla loro organizzazione
In alcuni casi il fenomeno di imputazione di fattispecie all’ente avviene secondo un meccanismo diverso: non si imputa la
fattispecie all’ente ma alla persona fisica o giuridica, che deve comunque sempre agire anche se è estraneo
all’organizzazione amministrativa a favore della quale l’imputazione si realizza: è il caso per esempio delle funzioni
certificative che spettano al notaio, alla possibilità di affidare a terzi la riscossione dei tributi, alla possibilità spettante ai
cittadini di procedere all’arresto in caso di flagranza di reato. Il privato può agire direttamente in base alla legge o in
forza di un atto della PA; riceverà un compenso dall’ente pubblico e l’attività si configura nei confronti dei terzi come
pubblicistica, alla stregua di quella che avrebbe posto in essere l’ente pubblico sostituito.
14.Classificazione degli organi
Circa gli organi sono state prospettate varie distinzioni. Sono esterni gli organi competenti a emanare provvedimenti o atti
che hanno rilevanza esterna (es. dirigenti); gli organi procedimentali (o interni) sono quelli competenti a emanare atti
formali che hanno rilevanza endoprocedimentale.
Organi centrali sono quelli che estendono la propria competenza all’intero spettro dell’attività dell’ente; gli organi
periferici, viceversa, sono quelli che hanno competenza limitata ad un particolare ambito di attività.
Gli organi ordinari sono previsti nel normale disegno organizzativo dell’ente; gli organi straordinari invece operano in
sostituzione degli organi ordinari.
Gli organi permanenti sono stabili; gli organi temporanei svolgono funzioni solo per un limitato periodo di tempo.
Gli organi attivi sono competenti a formare ed eseguire la volontà dell’amministrazione in vista del conseguimento dei fini
prefissati; gli organi consultivi rendono pareri; gli organi di controllo sindacano l’attività posta in essere dagli organi
attivi. La distinzione rispecchia quella tra attività amministrativa attiva (che ha la finalità di curare interessi pubblici),
attività consultiva (mediante la quale vengono espressi pareri) e attività di controllo (la cui finalità è quella di verificare
l’attività amministrativa attiva alla luce di un parametro prefissato).
Gli organi rappresentativi (es. sindaco) sono quelli i cui componenti, a differenza degli organi non rappresentativi (es.
prefetto), vengono designati o eletti dalla collettività che costituisce l’ente.
Vi sono poi gli organi con legale rappresentanza che esprimono la volontà dell’ente nei rapporti contrattuali con terzi. La
personalità giuridica spetta solo all’ente; tuttavia, per espressa volontà di legge, anche alcuni organi sono dotati di
personalità giuridica, profilandosi come titolari di poteri e strumenti di imputazione di fattispecie ad altro ente.
Sono organi monocratici quelli in cui titolare dell’organo è una sola persona fisica. Negli organi collegiali si ha
contitolarità del potere tra più persone fisiche considerate nel loro insieme. L’esercizio delle competenze dell’organo
collegiale avviene mediante deliberazione, la quale è soggetta ad un procedimento strutturato in più fasi: vi è una prima fase
di convocazione del collegio, seconda fase dove si presentano i progetti all’ordine del giorno, terza fase dove si discute e la
quarta fase dove si vota. Affinché la votazione sia valida, deve raggiungersi il quorum; quest’ultimo può essere: strutturale
(deve esserci un numero minimo di componenti affinché il collegio sia validamente costituito) e funzionale (indica il
numero dei membri che devono esprimersi favorevolmente sulla proposta affinché venga deliberata). Nei collegi perfetti
non è ammessa astensione mentre negli altri tipi di collegio l’astenuto viene considerato o come assente o, spesso accade
ciò, come votante e in questo caso il voto di astensione non riduce il computo dei votanti in ragione del quale va calcolato il
quorum funzionale. La deliberazione si perfeziona con la proclamazione del presidente. Delle sedute viene redatto verbale
che fa piena prova fino a querela di falso.
15.Relazioni interorganiche. I modelli teorici: la gerarchia, la direzione e il coordinamento
Tra gli organi di una persona giuridica pubblica possono instaurarsi relazioni disciplinate dal diritto, le quali hanno carattere
di stabilità e riflettono la posizione reciproca di essi nell’ambito dell’amministrazione.
La gerarchia esprime la relazione di sovraordinazione-subordinazione tra organi diversi. Tale modello si è sviluppato
nell’ambito dell’amministrazione militare ed ha caratterizzato a lungo l’amministrazione pubblica. L’organo subordinato
non dispone di una propria esclusiva sfera di competenza e l’organo superiore ha una competenza che comprende anche
quella dell’organo inferiore. I poteri che caratterizzano la gerarchia sono:
a) potere di ordine (che consente di vincolare l’organo inferiore ad un certo comportamento nello svolgimento
dell’attività), potere di direttiva (mediante il quale si indicano fini e obiettivi da raggiungere lasciando un certo
margine di scelta all’organo inferiore), potere di sorveglianza sull’organo inferiore;
b) potere di decidere i ricorsi gerarchici proposti avverso gli atti dell’organo subordinato;
c) potere di risolvere i conflitti che insorgono tra organi inferiori
d) poteri in capo all’organo superiore di avocazione (per singoli affari, per motivi di interesse pubblico) e sostituzione
(nel caso di inerzia dell’organo inferiore).
e) potere di rimostranza che spetta al dipendente dell’organo inferiore che ritenga un ordine palesemente illegittimo.
Se l’ordine viene comunque rinnovato è obbligatorio eseguirlo.
La direzione è caratterizzata dal fatto che, pur essendoci due organi posti in posizione di disuguaglianza, sussiste una più o
meno ampia sfera di autonomia in capo a quello subordinato. L’organo sovraordinato ha il potere di indicare gli scopi da
perseguire ma deve lasciare all’organo inferiore la facoltà di scegliere modalità e tempi dell’azione volta a conseguire gli
scopi prefissati. Tale potere si manifesta anche nella possibilità di emanare direttive e nel potere di controllare l’attività
amministrativa in considerazione degli obiettivi da conseguire. L’organo inferiore, però, non è totalmente vincolato al
contenuto della direttiva: secondo una parte della dottrina, infatti, l’organo inferiore può, dietro motivazione, disattendere la
direttiva dell’organo superiore.
Quella del coordinamento è una relazione interorganica che si riferisce ad ogni situazione di equiordinazione tra organi che
sono preposti ad attività che sono destinate ad essere ordinate secondo un disegno unitario. A riguardo il coordinatore ha il
potere di impartire disposizioni idonee al raggiungimento dello scopo e vigilare sulla sua attuazione e osservanza. Il
coordinamento si può configurare come il risultato dell’esercizio di poteri che attengono ad altre relazioni ed acquisisce
autonoma rilevanza nelle relazioni di vera equiordinazione, allorché sia necessario attribuire a un organo di coordinamento
poteri di contatto, informazione e armonizzazione dell’azione di più soggetti che operano sullo stesso piano. Inoltre
l’esigenza di coordinamento tra l’azione di più soggetti pubblici è soddisfatta attraverso l’utilizzo della conferenza di
servizi, in grado di comportare una deroga al regime ordinario delle competenze.
15.1. Segue: Il controllo
Un’ultima importante relazione interorganica è costituita dal controllo che, nel linguaggio comune, indica un’attività di
verifica, esame e revisione dell’operato altrui, mentre, nel diritto amministrativo, costituisce un’autonoma funzione svolta
da organi particolari.
Il controllo consiste in un esame, in genere svolto da un organo ad hoc, di atti e attività imputabili a un altro organo
controllato. Tale attività, svolta nel rispetto delle disposizioni di legge, si conclude con la formulazione di un giudizio
(positivo o negativo) sulla base del quale viene adottata la relativa misura.
Si distingue tra controlli interni o esterni, a seconda che essi siano esercitati da organi dell'ente o da organi di enti diversi.
Di norma, è ad esempio interno il controllo ispettivo, anche se esso può configurarsi come momento di un altro
procedimento di controllo esterno.
Il controllo sugli organi degli enti territoriali è riservato allo Stato in quanto espressione di un potere politico di sovranità
che non può non rimanere di pertinenza dello Stato. Il controllo può essere condotto alla luce di criteri di volta in volta
differenti – conformità alle norme (controllo di vigilanza), opportunità (tutela), efficacia, efficienza e così via – e avere
oggetti assai diversi tra di loro: organi, atti normativi, atti amministrativi di organi individuali e collegiali. Particolarmente
importante è il controllo sull’attività volto a verificare il raggiungimento di risultati (gestione).
Le misure che possono essere adottate a seguito del giudizio possono essere: a) repressive (annullamento dell’atto); b)
impeditive (ostano a che l’atto produca i suoi effetti); c) sostitutive (è il c.d. controllo sostitutivo: è l’organo sostituto ad
esercitare quell’atto che invece avrebbe dovuto esercitare l’organo sostituito).
Nell’ambito dei controlli sugli atti si deve distinguere tra controllo preventivo (prima che si producano gli effetti dell’atto)
e controllo successivo (quando l’atto ha già prodotto i suoi effetti). In una via di mezzo tra controlli preventivi e successivi
si collocano i controlli mediante riesame che procrastinano l'efficacia dell'atto all'esito di una nuova deliberazione
dell'autorità decidente.
Nell’ambito della riforma costituzionale avvenuta con l. 3/2001 non vengono elencati i controlli che lo Stato può esercitare:
tuttavia viene fatta menzione del sistema contabile dello Stato e dell’ordinamento e organizzazione amministrativa dello
Stato e degli enti pubblici nazionali, i quali possono essere oggetto di controllo statale.
Alla luce di questa premessa, analizziamo ora i principali controlli statali.
15.2.In particolare: il controllo di ragioneria nell’amministrazione statale e il controllo della Corte dei Conti.
Il cd. controllo di ragioneria investe tutti gli atti dai quali derivino effetti finanziari e ha la caratteristica di condizionare
il sorgere dell’obbligazione finanziaria. Il quadro giuridico di riferimento è costituito dal d.lgs. 123/2011 che disciplina il
controllo di regolarità amministrativa e contabile su tutti gli atti statali di spesa. Tale controllo viene svolto dal sistema delle
ragionerie: dagli uffici centrali del bilancio operanti presso le amministrazioni centrali e, in periferia, dalle ragionerie
territoriali dello Stato. Il controllo può essere svolto in via preventiva o successiva: per quanto attiene quello preventivo,
gli atti di spesa sono inviati all’ufficio di controllo che effettua la registrazione contabile delle somme relative agli atti di
spesa, rendendo indisponibili ad altri fini le somme ad essa riferite fino al momento del pagamento.
Accanto al profilo contabile, vi è quello del controllo di legittimità che incide sull’efficacia dell’atto: entro 30 gg dal
ricevimento, l’ufficio provvede all’apposizione del visto di regolarità amministrativa e contabile. Trascorso il termine senza
che l'ufficio di controllo abbia formulato osservazioni o richiesto ulteriori documentazioni, l'atto è efficace e viene restituito
munito di visto.
Controllo successivo esterno e costituzionalmente garantito è quello esercitato dalla Corte dei Conti che avviene attraverso
il meccanismo della registrazione e dell’apposizione del vito. A differenza dei controlli interni interorganici, quello esterno
della Corte non costituisce esercizio di funzione amministrativa, sicché i relativi atti non sono impugnabili.
Il controllo della corte dei conti, con la l. 20/1994, è stato limitato: oggi essa controlla i provvedimenti emanati a seguito di
deliberazione del consiglio dei ministri e gli atti normativi. Tra i vari compiti ha il compito di identificare alcune categorie
di atti assoggettate a controllo, pur se con carattere temporaneo; può chiedere, nell’esercizio del potere di controllo,
qualsiasi atto o notizia all’amministrazione, nonché predisporre ispezioni. Nel quadro dei controlli che spettano alla Corte
dei conti vi rientrano:
a) controllo preventivo di legittimità;
b) controllo preventivo sugli atti che il presidente del Consiglio richieda di sottoporre temporaneamente a controllo o
che la Corte stessa deliberi di assoggettare per un determinato periodo a controllo, in relazione a situazioni di
diffusa e ripetuta irregolarità rilevate in sede di controllo successivo;
c) controllo successivo su alcuni atti, come per esempio i titoli di spesa relativi al costo del personale;
d) controllo successivo sugli atti di notevole rilievo finanziario individuati per categorie e amministrazioni statali;
e) controllo sulla gestione finanziaria degli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria;
f) controllo successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio delle amministrazioni pubbliche nonché sulle
gestioni fuori bilancio e sui fondi di provenienza comunitaria
g) controlli esterni e sulle gestioni finanziarie degli enti territoriali con i quali la Corte verifica in particolare il
rispetto degli equilibri di bilancio in relazione al patto di stabilità interno nonché il perseguimento degli obiettivi
posti dalle leggi statali o regionali di principio o programma, nonché della sana gestione finanziaria degli enti locali
e il funzionamento dei controlli interni. Alla luce degli importanti compiti che le sono affidati, la Corte dei conti
viene ad essere soggetto garante degli equilibri di finanza pubblica. Per svolgere al meglio questo compito, sono
ulteriormente aumentati i controlli che la Corte è tenuta ad effettuare, in specie sugli enti periferici.
1) Per quanto attiene alle regioni, in primo luogo, è stato introdotto il c.d. referto periodico: ogni 6 mesi le
sezioni regionali di controllo trasmettono ai consigli regionali una relazione sulla tipologia di coperture
finanziarie adottate nelle leggi regionali approvate nel 2° semestre precedente e sulle tecniche di
quantificazione degli oneri.
2) Sono stati inoltre rafforzati i controlli finanziari: le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti
esaminano i bilanci preventivi e i rendiconti consuntivi delle regioni e degli enti che compongono il
servizio sanitario nazionale. Il controllo è finalizzato alla verifica dell'osservanza del vincolo previsto in
materia di indebitamento, della sostenibilità dell'indebitamento e dell'assenza di irregolarità suscettibile di
pregiudicare gli equilibri economico-finanziari degli enti. Sono state inoltre previste delle misure, che
possono essere attuate qualora le sezioni regionali accertino comportamenti difformi dalla sana gestione
finanziaria o nel caso di mancato rispetto degli obiettivi contenuti nel patto di stabilità: in questo caso, nel
caso di riscontro di violazioni, l’amministrazione ha obbligo di adottare, entro 60 gg dalla pronuncia di
accertamento, tutti quei provvedimenti idonei a eliminare le irregolarità e a ripristinare gli equilibri di
bilancio. Nel caso in cui la regione non provveda o la verifica dei provvedimenti adottati non dia esito
positivo, viene preclusa alla regione l’attuazione dei programmi di spesa per i quali è stata accertata la
mancata copertura o la non sostenibilità finanziaria. Tale disciplina è stata, con sent. 39/2014, dichiarata
parzialmente incostituzionale nella parte in cui si riferisce al controllo dei bilanci preventivi e dei rendiconti
consuntivi delle regioni.
3) Analoga disciplina viene prevista anche per gli enti locali che non rispettino il patto di stabilità.
4) È stato poi introdotto il giudizio di parifica del rendiconto generale per le regioni da parte delle sezioni
regionali.
5) Il presidente della regione è obbligato a trasmette ogni anno alla sezione regionale di controllo della Corte
dei conti una relazione sulla regolarità della gestione e sull’efficacia e sull’adeguatezza del sistema dei
controlli interni.
6) Inoltre è stato previsto che le regioni sono tenute a redigere una relazione di fine legislatura, sottoscritta dal
presidente della giunta regionale, entro 90 gg dalla data di scadenza della legislatura: tale relazione va
trasmessa, entro 10 gg da quando viene sottoscritta, alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti
che, entro 30 gg dalla ricezione, deve esprimere le sue valutazioni al presidente della giunta.
7) In modo parzialmente analogo, per quanto attiene agli enti locali, la disciplina prevede un articolato
meccanismo di controllo esterno, attivato sulla base di referti trasmessi semestralmente dagli enti di
dimensioni più rilevanti. Esso si salda con il meccanismo dei controlli interni e si caratterizza per il fatto
che può sfociare in una fase giurisdizionale. In caso di rilevata assenza o inadeguatezza degli strumenti di
controllo interno, le sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei Conti irrogano agli amministratori
responsabili la condanna ad una sanzione pecuniaria.
8) A garanzia del corretto uso delle risorse pubbliche trasferite ai gruppi consiliari regionali, si prevede che
ciascun gruppo approvi un rendiconto di esercizio annuale che evidenzia le risorse trasferite al gruppo dal
consiglio regionale, con indicazione del titolo del trasferimento, nonché delle misure adottate per consentire
la tracciabilità dei pagamenti effettuati.
9) Un importante ruolo della Corte è riconosciuto per quanto attiene all'accertamento della situazione di
dissesto degli enti locali.
10) Un altro strumento molto incisivo, che coinvolge anche la Corte, è quello previsto dalla l. 149/2011 ed è
legato al fatto che le regioni sono tenute a redigere una relazione di fine legislatura, sottoscritta dal
Presidente della giunta regionale, non oltre il novantesimo giorno antecedente la data di scadenza della
legislatura.
La l. cost. 1/2012 prevede l’istituzione presso le Camere di un organismo indipendente al quale vanno attribuiti compiti di
analisi e verifica degli andamenti di finanzia pubblica e di valutazione dell’osservanza delle regole di bilancio.
Svolgiamo ora alcune osservazioni relative alla disciplina del controllo preventivo, risultante dalla combinazione della l.
20/1994 e del t.u. corte conti. I provvedimenti soggetti a controllo preventivo divengono efficaci nelle ipotesi in cui il
componente ufficio di controllo non abbia rimesso l'esame dell'atto alla sezione di controllo entro 10 giorni dal ricevimento
dell'atto, ovvero ancora se la sezione di controllo non abbia dichiarato l'illegittimità dell'atto entro 10 giorni dalla data di
deferimento del provvedimento.
Ai sensi dell'art. 27 l. 340/2000, l'atto trasmesso alla Corte dei Conti diviene in ogni caso esecutivo trascorsi 60 giorni dalla
sua ricezione senza che sia intervenuta una pronuncia della sezione di controllo. L'esecutività non si realizza, tuttavia, ove
la Corte abbia sollevato questione di legittimità costituzionale per violazione dell'art 81 Cost. o abbia sollevato, in relazione
all'atto, conflitto di attribuzione. A fronte della ricusazione del visto, il Consiglio dei Ministri può adottare una
deliberazione con cui insiste nella richiesta della registrazione: la corte è chiamata a deliberare a sezioni riunite e ove non
riconosca cessata la causa del rifiuto, ne ordina la registrazione e vi appone il visto con riserva.
Per quanto attiene l'esito negativo del controllo in via preventiva, in precedenza si affermava trattarsi di un mero fatto
impeditivo dell'efficacia del provvedimento, mentre oggi è da ritenersi che il rifiuto debba essere esternato atteso che
silenzio equivarrebbe ad assenso e a controllo positivo.
In ordine agli atti assoggettati al controllo successivo della Corte dei conti, i cui poteri sono in tal caso privi di effetti
imperativi nei confronti dell’efficacia dell'atto, si discute in dottrina e in giurisprudenza circa le conseguenze dell'esito
negativo del controllo: secondo un orientamento si avrebbe un implicito annullamento dell'atto controllato, mentre secondo
un'altra tesi vi sarebbe l'obbligo per l'amministrazione di prendere atto della pronuncia di illegittimità e dunque di non dare
corso all'esecuzione dell'atto o di annullarlo.
15.3.L’evoluzione normativa in tema di controlli. Dai controlli interni alla valutazione del personale e delle strutture
La prevalenza dei controlli preventivi di legittimità sui singoli atti ha impedito, a lungo, di valutare l’attività amm.va nel
suo complesso, trascurando la verifica della convenienza e proficuità dell’attività amm.va e relativa spesa.
Solo con il d.lgs. 286/1999 si sono introdotte 4 tipologie di controlli interni: controllo di regolarità amministrativa e
contabile, controllo di gestione, controllo di valutazione della dirigenza e controllo strategico.
Il controllo sulla dirigenza è stato abrogato con il d.lgs. 150/2009 (c.d. riforma Brunetta).
Il controllo strategico viene richiamato dalla disciplina del d.lgs. 150/2009 e viene effettuato da un apposito organismo
indipendente di valutazione che mira a valutare l’adeguatezza delle scelte compiute in sede di attuazione dei piani,
programmi e altri strumenti di determinazione dell’indirizzo politico, in termini di congruenza tra risultanti conseguiti e
obiettivi predefiniti.
Il controllo di regolarità è stato valorizzato dal d.lgs. 123/2011 ed è volto a garantire la legittimità, regolarità e correttezza
dell’azione amministrativa.
Il controllo di gestione rimane disciplinato dal d.lgs. 286/1999 ma resta il dubbio se esso debba restare affidato ai servizi di
controllo interno. In ogni caso tale controllo mira a verificare l’efficacia, efficienza ed economicità dell’azione
amministrativa al fine di ottimizzare, anche mediante tempestivi interventi di correzione, il rapporto tra costi e risultanti.
Con la l. 114/2014 viene previsto un meccanismo di controlli interni con riflessi esterni: viene infatti prevista la
sottoposizione di tutte le strutture e di tutti i dipendenti ad apposita valutazione, venendo così a determinare
un’amministrazione che è più orientata ad autocontrollarsi piuttosto che ad agire.
16.I rapporti tra gli organi e l’utilizzo, da parte di un ente, degli organi di un altro ente
Talvolta, tra organi tra loro diversi possono instaurarsi dei rapporti che prescindono dal carattere di stabilità che connota la
maggior parte delle relazioni tra organi. A riguardo, nel diritto amministrativo esistono diverse figure di rapporti:
• Avocazione -> un organo esercita i compiti che spettano ad un altro organo in ordine a singoli affari;
• Sostituzione -> ha come presupposto l’inerzia dell’organo sostituito nell’emanazione di un atto cui è tenuto per
legge. Il sostituto viene dunque ad essere un commissario. In merito alla sostituzione, da questa deve essere tenuta
distinta la figura della gestione sostitutiva coattiva che è caratterizzata dallo scioglimento dell’organo o degli
organi dell’ente e dalla nomina di altri soggetti quali organi straordinari che devono gestire l’ente per un certo
periodo di tempo.
• Delegazione -> un organo, investito in via primaria della competenza in una certa materia, consente
unilateralmente, mediante atto formale, ad altro organo di esercitare la stessa competenza. Tale figura richiede
un’espressa previsione legislativa affinché un altro organo possa svolgere le funzioni che spetterebbero ad altro
organo. Il delegante mantiene in ogni caso i poteri di direttiva, vigilanza, revisione e avocazione. L’organo
delegatario è investito del potere di agire in nome proprio anche se per conto e nell’interesse del delegante. Da tale
figura va tenuta distinta la c.d. delega di firma: questa non comporta alcuno spostamento di competenza. L’atto
sarà dunque imputato al delegante mentre il delegato ha solo il compito di sottoscrivere l’atto.
17.Gli uffici e il rapporto di servizio
All’interno degli enti e accanto agli organi si trovano gli uffici, nuclei elementari dell’organizzazione che svolgono (a
differenza degli organi) attività non caratterizzata dal meccanismo di imputazione delle fattispecie. Essi sono costituiti da
un insieme di mezzi materiali e personali e sono tenuti a svolgere uno specifico compito che, in coordinamento con quello
degli altri uffici, concorre al raggiungimento di un certo obiettivo. Tra gli uffici va ricordato l’ufficio relazioni con il
pubblico (urp) che ha il compito di curare l’informazione dell’utenza e garantire i diritti di partecipazione dei cittadini.
Tra gli addetti all’ufficio, figura importante è quella del preposto: costui è il titolare dell’ufficio. Nel caso in cui fosse
assente, il suo posto viene preso dal supplente. Nel caso in cui invece mancasse un titolare dell’ufficio, si ha reggenza.
Gli addetti e i titolari che prestano servizio presso l’ente sono legati a questo dal rapporto di servizio, che ha come
contenuto quello di dovere agire prestando una certa attività (il c.d. dovere di ufficio). Questo ha come oggetto
comportamenti che il dipendente deve tenere sia nei confronti della PA sia nei confronti dei cittadini e, soprattutto, il
dipendente è tenuto al rispetto del codice di comportamento: un’eventuale violazione comporta responsabilità
disciplinare.
Il codice di comportamento viene approvato dal governo e sottoscritto dal dipendente che viene assunto. Esso prevede il
divieto, per i dipendenti pubblici, di accettare regali, compensi o altre utilità in connessione con l’espletamento di funzioni.
È inoltre lo stesso ordinamento a richiedere ad alcuni dipendenti l’adempimento di doveri più gravosi rispetto a quelli in
capo ai cittadini: si veda l’art. 54 Cost. ove si dispone che “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla repubblica e
di osservarne la Costituzione”. Ai dipendenti pubblici è però anche richiesto il dovere di adempiere alle funzioni con
disciplina e onore: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”.
Il rapporto di servizio di impiego, che lega il dipendente all’amministrazione, prevede che i dipendenti svolgano il proprio
lavoro a titolo professionale, in modo esclusivo e permanente. Il contenuto di questo rapporto varia a seconda che il
soggetto sia funzionario onorario o pubblico impiegato: nel primo caso il contenuto ha carattere temporaneo e vi è diritto al
trattamento economico a titolo di indennità ma non vi è diritto alla carriera. Nel secondo caso vi è anche diritto alla carriera.
Il rapporto di servizio viene a distinguersi in modo netto dal rapporto organico: quest’ultimo, infatti, intercorre solo tra il
titolare dell’organo e l’ente e viene in evidenza ai fini dell’imputazione delle fattispecie. Tale rapporto, a volte, può
costituirsi anche in assenza di un apposito atto di investitura, venendo a costituirsi in via di mero fatto: in questo caso
l’organo di fatto viene definito funzionario di fatto.
Comunque sia instaurato, una volta instauratosi, il rapporto di servizio a titolo professionale è caratterizzato da vicende (per
esempio congedi, aspettative) e può estinguersi. Tutte le vicende sono comunque disciplinate dalla normativa che ha ad
oggetto il rapporto di dipendenza presso le amministrazioni pubbliche.
Tuttavia, l’esigenza di continuità dell’esercizio della funzione pubblica è presente in una serie di istituti: funzionario di
fatto, reggenza, sostituzione, supplenza e prorogatio. Per quanto concerne quest’ultima, la l. 444/1994 ha previsto il
divieto di prorogatio, stabilendo che gli organi sono prorogati di 45 gg, decorrenti dalla scadenza del termine di durata
previsto per ciascuno. Scaduto il temine senza che si sia provveduto alla loro ricostituzione, gli organi amministrativi
decadono e gli atti adottati dagli organi decaduti sono nulli.
18.La disciplina attuale del rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche
La disciplina del rapporto pubblico di lavoro ha visto succedersi, nel tempo, diverse ed importanti riforme. Importante è
quella relativa alla c.d. privatizzazione del rapporto di impiego presso le amministrazioni, avvenuta con d.lgs. 29/1993,
con la quale si voleva accentuare il ruolo della contrattazione collettiva e individuale, avvicinandosi al mondo del lavoro
privato. Poiché la sottoposizione di un settore alla disciplina contrattuale comporta la soggezione al diritto privato, si è
parlato di privatizzazione. Il contenuto del decreto del 1993 poi è stato rinnovato nel 1998, quando si è manifestata
un'attenzione specifica alle esigenze della managerialità e la volontà di ridurre il peso del centralismo regolativo. Queste
due riforme sono poi confluite nel d.lgs. 165/2001.
Il contesto normativo è stato nuovamente oggetto di riforma nel 2009: il d.lgs. 150/2009 aveva come obiettivo il controllo
del merito e delle performance dei lavoratori pubblici. Con questa riforma si è cercato di ridefinire il ruolo del dirigente,
anche in qualità di datore di lavoro, si è cercato di limitare il ruolo del sindacato nella centralizzazione della contrattazione
collettiva e si è cercato di limitare l’area di incidenza della contrattazione stessa.
In questo contesto si è inserita un’ulteriore riforma, avviata dalla l. 124/2015 (cd. legge Madia) che conteneva alcune
deleghe relative al tema della dirigenza sanitaria e del licenziamento disciplinare. Con i d.lgs. 75/2017 e 74/2017 sono state,
in particolare, introdotte modifiche e integrazioni ai d.lgs. 165/2001 e 150/2009. Quest'ultima stagione di riforme appare
sotto alcuni aspetti in controtendenza rispetto alle modifiche del 2009, riducendo lo spazio della legge e la rigidità di taluni
meccanismi.
Di rilievo è il tema della standardizzazione dell’azione. Occorre fin d’ora notare che, per un verso, il rispetto degli standard
e degli obiettivi ad essi legati è oggetto della valutazione delle performance; per altro verso, la colpevole violazione del
dovere dirigenziale di vigilanza sul rispetto degli standard quantitativi e qualitativi fissati dalla PA apre la via alla
decurtazione della retribuzione di risultato del dirigente; infine, la violazione degli standard è uno dei presupposti per
potere esercitare l’azione per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici.
A seguito della riforma del Titolo V della parte II Cost., parrebbe cresciuto lo spazio per il legislatore regionale: la sent.
274/2003 della Corte Cost. ha sottolineato che la materia dello stato giuridico ed economico del personale regionale sarebbe
riconducibile alla legislazione piena o esclusiva delle regioni. La Corte Cost. (sent. 380/2004) ha poi introdotto l'importante
principio secondo cui la regolamentazione delle modalità di accesso al lavoro pubblico regionale è preclusa allo Stato e
spetta alla competenza residuale delle regioni. Profili di interferenza con la competenza statale possono essere individuati
con riferimento alla materia del coordinamento della finanza pubblica. La sent. 189/2008 della Corte Cost. ha statuito che i
principi fissati dalla legge statale costituiscono tipici limiti di diritto privato.
L’art. 74 d.lgs. 150/2009 individua norme che sono espressione di potestà legislativa statale e che sono diretta attuazione
dell’art. 97 Cost., principi fondamentali: sono tali le norme relative alla misurazione, valutazione e incentivazione delle
performance, meccanismi premiali, progressioni verticali di carriera, assegnazione di incarichi e responsabilità.
Ciò chiarito, analizziamo i principali aspetti della disciplina del lavoro presso le amministrazioni:
a) i rapporti di lavoro sono disciplinati dalle disposizioni del codice civile, “fatte salve diverse disposizioni contenute
nel presente decreto, che costituiscono disposizioni a carattere imperativo” (art. 2.2 d.lgs. 165/2001), e dalla
contrattazione sia sul piano individuale sia su quello collettivo. È questo il significato dell’originaria
privatizzazione. L'unica eccezione all’assoggettabilità alla disciplina contrattuale riguardava e continua a
riguardare le categorie indicate all'art 3 (es. magistrati e avvocati dello Stato o professori universitari). Eventuali
disposizioni di legge, regolamento o statuto che introducono una disciplina dei rapporti di lavoro la cui applicabilità
sia limitata ai dipendenti delle PA possono essere derogate (ma solo nelle materie affidate alla contrattazione
collettiva e nel rispetto dei principi stabiliti dal decreto) da successivi contratti o accordi collettivi solo qualora ciò
sia espressamente previsto dalla legge. Viene inoltre disposto che le disposizioni contrattuali nulle per violazione di
norme imperative o per superamento dei limiti stabiliti dalla contrattazione sono sostituite di diritto da quelle
legislative ai sensi dell’art. 1339 cc. Quanto alle aree riservate alla contrattazione, l'art 40 prescrive che nelle
materie relative alle sanzioni disciplinari, alla valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del
trattamento accessorio, la contrattazione collettiva non è totalmente esclusa ma è consentita nei limiti previsti dalle
norme di legge. Il d.lgs. 165/2001 comunque intende “preservare alcune materie dalla contrattazione”,
stabilendo che sono escluse quelle attinenti all'organizzazione degli uffici, quelle oggetto di partecipazione
sindacale, quelle afferenti alle prerogative dirigenziali. Tali settori, dunque, rimangono rimessi alla disciplina
unilaterale.
b) la contrattazione collettiva si svolge a vari livelli (nazionale e integrativa: viene previsto un meccanismo per
controllare la spesa e assicurare la trasparenza). La struttura contrattuale, i rapporti tra i diversi livelli, la durata di
quelli di primo e secondo livello sono regolati dai contratti nazionali, che vincolano poi la contrattazione
integrativa. Nella contrattazione collettiva nazionale, la parte pubblica è rappresentata dall’agenzia ARAN, che
agisce in forza di indirizzi fissati a monte della trattativa da appositi comitati di settore o dal governo. La trattativa
prende avvio dopo che la legge individua l’ammontare delle risorse destinate al rinnovo. Quando si giunge ad
un’ipotesi di accordo, questa viene inviata al governo e ai comitati di settore per ricevere il parere. Dopodiché
l’Aran trasmette la bozza di accordo alla Corte dei conti per ottenere la certificazione di compatibilità con gli
strumenti di programmazione e bilancio. Il contratto che viene poi sottoscritto ha efficacia erga omnes.
c) compito specifico della contrattazione collettiva nazionale è quello di disciplinare i rapporti di lavoro e le relazioni
sindacali. In particolare, essa si occupa di definire il trattamento economico, nonché disciplinare le modalità di
utilizzo delle risorse destinate a premiare il merito e a migliorare le performance.
d) il d.lgs. 150/2009 fissa alcune regole che sono invalicabili anche per la contrattazione per quanto attiene la materia
del trattamento economico accessorio. Una quota del trattamento accessorio deve essere destinato al trattamento
economico collegato alla performance individuale. Spetta poi alla contrattazione integrativa assicurare adeguati
livelli di efficienza e produttività dei servizi pubblici, incentivando l’impegno e la qualità delle performance,
allocando risorse. I premi, in generale, non sono più assegnati a pioggia e la distribuzione avviene soltanto a seguito
di procedure di valutazione che analizzeremo tra poco.
e) per quanto riguarda le determinazioni organizzative attinenti agli uffici e le misure inerenti alla gestione dei
rapporti di lavoro, queste sono assunte dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato
datore di lavoro. Da un lato, parlando di capacità e di poteri del datore di lavoro privato, si conferma
l'avvicinamento al mondo del lavoro privato; dall'altro si evince che il datore di lavoro pubblico è peculiare in
quanto a due componenti, una politica e l'altra manageriale. In ogni caso, riemerge la preoccupazione di arginare
l’invasività della contrattazione collettiva. Rientrano, infatti, nell'esercizio esclusivo dei poteri dirigenziali le
misure inerenti la gestione delle risorse umane nel rispetto del principio di pari opportunità, nonché la direzione e
l'organizzazione del lavoro nell'ambito degli uffici. Altri rilevanti poteri del dirigente-datore di lavoro sono relativi
ai profili delle sanzioni, delle valutazioni e dei controlli.
f) restano invece assoggettati alla disciplina pubblicistica gli organi, uffici, i principi fondamentali
dell’organizzazione, i procedimenti di selezione per l’accesso al lavoro e quelli di avviamento, i ruoli, le
incompatibilità, le responsabilità, a eccezione delle sanzioni e degli illeciti disciplinari e la determinazione dei
fabbisogni, di competenza dell’organo di vertice dell’amministrazione. Il d.lgs. 39/2013 disciplina dettagliatamente
i casi di inconferibilità e incompatibilità degli incarichi presso le PA. L’inconferibilità attiene alla preclusione a
conferire incarichi a coloro che abbiano riportato condanne, anche con sentenza non passata in giudicato, per uno
dei reati previsti dal capo I del titolo II del libro II del c.p., o che nei due anni precedenti abbiano svolto particolari
incarichi. L’incompatibilità invece comporta l'obbligo di scegliere, entro 15 giorni tra la permanenza nell'incarico
e l'assunzione e lo svolgimento di incarichi e cariche, lo svolgimento di attività professionali o l'assunzione della
carica di componente di organi di indirizzo politico. La dotazione organica indica il numero complessivo dei
dipendenti e loro inquadramento. La consistenza della dotazione organica va determinata sulla base della
programmazione del fabbisogno del personale effettuata con scadenza triennale. Il d.l. 95/2012 in materia di
spending review ha disposto che gli uffici e le dotazioni organiche delle amministrazioni dello Stato sono ridotti in
misura consistente.
g) il reclutamento del personale avviene mediante concorso pubblico: viene pubblicato un bando che si conclude
con la formulazione di una graduatoria cui segue la stipula del contratto individuale. Prima di procedere a nuove
assunzioni occorre esperire le procedure di mobilità ai sensi dell'art 32 bis d.lgs. 165/2001. È altresì prevista la
facoltà di limitare nel bando il numero degli eventuali idonei in misura non superiore al 20% dei posti messi a
concorso e di richiedere il possesso del titolo di dottore di ricerca. È pure previsto il reclutamento mediante
avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento per le qualifiche e i profili per i quali è richiesto il solo requisito
della scuola dell'obbligo. Un'eccezione ulteriore riguarda la quota d'obbligo riservata alle categorie di disabili nel
caso in cui vi siano più di 15 dipendenti con chiamata numerica degli iscritti nelle liste di collocamento. Nel
rispetto di una serie di limiti e vincoli, le amministrazioni possono bandire concorsi riservati a dipendenti interni.
Ampio spazio è lasciato a linee guida emanate dal Dipartimento della funzione pubblica a cui spetta definire
indirizzi sullo svolgimento delle prove e sulla valutazione dei titoli. Quanto al tipo di contratto, l’art. 36 d.lgs.
165/2001 prevede che contratti a tempo determinato e forme contrattuali flessibili siano utilizzabili solo nei limiti e
con le modalità in cui se ne preveda l’applicazione al settore pubblico. La regola in ogni caso è il contratto a
tempo indeterminato. L’art. 52 dispone poi che i dipendenti pubblici, con esclusione dei dirigenti e del personale
docente della scuola, delle accademie, sono inquadrati in almeno tre distinte aree funzionali che raggruppano più
profili professionali. All'interno delle aree poi vi è una suddivisione in fasce, differenziate sotto il profilo
economico. La norma in questione stabilisce che il dipendente deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato
assunto o a mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento (tuttavia, l’art. 34 disciplina le procedure
di riallocazione nell’ambito dei posti vacanti in organico, anche in una qualifica inferiore ed economicamente
inferiore). Accanto al profilo dell’acceso vi è quello della progressione di carriera, sia all’interno della stessa area
(orizzontale), sia tra aree (verticale). L’art. 52 d.lgs. 165/2001 dispone che le progressioni orizzontali all’interno
della stessa area avvengono secondo principi di selettività, in funzione delle qualità culturali e professionali, delle
attività svolta e dei risultati conseguiti. Le progressioni verticali fra aree diverse, invece, avvengono tramite
concorso pubblico per titoli di studio: a riguardo, l’amministrazione può prevedere che il 50% (al massimo) dei
posti oggetto di concorso sia posto a riserva per quel personale interno che è in possesso del titolo di studio
richiesto nel bando.
h) tutti i dipendenti pubblici sono sottoposti a valutazione. Si prevede che tale valutazione non riguarda solo gli
individui ma anche l’organizzazione nel suo complesso, le unità organizzative o le aree di responsabilità. L’esito
della valutazione rileva per le progressioni di carriera e per la c.d. responsabilità disciplinare. Dal punto di vista
organizzativo e delle figure coinvolte, vengono disciplinati i seguenti soggetti:
- Il Dipartimento della funzione pubblica della presidenza del consiglio dei ministri ha il compito di
promozione, indirizzo e coordinamento. Esso ha in particolare il compito di elaborare metodologie, criteri e
strumenti.
- Gli organi d’indirizzo politico-amministrativo promuovono la cultura della legalità, emanano le direttive
generali contenenti gli indirizzi strategici e verificano che questi ultimi siano conseguiti; definiscono i
modelli per la valutazione delle performance organizzative.
- I dirigenti, chiamati a valutare il personale.
- Un certo spazio è attribuito ai cittadini che partecipano alla valutazione della performance secondo le
modalità individuate dall’OIV.
- Gli Organismi indipendenti di valutazione della performance (OIV) sono figure monocratiche o
collegiali, che vengono istituite dall’amministrazione. L’organismo, pertanto, è il signore dei controlli in
sede locale, visto che ad esso spetta la misurazione e valutazione della performance di ciascuna struttura
amministrativa nel suo complesso. A questa prima funzione, di garanzia del sistema di valutazione e
dell’utilizzo dei premi, si affianca quella di correzione delle attività di gestione e di indirizzo. In terzo
luogo, evidenzia le criticità cui l’amministrazione locale è soggetta nella prospettiva della repressione.
Infine, spetta all’organismo pure la validazione finale della relazione finale sulla performance.
La finalità della valutazione è quella di migliorare la qualità dei servizi, nonché la crescita delle competenze
professionali, attraverso la valorizzazione del merito e l'erogazione dei premi per i risultati perseguiti dai singoli e
dalle unità organizzative. Quale strumento essenziale al servizio del nuovo disegno, viene disciplinato il ciclo di
gestione delle performance: esso include le fasi della programmazione, dell’allocazione delle risorse, del
monitoraggio, della finale misurazione e valutazione della performance fino ad abbracciare la gestione del sistema
premiante e la rendicontazione. All'inizio e alla fine del ciclo di performance si collocano due atti: piano e
relazione. Le amministrazioni sono chiamate a redigere:
- annualmente un piano Triennale delle performance definito dall’organo di indirizzo politico-
amministrativo in collaborazione con i vertici dell'amministrazione e secondo gli indirizzi elaborati dal
Dipartimento. Esso individua gli indirizzi e gli obiettivi strategici ed operativi e definisce gli indicatori per
la misurazione e la valutazione delle performance dell'amministrazione. Con riguardo gli obiettivi, essi
possono essere generali o specifici. Questi ultimi sono programmati su base triennale degli organi di
indirizzo politico-amministrativo una volta consultati i dirigenti o i responsabili delle unità organizzative. Il
legislatore delegato si preoccupa di disincentivare l'inerzia dell'amministrazione e infatti la mancata
adozione del piano della performance osta all’erogazione della retribuzione di risultato ai dirigenti che
hanno concorso alla sua mancata adozione.
- una relazione sulla performance che evidenzia a consuntivo i risultati raggiunti rispetto ai singoli obiettivi
programmati. La relazione è approvata dall'organo di indirizzo politico-amministrativo e validata
dall’organismo indipendente.
- a monte della relazione si colloca il sistema di misurazione e valutazione della performance
organizzativa e individuale. I soggetti coinvolti sono gli OIV, i dirigenti e i cittadini. Il sistema prevede
anche procedure di conciliazione a favore dei valutati. Essenziale ovviamente è il valore della
trasparenza che è utile non solo per migliorare l'efficienza dei servizi ma anche centrale ai fini della lotta
alla corruzione e all'illegalità.
Sulla base di questi documenti si procede alla valutazione con cadenza annuale.
La valutazione delle strutture spetta all’OIV ed è effettuata sulla base di appostiti moduli definiti dal Dipartimento.
Tra gli oggetti di valutazione, con riferimento alla performance organizzativa, compaiono l’attuazione delle
politiche e il conseguimento degli obiettivi, l’attuazione di piani e programmi, la rivelazione del grado di
soddisfazione dei destinatari, l’efficienza nell’impiego delle risorse e lo sviluppo delle relazioni con cittadini e
utenti. Quanto alla performance individuale, l’OIV ha il potere di proposta agli organi di indirizzo politico-
amministrativo in ordine alla valutazione annuale dei dirigenti di vertice. L’art. 8 bis, in realtà, si riferisce più in
generale a dirigenti e responsabili delle unità organizzative in posizione di autonomia e responsabilità.
Il personale non dirigenziale è valutato dai dirigenti considerando il raggiungimento di specifici obiettivi di gruppo
o individuali e alla qualità del contributo assicurato alla performance dell’unità organizzativa.
Il rispetto delle disposizioni in materia di valutazione è non solo condizione necessaria per l’erogazione di premi e
componenti del trattamento retributivo legati alla produttività, ma è rilevante pure ai fini del riconoscimento delle
progressioni economiche, dell’attribuzione di incarichi di responsabilità al personale, nonché del conferimento degli
incarichi dirigenziali. La valutazione negativa, inoltre, rileva ai fini dell’accertamento della responsabilità
dirigenziale e dell’irrorazione del licenziamento disciplinare.
i) i dipendenti, oltre che vincolati a un obbligo di esclusività, sono assoggettati ad una particolare responsabilità
amministrativa, penale e contabile, nonché alla c.d. responsabilità disciplinare ex art. 55 d.lgs. 165/2001,
riformata nel 2009. L’art. 70 d.lgs. 150/2009 dispone che in caso di sentenza penale nei confronti di un dipendente
la cancelleria del giudice ne comunica il dispositivo all’amministrazione di appartenenza. Particolare attenzione è
riservata al licenziamento disciplinare: l’art.55 quater tipizza le infrazioni più gravi che possono dar luogo a
licenziamento, nonché si affronta il problema dei dipendenti fannulloni: ivi viene disposto che il licenziamento
può essere disposto in caso di valutazione di insufficiente rendimento. Il lavoratore, nel caso in cui cagioni un grave
danno al normale funzionamento dell’ufficio, in ragione di inefficienza o incompetenza professionale, viene
collocato in disponibilità per massimo 2 anni e può essere ricollocato presso altre amministrazioni. Trascorso
inutilmente questo periodo il rapporto si risolve. Per quanto attiene alla competenza, va notato che la titolarità del
potere disciplinare spetta al responsabile della struttura soltanto con riferimento alle infrazioni punite con sanzioni
di minore entità, mentre per quelle cui si riferiscono sanzioni superiori sussiste la competenza di uno specifico
ufficio. Il legislatore si preoccupa di arginare le condotte che possano ostacolare l'esercizio del potere disciplinare.
Il mancato esercizio o la decadenza dell'azione disciplinare, dovuti all'omissione o al ritardo, senza giustificato
motivo, degli atti del procedimento disciplinare, comporta l'applicazione ai dirigenti di una sanzione disciplinare. Si
ricordi che la violazione dei doveri contenuti nel codice di comportamento è fonte di responsabilità disciplinare ed
è rilevante ai fini della responsabilità civile, amministrativa e contabile ogniqualvolta le stesse responsabilità siano
collegate alla violazione di doveri, obblighi, leggi e regolamenti, mentre violazioni gravi e reiterate del codice
comportano l'applicazione della sanzione del licenziamento disciplinare. Dal punto di vista procedimentale, l'art
55 bis d.lgs. 165/2001 distingue tra varie ipotesi fissando termini perentori, disciplinando minuziosamente la fase
istruttoria e prevedendo l'uso della posta elettronica certificata. Il legislatore delegato esclude la possibilità di
istituire procedure di impugnazione dei provvedimenti disciplinari, lasciando unicamente salva la facoltà di
disciplinare mediante i contratti collettivi procedure di conciliazione non obbligatoria.
j) sotto il profilo giurisdizionale sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le
controversie riguardanti il rapporto di lavoro dei dipendenti con eccezione di quelle categorie sottratte alla
privatizzazione. Si ha giurisdizione del giudice amministrativo per quelle controversie attinenti alle procedure
concorsuali o a quelle relative alla progressione di carriera dei dipendenti interni.
k) A conferma della distanza che corre rispetto al lavoro privato, viene prevista la tutela reale della reintegrazione, in
aggiunta a quella risarcitoria. Secondo quanto dispone l’art. 63, con la sentenza con la quale si annulla o dichiara
nullo il licenziamento, il giudice condanna l’amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
19.La dirigenza e i suoi rapporti con gli organi politici
Ai dirigenti sono stati attribuiti autonomi poteri di gestione, con il compito di organizzare il lavoro, uffici e risorse umane e
finanziarie, nonché attuare le politiche delineate dagli organi di indirizzo politico-amministrativo. Il dirigente è anche
interlocutore privilegiato della componente politica. Ciò comporta delle frizioni all’interno del sistema.
Nonostante il d.lgs. 150/2009 mira all’ampliamento e al rafforzamento dell’autonomia dei dirigenti, vi sono alcune
disposizioni che costringono i dirigenti a svolgere funzioni datoriali. Ciò accade con specifico riferimento all’inizio del
procedimento (artt. 55 e 55 sexies d.lgs. 165/21), al controllo delle condotte assenteistiche dei dipendenti (art. 55 septies
d.lgs. 165/2001) e alla valutazione e valorizzazione delle performance (art. 7 d.lgs. 150/2009).
La dirigenza statale si articola in due fasce del ruolo di dirigenti. L’accesso alla qualifica di dirigente (seconda fascia) nelle
amministrazioni statali e enti pubblici non economici avviene in 2 modi: concorso per esami indetto dalle singole
amministrazioni; corso-concorso selettivo di formazione indetto dalla Scuola nazionale dell’amministrazione.
Ai sensi dell’art. 23 d.lgs. 165/2001, i dirigenti di seconda fascia transitano nella prima qualora abbiano ricoperto incarichi
di direzione di uffici dirigenziali generali o equivalenti per almeno 5 anni nei quali non siano incorsi in sanzioni. Ai sensi
dell’art. 28 bis, si può altresì diventare dirigenti di prima fascia per anzianità (canale alternativo).
Un diverso canale per diventare dirigente è quello dell’incarico diretto senza previo concorso pubblico: l’art. 19 d.lgs.
165/2001 dispone la possibilità di conferimento di incarichi con contratto a tempo determinato entro il limite del 10%
(prima fascia) e 8% (seconda fascia) dei dirigenti, dandone esplicita motivazione, e solo a persone di particolare e
comprovata qualificazione professionale che non è rinvenibile nei ruoli dell’amministrazione. Ai sensi dell’art. 15 d.lgs.
33/2013, la pubblicazione degli estremi degli atti di conferimento di incari a soggetti estranei alla PA è condizione per
l’acquisizione dell’efficacia dell’atto e per la liquidazione dei relativi compensi.
Tornando alla dirigenza, va detto che il rapporto di lavoro si fonda su un contratto. La fase determinativa del rapporto di
servizio va tenuta distinta dal momento della preposizione all’organo mediante incarico della funzione (quest’ultimo
comporta l’instaurazione del rapporto organico e l’attribuzione delle concrete mansioni dirigenziali). Tale incarico è retto
dal principio della temporaneità e per il suo conferimento si tiene conto di vari elementi, tra i quali le attitudini e le capacità
professionali del singolo dirigente, dei risultati conseguiti in precedenza, delle specifiche competenze organizzative.
Il conferimento dell’incarico dirigenziale è soggetto ad un particolare iter: è la legge che scandisce l’intero procedimento.
L’art. 1 comma 39 l. 190/2012 prevede che le amministrazioni comunicano al Dipartimento della funzione pubblica tutti i
dati utili a rilevare posizioni dirigenziali attribuite a persone individuate discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico
senza procedura pubbliche di selezione. All’atto del conferimento, l’interessato presenta una dichiarazione
sull’insussistenza di eventuali cause di inconferibilità dell’incarico e, nel corso dell’incarico, dovrà annualmente presentare
analoga dichiarazione. Tale dichiarazione è conditio sine qua non per l’acquisto dell’efficacia dell’incarico e
un’eventuale mendacio ha come conseguenza l’inconferibilità di qualsiasi incarico per 5 anni.
Nel provvedimento di conferimento (che ha natura sostanzialmente privatistica, con conseguente affermazione del giudice
ordinario, come stabilito ex sentenza 275/2001 Corte cost.) viene contenuta la definizione dell’oggetto, degli obiettivi e
della durata dell’incarico (tra i 3 e 5 anni). Ampio spazio è riconosciuto a siffatto provvedimento, conseguentemente
comprimendo quello del contratto individuale che a esso “accede”. A tale contratto spetta solo la definizione del
trattamento economico.
La retribuzione del personale con qualifica di dirigente è determinata dai contratti collettivi, prevedendo che il trattamento
economico accessorio sia correlato alle funzioni attribuite, alle connesse responsabilità e ai risultati conseguiti. Il
trattamento accessorio collegato ai risultati deve costituire almeno il 30% della retribuzione.
Gli incarichi di segretario generale, di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali cessano decorsi 90
giorni dal voto sulla fiducia al governo. L'art 6 l. 145/2002 dispone che le nomine possono essere confermate, revocate,
modificate o rinnovate entro sei mesi dal voto di fiducia del governo. All'interno della dirigenza, colta nel suo complesso, si
configura un regime speciale per i dirigenti apicali (fiduciari) che fungono da cerniera tra burocrazia e politica: di essi si
occupa fugacemente l'art 14 là dove si accenna solo ad una loro valutazione annuale e alla possibile attribuzione dei premi.
In ogni caso, al di fuori dell'area dei dirigenti apicali, riacquistano centralità le garanzie connesse all'imparzialità. Sorge poi
l'obbligo della reintegrazione di un dirigente che sia automaticamente decaduto dall'incarico in base ad una disposizione
dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale.
Gli incarichi dirigenziali possono essere revocati esclusivamente nei casi e con le modalità di cui alla disciplina sulla
responsabilità dirigenziale. Se la revoca prima della scadenza è subordinata ad una valutazione negativa, non deve però
tacersi la presenza di altre norme che indeboliscono la posizione del dirigente. Le amministrazioni che, anche in dipendenza
dei processi di riorganizzazione, alla scadenza di un incarico dirigenziale, non intendono confermare l'incarico conferito al
dirigente, conferiscono al medesimo dirigente un altro incarico, anche di valore economico inferiore.
Propria dei dirigenti è la responsabilità dirigenziale che è aggiuntiva rispetto a tutte le altre forme di responsabilità
previste ex lege. Essa sorge allorquando non vengano raggiunti gli obiettivi o in caso di inosservanza delle direttive
imputabile al dirigente. Tale responsabilità, che rivela l'inidoneità all'incarico, non sorge dalla mera violazione di precise
regole normative, ma si collega alla qualità complessiva dell'ufficio cui egli è preposto. Non a caso non si richiede la colpa.
L’art. 21 d.lgs. 165/2001 prevede un ulteriore caso di responsabilità dirigenziale: è il caso della “colpevole violazione” del
dovere di vigilanza sul rispetto degli standard qualitativi e quantitativi fissati dall’amministrazione.
Nel caso di responsabilità dirigenziale, la sanzione è l’impossibilità del rinnovo dello stesso incarico dirigenziale.
L’amministrazione inoltre, previa contestazione, può revocare l’incarico collocando il dirigente a disposizione ovvero
recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo.
Non tutti i dirigenti hanno titolarità di uffici dirigenziali: in questo caso si tratta di dirigenti che svolgono funzioni ispettive,
di consulenza, studio e ricerca o altri incarichi specifici previsti dall’ordinamento.
All'interno dell'organizzazione del lavoro presso le PA, ci si può domandare se sia presente la relazione gerarchica o quella
di direzione. Ai sensi dell’art. 14 d.lgs. 165/2001 il ministro definisce obiettivi, priorità, piani e programmi da attuare ed
emana le conseguenti direttive generali per l’attività amministrativa e la gestione. Il ministro non può però revocare,
riformare, riservare o avocare a sé atti di competenza dei dirigenti (in caso di ritardo o inerzia, il ministro può fissare un
termine entro cui l’atto va emanato e, in caso di non rispetto del termine, il ministro può solo nominare un commissario ad
acta). Pertanto gli atti e provvedimenti dei dirigenti non sono suscettibili di ricorso gerarchico. In questo caso quindi la
relazione interorganica che opera è quella della direzione, vale a dire vi sono 2 organi in posizione di diseguaglianza e
quello inferiore dispone però di una sfera di autonomia non comprimibile da parte di quello superiore.
Tuttavia non tutti sono d’accordo nel qualificare la relazione tra dirigente e organo di indirizzo politico-amministrativo nei
termini della direzione: è preferibile qualificare il rapporto in termini di sfere di competenza separate e differenti; il ministro
infatti non può sostituirsi al dirigente, escludendosi dunque un’ingerenza diretta della sfera politica nell’attività del
dirigente.
L’unico momento in cui il potere politico prevale su quello dirigenziale è l’esercizio del potere, da parte degli organi di
governo, di annullare in autotutela gli atti, nonché il potere di non rinnovare l’incarico del dirigente decorsi i 90 giorni dal
voto di fiducia al governo.
I dirigenti che sono preposti agli uffici dirigenziali generali, nei confronti dei dirigenti definiscono gli obiettivi e
attribuiscono le risorse, dirigono, coordinano e controllano l’attività dei dirigenti e dei responsabili dei procedimenti e
decidono sui ricorsi gerarchici contro gli atti e i provvedimenti amministrativi non definitivi dei dirigenti.
Inoltre il dirigente preposto all’ufficio di più elevato livello può delegare compiti ai dirigenti ed è sovraordinato al dirigente
preposto all’ufficio inferiore: sembra esserci dunque una relazione gerarchica. Tuttavia, in mancanza del potere di impartire
ordini e la predefinizione delle competenze dei dirigenti fanno propendere per una relazione gerarchica più ammorbidita,
sussistendo infatti una sfera di autonomia non comprimibile in capo ai dirigenti.
L’art. 17 d.lgs. 165/2001 prevede poi poteri di direzione, coordinamento e controllo in capo al dirigente in relazione
all’attività degli uffici che da lui dipendono e di quella dei responsabili dei procedimenti amministrativi, anche con poteri
sostitutivi in caso di inerzia. Si dispone inoltre che il dirigente effettua la valutazione del personale assegnato ai propri uffici
nel rispetto del principio del merito.
L’art. 17.1 bis d.lgs. 165/2001 introduce la figura della vicedirigenza: si prevede che i dirigenti, per specifiche e
comprovate ragioni di servizio e per un tempo determinato, possono delegare con atto scritto e motivato alcune delle
proprie competenze a dipendenti che ricoprano le posizioni funzionali più elevate nell’ambito degli uffici ad essi affidati.
Sovente poi i dirigenti sono soliti avvalersi di consulenze affidate a soggetti esterni alle amministrazioni. In questo caso
l’oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite all’amministrazione e a obiettivi e progetti
specifici. L’amministrazione deve avere preliminarmente accertato l’impossibilità di utilizzare le risorse umane interne.
In ogni caso la prestazione del consulente deve essere temporanea e qualificata, determinando preventivamente durata,
luogo, oggetto e compenso della prestazione. Gli incarichi esterni, come da circolare 5/2005 Pres. Cons. Min. possono
essere conferiti solo a esperti di particolare e comprovata specializzazione.
20.I soggetti di diritto nel diritto amministrativo: le formazioni sociali e gli ordinamenti autonomi
Per quanto concerne le organizzazioni sociali, queste, sebbene non sono riconosciute come enti di diritto pubblico, sono
costituite da aggregazioni di individui che perseguono interessi non aventi fine lucrativo. Il fenomeno delle organizzazioni
non lucrative ha avuto una notevole espansione negli ultimi decenni, tanto da introdurre la definizione di terzo settore, nel
quale vi rientrano organizzazioni no profit e anche quelle di volontariato, nonché le comunità terapeutiche, le istituzioni
pro loco, le organizzazioni impegnate nei settori della ricerca, dello sport, istruzione, beneficenza, protezione civile, tutela
dei beni culturali etc. La normativa di settore prevede che queste organizzazioni, che perseguono finalità di interesse
generale, possano ricevere finanziamenti pubblici e siano sottoposte a forme di controllo e vigilanza.
Con riguardo a queste organizzazioni, una figura importante sono le c.d. onlus, istituite con d.lgs. 460/1997: sono da
considerarsi onlus quelle associazioni, comitati, fondazioni o altri enti di diritto privato i cui atti costitutivi contengono una
serie di indicazioni, tra le quali lo svolgimento di attività in particolari settori e l’esclusivo perseguimento di finalità di
solidarietà sociale.
Accanto alle organizzazioni sociali vi sono poi gli ordinamenti autonomi, che sono caratterizzati dall’avere una normativa
propria. Tra gli ordinamenti autonomi vi sono gli ordinamenti delle confessioni religiose (l’art. 8 Cost. stabilisce che le
confessioni religiose diverse da quella cattolica possono organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con
l’ordinamento giuridico italiano) e l’ordinamento sportivo. Il d.l. 220/2003 stabilisce che: “la repubblica riconosce e
favorisce l’autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale, quale articolazione dell’ordinamento sportivo internazionale
facente capo al comitato olimpico internazionale”. I rapporti sono regolati sulla base del principio di autonomia, salvo i casi
di rilevanza per l’ordinamento giuridico della repubblica: salvo quindi casi particolari, la competenza sulle questioni
tecniche aventi ad oggetto il corretto svolgimento delle attività sportive e i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare
non sono di competenza né del giudice ordinario né del giudice amministrativo.
21.I mezzi. In particolare i beni pubblici. Nozione e classificazione codicistica
Per svolgere i propri compiti, le amministrazioni pubbliche devono utilizzare non solo risorse umane, ma anche mezzi
materiali. Lo svolgimento dei compiti amministrativi, inoltre, implica molto spesso l’impiego dei beni.
Tra i beni che appartengono agli enti pubblici importanti sono i c.d. beni pubblici che sono assoggettati ad una normativa
differente rispetto a quella che si applica agli altri beni per quel che concerne i profili d’uso, circolazione e tutela.
Tali beni, la cui normativa è presente nel codice civile, sono soggetti anche a disposizioni ad hoc, esterne al codice civile
stesso, come per esempio le leggi a tutela dell’ambiente, quelle sui beni culturali, le leggi sulle reti e le norme sulla
dismissione dei beni pubblici.
A fianco ai c.d. beni pubblici, vi sono poi anche beni che appartengono a enti pubblici soggetti alla normativa di carattere
generale sulla proprietà privata (salvo alcune disposizioni in materia di contabilità pubblica): si tratta del c.d. patrimonio
disponibile degli enti pubblici (per esempio il patrimonio mobiliare e fondiario, il denaro), che va tenuto distinto dal
patrimonio indisponibile (quest’ultimo è ricondotto ai beni pubblici).
I beni pubblici vengono classificati dal codice civile in beni demaniali e beni del patrimonio indisponibile. Tale
classificazione è però entrata in crisi, in ragione della difficoltà di individuare una linea distintiva tra le 2 categorie nonché
in ragione della presenza di regimi speciali, che derogano alle disposizioni del codice civile stesso.
I beni patrimoniali disponibili possono essere oggetto di contratti di alienazione (contratti cd. attivi stipulati mediante asta
pubblica), di acquisto (contratti passivi, preceduti da gara mediante pubblico incanto o licitazione privata) e così via.
I beni pubblici appartengono alle pubbliche amministrazioni a titolo di proprietà pubblica. In forza dell’art. 42 Cost. (ove
si afferma “la proprietà è pubblica o privata”) si conferma la possibilità di utilizzare il concetto di proprietà per descrivere il
titolo di appartenenza all’ente dei beni pubblici. La circostanza che si tratti di proprietà spiega l'appartenenza dei frutti
all'ente titolare del bene e il fatto che la cosa resti nella proprietà dell'ente anche una volta persi i caratteri di bene pubblico.
È questo il principio dell'elasticità della proprietà. I beni assoggettati al regime testé indicato sono distinti dalla legge in
demaniali e patrimoniali indisponibili. L'ordinamento valuta necessario che alcuni beni appartengano agli enti pubblici
perché dotati della idoneità a soddisfare gli interessi imputati agli enti e stabilisce che alcuni beni degli enti pubblici siano
preposti alla soddisfazione di libertà costituzionalmente garantite che il regime proprietario privato non consentirebbe di
assicurare. La legge impone una specifica disciplina giuridica dei beni pubblici, in grado di salvaguardare la loro stabile
destinazione dai pericoli connessi all'applicazione del diritto civile (la proprietà pubblica è l'esempio più pregnante di
proprietà-funzione).
La titolarità della proprietà dei beni pubblici che appartengono agli enti pubblici è disciplinata da diverse fonti: anzitutto
essa è soggetta alla legge (è il caso dei beni del demanio naturale e del patrimonio indisponibile nonché dei beni di
interesse artistico, storico o archeologico). La titolarità di questi beni può derivare anche da altre fonti quali: fatti acquisitivi
(occupazione, invenzione, accessione, specificazione, unione, usucapione, successione ex art. 586 cc); atti di diritto comune
(contratti, donazione, testamento, provvedimenti giudiziari); fatti di diritto internazionale (confisca e requisizione bellica,
indennità di guerra); atti pubblicistici che comportano l’ablazione di diritti reali su beni di altri soggetti.
22.Il regime giuridico dei beni demaniali
La disciplina giuridica dei beni pubblici è contenuta negli artt. 822 ss c.c., nel r.d. 2440/1923 e nel r.d. 827/1924.
I beni demaniali sono tassativamente indicati dalla legge e comprendono beni del:
a) demanio necessario -> non possono non appartenere allo Stato o alle regioni. Sono costituiti a loro volta da:
- demanio marittimo -> ai sensi dell’art. 822 cc fanno parte del demanio marittimo il lido del mare, spiagge,
porti, lagune, foci dei fiumi e canali
- demanio idrico -> è costituito da fiumi, torrenti, laghi e altre acque pubbliche, ghiacciai
- demanio militare -> comprende le opere destinate alla difesa nazionale quali fortezze, piazzeforti nonché
opere quali porti, strade, ferrovie, stazioni radio destinate al servizio delle comunicazioni militari
b) demanio accidentale -> composto da strade, autostrade, aeroporti, acquedotti, immobili riconosciuti di interesse
storico, archeologico o artistico, pinacoteche, archivi, biblioteche. Questi beni possono appartenere a chiunque ma
sono tali qualora appartengano ad un ente pubblico territoriale. A differenza dei beni del demanio necessario, questi
beni non sono costituiti esclusivamente da beni immobili, potendo consistere anche in universalità di mobili. Vi
rientrano in questa categoria anche le strade ferrate, sebbene alcune siano state sdemanializzate con l. 210/1985.
Non rientrano nel demanio stradale le strade vicinali (strade private) e le strade militari di uso pubblico (fanno
parte del demanio militare). Ai sensi dell’art. 824.2 cc sono beni demaniali accidentali i cimiteri e mercati
comunali: tali beni rientrano nel demanio comunale solo se appartengono ai comuni.
I beni demaniali appartengono dunque a enti territoriali: ciò in quanto essi sono direttamente preordinati alla soddisfazione
di interessi imputati alla collettività stanziata sul territorio. In ragione del soggetto titolare, il demanio può essere statale,
regionale, provinciale e comunale. Altra distinzione che riguarda i beni demaniali è quella attinente alla natura: vi sono i
beni demaniali naturali che sono tali indipendentemente dall’opera dell’uomo e i beni del demanio artificiale che sono
costruiti dall’uomo.
In ogni caso tutti i beni demaniali, ai sensi dell’art. 823 cc, “sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a
favore dei terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano”. Pertanto i diritti di terzi su beni
demaniali possono essere costituiti solo secondo le modalità previste ex lege; non si potrà perciò usucapire un bene
demaniale.
In ragione della loro incommerciabilità, sono nulli di diritto gli eventuali atti dispositivi da parte della PA che dispongono
la vendita di beni demaniali (essi hanno infatti un vincolo reale che ne rende impossibile la vendita ex art. 1418 cc). I beni
demaniali non possono nemmeno essere oggetto di esproprio.
Sempre l’art. 823 cc dispone che “spetta all’amministrazione la tutela dei beni che fanno parte del demanio pubblico”. Per
tutelare questi beni l’amministrazione dispone di poteri di autotutela: invece che ricorrere ai rimedi giurisdizionali previsti
a tutela della proprietà, l’amministrazione può direttamente procedere a tutelare i propri beni in via amministrativa,
irrogando sanzioni ed esercitando poteri di polizia demaniale. Si tratta tuttavia di una norma avente una formulazione
generica, che non soddisfa il principio di legalità, pertanto non consentirebbe di affermare la sussistenza di un generale
potere di autotutela in capo agli enti cui appartengono i beni demaniali.
I beni demaniali naturali acquistano la demanialità per il solo fatto di possedere i requisiti previsti dalla legge. I beni
demaniali artificiali diventano invece demaniali nel momento in cui rientrino in uno dei tipi fissati dalla legge: vale a dire
nel momento in cui l’opera viene realizzata purché siano di proprietà dell’ente territoriale.
La cessazione della qualità di bene demaniale deriva dalla distruzione del bene, dalla perdita dei requisiti di bene demaniale
e dalla cessazione della destinazione. Vi può essere poi l’intervento legislativo che sdemanializza alcuni beni. La
sdemanializzazione comporta la cessazione del diritto di uso del bene spettante a terzi e l’estinzione delle eventuali
limitazioni derivanti dalla natura demaniale del bene stesso. Pure l’attuazione del cd. federalismo demaniale (si prevede
che i beni dello Stato possano essere ceduti agli enti locali ai fini della valorizzazione degli stessi) può determinare il venir
meno del regime demaniale.
23.Il regime giuridico dei beni del patrimonio indisponibile. Il federalismo demaniale. L’amministrazione dei beni pubblici I
beni del patrimonio indisponibile sono quelli ex art. 826 cc commi 2 e 3 e ex art. 830 comma 2 cc.
L’art. 826 cc dispone: “Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato le foreste che a norma delle leggi in materia
costituiscono il demanio forestale dello Stato, le miniere, le cave e torbiere quando la disponibilità ne è sottratta al
proprietario del fondo, le cose d'interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in
qualunque modo ritrovate nel sottosuolo, i beni costituenti la dotazione della Presidenza della Repubblica, le caserme, gli
armamenti, gli aeromobili militari e le navi da guerra. Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato o,
rispettivamente, delle province e dei comuni, secondo la loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di uffici pubblici, con
i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico servizio”. L’art. 830 dispone, poi, che i beni degli enti pubblici non
territoriali destinati ad un pubblico servizio sono assoggettati alla disciplina del patrimonio indisponibile.
Per quanto riguarda i beni del patrimonio indisponibile va osservato:
c) le cave e le torbiere, acque termali e minerali e foreste sono state trasferite al patrimonio indisponibile della
regione con d.p.r. 616/1977. Le cave e le torbiere possono essere sottratte alla disponibilità dei proprietari e avocate
alla regione solo nei casi di mancato o insufficiente sfruttamento.
d) Le miniere erano riservate allo Stato, mentre oggi sono riservate alle regioni.
e) Le cose mobili di interesse storico, paletnologico, paleontologico e artistico, appartenenti a qualsiasi ente
pubblico, sono assoggettate alla disciplina dei beni patrimoniali indisponibili, salvo che siano costituite in raccolte
di musei, pinacoteche, archivi e di biblioteche (in questo caso sono beni del demanio accidentale).
f) I beni costituenti la dotazione della presidenza della repubblica, le caserme, gli armamenti, gli aeromobili militari e
le navi di guerra sono beni indisponibili interessati dal c.d. federalismo demaniale.
I beni del patrimonio indisponibile sono assoggettati alla disciplina posta dall'art 828.2: essi “non possono essere sottratti
alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano”. I beni del patrimonio indisponibile, in ogni
caso, sono assolutamente commerciabili: gli atti di disposizione, tuttavia, devono rispettare il vincolo di destinazione.
Quanto all'acquisto e alla perdita dei caratteri di bene pubblico si può rinviare alle osservazioni svolte in ordine ai beni
demaniali, distinguendo a seconda che si tratti di beni che sono pubblici in virtù del solo fatto di possedere i caratteri
indicati dall'ordinamento, ovvero che sia richiesto un atto di destinazione pubblica.
Si è in precedenza detto di come la classificazione dei beni demaniali di tipo codicistico sia entrata in crisi. In specie qui
rileva come la disciplina posta dal codice civile non risulta del tutto coerente, anche alla luce della disciplina di settore.
Occorre considerare, ad esempio, che: a) alcuni beni demaniali sono riservati necessariamente a taluni enti pubblici
territoriali (demanio necessario), mentre altri possono appartenere anche a privati o a enti non territoriali; b) analoghe
considerazioni valgono per i beni del patrimonio indisponibile: alcuni sono riservati a enti pubblici sicché nessun altro
soggetto dell’ordinamento è legittimato ad acquistarli; c) alcuni beni del patrimonio indisponibile sono incommerciabili in
via assoluta in quanto si tratta di beni riservati, come ad esempio le miniere; d) altri beni sono soggetti a un regime di
inalienabilità, salvo permesso amministrativo, come per esempio i beni forestali.
La giurisprudenza ha invece esteso al patrimonio indisponibile parte della disciplina dettata per il demanio e il legislatore ha
avvertito l’esigenza di assicurare una gestione più efficace anche del demanio. In questo quadro, i beni servono sempre più
spesso per assicurare entrate, derivanti dalla loro vendita. Il quadro è però venuto a complicarsi con l’attuazione del
federalismo fiscale: ciò comporta una decisa riduzione sia dell’ampiezza del demanio statale sia del numero dei beni
pubblici nel loro complesso. Ispirazione di fondo del federalismo fiscale è quello di attribuire i beni al livello territoriale
più vicino alla collocazione dei beni stessi ma anche quello di valorizzare al meglio, da parte degli enti locali, i beni in
questione, evitando di lasciarne la gestione allo Stato. Alcuni beni però non saranno oggetto di trasferimento e
rimarranno nella sfera giuridica dello Stato: tali beni sono inseriti in un’apposita black list e tra questi vi sono i beni del
demanio marittimo direttamente utilizzati dalle amministrazioni statali, i porti e gli aeroporti di rilevanza economica
nazionale e internazionale, giacimenti petroliferi e di gas. Gli altri beni saranno invece ceduti e finiranno nel patrimonio
disponibile degli enti destinatari e potranno essere alienati solo previa autorizzazione attraverso le procedure per l’adozione
delle varianti allo strumento urbanistico.
Circa la contrazione del numero complessivo dei beni pubblici, si consideri che i beni ceduti finiranno nel patrimonio
disponibile degli enti destinatari e potranno essere alienati sol previa valorizzazione attraverso le procedure per l’adozione
delle varianti allo strumento urbanistico. I beni appartenenti al demanio marittimo, idrico e aeroportuale restano
assoggettati al regime demaniale.
Due i canali attraverso i quali si realizzerà l'attribuzione, anche se non si possono non segnalare gravi ritardi e le difficoltà
che si sono verificate nella procedura complessiva. I beni del demanio saranno trasferiti dallo Stato a due categorie di enti
territoriali (regioni e province) con d.p.c.m., senza necessità del consenso dell'ente e secondo il seguente principio: alle
regioni verranno trasferiti il demanio marittimo e i beni del demanio idrico (salvo le eccezioni previste dalla legge). Alle
province vengono attribuiti i laghi chiusi e le miniere.
Alle province si attribuiscono invece i laghi chiusi e le miniere.
Per quanto riguarda tutti gli altri beni, altri decreti avranno il compito di individuare gli immobili statali da assegnare e gli
enti destinatari, i quali dovranno farne richiesta motivata all’agenzia del demanio entro 60 giorni dalla pubblicazione dei
decreti. Sulla base delle domande, lo Stato procede all’attribuzione dell’immobile all’ente territoriale. A conclusione del
procedimento viene attribuito il bene all’ente (mediante apposito decreto adottato su proposta del ministero
dell’economia). Per quanto riguarda i beni culturali viene previsto un regime ad hoc: le attività di acquisto e alienazione di
questi beni spettano al ministero dell’economia, salvo il caso dei beni del demanio marittimo amministrati del ministero dei
trasporti e quelli del demanio idrico amministrati dal ministero dell’ambiente.
All’agenzia del demanio spetta il compito di individuare i beni del patrimonio immobiliare pubblico con decreti che hanno
effetto dichiarativo della proprietà.
Per quanto attiene al processo di privatizzazione dei beni appartenenti ad enti pubblici (venduti per avere entrate
finanziarie), 3 sono le modalità di dismissione:
1. il ministro dell’economia è autorizzato a sottoscrivere quote di fondi immobiliari istituiti ex l. 86/1994 mediante
apporto di beni immobili e diritti reali su immobili appartenenti al patrimonio dello Stato. Il portafoglio dei fondi
viene perciò finanziato attraverso la collocazione di quote sul mercato, mentre gli investitori vengono remunerati
dai proventi derivanti dalla gestione dei fondi.
2. i beni immobili di minore valore che appartengono allo Stato, non conferiti nei fondi immobiliari, possono essere
oggetto di alienazione.
3. la dismissione può avvenire tramite cartolarizzazione: viene previsto che il ministero dell’economia possa
costituire o promuovere la costituzione di più società a responsabilità limitata (le c.d. Scip) che hanno ad oggetto
esclusivo la realizzazione di una o più operazioni di cartolarizzazione dei proventi mediante emissione di titoli.
Quando vengono costituite, queste società corrispondono allo Stato un prezzo iniziale, con riserva di versare la
differenza ad operazione completata.
Ma il legislatore non si preoccupa solo delle entrate derivanti dalle cessioni di beni. Esso infatti mira anche alla
valorizzazione dei beni demaniali: a riguardo la l. 133/2008 prevede che gli enti predispongano un piano delle alienazioni
e valorizzazioni immobiliari, allegato al bilancio di previsione. Il d.lgs. 85/2010, sul federalismo demaniale, accentua il
profilo della valorizzazione funzionale mediante alienazione. Ma per raggiungere l’obiettivo della valorizzazione, oltre
all’alienazione, si può ricorrere anche a concessioni o locazioni a titolo oneroso di beni immobili pubblici mediante
procedura a evidenza pubblica. Altra forma di valorizzazione è quella prevista all’art. 33 d.l. 98/2011 con cui viene ad
essere costituita una società di gestione del risparmio per l’istituzione di uno o più fondi di investimento che partecipino
ai fondi di investimento immobiliare chiusi promossi da regioni, province, comuni al fine di valorizzare o dismettere il
proprio patrimonio immobiliare disponibile.
24.Diritti demaniali su cose altrui, diritti d’uso pubblico e usi civici
Per quanto concerne i diritti demaniali su beni altrui, tra questi vi sono: il diritto di servitù gravante su fondo privato al
fine della realizzazione di un acquedotto pubblico; la servitù di via alzaia, che grava sui fondi laterali ai corsi d’acqua
navigabili imponendo di lasciare libera una fascia di terreno al fine di consentire lo spostamento dei barconi.
I diritti di uso pubblico sono diritti gravanti su beni privati costituiti per il conseguimento di fini di pubblico interesse
corrispondenti a quelli a cui servono i beni demaniali; tra questi vi sono i diritti di visita dei beni privati di interesse storico
e quelli che attengono alle strade vicinali.
Gli usi civici sono beni collettivi poiché appartengono alla collettività di abitanti ma sono assoggettati ad una particolare
disciplina e possono gravare anche su beni pubblici. Si tratta di diritti di godimento e di uso e anche di proprietà che
spettano alla collettività su terreni di proprietà di comuni o di terzi e che hanno ad oggetto il pascolo, la pesca, caccia,
raccolta della legna, funghi etc. Per collettività si intende la frazione, la collettività comunale o collettività infra comunali.
25.L’uso dei beni pubblici
Il regime peculiare dei beni pubblici posto dall’ordinamento generale riguarda la circolazione giuridica e la tutela. A ciò si
deve ora aggiungere il profilo del godimento e dell'uso: anche esso è particolare e assai differente rispetto a quello della
proprietà privata.
Per una prima categoria di beni, la distanza rispetto alla proprietà privata è meno marcata, atteso che ne è consentito
essenzialmente l'uso diretto e riservato al proprietario pubblico che lo impiega per lo svolgimento dei propri compiti,
garantito talora con norme che addirittura sanzionano penalmente l'uso del bene da parte di altri.
In molti altri casi, il bene è in grado di soddisfare anche altre esigenze: si realizza così l'uso promiscuo. Si pensi alle strade
militari che, accanto all'interesse della difesa, sono in grado di soddisfare l'interesse generale della pubblica circolazione.
All'estremo opposto rispetto all'uso diretto si collocano le situazioni in cui interessi diversi da quelli che fanno capo al
titolare del diritto dominicale possono e debbono ottenere soddisfazione mediante l'uso del bene. Ciò avviene mediante il
riconoscimento dell'uso generale di quei beni pubblici che assolvono la loro funzione a servizio della collettività.
Vi sono, infine, situazioni in cui i soggetti privati non si limitano ad entrare in rapporto diretto con il bene ma il bene è
posto al servizio di singoli soggetti (uso particolare). È questo il caso delle riserve di pesca, delle concessioni di bene
pubblico, delle concessioni di derivazione di acque pubbliche. Qui l’amministrazione, così come per i beni ad uso generale,
deve regolamentare e organizzare l’uso da parte dei terzi.
26. I beni privati di interesse pubblico: in particolare, i beni culturali appartenenti ai privati. Le reti. I commons.
La dottrina individua una categoria ampia di beni che comprende quei beni che appartengono a soggetti pubblici e beni in
proprietà dei privati: si tratta dei beni di interesse pubblico, quali per esempio strade vicinali, autostrade gestite da privati
concessionari.
La ormai totalità dei beni, specie immobili, è ormai sottoposta a regime amministrativo, nel senso che l’uso degli stessi e le
facoltà dei proprietari sono spesso regolati da norme che attribuiscono compiti alle amministrazioni: in questi casi
l’interesse pubblico è immanente al bene, come accade nel caso dei beni culturali di proprietà privata, in specie opere di
grande valore oggetto di dichiarazione ministeriale che accerti la sussistenza dell’interesse culturale ma che sono di
proprietà di un privato. In dottrina si è perciò proposto di configurare il bene culturale come bene immateriale di proprietà
pubblica e distinto dal bene patrimoniale privato di cui quelle cose costituiscono il supporto materiale del bene. Dalla
qualificazione del bene come culturale deriva la presenza di due regimi: quello privato relativo alla titolarità formale del
bene e quello pubblicistico connesso al rilievo del pubblico interesse del bene.
Emerge dunque un conflitto tra regime demaniale e normativa specifica dei beni culturali stessi. L’art. 822 cc si riferisce
agli “immobili riconosciuti di interesse storico, archeologico e artistico nonché alle raccolte dei musei, di pinacoteche,
archivi, biblioteche” mentre l’art. 53 d.lgs. 42/2004 afferma che “i beni culturali di cui all’art. 822 cc costituiscono il
demanio culturale”. L’art. 55 d.lgs. 42/2004 dispone che per i beni culturali che facciano parte del demanio culturale e che
non rientrino nel campo di applicazione dell’art. 54 non vige la regola dell’inalienabilità ma quella dell’alienabilità previa
autorizzazione ministeriale. Ecco dunque prevalere il regime dei beni culturali su quello demaniale.
Un caso analogo a quello dei beni demaniali riguarda le reti (si intendono le reti stradali, autostradali, comunicative) gestite
dai privati e necessarie per erogare servizi. Le reti costituiscono un fattore di condizionamento della concorrenza tra gli
operatori che devono avvalersi di esse per prestare servizi sul mercato.
Altra categoria è quella dei c.d. commons. Si tratta di risorse che contengono sia aspetti relativi ai beni pubblici (una volta
prodotto il bene diventa impossibile escludere un soggetto dalla fruizione) sia aspetti relativi a beni privati in senso
economico (rivalità: la fruizione da parte di uno impedisce l’utilizzo ad altro soggetto). Tali beni, vista la difficoltà di
essere classificati, vengono considerati come beni ad appartenenza collettiva ma nulla viene detto in merito alla loro
funzione. Oggi il dibattito riguarda la possibilità di privatizzare o pubblicizzare questi beni. In ogni caso è pacifico che sia
responsabilità di tutti assicurarne un uso sostenibile, come nel caso dei commons ambientali o ittici.
Capitolo IV
L’ORGANIZZAZIONE DEGLI ENTI PUBBLICI
1.Cenni all’organizzazione statale: quadro generale
Lo Stato-amministrazione può essere qualificato come ente pubblico. L’aspetto problematico è quello relativo carattere
unitario della sua personalità, considerando che oggi l’amministrazione statale ha perso la sua originaria compattezza.
Tuttavia vi sono degli indici che fanno propendere per il carattere unitario dello Stato-amministrazione. Tra questi si
ricordano la responsabilità unitaria dello Stato verso terzi, la presenza di strutture organizzative di raccordo orizzontale che
uniscono le varie organizzazioni statali.
2.In particolare: il governo e i ministeri
Al vertice dell’organizzazione statale è collocato il governo, formato dal Presidente del Consiglio dei ministri, dal Consiglio
dei Ministri e dai ministri. In realtà, anche il Presidente della Repubblica svolge alcune funzioni attinenti all’attività
amministrativa, come per esempio il potere di nominare i più alti funzionari e l’emanazione dei regolamenti governativi.
Ai sensi dell’art. 5 l. 400/1988, il Presidente del Consiglio dei Ministri ha i seguenti compiti: “indirizza ai ministri le
direttive politiche e amministrative in attuazione delle deliberazioni del consiglio dei ministri, nonché quelle connesse alla
propria responsabilità di direzione della politica generale del governo”; “Coordina e promuove l’attività dei ministri in
ordine agli atti che riguardano la politica generale del governo”; “Adotta le direttive per assicurare l’imparzialità, il buon
andamento e l’efficienza dei pubblici uffici”; “Può disporre l’istituzione di particolari comitati di ministri, ovvero di gruppi
di studio e di lavoro”.
La presidenza del consiglio ha una sua struttura organizzativa, alla quale fanno capo vari dipartimenti e uffici: responsabile
del funzionamento del segretariato generale e della gestione delle risorse umane e strumentali della presidenza è il
segretario generale. Ogni dipartimento si riparte in uffici e ogni ufficio è ripartito in unità operative di base (i servizi).
Il presidente individua gli uffici di diretta collaborazione propri e quelli dei ministri senza portafoglio (che, pur essendo
membri del governo, non sono titolari di dicasteri e non hanno un apparato organizzativo di uffici).
Le funzioni del Consiglio dei Ministri sono quelle ex art. 2 l. 400/1988: ha funzione di indirizzo politico-amministrativo
ma ha anche poteri di indirizzo e coordinamento, nonché di annullamento di ufficio di atti amministrativi.
I ministri sono gli organi politici di vertice dei vari dicasteri, il cui numero e la loro organizzazione sono disciplinati dal
d.lgs. 130/1999. Hanno una doppia anima: da un lato sono organi costituzionali, dall’altro sono i vertici
dell’amministrazione. Per l’esercizio delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo, il ministro si avvale di uffici di
diretta collaborazione (staff) che hanno “esclusive competenze di supporto e di raccordo con l’amministrazione”: si tratta di
uffici di alta amministrazione, che devono tradurre in obiettivi e programmi gli indirizzi politici.
Il ministro può poi essere coadiuvato da uno o più sottosegretari nominati con decreto del presidente della repubblica.
Questi giurano davanti al presidente del consiglio dei ministri ed esercitano le funzioni loro delegate con decreto
ministeriale. A non più di dieci sottosegretari può essere conferito il titolo di vice ministro se ad essi sono conferite da
ministro competente deleghe relative all’intera area di competenza di una o più strutture dipartimentali.
I ministeri svolgono, per mezzo della loro organizzazione, nonché per mezzo delle agenzie, le funzioni gestionali di
competenza statale. Le agenzie sono strutture che svolgono attività a carattere tecnico-operativo di interesse nazionale e di
natura non economica. Gli obiettivi attribuiti all’agenzia sono definiti da apposita convenzione da stipularsi tra il ministro
competente e il direttore generale. Esse hanno autonomia nei limiti stabiliti dalla legge e sono sottoposte al controllo da
parte della Corte dei conti nonché ai poteri di vigilanza del ministro. Esempi di agenzie sono l’agenzia delle dogane e dei
monopoli di Stato, l’Aran, l’agenzia italiana del farmaco.
3.Le strutture di raccordo tra i vari ministeri
Un ruolo primario nel coordinamento tra ministeri viene svolto dal Presidente del consiglio, il quale ai sensi dell’art. 95
Cost. “mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri”. Altre
strutture di raccordo sono:
• il consiglio di gabinetto -> organo collegiale composto da presidente del consiglio e dai ministri da lui designati,
sentito il consiglio dei ministri
• i comitati interministeriali -> essi possono essere formati anche da esperti e da rappresentanti delle
amministrazioni. Tra i comitati interministeriali si ricordano:
o il Cipe (comitato interministeriale per la programmazione economica) -> è presieduto dal presidente del
consiglio dei ministri ed è composto da ministri. È competente in via generale su questioni di rilevante
valenza economico-finanziaria, e/o con prospettive di medio lungo termine, che necessitino di un
coordinamento a livello territoriale o settoriale.
o Il Cicr (comitato interministeriale per il credito e il risparmio): si occupa di politica creditizia, esercitando
poteri di direttiva nei confronti del Tesoro e della Banca d’Italia.
• Gli uffici centrali del bilancio -> sono presenti in ogni ministero con portafoglio, sono dipendenti dal
dipartimento della Ragioneria dello Stato del ministero dell’economia.
• Le ragionerie provinciali -> si occupano delle amministrazioni statali decentrate e sono raggruppate in dieci
circoscrizioni territoriali. Esse dipendono organicamente e funzionalmente dal dipartimento della Ragioneria
generale e svolgono altresì compiti di tenuta delle scritture contabili, di programmazione dell’attività finanziaria.
• L’Istat -> servizio nazionale di statistica, che si articola in una serie di uffici presenti presso ciascun ministero
• L’Avvocatura dello Stato -> composta da legali che forniscono consulenza alle amministrazioni statali e
provvedono alla loro difesa in giudizio. Al suo vertice vi è l’Avvocato generale dello Stato, che ha sede a Roma e
viene nominato con d.p.r. su proposta del Presidente del consiglio dei ministri. Pur facendo capo alla presidenza del
consiglio, l’Avvocatura svolge le proprie funzioni in modo indipendente.
• Il servizio di Tesoreria dello Stato -> è costituito dall’insieme di operazioni e atti attraverso i quali il denaro
acquisito dallo Stato viene raccolto, conservato e impiegato. Per gli uffici dell’amministrazione centrale statale il
servizio veniva svolto dalla direzione generale del tesoro ma con il d.lgs. 430/1997 si è stabilito che tale compito
veniva affidato alla Banca d’Italia. Con la l. 196/2009 si è poi previsto che gli enti locali possono gestire fuori dalla
tesoreria dello Stato tutte le entrate proprie: questo sistema è stato tuttavia sospeso dal d.l. 1/2012, dove si prevede
che gli enti locali, anche se dotati di un proprio tesoriere, devono mantenere le proprie disponibilità liquide in
contabilità speciali presso le sezioni di tesoreria dello Stato.
4.Il consiglio di Stato, la Corte dei conti e il Cnel
All'unità dell'azione dello Stato infine è preordinata l'attività di altri organi che svolgono funzioni strumentali rispetto
all'attività degli organi costituzionali. Essi, qualificati come poteri dello Stato, sono costituiti dal Consiglio di Stato, dalla
Corte dei Conti e del Consiglio Nazionale dell'Economia e del lavoro e sono inseriti dalla costituzione nell'ambito degli
organi ausiliari del governo. Due di essi, però, il Consiglio di Stato e la Corte dei conti, non fanno parte
dell'amministrazione statale, essendo in realtà organi dello Stato-comunità.
Il Consiglio di Stato è l’organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia dell’amministrazione. Si
tratta di un autonomo potere dello Stato che può rendere pareri anche alle regioni. Le sezioni consultive del CdS sono 3 (I,
II, III) cui si aggiunge quella istituita ex l. 127/1997 per l’esame degli schemi di atti normativi in ordine ai quali il parere è
prescritto per legge o è comunque richiesto dall’amministrazione.
La Corte dei Conti esercita sia funzioni di controllo sia funzioni giurisdizionali, esercita altresì funzioni consultive con
riferimento ai disegni di legge governativi che modificano la legge sulla contabilità dello Stato e alle proposte di legge che
riguardano l’ordinamento e le funzioni della Corte. L’art. l. 131/2003 è intervenuta in materia di contabilità pubblica,
prevedendo che la corte non possa esprimere valutazioni su casi specifici. Accanto a tutte queste funzioni, vi sono poi le
funzioni certificative in materia di contrattazione collettiva: la Corte verifica l’attendibilità dei costi quantificati e la loro
compatibilità con gli strumenti di programmazione e bilancio. La Corte di conto esercita altresì anche funzione referente,
che trova fondamento nell’art. 100 Cost. ove si dispone che “la Corte riferisce direttamente alle camere sul risultato del
riscontro eseguito”.
La Corte dei conti è potere dello Stato quando svolge attività di controllo preventivo e successivo sulla gestione “dal
momento che tale funzione, per quanto ausiliare, risulta caratterizzata dalla piena autonomia dell’organo investito del suo
esercizio”, come affermato da Corte cost. (sent. 406/1989).
Con sent. 335/1995 la Corte cost. ha escluso la legittimazione delle sezioni di controllo della corte dei conti a sollevare
questioni di costituzionalità in sede di riscontro successivo di gestione mentre la corte può sollevare questione di
legittimità con riferimento alle leggi che la corte dei conti medesima deve applicare nell’esercizio della sua funzione di
controllo preventivo dei decreti governativi.
L’art. 108 comma 2 Cost. prevede che “la legge assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali”. Sotto il
profilo organizzativo, l’indipendenza della Corte dei conti è accentuata dalla presenza di un organo di autogoverno della
corte stessa, costituito dal consiglio di presidenza. La separatezza dall’esecutivo risulta in parte ridotta in ragione del fatto
che la nomina di una limitata quota dei posti di consigliere spetta al governo.
Per l’esercizio delle funzioni amministrative, la sede di Roma della Corte dei conti è composta da cinque sezioni di
controllo. In ogni regione esiste poi una sezione regionale di controllo, che è composta dal presidente e da almeno 3
magistrati (l’art. 11 l. 15/2009 prevede che, a seguito dell’introduzione dei controlli interni, vi sia adeguamento
dell’organizzazione delle strutture di controllo della corte dei conti, stabilendo che il numero, la composizione e la sede
degli organi della corte dei conti adibiti a compiti di controllo preventivo su atti o successivo su pubbliche gestioni siano
determinati dalla Corte stessa).
Ulteriore compito della corte dei conti è quello di nomofilachia: al fine di prevenire o risolvere contrasti interpretativi, la
sezione centrale di Roma della Corte dedita al controllo preventivo degli atti emana una delibera di orientamento alla quale
le sezioni regionali di controllo si conformano.
Il Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) previsto ex art. 99 Cost. come organo ausiliario del governo non
è inserito nell’apparato amministrativo. È composto dal presidente e da 64 membri e svolge compiti di consulenza tecnica
(rendendo pareri facoltativi) e di sollecitazione nelle materie dell’economia e del lavoro dell’attività del parlamento, del
governo e delle regioni.
5.Le aziende autonome e gli istituti pubblici
Le aziende autonome o amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo sono amministrazioni caratterizzate dal
fatto di essere incardinate presso un ministero e di avere, nonostante ciò, una propria organizzazione separata da quella
ministeriale (sebbene di solito siano rette dal ministro che ne ha rappresentanza). Le amministrazioni autonome svolgono in
genere attività tecnica, amministrano in modo autonomo le relative entrate, dispongono di capacità contrattuale e sono
titolari di rapporti giuridici. Visto che molte di esse sono destinate alla produzione di beni o prestazione di servizi sono state
trasformate in enti pubblici economici o società per azioni. Il loro bilancio e rendiconto sono allegati al bilancio dello Stato.
Tra queste aziende autonome si possono ricordare: l’Amministrazione autonoma delle poste e telecomunicazioni,
l’Azienda autonoma delle ferrovie dello Stato, l’Azienda nazionale autonoma delle strade, l’Ente nazionale di
assistenza al volo, la Cassa depositi e prestiti (tale soggetto finanzia Stato ed enti pubblici utilizzando fondi rimborsabili
sotto forma di libretti di risparmio postale e buoni fruttiferi postale e fondi provenienti dall’emissione di titoli,
dall’assunzione di finanziamenti e da altre operazioni finanziarie).
A livello locale vi sono poi aziende speciali che possono gestire i servizi pubblici: ad esempio le Aziende sanitarie locali.
Gli istituti pubblici sono invece organismi che fanno parte di un ente e creati per la produzione e la prestazione di beni e
servizi a terzi. È il caso degli istituti di istruzione, delle unità sanitarie locali e delle aziende di trasporto e di fornitura di
servizi. Tra gli istituti pubblici si possono ricordare: l’Iss (istituto superiore di sanità), musei e biblioteche statali cui sia
attribuita autonomia scientifica, finanziaria, organizzativa e contabile ex d.lgs. 368/1998.
6.Le amministrazioni indipendenti
L’esperienza legislativa più recente è caratterizzata dall’introduzione di modelli di amministrazione assai differenziati
rispetto a quelli tradizionali riconducibili all’art. 95 Cost.: le amministrazioni indipendenti. La loro costituzione è dovuta
al verificarsi di più fattori quali, ad esempio, l’arretramento dello Stato dal mercato e il tramonto del modello di intervento
pubblico dirigistico dell’economia, l’incapacità dell’organizzazione amministrativa tradizionale di provvedere ai compiti ad
essa attribuiti in taluni ambiti, la pressione europea per un modello di regolazione indipendente in alcuni settori chiave quali
la concorrenza, le banche, l’energia.
Con l’introduzione delle autorità indipendenti, la struttura organizzativa dell’amministrazione statale è stata parzialmente
modificata rispetto al passato: ora compiti di particolare rilevanza sono affidati a soggetti dotati di notevole indipendenza
rispetto al governo e gli organi politici. Si evince come l’introduzione delle autorità indipendenti abbia comportato un
diverso modello di intervento sul mercato da parte del potere pubblico e l’emergere di una nuova funzione: non più la
presenza diretta di imprese pubbliche ma l’assunzione di un ruolo di controllo e regolazione che si manifesta nello slogan
“meno Stato, più mercato”.
Tra le autorità indipendenti si ricordano: la Banca d’Italia, la Consob (che si occupa del mercato dei prodotti finanziari
assicurandone la trasparenza e garantendo la completezza delle informazioni), l’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni,
l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, l’Autorità per l’energia elettrica e il gas, l’Autorità di regolazione dei
trasporti, il Garante per la tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali.
Per quanto riguarda la Banca d’Italia, questa è qualificata come ente pubblico a struttura associativa, che svolgeva sia
funzione monetaria sia di vigilanza sulle aziende di credito e di governo del settore valutario e monetario. In forza del
regolamento 1024/2013 la funzione monetaria è stata trasferita alla Bce, cui spetta anche la vigilanza sulle banche di
dimensioni maggiori. Al vertice della Banca d’Italia vi si trova il Governatore, il cui mandato dura 6 anni con possibilità di
rinnovo per una volta; egli viene nominato con d.p.r. su proposta del Presidente del consiglio ed è affiancato da un
direttorio.
Dal punto di vista strutturale, alcune di tali autorità non hanno neppure personalità giuridica: ad esempio l’autorità garante
della concorrenza e del mercato; si aggiunga che alcune autorità (es. Consob) operano anche con riferimento a soggetti
economici stranieri. Ciò rende ardua la sicura individuazione di un modello di autorità indipendente valido per tutte le
ipotesi. La figura comunque ha natura amministrativa.
Si discute se le autorità indipendenti si caratterizzino, sotto il profilo funzionale, in ragione dello svolgimento di funzioni
omogenee: a riguardo è difficile dare una risposta in generale. Si osserva che esse si differenziano da altri organi dello Stato
perché esercitano funzioni non già consultive o di controllo, bensì di amministrazione attiva. Le autorità indipendenti sono
titolari di poteri provvedimentali sia sanzionatori sia regolamentari e in alcuni casi gestiscono procedure di conciliazione.
Esercitano anche funzioni giustiziali, risolvendo con decisioni autoritative dispute e decidendo reclami che non richiedono
il previo accordo delle due parti.
In generale, si assiste dunque ad una deroga al principio di separazione dei poteri. Inoltre le autorità di regolazione
dispongono di poteri ulteriori, come ad esempio nel caso dell’Agcm quello di impugnare gli atti amministrativi.7
Va ancora osservato che alcuni principi classici del diritto amministrativo subiscono un qualche adattamento: così accade
per il principio di legalità che la giurisprudenza ha interpretato talora in senso meno rigoroso, giustificando la presenza di
poteri impliciti in capo alle autorità.
I vertici delle autorità diverse da quelle che operano nel settore delle telecomunicazioni, elettricità e del gas (i vertici di
queste autorità sono nominati con d.p.r. su proposta del Presidente del consiglio) sono nominati o designati dai presidenti
delle camere o eletti per metà dalle camere e per metà dal senato. I vertici sono collegiali. Alla cessazione dell’incarico i
componenti non possono essere nuovamente nominati componenti di un’autorità indipendente per un periodo pari a 2 anni.
Ciò che caratterizza queste autorità è il requisito dell’indipendenza dal potere politico del Governo, sebbene a questo
devono comunque trasmettere relazioni in ordine all’attività svolta. Come conseguenza della loro indipendenza, le autorità
indipendenti non sono tenute a conformarsi all’indirizzo politico del governo e adottano, in posizione di relativa terzietà,
decisioni simili a quelle degli organi giurisdizionali. Una caratteristica che permette di qualificare le autorità indipendenti è
quella della neutralità, vale a dire esse sono indifferenti rispetto agli interessi che sono in gioco: sotto questo profilo questi
soggetti si differenziano dagli altri enti pubblici i quali sono, in qualche modo, rapportati allo Stato. Le amministrazioni
indipendenti invece rispondono alla logica di dislocare “al di fuori della sfera di influenza politica settori amministrativi
ritenuti particolarmente delicati”.
Proprio perché non rispondono politicamente all’esecutivo, alcuni autori hanno sollevato dubbi di legittimità costituzionale
di queste figure: si sosteneva che, essendo prive di copertura costituzionale, sfuggissero al modello generale fondato sul
principio delle responsabilità ministeriale. Alcuni, per legittimarle, sostenevano invece che tali autorità avessero natura
squisitamente tecnica dei poteri loro attribuiti, il cui fine era quello volto alla tutela dei valori costituzionali quali privacy,
risparmio, tutela dei consumatori etc; tuttavia tale teoria non regge perché molti dei poteri delle autorità indipendenti non
sono squisitamente tecnici.
La dottrina ha cercato di valorizzare, in passato, il rapporto diretto di legittimazione politica che corre tra autorità e
parlamento, il quale vigila e controlla tali soggetti. In forza di ciò, le autorità indipendenti sono state inserite nel circuito
della responsabilità politica, ma esclusi dal meccanismo di quella ministeriale.
Accanto al tema dell’indipendenza, altra questione centrale è quella relativa alla discrezionalità tecnica di cui le autorità
indipendenti godono. A riguardo, mancando un modello normativo unitario, le autorità indipendenti sono raggruppate
secondo diversi modelli:
• autorità che agiscono in modo trasversale -> al fine di proteggere un determinato interesse esse esercitano i propri
poteri con riferimento alla pluralità di soggetti che operano in un certo ambito
• autorità che vigilano su mercati settoriali -> come ad esempio la Consob e Banca d’Italia
• autorità preposte alla vigilanza e regolazione di alcuni mercati dei servizi pubblici -> hanno la caratteristica di
essere stati liberalizzati. In tema di liberalizzazione, intesa come apertura del mercato, occorre precisare che un
conto è liberalizzare un settore nel senso di rimettere completamente alla dinamica del mercato la cura di interessi
rilevanti, altro conto è intervenire per ridurre limiti e vincoli là dove gli ostacoli da rimuovere sono giuridici, nel
senso che le misure sostanzialmente protezionistiche impediscono l’accesso di nuovi operatori al mercato. In questo
secondo caso, si deve procedere all’abbattimento delle barriere giuridiche e dei regimi amministrativi. Nel caso in
cui si procede alla liberalizzazione di un certo settore, ne consegue la necessità di interventi amministrativi che ne
accompagnino l’apertura, ma senza eliminare in radice i poteri pubblici: si impone anche una regolazione, posto
che una liberalizzazione pura lascerebbe irrisolto il problema di salvaguardare esigenze collettive a fronte della
pluralità di gestori. Vengono quindi ad essere create delle regole di comportamento suscettibili di evitare il pericolo
che la ricerca del profitto frustri finalità sociali e collettive. Inoltre la regolazione mira a garantire che la
competizione avvenga ad armi pari impedendo ad esempio la formazione di posizioni restrittive della concorrenza.
Ma la nozione di regolazione può anche essere intesa in senso lato quale introduzione di regole applicabili ai
soggetti che operano sul mercato. Rispetto al passato e ai vecchi modi di intervento nell’economia, la regolazione
non può perseguire finalità dirigistiche o di protezione degli operatori già presenti sul mercato, ma deve avere di
mira l’obiettivo della tutela della concorrenza nel mercato, nonché quello della tutela degli utenti e di altri valori.
Tra le autorità di regolazione si può ricordare l’Autorità per l’energia elettrica e il gas, l’Autorità per le garanzie
delle comunicazioni: queste hanno il compito di regolare e controllare un settore sensibile, proteggendo gli interessi
degli utenti e disponendo di poteri di segnalazione, fissazione degli standard, criteri e parametri di riferimento.
Figura che invece si occupa di questioni diverse da quelle che impegnano le autorità ma che presenta con esse profili di
analogia è il difensore civico: in precedenza vi era il difensore civico comunale che però, con la l. 191/2009, è stato
soppresso e le sue funzioni sono ora attribuite al difensore civico provinciale. Egli è quel soggetto che fa da snodo
informale tra cittadini e poteri pubblici, in grado di assicurare una maggiore trasparenza dell’organizzazione
amministrativa. La legge attribuisce a tale organo una pluralità di funzioni che costituiscono il limite stesso dell’istituto:
tutela dei cittadini, difesa della legalità, ricerca della trasparenza, finalizzare l’azione volta al miglioramento dei rapporti
cittadini- amministrazione, responsabilizzazione dei soggetti pubblici. Il difensore civico non può annullare o riformare atti,
non può imporre misure sanzionatorie o emanare provvedimenti decisori.
7.Gli enti parastatali e gli enti pubblici economici
Gli enti parastatali sono stati istituiti con l. 70/1975. La legge in questione si applica a tutti gli enti, con esclusione di
quelli espressamente indicati e li raggruppa in 7 categorie, in base al settore di attività: gli enti che gestiscono forme
obbligatorie di previdenza e assistenza; gli enti di promozione economica; gli enti preposti a settori di pubblico interesse;
gli enti preposti ad attività sportive, turistiche e del tempo libero; gli enti scientifici di ricerca e sperimentazione; gli enti
culturali; gli enti culturali e di promozione turistica.
Ricompreso tra gli enti parastatali vi è il Coni, soggetto che si pone al vertice dell’ordinamento sportivo pubblicistico
italiano e che svolge compiti di potenziamento dello sport nazionale e di sorveglianza e tutela delle organizzazioni sportive,
in particolare delle federazioni sportive nazionali.
Altra categoria di entri strumentali è quella degli enti pubblici economici: sono enti titolari di impresa e agiscono con gli
strumenti di diritto comune. La tendenza legislativa è quella di trasformarli in società per azioni, sebbene non si tratti di
regola assoluta. In dottrina e giurisprudenza non vi è unanimità di vedute in merito alla nozione di economicità: talora si
richiede la necessità che l’attività sia svolta per fini di lucro in regime di concorrenza, altre volte per economicità si intende
l’astratta idoneità a conseguire utili previsti in funzione della remunerazione del costo di produzione o di scambio di beni o
servizi.
All’interno degli enti economici si distingue tra enti che svolgono direttamente attività produttiva di beni e servizi ed enti
che detengono partecipazioni azionarie in società a capitale pubblico (Iri ed Eni). Poiché tali enti operano con gli strumenti
del diritto comune, si contesta ad essi la riferibilità dell’autarchia; in ogni caso un minimo di potestà pubblica esiste,
pertanto essi possono emanare provvedimenti amministrativi.
Gli ordini e collegi professionali sono enti pubblici associativi che sono esponenziali della categoria di professionisti che
realizzano l’autogoverno della categoria stessa. Normalmente gli ordini riguardano soggetti che per svolgere la professione
hanno bisogno della laurea, come nel caso di avvocati, ingegneri, medici, dottori commercialisti.
Le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura sono enti di diritto pubblico che svolgono funzioni di
interesse generale per il sistema delle imprese. Sono enti ad appartenenza necessaria di tipo associativo, a competenza
territorialmente limitata, che raggruppano commercianti, industriali, agricoltori e artigiani. L’art. 1.4. lett. d) l. 59/1997
esclude il conferimento a regioni, province e comuni dei compiti esercitati localmente in regime di autonomia funzionale
delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, configurate come autonomie funzionali.
8.L’amministrazione statale periferica
L’amministrazione dello Stato è presente non solo al centro, ma anche sul territorio nazionale secondo il modello del
decentramento burocratico, il quale ha dato luogo all’amministrazione statale periferica.
Al vertice di ogni ufficio periferico è presente un dipendente del ministero, mentre la difesa in giudizio e le funzioni
consultive spettano alle avvocature distrettuali dello Stato, che hanno sede in ogni capoluogo in cui opera una corte
d’appello. Il controllo sulla spesa è esercitato dalle ragionerie territoriali dello Stato. Il servizio di tesoreria provinciale è
affidato alla Banca d’Italia, che lo esercita tramite le proprie sedi e succursali presenti in ogni provincia.
Le ripartizioni periferiche sono svariate: vi è peraltro un organo periferico che, storicamente, ha assunto un ruolo prevalente
nell’ambito provinciale. Si tratta del prefetto, organo del ministero dell’interno, preposto all’ufficio territoriale del governo,
chiamato sia a rappresentare il potere esecutivo nella provincia sia a svolgere la funzione di tramite tra centro e periferia.
Col tempo il prefetto ha perso molte delle sue funzioni, comportando il trasferimento delle sue funzioni alle regioni stesse.
Nonostante ciò, il prefetto ha, tra i suoi compiti, il mantenimento dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica nella
provincia.
L’art. 11 d.lgs. 300/1999 ha trasformato le prefetture in Prefetture-uffici territoriali del governo. Tali uffici “assicurano
l’esercizio coordinato dell’attività amministrativa degli uffici periferici dello Stato e garantiscono la leale cooperazione dei
medesimi con gli enti locali”. Sempre questo d.lgs. ha istituito la conferenza provinciale permanente dei responsabili
degli uffici statali, presieduta dal prefetto e composta dai responsabili degli uffici decentrati delle amministrazioni statali.
Il d.l. 95/2012 dispone che “la prefettura assicura, nel rispetto dell’autonomia funzionale e operativa degli altri uffici
periferici delle amministrazioni statali, le funzioni di rappresentanza unitaria dello Stato sul territorio, tra l’altro, mediante
costituzione presso ogni prefettura-ufficio territoriale del governo di un ufficio unico di garanzia dei rapporti tra cittadini e
Stato”.
In ordine al problema del rapporto, a livello regionale, tra le funzioni amministrative statali e quelle regionali, deve essere
ricordato che la Costituzione ne affidava il coordinamento al Commissario del governo nella regione: tale figura è stata
abrogata con l. cost. 3/2001 per le regioni a statuto ordinario.
9.L’organizzazione amministrativa territoriale non statale: la disciplina costituzionale e le recenti riforme
L’attuazione del disegno costituzionale, che prevede la presenza delle regioni demandando a leggi della Repubblica la
regolazione del passaggio ad esse delle funzioni statali, ha incontrato una serie di difficoltà dovute al condizionamento del
centralismo. Un impulso al perfezionamento del sistema regionale è avvenuto con la l. 59/1997, che ha dato attuazione al
titolo V della Costituzione, che imponeva l’attribuzione alle regioni delle funzioni loro spettanti, nel segno del
rafforzamento delle autonomie territoriali. La legge in questione ha utilizzato il termine conferimento, comprensivo dei
vari istituti mediante i quali funzioni e compiti potevano essere assegnati, nel quadro costituzionale allora vigente, a regioni,
comuni, province, comunità montane e altri enti locali. Tale legge era ispirata al principio di sussidiarietà, realizzato
attraverso la ripartizione delle funzioni tra Stato e regioni, ove si disponeva che la competenza in generale è della regione,
fatti salvi i compiti e le funzioni statali attinenti ad una serie di materie. Il comma 4 dell’art. 118 Cost. lasciava poi allo
Stato alcuni compiti in via esclusiva. Con il d.lgs. 112/1998 si è concretamente realizzato il conferimento di funzioni e
compiti alle regioni; tra le materie interessate dal conferimento vi erano: sviluppo economico e attività produttive, territorio,
ambiente e infrastrutture, servizi alla persona e alla comunità, polizia amministrativa locale e regionale.
L’art. 4 comma 1 l. 59/1997 disponeva che la regione conferiva a province, comuni e altri enti locali “tutte le funzioni che
non richiedono l’unitario esercizio a livello regionale”.
La riforma del titolo V della Costituzione avvenuta con l. cost. 3/2001 ha comportato la modifica della fisionomia delle
regioni, sia sotto il profilo delle funzioni legislative sia amministrative. In specie, la modifica dell’art. 118 Cost. dispone
che i comuni sono titolari di tutte le funzioni amministrative, secondo il modello dei poteri originari; tale lettura si ricava
dal coma 1 art. 118 Cost. Tuttavia un’altra lettura dell’articolo in questione riteneva che le funzioni e i poteri sono conferiti
a comuni, province, città metropolitane da regioni e Stato (poteri derivati): tale lettura si ricava dall’art. 118.2 Cost. ove si
parla di “funzioni conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”. L’opinione maggioritaria è
quella secondo cui occorre una legge per distribuire le funzioni che comportino l’esercizio di poteri amministrativi,
considerando che l’art. 118 Cost. esprime al più un indirizzo per il legislatore a favore dei comuni. Ciò non esclude che vi
sia un’area di funzioni proprie, che eccede l’esercizio di poteri pubblicistici e che l’ente pubblico, sempre che si tratti di
attività espressione dei bisogni della collettività e connaturate al nucleo storico dell’ente, può svolgere esercitando capacità
di diritto privato anche senza copertura legislativa. Tuttavia la Corte Cost. ha negato che esistano funzioni ontologicamente
locali (sent. 238/2007).
La Costituzione si preoccupa di esplicitare i principi che debbono essere rispettati: sussidiarietà, differenziazione e
adeguatezza, chiarendo che anche la distribuzione ha la finalità di assicurare l’esercizio unitario delle funzioni
amministrative.
Si è a lungo discusso se, con riferimento alle materie in ordine alle quali sussiste la competenza legislativa regionale, vi
fossero spazi per un intervento del legislatore statale: la Corte cost. con sent. 303/2003 ritiene che il legislatore statale,
anche se si tratta di competenza legislativa regionale, abbia spazio per intervenire, specialmente ad esempio in materie di
grandi opere. Con questa sentenza, la Corte cost. ha individuato un’ulteriore ambito di potestà legislativa statale non
previsto dall’art. 117 Cost: vale a dire della disciplina delle funzioni amministrative affidate allo Stato. Secondo la corte, la
possibilità di attrarre verso lo Stato la funzione amministrativa giustifica la sussistenza della potestà legislativa statale di
regolarne l’esercizio. Lo spostamento della funzione, però, è subordinato al rispetto del metodo dell’intesa con la Regione.
Accanto alle funzioni proprie degli enti locali, vi sono poi le funzioni fondamentali di comuni, province e città
metropolitane, che danno sostanza all’autonomia e alla missione che l’ente è chiamato a svolgere in seno all’ordinamento.
Ai sensi dell’art. 117.2 lett. p) le funzioni di comuni, province e città metropolitane è rimessa unicamente alla legge dello
Stato. La Corte cost. con sent. 22/2014 ha chiarito che l’individuazione delle funzioni fondamentali di tali enti spetta allo
Stato, mentre la disciplina e l’organizzazione della funzione spetta a chi, Stato o regione, è intestatario della materia cui la
funzione medesima si riferisce.
Ciò specificato in generale, al fine di tratteggiare con maggiore precisione il ruolo delle regioni, occorre esaminarne più da
vicino le attribuzioni. Le regioni dispongono di potestà legislative e amministrative.
L’art. 117 Cost. prevede la potestà legislativa regionale c.d. concorrente, relativamente ad alcune materie e stabilisce che
“alle regioni spetta la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello
Stato”.
Ai sensi dell’art. 118 Cost., le regioni esercitano altresì funzioni amministrative, conferite ad esse “per assicurarne
l’esercizio unitario”, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza: queste funzioni dovranno
comunque essere individuate dalle leggi statali e regionali.
Allo Stato, tuttavia, rimangono poteri di indirizzo, come stabilito dall’art. 121 Cost., ai sensi del quale “il presidente della
giunta regionale dirige le funzioni amministrative delegate dallo Stato alla regione, conformandosi alle istruzioni del
governo della repubblica”. Con riguardo alla c.d. delega delle funzioni (conferite alla regione con legge statale), importante
è la sent. 259/2004 Corte cost. In ordine alle modalità di svolgimento delle funzioni, la Costituzione prevede pure “intese
con altre regioni” per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche con individuazione di organi comuni, come disposto
dall’art. 117.9 Cost.
Quanto ai limiti che le regioni incontrano nell’esercizio delle funzioni amministrative, punto centrale è dato dalla
configurazione di un potere governativo di indirizzo e coordinamento “attinente ad esigenze di carattere unitario”. L’art.
120 Cost. indica i casi in cui il governo può esercitare poteri sostitutivi: tale previsione tipizza le esigenze unitarie che erano
alla base del potere di indirizzo e coordinamento. La Corte Cost. con sent. 303/2003 ribadisce la presenza di istanze unitarie
in un ordinamento, attribuendo così al governo il potere di indicare criteri e di formulare direttive nei confronti di regioni e
province autonome “ai fini del soddisfacimento di esigenze di carattere unitario, del perseguimento degli obiettivi della
programmazione economica”.
Il nuovo art. 120 Cost. disciplina il potere sostitutivo del governo nei confronti degli “organi delle regioni, delle città
metropolitane, delle province, dei comuni in caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa
comunitaria oppure di grave pericolo per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedano la tutela
dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti
civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali”. L’ultimo comma poi dispone: “la legge definisce le
procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di
leale collaborazione”. La corte cost., con sent. 11/2005, ha ritenuto che l’art. 120 Cost. abbia introdotto un potere
governativo “straordinario”, finalizzato alla tutela di alcuni specifici interessi unitari.
10.I rapporti con lo Stato e l’autonomia contabile della regione
Il principio generale che regola i rapporti tra Stato e amministrazione periferica è quello della leale cooperazione, il cui
corollario dispone che i poteri vanno esercitati in base ad accordi e intese.
Strumento importante che regola i rapporti Stato-regione è la figura del Rappresentante dello Stato per i rapporti con il
sistema delle autonomie, nonché, come prevista ex art. 126 Cost., la Conferenza permanente per i rapporti tra Stato,
regione e le province autonome, con compiti di informazione, consultazione e raccordo in relazione agli indirizzi di
politica generale suscettibili di incidere nelle materie di competenza regionale. Nel 1996 è stata inoltre istituita la
Conferenza Stato-città-autonomie locali che ha compiti di coordinamento tra lo Stato e le autonomie locali, di studio e
confronto sulle problematiche connesse agli indirizzi di politica generale che possono incidere sulle funzioni proprie dei
comuni e province. Queste conferenze devono spesso esprimere intese.
Al fine di completare il discorso relativo alla posizione di autonomia di cui godono le regioni, occorre far cenno al
problema del potere governativo di annullamento degli atti amministrativi regionali, al sistema dei controlli statali delineato
dall’ordinamento in ordine agli atti regionali e all’autonomia finanziaria delle regioni. Per quanto riguarda il potere
governativo di annullare atti amministrativi regionali, la Corte cost. con la sentenza 229/1989 ha dichiarato incostituzionale
il potere in questione.
Per quanto riguarda i controlli, ai sensi dell’art. 125 Cost., gli atti amministrativi erano soggetti al controllo di legittimità
esercitato da un organo dello Stato: con l’abrogazione di detto articolo tale potere è venuto meno, tuttavia rimangono i
controlli esterni, finanziari e sul bilancio esercitati dalla Corte dei conti.
Per quanto attiene al controllo sugli organi, l’art. 126 Cost. prevede la possibilità che il consiglio regionale venga sciolto e
il Presidente della giunta rimosso con d.p.r. quando abbiano compiuto atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di
legge. Lo scioglimento del consiglio regionale può però avvenire anche per altre ragioni, quali ad esempio la sicurezza
nazionale, l’approvazione di una mozione di sfiducia del presidente della giunta, la morte o le dimissioni del presidente
della giunta regionale.
In ordine ai rapporti finanziari tra Stato e regione, ai sensi dell’art. 119 Cost., “le regioni, comuni, province e città
metropolitane hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa” ma solo “nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci e
concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea”.
Ai sensi del comma 2, esse “stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i
principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”. Ai sensi del comma 3, “dispongono di
compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio”.
Per quanto attiene al ruolo dello Stato, esso ha competenza esclusiva nella materia dell’armonizzazione dei bilanci pubblici,
mentre il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario è invece materia di legislazione concorrente: lo
Stato fissa quindi solo i principi fondamentali.
L’art. 119 cost., al comma 4, prevede l’istituzione di un “fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con
minore capacità fiscale per abitante” e, ai sensi dell’ultimo comma, la destinazione da parte dello Stato di “risorse
aggiuntive nonché l’effettuazione di interventi speciali in favore di determinate regioni o enti locali per promuovere lo
sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo
esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni”.
Le regioni e gli enti locali possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento, con la contestuale
definizione di piani di ammortamento e a condizione che per il complesso degli enti di ciascuna regione sia rispettato
l’equilibrio di bilancio.
L’art. 119 cost. ha trovato una prima attuazione in forza della l.d. 42/2009, che prevede che le regioni dispongano di tributi
propri e di compartecipazioni al gettito di tributi erariali. La delega è stata esercitata con d.lgs. 168/2011 sull’autonomia
tributaria di regioni e province e sui costi standard del sistema sanitario.
Dal principio di autonomia finanziaria deriva che la regione ha un bilancio autonomo rispetto a quello statale.
11.L’organizzazione regionale
Per quanto attiene all’organizzazione regionale, con specifico riguardo al diritto amministrativo, si rileva che: il consiglio
regionale esercita le potestà legislative e le altre funzioni ad esso conferite dalla costituzione e dalle leggi; la giunta
regionale è l’organo esecutivo che esercita potestà regolamentare; il presidente della giunta regionale rappresenta la
regione, dirige la politica della giunta e ne è responsabile, promulga le leggi ed emana i regolamenti regionali. Salvo che lo
statuto regionale disponga diversamente, il presidente della giunta è eletto a suffragio universale e diretto. Il presidente
nomina e revoca i componenti della giunta.
La l. 148/2011 dispone che le regioni debbono adeguare i rispettivi ordinamenti a taluni parametri relativi al numero
massimo di consiglieri e assessori.
Atteso che la regione dispone di funzioni amministrative, esiste anche un apparato amministrativo regionale, che si
distingue in centrale e periferico. Per la cura degli interessi ad essa affidata, la regione può avvalersi anche di enti pubblici
dipendenti, che sono uffici regionali entificati. Tra i soggetti di diritto pubblico che operano nell’ambito
dell’organizzazione regionale vi sono poi le aziende sanitarie locali, che hanno il compito di assicurare livelli di assistenza
sanitaria uniforme nel proprio ambito territoriale. Inoltre, le regioni possono assumere partecipazioni in società finanziarie
regionali il cui oggetto rientri nelle materie regionali. Ricordiamo infine la presenza di difensori civici regionali.
12.La posizione e l’organizzazione degli enti locali
Comuni, province e città metropolitane rappresentano ulteriori livelli di autonomia prevista dalla Costituzione.
Assieme alle regioni, ai sensi dell’art. 120 Cost., essi formano la categoria dei governi locali ed enti autonomi con propri
statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione. Il sistema locale è complesso: in linea di massima esso
si fonda sui principi della tipicità degli enti territoriali, che sono solo quelli previsti in Costituzione e della uniforme
disciplina di province e comuni; anche se tale scelta è stata criticata, in ragione del fatto che esiste una gran varietà di enti
locali.
L’art. 118 Cost. dispone: “le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio
unitario, siano conferite a province, città metropolitane, regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà,
differenziazione ed adeguatezza”.
Nel definire in cosa consistono gli enti locali occorre considerare l’art. 1 l. 59/1997, che prevede che enti locali siano anche
le comunità montane e consorzi. Tuttavia l’art. 2 T.U. enti locali precisa che per enti locali si intendono “i comuni, le
province, le città metropolitane, le comunità montane, isolane e le unioni di comuni”. All’art. 3 si dispone che “i comuni e
le province hanno autonomia statutaria, normativa, organizzativa e amministrativa, nonché autonomia impositiva e
finanziaria nell’ambito dei propri statuti e regolamenti e delle leggi di coordinamento della finanza pubblica”.
Punto importante nel processo di rafforzamento dell’autonomia degli enti locali è la disciplina del federalismo, nonché le
decisioni legislative relative al biennio 2010/12: si è previsto un ridimensionamento della fisionomia delle province e una
razionalizzazione delle funzioni dei comuni più piccoli.
13.Le funzioni e l’organizzazione del comune
Mentre la titolarità delle funzioni spetta allo Stato, l’esercizio di queste spetta al sindaco quale ufficiale di governo. Il
sindaco è quindi in questo caso organo dello Stato. Ma il sindaco, ai sensi dell’art. 54 T.U. enti locali può anche “adottare,
con atto motivato e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, provvedimenti contingibili e urgenti, al fine di
prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”. Tale norma, con sent.
115/2011, è stata dichiarata incostituzionale nella parte in cui consente al sindaco di emanare ordinanze praticamente senza
limiti, salvo quello finalistico, violando quindi l’art. 97 Cost per quanto attiene il principio di legalità sostanziale. Al
sindaco rimane quindi solo la facoltà di adottare ordinanze contingibili e urgenti.
Per quanto attiene le funzioni dei comuni, l’art. 118 Cost. attribuisce a questi funzioni amministrative. Il comma 2 specifica
che “comuni, province e città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge
statale e regionale, secondo le rispettive competenze”.
Esistono poi delle funzioni fondamentali, stabilite con legge statale, che gli enti devono obbligatoriamente svolgere: la l.
135/2012 a riguardo prevede che gli enti hanno come obbligo: l’organizzazione generale dell’amministrazione; la gestione
finanziaria e contabile nonché di controllo; l’organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale;
la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale; polizia municipale e polizia amministrativa locale.
L’art. 117.6 Cost. prevede poi che Comuni, province e città metropolitane hanno “potestà regolamentare in ordine alla
disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”.
Per quanto attiene alla vigente legislazione ordinaria, l’art. 3 T.U. enti locali definisce comune “quell’ente locale che
rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo”. L’art. 13 attribuisce al comune “tutte le
funzioni amministrative che riguardano la popolazione e il territorio comunale precipuamente nei settori organici dei servizi
sociali, dell’assetto e dell’utilizzo del territorio e dello sviluppo economico”. Questo è il quadro vigente fino al 2011,
momento in cui sono intervenute numerose riforme per i piccoli comuni, con l’intento di ridurre la spesa pubblica. La
disciplina attuale prevede che i comuni con popolazione fino a 5000 abitanti, ovvero fino a 3000 abitanti se appartengono
a comunità montane (esclusi i comuni il cui territorio coincide integralmente con quello di una o di più isole e il comune di
Campione d’Italia), esercitano obbligatoriamente in forma associata, mediante unione di comuni o convenzione, le
funzioni fondamentali. Tali convenzioni hanno durata almeno triennale.
Variabile è il numero e la composizione degli organi di governo del comune; per i comuni fino a 3000 abitanti questo è
composto dal sindaco, 10 consiglieri e massimo 2 assessori. Per i comuni che vanno da 3000 a 10000 abitanti, questi sono
composti dal sindaco, 12 consiglieri e massimo 4 assessori.
Organi di governo sono il sindaco, il consiglio e la giunta. Gli organi di governo durano in carica cinque anni. Il sindaco è
l’organo responsabile dell’amministrazione del comune. Esso rappresenta l’ente, convoca e presiede la giunta, sovrintende
al funzionamento dei servizi e degli uffici e all’esecuzione degli atti. Sulla base degli indirizzi stabiliti dal consiglio
comunale, provvede alla nomina, designazione e revoca dei rappresentanti dei comuni presso enti, aziende e istituzioni.
È rieleggibile per massimo 2 mandati consecutivi (salvo si tratti di comuni fino a 3000 abitanti). Nel caso di comuni con più
di 15000 abitanti, la carica di sindaco è incompatibile con quella di parlamentare o di membro del governo.
Il consiglio comunale è l’organo di indirizzo e controllo politico-amministrativo. Ha competenza limitatamente ad alcuni
atti fondamentali, tra i quali statuti, regolamenti, strumenti urbanistici generali e l’assunzione dei pubblici servizi.
Nei comuni con più di 15000 abitanti, i consigli comunali sono presieduti da un presidente eletto tra i consiglieri nella
prima seduta. Il presidente ha autonomi poteri di convocazione e di direzione dei lavori e delle attività del consiglio.
La giunta comunale è l’organo a competenza residuale. Essa, formata dagli assessori, collabora con il sindaco
nell’amministrazione del comune, attua gli indirizzi generali del consiglio e svolge attività propositiva e di impulso nei
confronti del consiglio. Il sindaco nomina i componenti della giunta, tra cui un vicesindaco. Le delibere della giunta
diventano esecutive dopo il decimo giorno dalla loro pubblicazione. Ai sensi dell’art. 90 T.U. enti locali, alle dirette
dipendenze del sindaco, giunta o degli assessori possono essere costituiti uffici di supporto per l’esercizio delle funzioni di
indirizzo e controllo.
Il sindaco è eletto a suffragio universale e diretto dei cittadini. Nei comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti è
previsto un sistema proporzionale con un premio di maggioranza. Il sindaco è eletto con un doppio turno elettorale, con
ballottaggio tra i due candidati che abbiano ottenuto il maggior numero di voti, salvo il caso in cui nella prima tornata un
candidato abbia ottenuto la maggioranza assoluta dei voti. Dopo la proclamazione, il sindaco giura dinnanzi al consiglio.
Nei comuni con popolazione sino a 15.000 abitanti, l'elezione dei consiglieri comunali si effettua con il sistema
maggioritario; il sindaco viene eletto contestualmente e la sua candidatura è collegata ad una lista di candidati alla carica di
consigliere. È eletto sindaco il candidato che abbia ottenuto il maggior numero di voti, mentre in caso di parità di voti si
procede al ballottaggio tra i due candidati che abbiano ottenuto il maggior numero di voti.
I dirigenti comunali sono responsabili, in relazione agli obiettivi dell’ente, della correttezza amministrativa e
dell’efficienza della gestione ed hanno il compito di attuare gli obiettivi e programmi predefiniti con atti di indirizzo
adottati dall’organo politico.
L’art. 108 T.U. enti locali prevede che il sindaco, per quei comuni con popolazione superiore ai 100.000 abitanti, previa
deliberazione della giunta comunale, possa nominare un direttore generale (conosciuto anche come city manager), al di
fuori della dotazione organica e con contratto a tempo determinato.
Al vertice della struttura burocratica dell’ente comunale è collocato il segretario comunale, organo alle dipendenze dello
Stato e nominato dall’amministrazione degli interni. Egli svolge compiti di collaborazione e funzioni di assistenza
giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell’ente in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi,
allo statuto e ai regolamenti. Inoltre, partecipa alle riunioni del consiglio con funzioni consultive e referenti; può rogare tutti
i contratti nei quali l’ente è parte e autenticare scritture private nell’interesse dell’ente. Infine, egli rende il parere di
regolarità tecnico-contabile sulle proposte di deliberazione sottoposte alla giunta e al consiglio allorché l’ente non abbia
funzionari responsabili dei relativi servizi.
13.1. Le funzioni e l’organizzazione della provincia
La l. 56/2014 definisce le province come enti con funzioni di area vasta. Le precedenti 107 province italiane sono state
trasformate in 97 enti di area vasta e in 10 città metropolitane. Le province esercitano alcune funzioni fondamentali:
pianificazione territoriale provinciale; pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale; autorizzazione e
controllo in materia di trasporto privato; costruzione e gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazione
stradale; programmazione provinciale della rete scolastica; raccolta ed elaborazione di dati, assistenza tecnico-
amministrativa agli enti locali; gestione dell’edilizia scolastica; controllo dei fenomeni discriminatori in ambito
occupazionale. Stato e regioni possono altresì attribuire alle province anche funzioni diverse secondo le rispettive
competenze.
Quanto agli organi (due dei quali eletti a suffragio indiretto), la legge contempla esclusivamente il presidente che dura in
carica 4 anni ed è eletto dai consiglieri dei comuni della provincia, il consiglio provinciale (organo di indirizzo e controllo,
composto da presidente e da 10/16 consiglieri, che dura in carica 2 anni; esso è eletto dai sindaci e dai consiglieri comunali
dei comuni; inoltre approva regolamenti, piani, programmi), e l’assemblea dei sindaci che è costituita dai sindaci dei
comuni che appartengono alla provincia (essa ha compiti consultivi, propositivi e di controllo secondo quanto previsto dallo
statuto provinciale).
14.I controlli sugli atti e sugli organi di comuni e province
Occorre ora affrontare il tema dei controlli ai quali l’attività e gli organi di comuni e province sono sottoposti e il tema della
loro autonomia finanziaria e tributaria. Controlli esterni molto severi sono oggi esercitati dalla Corte dei conti.
Ai sensi dell’art. 136 T.U. enti locali si prevede che, qualora i comuni e le province, sebbene invitati a provvedere entro un
congruo termine, ritardino o omettano di compiere atti obbligatori per legge, si provvede a mezzo di commissario ad acta,
il quale entro 60 giorni dal conferimento dell’incarico provvede.
Ai sensi dell’art. 138 T.U. enti locali vi è poi come forma di controllo l’annullamento straordinario governativo di cui
alla l. 400/1988.
Vi sono poi tutta una serie di controlli interni degli enti locali ex art. 147 ss T.U. enti locali: qui si prevedono sei tipologie
di controllo interno. Tali controlli sono organizzati dagli enti, nell’esercizio della propria autonomia, in osservanza al
principio di separazione tra funzione di indirizzo e compiti di gestione. Partecipano ai controlli il segretario dell’ente, il
direttore generale e, laddove previsto, i responsabili dei servizi e le unità di controllo. I controlli sono:
1. controllo di regolarità amministrativa e contabile -> su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla giunta e al
consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere, in ordine alla sola regolarità tecnica, del
responsabile del servizio interessato e, qualora comporti riflessi diretti e indiretti sulla situazione economico-
finanziaria dell’ente (cd. controllo di ragioneria), del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile.
Se giunta o consiglio comunale non intendono conformarsi al parere, devono darne adeguata motivazione nella
delibera. Per gli atti dirigenziali che comportino impegni di spesa è anche previsto il visto attestante la copertura
finanziaria. Il responsabile del servizio di ragioneria è preposto alla verifica della veridicità delle previsioni di
entrata e di compatibilità delle previsioni di spesa e della salvaguardia degli equilibri finanziari complessivi della
gestione e dei vincoli di finanza pubblica. Per quanto attiene alla procedura di controllo, essa consta di 2 fasi:
1. nella fase preventiva il controllo è effettuato in sede di rilascio del parere di regolarità tecnica, mentre il
controllo contabile è esercitato attraverso il rilascio del parere di regolarità contabile.
2. nella fase successiva il controllo di regolarità amministrativa è assicurato secondo principi generali di
revisione aziendale e modalità definite nell’ambito dell’autonomia organizzativa dell’ente. Sono oggetto di
controllo le determinazioni dell’impegno di spesa, i contratti e gli altri atti amministrativi.
2. controllo sugli equilibri finanziari -> esso viene svolto sotto la direzione e il coordinamento del responsabile del
servizio finanziario e mediante la vigilanza dell’organo di revisione.
3. controllo strategico -> l’ente locale definisce metodologie di controllo strategico finalizzate alla rilevazione dei
risultati conseguiti rispetto agli obiettivi predefiniti, degli aspetti economico-finanziari, dei tempi di realizzazione,
delle procedure operative attuate, della qualità dei servizi e del grado di soddisfazione della domanda espressa.
4. controllo di gestione -> esso ha ad oggetto l’intera attività, è disciplinato dall’art. 196 T.U. enti locali ed è volto ad
ottimizzare il rapporto tra obiettivi e azioni realizzate, nonché tra risorse e risultati. Si articola in 3 fasi:
predisposizione di un piano dettagliato degli obiettivi; rilevazione dei dati relativi ai costi ed ai proventi nonché
rilevazione dei risultati raggiunti; valutazione dei dati predetti in rapporto al piano degli obiettivi al fine di
verificare il loro stato di attuazione e misurare l’efficacia dell’azione intrapresa.
5. controlli sulle società partecipate -> sono esercitati dalle strutture proprie dell’ente locale. L’ente locale effettua
un monitoraggio periodico sull’andamento delle società, analizza gli scostamenti rispetto agli obiettivi assegnati e
individua le opportune azioni correttive.
6. controllo della qualità dei servizi erogati -> viene misurata la soddisfazione degli utenti esterni ed interni all’ente.
La disciplina del controllo sugli organi spetta allo Stato. La normativa ora vigente attribuisce il potere di potere di
scioglimento dei consigli comunali locali e provinciali al presidente della Repubblica, su proposta del ministro dell’interno.
Tra le cause di scioglimento vi sono: a) compimento di atti contrari alla costituzione; b) impossibilità di assicurare il
normale funzionamento degli organi; c) impedimento permanente, rimozione, decadenza, decesso del sindaco o presidente
della provincia. Con il decreto di scioglimento si provvede alla nomina di un commissario che esercita le funzioni fissate
nel decreto.
15.I rapporti finanziari e la contabilità nei comuni e nelle province
Per quanto attiene ai rapporti finanziari, si deve ricordare che l’art. 54 l. 142/1990 ha tentato di modificare l’impostazione
precedente (improntata ad una completa dipendenza della finanza locale da quella statale), riconoscendo al comune e alla
provincia autonomia finanziaria e potestà impositiva autonoma. Alla luce del nuovo art. 119 Cost., l’autonomia finanziaria
deve inquadrarsi nell’ambito del coordinamento della finanza pubblica. Ricordato che gli enti locali sono tenuti a rispettare
il principio del pareggio di bilancio, la possibilità per gli enti locali di istituire tributi propri trova un ulteriore limite
nell’art. 23 Cost., ove è richiesto che vi sia una legge che disciplini il tributo.
L’art. 119 Cost. prevede poi la compartecipazione al gettito dei tributi erariali riferibili al territorio degli enti e
l’istituzione di un fondo perequativo con legge statale: l’insieme di questi tributi e di queste entrate dovrebbe garantire il
finanziamento integrale delle funzioni pubbliche assegnate agli enti. Il comma 5 art. 119 Cost. prevede poi un altro tipo di
trasferimento da parte dello Stato: si tratta delle risorse aggiuntive e interventi speciali per rimuovere fattori di
disuguaglianza, favorire l’esercizio dei diritti della persona e per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle
funzioni. Con il d.l. 23/2011 in materia di fiscalità dei comuni, si è previsto l’istituzione di forma di compartecipazione al
gettito di imposte statali e si sono disciplinati i tributi propri autonomi che gli enti possono istituire e aumentare con atto
amministrativo.
Le operazioni di riscossione e pagamento, custodia e amministrazione dei titoli (servizio di tesoreria) vengono affidate a
istituiti di credito sulla base di procedure ad evidenza pubblica.
Sotto il profilo contabile, il T.U. enti locali prevede che il bilancio di previsione finanziaria debba essere redatto in termini
di competenza, mentre il rendiconto va articolato in conto del bilancio, conto economico e conto del patrimonio. È stata poi
stabilita l’obbligatorietà del piano esecutivo di gestione che indica gli obiettivi da perseguire, unitamente alle dotazioni e
risorse necessarie. Con il d.l. 118/2011 viene poi istituito presso il ministero dell’interno un osservatorio sulla finanza e
contabilità degli enti locali, nonché viene prevista la disciplina della situazione di dissesto con riferimento al caso in cui
l’ente non possa garantire l’assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili o esistano nei confronti dell’ente crediti
liquidi ed esigibili cui non sia stato fatto validamente fronte mediante le procedura di ripiano del disavanzo: in questo caso è
stata prevista un’apposita procedura, che prevede la nomina di un organo straordinario liquidatore che ha il compito di
rilevare la massa passiva, predisporre un piano di estinzione delle passività e di liquidare e pagare la massa passiva.
Viene poi prevista una misura sanzionatoria nei confronti dei revisori dei conti colpevoli di gravi irregolarità: vi è una pena
pecuniaria che è pari ad un minimo di 5 e fino a massimo 20 volte la retribuzione mensile lorda dovuta al momento della
commissione della violazione. L’art. 243 bis T.U. enti locali ha poi previsto la procedura di riequilibrio finanziario
pluriennale in caso di dissesto: tale procedura, volta ad evitare il dissesto, istituisce un apposito fondo di rotazione.
Con il d.lgs. 504/1992 era stata prevista, onde prevenire un eventuale dissesto, l’istituzione della Commissione per la
stabilità finanziaria degli enti locali, che aveva come compito il controllo centrale sulle dotazioni organiche, sulle loro
modificazioni e sui provvedimenti di assunzione degli enti dissestati.
L’art. 234 T.U. stabilisce poi che “la revisione economico-finanziaria sia affidata ad un collegio dei revisori dei conti”. I
revisori dei comuni sono eletti dai consigli e vengono scelti uno tra gli iscritti al registro dei revisori contabili, uno tra gli
iscritti nell’albo dei dottori commercialisti, uno tra gli iscritti all’albo dei ragionieri e rimangono in carica 3 anni, con
possibilità di rielezione. Essi non sono revocabili, salvo che per inadempienza.
In capo a province e comuni viene poi previsto il compito di predisporre una relazione di fine mandato, ove è contenuta la
descrizione dettagliata delle principali attività normative e amministrative svolte durante la legislatura con riferimento al
sistema ed esiti dei controlli interni e degli eventuali rilievi della Corte dei conti. La relazione viene sottoscritta dal
presidente della provincia/sindaco non oltre il sessantesimo antecedente la data di scadenza del mandato. Inoltre province e
comuni sono tenuti a redigere una relazione di inizio mandato, volta a verificare la situazione finanziaria e patrimoniale e
la misura dell’indebitamento dei medesimi enti. Sulla base delle risultanze della relazione medesima, il presidente della
provincia o il sindaco in carica possono ricorrere, ove ne sussistano i presupposti, al riequilibrio finanziario.
16.Gli istituti di partecipazione negli enti locali
L’art. 8 T.U. enti locali disciplina gli istituti di partecipazione, specificando che i comuni valorizzano le libere forme
associative e promuovono gli organismi di partecipazione all’amministrazione locale. Il medesimo articolo riconosce il
potere per gli interessati di partecipare al procedimento amministrativo e prevede forme di consultazione della
popolazione e procedure per l’ammissione di istanze, petizioni e proposte di cittadini singoli o associati dirette a
promuovere interventi per la migliore tutela di interessi collettivi, nonché, se previsto dallo statuto, la possibilità di indire
referendum. Tra gli istituti di partecipazione vi sono: l’azione popolare (ogni elettore può far valere in giudizio le azioni e i
ricorsi che spettano al comune); va incidentalmente ricordato che si distingue tra azioni popolari di tipo correttivo, che
sono dirette a far valere situazioni di illegittimità provocate dalla stessa amministrazione, e azioni popolari di tipo
suppletivo, le quali sono consentite a tutela degli interessi dell’amministrazione in caso di sua inerzia; il diritto di accesso
agli atti amministrativi; il diritto di accesso alle informazioni di cui è in possesso l’amministrazione.
17.Territorio e forme associative
Il territorio è elemento costitutivo del comune, considerato ente ai fini generali. L’art. 15 T.U. prevede che “salvo i casi di
fusione tra più comuni, non possono essere istituiti comuni con popolazione inferiore ai 10000 abitanti o la cui costituzione
comporti, come conseguenza, che altri comuni scendano sotto tale limite”. L’art. 33 T.U. dispone poi che le regioni devono
predisporre un programma di individuazione degli ambiti per la gestione associata sovracomunale di funzioni e servizi,
realizzato anche attraverso le unioni.
La potestà delle regioni di procedere alla fusione di comuni è prevista dall’art. 15, commi 1 e 2, T.U. enti locali. La l.
56/2014 introduce diverse misure agevolative e organizzative per la fusione di comuni che, da un lato, sono volte a tutelare
la specificità dei comuni che si sono fusi e, dall’altro lato, sono volti a mantenere anche nel nuovo comune le eventuali
norme di maggior favore, incentivazione e semplificazione previste per i comuni originari. Tale legge stabilisce un nuovo
procedimento di fusione di comuni per incorporazione, in esito al quale il comune incorporante mantiene la propria
personalità e i propri organi, mentre decadono gli organi del comune incorporato.
Lo statuto comunale può, a sua volta, contemplare l’istituzione di municipi nei territori interessati dal processo di
istituzione di nuovi comuni a seguito di fusione decisa dalla regione.
La l. 56/2014 prevede poi le unioni di comuni: si tratta di enti locali costituiti da 2 o più comuni, di norma confinanti,
finalizzata all’esercizio associato di funzioni e servizi. Gli organi dell’unione (presidente, giunta e consiglio) sono formati
da amministratori in carica nei comuni associati: ad essi non possono essere attribuite retribuzioni, gettoni e indennità in
qualsiasi forma percepiti. Il presidente è scelto tra i sindaci dei comuni associati. L’atto costitutivo e lo statuto dell’unione
sono approvati dai consigli dei comuni partecipanti.
Le forme associative fin qui viste e disciplinate dal T.U. enti locali possono essere così ordinate: accordi di programma
per la definizione e attuazione di opere e interventi; convenzioni al fine di svolgere in modo coordinato funzioni e servizi
determinati; uffici comuni; delega; consorzi; esercizio associato di funzioni e servizi; unioni di comuni.
Ancora in ordine al tema del decentramento, accanto ai municipi vengono poi previste anche altre articolazioni del territorio
comunale: circoscrizioni (sono organismi di partecipazione, consultazione e gestione dei servizi di base, nonché di esercizio
delle funzioni delegate dal comune. Stando alla l. 42/2010, esse devono essere soppresse, salvo il caso di comuni con più di
250.000 abitanti); consorzi di funzioni tra enti locali.
Un cenno ad ulteriori articolazioni territoriali previste dalla disciplina anteriore alla legge del 1990, è presente nell’art. 54.7
T.U. enti locali che si riferisce a frazioni e quartieri.
18.Città metropolitane e comunità montane
L’art. 114 Cost. qualifica le città metropolitane come enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi
fissati dalla Costituzione. La l. 56/2014 definisce le città metropolitane come enti territoriali di area vasta, dotate di
specifiche funzioni e finalità istituzionali generali. Esse sono istituite direttamente dallo Stato e sono: Torino, Milano,
Roma, Napoli, Bari, Genova, Bologna, Firenze, Reggio Calabria. Dal primo gennaio 2015 esse sono subentrate alle
omonime province e sono ad esse succedute in tutti i rapporti attivi e passivi.
Per quanto concerne le funzioni amministrative, la l. 56/2014 assegna alle città metropolitane le funzioni fondamentali
delle province e quelle attribuite alla città metropolitana da Stato e regioni, secondo le rispettive competenze.
Ai sensi dell’art. 117.2 lett. p) Cost., le funzioni fondamentali delle città metropolitane sono: adozione e aggiornamento
annuale di un piano strategico triennale del territorio metropolitano; pianificazione territoriale generale; strutturazione di
sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici e organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito
metropolitano; mobilità e viabilità; promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale; promozione dei
sistemi di informatizzazione e digitalizzazione in ambito metropolitano.
Gli organi della città metropolitana sono: il sindaco metropolitano; il consiglio metropolitano (viene eletto dai sindaci e dai
consiglieri comunali dei comuni della città metropolitana con sistema elettorale proporzionale); la conferenza metropolitana
(composta dal sindaco metropolitano e dai sindaci dei comuni che appartengono alla città metropolitana).
Particolare attenzione merita lo statuto metropolitano che regole le modalità e gli strumenti di coordinamento dell’azione
complessiva di governo nel territorio metropolitano; disciplina i rapporti tra la città e i comuni dell’area metropolitana in
ordine alle modalità di organizzazione e di esercizio delle funzioni metropolitane.
Per quanto attiene alle comunità montane, queste sembrano destinate ad essere trasformate in Unioni di comuni montani.
Capitolo V
SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE E LORO VICENDE
1.Premessa. Qualità giuridiche, status, capacità e situazioni giuridiche
Una delle funzioni essenziali dell’ordinamento giuridico è quella di risolvere conflitti di interessi intersoggettivi. Gli
interessi sono aspirazioni dei soggetti verso beni ritenuti idonei a soddisfare bisogni; poiché i conflitti sorgono tra soggetti
diversi dell’ordinamento, l’ordinamento stesso, al fine di risolvere il conflitto, attribuisce di volta in volta la prevalenza ad
uno degli interessi in gioco.
La soluzione del conflitto comporta la qualificazione giuridica dei comportamenti dei soggetti coinvolti, ai cui interessi
l’ordinamento ha accordato la prevalenza/soccombenza: tali comportamenti sono qualificati nei confronti dell’ordinamento
e delle sue norme in relazione alla particolare posizione del soggetto che li pone in essere. Alla luce di ciò, la situazione
giuridica soggettiva è quella situazione in cui è allocato un soggetto dall’ordinamento, con riferimento al bene che
costituisce oggetto dell’interesse. I modi di essere giuridicamente definiti di una persona, di una cosa, di un rapporto
giuridico, di cui l’ordinamento giuridico faccia altrettanti presupposti per l’applicabilità di disposizioni generali o particolari
alla persona, alla cosa o al rapporto si definiscono qualità giuridiche.
Gli status sono invece le qualità attinenti alla persona che globalmente derivano dalla sua appartenenza necessaria o
volontaria ad un gruppo e rappresentano il presupposto per l’applicazione di alcune norme nei confronti del soggetto
medesimo.
La capacità giuridica è invece la riferibilità effettiva di situazioni giuridiche ad un soggetto, il quale deve avere l’idoneità
al fine di esserne il titolare. Questione interessante, in merito alla capacità giuridica, è quella relativa agli enti pubblici: ci si
è chiesti, ad esempio, se questi potessero stipulare contratti atipici (non espressamente disciplinati ex lege). L’opinione
prevalente ritiene di sì, affermando che, prima ancora di essere ente pubblico, il soggetto pubblico è, in quanto persona
giuridica, soggetto di diritto comune e quindi ha la relativa capacità giuridica. La capacità di diritto comune degli enti deve
però rispettare la legge ed essere esercitata per curare gli interessi che la legge medesima loro affida (legalità-indirizzo). A
riguardo rileva l’art. 11 cc che dispone che “le province e i comuni, nonché gli enti pubblici riconosciuti come persone
giuridiche, godono dei diritti secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico”.
Dalla capacità giuridica si distingue la capacità di agire che, ai sensi dell’art. 2 cc., consiste nell’idoneità a gestire le
vicende delle situazioni giuridiche di cui il soggetto è titolare e che si acquista con il compimento del diciottesimo anno di
età, salvo che la legge non stabilisca un’età diversa. Si discute se la capacità di agire possa essere riferita direttamente
all’ente o sia in capo all’organo che fa agire l’ente; manca a riguardo un’opinione unanime. Se si ritiene che l’ente, in virtù
dell’immedesimazione organica, abbia capacità di agire, questo risponde direttamente per gli illeciti compiuti dai propri
dipendenti. Se invece si ritiene che la capacità di agire spetta solo alle persone fisiche preposte agli organi, allora la
responsabilità dell’ente, se costoro commettono degli illeciti, è indiretta.
La capacità di agire, occorre poi precisare, differisce dalla c.d. legittimazione ad agire, la quale si riferisce a situazioni
specifiche e concrete, effettivamente sussistenti. In sostanza per legittimazione si intende la specificazione in direzioni
determinate della capacità di agire (astratta e generale).
2.Potere, diritto soggettivo, dovere e obbligo
La dottrina non ha raggiunto unanimità di opinioni in ordine all'individuazione delle situazioni giuridiche soggettive, e cioè
delle posizioni di vantaggio o di svantaggio in cui il soggetto è collocato dall'ordinamento in ordine ai vari interessi.
La teoria delle situazioni giuridiche appare comunque essenziale in un ordinamento in cui la tutela del cittadino, invece di
essere costruita secondo un meccanismo di giurisdizione di tipo oggettivo, è modellata sul tipo di gestione che il titolare
decide di attuare. Al fine di fornire la definizione delle situazioni giuridiche è necessario distinguere tra le situazioni che
sussistono nell'ambito di concreti rapporti giuridici e le altre che si collocano all'esterno di essi.
Particolarmente importante è il potere, potenzialità astratta di tenere un certo comportamento ed espressione della capacità
del soggetto, perciò da esso inseparabile. Nel diritto amministrativo particolare rilevanza hanno i poteri che il soggetto
pubblico è in grado di esercitare prescindendo dalla volontà del privato, producendo quindi unilateralmente una vicenda
giuridica relativa alla sfera giuridica dello stesso. Le vicende giuridiche sono normalmente rappresentate dalla
costituzione, estinzione o modificazione di situazioni giuridiche.
Il potere è attribuito dall’ordinamento generale a seguito di un giudizio di prevalenza dell’interesse pubblico nei confronti
degli interessi dei privati.
In senso contrario, allorché la legge attribuisca al titolare la possibilità di realizzare il proprio interesse, indipendentemente
dalla soddisfazione dell’interesse pubblico curato dall’amministrazione, si profila la situazione giuridica di vantaggio
costituita dal diritto soggettivo: questo è tutelato in via assoluta, in quanto è garantita al suo titolare la soddisfazione piena
e non mediata dell’interesse.
Potere e diritto sono termini inconciliabili, infatti dove c’è potere non ci può essere diritto soggettivo e viceversa; tale
affermazione va però temperata, poiché esistono numerosi poteri amministrativi che fanno fronte al riconoscimento di diritti
soggettivi. Tuttavia, poiché il diritto amministrativo incide la sfera del privato, il potere deve essere tipico (=predeterminato
dalla legge), in ossequio al principio di legalità: la legge deve quindi individuare tutti gli elementi del potere (soggetto che
lo esercita, oggetto, contenuto, forma etc) onde evitare che vi siano rischi di auto attribuzione di poteri da parte
dell’amministrazione, il che comporterebbe una sua prevalenza assoluta.
Le norme che riconoscono il potere pubblico e fanno prevalere l’interesse pubblico su quello privato sono le norme di
relazione, che mirano a risolvere conflitti intersoggettivi di interessi. Esse esprimono un giudizio relazionale tra interessi e
tutelano in modo esclusivo quello del privato entro il limite al di là del quale viene protetto l’interesse della pubblica
amministrazione.
Oltre ai poteri, vi sono situazioni sfavorevoli che non sono racchiuse in rapporti concreti: queste situazioni sono
riconducibili alla figura del dovere che è un vincolo giuridico a tenere un certo comportamento (facere/non facere). Ad
esempio un dovere cui è tenuta l’amministrazione è quello di osservare il principio di buona fede e correttezza, nonché il
dovere di rispettare i diritti altrui. Quando la necessità di tenere quel comportamento sia correlata al diritto altrui viene a
costituirsi un obbligo che è il vincolo del comportamento del soggetto in vista di uno specifico interesse di chi è titolare
della situazione di vantaggio. L’amministrazione può essere soggetta ad obblighi, ad esempio qualora stipuli un contratto,
essa è obbligata ad adempierlo.
3.Interesse legittimo
Nei confronti dell’esercizio del potere, il privato si trova in uno stato di soggezione, come ad esempio accade per il soggetto
che partecipa ad un concorso pubblico: in questo caso il soggetto ha interesse a farsi assumere ma, di contro, l’interesse
pubblico richiede che siano assunti candidati competenti a ricoprire la mansione. Ecco che di fronte al potere di selezione
del candidato da parte dell’ente pubblico il privato non è titolare di un diritto soggettivo. Tuttavia l’interesse può essere di 2
tipi: pretensivo (nel caso in cui il privato pretende qualcosa dall’amministrazione) o oppositivo (nel caso in cui il privato si
oppone all’esercizio di un potere da parte dell’amministrazione). In questi casi l’unico interesse che ha il privato è quello a
che l’attività della PA si svolga in modo corretto e legittimo.
Esistono quindi interessi di soggetti dell’ordinamento che da questo sono tutelati che però non trovano nell’ordinamento
medesimo alcuna garanzia di realizzazione dell’interesse finale.
Questa antinomia rende controversa la figura dell’interesse legittimo: si tratta di una situazione soggettiva di vantaggio,
che viene anche prevista in Costituzione agli artt. 24 (dove ne viene garantita la tutela giurisdizionale), 103 (ove è
contemplata quale oggetto principale della giurisdizione amministrativa) e 113 (ove si precisa che la sua tutela è sempre
ammessa contro gli atti dell’amministrazione).
Nel nostro ordinamento l’interesse legittimo è talvolta accostato al diritto soggettivo, sicuro indice del carattere omogeneo
delle due situazioni. La differenza tra di esse va però ricercata nel diverso tipo di garanzia e protezione accordato
dall’ordinamento: una prima tesi mette in evidenza il modo occasionale e/o strumentale della protezione, in quanto essa è
assicurata solo nei limiti in cui l’azione amministrativa sia legittima, per cui il cittadino non può esigere la soddisfazione
dell’interesse al bene, mettendo così in ombra il carattere soggettivo della situazione. La tesi maggioritaria ritiene invece
che la situazione di cui il cittadino è titolare è di vantaggio sostanziale, in quanto pone in primo piano il conseguimento del
bene: resta però ferma che la soddisfazione del bene è soltanto eventuale.
In definitiva, l’interesse legittimo è una situazione soggettiva di vantaggio a progressivo rafforzamento, la cui unitarietà
permane in ragione dell’attinenza a un medesimo bene finale cui l’individuo aspira.
Nella prima fase, l’interesse legittimo garantisce la mediazione dell’amministrazione in forza di poteri tipici, il cui esercizio
è sindacabile dal giudice. Nell’ambito della seconda fase invece rileva il profilo della legittimità dell’azione, limite di
soddisfazione dell’aspirazione del soggetto e, infatti, la tutela è tradizionalmente costituita dall’annullamento dell’atto. Si
evince dunque come per l’interesse legittimo il giudizio di meritevolezza è affidato alla dinamica dell’esercizio del potere
che si svolge in seno all’ordinamento dell’amministrazione.
Per quanto attiene ai poteri riconosciuti al titolare dell’interesse legittimo, alcuni mirano alla pretesa finale, altri invece
prescindono da essa. Tra i poteri si ricordano i poteri di reazione (il loro esercizio si concretizza nei ricorsi amministrativi
e nei ricorsi giurisdizionali, volti ad ottenere l’annullamento dell’atto), i poteri di partecipazione al procedimento
amministrativo (dialogo con l’amministrazione), il potere di accesso ai documenti (l’art. 22 l. 241/1990 ammette tale
possibilità per i portatori di interessi giuridicamente rilevanti).
Accanto all’interesse legittimo, vi è poi una peculiare figura, vale a dire quella degli interessi procedimentali: essi
attengono a fatti procedimentali. In dottrina tuttavia si ritiene che siano facoltà che attengono all’interesse legittimo.
In ogni caso l’interesse legittimo sorge non già tutte le volte in cui un soggetto venga in qualche modo implicato
dall’esercizio di un potere, bensì quando la soddisfazione del suo interesse dipende dall’esercizio di un potere. Ad esempio,
come stabilito dalla Cassazione, “non si può ritenere che, per il solo motivo della partecipazione procedimentale, l’interesse
procedimentale si trasformi in interesse legittimo”. Nel caso invece della partecipazione a procedimenti ad evidenza
pubblica, il Consiglio di stato ha affermato come “la posizione soggettiva tutelabile sorge solo in capo a chi legittimamente
sia stato ammesso alla procedura”.
4.Interessi diffusi e interessi collettivi
Tradizionalmente si afferma che l’interesse legittimo è un interesse personale, differenziato rispetto ad altri interessi e
qualificato da una norma. Il problema della differenziazione e qualificazione degli interessi emerge in tutta la sua
delicatezza con riferimento agli interessi diffusi e interessi collettivi (cd. interessi superindividuali). Esempio di interessi
superindividuali sono l’interesse ambientale, quello alla salute, dei consumatori etc.
A partire dagli anni ’70, la pressione di tali interessi ha sollecitato soluzioni che consentissero anche a questi interessi una
forma di tutela, la quale richiede, per essere accordata, che questi possano essere qualificati come interessi legittimi o come
diritti soggettivi ai sensi dell’art. 24 Cost.
Gli interessi diffusi si caratterizzano sotto un duplice profilo: dal punto di vista soggettivo appartengono ad una pluralità di
soggetti e dal punto di vista oggettivo attengono a beni non suscettibili di fruizione differenziata. Riflettono quindi la
contraddizione di un interesse, che per essere tale dovrebbe costituire l’aspirazione di un soggetto ad un bene.
Gli interessi collettivi sono interessi che fanno capo ad un gruppo organizzato, onde il carattere della personalità e della
differenziazione, necessario per qualificarli come legittimi e per aprire la via alla tutela davanti al giudice amministrativo,
potrebbe più facilmente essere rinvenuto sostituendo al gruppo, il soggetto al quale gli interessi sono comunque riferibili.
La giurisprudenza ha cercato di trasformare gli interessi collettivi in interessi differenziati (perciò legittimi) attraverso il
ricorso a determinati criteri quali, ad esempio, quello di un collegamento stabile e non occasionale dell’associazione che si
fa carico della cura di interessi superindividuali con il territorio sul quale si producono gli effetti di atti amministrativi.
Il legislatore è comunque intervenuto per attribuire una legittimazione ex lege a talune organizzazioni rappresentative di
interessi superindividuali: ad esempio, con il d.lgs. 152/2006, si è previsto che le associazioni sono legittimate ad
impugnare gli atti illegittimi attinenti al danno ambientale.
L’art. 9 l. 241/1990 prevede poi il riconoscimento “per i soggetti portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o
comitati” di intervenire nel procedimento.
5.Il problema dell’esistenza di altre situazioni giuridiche soggettive
Si pensi al caso del proprietario che sia soggetto all’esercizio del potere di espropriazione: in questo caso, esistendo il
potere dell’amministrazione, non esiste il diritto soggettivo, sebbene il privato sia titolare del diritto di proprietà. Per
risolvere la situazione, viene in gioco il principio di relatività delle situazioni giuridiche soggettive: lo stesso rapporto di un
soggetto con un bene può presentarsi, a seconda dei casi e dei momenti e perfino a seconda del genere di protezione che il
soggetto faccia valere, ora come diritto soggettivo, ora come interesse protetto solo in modo riflesso; di conseguenza il
diritto di proprietà si configura come diritto in quanto non venga in considerazione un potere dell’amministrazione di
disporre dell’interesse del privato.
Non si può quindi parlare di degradazione o affievolimento del diritto, fenomeno che secondo la dottrina si riferirebbe
alla vicenda di un diritto il quale, venendo a confliggere con un potere, si trasformerebbe in interesse legittimo. In realtà la
dottrina della degradazione è il tentativo di dare risposta, sul piano sostanziale, alla situazione processuale relativa alla
spettanza della giurisdizione al giudice amministrativo: poiché il giudice amministrativo sindaca gli interessi legittimi, per
rinvenire l’esistenza di un interesse legittimo si è sostenuto che questo avesse origine dalla trasformazione del diritto.
Ma secondo la dottrina prevalente l’interesse legittimo non nasce dalla trasformazione di un diritto ma è una situazione
diversa, pur potendo riferirsi al medesimo interesse finale su cui si innesta un diritto; per quanto riguarda la giurisprudenza,
questa ritiene che sussistano ipotesi di diritti non degradabili, vale a dire si ritiene che esistano diritti che non sono
assoggettabili al potere amministrativo e, stando così le cose, l’interesse privato risulterebbe sempre vincente (ad esempio la
Cassazione in tema di ambiente salubre con la sent. 5172/1979 ha affermato che la protezione accordata all’ambiente sano
è la stessa che assiste i diritti fondamentali e vale anche nei confronti del potere-dovere della PA di provvedere alla salute in
quanto interesse generale. Tale teoria non convince: stando così le cose, in presenza di un potere conferito dalla legge, il
giudice non può accordare la preferenza al diritto condannando l’amministrazione e disapplicando la legge ma, tuttalpiù,
deve sollevare questione di legittimità costituzionale della legge che fonda il potere per contrasto con la disposizione
costituzionale che configura quel diritto come intangibile.
Non sussistono quindi situazioni intermedie tra diritto soggettivo e interesse legittimo: inconsistente risulta quindi essere la
figura del diritto affievolito, la quale coincide completamente con quella di interesse legittimo.
La dottrina ha tuttavia elaborato la figura del diritto in attesa di espansione, e cioè della situazione in cui l’esercizio di un
diritto dipende dal comportamento della PA che consentirebbe l’espansione dello stesso.
Controversa risulta invece essere la figura dell’aspettativa, e cioè della situazione in cui versa un soggetto nelle more del
completamento della fattispecie costitutiva di una situazione di vantaggio. Poiché si tratta di una situazione non tutelata in
via assoluta, non è un diritto. In alcuni casi però l’ordinamento la protegge, qualificandola come interesse meritevole di
tutela.
5.1.Le situazioni giuridiche protette dall’ordinamento dell’Ue
Le situazioni giuridiche protette dall’Ue consistono essenzialmente in poteri: sono infatti tali le c.d. libertà che trascendono
i limiti di concreti rapporti giuridici, preesistendo alla loro costituzione. Rilevano per l’Ue le disposizioni in materia di
servizi pubblici, di libera circolazione delle persone, di libertà di stabilimento, di libera prestazione dei servizi, di libertà di
concorrenza, di libertà di circolazione dei beni; con riguardo a questi casi, rende evidenti i limiti che incontra il potere
pubblico, in particolare con riferimento all’intervento sul mercato.
Tenendo conto della libertà di concorrenza, è venuto ad elaborarsi un principio chiave: il c.d. principio di proporzionalità,
che prevede che le misure che il potere pubblico può adottare devono essere idonee, necessarie e adeguate.
Altro principio caro all’Ue è quello della libera circolazione delle persone, il quale implica l’abolizione delle
discriminazioni tra i lavoratori degli stati membri fondate sulla nazionalità; deroghe a questo principio sono quelle che
attengono all’ordine pubblico, sicurezza e pubblica sanità.
Viene altresì tutelata a livello comunitario la libertà di stabilimento, che comporta l’accesso alle attività non salariate e al
loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese alle medesime condizioni fissate dall’ordinamento del paese
di stabilimento per i propri cittadini.
Per quanto riguarda la libera prestazione dei servizi, questa non può essere limitata, se non per ragioni di ordine pubblico,
sicurezza pubblica e sanità.
Altra libertà tutelata dall’ordinamento Ue è la libertà di concorrenza, che può essere lesa a seguito della presenza di poteri
amministrativi che condizionino oltre una certa misura le attività delle imprese; una deroga a tale libertà è prevista dall’art.
106 del Tue per “le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico o generale o aventi carattere di
monopolio fiscale”, che sono sottoposte alle norme del Trattato e “in particolare alle regola della concorrenza, nei limiti in
cui l’applicazione di tali norme non osti all’impedimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata”.
Tutelata è poi anche la libertà di circolazione dei beni.
Inoltre il diritto Ue impone alcuni obblighi di servizio pubblico ai gestori nelle ipotesi in cui occorra soddisfare
determinati criteri di continuità, regolarità e capacità cui il privato non si atterrebbe ove seguisse solo il proprio interesse
economico.
6.Le modalità di produzione degli effetti giuridici
Le vicende possono essere prodotte dall’ordinamento al verificarsi di alcuni fatti naturali o involontari (es. nascita o morte)
o al compimento di alcuni atti volontari (es. intimazione di pagamento) che hanno la funzione di semplici presupposti per la
produzione dell’effetto. La “causa” di quella vicenda giuridica è da rintracciarsi direttamente nell’ordinamento: siffatta
dinamica è riassunta nello schema norma-fatto-effetto (la norma disciplina direttamente il fatto e vi collega la produzione
di effetti). Seguendo questo schema, l’amministrazione può essere coinvolta sia perché pone in essere un fatto sia perché
emana un mero atto al quale l’ordinamento collega direttamente la produzione di effetti, come ad esempio nel caso di
iscrizioni ad alcuni albi.
Diversa è invece la seconda modalità di dinamica giuridica che concerne lo schema norma-potere-effetto: qui
l’ordinamento attribuisce ad un soggetto il potere di produrre vicende giuridiche e riconosce l’efficacia dell’atto da questo
posto in essere. L’effetto non risale immediatamente alla legge, ma vi è l’intermediazione di un soggetto che pone in essere
un atto, espressione di una scelta, mediante il quale si regolamenta il fatto e si produce la vicenda giuridica. Seguendo
questo schema, l’amministrazione pone in essere atti espressione di autonomia. Tali atti producono effetti giuridici in
relazione ad un particolare rapporto giuridico, a seguito dell’esercizio di un potere conferito in via generale e astratta dalla
legge: l’amministrazione esercita questo potere mediante l’emanazione di provvedimenti amministrativi, come ad esempio
nel caso della costituzione di diritti (concessioni) o di obblighi (ordini). Tale dinamica comporta il riconoscimento in capo
al destinatario dell’esercizio del potere amministrativo di un interesse legittimo. Attribuire un siffatto potere significa
semplicemente decidere di rendere disponibile per l’amministrazione il bene della vita cui aspira il privato.
7.I poteri amministrativi: poteri autorizzatori (in particolare: potere pubblico, accesso al mercato e liberalizzazione)
I principali poteri amministrativi sono costituiti da poteri autorizzatori, concessori, ablatori, sanzionatori, di ordinanza, di
programmazione e di pianificazione, di imposizione di vincoli e di controllo.
Il potere autorizzatorio condiziona l'esercizio delle libertà dei privati, in particolare quella di iniziativa economica.
Guardando alle modalità mediante le quali il privato può iniziare l'attività, affacciandosi su di un mercato, sono
configurabili 5 modelli che verranno analizzati nei capitoli seguenti:
a) l’iniziativa richiede un assenso da parte dell'amministrazione (autorizzazione);
b) l’assenso può essere reso con la modalità del silenzio: si tratta in realtà di una variante del modello precedente;
c) l'attività può essere iniziata in forza di una mera segnalazione, ma l'amministrazione può vietarla entro un certo
termine, effettuando un controllo successivo (Segnalazione certificata di inizio attività – Scia);
d) l'attività può essere iniziata a seguito di mera comunicazione previa;
e) in via residuale, l'attività può essere liberamente iniziata.
Nello svolgimento e nell'esercizio di tutte le attività occorre rispettare norme pubblicistiche. In quelle soggette a titolo
autorizzativo o comunicazione poi è necessario agire conformemente rispetto a quanto autorizzato o dichiarato. Il privato
dunque è sottoposto a poteri di vigilanza che possono sfociare in misure di carattere ripristinatorio, inibitorio o
sanzionatorio.
Anche dopo l'inizio dell'attività, sono possibili verifiche relative al permanere dei requisiti iniziali. In funzione di una
maggior protezione del privato interessato, l'ordinamento tende però a limitare la possibilità per l'amministrazione di tornare
sulle verifiche inizialmente svolte fissando ad esempio termini per gli interventi. Il rilievo mostra l'importanza della
vigilanza in senso proprio; per altro verso, si evince come anche nei casi di passaggio da un modello più invasivo ad uno
più leggero non si può parlare di privatizzazione in senso proprio, intendendo il termine come annessione delle attività
private a un regime in cui non sussiste alcun potere pubblicistico. Al più si può discutere di alleggerimento dei poteri di
condizionamento, ad esempio in forza del passaggio da un controllo preventivo (autorizzazione) a una verifica successiva
(scia).
La tendenza alla sostituzione degli atti permissivi con il meccanismo del silenzio-assenso o della segnalazione di inizio
attività o alla loro eliminazione è affiorata nella legislazione del recente passato, preoccupata di alleggerire il
condizionamento pubblicistico relativo all'iniziativa dei privati, riducendo gli ostacoli all'esercizio della libertà di iniziativa
economica (liberalizzazione). In tema di liberalizzazione va richiamata la disciplina di cui al d.lgs. 59/2010 che pur non
riguardando la generalità dei regimi autorizzatori incide comunque su uno spettro assai ampio degli stessi. Il decreto in
questione riguarda “qualunque attività economica, di carattere imprenditoriale o professionale, svolta senza vincolo di
subordinazione, diretta allo scambio di beni o alla fornitura di altra prestazione, anche intellettuale”. Nei limiti del decreto,
“l'accesso e l'esercizio delle attività di servizi costituiscono espressione della libertà di iniziativa economica e non possono
essere sottoposti a limitazioni non giustificate o discriminatorie”. Una peculiare disciplina è inoltre posta per l'iscrizione ad
albi, registri o elenchi in relazione alle attività professionali regolamentate.
Per quanto concerne i regimi autorizzatori, tradizionalmente molto diffusi nel settore delle attività commerciali, si
stabilisce che essi possono essere istituiti o mantenuti solo se giustificati da motivi imperativi di interesse generale, nel
rispetto dei principi di non discriminazione, di proporzionalità, nonché delle disposizioni introdotte dal decreto. Le
autorizzazioni vincolate sono sostituite tendenzialmente dalla scia che si atteggia a istituto ordinario delle attività
liberalizzate. Il numero dei titoli autorizzatori per l'accesso e l'esercizio di un'attività di servizi può essere limitato solo se
sussiste un motivo imperativo di interesse generale o per ragioni correlate alla scarsità delle risorse naturali. In tali casi, le
autorità competenti applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali e assicurano la predeterminazione, la
pubblicazione dei criteri e delle modalità atti ad assicurarne l'imparzialità.
Il decreto è stato criticato perché si limita a tradurre sul piano interno la direttiva comunitaria e perché in esso manca
un'indicazione chiara degli spazi liberi di cui può fruire l'iniziativa economica privata.
Di liberalizzazioni sì è poi ripetutamente occupato il legislatore nel quadro delle manovre assunte a fronte della crisi per la
crescita e lo sviluppo dell'economia del paese.
Le linee portanti della disciplina sono le seguenti. Il d.l. 138/2011 opera sul versante delle professioni e delle attività
economiche. In particolare, per ciò che attiene alle attività economiche, impone che comuni, province, regioni e Stato
adeguino i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l'iniziativa e l'attività economica privata sono libere ed è
permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge. Sono, in ogni caso, soppresse le disposizioni normative
statali incompatibili con il principio appena sancito.
Il successivo d.l. 201/2011 ribadisce il principio della libertà di accesso, di organizzazione e di svolgimento delle attività,
fatte salve le esigenze imperative di interesse generale, e abroga immediatamente molte delle restrizioni contemplate nel
testo precedente. Una specifica disposizione si riferisce al regime amministrativo che deve essere giustificato sulla base
dell'esistenza di un interesse generale, nel rispetto del principio di proporzionalità
Giungiamo così al d.l. 1/2012, conv. nella l. 27/2012. L'art.1 introduce un meccanismo di abrogazione basato sull'
emanazione di regolamenti governativi. Si prevede in particolare l'abrogazione delle norme che prevedono limiti numerici,
autorizzazioni, licenze, nulla osta o preventivi atti di assenso dell'amministrazione denominati per l'avvio di un'attività
economica non giustificati da un interesse generale. Le disposizioni che sopravvivono sono in ogni caso interpretate e
applicate in senso tassativo, restrittivo e ragionevolmente proporzionato. In questo quadro normativo, in applicazione del
principio di proporzionalità, si alleggerisce il condizionamento pubblicistico riducendo le restrizioni e gli assensi all'accesso
al settore di mercato. I regimi autorizzatori, in particolare, saranno possibili soltanto se giustificati dalla sussistenza di
interessi generali, costituzionalmente rilevanti e compatibili con l’ordinamento dell’Ue.
Precisato il contesto generale, è ora possibile tornare all’esame del potere autorizzatorio che ha l’effetto di rimuovere i
limiti posti dalla legge all’esercizio di una preesistente situazione di vantaggio; il suo svolgimento comporta la previa
verifica della compatibilità di tale esercizio con un interesse pubblico. L’uso del potere produce l’effetto giuridico di
modificare una situazione soggettiva preesistente, consentendone l’esplicazione o l’esercizio in una direzione in precedenza
preclusa. Attraverso l’esercizio del potere autorizzatorio, l’amministrazione esprime il proprio consenso preventivo
all’attività progettata dal richiedente, come ad esempio il permesso di costruire, contemporaneamente esercitando un
controllo preventivo. L’autorizzazione non si limita in genere a consentire l’esercizio di una situazione di vantaggio
preesistente (potere o diritto) ma, sempre più spesso, l’ordinamento tende a rendere servente l’interesse privato rispetto a
quello pubblico, conformando l’azione dell’autorizzato in vista del conseguimento dell’interesse pubblico. Spesso poi
l’autorizzazione instaura una relazione tra soggetto pubblico e privato, caratterizzata dalla presenza di poteri di controllo e
di vigilanza in capo all’amministrazione preordinati alla verifica del rispetto delle condizioni e dei limiti imposti
all’esercizio dell’attività consentita mediante atto autorizzatorio. In giurisprudenza, poi, si riconosce all’autorizzazione un
effetto costitutivo, poiché viene a costituirsi una nuova situazione giuridica (Corte cost. sent. 112/1993).
Dal ceppo del provvedimento autorizzativo, dottrina e giurisprudenza hanno poi individuato alcune figure specifiche:
• le abilitazioni sono atti il cui rilascio è subordinato all’accertamento dell’idoneità tecnica di soggetti a svolgere una
certa attività. L'efficacia abilitante è ad esempio collegata dalla legge al superamento di un esame e all'iscrizione ad
un albo. È pertanto preferibile ricondurre le abilitazioni allo schema norma-fatto-effetto, senza riconoscere la
presenza di un potere provvedimentale. Considerazioni analoghe possono essere svolte con riferimento alla
omologazione, rilasciata dall'autorità a seguito dell'accertamento della sussistenza in una cosa di tutte le
caratteristiche fissate dall'ordinamento ai fini della tutela preventiva o per esigenze di uniformità dei modelli.
• Il nullaosta è un atto endoprocedimentale necessario, emanato da un’amministrazione diversa da quelle procedente,
con cui si dichiara che, in relazione ad un particolare interesse, non sussistono ostacoli all’adozione del
provvedimento finale. Il diniego del nullaosta costituisce fatto impeditivo della conclusione del procedimento: ai
sensi degli artt. 14 ss l. 241/1990 si consente di superare il dissenso manifestato dall’amministrazione chiamata ad
esprimere la compatibilità del provvedimento finale con l’interesse di cui è portatrice mediante rilascio del nullaosta.
• La dispensa è il provvedimento espressione del potere che l’ordinamento, pur vietando o imponendo in generale un
certo comportamento, attribuisce all’amministrazione consentendole in alcuni casi di derogare all’osservanza del
relativo divieto o obbligo, come ad esempio la dispensa dal servizio militare.
• L’approvazione è un provvedimento permissivo che ha ad oggetto non già un comportamento ma un atto rilasciato
a seguito di una valutazione di opportunità e convenienza dell’atto stesso. L'approvazione opera dunque come
condizione di efficacia dell'atto ed è ad esso successiva. Nell'ambito dei procedimenti di controllo è talora
impiegata la figura della approvazione condizionata che in realtà significa annullamento con indicazione dei
correttivi necessari per conseguire l'approvazione.
• La licenza è un provvedimento che permette lo svolgimento di un’attività previa valutazione della sua
corrispondenza ad interessi pubblici ovvero dalla sua convenienza in settori non rientranti nella signoria
dell’amministrazione ma sui quali essa soprintende a fini di coordinamento.
Tutti questi provvedimenti sono ricondotti nell’ambito del potere autorizzatorio; essi sono suscettibili di essere sostituiti dai
meccanismi della segnalazione di inizio attività, ovvero, trattandosi di provvedimenti emanati a conclusione di
procedimenti ad istanza di parte, possono risultare assoggettati alla disciplina del silenzio assenso.
8.I poteri concessori
Tra i poteri il cui esercizio determina effetti favorevoli per i privati troviamo anche i poteri concessori. L’esercizio di tali
poteri produce l’effetto di attribuire al destinatario (titolare di interessi legittimi pretensivi) medesimo status e situazioni
giuridiche (diritti) che esulavano dalla sua sfera giuridica in quanto precedentemente egli non ne era titolare. Per altro verso,
al concessionario è spesso attribuita una posizione di privilegio rispetto agli altri soggetti. A differenza di ciò che accade
nell'autorizzazione (dove l’autorizzato è predestinato all’effetto permissivo), l'ordinamento non attribuisce originariamente
al privato la titolarità di alcune situazioni giuridiche, ma conferisce all'amministrazione il potere di costituirle o di trasferirle
in capo al privato stesso. Esempi di concessioni sono quelli relativi alla concessione di uso di beni, di esercizio di servizi
pubblici, della cittadinanza, di costruzione e gestione di opere pubbliche.
La concessione può essere traslativa quando il diritto preesiste in capo all’amministrazione, sicché esso è trasmesso al
privato; oppure costitutiva quando il diritto attribuito è totalmente nuovo, nel senso che l’amministrazione non poteva
averne la titolarità. L'esame della vicenda concessoria traslativa non presenta peculiari problemi allorché essa attenga a beni
pubblici: in questi casi, infatti, è evidente che al privato, in assenza di concessione, sarebbe precluso lo sfruttamento delle
utilitates connesse al bene. Viceversa, maggiori questioni si profilano in ordine alle concessioni di opere pubbliche e di
servizi pubblici.
Per quanto riguarda la concessione di opere/lavori pubblici, la legislazione mira ad equipararle all’appalto o, quanto
meno, a limitarne la discrezionalità di cui gode l’amministrazione chiamata a rilasciarle, al fine di evitare che
l’amministrazione possa svincolarsi dalle regole poste a tutela della concorrenza. Non a caso la recente legislazione
definisce suddette concessioni come contratti (d.lgs. 50/2016). La differenza essenziale con l'appalto risiede nel fatto che il
corrispettivo è qui costituito dal diritto del concessionario di gestire l'opera e dal trasferimento del rischio.
La natura contrattuale della concessione in passato era stata affermata da parte della dottrina anche in ordine alla
concessione di servizi pubblici: oggi il problema è in parte ridimensionato, atteso che la vicenda dell’affidamento della
gestione del servizio è di natura concessoria. Anche la convenzione bilaterale stipulata tra amministrazione e concessionario
rientra nel campo di applicazione del codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 50/2016.
Sfuggono a tale codice, invece, le concessioni di beni, fattispecie in cui, accanto al provvedimento concessorio, si può
spesso individuare una convenzione bilaterale di diritto privato (che dà luogo alla figura della concessione-contratto),
finalizzata a dar assetto ai rapporti patrimoniali tra concessionario e concedente. La fattispecie viene dunque scomposta in
due “gradi”: provvedimento e contratto.
In sintesi, i caratteri essenziali della concessione traslativa possono riassumersi nell’attribuzione di una posizione di
privilegio/vantaggio ad un soggetto terzo sulla base di un accordo e nella “sostituzione” del concessionario nello
svolgimento di un compito dell’amministrazione.
A livello europeo, infine, autorizzazioni e concessioni vengono spesso accomunate, in generale mirando a ridurre la
discrezionalità pura dell’amministrazione nella prospettiva della liberalizzazione.
Invocando la direttiva 123/2006, la Corte di Giustizia UE, sent. 14 luglio 2016, operando un'interpretazione estensiva della
nozione di regime di autorizzazione, ha censurato la disciplina italiana che prevede una reiterata proroga automatica del
termine di scadenza delle concessioni di beni del demanio marittimo, lacuale e fluviali in assenza di qualsiasi procedura di
selezione.
In relazione ai servizi pubblici gestiti dalla PA e rivolti ai singoli utenti che ne facciano richiesta, la dottrina tradizionale
aveva individuato, quale atto che attribuisce al singolo il diritto alla prestazione e al godimento del servizio stesso,
l’ammissione. Tale atto instaurerebbe un rapporto di natura amministrativa tra ente e utente. Secondo altri, invece,
l’ammissione sarebbe l’atto che consente al singolo di far parte di una certa organizzazione o categoria professionale al fine
di renderlo partecipe di determinati diritti servizi o vantaggi.
Nel novero di provvedimenti concessori rientrano pure le sovvenzioni, caratterizzate dal fatto che esse attribuiscono al
destinatario vantaggi economici. La categoria viene disciplinata dall’art. 12 l. 241/1990 che si riferisce a “sovvenzioni,
contributi, sussidi e ausili finanziari” e “all’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti
pubblici e privati”.
A garanzia dell’imparzialità e della trasparenza, la l. 241/1990 prevede che vengano predeterminati e pubblicati “criteri e
modalità cui le amministrazioni devono attenersi”: l’art. 12.2 stabilisce che l’effettiva osservanza dei criteri e delle modalità
predeterminati dall’amministrazione deve risultare dai singoli provvedimenti.
Non ha natura concessoria la concessione edilizia: la Corte cost. con sent. 5/1980 ha negato il carattere costitutivo della
concessione edilizia, affermando l’inerenza del diritto di edificare alla proprietà.
9.I poteri ablatori
I poteri ablatori incidono negativamente sulla sfera giuridica del destinatario, nel senso che impongono obblighi ovvero
sottraggono situazioni favorevoli in precedenza pertinenti al privato, attribuendole all’amministrazione.
Tra i poteri ablatori si ricordano:
• Espropriazione -> provvedimento che ha l’effetto di costituire un diritto di proprietà o altro diritto reale in capo ad
un soggetto, previa estinzione del diritto in capo ad altro soggetto, al fine di consentire la realizzazione di un’opera
pubblica o per altri motivi di pubblico interesse e dietro versamento di un indennizzo come previsto ex art. 42.3
Cost. La disciplina dell’espropriazione per pubblica utilità è prevista nel d.p.r. 327/2001. La corte cost. con sent.
348/2007 ha affermato l’incompatibilità della disciplina sull’indennizzo introdotta ex art. 5 bis d.l. 133/1992 con
quella dell’art. 1 del primo protocollo allegato della Cedu, pronunciando l’illegittimità costituzionale della
disciplina per contrasto con l’art. 117.1 Cost. L’esercizio del potere di esproprio si articola nella previa
dichiarazione di pubblica utilità delle opere e nella successiva espropriazione.
• occupazione temporanea -> essa può essere disposta quando ciò sia necessario per la corretta esecuzione dei lavori,
prevedendo la relativa indennità. Caso particolare è quello dell’occupazione d’urgenza e riguarda le situazioni in
cui l’avvio dei lavori sia urgente. Tuttavia a volte succede che l’amministrazione, pur in presenza di un’opera già
realizzata durante la pendenza di occupazione temporanea, non riesce a concludere nei termini il procedimento
espropriativo; a riguardo la Cassazione sostiene che, a condizione che si sia verificata l’irreversibile trasformazione
dell’immobile, l’amministrazione acquista comunque la proprietà dell’immobile, che deve però risarcire il danno al
privato, che si vede preclusa la possibilità di ottenere la restituzione del bene: si tratta dalla c.d. occupazione
acquisitiva o accessione invertita. Secondo la Cedu l’accessione invertita viola l’art. 1 del protocollo addizionale
n. 1 della Convenzione e il principio di legalità intenso in senso sostanziale come prevedibilità dei comportamenti
dell’amministrazione. Con riferimento all'ipotesi di realizzazione dell'opera in mancanza di dichiarazione di
pubblica utilità è comunque intervenuto il legislatore: l’art. 42 bis T.U. prevede che l'autorità che utilizzi, per scopi
di interesse pubblico e senza titolo, un bene modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di
esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso vada acquisito al suo patrimonio indispensabile
e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio. Questa acquisizione sanante espunta dal
nostro ordinamento nel 2010, è stata reintrodotta con il d.l. 98/2011 che prevede anche un risarcimento del danno
per il periodo di occupazione senza titolo. Si intende così agevolare la formazione di un titolo formale di acquisto
della proprietà evitando il tradizionale meccanismo caratterizzato dal trasferimento della proprietà fondato su di un
mero fatto illecito, quale è la realizzazione dell'opera. In sintesi, l'occupazione senza titolo configura un illecito
permanente e non costituisce un modo di acquisto della proprietà: la situazione illecita può cessare in conseguenza
di restituzione o del provvedimento di acquisizione sanante. La Corte cost nel 2015, a proposito dell’acquisizione
sanante, ha affermato che l'adozione dell'atto acquisitivo è consentito esclusivamente allorché costituisca l’extrema
ratio per la soddisfazione di attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico.
• Requisizioni -> sono provvedimenti mediante i quali l’amministrazione dispone della proprietà o comunque
utilizza un bene di un privato per soddisfare un interesse pubblico. Si distingue tra:
a) requisizioni in proprietà: riguardano solo cose mobili e possono essere disposte dietro corresponsione di
un’indennità
b) requisizioni in uso: ha come presupposto l’urgente necessità. Riguarda sia beni mobili sia immobili e
comporta la possibilità di poter utilizzare il bene. È assistita dai caratteri dell’urgenza, temporaneità,
indennità. L’art. 7 l. 2248/1865 impone all’amministrazione di esercitare il potere di disporre della
proprietà del privato agendo mediante decreto motivato.
• Confisca -> provvedimento ablatorio a carattere sanzionatorio, come conseguenza della commissione di un illecito
amministrativo.
• Sequestro -> provvedimento ablatorio di natura cautelare, che mira a salvaguardare la collettività dai rischi
derivanti dalla pericolosità del bene.
• Ordini -> si tratta di provvedimenti che incidono non sui diritti reali ma sulla sfera giuridica del privato, privandolo
di un diritto o di una facoltà. Impongono un comportamento al destinatario. Si distinguono in comandi (ordini da
fare) e divieti (ordini di non fare).
10.Poteri sanzionatori
Un’ulteriore categoria di poteri il cui esercizio produce effetti sfavorevoli in capo al destinatario è costituita dalle sanzioni.
Per sanzione si intende la conseguenza sfavorevole di un illecito applicata coattivamente dallo stato o da altro ente
pubblico; per illecito si intende invece la violazione di un precetto compiuta da un soggetto. La sanzione è quindi la misura
retributiva nei confronti del trasgressore o del responsabile dell’illecito. La sanzione ha carattere eminentemente afflittivo
ed è conseguenza immediata e diretta di un comportamento antigiuridico (non si dà illecito se non è ravvisabile un siffatto
comportamento).
La sanzione amministrativa non ha, nella vigente legislazione, una definizione propria: essa si connota essenzialmente per il
fatto di venire irrogata nell’esercizio di una potestà amministrativa. Dunque, le sanzioni amministrative non hanno un loro
peculiare contenuto, ma si possono individuare soltanto in modo residuale, quali misure afflittive non consistenti in sanzioni
penali o civili. Inoltre, esse possono coinvolgere solo beni che la Costituzione non assoggetta ad una riserva di giurisdizione
(sicché non potrebbero incidere sulla libertà personale).
Si può dunque definire sanzione amministrativa quella misura afflittiva che non consiste in una pena criminale o in una
sanzione civile, irrogata nell’esercizio di potestà amministrative come conseguenza di un comportamento assunto da un
soggetto in violazione di una norma o di un provvedimento amministrativo o, comunque, irrogata al responsabile cui
l’illecito sia imputato.
Dal punto di vista teorico, comunque, si confrontano varie tesi: alcuni autori hanno sottolineato il nesso con l’autotutela;
altri ritengono che le sanzioni sarebbero volte a garantire lo specifico interesse affidato alla cura dell’amministrazione,
sicché sarebbero strumentali rispetto alla funzione amministrativa. Vi è infine la tesi che ne sottolinea soprattutto il carattere
punitivo, nel quadro di un’unitarietà del fenomeno sanzionatorio che abbraccia anche quelle penali.
Alla luce del diritto Cedu, le sanzioni punitive sono sottoposte a un regime di garanzie unitario e analogo a quello
applicabile alle sanzioni penali. Proprio per questa ragione, la Corte europea di Strasburgo ha affermato che viola il divieto
del ne bis in idem la contestuale inflazione di una sanzione amministrativa e penale. Ciò è quanto stabilito con sent. 4 marzo
2014, ricorso 18640/10: qui è stata censurata la normativa italiana di punizione dei market abuses, fondata sul sistema del
doppio binario penale e amministrativo. In sintesi, la Corte Edu guarda alle conseguenze materiali del provvedimento per
inferire il regime di garanzia. In ogni caso, in tema di procedimento di irrogazione delle sanzioni di competenza
dell’Antitrust e della Consob, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto applicabili le garanzie di cui all’art. 6
Cedu.
I principi generali della sanzione amministrativa sono esplicitati nella l. 689/1981 nella quale sono contenuti principi di tipo
garantistico modellati, anche se parzialmente, su quelli penalistici e sono:
• principio di legalità: in merito a tale principio, ci si chiede se ricomprende anche la legge regionale. Dalla lettura
dell’art. 9.2 l. 689/1981 si evince l’ammissibilità di una disciplina regionale in materia di sanzioni amministrative;
• divieto di analogia: è vietata l’analogia in malam partem, mentre ci si interroga se sia ammissibile l’analogia in
bonam partem;
• principio di irretroattività: l’art. 1.1 l. 689/1981 dispone che “nessuno può essere assoggettato a sanzioni
amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione”. In
tema di irretroattività è comunque intervenuta la Corte cost. con sent. 196/2010, che ha dichiarato incostituzionale
la normativa interna che prevede l’applicazione retroattiva della confisca del veicolo disposta nel caso di guida
sotto influenza dell’alcol.
La sanzione amministrativa è quindi il risultato dell’esercizio di un potere amministrativo. I principi di tipicità e
nominatività dei poteri e dei provvedimenti trovano corrispondenza nella tassatività delle misure sanzionatorie che
l’elaborazione in materia di pene amministrative ha potuto mutuare dall’esperienza penalistica. Il procedimento di
irrogazione della sanzione prende avvio dall’accertamento e dalla contestazione della violazione, prevede la possibilità per
l’interessato di difendersi, e si conclude con l’irrogazione della sanzione. L’efficacia dei provvedimenti sanzionatori è
subordinata alla loro comunicazione al destinatario (sistema di garanzie).
Le sanzioni amministrative si distinguono in:
• sanzioni ripristinatorie che colpiscono la cosa e mirano a reintegrare l’interesse pubblico che è stato leso;
• sanzioni afflittive che si rivolgono direttamente all’autore dell’illecito. Si distinguono in:
1. sanzioni pecuniarie
2. sanzioni interdittive che vanno ad incidere sull’attività del soggetto colpito.
Le sanzioni disciplinari sono invece oggetto di una specifica regolamentazione. Possono incidere talora sul patrimonio,
talora sull’esercizio dell’attività; di conseguenza il loro carattere comune è costituito dal fatto che conseguono alla
violazione di prescrizioni relative allo status. La legge contempla poi un peculiare gruppo di sanzioni amministrative, le
sanzioni accessorie: ad esempio l’art. 20 l. 689/1981 prevede alcune misure interdittive, originariamente penali, consistenti
nella privazione o sospensione di facoltà o diritti derivanti da provvedimenti della pubblica amministrazione.
Sotto il profilo della tutela, sussisterebbe la giurisdizione del giudice ordinario per le sanzioni afflittive e la giurisdizione
del giudice amministrativo per le sanzioni ripristinatorie.
La violazione del precetto dà luogo all’illecito amministrativo per il quale la l. 689/1981 prevede una riserva di legge: ciò
vuol dire che l’illecito deve essere previsto dalla legge e non può essere disciplinato da fonti di grado secondario, sebbene la
giurisprudenza ammetta la possibilità che le fonti secondarie possano integrare i precetti normativi.
Per quanto attiene all’elemento psicologico, è richiesto il dolo o la colpa: la giurisprudenza ritiene però sufficiente la
coscienza e volontà della condotta ed è il trasgressore che deve dimostrare l’assenza della colpa. La buona fede può valere
come causa di esclusione della responsabilità quando l’errore sulla liceità del fatto risulti incolpevole.
Altresì l’ordinamento prevede in alcune ipotesi la responsabilità delle persone giuridiche, le quali sono quindi assoggettabili
a sanzioni pecuniarie, come ad esempio l’art. 19 l. 287/1990 in relazione all’inottemperanza del divieto di concentrazione
delle imprese o all’obbligo di notifica.
11.I poteri di ordinanza, i poteri di programmazione e di pianificazione, i poteri di imposizione dei vincoli, i poteri di
controllo
Il potere di ordinanza, che viene esercitato in situazioni di necessità e urgenza, è caratterizzato dal fatto che la legge non
predetermina in modo compiuto il contenuto della situazione in cui il potere può concretarsi. Tale potere sembra dunque
non rispettare il principio di tipicità dei poteri amministrativi che impone la previa individuazione degli elementi essenziali
dei poteri a garanzia dei destinatari degli stessi. La Corte cost. (sentenze 26/1961 e 127/1995) ha però fissato alcuni limiti
nel rispetto dei quali la legge che riconosce il potere di ordinanza è compatibile con la Costituzione: rispetto delle riserve di
legge; rispetto dei principi dell’ordinamento generale; necessità di un’adeguata motivazione e di efficace pubblicazione;
efficacia limitata nel tempo di tali provvedimenti. Nelle materie non coperte da riserva di legge, l’ordinanza può addirittura
derogare temporaneamente alla legislazione preesistente.
Esempio di ordinanza è quello delle ordinanze contingibili e urgenti del sindaco di cui all’art. 54 T.U. enti locali, le
ordinanze di pubblica sicurezza, le ordinanze che possono essere adottate nelle situazioni di emergenze sanitarie o di
igiene pubblica.
Tali ordinanze vanno distinte dai provvedimenti d’urgenza, che sono atti tipici e nominati, suscettibili di essere emanati
sul presupposto dell’urgenza ma il cui contenuto è predeterminato dal legislatore, come ad esempio l’ordinanza che il
ministro dell’ambiente può emanare per ingiungere a coloro che siano risultati responsabili di illecito ambientale il
ripristino ambientale a titolo di risarcimento in forma specifica.
Debbono ancora essere ricordati i poteri di pianificazione e programmazione. La programmazione indica il complesso di
atti mediante i quali l’amministrazione, previa valutazione di una situazione nella sua globalità, individua le misure
coordinate per intervenire in un dato settore. Di solito i piani hanno natura normativa e/o di atti a contenuto generale, sicché
non costituiscono esercizio di poteri aventi una fisionomia autonoma.
La legge, inoltre, caratterizza i procedimenti di programmazione e pianificazione sotto il profilo procedimentale: gli artt. 13
e 14 l. 241/1990 affermano che “ai procedimenti in esame non si applica il capo III della stessa legge, sulla partecipazione e
sul diritto di accesso, applicandosi le leggi di settore, che possono stabilire principi analoghi a quelli introdotti dalla legge
generale sul procedimento”. Dal punto di vista procedimentale si noti poi come molti piani sono assoggettati alla
valutazione ambientale strategica.
Ex lege, esistono tuttavia una pluralità di piani: abbiamo pianificazioni urbanistiche in senso proprio che mirano a
contemperare i vari interessi pubblici e privati relativi all’uso del territorio; pianificazioni territoriali che attengono a
interessi non urbanistici, come ad esempio il paesaggio, l’ambiente, la difesa del suolo.
L’esistenza di una pluralità di piani genera però il problema dell’individuazione di criteri per la soluzione di eventuali
contrasti tra piani. A riguardo, può operare una gerarchia di piani per la quale un piano prevale sugli altri; può altresì
operare il criterio della competenza secondo cui ciascun piano si occupa di un determinato aspetto; infine, può anche esservi
gerarchia degli interessi quando viene in evidenza un interesse di rango superiore e la sua gestione prevale sulla
pianificazione esistente.
Al fine di conservare alcuni beni immobili che presentano peculiari caratteristiche storiche ambientali o urbanistiche, la
legge attribuisce all’amministrazione il potere di sottoporre gli stessi a vincolo amministrativo che viene imposto mediante
piano. A seguito di tale imposizione si produce una riduzione delle facoltà che spettano ai proprietari, i quali saranno ad
esempio soggetti ad obblighi di facere (ad esempio conservare i beni) o di non facere (non alterare l’immobile).
Taluni vincoli comportano un’incisione a titolo particolare sui caratteri fondamentali del bene: è il caso dei vincoli
urbanistici a tempo indeterminato di inedificabilità assoluta o preordinati all’espropriazione che, in ragione della loro indole
ablatoria, vale a dire si assiste allo svuotamento della proprietà del suo contenuto essenziale, debbono essere indennizzati.
Per quanto attiene al potere di controllo, questo ricorre anche nei rapporti dell’amministrazione con i privati. Il controllo
presuppone di norma l’avvenuta instaurazione di una peculiare relazione tra privato e amministrazione, che può sorgere a
seguito di un atto concessorio, autorizzatorio o a seguito della Scia.
12.I poteri strumentali e i poteri dichiarativi. Le dichiarazioni sostitutive.
L’amministrazione, in occasione dell’esercizio di potere, pone in essere atti che, pur essendo puntuali e concreti, non sono
provvedimentali ma strumentali ad altri poteri, come avviene nel caso dell’emanazione di pareri, proposte, atti di controllo,
accertamenti che sono atti dichiarativi.
L’efficacia dichiarativa incide su di una situazione giuridica preesistente rafforzandola, specificandone il contenuto o
affievolendola, impedendo così la realizzazione di una certa direzione.
Alcuni atti dichiarativi hanno invece funzione di attribuire certezza legale ad un dato, precludendo ai consociati di assumere
che il dato sia diverso da come è raffigurato nell’atto: tali atti sono atti di certazione, che quindi producono certezze che
valgono erga omnes.
Tale certezza può poi essere messa in circolazione mediante certificati, che sono atti con cui si produce una certezza. Il
certificato è un documento tipico, rilasciato da un’amministrazione che ha funzione di ricognizione, riproduzione e
partecipazione a terzi di stati, qualità personali e fatti contenuti in albi, elenchi o registri pubblici o comunque accertati da
soggetti titolari di funzioni pubbliche. Normalmente il certificato ha i caratteri dell’atto pubblico: viene infatti rilasciato da
un pubblico ufficiale autorizzato a darvi pubblica fede e fa piena prova fino a querela di falso.
Distinti dai certificati sono gli attestati, che sono atti amministrativi tipici ma insuscettibili di creare la medesima certezza
legale creata dai certificati e che, a differenza di questi, non mettono in circolazione una certezza creata da un atto di
certazione.
Differenti sono poi le attestazioni atipiche, ad esempio gli attestati di frequenza a corsi, che creano solo una presunzione e
gli atti di notorietà, che sono atti formati, su richiesta di un soggetto, da un pubblico ufficiale.
Le dichiarazioni sostitutive sono dichiarazioni fatte dal privato che prova, nei suoi rapporti con l’amministrazione, fatti
stati e qualità, a prescindere dall’esibizione dei relativi certificati: tale atto sostituisce quindi una certificazione pubblica,
producendone lo stesso effetto giuridico. La mancata accettazione della dichiarazione sostitutiva costituisce violazione dei
doveri d’ufficio. Vi sono due tipi di dichiarazioni sostitutive: la dichiarazione sostitutiva di certificazione (documento
sottoscritto dall’interessato in sostituzione dei certificati) e le dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà (atto con cui
il privato comprova, nel proprio interesse e a titolo definitivo, tutti gli stati, fatti e qualità personali non compresi in pubblici
registri, albi ed elenchi, nonché stati, fatti e qualità personali relativi ad altri soggetti di cui egli abbia diretta conoscenza).
Le dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà da produrre a organi dell’amministrazione oi ai gestori o esercenti di
pubblici servizi sono sottoscritte dall’interessato in presenza del dipendente addetto e non è richiesta l’autenticazione (a
riguardo, l’inesistenza della sottoscrizione è vizio non sanabile di nullità della dichiarazione, così come l’omessa
allegazione della copia del documento rende nullo l’atto per difetto di forma essenziale).
L’art. 71 T.U. enti locali dispone che il controllo sulle dichiarazioni sostitutive debba avvenire, anche a campione, e in tutti
i casi in cui sorgano fondati dubbi sulla loro veridicità. Tale controllo è effettuato secondo 2 modalità: consultando
direttamente gli archivi dell’amministrazione certificante ovvero richiedendo alla medesima conferma scritta della
corrispondenza di quanto dichiarato con le risultanze dei registri. In caso di non veridicità del contenuto delle dichiarazioni,
oltre alle sanzioni penali, la legge prevede che il dichiarante decada dai benefici eventualmente conseguiti al provvedimento
emanato sulla base della dichiarazione non veritiera.
Recentemente è stato previsto che dichiarazioni sostitutive possono essere utilizzate anche nei rapporti tra privati che vi
abbiamo acconsentito; in tal caso, l’amministrazione competente per il rilascio della relativa certificazione, previa
definizione di appositi accordi, è tenuta a fornire, su richiesta del privato corredata dal consenso del dichiarante, conferma
scritta della corrispondenza di quanto dichiarato con le risultanze dei dati custoditi.
Per quanto riguarda le certificazioni dei privati, queste attengono alla conformità di prodotti o metodi di produzione a
norme e standard tecnici. In alcuni casi si tratta di certificazioni prodotte da imprese non controllate da soggetti pubblici ma
accreditate da organismi privati.
13.Poteri relativi ad atti amministrativi generali
In precedenza si è fatto riferimento a poteri il cui esercizio produce effetti nei confronti di situazioni puntuali e concrete.
L'amministrazione può tuttavia determinare effetti giuridici in relazione a tutti i rapporti che abbiano le medesime
caratteristiche. I relativi atti amministrativi sono detti generali, in quanto sono in grado di produrre effetti nei confronti di
una generalità di soggetti (es. bandi di concorso, ordinanze del ministero della pubblica istruzione per la determinazione
delle modalità di conferimento di incarichi e supplenze). Tali atti sono ricollegabili allo schema norma-potere-effetto: la
legge non produce direttamente l'effetto in quanto attribuisce il relativo potere all'amministrazione.
Essi non sono però caratterizzati dall'astrattezza, in quanto la produzione dell'effetto non necessita di un ulteriore esercizio
di poteri da parte di altro o medesimo soggetto pubblico. Per altro verso, e di conseguenza, essi riguardano un caso
concreto: il bando "regola" quello specifico episodio e non tutti le ulteriori fattispecie astrattamente configurabili. Tale
aspetto rende più evidente la differenza rispetto a un regolamento, che viceversa disciplina in modo astratto tutte le future
fattispecie che ricadono nel suo campo di applicazione. Ancora: i destinatari dell'atto generale, pur non identificabili a
priori, lo sono a valle dell'atto, proprio perché essi sono quelli coinvolti nella specifica fattispecie particolare oggetto dei
suoi effetti. Gli atti amministrativi generali, come quelli normativi, non necessitano di motivazione e sono assoggettati a
una specifica disciplina processuale in tema di competenza.
La circostanza che gli atti amministrativi generali costituiscano esercizio di un potere amministrativo consente di
giustificare la loro derogabilità per il caso singolo da parte dell'amministrazione. Qui sta una delle differenze principali
rispetto all' atto amministrativo normativo: quest'ultimo non ammette deroghe mediante un atto amministrativo puntuale e
concreto (principio della inderogabilità dei regolamenti), giacché in tal caso si avrebbe la prevalenza del potere
amministrativo su quello normativo.
Dagli atti generali vanno tenuti distinti quelli plurimi (si pensi al decreto che dispone l'espropriazione per più soggetti), i
cui destinatari sono immediatamente individuabili già al momento dell'adozione dell'atto. A differenza dell'atto generale,
l'atto plurimo, poi, è fonte di effetti pregiudizievoli immediati ed è impugnabile.
14.Cenni ad alcune tra le più rilevanti vicende giuridiche il cui studio interessa il diritto amministrativo: il decorso del
tempo e la rinuncia
Molte vicende rilevanti per il diritto amministrativo sono prodotte secondo l'illustrato schema norma-fatto-effetto, essendo
ricollegate al sussistere di peculiari fatti o qualità: l'effetto dipende direttamente dalla legge e non dall'atto (o dalla volontà
del suo autore), che è la semplice condizione perché si producano le conseguenze interamente da essa regolate.
Nel corso del capitolo III si è già fatto cenno ad alcuni fatti (es. modi di acquisto della proprietà regolati dal codice civile)
che possono determinare l'acquisto di diritti reali a favore dell'amministrazione. Ora si ricorderanno alcuni altri fatti, atti e
negozi che assumono peculiare interesse per il diritto amministrativo.
Tra i fatti va menzionato il decorso del tempo: esso produce la nascita, o la modificazione di una serie di diritti ed è alla
base degli istituti della prescrizione e della decadenza. Il potere, in quanto attributo della soggettività, non è trasmissibile.
Esso non è neppure prescrittibile a seguito del decorso del tempo. Va al riguardo ricordata la regola, individuata dalla
giurisprudenza, secondo cui, anche nell'ipotesi in cui sia scaduto il termine di novanta giorni per decidere un ricorso
gerarchico proposto da un cittadino davanti ad un'autorità amministrativa, non si consuma il potere di decidere il ricorso,
sicché l'amministrazione può emanare una decisione tardiva.
Il potere trascende i singoli rapporti: la circostanza che esso non sia esercitato in un singolo caso può determinare la
decadenza limitatamente al caso considerato, ma non impedisce che lo stesso potere possa essere esercitato in altri casi.
Il tempo, unitamente all'esercizio di un diritto, è alla base dell'istituto dell'usucapione dei diritti reali, ma per quanto attiene
al diritto amministrativo occorre ricordare che non è ammesso l'acquisto per usucapione di diritti su beni demaniali.
Tra gli atti che producono vicende estintive di diritti si annovera poi la rinuncia, negozio avente più propriamente effetto
abdicativo cui può seguire un effetto traslativo (accrescimento della sfera altrui) o estintivo (se la situazione abdicata non
entra nella sfera di altro soggetto: si pensi alla rinunzia ad una sovvenzione). Il potere, intrasmissibile e imprescrittibile, non
può essere oggetto di un atto di rinuncia. Sono invece rinunciabili i diritti soggettivi, salvo che il legislatore non imponga un
divieto a tutela dell’interesse del titolare. L’interesse legittimo non può essere oggetto di rinuncia in quanto il titolare non
può disporre del potere ad esso correlato: l’interesse legittimo segue il potere e il suo esercizio.
15.Segue: fatti, atti e negozi costitutivi di obblighi. Rinvio
Particolarmente rilevanti nel diritto amministrativo sono inoltre fatti, atti e negozi costitutivi di obblighi in capo a soggetti
pubblici: trattasi del contratto, del fatto illecito, della legge e delle altre fonti di cui all' art. 1173 c.c. (tema nel cap. VIII).
16. L’esercizio del potere: norme di azione, discrezionalità e merito
Ora descriviamo la modalità di dinamica giuridica incentrata sullo schema norma-potere-effetto. Allorché sia attribuito
un potere, l'ordinamento sceglie di rimettere alla successiva scelta autonoma dell'amministrazione la produzione di vicende
giuridiche in ordine a situazioni soggettive dei privati. Talora l'amministrazione stessa fissa in anticipo alcuni criteri cui si
atterrà nell' esercizio in concreto del potere. Molto più spesso, tuttavia, le modalità di azione sono individuate in via
generale e astratta mediante norme giuridiche.
Le norme che disciplinano l'azione amministrativa non partecipano dei caratteri delle norme di relazione (quelle che
risolvono conflitti intersoggettivi sul piano dell'ordinamento generale): tali norme, proprio perché hanno ad oggetto
l'azione dell'amministrazione, e non l'individuazione di assetti intersoggettivi, sono definite norme di azione. In esse difetta
la valutazione di assoluta meritevolezza dell'interesse finale, propria delle sole norme di relazione. Esse si distinguono dalle
norme di relazione anche sotto un altro profilo: possono provenire non soltanto dalla legge, ma dall’amministrazione stessa,
la quale dispone di potere normativo.
La predeterminazione delle modalità di azione riduce con tutta evidenza gli spazi di scelta dell'amministrazione: l'azione
risulta cioè in tutto o in parte «vincolata». Tuttavia il potere resta tale: l'effetto giuridico, infatti, non deriva direttamente
dalla legge, ma pur sempre dall' esercizio del potere e dal provvedimento, ancorché non sussista possibilità di scelta in
ordine al contenuto del provvedimento. Il potere sussiste sempre, come dimostrato dal fatto che l'amministrazione potrebbe
emanare un atto illegittimo, comunque produttivo di effetti.
Ciò non esclude che vi sia la tendenza, nell’ordinamento, a espungere alcuni atti vincolati dal novero dei provvedimenti,
sostituendoli con meccanismi diversi e a predisporre forme di tutela particolare con riferimento ai casi di attività vincolata o
quando non residuino ulteriori margini di discrezionalità. L'accenno è di interesse anche perché mostra che gli «spazi di
scelta» che integrano la discrezionalità possono progressivamente ridursi nel corso del procedimento, in forza delle varie
attività istruttorie ivi svolte. La discrezionalità, inoltre, si riduce anche in forza del c.d. autovincolo dell'amministrazione,
che predefinisce criteri e modalità cui si atterrà nelle proprie scelte.
La discrezionalità amministrativa è quindi lo spazio di scelta che residua allorché la normativa di azione non predetermini
in modo completo tutti i comportamenti dell’amministrazione. Può attenere a vari profili dell’azione amministrativa, quali il
contenuto del provvedimento, la stessa decisione relativa al “se” e “quando” rilasciare il provvedimento.
La discrezionalità in questione non è esercitata in osservanza di norme predefinite; le regole che presiedono allo
svolgimento della discrezionalità si evincono in occasione della rilevazione della loro violazione, che dà luogo al vizio di
eccesso di potere e si riassumono nel principio di logicità- congruità: vuol dire che la scelta deve risultare logica e congrua
tenendo conto dell’interesse pubblico perseguito. Si pensi al caso della pianificazione urbanistica: 1'amministrazione, dopo
aver rispettato tutte le norme di azione previste dall'ordinamento, nel dare assetto a "quel" territorio, si trova a dover
affrontare un "caso concreto" che non è disciplinato da una norma scritta generale e astratta; all' amministrazione è dunque
riservato un ambito di scelta che dovrà essere effettuata tenendo conto dei caratteri della situazione e degli interessi
implicati (cd. ponderazione).
L’insieme delle soluzioni ipotizzabili come compatibili con il principio di congruità in un caso determinato definisce il
merito amministrativo, che normalmente è sottratto al sindacato del giudice amministrativo e attribuito alla scelta
esclusiva dell’amministrazione.
Tale discrezionalità, nota anche come “discrezionalità pura”, va tenuta distinta dalla discrezionalità tecnica, che si collega
ad una valutazione: si tratta della possibilità di valutazione che spetta all’amministrazione allorché sia chiamata a
qualificare fatti suscettibili di varia valutazione e si riduce ad un’attività di giudizio a contenuto scientifico, effettuata da chi
gode di specifiche competenze tecniche.
Esiste poi la c.d. discrezionalità mista allorquando coesistono discrezionalità amministrativa pura e tecnica.
17.Le fonti del diritto (in particolare quelle legislative) attinenti alle situazioni giuridiche
Le fonti giuridiche sono i fatti e gli atti produttivi di norme giuridiche. La Costituzione menziona le fonti primarie (che
tipizza) e i regolamenti. In generale, la centralità delle leggi si è offuscata in ragione dell'esistenza delle fonti europee, della
presenza della Cedu, delle regole poste dalle autorità indipendenti, della così detta soft law e della produzione delle corti
europee, che estrapolano dalle tradizioni giurisprudenziali domestiche principi giuridici che poi ricadono negli ordinamenti
degli Stati.
Accanto alle fonti che attribuiscono e riconoscono gli enti pubblici e le loro situazioni giuridiche (norme di relazione), vi
sono quelle relative alle modalità di azione e di organizzazione amministrativa (norme di azione).
Il riconoscimento dei soggetti dell'ordinamento e la soluzione dei conflitti intersoggettivi che li riguardano devono avvenire
da parte di una fonte dell'ordinamento giuridico generale: essi spettano dunque essenzialmente alla Costituzione, alla legge
e agli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi). Tuttavia, anche norme non facenti parte dell'ordinamento
generale, ma di quello amministrativo, quali i regolamenti amministrativi talora concorrono a definire i limiti delle
situazioni soggettive e delle soggettività e in particolare dei poteri amministrativi e, più in generale, l'assetto delle relazioni
intersoggettive. Ciò può avvenire a condizione che una legge o un atto equiparato conferiscano alla fonte secondaria la
possibilità di disciplinare anche questi profili.
Per quanto riguarda le norme di relazione, utilizzando il criterio funzionale-oggettivo che le distingue delle norme di azione,
anche nella Costituzione possono essere individuate norme direttamente attributive di poteri e diritti, come ad esempio nel
caso del diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost. (questo viene considerato sia come fonte di diritto soggettivo sia come
norma che richiede un successivo intervento del legislatore che disciplina l’azione e l’organizzazione al fine di soddisfare la
pretesa dei consociati).
18.Cenni ad alcuni riflessi della distinzione tra norme di relazione norme di azione sui problemi della difformità dell’atto
dal paradigma normativo e del riparto di giurisdizione
Le norme di relazione proteggono in particolar modo i diritti soggettivi. Si può dunque dire che alla violazione di una
norma di relazione consegue la lesione di un diritto soggettivo. Poiché il giudice che tutela i diritti soggettivi è il giudice
ordinario, la stessa situazione può essere descritta affermando che il giudice ordinario sindaca la violazione delle norme di
relazione. Sul piano sostanziale va aggiunto che, ove l'amministrazione agisca in violazione di una norma di relazione, essa
pone in essere un comportamento che non è espressione di un potere. Si pensi al caso di un provvedimento di esproprio
emanato da un'amministrazione che violi la norma di relazione nella parte in cui essa individua, quale soggetto titolare del
potere, un'altra amministrazione: ebbene, in tal caso, atteso che nell'amministrazione procedente manca il potere si deve
concludere che l'atto emanato non produce gli effetti tipici del provvedimento.
L'atto amministrativo emanato in assenza di potere è da qualificare come nullo ed è, di norma, sindacabile dal giudice
ordinario. Posto che esso è emanato in una situazione in cui manca il potere, si può aggiungere che il giudice ordinario ha
giurisdizione nei casi in cui l'amministrazione abbia agito in carenza di potere, ponendo in essere un atto nullo e, cioè, non
produttivo di effetti. A riguardo, l’art. 21 septies l. 241/1990 dispone che “è nullo il provvedimento amministrativo che
manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione” e “negli altri casi espressamente previsti
dalla legge”: questi casi sono previsti nel d.lgs. 104/2010 ove si elencano le ipotesi di atto nullo adottato in violazione o
elusione del giudicato, devolvendole alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
Assai più controversa è la situazione della c.d. carenza di potere in concreto, la quale riguarda i casi in cui l'atto, pur
emanato in violazione di una categoria peculiare di norme di relazione, produce alcuni effetti: tali norme, infatti, non
attribuiscono il potere in astratto, già conferito da altre norme e dunque esistente, ma lo definiscono in concrete fattispecie
in capo ad un determinato soggetto pubblico, sicché, pur in presenza di una violazione di queste norme, è consentita
l'esplicazione di alcuni effetti e il provvedimento è qualificato come illecito.
Per quanto riguarda le norme di azione, poiché l'azione amministrativa è legittimamente svolta quando sia posta in essere
nel rispetto di esse e poiché l'interesse legittimo è la pretesa alla legittimità dell'azione amministrativa, si può concludere
che l'interesse legittimo è anche la pretesa all'osservanza delle norme di azione. Sotto il profilo processuale, la tutela
dell'interesse legittimo è affidata al giudice amministrativo. Si è testé osservato che l'azione amministrativa che non rispetti
le norme di azione è sicuramente illegittima: tuttavia, ove siano rispettate le norme di relazione che attribuiscono il potere,
l'atto finale non è nullo, proprio perché sussiste per esso la giuridica possibilità di produrre effetti. L'atto è cioè emanato in
una situazione in cui il potere sussiste, ma è stato esercitato in modo non corretto: si può allora concludere che la
giurisdizione del giudice amministrativo si individua in base al canone del cattivo esercizio del potere amministrativo. Il
giudice che accerti la violazione delle norme di azione dovrà eliminare sia l'atto, sia i suoi effetti, emanando una decisione
di annullamento. Il regime dell'atto posto in essere in violazione di norme di azione è dunque l'annullabilità. L'art. 21
octies, 1. 241/1990 dispone infatti che è «annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o
viziato da eccesso di potere o da incompetenza».
Le norme di azione, quanto alla provenienza soggettiva, sono prodotte sia dalle fonti secondarie, sia dalle fonti primarie che
si connotino, sotto il profilo oggettivo, per il fatto di essere poste in vista della cura di interessi pubblici e di non definire
rapporti intersoggettivi. Tra queste fonti vanno annoverate anche le leggi regionali.
19.Le norme prodotte dalle fonti comunitarie
I trattati comunitari e le fonti di provenienza comunitaria disciplinano oggi ambiti rilevanti del diritto amministrativo e, di
conseguenza, agiscono come strumenti di armonizzazione del diritto amministrativo dei vari paesi membri.
Tra tali fonti spiccano i regolamenti comunitari, atti di portata generale, obbligatori e direttamente applicabili nei rapporti
c.d. «verticali» tra pubblici poteri e cittadini, e le direttive comunitarie, vincolanti per lo Stato membro in ordine al
risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi per conseguire
quel risultato. In entrambi i casi, organi comunitari producono norme direttamente applicabili.
I rapporti tra fonti nazionali e fonti comunitarie sarebbero improntati al regime dell'integrazione, nel senso che esse
costituiscono un sistema integrato in cui deve essere riconosciuto il primato di quelle comunitarie.
Secondo la Corte costituzionale, il regolamento comunitario deve essere applicato dal giudice interno anche disapplicando
la legge nazionale incompatibile (Corte cost., n. 170/1984), sicché la norma regolamentare comunitaria finisce per costituire
parametro di legittimità dell'atto amministrativo. L'applicazione della norma comunitaria e la disapplicazione di quella
nazionale è dunque il meccanismo processuale mediante il quale si esprime la prevalenza della normativa comunitaria.
Si è così individuata la categoria delle direttive immediatamente applicabili dalle nostre amministrazioni (la cui efficacia è
però solo verticale, nel senso che si produce unicamente nei confronti dello Stato, mentre i cittadini non possono farle
valere nei rapporti con altri cittadini). Le altre direttive, invece, sono vincolanti soltanto a seguito della loro attuazione nel
nostro ordinamento.
La giurisprudenza afferma che, prima che sia scaduto il termine per il recepimento, la direttiva avrebbe una rilevanza
giuridica che si traduce in un dovere di standstill. In sostanza si tratta del dovere per il legislatore di astenersi dall'adottare
qualsiasi misura che possa compromettere il conseguimento del risultato prescritto e per il giudice di astenersi da qualsiasi
forma di applicazione del diritto nazionale da cui possa derivare la messa in pericolo del risultato voluto dalla direttiva.
Va notato che il dovere di disapplicare la normativa italiana confliggente con quella comunitaria è stato riconosciuto altresì
in capo alla PA e all'autorità antitrust.
Laddove le fonti ora esaminate non attribuiscano poteri o diritti, esse debbono essere ascritte alla categoria delle norme di
azione, con tutte le conseguenze prima richiamate (sindacabilità da parte del giudice amministrativo dell'atto da esse
difforme e annullabilità dello stesso). È questo del resto il criterio seguito dalla nostra giurisprudenza: il regime dell'atto
amministrativo conforme a una fonte interna disapplicabile perché in contrasto con la disciplina europea sarà di nullità se la
norma interna è attributiva del potere, mentre sarà di mera annullabilità nelle ipotesi in cui la norma nazionale sia una
semplice norma di azione.
La giurisprudenza comunitaria si è altresì occupata del regime del provvedimento puntuale e concreto contrastante con
disposizioni europee direttamente applicabili, statuendo che esso deve essere disapplicato dal giudice (alla stessa stregua,
dunque, delle norme generali e astratte), ancorché divenuto inoppugnabile.
20.Le fonti soggettivamente amministrative: considerazioni generali. Soft law e linee guida
I regolamenti sono atti soggettivamente amministrativi: essi sono emanati da organi amministrativi (dello Stato, della
regione e degli altri enti pubblici) titolari del potere normativo, consistente nella possibilità di emanare norme generali e
astratte. In quanto atti amministrativi, essi possono essere annullati dal giudice amministrativo (art. 113 Cost.) e disapplicati
da quello ordinario; in quanto fonti del diritto, sono assoggettati al principio jura novit curia.
Esercitando il potere normativo, l'amministrazione può dunque dettare parte della disciplina che essa stessa dovrà applicare
nell'esercizio dei propri poteri amministrativi. Peraltro, i regolamenti, in particolare quelli espressione delle autonomie
locali, invece di stabilire norme di azione relativamente all'attività futura dell'amministrazione, incidono direttamente sulla
situazione giuridica dei privati riconducibili alloro campo soggettivo di applicazione. Tutto ciò solleva il delicato problema
di dovere individuare i limiti entro cui sia tollerabile una disciplina differenziata in ambito locale nella conformazione di
diritti o libertà radicati nell'ordinamento generale o coperti da riserva di legge.
L'attività normativa dell'amministrazione è soggetta non solo al principio di preferenza della legge, ma anche a quello di
legalità, il quale, da un punto di vista formale, impone che ogni manifestazione di attività normativa trovi il proprio
fondamento in una legge generale che indichi l'organo competente e le materie in ordine alle quali esso può esercitarla.
Ardua è l'individuazione dei caratteri degli atti normativi soggettivamente amministrativi, tali da distinguerli da altri atti
amministrativi. In particolare, la già citata categoria degli atti amministrativi generali spesso non è facilmente
differenziabile da quella degli atti normativi, i quali ultimi sarebbero caratterizzati dall’astrattezza (indefinita ripetibilità dei
precetti). Siffatto carattere manca negli atti generali, i quali sono relativi a un caso concreto. Di conseguenza, i destinatari
dell'atto generale sono identificabili a valle dell'atto.
Altri hanno individuato un criterio formale di distinzione tra atti normativi e atti amministrativi generali: solo i primi sono
sottoposti ad un particolare iter procedimentale.
La scelta legislativa operata dalla l. 400/1988 ha comportato un deciso aumento degli atti ministeriali emanati al di fuori
delle regole procedurali sopra richiamate, indotto dalla volontà dell'organo politico di sottrarsi ai maggiori condizionamenti
che esse comportano, sicché il problema di sostanza continua a sussistere.
Più in generale si sfiora il problema delle c.d. fonti atipiche che deviano da un modello generale predefinito. Non sono
generalmente considerate fonti del diritto le circolari, gli atti che pongono le c.d. norme interne, che rilevano unicamente
nell’apparato amministrativo e che sono talora diffuse mediante circolare. Stesso discorso per la prassi e per i bandi di
concorso.
Permangono dubbi in ordine ai piani regolatori generali, atti che secondo parte della giurisprudenza e della dottrina
avrebbero natura mista (essi possiederebbero natura normativa in ordine alle statuizioni contenute nelle c.d. «norme di
attuazione», mentre sarebbero atti generali quanto alle indicazioni attinenti alle localizzazioni e zonizzazioni). Un cenno
richiedono infine i bandi militari: essi sono atti normativi emanati dalle autorità militari in tempo di guerra, aventi per
espressa scelta legislativa forza di legge.
Particolare rilievo, nel diritto amministrativo, assume la c.d. soft law e, cioè, il diritto non vincolante, spesso effetto di
processi di negoziazione e di partecipazione. A livello europeo, un percorso di progressiva attribuzione di rilevanza
alla soft law è evidente con riferimento ad atti quali le raccomandazioni e i pareri che, pur considerati formalmente non
vincolanti, finiscono per condizionare i giudici nazionali nella soluzione delle controversie.
La giurisprudenza nazionale ha invece negato rilevanza giuridica a tale diritto, anche se in tema di authority si è deciso che
la violazione delle comunicazioni emanate dall'Anac assumono valenza di canoni oggettivi di comportamento per gli
operatori del settore.
La questione si pone soprattutto in relazione alle linee guida emanate dall'Autorità anticorruzione. La disciplina posta dal
d.lgs. 50/2016 nel settore dei contratti delle amministrazioni, infatti, ha moltiplicato gli spazi di utilizzo delle linee guida
con il fine di sostituire alle fonti tradizionali, più rigide e complesse, un meccanismo di regolazione flessibile e veloce,
affidato appunto a un'autorità che presiede al settore dei contratti. Il problema nasce dal fatto che tali linee guida non sono
sempre prive di vincolatività. Il "codice", più nel dettaglio, prevede tre tipologie di linee guida: a) quelle approvate con
decreto ministeriale (che possono essere dunque ricondotte al modello dei regolamenti ministeriali, adottati a seguito di un
procedimento speciale), b) quelle vincolanti (ad esempio in materia di sistema di qualificazione degli esecutori di lavori
pubblici) e c) quelle non vincolanti. Le fonti non vincolanti potrebbero essere accostate alle circolari o alle direttive. Quelle
vincolanti, invece, soltanto a prezzo di alcune forzature possono essere ricondotte alla nozione di regolazione.
La possibilità che le autorità indipendenti emanino atti normativi (atti di regolazione) è stata ammessa dal Consiglio di
Stato nel 2005. La scelta può prestare il fianco a critiche, sia perché spesso non sono tipizzati in modo compiuto i limiti
della potestà e la procedura di formazione dell'atto normativo, sia perché le autorità indipendenti sono soggetti privi di
legittimazione e di responsabilità politica.
Questo potere di regolazione è stato ammesso dalla giurisprudenza soltanto a condizione che si osservino alcuni limiti,
richiedendosi, in particolare, accanto al rispetto del principio di legalità, anche una "copertura costituzionale" e/o una
"copertura comunitaria". Inoltre, il Consiglio di Stato ha ancorato questa regolazione al carattere tecnico e settoriale
dell'intervento.
Tornando alle linee guida vincolanti emanate dall'Anac, questi caratteri non paiono facilmente ravvisabili. Siamo, infatti, al
cospetto di poteri di regolazione che non concernono, né si ravvisano coperture costituzionali o europee o, ancora, stringenti
indicazioni poste dal codice volte a limitare il potere di regolazione. Esse, in sostanza, sostituiscono in gran parte la
precedente disciplina regolamentare.
21.I regolamenti amministrativi
Sotto il profilo del soggetto e dell'organo da cui provengono, i regolamenti si distinguono in regolamenti governativi,
regolamenti ministeriali e regolamenti degli enti pubblici.
La disciplina dei regolamenti governativi è oggi fissata dalla 1. 400/1988. Per la loro emanazione la legge richiede la
deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio di Stato. Emanati con decreto del Presidente della
Repubblica e sottoposti al visto e alla registrazione della Corte dei conti, essi sono pubblicati nella Gazzetta ufficiale e
debbono essere espressamente denominati «regolamenti». L'art. 17 della 1. 400/1988 prevede diversi tipi di regolamenti
governativi:
a) regolamenti esecutivi -> rappresentano le fonti governative mediante le quali sono poste norme di dettaglio
rispetto alla legge o al decreto legislativo da eseguire. Essi si limitano a specificare la legge.
b) regolamenti attuativi e integrativi rispetto a leggi che pongono norme di principio -> possono essere adottati al di
fuori delle materie riservate alla competenza regionale e possono sviluppare i principi posti dalla legge,
introducendo elementi di integrazione.
c) regolamenti indipendenti -> emanati per disciplinare le materie in cui ancora manchi la disciplina da parte di leggi
o atti aventi forza di legge, sempre che non si tratti di materie comunque riservate alla legge. La categoria era ed è
molto discussa, soprattutto da parte di chi teme la possibilità che emerga un polo normativo concorrente rispetto a
quello parlamentare.
d) regolamenti che disciplinano l'organizzazione e il funzionamento delle amministrazioni pubbliche secondo le
disposizioni dettate dalla legge -> i regolamenti di organizzazione possono assumere i tratti sia dei regolamenti di
esecuzione, sia di quelli integrativi e attuativi.
e) regolamenti di delegificazione -> il termine delegificazione indica l'attribuzione al potere regolamentare del
compito di disciplinare materie anche in deroga alla disciplina posta dalla legge. Tali regolamenti possono essere
adottati solo a seguito di una specifica previsione di legge nelle materie non coperte da riserva di legge. L'effetto
abrogante è da riferire alla legge che autorizza l'emanazione e non al regolamento stesso: la volontà abrogativa
risiede cioè nelle norme di legge, ma lo spiegarsi del relativo effetto è rinviato al momento dell'intervento dell'atto
regolamentare.
I regolamenti di delegificazione e quelli di organizzazione, atti di importanza essenziale nel quadro delle fonti, sembrano
configurare una sorta di stabile riserva di regolamento, per quanto non sancita a livello costituzionale.
La legge contempla poi regolamenti ministeriali, nonché regolamenti interministeriali, allorché siano adottati con
decreti interministeriali in quanto attinenti a materie di competenza di più ministri. L'art. 17, commi 3 e 4, 1. 400/1988,
prevede che i regolamenti ministeriali debbano trovare il fondamento in una legge che espressamente conferisca il relativo
potere al ministro ed essere attinenti alle «materie di competenza del ministro». Essi vanno comunicati al Presidente del
Consiglio dei ministri prima della loro emanazione, sono sottoposti al parere obbligatorio del Consiglio di Stato, al
visto della Corte dei conti e alla pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale.
22.Le altre fonti secondarie; in particolare: statuti e regolamenti degli enti locali. I testi unici
L'autonomia normativa è riconosciuta non solo a Stato e regioni, ma anche ad altri enti pubblici. Essa si estrinseca mediante
l'emanazione di statuti e regolamenti. L'attenzione sarà ora rivolta agli statuti e ai regolamenti degli enti locali, atteso che
essi rappresentano i più importanti esempi di espressione di autonomia normativa degli enti diversi da Stato e regioni.
L'autonomia statutaria e regolamentare degli enti locali è stata espressamente riconosciuta dalla l. 142/1990 (ora T.U. enti
locali), secondo un modello nel quale alla legge spetta dettare le linee fondamentali dell'organizzazione dell'ente, lasciando
alle scelte autonome la possibilità di arricchire e integrare tale disegno.
Lo statuto è un atto, espressione di autonomia costituzionalmente riconosciuta, che deve unicamente osservare i principi
fissati dalla Costituzione, senza che vi sia spazio per una diretta ingerenza della legge statale o regionale negli ambiti non
espressamente assoggettati a disciplina legislativa. Con la l. Cost. 3/2001 si ottiene poi il riconoscimento costituzionale di
una riserva di normazione, posta al riparo dalle ingerenze sia della legge statale (così attenuandosi il principio della
preferenza della legge), sia delle leggi regionali e dei regolamenti governativi.
Lo statuto, deliberato dal Consiglio nel rispetto di quanto stabilito dalla legge statale in attuazione dell'art. 117.2, lettera p)
Cost. (che attribuisce alla legge statale il compito di disciplinare gli organi di governo dell'ente locale), stabilisce i princìpi
di organizzazione e funzionamento dell'ente, le forme di controllo, anche sostitutivo, nonché le garanzie delle minoranze e
le forme di partecipazione popolare.
La normazione degli enti locali non si esaurisce nello statuto, atteso che la legge riconosce ad essi pure la potestà
regolamentare, anche se il primo si colloca in posizione di supremazia nei confronti dei regolamenti. L'art. 4.4 della l.
131/2003 chiarisce che «la disciplina dell'organizzazione, dello svolgimento e della gestione delle funzioni dei comuni,
delle province e delle città metropolitane è riservata alla potestà regolamentare dell'ente locale, nell'ambito della
legislazione dello Stato o della regione, che ne assicura i requisiti minimi di uniformità.
Rimane il dubbio se il regolamento sia da qualificare come fonte di rango secondario rispetto allo statuto: la risposta
potrebbe essere positiva, atteso che l'art. 114 Cost., nel definire in via generale comuni, province, città metropolitane (e
regioni) come enti autonomi, ha cura di precisare che essi si dotano di «propri statuti», senza citare i regolamenti,
confermando la posizione privilegiata della fonte statutaria. In ogni caso, la Corte cost. nel 2006 ha chiarito che solo gli enti
locali possono adottare i regolamenti in esame, restando escluso qualsiasi potere sostitutivo o suppletivo delle fonti
regionali.
Un cenno meritano poi i testi unici, i quali raccolgono in un unico corpo le norme che disciplinano una certa materia. Essi
non hanno carattere innovativo delle preesistenti fonti se sono formati da un'autorità che non dispone di potestà normativa.
Questi testi unici «compilativi», ispirati a permettere la conoscibilità della normativa, sono da inquadrare tra le mere fonti
di cognizione che non modificano le fonti raccolte. Ove compilati dal governo o da altra amministrazione, i testi unici
possono avere valore interpretativo delle norme raccolte e ordinate, comunque non vincolante per i terzi e per il giudice.
Il testo unico è deliberato dal Consiglio dei ministri, previo parere del Consiglio di Stato, ed è emanato con decreto del
Presidente della Repubblica.
Hanno invece forza novativa, ancorché non modifichino le fonti raccolte, i testi unici emanati da soggetti dotati di
competenza normativa. In tale ultimo caso trattasi di vere e proprie fonti di produzione: nelle ipotesi in cui i testi unici che
raccolgono leggi siano formati dal governo, occorre dunque una legge di delegazione dell'esercizio del potere legislativo.
L'art. 20, 1. 59/1997 prevede l'emanazione ogni anno di una legge per la semplificazione e valorizza l'istituto della
codificazione.
La 1. 246/2005 prevede, poi, con riferimento agli atti normativi del Governo, il procedimento di analisi di impatto della
regolazione che contempli anche 1'opzione zero e, cioè, la rinuncia a introdurre norme. Accanto all'AIR viene pure
introdotta la verifica dell'impatto della regolamentazione (VIR), che consiste nella valutazione del raggiungimento delle
finalità e nella stima dei costi e degli effetti prodotti da atti normativi sulle attività dei cittadini e delle imprese e
sull'organizzazione e sul funzionamento delle PA.
L'AIR è stata estesa (1. 229/2003; d.lgs. 50/2016) anche alle autorità indipendenti, ove funziona decisamente meglio
rispetto a quella che investe gli atti del Governo. L'istituto "incrocia" anche la misurazione degli oneri amministrativi
imposti alle imprese e il c.d. gold plating (nel recepimento di direttive UE non possono essere introdotti livelli di
regolazione superiori a quelli minimi richiesti).
Capitolo VI
IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO
1.Introduzione
Il provvedimento è l'atto amministrativo che produce vicende giuridiche in ordine alle situazioni giuridiche di soggetti terzi.
L'emanazione del provvedimento finale è di norma preceduta da un insieme di atti, fatti e attività (caratterizzati dallo scopo
comune e unitario) che confluiscono nel procedimento amministrativo. I casi di provvedimenti emanati senza porre in
essere un procedimento sono pochissimi: si può immaginare l'ipotesi dell'atto d'urgenza adottato immediatamente
dall'organo competente.
Il provvedimento tipico è il filtro attraverso cui ciò che avviene nel procedimento diventa rilevante sul piano
dell'ordinamento generale. Accanto a questa concezione (“cosa” è il procedimento), altre posizioni hanno cercato di definire
"come" esso deve svolgersi e quali regole debbono regolare il confronto degli interessi che in esso si realizza. Il
procedimento amministrativo è così stato definito come «forma della funzione». Al fine di meglio cogliere siffatta formula
esplicativa, occorre chiarire che il passaggio dall'attribuzione del potere alla concreta produzione dell'effetto finale è
contraddistinto da una serie coordinata di attività e di atti «endoprocedimentali» che costituisce la funzione. Essa fa in
qualche modo da tramite tra una situazione statica (il potere) e un'altra situazione statica (l'effetto prodotto dall'atto). In tale
ambito si colloca il procedimento amministrativo, che dà evidenza a questo momento, rappresentando appunto la forma
esteriore con la quale si manifesta il farsi dell'azione amministrativa che deve svolgersi rispettando alcuni principi di
"legittimità" e, in particolare, il criterio del contraddittorio.
Il procedimento trova la sua ragion d'essere in una serie di esigenze e di caratteristiche peculiari del diritto pubblico, tra le
quali si ricordano: a) la necessità di dare evidenza alle modalità di scelta effettuate dall'amministrazione in vista
dell'interesse pubblico; b) l'importanza di enucleare i vari passaggi che conducono alla determinazione conclusiva ai
fini del sindacato operato dal giudice amministrativo; c) l'esistenza di norme giuridiche (norme di azione) alle quali è
soggetta l'amministrazione nel corso della sua attività; d) poiché la «funzione» costituisce essenzialmente esercizio del
potere discrezionale, il procedimento deve essere strutturato in modo da consentire che la scelta discrezionale possa
proficuamente avvenire.
La più recente normativa mira a configurare il procedimento come modulo nel cui interno far confluire l'esercizio di più
poteri provvedimentali tra di loro connessi in quanto riferiti ad una medesima attività del privato. Al riguardo, è da
segnalare la disciplina relativa allo sportello unico, istituito con il d.l. 112/2008, il cui regolamento emanato con d.p.r.
160/2010, prevede un procedimento automatizzato e uno ordinario, che può contemplare l'indizione di una conferenza di
servizi. Va ancora ricordato che l'art. 5, d.p.r. 380/2001, testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia, prevede l'importante figura dello sportello unico per l'edilizia, costituito presso le amministrazioni comunali.
In queste ipotesi il procedimento è, da un lato, istituto preordinato ad acquisire e censire interessi secondari rispetto ad una
finalità primaria ma, dall’altro lato, esso mira a curare interessi pubblici perseguiti non più dalle varie amministrazioni
mediante distinti episodi procedimentali ma considerati unitariamente in un medesimo contesto.
2.Cenni alle esperienze straniere e alla disciplina comunitaria
Molteplici ordinamenti stranieri hanno provveduto da tempo a disciplinare il procedimento amministrativo.
In Austria, già nel 1925 era stata varata una complessa disciplina del procedimento amministrativo: essa concepisce
l'attività dell'amministrazione in termini analoghi a quella svolta dal giudice che deve decidere una controversia.
Più recente e di notevole importanza è la legge sul procedimento amministrativo della Repubblica federale tedesca del
1976, cui si è ispirato il legislatore italiano nell'elaborazione della l. 241/1990. Tra gli aspetti più rilevanti si ricordano
l'obbligo generale di motivazione, il diritto per i privati di essere sentiti e l'accesso ai documenti.
Anche la Spagna ha provveduto nel 1992 ad emanare una legge generale sul procedimento e sull'azione amministrativa,
disciplinando in particolare anche i profili di responsabilità della PA e dei funzionari. La disciplina è stata modificata nel
2015 per valorizzare i profili della trasparenza e della semplificazione.
Parzialmente diversa l'esperienza della Francia, ove la giurisprudenza del Conseil d'Etat ha da tempo enucleato principi
procedimentali assai importanti, quali il diritto di difesa dei cittadini nei procedimenti sanzionatori. A partire dal 1978,
comunque, sono state emanate disposizioni sull'accesso ai documenti amministrativi e sulla motivazione degli atti
amministrativi, per giungere, nel 2016, all'approvazione di un Code des relations entre le public et l'administration.
Nell'ordinamento inglese, ove si nega tradizionalmente l'esistenza di un diritto amministrativo in senso proprio, manca una
disciplina generale sul procedimento amministrativo. Tuttavia, le corti inglesi riconoscono principi procedimentali assai
importanti, quali quello della natural justice, che si è concretizzato nelle regole audi alteram partem e nemo judex in causa
sua. Si riconosce, inoltre, in capo alla amministrazione un dovere di agire correttamente (fairness).
L'importanza del diritto dell'Unione europea in materia procedimento tale deriva sia dal fatto che gli organi comunitari
pongono in essere molteplici procedimenti destinati ad avere effetti nel nostro ordinamento, sia dal fatto che sempre più
numerose norme di origine europea condizionano l’azione dell'amministrazione nazionale interferendo con la disciplina
interna del procedimento. Il procedimento amministrativo dell'Unione europea è soprattutto configurato come modulo
garantistico di tutela delle situazioni giuridiche soggettive, all'interno del quale deve essere assicurato il diritto di difesa: ciò
vale in particolare in tema di procedimenti sanzionatori e di concorrenza, ove è prevista la possibilità che gli interessati
manifestino il proprio punto di vista relativamente agli addebiti ad essi mossi. A tal fine, l’ordinamento comunitario
prevede alcuni importanti principi quali il diritto di accesso, partecipazione, obbligo di motivazione e notificazione degli
atti.
L'interferenza tra procedimenti comunitari e procedimenti nazionali, ovvero la partecipazione, nel medesimo procedimento,
di amministrazioni nazionali e europee è all'origine di problemi di tutela giurisdizionale, atteso che, oltre ai giudici
nazionali, esiste anche una giurisdizione comunitaria. Al riguardo è significativa la sentenza della Corte di giustizia del
1992 (causa Borelli) in cui si è deciso che il ricorso avverso il provvedimento nazionale deve essere proposto davanti al
giudice nazionale.
3.L'esperienza italiana: la legge 7 agosto 1990, n. 241 e il suo ambito di applicazione
La 1. 7 agosto 1990, n. 241, recante «nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai
documenti amministrativi», non contiene una disciplina completa e esaustiva del procedimento, ma si limita a specificare
alcuni principi e a disciplinare gli istituti più importanti.
Un primo importante problema che va affrontato dall'interprete è quello di delimitare l'ambito di applicazione della legge.
Secondo l'art. 29, le disposizioni della «legge si applicano alle amministrazioni statali e agli enti pubblici nazionali». È
chiara l'influenza della riforma del titolo V della parte II della Costituzione (1. Cost. 3/2001) che, ampliando notevolmente
le materie rientranti nella potestà legislativa regionale (e non includendo il procedimento amministrativo tra quelle devolute
alla competenza esclusiva dello Stato), sembra aprire la via allo sviluppo della disciplina regionale sul procedimento. L’art.
29.2 stabilisce che le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle rispettive competenze, regolano le materie disciplinate dalla
l. 241 nel rispetto del sistema costituzionale e delle garanzie del cittadino nei riguardi dell'azione amministrativa. Tuttavia,
pur estendendo tale disciplina a tutti i procedimenti amministrativi di natura non statale, il c. 1 dispone che “gli articoli
relativi alle conseguenze del ritardo nella conclusione del procedimento, agli accordi, alla tutela in materia di accesso,
nonché a efficacia, invalidità, revoca e recesso del provvedimento si applicano a tutte le amministrazioni pubbliche”; qui è
evidente la volontà di radicare quella disciplina ad alcuni titoli di competenza legislativa statale quali “giurisdizione e
norme processuali; ordinamento civile, giustizia amministrativa”.
In modo ancora più chiaro, il c. 2 bis stabilisce che attengono ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all' art. 117, c. 2,
lettera m), Cost. (materia di competenza statale) le disposizioni concernenti gli obblighi per la pubblica amministrazione di
garantire la partecipazione dell'interessato al procedimento, di individuarne un responsabile, di concluderlo entro il termine
prefissato e di assicurare l'accesso alla documentazione amministrativa, nonché quelle relative alla durata massima dei
procedimenti.
Ai sensi del c. 2 ter, attengono altresì ai livelli essenziali delle prestazioni le disposizioni concernenti la presentazione di
istanze, segnalazioni e comunicazioni e il silenzio assenso, salva la possibilità di individuare casi ulteriori in cui tali
disposizioni non si applicano.
I livelli essenziali possono essere "incrementati": ai sensi del c. 2 quater, infatti, nel disciplinare i procedimenti
amministrativi di loro competenza, regioni e enti locali, mentre non possono stabilire garanzie inferiori a quelle assicurate ai
privati dalle disposizioni citate, possono prevedere livelli ulteriori di tutela.
Infine, ai sensi del c. 2 quinquies, le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano adeguano la
propria legislazione alle disposizioni dell'art. 29, secondo i rispettivi statuti e le relative norme di attuazione.
In ordine agli enti locali il T.U. prescrive che gli atti di autonomia normativa di comuni e province debbano contenere
norme sulla partecipazione procedimentale, sul diritto di accesso agli atti e alle informazioni di cui è in possesso
l'amministrazione.
Circa l'ambito oggettivo di applicazione della legge, va ricordato che l'attività amministrativa si caratterizza per il profilo
funzionale, per essere cioè diretta alla cura dell'interesse pubblico. Muovendo da tale premessa si può concludere che la
legge sul procedimento si applica altresì al formarsi della volontà della PA in relazione alla attività contrattuale.
4.I principi enunciati dalla legge 241/1990.
L'art. 1.1 della 1. 241/1990 afferma che l'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge (principio di legalità)
ed è retta da "criteri" di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza.
L'azione è economica quando il conseguimento degli obbiettivi avvenga con il minor impiego possibile di mezzi personali,
finanziari e procedimentali. L'economicità si traduce nell'esigenza del non aggravamento del procedimento se non per
straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria. Si rammenta che, all'interno del procedimento,
si trovano atti previsti dalla legge e atti che l'amministrazione ritiene opportuno e utile adottare; in applicazione del
principio in esame, debbono essere ritenuti illegittimi gli atti superflui, in particolare le duplicazioni ingiustificate di pareri e
di momenti istruttori.
L'efficacia è il rapporto tra obiettivi prefissati e obiettivi conseguiti ed esprime la necessità che l'amministrazione, oltre al
rispetto formale della legge, miri soprattutto al perseguimento nel miglior modo possibile delle finalità ad essa affidate.
La pubblicità è un carattere che costituisce conseguenza diretta della natura pubblica dell'amministrazione. Ciò implica, da
un lato, la necessaria preordinazione della sua attività alla soddisfazione di interessi pubblici e, dall’altro lato, richiede la
trasparenza dell’amministrazione stessa e della sua azione agli occhi del pubblico (ciò è legato al c.d. principio di
imparzialità).
Applicazione concreta dei criteri di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza è costituita dal diritto di accesso ai
documenti amministrativi. In senso lato, si rapportano alla pubblicità anche gli istituti della partecipazione al procedimento
amministrativo e della motivazione del provvedimento.
Fortissimo impulso alla trasparenza è derivato dall' approvazione del d.lgs. 33/2013 che impone la pubblicazione di
un'ampia categoria di atti e di informazioni: basti qui richiamare l'art. 35 che mira a rendere davvero trasparente l'operato
dell'amministrazione e ad agevolare la possibilità del cittadino di conoscere tutti i fatti procedimentali. Ai sensi di tale
norma, le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati relativi alle tipologie di procedimento di propria competenza. Per
ciascuna tipologia di procedimento sono pubblicate numerose informazioni (es. l'unità organizzativa responsabile
dell'istruttoria e il nome del responsabile del procedimento; per i procedimenti ad istanza di parte, gli atti e i documenti
da allegare all'istanza e la modulistica necessaria; i procedimenti per i quali il provvedimento dell'amministrazione può
essere sostituito da una dichiarazione dell'interessato; il nome del soggetto a cui è attribuito, in caso di inerzia, il potere
sostitutivo).
L'art. 1 non richiama il concetto di efficienza (rapporto tra mezzi impiegati e obbiettivi conseguiti); esso compare tuttavia
all'art. 3 bis, là dove si afferma che per conseguire appunto un'efficienza maggiore della loro attività, le amministrazioni
incentivano l'uso della telematica. Ai sensi dell'art. 3 bis, d.lgs. 82/2005, le amministrazioni pubbliche e i gestori o esercenti
di pubblici servizi comunicano di norma con il cittadino che ne sia in possesso tramite il domicilio digitale dallo stesso; per
altro verso, le istanze possono essere inviate anche per via telematica.
Nel complesso, il ricorso ai principi di efficienza, efficacia ed economicità accentua la considerazione complessiva
dell'azione amministrativa non già nell' ottica della mera legalità, bensì nella prospettiva del raggiungimento di un risultato.
Assai importante è il richiamo ai principi del diritto dell'Unione europea: si tratta, in realtà, di quelli elaborati dalla Corte di
giustizia, come il principio di proporzionalità, di pubblicità, di precauzione, di tutela del legittimo affidamento (e, cioè,
dell'affidamento consolidatosi in capo al privato come conseguenza di un atto favorevole che non può essere rimosso senza
adeguate garanzie).
Un ulteriore principio enucleabile dalla l. 241/1990 è quello che potrebbe definirsi dell'azione in via provvedimentale: ai
sensi dell'art. 2, l'amministrazione deve infatti concludere il procedimento «mediante l'adozione di un provvedimento
espresso».
5.Le fasi del procedimento
Il procedimento deve seguire un particolare ordine nella successione degli atti e delle operazioni che lo compongono.
a) Nel procedimento, innanzitutto, sono presenti atti che assolvono ad una funzione preparatoria rispetto
all'emanazione del provvedimento finale, confluendo nella c.d. fase preparatoria.
b) Segue la fase decisoria, in cui viene emanato l'atto o gli atti con efficacia costitutiva, nel senso che da essi
sgorga l'effetto finale sul piano dell'ordinamento generale (denominato appunto «efficacia»).
c) Il procedimento si chiude, quindi, con quegli atti che confluiscono nella fase integrativa dell'efficacia, che è
eventuale, in quanto in alcuni casi la legge non la prevede.
Il procedimento si configura come un continuum che non tollera suddivisioni artificiose. In ogni caso, la legge formalizza
alcuni dei passaggi endoprocedimentali: l'art. 1 della l. 241/1990 prevede che gli accordi che l'amministrazione conclude
con i privati siano preceduti da una «determinazione dell'organo che sarebbe competente per l'adozione del
provvedimento»; l'art. l0 bis, nel caso di procedimenti ad istanza di parte, impone di comunicare agli istanti i «motivi che
ostano all'accoglimento della domanda»; l'art. 6 dà rilievo alle risultanze dell'istruttoria; per l'art. 14 ter, infine, la
conferenza di servizi si conclude con una determinazione motivata dell'amministrazione procedente cui segue il
provvedimento finale.
Tra i due estremi del procedimento trovano posto i c.d. atti endoprocedimentali che, pur normalmente indifferenti per
l'ordinamento generale, sono, tuttavia, destinati a produrre effetti rilevanti nell'ambito del procedimento stesso: essi, infatti,
non soltanto generano l'impulso alla progressione del procedimento, ma contribuiscono altresì a condizionare in vario modo
la scelta discrezionale finale ovvero la produzione dell'effetto sul piano dell'ordinamento generale.
Un cenno specifico meritano gli atti di controllo: successivi al provvedimento, essi ne condizionano l'efficacia senza essere
costitutivi dell'effetto. Tali atti fanno parte del procedimento: da un lato, essi trovano la propria ragione d'essere nel
provvedimento esterno, già emanato, che però non ha ancora efficacia; dall'altro lato, la 1. 241/1990, attribuendo al
responsabile del procedimento anche compiti che riguardano la fase successiva all'emanazione del provvedimento,
conferma che pure questi ultimi sono atti del medesimo procedimento di cui quel soggetto è responsabile.
La conoscenza delle fasi in cui si articola il procedimento è importante, giacché l'illegittimità di uno degli atti del
procedimento determina l'illegittimità del provvedimento finale. Quest’ultimo, in questo caso, è affetto da un’invalidità
propria: non occorre (né sarebbe possibile) annullare l'atto endoprocedimentale. Pure la mancata adozione di un atto dovuto
e l'alterazione dell'ordine procedurale danno luogo ad una illegittimità, la quale si riflette sul provvedimento finale.
Non è poi da escludere che un atto endoprocedimentale possa produrre di per sé effetti esterni e che, se lesivo di situazioni
giuridiche soggettive, possa essere impugnato: questa la ragione per cui la giurisprudenza ritiene talora immediatamente
impugnabili alcuni di questi atti (è il caso di una diffida che già inibisca lo svolgimento di attività).
Vi è poi l'ipotesi della mancata emanazione di un atto della serie procedimentale che comporta di fatto l'interruzione della
procedura amministrativa; questa sorta di archiviazione non formalizzata di norma determina il mancato rispetto del termine
finale di conclusione del procedimento, sicché la fattispecie va inquadrata nella disciplina del silenzio. Sempre con
riferimento agli atti interni del procedimento, si deve osservare come spesso la loro emanazione sia preceduta da uno
specifico procedimento, sicché nell'alveo di uno stesso procedimento possono innestarsi anche più subprocedimenti, i quali
costituiscono le serie di fasi preordinate alla emanazione di un atto che fa parte del procedimento principale.
6.Rapporti tra procedimenti amministrativi
Tra più procedimenti amministrativi possono sussistere molteplici rapporti.
Talora il rapporto deriva dal fatto che alcuni procedimenti costituiscono una fase di un procedimento principale. Questi
procedimenti sono definiti subprocedimenti. Essi non sono procedimenti autonomi, nel senso che, essendo preordinati
all'emanazione di un atto che costituisce uno degli elementi della serie che conduce all'emanazione di un provvedimento,
non sono autonomamente lesivi e capaci di produrre un effetto sul piano dell'ordinamento generale.
I procedimenti si dicono invece connessi allorché l'atto conclusivo di un autonomo procedimento, impugnabile in quanto
tale ex se, condiziona l'esercizio del potere che si svolge nel corso di un altro procedimento (connessione funzionale). La
connessione più importante è costituita dalla presupposizione: al fine di esercitare legittimamente un potere, occorre la
sussistenza di un certo atto che funge da presupposto, in quanto crea una qualità in un bene, cosa o persona che costituisce
l'oggetto del provvedere (es. dichiarazione di pubblica utilità rispetto all’emanazione del decreto di esproprio). In generale,
il «presupposto» è una circostanza che deve sussistete affinché il potere sia legittimamente esercitato. La sua illegittimità
può inficiare anche il provvedimento finale (invalidità derivata).
In altri casi, l'assenza di un provvedimento, ovvero la conclusione con un atto di diniego di un procedimento, impedisce la
legittima conclusione di altro procedimento (es. apertura di locali consentita soltanto a coloro che posseggono l'iscrizione
ad un particolare albo).
Va infine richiamata la situazione in cui, per svolgere una certa attività, il privato deve ottenere distinti provvedimenti non
connessi sotto il profilo giuridico, ma di fatto tutti attinenti al medesimo bene della vita. In tali ipotesi il nesso tra i vari
procedimenti non è di presupposizione, ma di consecuzione, nel senso che i vari procedimenti corrono in parallelo.
In ordine ai procedimenti che riguardano la stessa attività, la legge prevede forme di raccordo e di semplificazione, affidate
alla convocazione di conferenze di servizi anche su richiesta dell'interessato.
7.L'iniziativa del procedimento amministrativo
Il procedimento si apre con l'iniziativa, che può essere a istanza di parte o d'ufficio.
L'iniziativa a istanza è caratterizzata dal fatto che il dovere di procedere sorge a seguito dell'atto di impulso proveniente da
un soggetto privato oppure da un soggetto pubblico diverso dall'amministrazione cui è attribuito il potere. In caso di
formazione del silenzio-inadempimento, il privato può nuovamente riproporre l'istanza. L'art. 31, d.lgs. 104/2010, infatti,
che si occupa del ricorso avverso il silenzio, dispone che «è fatta salva la riproponibilità dell'istanza di avvio del
procedimento ove ne ricorrano i presupposti».
Si è visto che l'istanza può consistere in un atto amministrativo: più esattamente si deve parlare di richiesta o di proposta.
Quest'ultima è l'atto di iniziativa con cui si suggerisce l'esplicazione di una certa attività. Essa può essere vincolante o non
vincolante. Se vincolante, la proposta comporta il dovere dell'amministrazione procedente di conformarsi alla stessa e,
dunque, di far proprio il contenuto dell'atto proposto. Ove si tratti di proposta non vincolante, l'amministrazione può
valutare l'opportunità di esercitare il potere o di non seguirla.
Secondo una opinione dottrinale, la richiesta in senso proprio è l'atto di iniziativa, consistente in una manifestazione di
volontà, mediante il quale un'autorità sollecita ad altro soggetto pubblico l'emanazione di un determinato atto
amministrativo (es. richiesta di parere). Dalla richiesta si distingue la designazione, la quale consiste «nella indicazione di
uno o più nominativi all'autorità competente a provvedere ad una nomina»: tale atto, al pari della proposta, identifica il
contenuto dell'atto finale, ma, al contrario di questa, non è atto di iniziativa procedimentale.
L'istanza, in senso proprio, invece, proviene dal solo cittadino ed è espressione della sua autonomia privata.
Il d.lgs. 126/2016 ha opportunamente previsto che le amministrazioni statali, con decreto del ministro competente, adottano
moduli unificati e standardizzati che definiscono esaustivamente, per tipologia di procedimento, i contenuti
tipici e la relativa organizzazione dei dati delle istanze, nonché della documentazione da allegare. La mancata pubblicazione
delle informazioni e dei documenti costituisce illecito disciplinare punibile con la sospensione dal servizio e con privazione
della retribuzione da tre giorni a sei mesi.
Ai sensi dell'art. 18 bis, 1. 21/1990, dell'avvenuta presentazione di istanze è rilasciata immediatamente una ricevuta che
attesta l'avvenuta presentazione dell'istanza e indica i termini entro i quali l'amministrazione è tenuta a rispondere (o i
termini entro i quali il silenzio dell'amministrazione equivale ad accoglimento dell'istanza).
La data di protocollazione dell'istanza non può comunque essere diversa da quella di effettiva presentazione (la
protocollazione consiste nella registrazione in apposito libro protocollo mediante assegnazione di un numero progressivo).
Le istanze, segnalazioni o comunicazioni producono effetti anche in caso di mancato rilascio della ricevuta, ferma restando
la responsabilità del soggetto competente.
Ai sensi dell'art. 41, d.lgs. 82/2005, le amministrazioni «gestiscono» i procedimenti amministrativi utilizzando le tecnologie
dell'informazione e della comunicazione e raccolgono in un fascicolo informatico tutti i dati e i documenti.
Tutte le ipotesi di atti di iniziativa sopra richiamate sono comunque caratterizzate dal fatto che sorge, quale effetto
endoprocedimentale, il dovere per l'amministrazione di procedere. Ciò è rilevante ai fini della formazione del silenzio e
dell’eventuale tutela giurisdizionale.
Di frequente le istanze hanno anche un contenuto rappresentativo di interessi, svolgendo una funzione anticipatrice di
quella che la legge affida alle memorie e osservazioni che possono essere prodotte nel corso dell'istruttoria; in generale,
talora la legge prevede l'onere in capo al richiedente di allegare atti o documenti volti ad attestare il ricorrere di determinati
requisiti, consentendo così di agevolare l'accertamento di fatti e la verifica dei requisiti.
A fronte dell'istanza, l'amministrazione deve dar corso al procedimento, ma può anche rilevarne l'erroneità o la
incompletezza. Secondo quanto dispone l'art. 2, d.lgs. 126/2016, l'amministrazione può chiedere all'interessato informazioni
o documenti solo in caso di mancata corrispondenza del contenuto dell'istanza, segnalazione o comunicazione e dei relativi
allegati a quanto previsto. In ogni caso, prima di rigettare l'istanza, essa deve procedere al c.d. soccorso istruttorio
provvedimentale e, cioè, alla richiesta della rettifica. Le istanze illegali o emulative, invece, non generano alcun dovere.
La giurisprudenza ha affermato che il dovere di procedere sorge non solo nei casi in cui la legge "tipizzi" l'istanza, ma
altresì nelle fattispecie nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongono l'adozione di un provvedimento.
Quando l'ordinamento non riconosce in capo al privato un interesse protetto e un dovere di procedere per l'amministrazione,
il suo atto non si configura come istanza in senso proprio, bensì come mera denuncia, mediante la quale si rappresenta una
data situazione di fatto all'amministrazione, chiedendo l'adozione di provvedimenti.
L'iniziativa d'ufficio è prevista dall'ordinamento nelle ipotesi in cui il tipo di interessi pubblici affidati alla cura di
un'amministrazione, ovvero il continuo e corretto esercizio del potere-dovere attribuito al soggetto pubblico, esiga che
questi si attivi automaticamente al ricorrere di alcuni presupposti, indipendentemente dalla sollecitazione proveniente da
soggetti esterni. Le segnalazioni debbono normalmente essere soggette ad una verifica, la quale in ogni caso attiene alla
sufficienza del fatto rappresentato ai fini dell'attivazione del procedimento. Il risultato di questa verifica non
necessariamente deve essere formalizzato: esso non rappresenta, infatti, l'esercizio del potere provvedimentale, ma
costituisce svolgimento di un potere di delibazione preliminare che ha ad oggetto la valutazione dei fatti alla cui sussistenza
si collega il dovere di aprire d'ufficio il procedimento.
8.Il dovere di concludere il procedimento
L'individuazione del momento in cui il procedimento ha inizio è importante giacché soltanto con riferimento a esso è
possibile stabilire il termine entro il quale il procedimento stesso deve essere concluso. L'art. 2 della l. 241/1990 stabilisce
che tale termine decorre dall'inizio di ufficio del procedimento o dal ricevimento della domanda se il procedimento è a
iniziativa di parte. L'art. 2.2 della l. 241/1990 afferma che entro il termine stabilito il procedimento deve essere concluso. In
senso proprio, il procedimento si dovrebbe concludere con l'emanazione dell'ultimo atto della serie procedimentale, che non
necessariamente coincide con il provvedimento. Tuttavia, all’art. 2.1 della l. 241/1990, il legislatore chiarisce che la PA ha
il dovere di concludere il procedimento «mediante l'adozione di un provvedimento espresso»: di conseguenza, il termine si
intende rispettato quando l'amministrazione, entro trenta giorni emani il provvedimento finale.
La legge prevede però possibilità ulteriori. Intanto, se ravvisano la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità
o infondatezza della domanda, le PA concludono il procedimento con un provvedimento espresso in forma semplificata, la
cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo. La disposizione
parla di provvedimento semplificato e non già di procedimento semplificato, sicché dovrebbero a esso applicarsi tutte le
garanzie previste dalla 1. 241/1990 (compresa la comunicazione del preavviso di diniego), anche se non sono da escludere
letture diverse.
In secondo luogo, con riferimento ai procedimenti a istanza di parte, l'art. 20 ammette la possibilità che il procedimento sia
definito mediante silenzio-assenso. Ciò significa che all'inerzia è collegata la produzione degli effetti corrispondenti a
quelli del provvedimento richiesto dalla parte. Il silenzio-assenso può essere impedito emanando un provvedimento di
diniego. Da tale disciplina si ricava che l'amministrazione ha il dovere di provvedere in modo espresso soltanto ove intenda
rifiutare il provvedimento richiesto dal privato, potendo altrimenti restare inerte. L'art. 20, tuttavia, introduce un'importante
serie di eccezioni a questa regola: la norma richiama gli atti e i procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e
paesaggistico, l'ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza, l'immigrazione, l'asilo e la cittadinanza, la salute e la
pubblica incolumità, i casi in cui la normativa comunitaria impone l'adozione di provvedimenti amministrativi formali, i
casi in cui la legge qualifica il silenzio dell'amministrazione come rigetto dell'istanza. In tali ipotesi, a fronte dell'inutile
decorso del termine senza che l'amministrazione abbia emanato il provvedimento si forma il c.d. silenzio inadempimento,
che non produce effetti equipollenti a quelli di un provvedimento. Il cittadino, al riguardo, ha a disposizione una vasta serie
di rimedi. Intanto, vi è lo specifico strumento del ricorso avverso il silenzio, preordinato a ottenere comunque un
provvedimento espresso; il giudice, poi, in taluni casi, può pronunciarsi sulla fondatezza della domanda. Le sentenze
passate in giudicato che accolgono il ricorso proposto avverso il silenzio inadempimento dell'amministrazione sono
trasmesse alla Corte dei conti. Inoltre, anche se l'amministrazione non decade dal potere di agire, il ritardo può causare a
suo carico una responsabilità civile: si prevede in questo caso un risarcimento del danno ingiusto cagionato
dall'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento (cd. danno da ritardo).
L'art. 2, 1. 241/1990, poi, disciplina importanti poteri sostitutivi, delineando un meccanismo, che può sfociare in una sorta
di avocazione o in un commissariamento, attivabile su istanza di parte e gestito dalla dirigenza. L'organo di governo
individua il soggetto cui attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia e, nell'ipotesi di omessa individuazione, il potere
sostitutivo si considera attribuito al dirigente generale o, in mancanza, al dirigente preposto all'ufficio o in mancanza al
funzionario di più elevato livello presente nell'amministrazione. Il meccanismo è attivato su sollecitazione di parte: decorso
inutilmente il termine per la conclusione del procedimento, e senza che sia fissato un termine finale, il privato può rivolgersi
al responsabile perché entro un termine pari alla metà di quello originariamente previsto concluda direttamente il
procedimento.
Il provvedimento tardivo (rispetto ai trenta giorni) emanato dal sostituto o dall'amministrazione è legittimo sotto il profilo
del termine, onde quel termine fissato dalla legge appare ordinatorio. La questione si lega a quella del provvedimento
tardivo adottato spontaneamente dall'amministrazione competente a prescindere dalle iniziative sopra descritte (attivazione
del potere sostitutivo e ricorso avverso il silenzio): la giurisprudenza, sottolineando che il potere non si consuma e che il
termine di conclusione non ha carattere perentorio ne riconosce la legittimità. In sintesi, la scadenza fissata dalla legge può
non essere rispettata dall'amministrazione, sicché in linea di principio il provvedimento tardivo è legittimo, ma esso neppure
può essere emanato oltre un termine ragionevole.
Non mancano però casi in cui l'ordinamento considera il termine come perentorio, sicché il suo rispetto è una condizione
addirittura di esistenza del potere. Una volta spirato, cioè, manca il potere e l'atto è nullo, e, comunque, non produce i propri
effetti tipici. Si pensi all'annullamento d'ufficio che deve avvenire entro un termine ragionevole, comunque non superiore
a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, o al
decreto di espropriazione emanato dopo la scadenza del termine fissato nella dichiarazione di pubblica utilità.
Su questo impianto si è innestata la disciplina di cui all'art. 28, d.l. 69/2013, conv. nella 1. 98/2013, che, pur sottoponendolo
ad alcuni limiti, ha introdotto l'istituto dell'indennizzo da mero ritardo (somma pari a € 30 per ogni giorno di ritardo
con decorrenza dalla data di scadenza del termine del procedimento). La disciplina si applica soltanto ai procedimenti
iniziati a istanza di parte, comunque con esclusione delle ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi pubblici. L'istante è
però tenuto ad azionare previamente il potere sostitutivo nel termine decadenziale di venti giorni dalla scadenza del termine
di conclusione del procedimento. Nel caso in cui anche il titolare del potere sostitutivo non emani il provvedimento nel
termine (metà di quello originariamente previsto) o non liquidi l'indennizzo maturato fino alla data della medesima
liquidazione, l'istante può proporre ricorso avverso il silenzio, oppure, ricorrendone i presupposti, chiedere un
provvedimento ingiuntivo.
Il ritardo, "attestato" dalla pronuncia che condanna l'amministrazione a corrispondere l'indennizzo, nell'emanazione dell'atto
amministrativo rileva anche sotto il profilo della responsabilità del dipendente: l'art. 2.9 della l. 241/1990 stabilisce che la
mancata o tardiva emanazione del provvedimento costituisce elemento di valutazione della performance individuale,
nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente.
L'ordinamento prevede altresì la responsabilità civile a carico dell'agente: il privato può chiedere il risarcimento dei danni
conseguenti all'omissione o al ritardo nel compimento di atti o di operazioni cui l'impiegato sia tenuto per legge o per
regolamento. A tal fine, l'interessato, quando siano trascorsi sessanta giorni dalla data di presentazione dell'istanza, deve
notificare una diffida all'amministrazione e all'impiegato, a mezzo di ufficiale giudiziario; decorsi inutilmente trenta giorni
dalla diffida, egli può proporre l'azione per il risarcimento.
Il ritardo nella conclusione dei procedimenti è considerato rilevante anche ai fini della lotta alla corruzione: la 1. 190/2012,
infatti, dispone che le amministrazioni provvedono al monitoraggio periodico del rispetto dei tempi procedimentali
attraverso la tempestiva eliminazione delle anomalie. L'art. 328 c.p. stabilisce, inoltre, che il pubblico ufficiale o incaricato
di un pubblico servizio, il quale, entro trenta giorni dalla richiesta redatta in forma scritta da chi vi abbia interesse, non
compie l'atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino a un anno o con
la multa fino a 1.032 euro.
Il termine di trenta giorni coincide con quello che risulta fissato dalla 1. 241/1990. In realtà, la disciplina si completa con
ulteriori sei regole:
a) Per le amministrazioni statali può essere diversamente disposto con uno o più decreti del Presidente del Consiglio
dei ministri. Per quanto riguarda gli enti pubblici nazionali, essi stabiliscono, secondo i propri ordinamenti, i
termini entro i quali devono concludersi i procedimenti di propria competenza. Di conseguenza, il predetto termine
di trenta giorni vale soltanto nel caso in cui essi non provvedano o la legge non indichi espressamente un termine
diverso.
b) Tuttavia, il termine stabilito con decreto o dagli enti non può essere superiore a novanta giorni: viene così stabilito
un limite alla discrezionalità dei soggetti pubblici.
c) Ove sussistano casi particolari questo termine "massimo" è elevato a centoottanta giorni; in tali ipotesi occorre
tuttavia la deliberazione del Consiglio dei ministri.
d) Vi è però 1'eccezione costituita dai procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana e di quelli riguardanti
l'immigrazione, che, dunque, possono "sforare".
e) Una norma specifica, riguarda le "autorità di garanzia e di vigilanza": esse disciplinano in conformità ai propri
ordinamenti i termini relativi ai procedimenti di loro competenza, senza spazi di intervento per il Governo.
f) Per i procedimenti di verifica o concernenti beni culturali e paesaggistici, nonché per quelli in materia ambientale,
restano fermi i termini stabiliti dalla normativa speciale (art. 7.4 della 1. 69/2009).
g) Un termine specifico è dettato dall'art. 21 nonies, 1. 241/1990 in relazione all' annullamento d'ufficio, che può
essere posto in essere entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento
dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici.
I termini possono essere interrotti o sospesi.
In ordine alla prima eventualità, l'art. 10 bis, con riferimento ai procedimenti ad istanza di parte, stabilisce che, prima della
formale adozione di un provvedimento negativo, l'amministrazione comunica tempestivamente agli istanti i motivi che
ostano all'accoglimento della domanda: questa comunicazione interrompe i termini che iniziano nuovamente a decorrere
dalla data di presentazione delle osservazioni. Tale disciplina non si applica alle procedure concorsuali e ai procedimenti in
materia previdenziale e assistenziale sorti a seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali.
Con riferimento alla sospensione, l'art. 2.7, dispone che i termini possono essere sospesi, per una sola volta e per un
periodo non superiore a trenta giorni, per l'acquisizione di informazioni o di certificazioni relative a fatti, stati o qualità
non attestati in documenti già in possesso dell'amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre PA.
In relazione al problema del tempo, va ricordato che nel nostro ordinamento vige il principio secondo cui tempus regit
actum: ogni atto deve essere disciplinato dalla normativa vigente al momento in cui esso è posto in essere. Il principio vale
anche per il provvedimento finale, sicché, nell'ipotesi in cui la sua emanazione richieda, ai sensi della normativa
sopravvenuta, l'esistenza di atti endoprocedimentali non previsti dalla legge precedente e non sussistenti, l'amministrazione
dovrà rifiutarsi di emanarlo.
Più delicato è il problema dei requisiti e dei presupposti sostanziali previsti per l'emanazione di un provvedimento. La
questione riguarda in particolare il rilascio di permessi di costruire: nelle more della conclusione del procedimento può, ad
esempio, mutare il piano regolatore generale al quale i permessi debbono essere conformi, con la conseguenza che, a rigore,
l'amministrazione dovrebbe emanare un provvedimento di diniego ove la nuova disciplina urbanistica osti al loro rilascio.
La giurisprudenza, con riferimento al caso in esame, ha tuttavia introdotto un temperamento in relazione alle ipotesi in
cui vi sia un contenzioso avanti alla giurisdizione amministrativa, prevedendo che nel caso di sopravvenienza di una nuova
disciplina nelle more del giudizio amministrativo, tale disciplina è applicabile dall’amministrazione, che deve ottemperare
alla decisione del giudice.
Ove, successivamente all' accoglimento del ricorso della parte e all'annullamento di un atto di diniego della PA, siano
mutate le regole urbanistiche, si ritiene applicabile da parte dell'amministrazione la disciplina sopravvenuta, anche se
sfavorevole per il cittadino vittorioso (c.d. «teoria dello ius superueniens»).
9.Il responsabile del procedimento
La legge 241/1990 disciplina la figura del responsabile del procedimento, soggetto che svolge importanti compiti sia in
relazione alla fase di avvio dell'azione amministrativa, sia, più in generale, allo svolgimento del procedimento nel suo
complesso.
L'art. 4, 1. 241/1990, stabilisce che le PA sono tenute a determinare, per ciascun tipo di procedimento relativo ad atti di loro
competenza, l'unità organizzativa responsabile dell'istruttoria e di ogni altro adempimento procedimentale, nonché
dell'adozione del provvedimento finale. Adempiuto tale obbligo, segue l'individuazione, all'interno di ciascuna unità
organizzativa, del responsabile del procedimento, persona fisica che agirà in concreto. Ai sensi dell'art. 5, il dirigente di
ciascuna unità organizzativa provvede ad assegnare a sé o ad altri addetti all'unità organizzativa la responsabilità
dell'istruttoria e di ogni altro adempimento inerente il singolo procedimento, nonché, eventualmente, dell'adozione del
provvedimento finale. Il secondo comma prevede inoltre che, fino a quando non venga effettuata l'assegnazione, è
considerato responsabile del singolo procedimento il funzionario preposto alla unità organizzativa.
Quanto alle funzioni del responsabile, dalla lettura della normativa emerge non già il profilo della responsabilità in senso
tecnico, bensì quello di guida del procedimento, di coordinatore dell'istruttoria e di organo di impulso. Il responsabile
rappresenta, inoltre, l'essenziale punto di riferimento sia per i privati, sia per l'amministrazione procedente e per gli organi
di altre amministrazioni coinvolte dal soggetto procedente. Ai sensi dell’art. 6 della l. 241/1990, il responsabile valuta le
condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione e i presupposti che siano rilevanti per l'emanazione del
provvedimento.
Il responsabile può anche chiedere il rilascio di dichiarazioni e la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete.
Questo istituto (regolarizzazione delle domande dei privati e della documentazione prodotta) è assai importante:
l'amministrazione può ammettere il cittadino a correggere gli errori materiali in cui sia incorso nella redazione di istanze o
domande, nonché a completare la documentazione incompleta o non conforme alla normativa.
Ancora, egli ha compiti di impulso del procedimento: propone l'indizione delle conferenze di servizi, trasmette gli atti
all'organo competente per l'adozione o emana egli stesso tale provvedimento.
L'art. 6 lett. e) specifica che «l'organo competente per l'adozione del provvedimento finale, ove diverso dal responsabile del
procedimento, non può discostarsi dalle risultanze dell'istruttoria condotta dal responsabile del procedimento se non
indicandone la motivazione nel provvedimento finale». Da quanto esposto è evidente come il responsabile del
procedimento sia il soggetto dell'amministrazione che instaura il dialogo con i soggetti interessati al procedimento mediante
la comunicazione dell'avvio del procedimento, lo prosegue nella fase della partecipazione e anche dopo l'emanazione del
provvedimento finale, mediante la comunicazione, la pubblicazione e le notificazioni previste dall'ordinamento.
La disciplina complessiva della figura del responsabile pone una serie di problemi.
In primo luogo, occorre stabilire che cosa si intenda per unità organizzativa responsabile. L'espressione non è usata in
maniera univoca nella legislazione amministrativa, ove si parla anche di sezioni, dipartimenti, direzioni e così via. In ogni
caso, l'impiego di una nozione così generica vuol consentire l'applicabilità della norma a tutte le amministrazioni,
indipendentemente dalla terminologia impiegata dai singoli ordinamenti per individuare le partizioni organizzative.
Allorché il procedimento si articoli in più fasi, si potrebbe ipotizzare la presenza di più responsabili. L'art. 2.1, lett d), d.lgs.
165/2001, chiarisce che le amministrazioni pubbliche sono ordinate secondo il criterio della «trasparenza dell'azione
amministrativa, anche attraverso l'istituzione di apposite strutture per l'informazione ai cittadini, e di attribuzione a un unico
ufficio, per ciascun procedimento, della responsabilità complessiva dello stesso». Tuttavia, alcune amministrazioni
continuano a prevedere la presenza di un responsabile dell'istruttoria accanto al responsabile del procedimento.
Altra questione è quella che sorge allorché più amministrazioni siano interessate al procedimento. L'art. 4, l. 241/1990,
consente alle PA di individuare l'unità responsabile, sicché, nei casi in cui il procedimento si articoli attraverso più
amministrazioni, si è ritenuto che dovrebbero essere individuati più responsabili. L'art. 5, 1. 241/1990, nell'occuparsi del
responsabile dell'unità organizzativa, utilizza la locuzione «dirigente dell'unità organizzativa». Ciò parrebbe implicare che
responsabile di ciascun tipo di procedimento debba essere un dipendente con qualifica dirigenziale, competente ad emanare
i provvedimenti finali: tuttavia, l'art. 5.2, impiegando l'espressione «funzionario preposto alla unità organizzativa», chiarisce
che il responsabile dell'unità organizzativa può essere anche un dipendente non dirigente, come tale sprovvisto della
competenza ad emanare il provvedimento finale.
Uno dei problemi di maggior portata è generato dall'art. 4.1 della l. 241/1990, il quale dispone che le pubbliche
amministrazioni devono individuare, per ciascun tipo di procedimento, le unità organizzative responsabili dell'istruttoria
«nonché dell'adozione del provvedimento finale». Si tratta cioè di capire se ci debba essere o meno identità tra unità
organizzative responsabili dell'istruttoria e unità deputate all'adozione dell'atto terminale del procedimento. Occorre a
questo proposito osservare che un conto è l'individuazione delle unità organizzative responsabili dell'istruttoria, altro
è determinare l'organo competente ad adottare il provvedimento: la competenza a emanare l'atto finale, infatti, è
eteronomamente prevista in modo vincolante dalla legge cui spetta stabilire gli organi aventi rilevanza esterna.
Atteso che la normativa individua l'organo competente ad emanare il provvedimento amministrativo, parrebbe potersi
ritenere che l'amministrazione debba necessariamente attribuire allo stesso anche la responsabilità del relativo procedimento
(in tal senso, anzi, la determinazione sarebbe per così dire automatica). È stata però altresì sostenuta la possibilità che unità
responsabili siano anche quelle non competenti ad emanare l'atto. L'opinione secondo cui l'unità organizzativa responsabile
coincide con il settore competente ad adottare il provvedimento finale ha il pregio di consentire l’individuazione dell'unità
responsabile per ciascun tipo di procedimento, anche in caso di inerzia dell'amministrazione. Si deve allora concludere che
il responsabile del tipo di procedimento coincide con l'organo competente a emanare l'atto nei casi di mancata
individuazione dell'unità organizzativa da parte dell'amministrazione.
Diverso problema su cui occorre riflettere è quello se vi sia necessaria coincidenza tra responsabile del singolo
procedimento e organo competente ad emanare il provvedimento finale. La risposta deve essere negativa: l'art. 6.1, lett e),
della l. 241/1990, dispone che il responsabile del procedimento adotti il provvedimento finale soltanto ove ne abbia la
competenza.
La coincidenza tra responsabile del procedimento e dirigente dell'unità organizzativa è spesso prevista dalle fonti che hanno
dato attuazione alla l. 241/1990. Siffatta scelta potrebbe apparire la più ragionevole ponendo mente al fatto che l'organo
competente alla decisione finale è quello più adatto ad operare la selezione di fatti, di interessi e di elementi rilevanti che
già nel corso dell'istruttoria deve essere effettuata. Il riconoscimento di una tale discrezionalità non conduce però
necessariamente ad affermare la coincidenza tra responsabile dell'istruttoria e organo competente ad adottare il
provvedimento finale: quest'ultimo, infatti, ben potrebbe sempre riesaminare la completezza dell'attività istruttoria e le
scelte in quella fase operate, rinviando la decisione finale in caso di valutazione negativa e richiedendo un’ulteriore attività
conoscitiva. La coincidenza tra le due figure frustra anzi l'esigenza di distinguere tra soggetto che cura l'istruttoria in
posizione tendenzialmente imparziale e organo che decide.
La soluzione favorevole alla "separazione" tra le due figure apre la via alla configurazione di un nuovo tipo di relazione
interorganica, atteso che il responsabile è pur sempre un soggetto inserito in un'organizzazione amministrativa e, come
tale, destinatario di poteri di direttiva dei superiori, in particolare del dirigente che gli ha affidato il procedimento e che è il
soggetto competente ad emanare l'atto finale.
Accanto al problema dell'autonomia di cui deve godere il responsabile nei confronti dei propri superiori, va ricordata la
questione dei rapporti tra responsabile e soggetti competenti ad emanare atti del procedimento. Il primo, infatti, non
necessariamente è competente ad emanare gli atti endoprocedimentali. Ciò nonostante, egli deve svolgere funzioni di
impulso, stimolo e informazione. Questa attività di supervisione, conduzione, sollecitazione e collegamento condiziona
l'attività degli organi interessati, facendo sorgere di volta in volta rapporti che possono riferirsi alla relazione interorganica
della direzione.
L’individuazione del responsabile non comporta l’automatica attrazione in capo a costui della responsabilità civile, penale e
disciplinare: la responsabilità civile, penale e disciplinare del responsabile del procedimento rimane soggetta alle regole
ordinarie, anche se gli impulsi e le sollecitazioni, conseguenti alle funzioni di vigilanza, denuncia e di segnalazione affidati
al responsabile possono comunque essere presi in considerazione ai fini della valutazione della legittimità o liceità del
comportamento tenuto dal responsabile medesimo.
10.La comunicazione dell'avvio del procedimento
L'avvio del procedimento deve essere comunicato ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a
produrre effetti diretti, a quelli che per legge debbono intervenirvi, nonché ai soggetti che siano individuati o facilmente
individuabili qualora dal provvedimento possa loro derivare un pregiudizio.
Per quanto attiene all’identificazione dei destinatari dell'atto e dei soggetti che debbono intervenire per legge non si
pongono particolari questioni. I destinatari dell'atto sono, infatti, i soggetti nella cui sfera giuridica è destinata a prodursi la
vicenda giuridica (tipica) determinata dall'esercizio del potere; si tratta dunque dei titolari di interessi legittimi oppositivi o
pretensivi. I soggetti che per legge devono intervenire sono in linea di massima enti pubblici.
Maggiori problemi sorgono in relazione alla categoria dei «soggetti individuati o facilmente individuabili» ai quali potrebbe
derivare un pregiudizio dal provvedimento. La sua delimitazione impone di effettuare un giudizio prognostico non sempre
facile. In linea di massima, si tratta di quei soggetti che sarebbero legittimati ad impugnare il provvedimento favorevole nei
confronti del destinatario in quanto pregiudicati dal provvedimento stesso (cd. controinteressati sostanziali). In sostanza,
all'inizio del procedimento, quando ancora non si conosce il suo esito, si contrappongono due posizioni: quella del
destinatario del provvedimento finale e quella del controinteressato sostanziale, che, a seconda del tenore del
provvedimento medesimo, sarà da esso beneficiato o pregiudicato.
La comunicazione dell'avvio è un compito del responsabile del procedimento. In via di norma, essa deve essere fatta
mediante comunicazione personale (notifica, comunicazione a mezzo di messo comunale o ufficiale giudiziario,
raccomandata con avviso di ricevimento). La legge non stabilisce entro quale termine, a partire dal momento della ricezione
dell'istanza di parte o dell'accertamento del presupposto al quale è collegato il dovere di iniziare d'ufficio il procedimento, la
comunicazione debba essere effettuata. Nel silenzio della legge, deve ritenersi che tale adempimento vada compiuto
senza ritardo e, comunque, entro un termine ragionevole tenuto conto delle circostanze. La comunicazione deve contenere i
seguenti elementi (art. 8): l'amministrazione competente; l'oggetto del procedimento; l'ufficio e la persona del responsabile
del procedimento; la data entro la quale deve concludersi il procedimento e i rimedi esperibili in caso di inerzia
dell'amministrazione; nei procedimenti ad iniziativa di parte, la data di presentazione della relativa istanza; l'ufficio in cui si
può prendere visione degli atti. Si noti che la comunicazione va effettuata pure nel caso di procedimenti che iniziano ad
istanza di parte perché la comunicazione fornisce comunque ulteriori informazioni e indicazioni. Secondo quanto dispone
l'art. 18 bis, 1. 241/1990, la ricevuta che attesta l'avvenuta presentazione dell'istanza costituisce comunicazione di avvio del
procedimento.
Ai sensi dell'art. 41, d.lgs. 82/2005, l'amministrazione, all' atto della comunicazione d'avvio, comunica agli interessati le
modalità per esercitare in via telematica i diritti relativi alla partecipazione. L'istituto della comunicazione, infatti, è
strettamente collegato alla partecipazione al procedimento, nel senso che consente agli interessati di essere posti a
conoscenza della pendenza di un procedimento nel quale possono intervenire rappresentando il proprio punto di vista.
L'art. 13, 1. 241/1990, esclude che le disposizioni del capo IV (ivi compresa, dunque, la norma sull'obbligo di comunicare
l'avvio del procedimento) si applichino nei confronti dell'attività della PA diretta alla emanazione di atti normativi,
amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, nonché ai procedimenti tributari.
L'art. 7.1 l. 241/1990 precisa che l'avvio in esame deve essere comunicato quando non sussistano ragioni di impedimento
derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento. Tali ragioni devono essere evidenziate dall’amministrazione
con adeguata motivazione. La giurisprudenza ha ritenuto che si possa legittimamente derogare all'obbligo di
comunicazione nel caso di procedimenti finalizzati all'occupazione d'urgenza delle aree destinate alla costruzione di opere
pubbliche e di ingiunzioni di demolizione o di sospensione di lavori, nonché nei casi di provvedimenti vincolati.
L'art. 7.2 della l. 241/1990 si occupa dei provvedimenti cautelari e consente all'amministrazione la loro adozione «anche
prima della effettuazione della comunicazione» dell'avvio del procedimento. Si noti che la legge si riferisce ai
provvedimenti cautelari sicché deve ritenersi che l'amministrazione possa adottare anche atti che anticipano gli effetti finali
del provvedimento. I provvedimenti cautelari sono posti a garanzia della futura determinazione contenuta nel
provvedimento finale, di cui anticipano il contenuto, assicurando che la sua adozione non risulti inutile. L'ordinamento
prevede limitati e tassativi provvedimenti che possono essere emanati a fini cautelari, quali le misure di salvaguardia (tali
atti impongono l'anticipazione a fini cautelari degli effetti normalmente definitivi di un piano urbanistico), gli ordini di
immediata sospensione dei lavori nel caso di inosservanza di norme e prescrizioni urbanistiche, gli atti di inibizione o di
sospensione dei lavori.
Non privo di difficoltà è il tentativo di distinguere nettamente il campo di applicazione dei due commi dell'art. 7: le
situazioni disciplinate paiono diverse (altro è l'adozione di un provvedimento cautelare, altro l'emanazione di un
provvedimento definitivo in via di urgenza); tuttavia, le misure cautelari sono normalmente adottate in via d'urgenza. Un
tratto distintivo potrebbe essere rinvenuto nel fatto che nei provvedimenti cautelari, caratterizzati dalla temporaneità degli
effetti, l'esclusione della possibilità per i privati di conoscere la pendenza del procedimento è strumentale non solo a ragioni
di urgenza, ma altresì all' esigenza di non ostacolare o compromettere l'azione amministrativa.
La dottrina ha posto in luce l'esistenza di altri procedimenti, c.d. «riservati», in ordine ai quali non dovrebbe essere
ammessa la partecipazione. In questi casi, in effetti, la comunicazione dell'avvio del procedimento e la partecipazione
potrebbero frustrare gli interessi curati dall'amministrazione o la riservatezza dei terzi. L'individuazione delle ipotesi di
esclusione dovrebbe essere effettuata dalla legge, anche se fino ad ora non si sono riscontrati interventi normativi. Tuttavia,
l’art. 24 l. 241/1990 esclude il diritto di accesso con riferimento ad alcune categorie di atti corrispondenti a specifici
interessi pubblici. L’unico indice normativo che potrebbe giustificare la sussistenza di procedimenti riservati è quindi la
normativa in materia di diritto di accesso, che conferma il principio secondo cui l’apertura del procedimento può incontrare
un limite nell’esigenza di curare interessi ritenuti particolarmente meritevoli di tutela dall’ordinamento.
La giurisprudenza ha comunque spesso interpretato in senso restrittivo la norma che configura l'obbligo di comunicare
l'avvio del procedimento: oltre alla già richiamata individuazione di intere categorie di procedimenti nei quali
sussisterebbero esigenze di celerità, essa ha talora escluso la sussistenza dell'obbligo nelle ipotesi di attività vincolata o,
più in generale, nelle ipotesi in cui non sia utile o rilevante il contraddittorio.
Vi è chi, tuttavia, sostiene che la partecipazione possa essere utile anche nel caso si tratti di attività vincolata: il privato, si
afferma, che è in grado di rappresentare dati rilevanti per la ricostruzione dei requisiti e dei presupposti di fatti, che spesso
sono tutt’altro che pacifici e incontestati.
L'omissione della comunicazione di avvio del procedimento configura una ipotesi di illegittimità, che può essere fatta
valere soltanto dal soggetto «nel cui interesse la comunicazione è prevista». In caso di omissione della comunicazione
può comunque trovare applicazione l'art. 21 octies, c. 2, seconda parte, ai sensi del quale «Il provvedimento amministrativo
non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in
giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato». In sostanza,
la norma dequota la rilevanza del vizio di omessa comunicazione quando la partecipazione sarebbe stata inutile. L'utilità o
l'inutilità verranno valutate soltanto in giudizio e su eccezione dell’amministrazione, che ha così modo di «recuperare» la
legittimità del provvedimento a procedimento concluso, determinando una sorta di riapertura del contraddittorio
procedimentale in sede processuale.
11.L'istruttoria procedimentale
L'istruttoria è la fase del procedimento funzionalmente volta all'accertamento dei fatti e dei presupposti del provvedimento
e alla acquisizione e valutazione degli interessi implicati dall'esercizio del potere. Essa è condotta dal responsabile del
procedimento ex art. 6 della l. 241/1990.
La decisione amministrativa finale deve essere preceduta da adeguata conoscenza della realtà esterna, la quale avviene
appunto attraverso l'istruttoria. La circostanza è confermata dall'art. 3 l. 241/1990 che afferma il dovere di motivare la scelta
provvedimentale in relazione alle risultanze dell'attività istruttoria. L'art. 6, poi, dispone che 1'organo competente per
1'adozione del provvedimento finale, ove diverso dal responsabile del procedimento, non può discostarsi dalle risultanze
dell'istruttoria condotta dal responsabile del procedimento se non indicandone la motivazione nel provvedimento finale.
L’istruttoria del procedimento amministrativo serve per acquisire interessi e verificare fatti. La distinzione tra fatti e
interessi, abbastanza chiara in teoria - i fatti sono eventi, o situazioni, gli interessi sono invece aspirazioni a beni
della vita - si complica nella realtà delle cose, in quanto sussiste una stretta correlazione tra gli uni e gli altri, nel senso che
il fatto implica e consente di evidenziare interessi e, per contro, l'interesse e la verifica della sua esistenza possono
richiedere l'accertamento di una situazione di fatto.
Fatta questa premessa, si precisa che l'attività conoscitiva in senso proprio, volta ad acquisire la conoscenza della realtà di
fatto, si svolge mediante una serie di operazioni i cui risultati vengono attestati da dichiarazioni di scienza, acquisite al
procedimento. I dati di fatto rilevanti possono essere individuati dall'amministrazione oppure rappresentati dai terzi
attraverso lo strumento della partecipazione. Essi sono spesso attestati da documenti, certificazioni o dichiarazioni
presentati o esibiti all'amministrazione o da questa direttamente formati.
11.1.L'oggetto dell'attività istruttoria
Nel nostro ordinamento amministrativo vige il principio inquisitorio, in forza del quale l'amministrazione non è, in linea di
massima, vincolata dalle allegazioni dei fatti contenute nelle istanze e nelle richieste ad essa rivolte. Ci si chiede, quindi,
quale sia l’oggetto dell’attività istruttoria cui l’amministrazione deve rivolgere la sua attenzione. Per quanto attiene
all'attività conoscitiva in senso proprio, da un lato, potrebbe imporsi l'acquisizione del massimo numero di fatti e, anzi,
tendenzialmente, la conoscenza completa della realtà di fatto; dall'altro, invece potrebbe affermarsi che le uniche
circostanze che debbono essere accertate sono i fatti e i presupposti indicati espressamente dal legislatore. La prima
soluzione pecca di imprecisione e rischia di determinare un notevole aggravamento dell'attività istruttoria
dell'amministrazione; inoltre, la conoscenza totale della realtà è praticamente irrealizzabile. La seconda soluzione tende a
ridurre il margine di scelta dell'amministrazione e, soprattutto, non tiene conto che i fatti sono spesso indeterminati, sicché
solo mediante l'attività amministrativa superano la loro indeterminatezza iniziale.
Il legislatore, comunque, individua le situazioni di fatto che costituiscono i presupposti dell'agire attraverso modalità
diverse: talora definendo con precisione i fatti stessi, in altre ipotesi utilizzando categorie più generiche o indicando il solo
interesse pubblico. Quando la norma identifica esattamente la situazione di fatto, l'amministrazione dovrà accertare la
corrispondenza fra situazione di fatto e indicazione normativa. Qualora, invece, la norma indichi esclusivamente l'interesse
pubblico che dovrà essere soddisfatto, l'istruttoria dovrà rivolgersi all’individuazione di una realtà di fatto che appaia idonea
a configurare l'esistenza dell'interesse pubblico stesso. In queste ultime ipotesi, la PA deve valutare il complesso degli
elementi della situazione concreta in cui opera, al fine di accertare la presenza di una circostanza di fatto da cui possa
desumersi l'esistenza dell'interesse normativamente determinato: a quel punto l'attività conoscitiva può arrestarsi.
In ordine allo spettro di interessi che debbono essere acquisiti, l'ordinamento può effettuare una scelta che preclude la
valutazione e la comparazione di interessi (attraverso l'attribuzione di un potere vincolato). Allorché, invece, assegni
all'amministrazione un potere discrezionale, non esistono regole precise cui la PA debba attenersi, in quanto lo spettro degli
interessi da considerare dipende dalle concrete situazioni. Lo spettro degli interessi rilevanti in seno al procedimento può
però essere ricavato anche a contrario esaminando la disciplina della partecipazione, che appunto è finalizzata a consentire
l'introduzione degli interessi: l'amministrazione deve valutare gli interessi rappresentati dai soggetti legittimati; ove
questi non si attivino, essa non è però esonerata dal dovere di evidenziare autonomamente gli interessi rilevanti, al fine di
garantire il buon andamento e l'imparzialità dell'azione amministrativa.
L'attività di selezione e di evidenziazione dei fatti e degli interessi non è priva di limiti e deve essere adeguatamente
motivata. Essa deve in primo luogo rispettare il principio di non aggravamento del procedimento. Al fine di
circoscrivere l'ambito della porzione di realtà e dello spettro degli interessi che l'amministrazione ha il dovere di acquisire, è
inoltre importante il criterio della pertinenza all'oggetto del procedimento.
11.2.Le modalità di acquisizione degli interessi e la conferenza di servizi c.d. «istruttoria»
Gli interessi rilevanti, quelli cioè che l'amministrazione deve considerare in sede di scelta finale ponderandoli con quello
principale fissato per legge, sono acquisiti al procedimento sia attraverso l'iniziativa dell'amministrazione procedente, sia a
seguito dell'iniziativa dei soggetti titolari degli interessi stessi.
Le vie per la rappresentazione, nel corso del procedimento, degli interessi affidati alla cura delle PA sono tre:
1. l’amministrazione procedente può richiedere all’amministrazione cui è imputato l’interesse pubblico da acquisire di
esprimere la propria determinazione
2. l’amministrazione procedente può indire una conferenza di servizi per l’esame contestuale dei vari interessi
pubblici coinvolti nel procedimento ex art. 14.1 l. 241/1990
3. l’amministrazione portatrice dell’interesse pubblico secondario può partecipare al procedimento ai sensi dell’art. 9,
che consente di intervenire nel corso del procedimento anche ai soggetti portatori di interessi pubblici.
In ordine alla partecipazione, la norma apre la via alla esternazione non tipizzata degli interessi pubblici,
indipendentemente dalla richiesta avanzata dal responsabile del procedimento.
Per quel che riguarda la conferenza di servizi, per ora è sufficiente rilevare come in sede istruttoria sia possibile acquisire
gli interessi pubblici rilevanti in un'unica soluzione: l'art. 14 della l. 241/1990, prevede, infatti, che la conferenza può essere
indetta dall'amministrazione procedente, anche su richiesta di altra amministrazione coinvolta nel procedimento o del
privato interessato, quando lo ritenga opportuno per effettuare un esame contestuale degli interessi pubblici coinvolti in un
procedimento amministrativo (c.d, conferenza istruttoria interna), o in più procedimenti amministrativi connessi,
riguardanti medesime attività o risultati (c.d, conferenza istruttoria esterna). A differenza della partecipazione,
l'individuazione degli interessi rilevanti avviene a priori, in sede di convocazione della conferenza, identificando i
partecipanti. Va aggiunto che alla conferenza possono partecipare anche i soggetti privati specificatamente interessati.
La conferenza è indetta dal responsabile del procedimento e consiste in una riunione di persone fisiche in rappresentanza
delle rispettive amministrazioni, ciascuna delle quali esprime il punto di vista dell'amministrazione rappresentata che
confluisce, poi, in una determinazione conclusiva, raccolta in un verbale. Quest'ultima sostituisce l'insieme delle
manifestazioni dei vari interessi pubblici coinvolti che le amministrazioni potrebbero introdurre utilizzando lo strumento
della partecipazione.
Le tre possibilità sopra indicate di acquisizione degli interessi pubblici coinvolti dal procedimento in itinere non sono
perfettamente equivalenti quanto al tipo di interessi che consentono di introdurre nel corso del procedimento: mediante la
partecipazione, infatti, possono essere rappresentati interessi da parte di soggetti pubblici soltanto nel caso in cui dal
procedimento possa derivare loro un pregiudizio; la conferenza di servizi può essere indetta per esaminare gli interessi
pubblici coinvolti (pertanto anche nel caso in cui dal provvedimento finale possa derivare un indiretto beneficio).
11.3.La partecipazione procedimentale
Uno degli strumenti più importanti previsti dalla 1. 241/1990 per introdurre interessi privati nel procedimento è costituito
dalla partecipazione: l’art. 6 Cedu prevede che ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente,
pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale
deciderà sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le
venga rivolta. Attraverso un'interpretazione estensiva, le relative garanzie si possono estendere dal processo anche a molti
procedimenti amministrativi.
Ai sensi degli artt. 7 e 9, 1. 241/1990, sono legittimati all'intervento nel procedimento i soggetti nei confronti dei quali il
provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti, i soggetti che per la legge debbono intervenire nel procedimento e
i soggetti che possono subire un pregiudizio dal provvedimento, purché individuati o facilmente individuabili. Possono
inoltre intervenire nel procedimento i portatori di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti
in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento.
La differenza principale tra le categorie indicate rispettivamente dall'art. 7 e dall'art. 9 riguarda in primo luogo la modalità
con cui i soggetti acquisiscono la conoscenza della pendenza di un procedimento nel quale intervenire: quelli di cui all'art.
7, mediante comunicazione dell'avvio del procedimento; quelli di cui all'art. 9, attraverso vie differenti. Per altro verso,
mentre i soggetti di cui all'art. 7 sono titolari di un interesse legittimo (qualificato e differenziato), quelli contemplati
dall'art. 9 hanno un interesse differenziato, ma non qualificato. A differenza dell'art. 7, poi, non è necessario che gli
intervenienti siano individuati o facilmente individuabili al momento in cui prende avvio il procedimento.
Una disciplina peculiare si applica poi ai soggetti che hanno proposto istanza ai sensi dell'art. 10 bis, che configura
un'ulteriore occasione partecipativa ad essi riservata e relativa a una fase procedimentale in cui già appare nitidamente uno
schema di decisione.
Gli statuti degli enti locali possono ampliare la cerchia dei soggetti titolari del potere di partecipazione, prevedendo
numerosi strumenti ed istituti: consultazione, istanze, petizioni, proposte, referendum, azioni popolari, diritto di
accesso e di informazione dei cittadini.
Inoltre, i comuni e le province potrebbero introdurre forme di istruttoria pubblica orale e aperta a tutti gli interessati,
nell'ambito della quale l'amministrazione possa raccogliere degli elementi rilevanti.
Nell'analisi del tema della partecipazione, la dottrina ha spesso utilizzato la nozione di parti del procedimento, mutuando
la terminologia processualistica. Si sono così individuate parti necessarie (art. 7) e parti eventuali (art. 9). Tuttavia, il
concetto di parte non può essere riferito in senso proprio alla funzione amministrativa, in quanto il potere è attribuito
soltanto alla PA. Né si registra alcun fenomeno di compartecipazione o di contitolarità che consenta di accostare il soggetto
privato all'amministrazione. In ordine poi alla distinzione tra parti necessarie e parti eventuali, occorre sottolineare che i
soggetti intervenienti possono tutti alla stessa stregua concorrere alla formazione della miglior decisione finale.
Il grado di rilevanza del loro apporto dipende, infatti, dal materiale istruttorio che sono in grado di rappresentare nel
procedimento: sotto questo profilo, l'unica differenza tra le due categorie individuate dalla legge è collegata al dovere
dell'amministrazione di attivarsi (art. 7) o non (art. 9) per agevolare la loro partecipazione mediante la comunicazione
dell'avvio del procedimento. Unica vera parte necessaria è dunque l'amministrazione procedente.
11.4.L'ambito di applicazione della disciplina sulla partecipazione procedimentale.
Ai sensi dell'art. 13, l. 241/1990, le norme contenute nel capo sulla partecipazione al procedimento amministrativo non si
applicano ai procedimenti volti all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di
programmazione, nonché a quelli tributari. La ratio di tale scelta era stata individuata dal Consiglio di Stato nell' esigenza
di sottrarre «atti di vasta portata e di applicazione generalizzata» alla ingerenza costituita dalla partecipazione di molteplici
soggetti. Alcuni tra i procedimenti contemplati dall'art. 13 riguardano, infatti, scelte in grado di coinvolgere interessi
diffusi e interessi collettivi, la cui introduzione nel procedimento è esplicitamente prevista dall'art. 9, 1. 241/1990. Si è
cercato quindi di derogare parzialmente all’art. 13, quasi a voler spostare la considerazione degli interessi collettivi dai
procedimenti generali, pianificatori e programmatori a quelli relativi agli atti applicativi.
In ordine agli atti amministrativi generali, i quali si rivolgono a una pluralità indistinta di soggetti (es. bandi di concorso)
non individuabili a priori, si può osservare che essi non sembrano in grado di ledere e pregiudicare qualcuno in particolare,
o, comunque, non comportano la ponderazione di interessi che si appuntino su soggetti peculiari. Tuttavia, non per questo la
partecipazione ai procedimenti diretti all'adozione degli atti generali sarebbe infruttuosa: essa non serve soltanto per poter
difendere i propri interessi, ma anche per arricchire il quadro di elementi di cui dispone il soggetto pubblico al momento
della decisione. In taluni settori, peraltro, la normativa ammette la partecipazione anche in ordine a questi procedimenti (es.
campo ambientale). Gli atti amministrativi generali non debbono neppure essere motivati.
L'unica categoria di procedimenti in relazione ai quali l'esclusione della partecipazione non pare creare particolari problemi
e riserve è costituita da quelli preordinati all'emanazione di atti normativi. In questo ambito sussiste, infatti, una pluralità
formale e sostanziale di fonti che non ammette una regolamentazione generale e unitaria. In taluni settori, la normativa
ammette la partecipazione anche in ordine a questo tipo di procedimento (es. materia ambientale).
11.5.Aspetti strutturali e funzionali della partecipazione
La partecipazione al procedimento consiste nel diritto di prendere visione dei relativi atti e nella presentazione di memorie
scritte e documenti, che l'amministrazione ha il dovere di valutare ove siano pertinenti all'oggetto del procedimento.
Parte della dottrina ha ritenuto che le manifestazioni consistano in uno strumento di difesa a favore del privato; da altri si è
parlato di collaborazione, addirittura di contitolarità del potere amministrativo. Considerando che la funzione del
procedimento è quella di consentire la miglior cura dell'interesse pubblico, si deve ritenere che anche la partecipazione sia
strumentale alla più congrua decisione finale in vista dell'interesse pubblico: essa ha cioè funzione collaborativa. La PA,
infatti, considera il contributo al fine di ottenere una migliore conoscenza della realtà e della complessa trama degli interessi
coinvolti.
Un diverso discorso richiede l'istituto della presentazione delle osservazioni che l'art. 10 bis prevede con riferimento ai
procedimenti ad istanza di parte allorché l'amministrazione abbia comunicato i motivi ostativi all'accoglimento
dell'istanza: esso è infatti espressione del principio del giusto procedimento ed è preordinato ad instaurare un
contraddittorio con l'istante che tenta di «convincere» l'amministrazione a mutare segno al provvedimento finale. La norma
stabilisce infatti che nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l'autorità competente, prima
della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano
all'accoglimento della domanda. Trai motivi che ostano all'accoglimento della domanda non possono essere addotti
inadempienze o ritardi attribuibili all'amministrazione. Si tratta, dunque, di una sorta di «seconda comunicazione», volta a
suscitare un vero e proprio contraddittorio: entro dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto
di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti. L'atto, volto a stimolare l'introduzione
di elementi preordinati a far superare i fattori ostativi, ha valenza endoprocedimentale e, come tale, non appare impugnabile
in via autonoma. Dell'eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è data ragione nella motivazione del
provvedimento finale.
L’art. 10 bis lascia aperti molti dubbi. In primo luogo, la disposizione pare non essere coerente con l’art. 20, secondo il
quale nei procedimenti ad istanza di parte si forma il silenzio assenso ove l’amministrazione non comunichi entro 30 giorni
il provvedimento di diniego. In secondo luogo, l’interruzione dei tempi per concludere il procedimento (che avviene
mediante comunicazione) parrebbe non risultare ragionevole laddove il privato non abbia avanzato osservazioni. Né è
chiaro se l’amministrazione possa comunicare in più occasioni i motivi che ostano all’accoglimento dell’istanza,
interrompendo ulteriormente i termini ovvero se, onde evitare un fenomeno di frammentazione della comunicazione dei
motivi ostativi, debba comunicare in un’unica soluzione all’istante il progetto di provvedimento di diniego e tutte le ragioni
che ostano all’accoglimento dell’istanza, precludendosi così ulteriori ripensamenti.
Tornando all'istituto in generale, i fatti rappresentati dagli intervenienti o deducibili dagli interessi manifestati non possono
in linea di principio essere accettati acriticamente: l'autore della rappresentazione, infatti, potrebbe avere maliziosamente
alterato la realtà, la quale ultima, inoltre, è pur sempre rappresentata attraverso la valutazione soggettiva dell'interveniente.
Ogni rappresentazione implica una «selezione» dei fatti, con la conseguenza che l'amministrazione può essere chiamata ad
estendere l'ambito oggettivo della realtà indagata, onde ricercare i fatti implicati in quella rappresentazione. La
partecipazione sollecita così un serie di attività che costituiscono momenti dell'acquisizione dei fatti e dell'istruttoria in
senso ampio: la pubblica amministrazione dovrà più precisamente verificare la pertinenza delle memorie all'oggetto del
procedimento, accertare i fatti introdotti nel procedimento. dai privati, identificare altri fatti ignoti ed elaborare le
rappresentazioni dei privati.
Come si è già accennato, anche in ordine ai provvedimenti vincolati la partecipazione può essere assai utile e rilevante: in
tali ipotesi, essa non sarà utilizzabile dall'amministrazione in quanto veicolo di introduzione di interessi, bensì come ausilio,
per individuare la sussistenza dei fatti e dei presupposti che debbono essere accertati e valutati al fine di provvedere.
Mediante la partecipazione è dato introdurre anche ipotesi di soluzione, le quali vanno ad arricchire il quadro delle
possibilità all'interno del quale l'amministrazione opererà la scelta finale.
11.6.Partecipazione al procedimento, interessi procedimentali e loro tutela
Nel quadro della dialettica fra interesse pubblico e interesse privato, è attribuita al cittadino una serie rilevante di facoltà che
possono essere riassunte con la nozione di interessi procedimentali: trattasi di interessi, strumentali ad altre posizioni
soggettive, che attengono a fatti procedimentali e che investono comportamenti dell’amministrazione.
Ci si chiede quale sia la modalità di tutela degli interessi procedimentali sia nel corso del procedimento, sia al termine dello
stesso. La questione si intreccia con il problema dell’impugnabilità dell'atto amministrativo finale davanti al giudice
amministrativo (legittimazione processuale): la soluzione positiva al problema del riconoscimento di tale legittimazione al
titolare del diritto di partecipazione aprirebbe la via ad un moltiplicarsi del contenzioso. Si dovrebbe ad esempio
riconoscere la legittimazione processuale a qualunque soggetto interveniente, non destinatario dell'atto.
Il pericolo di una partecipazione che risulti disarmata scaturisce non solo dall'eventuale mancato riconoscimento della
successiva legittimazione processuale ad impugnare il provvedimento definitivo, bensì soprattutto dalla assenza di
strumenti di tutela peculiari per gli interessi procedimentali nel corso del procedimento stesso. Nell'ipotesi della lesione
dell'interesse a partecipare, l'annullamento del provvedimento finale potrebbe poi rappresentare una reazione eccessiva.
Per quanto riguarda l'omissione della comunicazione, l'art. 8 della l. 241/1990 prevede che la stessa possa essere fatta valere
dal solo soggetto nel cui interesse la comunicazione è posta, rendendo evidente la tendenza alla limitazione delle
conseguenze sulla legittimità dell'atto finale della lesione di interessi procedimentali. Non si può, però, ritenere privo di
conseguenze il comportamento dell'amministrazione lesivo di interessi procedimentali, a meno di privare di qualsiasi
efficacia l'istituto della partecipazione e gli altri istituti procedimentali disciplinati dalla legge.
La soluzione forse più apprezzabile, ma al momento non recepita dal legislatore, sarebbe quella di prevedere per gli
interessi procedimentali forme di tutela immediate e in forma specifica. La legge, in ogni caso, si è mossa nel senso della
limitazione dell'incidenza della violazione delle norme procedimentali, stabilendo all'art. 21 octies che non è annullabile
il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata
del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato. Il provvedimento amministrativo, poi, non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del
procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato.
11.7.Il diritto di accesso ai documenti amministrativi.
La partecipazione offre la possibilità ai soggetti legittimati di «presentare memorie scritte e documenti» nonché di
«prendere visione degli atti del procedimento» (art. 10, l. 24111990). L'accesso ai documenti amministrativi ha anche una
sua autonomia rispetto al procedimento, nel senso che il relativo potere può essere esercitato pure a procedimento concluso
e, dunque, non necessariamente è preordinato alla conoscenza dei documenti amministrativi in via strumentale rispetto alla
partecipazione. Si tratta, infatti, di un istituto che si collega non alla sola trasparenza procedimentale, bensì anche al
principio di trasparenza inteso in senso lato. Da quest'ultimo punto di vista, esso si accosta ad altri strumenti, quali il diritto
dei consiglieri comunali e provinciali di ottenere tutte le notizie e le informazioni utili all'espletamento del loro mandato.
Sotto il profilo soggettivo, un ulteriore ampliamento a "chiunque" della legittimazione ad accedere è stata realizzata dal
d.lgs. 33/2013, che disciplina l'accesso civico. Si parla di accesso endoprocedimentale, esercitato all'interno del
procedimento, e di accesso esoprocedimentale, relativo agli atti di un procedimento concluso. La normativa muove dalle
disposizioni contenute nella 1. 241/1990 ed è completata dal d.p.r. 184/2006 che regolamenta le modalità di esercizio del
diritto. Per quanto riguarda l'accesso collegato alla partecipazione, i soggetti legittimati ad esercitare il diritto di accesso
sono tutti quelli che abbiano titolo a partecipare al procedimento. Negli altri casi, l'art. 22, 1. 241/1990, indica, quali
soggetti legittimati, «tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l'accesso». La legittimazione abbraccia dunque un ambito di situazioni più ampio rispetto all'interesse legittimo e al
diritto soggettivo ed è, in sintesi, collegata a un'autonoma pretesa all'informazione circa l'attività amministrativa
indipendente rispetto alla sussistenza di un interesse ad impugnare l'atto esclusivamente in sede giurisdizionale.
Altro è la situazione di base legittimante l'accesso, altro è la qualificazione del c.d. «diritto» di accesso che può essere
esercitato in quanto si sia appunto titolari della situazione legittimante. La natura della pretesa a prendere visione dei
documenti e ad estrarre copia, cioè, non va confusa con la situazione sottostante che deve sussistere affinché quella pretesa
possa essere esercitata.
Il Consiglio di Stato nel 1999 ha affermato che, a fronte del potere amministrativo, la posizione del privato che esercita la
pretesa all'accesso si atteggia a interesse. Nel 2006, il Consiglio di Stato ha affrontato nuovamente il tema, negando
l'autonomia della posizione giuridica relativa all'accesso e chiarendo che il c.d. "diritto di accesso" non sarebbe volto a
«fornire utilità finali», ma ad «offrire al titolare dell'interesse poteri di natura procedimentale volti in senso strumentale alla
tutela di un interesse giuridicamente rilevante (diritti o interessi)». Secondo l’adunanza plenaria del 2102, comunque,
onde evitare che l'istituto si traduca in una forma di azione popolare, essere titolare di una situazione giuridicamente tutelata
non è condizione sufficiente per esercitare il diritto di accesso, essendo anche necessario che la documentazione cui si
chiede di accedere sia collegata a quella posizione sostanziale, impedendone o ostacolandone il soddisfacimento, sicché oc-
corre avere riguardo al documento cui si intende accedere, per verificarne l'incidenza, anche potenziale, sull'interesse di cui
il soggetto è portatore.
Tuttavia, vi sono normative ad hoc che estendono lo spettro di coloro che hanno diritto di accesso: ad esempio il d.lgs.
195/2005 stabilisce che le autorità pubbliche sono tenute a rendere disponibili le informazioni relative all’ambiente “a
chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba dichiarare il proprio interesse”.
Il diritto di accesso si esercita nei confronti delle PA, delle aziende autonome e speciali, degli enti pubblici e dei gestori di
pubblici servizi, nonché dei privati limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o
dell'Unione europea. Il diritto di accesso nei confronti delle Autorità di garanzia e di vigilanza si esercita nell'ambito
dei rispettivi ordinamenti.
La legge si occupa poi della figura dei controinteressati. Sotto il profilo oggettivo, il diritto di accesso riguarda i documenti
amministrativi, di cui l'art. 22, l. 241/1990: è considerata tale ogni «rappresentazione grafica, foto cinematografica,
elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche ini temi o non relativi a uno specifico
procedimento, detenuti da una PA e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica
o privatistica della loro disciplina sostanziale». La richiesta di accesso, rivolta all'amministrazione che ha formato il
documento o che lo detiene stabilmente, deve essere motivata, indicare gli estremi del documento o gli elementi che ne
consentano l'individuazione e far constare l'identità del richiedente. Essa dovrà poi giustificare la necessarietà del dato
quando la sua conoscenza sia strumentale alla difesa dei propri interessi giuridici o la sua indispensabilità nel caso di
documenti contenenti dati sensibili e giudiziari. Il diritto è esercitabile fino a quando la PA ha 1'obbligo di detenere i
documenti amministrativi ai quali si chiede di accedere.
Di rilievo è la possibilità di esercitare l'accesso telematico: l’art. 52 d.lgs. 82/2005 dispone che le amministrazioni, nel
rispetto della disciplina del diritto di accesso ai documenti amministrativi, hanno l'obbligo di rendere accessibili in ogni
momento agli interessati, tramite strumenti di identificazione informatica, le informazioni relative ai provvedimenti e ai
procedimenti amministrativi che li riguardano, ivi comprese quelle relative allo stato della procedura, ai relativi tempi e allo
specifico ufficio competente in ogni singola fase.
Qualora in base alla natura del documento richiesto non risulti l'esistenza di controinteressati il diritto di accesso può essere
esercitato in via informale mediante richiesta all'ufficio dell'amministrazione (essa è esaminata immediatamente e senza
formalità). Ove si riscontri l'esistenza di controinteressati, o non sia possibile l'accoglimento immediato della richiesta in via
informale, o sorgano dubbi sulla legittimazione del richiedente, sulla sua identità, sui suoi poteri rappresentativi, sulla
sussistenza dell'interesse alla stregua delle informazioni e delle documentazioni fornite, l'amministrazione invita
l'interessato a presentare richiesta d'accesso formale. La disciplina, "burocratizzando" la procedura, prevede la nomina di un
responsabile del procedimento di accesso.
A seguito della domanda di accesso, l'amministrazione può: invitare il richiedente a presentare istanza formale (nel caso di
richiesta informale che non sia immediatamente accoglibile); rifiutare l'accesso (nell'ipotesi di carenza di legittimazione
del richiedente e di relativa motivazione); differire l'accesso (e si noti al riguardo che 1'accesso non può essere negato ove
sia sufficiente fare ricorso al potere di differimento); limitare la portata dell'accesso (consentendolo soltanto ad alcune parti
del documento); accogliere l'istanza. Si osserva che mentre il rifiuto, il differimento e la limitazione all'accesso debbono
essere motivati, la legge non stabilisce nulla in ordine all’accoglimento. L'art. 7, d.p.r. 184/4006, tra l'altro, dispone che
l'atto di accoglimento della richiesta contiene l'indicazione dell'ufficio presso cui rivolgersi, nonché "di un congruo periodo
di tempo, comunque non inferiore a quindici giorni, per prendere visione dei documenti o per ottenerne copia".
Con riferimento all'ipotesi in cui l'amministrazione non si pronunci sulla richiesta di accesso, l'art. 25.4, l. 241/1990,
dispone che trascorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta questa si intende respinta.
In caso di accoglimento, il diritto di accesso si esercita mediante esame gratuito ed estrazione di copia del documento;
l’esame è effettuato dal richiedente o da persona da lui incaricata (con l'eventuale accompagnamento di altra persona di cui
vanno specificate le generalità) presso l'ufficio indicato nell'atto di accoglimento della richiesta.
Non tutti i documenti sono suscettibili di essere conosciuti dai cittadini: l'art. 24, 1. 241/1990 prevede che il diritto non
possa essere esercitato nei casi di documenti coperti da segreto di Stato, di segreto o di divieto di divulgazione
espressamente previsti dall'ordinamento, nei procedimenti tributari; nei confronti dell'attività della PA diretta
all'emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione; nei procedimenti selettivi,
nei confronti dei documenti amministrativi contenenti informazioni di carattere psico-attitudinale relativi a terzi. L' art.
24.6, inoltre, rinvia a un regolamento governativo di delegificazione per l'individuazione dei casi di esclusione dell'accesso
per esigenze di tutela della sicurezza, della difesa nazionale, della politica monetaria e valutaria, dell'ordine pubblico;
quando i documenti riguardano la contrattazione collettiva nazionale di lavoro, oppure la vita privata o la riservatezza di
persone fisiche e giuridiche.
Alcuni problemi sorgono in quanto il fatto di ostendere un documento potrebbe incidere sulla posizione di terzi. Ricordiamo
al riguardo che la 1. 241/1990 distingue tra «interessati» (soggetti privati che abbiano un interesse diretto, concreto e
attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso) e
«controinteressati» (soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che
dall'esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza). Con il termine «riservatezza» si indica
quel complesso di dati, notizie e fatti che riguardano la sfera privata della persona e la sua intimità. La pretesa del cittadino
alla riservatezza implica l’esclusione di altri dalla conoscenza di certi fatti e situazioni. Ma la privacy talvolta si scontra con
l’esigenza di diffondere atti che siano in possesso della PA e che contengono indicazione relative a dati attinenti alla sfera
personale dei soggetti. L’art. 4 d.lgs. 195/2005 dispone che l’amministrazione debba sottrarre all’accesso le informazioni
relative all’ambiente qualora si tratti di salvaguardare anche la riservatezza dei dati personali o riguardanti una persona
fisica, nel caso in cui essa non abbia acconsentito alla divulgazione dell’informazione al pubblico.
La riservatezza è da tempo presidiata mediante la istituzione di un Garante, quello appunto della privacy, ex d.lgs.
196/2003, mentre analoga figura non esisteva sul terreno della trasparenza. La lacuna è stata poi colmata in forza della
creazione dell'Anac. È prevedibile che il rapporto privacy/trasparenza (e il giudizio di prevalenza) possa essere interpretato
in modo diverso dai due soggetti.
Il d.lgs. 196/2003, cd. «codice in materia di protezione dei dati personali», ha riorganizzato e innovato la normativa in
materia di tutela dei dati personali. Ai sensi dell'art. 7 del codice, l'«interessato» (qualsiasi persona fisica, persona giuridica,
ente o associazione) ha diritto di ottenere dai soggetti pubblici la conferma del fatto che essi detengano dati personali
che lo riguardano, nonché «la loro comunicazione in forma intelligibile». In particolare, l'interessato ha il diritto di ottenere
l'indicazione della provenienza dei dati personali trattati dall'ente pubblico; delle finalità e modalità di trattamento; degli
estremi dei soggetti responsabili nelle operazioni di trattamento; dei soggetti cui potrebbero eventualmente essere
comunicati tali dati personali. Il codice (art. 7) assicura dunque all'interessato modalità di comunicazione di tutte le
informazioni che lo riguardano detenute da un ente pubblico che ne consentano la piena e agevole acquisizione. Un vero e
proprio diritto di accesso, dunque, regolato al di fuori della 1. 241/1990.
Una volta conosciuti i dati personali e/o le informazioni detenuti da un ente pubblico, l'interessato ha diritto di ottenerne
l'aggiornamento, la rettificazione, l'integrazione, la cancellazione, la trasformazione in forma anonima, la mera
conservazione.
Il diritto di accesso diretto a ottenere la comunicazione in forma intelligibile dei propri dati personali non può essere
utilizzato allorché l'esibizione documentale comporti anche la conoscenza di dati personali di soggetti terzi rispetto al
richiedente.
L'art. 59 del codice della privacy precisa, infatti, che «i presupposti, le modalità, i limiti per l'esercizio del diritto di accesso
a documenti amministrativi contenenti dati personali, e la relativa tutela giurisdizionale, restano disciplinati dalla legge 7
agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni e dalle altre disposizioni di legge in materia, nonché dai relativi
regolamenti di attuazione, anche per ciò che concerne i tipi di dati sensibili e giudiziari e le operazioni di trattamento
eseguibili in esecuzione di una richiesta di accesso».
Riprendendo il discorso sul rapporto tra diritto di accesso e tutela della riservatezza, un problema sorge quando le
amministrazioni che debbono rispondere a una istanza di accesso si trovano normalmente a dover prendere in
considerazione le esigenze di tutela dei terzi.
La legge non prevede espressamente alcuna partecipazione del controinteressato al procedimento che si instaura al
momento della presentazione dell'istanza di accesso; la lacuna è stata colmata dal d.p.r. 184/2006 che impone
all'amministrazione di comunicare ai soggetti controinteressati la richiesta di accesso, prevedendo altresì che costoro
possano presentare motivata opposizione alla richiesta entro il termine di dieci giorni, decorso il quale l'amministrazione
provvede sulla richiesta. Ove si riscontri l’esistenza dei controinteressati, l'amministrazione non può dar seguito alla
richiesta di accesso informale, ma deve chiedere di presentare domanda scritta, al fine di avviare apposito procedimento
amministrativo (accesso formale). Quando l'accesso a documenti la cui conoscenza potrebbe confliggere con le esigenze
della riservatezza di dati personali di soggetti terzi, il codice della privacy fa espressamente rinvio ai principi e alle
regole della l. 241/1990, che in sostanza richiede all'amministrazione di effettuare una ponderazione tra interessi
contrapposti (trasparenza e riservatezza). La l. 241/1990 dispone al riguardo che ai richiedenti deve comunque essere
garantito l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi
giuridici, spettando dunque all'amministrazione la relativa valutazione. L'art. 24.7 l. 241/1990 prevede poi che, nel caso di
documenti contenenti dati sensibili (idonei a rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di
altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso,
filosofico, politico o sindacale, nonché lo stato di salute e la vita sessuale) e giudiziari (si pensi alla qualità di imputato o di
indagato), l'accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile.
Alla luce della disciplina emergente dalla 1. 241/1990 e dal codice della privacy, si è sostenuta l'esistenza di vari tipi di
accesso ai documenti/informazioni amministrativi: a) l'accesso esoprocedimentale volto alla conoscenza dei soli dati
personali del richiedente (regolato dal codice della privacy); b) l'accesso esoprocedimentale volto alla conoscenza di dati
personali di soggetti terzi rispetto all'istante; c) l'accesso esoprocedimentale volto alla conoscenza di dati sensibili e
giudiziari; d) l'accesso esoprocedimentale volto alla conoscenza di dati supersensibili; e) l'accesso endoprocedimentale. A
questo elenco deve aggiungersi il sesto caso dell'accesso civico (d.lgs. 33/2013).
La disciplina del diritto di accesso è completata dalla previsione di particolari forme di tutela:
a) Il d.lgs. 104/2010 assegna al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, la tutela giurisdizionale
contro le determinazioni concernenti il diritto d'accesso e nei casi di rifiuto (Tar in primo grado e Consiglio di Stato
in grado di appello). La legge prevede un processo abbreviato. L'art. 25.4, 1. 241/1990, con specifico riferimento ai
casi di rifiuto e di differimento, consente altresì al richiedente di chiedere di riesaminare la determinazione negativa
nel termine di trenta giorni al difensore civico se agisce contro enti locali o regionali o, se agisce contro
amministrazioni statali, alla Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi. Scaduto infruttuosamente tale
termine, il ricorso si intende respinto. Ove invece tali organi ritengano illegittimo il diniego o il differimento, ne
informano il richiedente e lo comunicano all'autorità disponente e, ove questa non emani il «provvedimento
confermativo motivato» entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione, l'accesso è consentito. Nell'ipotesi
in cui si sia rivolto al difensore civico o alla Cada, il richiedente potrà adire il giudice amministrativo entro trenta
giorni dal ricevimento dell'esito della istanza (tale esito può consistere nella valutazione della legittimità del
diniego, o nel provvedimento confermativo adottato dall'amministrazione competente). La legge vuole dunque
favorire l'impiego di questo strumento di tutela non giurisdizionale, assicurando il privato che il suo impiego non
preclude l'azione dinanzi al giudice.
b) Il codice della privacy affida invece la tutela del diritto di accesso volto a ottenere la comunicazione in forma
intelligibile dei propri dati personali al Garante del trattamento dei dati personali o al giudice ordinario.
Quest’ultimo dispone di pieni poteri di cognizione e di condanna, anche al risarcimento del danno. La
«presentazione del ricorso al Garante rende improponibile un'ulteriore domanda dinanzi all' autorità giudiziaria tra
le stesse parti e per il medesimo oggetto».
Sulla falsariga dell'ordinamento francese, la l. 241/1990 istituisce presso la presidenza del Consiglio una Commissione per
l'accesso ai documenti che vigila affinché venga attuato il principio di piena conoscibilità dell'azione amministrativa, redige
una relazione annuale sulla trasparenza dell'amministrazione e propone al governo le modificazioni normative necessarie
per realizzare la garanzia del diritto di accesso.
Nella direzione dell'aumento della trasparenza e della piena garanzia della "libertà di accesso" si muove il d.lgs. 33/2013
che introduce nel nostro ordinamento il c.d. accesso civico, ampliando il novero dei legittimati (ai quali viene riconosciuto
un vero e proprio diritto) e gli atti e gli elementi conoscibili. Il campo di applicazione dell'istituto è duplice.
In primo luogo, esso coincide con l'area dei "dati, delle informazioni e dei documenti" per cui sussiste un obbligo di
pubblicazione. La richiesta di accesso civico non è sottoposta ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva
del richiedente, riconosciuta a chiunque. Si tratta, in questa ipotesi, di una sorta di diritto per chiunque e di sanzione per
l'amministrazione.
In secondo luogo, "allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico", si riconosce a chiunque ha
diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di
pubblicazione ai sensi del presente decreto.
In entrambe le ipotesi l'istanza, che identifica i dati, le informazioni o i documenti richiesti, non richiede motivazione. Il
rilascio di dati o documenti in formato elettronico o cartaceo è gratuito. Il procedimento di accesso civico deve concludersi
con provvedimento espresso e motivato nel termine di trenta giorni dalla presentazione dell'istanza con la comunicazione
al richiedente e agli eventuali controinteressati. In caso di accoglimento, l'amministrazione provvede a trasmettere
tempestivamente al richiedente i dati o i documenti richiesti, o, nel caso in cui l'istanza riguardi dati, informazioni o
documenti oggetto di pubblicazione obbligatoria, a pubblicare sul sito i dati, le informazioni o i documenti richiesti. I
documenti, le informazioni e i dati sono pubblicati in formato di tipo aperto e sono riutilizzabili nei limiti di legge, senza
ulteriori restrizioni diverse dall'obbligo di citare la fonte e di rispettarne l'integrità.
Nei casi di diniego totale o parziale dell'accesso o di mancata risposta entro il termine di legge, la normativa prevede
rimedi amministrativi e giurisdizionali, sul modello della disciplina dettata per l'accesso "classico". Il richiedente ha poi la
possibilità di presentare richiesta di riesame al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, che
decide con provvedimento motivato, entro il termine di venti giorni. Avverso la decisione del responsabile, comunque, il
richiedente può poi proporre ricorso avverso il silenzio. Qualora si tratti di atti delle amministrazioni delle regioni o degli
enti locali, il richiedente può altresì presentare ricorso al difensore civico competente per ambito territoriale.
La normativa (art. 46, d.lgs. 33/2013), inoltre, prevede che l'inadempimento degli obblighi di pubblicazione previsti dalla
normativa vigente o il rifiuto, il differimento e la limitazione dell'accesso civico costituiscono elemento di valutazione della
responsabilità dirigenziale, eventuale causa di responsabilità per danno all'immagine dell'amministrazione. Ai sensi
dell'art. 43.3, i dirigenti responsabili dell'amministrazione e il responsabile per la trasparenza controllano e assicurano la
regolare attuazione dell'accesso civico.
I principali problemi applicativi si pongono per l'accesso che concerne dati ulteriori rispetto a quelli oggetto di
pubblicazione.
Intanto, per essi possono sussistere controinteressati, che debbono essere coinvolti nel procedimento. L'amministrazione,
infatti è tenuta a dare loro comunicazione; entro dieci giorni dalla ricezione della comunicazione, i controinteressati
possono presentare una motivata opposizione alla richiesta di accesso. A decorrere dalla comunicazione ai
controinteressati, il termine finale di trenta giorni è sospeso fino all'eventuale opposizione dei controinteressati. Decorso
tale termine, la PA provvede sulla richiesta, accertata la ricezione della comunicazione.
In secondo luogo, l'ordinamento individua precisi limiti ed eccezioni all'accesso civico, aprendo la via a delicate
valutazioni dell'amministrazione e a scelte di bilanciamento tra interessi. Ai sensi dell'art. 5 bis, d.lgs. 3312013, l'accesso è
rifiutato se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di taluni interessi pubblici (si tratta di
quelli inerenti a sicurezza pubblica e ordine pubblico, sicurezza nazionale, difesa e le questioni militari) o privati
(protezione dei dati personali, libertà e segretezza della corrispondenza, interessi economici e commerciali di una persona
fisica o giuridica). L'accesso civico non può essere negato ove, per la tutela degli interessi sopra indicati, sia sufficiente fare
ricorso al potere di differimento. Il diritto è poi escluso nei casi di segreto di Stato e negli altri casi di divieti di accesso o
divulgazione previsti dalla legge.
Infine, assai delicati sono i problemi di coordinamento tra l'accesso "classico" e l'accesso civico che esorbita dagli obblighi
di pubblicazione. I due istituti, infatti, possono interessare i medesimi documenti, ma, mentre il primo spetta soltanto a chi
abbia uno specifico interesse, il secondo è un vero e proprio diritto di conoscere riconosciuto a tutti. Muta poi la finalità,
nel senso che solo l'accesso civico costituisce una forma diffusa di controllo, laddove l'accesso classico non può essere
preordinato ad un controllo generalizzato dell'operato delle PA. Diversi sono però i limiti, nel senso che i casi che
giustificano un rifiuto dell'accesso civico sono più ampi rispetto a quelli che consentono di rigettare la richiesta, di accesso
"classico", restituendo l'immagine di un accesso civico che corrisponde a un cerchio dal raggio più ristretto rispetto all'area
presidiata dall'accesso classico. Con riferimento a questo nucleo minimo, presumibilmente l'interessato opterà per l'accesso
civico, visto che si tratta di un diritto riconosciuto a chiunque e che non richiede una istanza motivata.
11.8.Procedimento, atti dichiarativi e valutazioni
Affinché i fatti diventino rilevanti nel procedimento, essi debbono essere accertati dall'amministrazione procedente o da
altra amministrazione. L'amministrazione pone in tal caso in essere atti dichiarativi: essi sono costituiti da dichiarazioni di
scienza che conseguono a un procedimento costituito da un insieme di atti e operazioni finalizzati ad apprendere.
Ricordiamo in particolare gli accertamenti, i quali sono dichiarazioni relative a fatti semplici meramente constatati. Taluni
atti dichiarativi hanno la funzione di attribuire certezze legali che valgono erga omnes; in altri casi, il riconoscimento
formale di un certo modo di essere di una situazione ha rilievo ai fini dell'esercizio di un potere amministrativo.
Al fine di operare la qualificazione di un fatto, talora non è sufficiente porre in essere una semplice attività di
apprendimento e una consequenziale dichiarazione di scienza, ma è richiesta un'attività di valutazione e, cioè, la
formulazione di un giudizio estimativo. Pure queste valutazioni tecniche, peraltro, vengono poste in essere a seguito di
un'attività volta ad apprendere la sussistenza del fatto. Esse, però, a differenza degli accertamenti, riguardano fatti per i
quali occorre una valutazione più complessa che, non implicando la considerazione dell'interesse pubblico, esula dalla
discrezionalità «pura». Tali valutazioni, cioè, sono frutto di «discrezionalità tecnica»: essa è pur sempre un'attività non
decisionale e non ha, a differenza della discrezionalità pura, carattere volitivo.
La distinzione tra accertamenti e valutazioni presuppone l'assai discutibile possibilità di contrapporre scienze esatte e
scienze inesatte, sicché va considerata solo tendenziale. Dal punto di vista della dinamica giuridica, gli atti in questione
producono soltanto effetti endoprocedimentali, che attengono cioè al procedere dell'azione verso la sua conclusione. Poiché
essi non modificano la situazione preesistente, la posizione giuridica del privato interessato dal comportamento complessivo
della PA non muta: in particolare, atteso che tali atti costituiscono un momento di un procedimento che sfocia in un
provvedimento, il cittadino sarà titolare di un interesse legittimo.
Sotto il profilo della disciplina procedimentale, l'art. 17, 1. 241/1990, si riferisce specificamente alle valutazioni tecniche
(ma è da ritenersi applicabile anche agli accertamenti) nella prospettiva della semplificazione. La norma, cioè, si occupa del
caso in cui esse, previste da una legge o da un regolamento, siano richieste a enti o organi appositi e questi non provvedano
entro novanta giorni dal ricevimento della richiesta o in quello previsto specificamente dalla legge. In questa ipotesi, la
legge (o un regolamento) prevede che il responsabile del procedimento «deve» chiedere le suddette valutazioni ad altri
organi della PA o ad altri enti pubblici che siano dotati di qualificazione e capacità tecnica equipollenti. Tale disciplina non
si applica in caso di valutazioni che debbano essere prodotte da amministrazioni preposte alla tutela ambientale,
paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini (c.d. interessi sensibili). Ai sensi dell’art. 14 ter l. 241/1990, allorché
sia intervenuta la valutazione di impatto ambientale “le disposizioni di cui agli artt. 16.3 e 17.2 si applicano alle sole
amministrazioni preposte alla tutela della salute dei cittadini, del patrimonio storico-artistico e della pubblica incolumità”.
L'art. 17, c. 3, 1. 241/1990, si occupa anche del caso in cui l'ente o l'organo adito abbia rappresentato esigenze istruttorie
all'amministrazione procedente. Come avviene in tema di pareri, il termine può essere interrotto una sola volta e la
valutazione deve essere prodotta entro quindici giorni dalla ricezione degli elementi istruttori da parte dell'amministrazione
interessata.
La scelta consacrata nell'art. 17, 1. 241/1990 è chiara nell'imporre di procedere in ogni caso alla valutazione tecnica, senza
introdurre meccanismi che conducano comunque alla conclusione del procedimento. Ciò segna una netta differenza rispetto
a quanto previsto per il caso di pareri, in ordine ai quali in particolari circostanze è consentito all'autorità procedente di
proseguire indipendentemente dalla loro acquisizione. La diversità di disciplina sembra da ricollegare alla necessità che
l'istruttoria sia completa, esigenza questa che non consente che si proceda senza che sia valutata la sussistenza di un
presupposto previsto dalla legge. Non solo: nell'ipotesi delle valutazioni, a differenza di quanto accade nel caso dei pareri,
1'amministrazione procedente non ha di norma la "competenza" tecnica e, dunque, la possibilità di sostituire il giudizio
espresso dall'organo o ufficio tecnico. Si configura in tal modo una sorta di riserva di valutazione tecnica in capo ad
alcuni organi ed enti: la valutazione non è sostituibile o superabile né dalla parte privata, né dall'amministrazione decidente.
Delicato è, poi, il tema della "resistenza" di tale riserva nei confronti del giudice eventualmente chiamato a sindacare la
legittimità del provvedimento finale che si basi su quella valutazione. In linea di principio, non dovrebbero operare dei
limiti al sindacato del giudice. Inoltre, la riserva dovrebbe esistere solo quando sia espressamente prevista dalla legge o da
un regolamento, anche se vi è la tendenza ad affermare che alcuni soggetti, come ad esempio le autorità indipendenti,
agiscano sempre in un’area riservata.
Va poi aggiunto che un problema di limite al sindacato si pone soltanto quando si tratti di verificare un fatto che sia
suscettibile di varia valutazione e, come tale, risulti opinabile; pur in presenza di un potere, infatti, se il presupposto è
semplice e non complesso il giudice, in linea di principio, può e deve verificarne la sussistenza, atteso che non può
affermarsi la legittimità dell'attività amministrativa che assuma come esistente un fatto inesistente. Nei casi in cui sussista
effettivamente possibilità di scelta, si ritiene tradizionalmente che il giudice amministrativo possa sindacare la valutazione
tecnica solo da un punto di vista per così dire «esterno», ossia esaminando la logicità dell'operazione seguita
dall'amministrazione.
Alcune pronunce più recenti, talora richiamando il principio del giusto processo sancito a livello costituzionale e quello del
giusto procedimento amministrativo, ammettono però che il giudice possa spingersi anche oltre la pura verifica formale
dell'attività valutativa compiuta dall'amministrazione alla luce di generici criteri di esperienza, potendosi avvalere
eventualmente anche di regole e di conoscenze tecniche appartenenti alla medesima scienza specialistica applicata
dall'amministrazione. Nel senso che sarebbe consentito al giudice verificare direttamente l'«attendibilità» delle operazioni
tecniche (la Cass. con sent. 3712/2012 ha però statuito che non spetta al giudice amministrativo sostituirsi
all’amministrazione operando un sindacato diretto della discrezionalità tecnica). L’attribuzione di ampi poteri istruttori al
giudice amministrativo ha così consentito un miglior accesso al fatto, rafforzando così l’orientamento favorevole ad una
verifica diretta, da parte del giudice, delle valutazioni amministrative: ciò rischia però di aprire la strada alla sostituzione
delle valutazioni tecniche elaborate dall’amministrazione con le conclusioni raggiunte dal consulente.
La dottrina ha criticato la sussistenza della riserva di valutazione tecnica, sottolineando come il carattere opinabile di un
giudizio non sia ragione sufficiente per configurare un potere generale riservato in capo all’amministrazione, il quale
confligge altresì con il principio di legalità.
L'art. 2, 1. 241/1990 conferma la sussistenza della riserva: il procedimento non può concludersi senza l'acquisizione della
valutazione perché è comunque opportuno che le amministrazioni fissino termini procedimentali complessivi tali da
consentire, in caso di inerzia del primo soggetto tecnico coinvolto, l'acquisizione delle valutazioni da parte di altri
organismi.
11.9.Le attività istruttorie dirette all’accertamento dei fatti
L'istruttoria è governata dal responsabile del procedimento che è chiamato ad accertare i fatti, compiendo gli atti all'uopo
necessari (art. 6, 1. 241/1990). L'ordinamento consente anche, in taluni casi, che una parte dell'attività istruttoria sia svolta
da privati (es. in tema di procedimenti concernenti gli interventi di sostegno pubblico per lo sviluppo delle attività
produttive).
Controversa è la soluzione al problema della natura dei poteri istruttori: si tratta cioè di comprendere se essi siano
necessariamente implicati dalla titolarità del potere di provvedere o richiedano una norma di legge che li attribuisca in
modo separato. Deve escludersi che l'amministrazione disponga di poteri «impliciti» che consentano di indagare la realtà
anche incidendo sulla sfera giuridica dei terzi (la precisazione è importante soprattutto in relazione alle ispezioni e alle
inchieste). In presenza di una tale incidenza, infatti, vige sempre il principio di tipicità e nominatività dei poteri
amministrativi. Di conseguenza, i poteri il cui esercizio potrebbe comportare una incisione nella sfera giuridica del terzo
debbono essere espressamente conferiti dalla legge. I poteri che si esplicano in atti i quali non incidono sui diritti dei privati
si possono invece ritenere connaturati al potere di disporre.
Per acquisire la conoscenza della realtà e degli interessi, l'amministrazione si avvale di numerosi strumenti. Alcuni atti
istruttori sono previsti come obbligatori dalla legge. L'istruttoria non si esaurisce però necessariamente nel compimento di
questi atti: l'amministrazione può porre in essere ulteriori atti «all'uopo necessari, indipendentemente dall'attribuzione di
specifici poteri da parte dell'ordinamento. Il soggetto pubblico ha così facoltà di disporre la rinnovazione o il
completamento di un’istruttoria non soddisfacente o lacunosa: è il c.d. principio inquisitorio, che è anche applicabile alla
scelta dei mezzi istruttori che l’amministrazione può utilizzare per acquisire la conoscenza di fatti rilevanti ai fini della
determinazione finale. L’ampia possibilità di decisione in ordine alla natura e all’estensione dei mezzi istruttori incontra
però un limite che è quello del principio del non aggravamento del procedimento.
Con riguardo alle risultanze che emergono dai mezzi istruttori, queste di norme sono liberamente valutate
dall’amministrazione. Un’eccezione è costituita dalle certificazioni che creano certezze erga omnes, le quali sono
vincolanti anche nei confronti delle amministrazioni.
Analizziamo ora alcuni dei mezzi istruttori.
I fatti semplici sono spesso rappresentati nel procedimento mediante le seguenti attività delle parti:
- esibizione di documenti di identità o di riconoscimento in corso di validità;
- acquisizione diretta di documenti e di informazioni: le amministrazioni pubbliche e i gestori di pubblici servizi
sono tenuti ad acquisire d'ufficio le informazioni oggetto delle dichiarazioni sostitutive, nonché tutti i dati e i
documenti che siano in possesso delle PA, previa indicazione, da parte dell'interessato, degli elementi
indispensabili per il reperimento delle informazioni o dei dati richiesti. A riguardo, l’art. 18 l. 241/1990 prevede il
dovere di acquisizione d’ufficio dei documenti attestanti fatti, atti, qualità e stati soggettivi, necessari per
l’istruttoria del procedimento, quando sono in possesso dell’amministrazione procedente, ovvero sono detenuti
istituzionalmente da altre PA. L'art. 43 T.U. chiarisce inoltre che quando l'amministrazione procedente opera
l'acquisizione di ufficio procede esclusivamente per via telematica.
- produzione di documenti o di autocertificazioni: si è stabilito che i certificati relativi a stati, qualità personali e
fatti non possono essere usati nei rapporti con l'amministrazione o con i gestori di servizi pubblici; il cittadino,
infatti, in quest'ultimo caso impiega sempre lo strumento delle dichiarazioni sostitutive e l'amministrazione
acquisisce d'ufficio le relative informazioni. Inoltre, ai sensi dell’art. 18 T.U. si è previsto che in luogo degli
originali di atti o documenti possono essere validamente prodotte copie autentiche in materia di documentazione
amministrativa. La distinzione tra dichiarazioni sostitutive e autocertificazioni sta nel fatto che le dichiarazioni
sostitutive riguardano dati contenuti in pubblici registri mentre le seconde attengono a situazioni non consacrate in
atti di certazione. Ai sensi dell’art. 2, d.lgs. 126/2016, che ha il significato di norma di chiusura del sistema,
l'amministrazione può chiedere all'interessato informazioni o documenti solo in caso di mancata corrispondenza del
contenuto dell'istanza, segnalazione o comunicazione e dei relativi allegati a quanto previsto dai moduli unificati e
standardizzati definiti dalle amministrazioni e pubblicati sui siti istituzionali.
L'incremento dei casi in cui il privato è chiamato a certificare o dichiarare sotto la propria responsabilità il possesso dei
requisiti o la conformità dei propri progetti alle prescrizioni tecniche e normative determina un mutamento di oggetto
dell'istruttoria compiuta dall'amministrazione, la quale, invece di accertare fatti, è sempre più spesso chiamata ad accertare a
campione la completezza e la regolarità delle dichiarazioni.
Tra i procedimenti volti ad accertare i fatti possono ricordarsi le inchieste e le ispezioni, le quali hanno normalmente ad
oggetto accadimenti e comportamenti, o ancora beni di pertinenza di soggetti terzi. Tali operazioni sono destinate a
raccogliere informazioni e dati di fatto necessari per provvedere e danno luogo ad atti di accertamento, i quali sono acquisiti
all'istruttoria del procedimento.
L'inchiesta amministrativa è un istituto che mira a un’acquisizione di scienza relativa ad un evento straordinario che non
può essere conosciuto ricorrendo alla normale attività ispettiva e si conclude di norma con una relazione. L'inchiesta viene
svolta da un organo istituito ad hoc, di solito collegiale, il quale dovrà porre in essere l'attività conoscitiva in ordine a un
particolare oggetto entro un certo termine. Occorre dunque l'emanazione di un provvedimento che disponga l'inchiesta e
attribuisca l'incarico. L'inchiesta è normalmente servente nei confronti di un procedimento principale. Tuttavia, il potere di
inchiesta può avere finalità meramente conoscitive o, comunque, non avere carattere strumentale rispetto ad un particolare
procedimento.
L'ispezione è un insieme di atti, di operazioni o di procedimenti mirati ad acquisizioni di scienza che ha a oggetto situazioni
o comportamenti e che avviene in luogo esterno rispetto alla sede dell'amministrazione (es. tenuta di particolari libri o
registri, osservanza di leggi, regolamenti e istruzioni). Strutturalmente, l'ispezione ha avvio con un atto indirizzato
all'organo o all'ufficio competente, e non istituito ad hoc, che dovrà compiere l'ispezione stessa: tale atto attribuisce dunque
alla figura soggettiva la legittimazione a procedere all'ispezione nel caso concreto. L'atto ha però come vero destinatario il
soggetto terzo che «è sottoposto» all'ispezione. Il procedimento si chiude solitamente con una relazione, un rapporto
o un verbale. Spesso l'ispezione è strumentale a procedimenti di controllo o si inserisce nell'ambito di rapporti
organizzativi in cui la soggezione alla potestà ispettiva è per così dire permanente.
11.10.La fase consultiva
Una volta acquisiti tutti gli interessi coinvolti nella scelta finale e verificati i fatti rilevanti, l'amministrazione deve
procedere a una valutazione di siffatto materiale istruttorio. In alcune ipotesi questa valutazione viene effettuata mediante
atti emanati da appositi uffici o organi che confluiscono in un ulteriore momento della fase istruttoria, costituita dal
subprocedirnento consultivo. Si tratta di uffici e organi, di norma collegiali, distinti rispetto a quelli che svolgono attività di
amministrazione attiva e dotati di particolari preparazione e competenza tecnica. Tale attività è rivolta non già a decidere
per la cura di un interesse pubblico, ma a fornire valutazioni e giudizi su varie questioni in vista delle scelte finali adottate
da altri. Gli atti mediante i quali viene esercitata questa attività consultiva e aventi un contenuto di giudizio sono i pareri.
(esistono diverse tipologie di pareri: vi sono pareri in senso stretto, pareri-note che hanno la funzione di rappresentare il
punto di vista o gli interessi dell’amministrazione che li emana. Inoltre non vanno confusi con i pareri gli atti resi da
consulenti o esperti privati che non svolgono funzioni di amministrazione consultiva).
I pareri si distinguono in:
- Pareri obbligatori, se la loro acquisizione è prescritta dalla legge.
- Pareri facoltativi: essi non sono previsti dalla legge; l'amministrazione può di propria iniziativa richiederli, purché
ciò non comporti un ingiustificato aggravamento del procedimento.
- Pareri conformi: si tratta dei pareri che lasciano all'amministrazione attiva la possibilità di decidere se provvedere
o meno; se essa provvede, non può però disattenderli.
- Pareri semivincolanti: tali pareri possono essere disattesi soltanto mediante l'adozione del provvedimento da parte
di un organo diverso da quello che di norma dovrebbe emanarlo, impegnandone la responsabilità amministrativa o
politica.
- Pareri vincolanti: si tratta di pareri obbligatori che non possono essere disattesi dall' amministrazione, salvo che
non li ritenga illegittimi. In una prospettiva sostanziale non sembra possa essere negato che un parere che non lasci
nessuno spazio di scelta in capo all'organo di amministrazione attiva non esprime nessuna consulenza, ma pone in
essere una decisione preliminare, sicché solo impropriamente può essere definito alla stregua di «parere».
L'amministrazione procedente dovrebbe dunque quanto meno disporre della possibilità di non emanare l'atto finale.
Il subprocedimento consultivo inizia con la richiesta di parere, la quale consiste nella formulazione di un quesito, prosegue
con lo studio del problema, con la discussione, con la determinazione, con la redazione e si conclude con la comunicazione
all' autorità richiedente. Il parere va ad arricchire il quadro istruttorio di cui quest'ultima dispone. Ciò spiega perché
l'amministrazione procedente debba adeguatamente motivare nel caso in cui decida di disattendere il parere.
Il procedimento consultivo è disciplinato espressamente dall'art. 16, l. 241/1990 e successive modificazioni, cui tra l'altro
fa rinvio l'art. 139, T.U. enti locali. Il parere obbligatorio deve essere reso entro venti giorni. L'art. 2.4, 1. 241/1990, non fa
cenno alla possibilità che, durante l'acquisizione del parere, rimangano sospesi i termini del procedimento nel suo
complesso.
La disciplina distingue a seconda che si faccia questione di parere obbligatorio o facoltativo. Decorso il termine previsto
senza che sia stato comunicato quello obbligatorio o senza che l'organo adito abbia rappresentato esigenze istruttorie, è in
facoltà dell'amministrazione richiedente di procedere indipendentemente dall'espressione del parere. Se il parere richiesto
era facoltativo (e sempre che l'organo adito non abbia rappresentato esigenze istruttorie), l'amministrazione richiedente ha il
dovere di procedere indipendentemente dall'espressione del parere. Nel primo caso, la legge pare implicare la
trasformazione del parere da obbligatorio a facoltativo e la conseguente possibilità per l'organo di amministrazione attiva di
attendere il parere tardivo. La ratio della scelta legislativa di consentire comunque la prosecuzione del procedimento anche
in mancanza del parere pare potersi rinvenire nel principio di non aggravamento del procedimento, anche perché volta
ad impedire il superamento dei termini fissati per la conclusione del procedimento.
Questa normativa non si applica però nei casi in cui il parere debba essere reso da amministrazioni preposte alla tutela
ambientale, paesaggistica, territoriale e della salute dei cittadini (interessi sensibili).
Va comunque anticipato che, secondo quanto disposto dall'art. 14, anche i pareri possono essere acquisiti mediante lo
strumento della conferenza di servizi: si profila così un'ulteriore modalità attraverso la quale l'amministrazione esercita la
propria funzione consultiva nel procedimento.
Per quanto attiene ai pareri resi dal Consiglio di Stato in qualità di organo di consulenza giuridico-amministrativa, l’art. 17
l. 127/1997 individua i casi in cui essi sono richiesti in via obbligatoria e abroga “ogni diversa disposizione di legge che
preveda il parere del Consiglio di stato in via obbligatoria”. Tali pareri sono pubblici e recano l’indicazione del Presidente
del collegio e dell’estensore.
Si noti, infine, che non è sempre facile distinguere tra pareri, valutazioni tecniche e nullaosta. Dal punto di vista teorico la
differenza è netta: il parere è espressione della funzione consultiva e comporta di norma un consiglio in ordine agli
interessi che l'amministrazione procedente deve tutelare, tenuto conto della situazione di fatto così come accertata
nell'istruttoria. Le valutazioni tecniche attengono invece a uno o più presupposti dell'agire che debbono essere appunto
valutati nel corso dell'istruttoria. Il nullaosta è un atto di amministrazione attiva che viene emanato in vista di un interesse
differente da quello curato dall'amministrazione procedente.
12.La fase decisoria: rinvio
Completata l'istruttoria, il procedimento è maturo per giungere all'emanazione del provvedimento. Il procedimento può
peraltro concludersi anche con atti differenti o addirittura con un mero fatto (silenzio). La fase decisoria non segue cioè uno
schema unitario: essa sarà esaminata nel prossimo capitolo. Va comunque anticipato (perché ciò ha riflessi sulle scansioni
del procedimento) che, quando l'amministrazione procedente deve acquisire intese, concerti, nulla osta o assensi comunque
denominati di altre amministrazioni pubbliche, il procedimento deve seguire regole ben precise.
L'art. 17 bis, l. 241/1990, nel segno della semplificazione, introduce il meccanismo del silenzio assenso
endoprocedimentale; esso ha un effetto legittimante per l'amministrazione procedente, consentendo alla stessa, in caso di
inerzia del soggetto che deve esprimere l'assenso, di procedere verso la conclusione del procedimento. Più nel dettaglio,
nelle ipotesi in cui è prevista l'acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni
pubbliche e di gestori di beni o servizi pubblici, per l'adozione di provvedimenti non solo amministrativi, ma anche
normativi, di competenza di altre amministrazioni pubbliche, le amministrazioni o i gestori competenti comunicano
il proprio assenso, concerto o nulla osta entro trenta giorni dal ricevimento dello schema di provvedimento, corredato della
relativa documentazione, da parte dell'amministrazione procedente. Decorso il termine senza che sia stato comunicato
1'assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito. Il termine è interrotto qualora siano rappresentate
esigenze istruttorie.
Ove sia espresso un dissenso e siano convolte amministrazioni statali, la norma introduce comunque un ulteriore
strumento per superare l'ostacolo: in caso di mancato accordo (e non, dunque, di silenzio) tra le amministrazioni statali
coinvolte nei procedimenti, infatti, il Presidente del Consiglio dei ministri decide sulle modifiche da apportare allo schema
di provvedimento. Inerzia o dissenso sono diventati, dunque, ostacoli superabili.
Tornando alla disciplina dell'art. 17 bis, va notato che il silenzio assenso si forma anche nelle ipotesi in cui sia prevista
l'acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni preposte alla tutela ambientale,
paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini, per l'adozione di provvedimenti normativi e
amministrativi di competenza di amministrazioni pubbliche (interessi sensibili). Ove disposizioni specifiche non
prevedano un termine diverso, il termine entro il quale le amministrazioni competenti comunicano il proprio assenso,
concerto o nulla osta è di novanta giorni dal ricevimento della richiesta da parte dell'amministrazione procedente. A parte
questa differenza relativa ai termini, il regime è comunque il medesimo sopra descritto: trascorsi i suddetti termini senza
che sia stato comunicato l'assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito.
Ove gli "interessi sensibili" siano curati da amministrazioni chiamate a rendere pareri o esprimere valutazioni tecniche, a
fronte dell'inerzia dell'amministrazione il procedimento non può comunque avanzare, non essendo consentito prescindere
dal parere o, per le valutazioni tecniche, rivolgersi ad altro soggetto dotato di adeguata competenza.
Viceversa, nei casi in cui le amministrazioni chiamate a tutelare quegli interessi debbano partecipare al procedimento
rilasciando assensi, concerti o nulla osta, l'inerzia protratta per novanta giorni equivale all'acquisizione dell'atto di assenso.
Si determina così un disallineamento non solo rispetto alla disciplina di pareri e valutazioni tecniche (ove, a fronte di
interessi sensibili, l'inerzia è insuperabile), ma anche nei confronti del meccanismo del silenzio assenso sull'istanza dei
privati.
13.La fase integrativa dell'efficacia
La produzione dell’efficacia (cioè, l'attitudine ad essere fonte di vicende giuridiche e a qualificare situazioni e rapporti) del
provvedimento conclusivo del procedimento è spesso subordinata al compimento di determinate operazioni, al verificarsi di
certi fatti o all'emanazione di ulteriori atti. Solo a quel punto si perfeziona la fattispecie, nel senso che risultano integrate
tutte le circostanze che l'ordinamento ha previsto non già per l'esistenza del provvedimento, bensì affinché possa prodursi
l'effetto sul piano dell'ordinamento generale. Il provvedimento può dunque essere perfetto (cioè, completo di tutti gli
elementi prescritti per la sua esistenza) ma non ancora efficace.
Ai sensi dell'art. 21 bis, il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati acquista efficacia nei confronti di
ciascun destinatario con la comunicazione allo stesso effettuata; secondo quanto dispone 1'art. 21 quater, poi, i
provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente, salvo che sia diversamente stabilito dalla legge o dal
provvedimento medesimo. L'efficacia (ovvero l'esecuzione) del provvedimento amministrativo può essere sospesa, per
gravi ragioni e per il tempo strettamente necessario. Il termine della sospensione è esplicitamente indicato nell'atto che la
dispone e può essere prorogato o differito per una sola volta.
L'efficacia va distinta dall'esecutorietà, attitudine dell'atto ad essere portato a esecuzione dall’amministrazione anche
coattivamente, mediante il compimento di attività che determinano l'interferenza con la sfera soggettiva del privato.
Inoltre, cosa diversa dall'efficacia dell’atto è la sua validità, che dipende dalla conformità al paradigma normativo dell’atto
e dell'attività amministrativa posta in essere al fine della sua adozione.
Un atto può dunque essere illegittimo (cioè invalido) ma efficace, ovvero legittimo (cioè valido) ma ancora inefficace.
Tra gli atti e le operazioni che condizionano l’efficacia del provvedimento e che confluiscono nella fase integrativa
dell’efficacia vi sono forme di pubblicità e di comunicazione degli atti di adesione dei privati e degli atti di controllo.
Con riguardo alle operazioni di partecipazione, esse condizionano l'efficacia degli atti recettizi, cioè di quegli atti che
diventano efficaci soltanto al momento in cui pervengono nella sfera di conoscibilità del destinatario. Sono
tradizionalmente qualificati come recettizi gli atti normativi. La legge, poi, ai sensi dell'art. 21 bis, 1. 241/1990 attribuisce
natura recettizia ai provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati. Si dispone, infatti, che tali atti acquistano
efficacia nei confronti di "ciascun destinatario" con la comunicazione personale. La comunicazione è costitutiva
dell'efficacia del provvedimento e apre l’esecuzione ai sensi dell'art. 21 quater. La norma non fa cenno ai destinatari
pubblici: nel silenzio della disciplina, si ritiene che i provvedimenti ampliativi producano effetti a prescindere dalla
comunicazione. La regola di cui all'art. 21 bis, l. 241/1990 per i provvedimenti limitativi si spiega con l'esigenza di mettere i
destinatari nella condizione di attivare i rimedi giurisdizionali e giustiziali, esigenza che non ricorre per i provvedimenti
favorevoli: la disposizione, peraltro, prevede una prima possibile eccezione e una seconda eccezione legale. Il
provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati, infatti, può contenere una motivata clausola di immediata
efficacia e ciò a prescindere per definizione dalla conoscenza che ne abbiano i privati; questa regola non vale però per i
provvedimenti a carattere sanzionatorio, sicché per essi il principio della comunicazione ai fini dell'efficacia non può essere
derogato. I provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati aventi carattere cautelare urgente sono
immediatamente efficaci. La norma non richiede una valutazione caso per caso, ritenendo evidentemente che per loro
natura e in ragione dei presupposti che li legittimano non possano che produrre subito effetti.
La disciplina di cui alla l. 241/1990 va integrata con quella posta dal d.lgs. 33/2013 sulla trasparenza, che condiziona
l'acquisto dell'efficacia di alcune categorie di atti alla pubblicazione.
A differenza di ciò che accade nell'ipotesi del controllo, le misure di partecipazione che condizionano l'efficacia del
provvedimento sono elementi costitutivi dell'effetto e della relativa fattispecie: in altri termini, l'effetto non si produce
finché esse non si siano completate, ma decorre dal momento in cui la situazione di conoscibilità è avvenuta.
Per quanto attiene al controllo sull’atto come fase procedimentale va ricordato che se l’efficacia dell’atto risulta sospesa in
attesa dell’esito del controllo si rientra nell’ipotesi di controllo preventivo. Il controllo può però anche essere successivo,
vale a dire che può svolgersi posteriormente alla produzione degli effetti da parte dell’atto controllato: ciò non impedisce
l’efficacia del provvedimento dal momento della sua emanazione e funge da condizione risolutiva ove a seguito di esso
venga pronunciato l’annullamento. Il potere di controllo deve comunque essere esercitato entro il termine fissato e non può
essere esercitato per una seconda volta.
In tema di misure repressive un cenno peculiare merita l'annullamento dell'atto soggetto a controllo preventivo di
legittimità. In realtà non si tratta di un annullamento che partecipa degli stessi caratteri della figura generale
dell'annullamento. L'annullamento comporta, infatti, l'eliminazione di effetti ex tunc, mentre nel caso di specie gli effetti
non si sono ancora prodotti. In secondo luogo, non si tratta di un provvedimento, bensì di un atto endoprocedimentale.
Per completezza occorre ricordare altre misure di partecipazione, definibili come i comportamenti finalizzati a portare atti
giuridici nella sfera di conoscibilità del destinatario. Esse sono previste non soltanto con riferimento agli atti limitativi della
sfera giuridica dei privati di cui all'art. 21 bis, 1. 241/1990: per gli altri provvedimenti le misure di partecipazione svolgono
una differente funzione, consentendo al privato di avere legale conoscenza dell'atto ai fini della sua impugnazione, facendo
dunque decorrere i relativi termini. I più comuni mezzi di partecipazione sono: la pubblicazione (nei confronti di una
generalità di individui potenziali destinatari dell'atto ma non contemplati nell'atto stesso); la pubblicità (anch'essa destinata
a una generalità indistinta di individui e caratterizzata dalla predisposizione di documenti, quali pubblici registri, che
realizzano la permanenza dello stato di conoscibilità dell'atto da comunicare); la comunicazione individuale, rivolta a un
destinatario individuato e posta in essere dall'autore dell'atto; la convocazione consistente nell'invito al destinatario a recarsi
per ricevere un documento presso un ufficio, ove il soggetto che ritira tale documento rilascia una dichiarazione. Talune di
queste operazioni sono effettuate secondo procedure formali a opera di particolari soggetti (messi comunali, ufficiali
giudiziari): si tratta delle notificazioni, caratterizzate appunto dalla interposizione, tra autore e destinatario dell'atto, di un
soggetto terzo e qualificato che documenta il ricevimento dell'atto. La notificazione è disciplinata dai regolamenti delle va-
rie amministrazioni.
Ai sensi dell’art. 6 l. 241/1990 le operazioni suddette sono curate dal responsabile del procedimento.
Alla luce dei nuovi strumenti di comunicazione telematici e informatici, l’art. 16.5 l. 241/1990 ammette la comunicazione
del dispositivo del parere favorevole all’amministrazione richiedente telegraficamente o con mezzi telematici. Inoltre, l’art.
14 T.U. enti locali stabilisce che il documento informatico trasmesso per via telematica si intende inviato e pervenuto al
destinatario se trasmesso all’indirizzo elettronico da questi dichiarato.
L’art. 3.4, 1. 241/1990, stabilisce l'obbligo per l'amministrazione di indicare in ogni atto notificato al destinatario «il
termine e l'autorità cui è possibile ricorrere». La giurisprudenza ha interpretato la violazione di suddetto articolo come mera
irregolarità, che quindi non è in grado di determinare l’illegittimità dell’atto, affermando inoltre che essa non comporta la
sospensione dei termini per ricorrere contro il provvedimento. La giurisprudenza però riconosce che tale violazione
consente l’applicazione dell’errore scusabile, con la conseguenza che qualora il destinatario dell’atto avesse adito un
giudice incompetente o avesse lasciato decorrere i termini per ricorrere potrebbe beneficiare della rimessione in termini e
dunque della possibilità di riproporre (o proporre per la prima volta) l'azione giurisdizionale.
14.La semplificazione procedimentale
La l. 127/1997 reca misure urgenti per lo snellimento dell'attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di
controllo, mentre la 1. 59/1997 contiene la delega al governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni e agli
enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa.
L'esigenza di semplificare investe sia il settore normativo, sia l'ambito di attività prevista a carico del cittadino che si
rapporta a una amministrazione. Più di recente, infatti, la semplificazione è stata intesa anche e soprattutto come una leva
per lo sviluppo nei periodi di crisi, con l'intento di ridurre gli oneri amministrativi per cittadini e impresa.
L'esigenza di semplificare, in ogni caso, è particolarmente sentita anche e soprattutto in materia procedimentale. L'art. 20, 1.
59/1997, come sostituito dalla 1. 229/2003, ha addirittura elevato tale profilo ad oggetto della legge che annualmente dovrà
appunto occuparsi di semplificazione e di riassetto normativo.
Sotto il profilo organizzativo, la 1. 80/2006 prevede (oltre a un piano annuale di azione per il perseguimento degli obiettivi
del governo in tema di semplificazione) l'istituzione di un comitato interministeriale per l'indirizzo e la qualità strategica
delle politiche di semplificazione e di qualità della regolazione e di una unità per la semplificazione e qualità della
regolazione.
Il compito di attuare il disegno di semplificazione procedimentale è affidato a decreti legislativi e alle fonti regolamentari di
delegificazione, evidenziando una certa tendenza a riconsegnare alla fonte soggettivamente amministrativa buona parte
della disciplina dell'azione posta in essere dall' amministrazione.
La lettura dell'art. 20, 1. 59/1997, consente di affermare che la semplificazione comporta la riduzione delle fasi
procedimentali, l'adeguamento alle nuove tecnologie informatiche, la riduzione dei termini nonché l'accorpamento e la
regolamentazione uniforme dei procedimenti che attengono alla stessa attività.
I diversi istituti nei quali si rifrange il concetto di semplificazione corrispondono a quelli indicati dalla preesistente
normativa che in via generale si è occupata della semplificazione amministrativa: si tratta della legge n. 241/1990, la quale,
agli artt. 14 e ss., definisce come istituti di semplificazione la conferenza di servizi, gli accordi tra amministrazioni, la
prefissione di termini e di meccanismi procedurali per consentire di ottenere in termini certi pareri o valutazioni tecniche,
l'autocertificazione, la liberalizzazione di attività private e il silenzio assenso.
Nel procedimento amministrativo convivono più anime: in particolare, all'«ansia di provvedere» si contrappongono le
esigenze di rendere evidenti le ragioni dell'azione, di consentire agli interessati di fornire il proprio apporto collaborativo e,
più in generale, di configurare la scelta amministrativa come il momento riassuntivo di una istruttoria completa e articolata,
in grado di permettere una scelta ponderata e fondata su un ricco quadro di riferimento. La semplificazione che il legislatore
intende realizzare pare soprattutto voler salvaguardare il primo momento: il meccanismo della segnalazione d'inizio di
attività può comportare la frustrazione delle esigenze in vista delle quali è preordinato l'istituto della partecipazione dei
privati, i quali sono esclusi (perché un procedimento non sussiste) dalla possibilità di intervenire.
Le diverse esigenze sopra rilevate (efficienza ed efficacia da un lato, garanzia e pubblicità dall'altra), forse inizialmente
destinate a convivere nel procedimento, oggi si assestano tendenzialmente secondo un rapporto di prevalenza dell'ansia di
provvedere rispetto ai valori di garanzia, pubblicità e completezza dell'istruttoria. Potrebbe obiettarsi che, comunque,
l'interesse dei cittadini è fatto salvo, garantendo loro la rapida conclusione del procedimento iniziato a seguito di una
istanza. Al riguardo, non sfugga che la semplificazione può certo favorire i privati, ma soltanto quelli interessati all'effetto
finale, mentre pregiudica spesso gravemente gli interessi dei terzi controinteressati. Si aggiunga che non tutti gli interessi
(in particolare quelli sensibili) tollerano una disciplina procedimentale che comporti una semplificazione in grado di
sacrificare la corretta ponderazione di alcuni «valori».
Nei limiti in cui la semplificazione venga realizzata, non può non rilevarsi l’incisivo mutamento del ruolo istituzionale
dell'amministrazione: essa rappresenterà, infatti, non già il soggetto chiamato unicamente a dare evidenza ai vari interessi e
ad operare una mediazione tra gli stessi, bensì la struttura responsabile e garante del conseguimento di un risultato.

CAPITOLO VII
LA CONCLUSIONE DEL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO: IL PROVVEDIMENTO E GLI ACCORDI
AMMINISTRATIVI
1. Gli atti determinati del contenuto del provvedimento, l’atto complesso, il concerto e l’intesa
L’amministrazione conclude il procedimento emanando una decisione. È bene precisare che durante tutto il corso del
procedimento l’amministrazione effettua una serie di decisioni, già a partire dalla fase istruttoria. In prima battuta ci
occuperemo della fase in cui l’amministrazione, una volta chiusa l’istruttoria, determina il contenuto dell’atto finale,
produttivo di effetti sul piano dell’ordinamento generale.
La fase decisoria può essere costituita da una serie di atti, da un atto proveniente da un unico organo, da un fatto, ovvero da un
accordo. Allorché la fase decisoria consista nell’emanazione di atti (monocratici) o deliberazioni (collegiali) preliminari
determinativi del contenuto del provvedimento finale, si assiste all’adozione, da parte di un organo, di un atto che, per
produrre effetti, deve essere esternato ad opera di un altro organo. L’atto del primo organo è quindi determinativo del
contenuto del provvedimento finale, ma non costitutivo degli effetti.
Un altro modello è quello della decisione su proposta. Si tratta di un atto di impulso procedimentale, che si colloca
immediatamente prima della decisione finale, necessario perché essa possa essere emanata, e indicativo del contenuto della
stessa. L’organo (spesso collegiale) al quale la proposta è rivolta ha sempre il potere di rifiutare l’adozione dell’atto finale, ma
non può modificare il contenuto della proposta.
In dottrina viene poi ricordato il modello dell’atto complesso: a differenza dei casi in cui i due atti (preliminare e finale)
rimangono separati, in questa ipotesi le manifestazioni di volontà tutte attinenti alla fase decisoria e convergenti verso un
unico fine, si fondono in un medesimo atto. L’interdipendenza tra le parti dell’atto complesso comporta che sia sufficiente
l’illegittimità di una di esse per determinarne l’annullabilità. Suscita dubbi la figura dell’atto complesso ineguale, ove
l’ineguaglianza tra le parti giustifica la possibilità per una di esse di modificare unilateralmente il contenuto dell’atto: la
modifica impedisce la concordanza dei contenuti e il convergere della volontà verso un ambito omogeneo.
L’atto complesso in senso proprio comprende gli accordi tra le amministrazioni.
Simili a quello appena descritto sono i modelli del concerto e dell’intesa. Il concerto è un istituto che si riscontra di norma
nelle relazioni tra organi dello stesso ente: l’autorità concertante elabora uno schema di provvedimento e lo trasmette
all’autorità concertata, che si trova in posizione di parità rispetto alla prima, fatto salvo il fatto che solo l’autorità concertante
ha il potere d’iniziativa. Il consenso delle autorità concertate condiziona l’emanazione del provvedimento: tale consenso è
espresso con atto che, a differenza del modello dell’atto complesso, non si fonde con quello dell’amministrazione procedente,
che è l’unica ad adottare l’atto finale.
L’intesa, invece, viene di norma raggiunta tra enti differenti (ad. Es. tra Stato e Regione) ai quali tutti si imputa l’effetto.
Analogamente a quanto accade per il concerto, un’amministrazione deve chiedere l’intesa ad altra autorità, il cui consenso
condiziona l’atto finale. Esistono numerosi altri casi in cui la legge dà evidenza a momenti endoprocedimentali che sono
intimamente collegati con la decisione finale, influenzandola quanto meno sotto il profilo del dovere di motivazione.
Esistono numerosi altri casi in cui la legge dà evidenza a momenti endoprocedimentali che sono intimamente collegati con la
decisione finale, influenzandola quanto meno sotto il profilo del dovere di motivazione:
• L’art. 11 l. 241/90 prevede che gli accordi che l’amministrazione conclude con i privati siano preceduti da una
“determinazione dell’organo che sarebbe competente per l’adozione del provvedimento”, evidentemente al fine di
giustificare l’adozione dell’accordo medesimo.
• L’art. 10 bis, nel caso di procedimenti ad istanza di parte, impone di comunicare agli istanti i “motivi che ostano
all’accoglimento della domanda”; tale comunicazione mira a sollecitare gli istanti medesimi affinché presentino
osservazioni, del cui eventuale mancato accoglimento occorre dar ragione della motivazione del provvedimento
finale, se di rifiuto.
• L’art. 6 prevede che l’organo che emana il provvedimento finale, se diverso dal responsabile del procedimento, non
può discostarsi dalle risultanze dell’istruttoria, se non indicandone le motivazioni nel provvedimento finale.
2. La conferenza dei servizi c.d. decisoria
Come è stato detto nel paragrafo precedente, spesso l’intervento di un’amministrazione nel corso di un procedimento è
previsto al fine di subordinare la scelta finale alla compatibilità dell’interesse di cui essa è portatrice. La legge ammette oggi
che gli atti condizionanti il contenuto della decisione finale possano essere sostituiti dalla determinazione assunta in seno alla
conferenza di servizio o che il silenzio sia equivalente all’assenso.
Il modello di conferenza di servizi introdotto dall’art. 14.2 della l. 241/1990 differisce dalla conferenza istruttoria (cap. VI
par. 11.2): si tratta della cd. conferenza decisoria. Il legislatore, rendendola obbligatoria, la circoscrive a due casi in cui sia
necessario acquisire più “intese, concerti, nullaosta o assensi, comunque denominati, di altre amministrazioni pubbliche”. Più
nel dettaglio, la conferenza di servizi decisoria è “sempre indetta” dall'amministrazione procedente quando la conclusione
positiva del procedimento è subordinata all'acquisizione di più pareri, intese, concerti, nulla osta o altri atti di assenso,
comunque denominati, resi da diverse amministrazioni, inclusi i gestori di beni o servizi pubblici. Quando l’attività del privato
sia subordinata a più atti di assenso, comunque denominati, da adottare a conclusione di distinti procedimenti, di competenza
di diverse amministrazioni pubbliche, la conferenza dei servizi è convocata da una delle amministrazioni procedenti.
La prima ipotesi (cd. conferenza decisoria interna: l’indizione spetta all’amministrazione procedente) riguarda atti
endoprocedimentali, mentre la seconda concerne atti di assenso che costituiscono il momento finale di un autonomo
procedimento (cd. conferenza decisoria esterna: con ciò è possibile acquisire atti esterni rispetto al singolo procedimento e la
conferenza può anche essere indetta su richiesta dell’interessato).
La disciplina sulla conferenza decisoria deve essere raccordata con quanto stabilito dall’art. 17 bis che collega all’inerzia il
silenzio assenso. Pure la disciplina della conferenza prevede che l’inerzia protratta oltre il termine perentorio, non superiore
comunque a 45 giorni, equivale ad assenso. Tale sovrapposizione riguarda solo la conferenza decisoria interna (l’art. 17 bis
infatti non concerne l’acquisizione di atti esterni al procedimento). Inoltre, solo nell’art. 14 si fa riferimento a “più” pareri; per
contro, solo l’art. 17 bis è utilizzabile in caso di provvedimenti normativi. Valorizzando l'appiglio costituito dal riferimento,
nel solo art 14, a più pareri e atti di assenso, si può immaginare di ricorrere al meccanismo di cui all'art 17 bis a fronte di un
solo atto di assenso richiesto, laddove la conferenza sarebbe attivabile nei procedimenti più complessi.
La conferenza di servizi (sia quella istruttoria che decisoria: in entrambi i casi l’indizione spetta al responsabile del
procedimento) tende ad un accordo tra amministrazioni.
La conferenza non dà luogo ad un organo collegiale, atteso che ogni rappresentante delle amministrazioni “vi partecipa
nell’esercizio delle funzioni amministrative dell’ente di competenza” e gli effetti sono imputati alle singole amministrazioni e
non già alla conferenza (Corte cost., n. 179/2012), mancando il conferimento ad essa di una competenza unitaria; la sua
struttura è inoltre variabile, a differenza di ciò che accade per gli organi collegiali.
Ai sensi dell’art. 14-ter, l. 241/1990, anche in caso di dissenso espresso da un soggetto convocato alla conferenza, sulla base
delle risultanze della conferenza, l’amministrazione procedente adotta una determinazione conclusiva di procedimento
finale. La conferenza, dunque, tende all’accordo soltanto in prima battuta, ma consente di giungere alla determinazione finale
pur in sua assenza, anche in contrasto con gli avvisi espressi dai rappresentanti degli enti competenti in via ordinaria. Si
realizza in tal modo una indubbia alterazione dell’ordine delle competenze. Per altro verso, anche la discrezionalità risulta
influenzata da questo modulo, nel senso che l’amministrazione è chiamata ad esercitarla non più in solitudine, ma in una
prospettiva di confronto e di mediazione con altre posizioni.
Per quanto riguarda la conferenza c.d. “istruttoria”, la determinazione conclusiva sostituisce manifestazioni di interesse con
cui le amministrazioni rappresentano il proprio punto di vista.
La determinazione motivata di conclusone della conferenza decisoria, invece, sostituisce ad ogni effetto tutti gli atti di
assenso, comunque denominati, di competenza delle amministrazioni e dei gestori di beni o servizi pubblici interessati.
In caso di approvazione unanime, la determinazione è immediatamente efficace. In caso di approvazione sulla base delle
posizioni prevalenti, invece, l'efficacia della determinazione è sospesa ove siano stati espressi dissensi qualificati e per il
periodo utile all'esperimento dei rimedi previsti.
I termini di validità di tutti i pareri, autorizzazioni, concessioni, nulla osta o atti di assenso comunque denominati acquisiti
nell'ambito della conferenza di servizi, decorrono a far data dalla adozione del provvedimento finale.
Si è accennato alle conferenze istruttorie e decisorie. Non mancano però altre figure. L’art. 14.3 contempla poi la possibilità
che, per progetti di particolare complessità e di insediamenti produttivi di beni e servizi, l’amministrazione procedente, su
motivata richiesta dell’interessato, possa indire una conferenza preliminare finalizzata a indicare al richiedente le condizioni
per ottenere i necessari pareri, intese, concerti, nulla osta, autorizzazioni, concessioni o altri atti di assenso. Ai sensi dell’art.
20, l’indizione della conferenza di servizi preclude la formazione del silenzio-assenso; si aggiunge inoltre che la conferenza
cui fa cenno l’art. 20 (preclusiva” del silenzio-assenso) non costituisce un modello ulteriore. La legge infatti dispone che
entro trenta giorni dalla presentazione dell’istanza, l’amministrazione può indire una conferenza di servizi “ai sensi del capo
IV”.
La conferenza non pregiudica il ruolo dei privati: questi possono richiedere l’indizione della conferenza quando l’attività sia
subordinata a più atti di assenso. L’indizione della conferenza è comunicata ai soggetti di cui all’art. 7, i quali possono
intervenire nel procedimento ai sensi dell’art. 9. I privati, inoltre, devono essere sentiti qualora l’amministrazione intenda
concludere la procedura a fronte di assensi con condizioni e prescrizioni.
La legge disciplina il procedimento della conferenza di servizi individuando due distinte modalità: la conferenza semplificata,
che costituisce il modulo preferenziale, e la conferenza simultanea.
La prima figura, a carattere necessario e ordinatorio, è organizzata in modalità asincrona, dunque consentendo che la volontà
si formi in modo non simultaneo. È evidente lo sforzo di semplificare al massimo l'azione amministrativa, evitando l'unità di
luogo e di tempo in cui confrontarsi e la presenza fisica o la partecipazione in via telematica. Le comunicazioni, tra l'altro,
avvengono mediante l'utilizzo della posta elettronica o in cooperazione applicativa. In sostanza, la conferenza semplificata è
la sede destinata ad assumere decisioni semplici, al contempo mirando ad acquisire gli assensi anche implicitamente. Ove
questo tentativo di chiudere il procedimento senza un vero confronto fallisca, si procederà con la conferenza simultanea.
La conferenza è indetta dall'amministrazione procedente entro cinque giorni lavorativi dall'inizio del procedimento d'ufficio o
dal ricevimento della domanda, se il procedimento è ad iniziativa di parte. L'amministrazione procedente comunica alle altre
amministrazioni interessate una serie di dati: l’oggetto della determinazione da assumere, l'istanza e la relativa
documentazione ovvero le credenziali per l’accesso telematico alle informazioni e ai documenti utili ai fini dello svolgimento
dell'istruttoria; il termine perentorio, non superiore a 15 giorni, entro il quale le amministrazioni coinvolte possono richiedere,
integrazioni documentali o chiarimenti relativi a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso
dell’amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni; il termine perentorio,
comunque non superiore a 45 giorni, entro il quale le amministrazioni coinvolte devono rendere le proprie determinazioni
relative alla decisione oggetto della conferenza, fermo restando l'obbligo di rispettare il termine finale di conclusione del
procedimento.
Le amministrazioni coinvolte rendono le proprie determinazioni (nel termine di 45 giorni o, in presenza di interessi sensibili,
90 giorni), relative alla decisione oggetto della conferenza: motivate, esse sono formulate in termini di assenso o dissenso e
indicano, ove possibile, le modifiche eventualmente necessarie ai fini dell'assenso. Le prescrizioni o condizioni eventualmente
indicate ai fini dell'assenso o del superamento del dissenso, tra l'altro, devono essere espresse in modo chiaro e analitico. Il
dissenso, dunque, deve essere tempestivo, motivato, costruttivo e pertinente.
La legge introduce vari meccanismi volti a superare l'inerzia dei soggetti pubblici coinvolti o altri ostacoli, o, comunque, ad
agevolare la conclusione del procedimento.
In primo luogo (inerzia o partecipazione non collaborativa), fatti salvi i casi in cui disposizioni del diritto dell'Unione
europea richiedono l'adozione di provvedimenti espressi, la mancata comunicazione della determinazione entro il termine di
legge, ovvero la comunicazione di una determinazione priva dei requisiti sopra indicati, equivalgono ad assenso senza
condizioni. Restano ferme le responsabilità dell'amministrazione, nonché quelle dei singoli dipendenti nei confronti
dell'amministrazione, per l'assenso reso, allorché implicito.
In secondo luogo (mancato rispetto dei termini), scaduto il termine perentorio, l'amministrazione procedente adotta, entro
cinque giorni lavorativi, la determinazione motivata di conclusione positiva della conferenza, qualora abbia acquisito
esclusivamente atti di assenso non condizionato, anche implicito, ovvero qualora ritenga, sentiti i privati e le altre
amministrazioni interessate, che le condizioni e prescrizioni eventualmente indicate dalle amministrazioni ai fini dell'assenso o
del superamento del dissenso possano essere accolte senza necessità di apportare modifiche sostanziali
alla decisione oggetto della conferenza. Soltanto qualora abbia acquisito uno o più atti di dissenso che non ritenga superabili,
l'amministrazione procedente adotta, entro il medesimo termine, la determinazione di conclusione negativa della conferenza
che produce l'effetto del rigetto della domanda.
Qualora, tuttavia, sorgano difficoltà, o, in ragione della complessità originaria della questione, ciò sia ritenuto opportuno per
definire la conferenza, è possibile utilizzare la seconda forma, e, cioè, la conferenza di servizi in forma simultanea e in
modalità sincrona, che implica la partecipazione dei rappresentanti delle amministrazioni coinvolte.
Ai sensi dell'art. 14 bis, c. 6 l'amministrazione procedente, ai fini dell'esame contestuale degli interessi coinvolti, svolge,
nella data fissata e comunicata al momento dell'indizione, la riunione della conferenza in modalità sincrona. In questa ipotesi
la conferenza in modalità sincrona è uno sviluppo di quella semplificata. Tuttavia, ove necessario, "in relazione alla
particolare complessità della determinazione da assumere", l'amministrazione procedente può procedere ab origine
direttamente in forma simultanea e in modalità sincrona. In tal caso, l'amministrazione indice la conferenza comunicando alle
altre amministrazioni oggetto della determinazione e termine perentorio e convocando la riunione entro i successivi
quarantacinque giorni.
L'amministrazione procedente può infine procedere in forma simultanea e in modalità sincrona su richiesta motivata delle
altre amministrazioni o del privato interessato avanzata entro il termine perentorio. La prima riunione si svolge con la
partecipazione contestuale, ove possibile anche in via telematica, dei rappresentanti delle amministrazioni competenti. I lavori
della conferenza si concludono non oltre 45 giorni. Ciascun ente o amministrazione convocato alla riunione è rappresentato da
un unico soggetto abilitato ad esprimere definitivamente e in modo univoco e vincolante la posizione dell'amministrazione
stessa su tutte le decisioni di competenza della conferenza, anche indicando le modifiche progettuali eventualmente necessarie
ai fini dell'assenso.
Ove alla conferenza partecipino anche amministrazioni non statali, le amministrazioni statali sono rappresentate da un unico
soggetto abilitato ad esprimere definitivamente in modo univoco e vincolante la posizione di tutte le predette amministrazioni.
Questi è nominato dal Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero, ove si tratti soltanto di amministrazioni periferiche, dal
prefetto. È chiaro che la figura del rappresentante unico per più amministrazioni statali rischia di mettere sistematicamente in
minoranza gli interessi statali a fronte di quelli di altri enti. Per questa ragione, si prevede che, ferma restando l'attribuzione
del potere di rappresentanza al suddetto soggetto, le singole amministrazioni statali possono comunque intervenire ai lavori
della conferenza in funzione di supporto.
All'esito dell'ultima riunione, e comunque non oltre il termine di 45 (o 90) giorni, l'amministrazione procedente adotta la
determinazione motivata di conclusione della conferenza sulla base delle posizioni prevalenti espresse dalle amministrazioni
partecipanti alla conferenza tramite i rispettivi rappresentanti: dunque, non necessariamente sulla base del mero criterio della
maggioranza, ma in ragione della qualità delle posizioni. Non è escluso, perciò, che l'amministrazione procedente segua la
posizione minoritaria ove la ritenga più convincente.
Al solito, si considera acquisito l'assenso senza condizioni delle amministrazioni il cui rappresentante non abbia partecipato
alle riunioni (assenza assenso) ovvero, pur partecipandovi, non abbia espresso la propria posizione, ovvero abbia espresso un
dissenso non motivato o riferito a questioni che non costituiscono oggetto della conferenza (presenza non collaborativa).
Questo regime riguarda anche le amministrazioni preposte alla tutela di interessi critici, quali la salute e la pubblica
incolumità, la tutela paesaggistico-territoriale e la tutela ambientale. Queste amministrazioni, come si dirà, a condizione che
abbiano espresso in modo inequivoco il proprio motivato dissenso prima della conclusione dei lavori della conferenza, hanno
tuttavia a diposizione anche il successivo rimedio dell'opposizione.
Circa gli effetti della conferenza, giova ribadire ancora una volta che la determinazione motivata di conclusione della
conferenza, adottata dall'amministrazione procedente all' esito della stessa, sostituisce a ogni effetto tutti gli atti di assenso,
comunque denominati, di competenza delle amministrazioni e dei gestori di beni o servizi pubblici interessati.
Le amministrazioni i cui atti sono sostituiti dalla determinazione motivata di conclusione della conferenza possono sollecitare
con congrua motivazione l'amministrazione procedente ad assumere, previa indizione di una nuova conferenza,
determinazioni in via di autotutela (annullamento d'ufficio: al fine di garantire la stabilità della determinazione finale,
dunque, non sono consentite iniziative "individuali", ma occorre riconvocare la conferenza). Possono altresì sollecitarla,
purché abbiano partecipato, anche per il tramite del rappresentante, alla conferenza di servizi o si siano espresse nei
termini, ad assumere determinazioni di revoca.
L'art. 14 quinquies introduce poi una disciplina speciale evidentemente fondata sulle esigenze di proteggere alcuni interessi
sensibili e di rispettare l'autonomia costituzionalmente garantita ad alcuni enti: avverso la determinazione motivata di
conclusione della conferenza, entro 10 giorni dalla sua comunicazione, le amministrazioni preposte alla tutela ambientale,
paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini possono proporre
opposizione al Presidente del Consiglio dei ministri a condizione che abbiano espresso in modo inequivoco il proprio
motivato dissenso prima della conclusione dei lavori della conferenza. La proposizione dell'opposizione sospende l'efficacia
della determinazione motivata di conclusione della conferenza. A questo punto si tenta, prima, un'intesa e, in caso di ulteriore
stallo, si apre la via alla decisione finale da parte del Governo. La Presidenza del Consiglio dei ministri indice una riunione
con la partecipazione delle amministrazioni che hanno espresso il dissenso e delle altre amministrazioni che hanno partecipato
alla conferenza. In tale riunione i partecipanti formulano proposte, in attuazione del principio di leale collaborazione, per
l'individuazione di una soluzione condivisa, che sostituisca la determinazione motivata di conclusione della conferenza con i
medesimi effetti. Ove l'intesa sia raggiunta, l'amministrazione procedente adotta una nuova determinazione motivata di
conclusione della conferenza. Qualora, invece, all'esito delle suddette riunioni, e comunque non oltre quindici giorni dallo
svolgimento della riunione, l'intesa non sia raggiunta, la questione è rimessa al Consiglio dei ministri. Qualora il Consiglio dei
ministri non accolga l'opposizione, la determinazione motivata di conclusione della conferenza acquisisce definitivamente
efficacia.
3. Silenzio significativo, silenzio-inadempimento, silenzio-rigetto e silenzio devolutivo
Il silenzio è l’inerzia dell’amministrazione. Il nostro ordinamento conosce varie forme di silenzio: silenzio-rigetto, silenzio
significativo, silenzio-inadempimento, silenzio-devolutivo. La regola da applicare, salvo disposizione contraria quando
l’amministrazione rimane inerte, è quella del silenzio-assenso, che è una delle tipologie del silenzio significativo.
La figura del silenzio è nata nell’ambito della giustizia amministrativa per ovviare all’inerzia dell’amministrazione a seguito
del ricorso presentato dal privato. In particolare, ci si preoccupò di prevedere rimedi nelle ipotesi di inerzia
dell’amministrazione a fronte di una istanza volta ad ottenere non già una decisione su ricorso, bensì il rilascio di un
provvedimento favorevole. In un primo tempo la giurisprudenza, applicando in via analogica l’art. 25, t.u. 3/1957 (relativo alla
responsabilità dei dipendenti) ha ritenuto che tale silenzio, denominato inadempimento, si formasse nel modo seguente:
istanza del privato; inutile decorso di sessanta giorni; notifica della diffida a provvedere; ulteriore decorso di trenta giorni. A
questo punto il privato poteva impugnare il silenzio nei termini di decadenza (sessanta giorni). Il legislatore è oggi intervenuto
disciplinando uno specifico ricorso avverso il silenzio dell’amministrazione, il quale sembra riferibile all’ipotesi di silenzio
inadempimento.
Nell’ipotesi di silenzio-significativo, l’ordinamento collega al decorso del termine la produzione di un effetto equipollente
all’emanazione di un provvedimento favorevole (silenzio-assenso) o di diniego (silenzio-diniego) a seguito di istanza del
privato titolare di un interesse pretensivo. È questa l’ipotesi di silenzio che maggiormente interessa l’analisi della fase
decisoria del procedimento, atteso che l’ordinamento collega all’inerzia un determinato valore provvedimentale.
Pochi sono i casi di silenzio-diniego che vanno espressamente previsti dalla legge: un es. è costituito dalla fattispecie
disciplinata dall’art. 53, c.10, d.lgs. 165/2001, ai sensi del quale l’autorizzazione richiesta da dipendenti pubblici
all’amministrazione di appartenenza ai fini dello svolgimento di incarichi retribuiti si intende definitivamente negata quando, a
seguito della presentazione della richiesta che non attenga a “incarichi da conferirsi da amministrazioni pubbliche”, sia
inutilmente decorso il termine di trenta giorni per provvedere. Un’altra ipotesi è quella prevista dall’art. 25, l. 241/1990, in
materia di accesso ai documenti amministrativi.
Più rilevante è il campo di applicazione del silenzio-assenso, che costituisce oggi la regola nel nostro ordinamento per i
procedimenti ad istanza di parte, pur se temperata da una serie di importanti eccezioni.
Il presupposto del silenzio-assenso è quello secondo cui la legge effettua una preliminare valutazione astratta della
compatibilità dell’attività privata con l’interesse pubblico. L’art. 20, l. 241/1990 dispone che, fatta salva l’applicazione
dell’art. 19 (che attiene alla segnalazione di inizio attività), nei procedimenti a istanza di parte per il rilascio dei
provvedimenti amministrativi il silenzio dell’amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della
domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide, se la medesima amministrazione non comunica all’interessato, nel
termine di cui all’art. 2, il provvedimento di diniego, ovvero non procede ai sensi del c. 2 (ossia non indice una conferenza di
servizi). Il campo d’applicazione dell’istituto in pratica coincide con i procedimenti ad istanza di parte. Il c. 4 tipizza una
serie di eccezioni in ordine alle quali il silenzio non può valere come assenso ma va qualificato come silenzio-inadempimento:
la deroga opera con riferimento ai casi di procedimenti “riguardanti” il patrimonio culturale e paesaggistico, l’ambiente, la
difesa nazionale, la pubblica sicurezza e l’immigrazione, l’asilo e la cittadinanza, la salute e la pubblica incolumità, i casi in
cui la normativa comunitaria impone l’adozione di provvedimenti amministrativi formali, i casi in cui la legge qualifica il
silenzio dell’amministrazione come rigetto dell’istanza. Il criterio di perimetrazione del campo di applicazione della
segnalazione di inizio attività è fondato non solo sulle materie, ma anche sui caratteri degli atti sostituiti (essa non può
sostituire, come vedremo, gli atti discrezionali e quelli per cui sono previsti contingentamenti). In conclusione, è questa
l'area in cui potrebbe operare il silenzio assenso.
Al fine di evitare la formazione del silenzio, l’amministrazione competente può operare in tre modi, due dei quali sono
previsti dall’art. 20:
a) può provvedere espressamente, atteso che rimane fermo il principio di cui all’art. 2 in forza del quale
l’amministrazione ha il potere/dovere di provvedere con atto espresso. È però evidente che la presenza del
meccanismo del silenzio è un forte disincentivo nei confronti dell'adozione di provvedimenti espressi di accoglimento
dell'istanza. I termini decorrono dal ricevimento della domanda.
b) ai sensi dell’art. 20.1, poi, può comunicare all’interessato il provvedimento di diniego nel termine di cui all’art. 2 (in
assenza di diversa determinazione esso è di trenta giorni). La legge crea però numerosi problemi interpretativi legati al
fatto che l'art. 20.5 afferma che trova applicazione la norma di cui all'art. 10 bis che, a sua volta, dispone che, nei
procedimenti ad istanza di parte, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, occorre comunicare
tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento dell'istanza, comunicazione che interrompe i termini
di conclusione del procedimento. Ciò significa che, anche nei settori in cui trova applicazione il silenzio assenso,
prima di emanare il provvedimento di diniego l'amministrazione deve comunicare il «preavviso» di diniego, che,
almeno a stare alla lettera della legge, interrompe appunto i termini, eventualità completamente trascurata dall'art. 20.
c) l’amministrazione, infine, può adire, entro trenta giorni dalla presentazione dell’istanza, una conferenza di servizi ai
sensi del capo IV, anche tenendo conto delle situazioni giuridiche dei controinteressati.
Successivamente alla formazione del silenzio, l’amministrazione competente può assumere determinazioni in via di autotutela,
che è considerato un potere discrezionale, ai sensi degli art. 21-quinquies (revoca) e 21-nonies (annullamento d’ufficio e
convalida). Il richiamo a questi poteri sembra confermare l’opinione secondo cui, a seguito del silenzio-assenso,
l’amministrazione non potrà più provvedere tardivamente in modo espresso.
In caso di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni il dichiarante è punito con la sanzione di cui all’art. 483 c.p. In ogni
caso, la dichiarazione mendace o falsa impedisce la formazione del silenzio. Restano ferme le attribuzioni di vigilanza,
prevenzione e controllo su attività soggette ad atti di assenso da parte di pubbliche amministrazioni previste da leggi vigenti,
anche se è stato dato inizio all’attività ai sensi dell’art. 19 e 20.
Si ribadisce che in virtù dell’art. 20, l. 241/1990, il silenzio è equiparato al provvedimento favorevole. La circostanza che
l’amministrazione disponga di un potere amministrativo, ancorché non lo eserciti emanando un provvedimento, ha come
conseguenza che il privato, autorizzato a svolgere una certa attività a seguito del formarsi del silenzio, trova il titolo
legittimante dell’attività stessa non già direttamente nella legge, bensì negli effetti collegati al silenzio.
Una tipologia differente di silenzio è quella relativa ai rapporti tra amministrazioni: in primo luogo vi è il silenzio devolutivo,
figura disciplinata dagli artt. 16 e 17, l. 241/1990: l’inutile decorso del termine consente al soggetto pubblico procedente di
completare il procedimento pur in assenza di un parere obbligatorio (art. 16), ovvero di rivolgersi ad un’altra amministrazione
al fine di ottenere una valutazione tecnica non resa dall’amministrazione alla quale è stata inizialmente richiesta (art. 17).
Veniamo ora al silenzio-inadempimento (o silenzio-rifiuto), che è un mero fatto. Il suo campo d’applicazione si ricava dalla
lettura dell’art. 2 in combinato disposto con l’art. 20. Siffatto ambito è quello in cui operano le eccezioni al silenzio-assenso e
concerne le ipotesi in cui l’amministrazione, sulla quale grava il dovere giuridico di agire emanando un atto amministrativo a
seguito dell’istanza, ometta di provvedere a conclusione di “procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico,
l’ambiente, la difesa nazionale”, nei casi in cui la normativa comunitaria impone l’adozione di provvedimenti amministrativi
formali. Si tratta di ipotesi molto rilevanti, che attengono in gran parte a interessi critici: il silenzio-inadempimento continua
ad essere un istituto centrale nel diritto amministrativo, e analogo discorso può essere esteso al profilo della sua tutela
giurisdizionale. La disciplina dell’istituto si ricava dall’art. 2, l. 241/1990: trascorso il termine fissato per la conclusione del
procedimento, il silenzio può ritenersi formato. A partire da tale momento, senza necessità di ulteriore diffida, decorre il
termine per proporre ricorso giurisdizionale, volto ad ottenere una pronuncia con cui il giudice ordina all’amministrazione di
provvedere di norma entro un termine non superiore a trenta giorni, potendosi spingere a conoscere della fondatezza
dell’istanza. Il ricorso può essere proposto fintanto che perdura l’inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza
dei termini per provvedere. Sembrano ammessi provvedimenti tardivi, anche perché non c’è stato alcun esercizio del potere,
salvi ovviamente i profili di eventuale responsabilità dell’amministrazione.
Il silenzio-rigetto si forma nei casi in cui l’amministrazione, alla quale sia stato indirizzato un ricorso amministrativo,
rimanga inerte. Oggi la disciplina è stabilita dal d.p.r. 1199/1971, che dispone che il ricorso si ritiene respinto decorsi novanta
giorni dalla presentazione del ricorso gerarchico.
4. La segnalazione certificata di inizio attività e la comunicazione previa
Il silenzio-assenso partecipa del meccanismo di dinamica giuridica caratterizzato dallo schema norma-potere-effetto.
Totalmente differente era la dinamica giuruidi8ca realizzata mediante l’istituto della dichiarazione di inizio attività (d.i.a.),
disciplinato dall’art. 19, l. 241/90 che, nella sua versione iniziale, faceva riferimento alla denuncia. Con tale denuncia di inizio
attività veniva ad essere eliminata l’intermediazione di un potere amministrativo in ordine all’esplicazione di un’attività
privata, con la conseguenza che lo svolgimento di siffatta autorità trovava il proprio diretto titolo di legittimazione nella legge,
chiamata a fissarne direttamente il regime. A differenza del silenzio-assenso, la denuncia di inizio attività non costituiva una
forma di conclusione del procedimento amministrativo (appunto mancante, in assenza di un potere abilitativo).
Oggi invece l’art. 19, pur prevedendo poteri di intervento in capo all’amministrazione, conferma la natura privata della
“dichiarazione”. Le ultime fonti hanno poi rinominato l’istituto “segnalazione certificata di inizio attività”, chiarendo che
tale espressione e l’acronimo “Scia” sostituiscono rispettivamente quelle di “Dichiarazione di inizio attività” e “Dia”.
La norma prevede un meccanismo di “sostituzione” con una “segnalazione” di un ampio spettro di provvedimenti: si tratta di
ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato, comprese le
domande per le iscrizioni in albi o ruoli richieste per l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale, il cui
rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento dei requisiti e presupposti di legge o da atti amministrativi a contenuto
generale. e non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale per il
rilascio degli atti stessi. La segnalazione va corredata dalle dichiarazioni sostitutive di certificazioni e dell’atto di notorietà
(ecco spiegato il termine “certificata”) per quanto riguarda tutti gli stati, le qualità personali e i fatti previsti nel d.p.r.
445/2000, nonché dalle attestazioni e asseverazioni di tecnici abilitati, ovvero dalle dichiarazioni di conformità da parte delle
Agenzie delle imprese.
Il d.lgs. 126/2016 ha previsto che le amministrazioni statali, con decreto del ministro competente, adottino moduli unificati e
standardizzati che definiscono esaustivamente i contenuti tipici e la relativa organizzazione dei dati delle istanze, delle
segnalazioni e delle comunicazioni, nonché della documentazione da allegare.
Sempre nella prospettiva della semplificazione, ai sensi dell'art. 19 bis, sul sito istituzionale di ciascuna amministrazione è
indicato lo sportello unico al quale presentare la SCIA. Inoltre, se per lo svolgimento di un'attività soggetta a SCIA sono
necessarie altre SCIA, comunicazioni, attestazioni, asseverazioni e notifiche, l'interessato presenta un'unica SCIA allo
sportello unico.
L'art. 19 bis, c. 3, l. 241/1990 si occupa altresì dei casi in cui l'attività oggetto di SCIA sia condizionata all'acquisizione di atti
di assenso comunque denominati o pareri di altri uffici e amministrazioni, ovvero all'esecuzione di verifiche preventive. In tal
caso, l'interessato presenta allo sportello unico la relativa istanza, a seguito della quale è rilasciata ricevuta; la legge
valorizza a questo punto l'istituto della conferenza di servizi, il termine per la cui convocazione decorre dalla data di
presentazione dell'istanza. In sostanza, si è al cospetto di una vicenda che, pur iniziando con una SCIA, confluisce poi in un
meccanismo procedimentale del tutto diverso, quale è la conferenza di servizi, nel cui seno sono resi tradizionali
provvedimenti di assenso.
Tornando alle caratteristiche generali della SCIA, si tratta dunque di un meccanismo che opera con riferimento a fattispecie
permissive (improprio è il richiamo al nulla osta, che, almeno se inteso in senso proprio, è espresso a favore di
amministrazioni). Invero, pure con riferimento alla segnalazione di inizio attività sono previste importanti eccezioni (art.
19.1). Si tratta dei casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali e degli atti rilasciati dalle amministrazioni
preposte alla difesa nazionale, alla pubblica sicurezza, all'immigrazione, all'asilo, alla cittadinanza, all'amministrazione della
giustizia, all' amministrazione delle finanze.
L'assenza di un elenco di casi soggetti a Scia ha però in passato creato diffuse incertezze applicative. Proprio per rimediare a
questo limite, la l. 124/2015 ha delegato il Governo a operare una "mappatura" dei casi assoggettati a Scia (ma anche dei
procedimenti soggetti a silenzio assenso, ad autorizzazione espressa e a comunicazione preventiva). La delega è stata
esercitata con il d.1gs. 126/2016 che ha individuato (accanto ai casi soggetti ad autorizzazione sostituibile dal silenzio ai sensi
dell'art. 20, 1. 241/1990) una serie di attività, nei settori delle attività commerciali, dell'edilizia, dell'ambiente, per le quali è
espressamente richiesta la Scia. Invero, l'art. 2 non solo prevede la possibilità di adottare decreti integrativi e
correttivi, ma ammette altresì che le amministrazioni, nell'ambito delle rispettive competenze, possano ricondurre le attività
non espressamente elencate nella Tabella A a quelle corrispondenti, pubblicandole sul proprio sito istituzionale.
L'art. 19, 1. 241/1990, d'altro canto, non è stato espressamente abrogato nella parte in cui prevede che, ricorrendone i requisiti,
ogni atto permissivo sia sostituito dalla Scia (e, del resto, la mappatura non copre tutte le aree di attività, ma solo le tre sopra
indicate).
In ogni modo, tornando al "funzionamento" in generale dell'istituto, in luogo della necessità di ottenere un provvedimento di
consenso che abbia i caratteri sopra indicati, il privato può limitarsi a presentare una segnalazione, iniziando
immediatamente l'attività. Questo è l'unico onere del privato, che non deve più avanzare una domanda, ma deve porre in
essere un'attività informativa cui è subordinato l'esercizio del diritto. Il ruolo dell'amministrazione muta rispetto a quello
rivestito nei procedimenti autorizzatori: essa, infatti, non esercita il tradizionale e preventivo potere permissivo, ma è chiamata
a svolgere una funzione (di amministrazione attiva) di controllo successivo, ossia in un momento in cui l'attività comunque già
si svolge lecitamente.
L'amministrazione competente dispone di diverse tipologie di poteri per ripristinare la legalità:
a) In primo luogo, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti, nel termine di sessanta giorni dal
ricevimento della segnalazione, «adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione
degli eventuali effetti dannosi di essa. Qualora sia possibile conformare l'attività intrapresa e i suoi effetti alla
normativa vigente, l'amministrazione competente, con atto motivato, invita il privato a provvedere prescrivendo le
misure necessarie con la fissazione di un termine non inferiore a trenta giorni per l'adozione di queste ultime. In
difetto di adozione delle misure da parte del privato, decorso il suddetto termine, l'attività si intende vietata». Non è
qui contemplato il potere generale di sospensione. Una speciale disciplina è invece al riguardo posta in tema di
interessi sensibili e di atte stazioni non veritiere. L'amministrazione, dunque, dispone di poteri d'ufficio, articolati in
inibitori, repressivi e conformativi, di carattere vincolato, che si esercitano a seguito della presentazione della
segnalazione, incidendo direttamente sull' attività privata. Ai sensi dell'art. 21.2 ter il decorso del termine non esclude
la responsabilità del dipendente che non abbia agito tempestivamente nel caso in cui la segnalazione certificata non
fosse conforme alle norme vigenti.
b) Vi è poi un secondo potere di intervento (divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione degli eventuali effetti),
esercitabile decorso il termine di sessanta giorni, in presenza delle condizioni previste dall' art. 21 nonies (norma sull'
annullamento d'ufficio). L'art. 19 rinvia ai "presupposti" per l'annullamento, ma non parla di annullamento, posto che
esso è un provvedimento di secondo grado, che incide su atti amministrativi. Qui, invece, ricorre soltanto un atto del
privato. Tale potere, dunque, può essere esercitato sussistendone le ragioni di interesse pubblico, tenendo conto
degli interessi dei destinatari e dei controinteressati. Soprattutto, ai sensi del combinato disposto dell'art. 2, d.lgs.
c) Restano ferme le attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo su attività soggette ad atti di assenso da parte di
pubbliche amministrazioni previste da leggi vigenti, anche se è stato dato inizio all'attività mediante lo strumento della
segnalazione (art. 21.2 bis).
d) L'art. 21.1 dispone che, in caso di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni, non è ammessa la conformazione
dell'attività e dei suoi effetti a legge o la sanatoria prevista dagli articoli medesimi e il dichiarante è punito con la
sanzione prevista dall'articolo 483 c.p., salvo che il fatto costituisca più grave reato.
e) Non è chiaro se si applichi alla Scia il più rigoroso art. 21 nonies, c. 2 bis, l. 241/1990 (il cui campo di applicazione è
però delimitato con riferimento ai provvedimenti: tra l'altro, parrebbe, soltanto a quelli favorevoli e, comunque, con
riferimento al caso in cui la condotta costituisca reato), ai sensi del quale «i provvedimenti amministrativi conseguiti
sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o
mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati
dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi, fatta salva l'applicazione delle sanzioni
penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al d.p.r. 445/2000», La disposizione, che non
implica alcun automatismo tra sentenza e intervento amministrativo in autotutela, dovrebbe essere coordinata con il
precedente art. 21 con una difficile operazione ermeneutica.
Ciò detto in generale, va aggiunto che la ricostruzione dell'istituto oscilla tra il polo dell'atto privato nel segno della
liberalizzazione e quello del meccanismo caratterizzato dalla formazione semplificata di un assenso provvedimentale mediante
silenzio. Il tema della qualificazione giuridica è fortemente collegato all'esigenza di assicurare tutela al terzo. Parte della
dottrina e parte della giurisprudenza, infatti, ricercavano un momento provvedimentale all'interno della vicenda per poter
assicurare tutela al terzo pregiudicato dall'attività oggetto di segnalazione: seguendo siffatta impostazione, il terzo poteva
contestare davanti al giudice la segnalazione del privato conferendole una rilevanza pubblica ovvero censurando il mancato
esercizio dei poteri che la legge conferisce all'ente. L'istituto coinvolge tre classi di interessi: quello del richiedente, quello
pubblico e quello del terzo. La soddisfazione del primo implicherebbe una vera liberalizzazione escludendo qualsiasi
intervento pubblico una volta trascorso un certo periodo utile per la verifica; la valorizzazione degli altri due spinge ad un
riavvicinamento al modello del provvedimento. Questa soluzione era stata respinta.
La questione è comunque ora affrontata dalla legge che consente al terzo ("contro-segnalato") di sollecitare i poteri di
intervento dell'amministrazione, utilizzando, a fronte dell'eventuale inerzia, "esclusivamente" lo strumento del ricorso avverso
il silenzio. Con ciò non sono però risolti i problemi di tutela del terzo "contro segnalato". Decorsi sessanta giorni (trenta, in
materia edilizia), infatti, si restringe notevolmente la possibilità di ottenere un ripristino della legalità: vero è che
il privato può attivare i poteri inibitori e di rimozione, ma ciò solo "in presenza delle condizioni previste dall'art. 21 nonies
sull'annullamento d'ufficio", sicché si allarga il compasso della discrezionalità dell'amministrazione e, dunque, non è più
possibile ripristinare la legalità sul mero presupposto dell'assenza dei requisiti di legge. In altri termini, il terzo sarebbe
pienamente tutelato solo dall' esercizio del potere inibitorio di ripristino della legalità che ha carattere vincolato, e che,
dunque, richiede la semplice verifica della sussistenza/insussistenza dei presupposti di legge, ma che può essere esercitato
soltanto entro sessanta giorni. Molto spesso, tuttavia, il contro-segnalato, in piena buona fede e in assenza di una norma che
imponga di comunicargli la presentazione della Scia, viene a conoscenza dell'esistenza della Scia medesima quando già è
trascorso questo termine e, dunque, in un momento in cui è svanito il potere di ripristinare la legalità più "utile" ai suoi fini.
È poi molto difficile che il giudice possa intervenire quando quel potere è ancora vivo, nel senso che la sua decisione
presumibilmente arriverà dopo la scadenza del termine di 60 gg. Per questa ragione, parte della giurisprudenza ha statuito che,
al di là di quell'orizzonte temporale, si apre la possibilità di chiedere tutela al giudice amministrativo, nel senso che il terzo,
mediante sollecitazione, può "risvegliare" i poteri dell'amministrazione, ricorrendo eventualmente contro l'inerzia
Rimane il fatto che, dopo 60 gg. i poteri che l'amministrazione può esercitare sono meno intensi e che, dopo 18 mesi, non vi è
più possibilità di intervento a favore del contro-segnalato (il quale senza colpa potrebbe non aver avuto notizia della SCIA).
Nel corso del Cap. V si è fatto riferimento al fenomeno della liberalizzazione e al regime che può applicarsi alle attività
private. Accanto all'autorizzazione, al silenzio, alla Scia (e all'attività residualmente libera), si era menzionato il modello dello
svolgimento dell'attività previa mera comunicazione. La disciplina di tale ultimo istituto è posta dal d.lgs. 222/2016, fonte che
prevede un elenco di attività, inserite nella Tabella A sopra citata, in ordine alle quali la comunicazione produce effetto con la
presentazione all'amministrazione competente o allo Sportello unico.
La legge null'altro aggiunge, tacendo su eventuali poteri di controllo dell'amministrazione, con testuali o successivi.
L'amministrazione che riceve la SCIA la trasmette immediatamente alle altre amministrazioni interessate al fine di consentire,
per quanto di loro competenza, il controllo sulla sussistenza dei requisiti e dei presupposti per lo svolgimento dell' attività: si
noti che, nel caso di istanza, segnalazione o comunicazione presentate ad un ufficio diverso da quello competente, i termini di
cui agli articoli 19.3, e 20.1 decorrono dal ricevimento dell'istanza, segnalazione o della comunicazione da parte dell'ufficio
competente.
5. L’atto amministrativo e il provvedimento amministrativo: osservazioni generali
Tradizionalmente l’atto amministrativo è definito come qualsiasi manifestazione di volontà, giudizio o conoscenza
proveniente da una pubblica amministrazione nell’esercizio di una potestà amministrativa. Nell’ambito degli atti
amministrativi riveste però peculiare importanza il provvedimento, atto con cui si chiude il procedimento amministrativo.
Il provvedimento è emanato dall’organo competente; ove esso sia collegiale si parla frequentemente di atto collegiale, il quale
partecipa degli stessi caratteri del provvedimento emanato da organo monocratico e se ne differenzia, sostanzialmente,
soltanto perché è preceduto da un procedimento più complesso, in cui gli interessi rilevanti sono rappresentati non già
attraverso la partecipazione al procedimento, ma introdotti dai componenti il collegio all’atto della decisione.
Soltanto il provvedimento, risultato dall’esercizio del potere amministrativo attribuito all’amministrazione, è dotato di effetti
sul piano dell’ordinamento generale. Anche gli atti non provvedimentali hanno un proprio effetto giuridico: tuttavia esso si
esaurisce in un ambito giuridico differente (interno alla sfera dell’amministrazione), proprio perché essi non sono suscettibili
di incidere su situazioni giuridiche di terzi, riconosciute dall’ordinamento e protette in primo luogo nei confronti
dell’amministrazione. Tali atti (pareri, proposte, valutazioni tecniche, ecc..) hanno funzione strumentale e accessoria rispetto
ai provvedimenti.
Va altresì aggiunto che la pubblica amministrazione pone in essere dei comportamenti giuridicamente rilevanti che non sono
atti amministrativi in senso proprio, atteso che in essi non si ravvisano manifestazioni, dichiarazioni o pronunce di volontà, di
desiderio e di rappresentazione: si tratta in particolare di operazioni materiali e misure di partecipazione volte a portare atti
nella sfera di conoscibilità dei terzi.
Posto che il provvedimento ripete i medesimi caratteri del potere, esso è tipico e nominato.
Oltre agli effetti prodotti dal provvedimento, si può aggiungere che sono ipotizzabili anche differenti classificazioni, fondate
ad esempio sulla platea dei destinatari (provvedimenti puntuali o atti generali, o ancora, atti plurimi). Una categoria
particolare è quella dei provvedimenti costitutivi di rapporti tra privati: si pensi a quelli tariffari e agli atti costitutivi di
servitù di elettrodotto.
Per quanto riguarda l’interpretazione del provvedimento, quest’ultimo è composto da una intestazione, nella quale è
indicata l’autorità emanante, da un preambolo, in cui sono enunciate le circostanze di fatto e quelle di diritto, delineando così
il quadro normativo e fattuale nel cui contesto l’atto è emanato, dalla motivazione, la quale indica le ragioni giuridiche e i
presupposti di fatto del provvedere, e dal dispositivo, il quale rappresenta la parte precettiva del provvedimento e contiene la
concreta statuizione posta in essere dall’amministrazione. Il provvedimento è poi datato e sottoscritto, indicando anche il
luogo della sua emanazione.
Si applicano comunque agli atti amministrativi alcune tra le norme poste dal codice civile, per l’interpretazione del contratto:
l’art. 1362 (in ordine alla rilevanza dell’intenzione del soggetto e al comportamento complessivo), l’art. 1363 (in base al quale
le clausole si interpretano una per mezzo delle altre), l’art. 1364 (l’atto non si riferisce che agli oggetti suoi propri) e l’art.
1367 (secondo il quale le disposizioni devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto).
Non è ammissibile l’interpretazione autentica vincolante per i terzi da parte dell’amministrazione autrice dell’atto:
possibilità questa riconosciuta solo al legislatore, mentre gli atti sono in linea di massima irretroattivi. L’interpretazione fornita
dall’amministrazione difforme dal provvedimento interpretato vale dunque come provvedimento nuovo e modificativo, avente
valore solo per il futuro, mentre l’interpretazione autentica conforme al provvedimento originario in realtà conferma
l’operatività dell’atto interpretato.
6. Provvedimento amministrativo e incisione sulle situazioni soggettive
Componente fondamentale del provvedimento è la volontà intesa come volontà procedimentale. La legge assegna il
provvedimento ad una figura soggettiva ai fini dell’imputazione formale dello stesso; di regola tale imputazione è fatta dalla
legge ad una persona giuridica (ente pubblico) diversa dalla persona fisica dal cui comportamento innegabilmente il
provvedimento è prodotto. In definitiva, la volizione della persona fisica è cosa diversa da quella che si suole chiamare
“volontà” dell’atto, obiettiva e spersonalizzata.
Il provvedimento è un atto di disposizione in ordine all’interesse pubblico che l’amministrazione deve perseguire e che si
correla con l’incisione di altrui situazioni soggettive. Questa caratteristica è spesso considerata essenziale del provvedimento
amministrativo e avrebbe come più importante manifestazione la sua estinzione a prescindere dalla volontà del destinatario.
L’autoritatività è una connotazione del potere rivolto alla cura degli interessi pubblici e preordinato alla produzione di effetti
giuridici in capo ai terzi, ed è propria di ogni provvedimento amministrativo con cui tale potere si esercita, indipendentemente
dalla natura favorevole o sfavorevole degli effetti: così intesa essa ricorre pure nelle ipotesi in cui la produzione dell’effetto sia
subordinata ad un consenso del destinatario dell’atto.
7. Unilateralità, tipicità e nominatività del potere
Il provvedimento è sempre caratterizzato dal perseguimento unilaterale di interessi pubblici e dalla produzione unilaterale di
vicende giuridiche sul piano dell’ordinamento generale in ordine a situazioni giuridiche dei privati.
La possibilità per l’amministrazione di produrre in un caso puntuale e concreto una vicenda giuridica presuppone che il
legislatore abbia ritenuto prevalente l’interesse pubblico rispetto a quello privato, attribuendo il potere all’amministrazione,
descrivendo gli elementi in cui esso si articola, destinati a trasfondersi nel provvedimento e individuando il tipo di effetto
prodotto sulla situazione giuridica del destinatario dell’atto.
La tipicità del provvedimento, diretta espressione del principio di legalità, pare in primo luogo correlata agli effetti di
modificazione delle situazioni giuridiche soggettive di terzi. La pubblica amministrazione, per conseguire gli effetti tipici, può
inoltre ricorrere soltanto agli schemi individuati in generale dalla legge. È questo il c.d. principio di nominatività, il quale
sembra dover essere riferito al provvedimento e al potere. La distinzione tra nominatività e tipicità non è stata approfondita
dalla dottrina e spesso i due termini vengono utilizzati come sinonimi; d’altro canto il tipo di effetto è legato strettamente al
profilo funzionale del potere e dell’atto, e cioè alla prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato, richiedendo la
predefinizione dei limiti mediante la quale detta prevalenza si manifesta; la stessa distinzione si percepisce con maggior
chiarezza ove si pensi alle ordinanze di necessità e urgenza, atti nominati, ma i cui effetti non sono compiutamente definiti
dalla legge. L’ordinamento generale appresta in ogni caso due tipi di limiti a garanzia dei privati: da un lato la predefinizione
dei tipi di vicende giuridiche che possono essere prodotte dall’amministrazione (tipicità), dall’altro la predeterminazione degli
elementi del potere che può essere esercitato per conseguire quegli effetti (nominatività). Per gli atti amministrativi non
provvedimentali si propone la questione dell’individuazione di caratteri comuni a quelli che presenta il provvedimento; essi
presentano talora un certo tasso di atipicità.
Oggi l’art. 1.1 bis, l. 241/1990, dispone che la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa,
agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente. La norma ha suscitato molte riflessioni in
dottrina, alcune delle quali favorevoli a considerare come atti non autoritativi quelli che, essendo ampliativi della sfera
giuridica del destinatario, sono in grado di produrre effetti soltanto subordinatamente al consenso del destinatario. A contrario,
sarebbero veri provvedimenti autoritativi soltanto quelli limitativi della sfera giuridica dei privati. Gli atti non autoritativi, in
conclusione, sono quelli che non costituiscono espressione di un potere amministrativo in quanto l’ordinamento ha conformato
in senso privatistico un certo ambito di rapporti che vede coinvolte le pubbliche amministrazioni, come accade nel settore del
rapporto di lavoro presso le pubbliche amministrazioni.
8. Gli elementi essenziali del provvedimento e le clausole accessorie
Ai sensi dell’art. 21 septies, l. 241/1990, è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali: si
tratta di quegli elementi la cui assenza impedisce al provvedimento di venire in vita o, meglio, di quegli elementi che
costituiscono i limiti del potere attribuito all’amministrazione di cui il provvedimento è espressione. Ove l’amministrazione
non rispetti la norma attributiva del potere nella parte in cui ne individua un limite, il potere stesso non può ritenersi esistente
in capo ad essa e il provvedimento è emanato in condizioni di carenza di potere. Difettando il potere, manca la possibilità di
produrre l’effetto e la vicenda giuridica non si verifica.
Gli elementi essenziali del provvedimento sono: il soggetto, il contenuto dispositivo, l’oggetto, la finalità e la forma.
Il potere è conferito ad un soggetto pubblico dotato di personalità giuridica. La violazione della norma relativa ai limiti
soggettivi del potere determina la nullità del provvedimento. In alcune ipotesi, anche gli atti emanati da soggetti privati
esercenti una pubblica funzione sono amministrativi. Lo svolgimento da parte di un’autorità di una potestà spettante ad altro
ente dà luogo ad un atto che non produce effetti: parte della dottrina parla di straripamento di potere o di incompetenza
assoluta; l’art.21-septies esprime il medesimo concetto impiegando un’altra locuzione, là dove afferma che è nullo l’atto
viziato da difetto assoluto di attribuzione.
Il potere consiste nella possibilità di produrre una determinata vicenda giuridica: è questo il contenuto dispositivo del potere.
La dottrina distingue tra contenuto necessario (consistente nella vicenda giuridica tipizzata dalla legge), contenuto accidentale
e contenuto implicito o naturale del provvedimento. L’insieme delle disposizioni, dette anche clausole accessorie, costituisce
il contenuto eventuale o accidentale dell’atto. La possibilità che il provvedimento contenga tali disposizioni dipende
dall’esistenza di discrezionalità.
Sono opponibili ai provvedimenti le condizioni, sempre che l’amministrazione disponga di discrezionalità: è possibile
subordinare la produzione (condizione sospensiva) o la cessazione dell’effetto (condizione risolutiva) al verificarsi di un
avvenimento futuro e incerto. In ordine al termine va notato che spesso la limitazione temporale dell’efficacia di un atto
deriva direttamente dalla legge, ed in questo caso non si può parlare di contenuto accidentale. Per quanto attiene al modo,
l’opinione negativa in ordine alla sua apponibilità ai provvedimenti si giustifica in quanto esso è proprio dei soli atti di
liberalità.
Il contenuto implicito o naturale del provvedimento è costituito dalle disposizioni operanti in virtù della legge, pur se non
richiamate nel provvedimento. Un’altra questione è quella del contenuto negativo del provvedimento: a seguito dell’istanza
del privato volta a ottenere un certo provvedimento favorevole, l’amministrazione, ritenendo di non poter accogliere tale
domanda, emana un provvedimento con il quale esercita il potere, ma in negativo, rifiutando cioè il rilascio dell’atto; anche se
il contenuto del provvedimento di rifiuto è nel senso di non produrre l’effetto tipico, esso pregiudica comunque l’aspettativa
del destinatario. La circostanza che un effetto si sia prodotto è dimostrato dal fatto che il privato destinatario può impugnare il
provvedimento di rifiuto. Tale effetto è preclusivo: il privato che non provvede ad impugnare il provvedimento non ha più
titolo a richiedere una nuova manifestazione di volontà dell’amministrazione in ordine alla medesima situazione di fatto e di
diritto.
L’oggetto (ossia il termine passivo della vicenda che verrà a prodursi a seguito dell’azione amministrativa) deve essere lecito,
possibile, determinato o determinabile, e può essere o il bene, la situazione giuridica o l’attività destinati a subire gli effetti
giuridici prodotti dal provvedimento.
Il potere e il corrispondente provvedimento sono infine caratterizzati dalla preordinazione alla cura dell’interesse pubblico che
è risultato vincente nel giudizio di bilanciamento tra valori diversi, risolto dalla norma di relazione (finalità o causa del
potere).
La legge attributiva del potere può inoltre prevedere che l’atto debba rivestire una certa forma a pena di nullità; di norma la
forma è scritta, anche se non mancano esempi di esternazioni dell’atto in forma orale o comunque non scritte (come le
segnalazioni manuali dei vigili). In materia si afferma il principio della libertà delle forme: l’osservazione attiene ai casi in cui
la legge non prescriva una forma di esternazione, qualunque essa sia. Non si confonda la forma dell’atto con la forma di
pubblicità, costituita ad esempio dalla documentazione e dalla verbalizzazione, che consiste in un acclaramento storico
mediante il quale vengono narrati i fatti e le operazioni dell’organo in funzione di esternazione.
Il provvedimento può talora risultare per implicito da un altro provvedimento o da un comportamento; in simili casi l’atto
viene pur sempre esteriorizzato anche se soltanto in forma indiretta, e tanto basta per differenziare l’atto implicito rispetto alle
ipotesi in cui si ha una manifestazione tacita di volontà (silenzio), ove manca del tutto un comportamento passivo.
L’atto per il quale sia richiesta una forma scritta non può legittimamente desumersi da un comportamento, né da altro atto,
laddove il primo debba avere espressamente un certo contenuto.
L’art. 3, l. 39/1993, stabilisce che gli atti amministrativi vengano di norma predisposti tramite sistemi informativi
automatizzati: si tratta del c.d. atto amministrativo informatico. La disciplina del documento informatico è contenuta nell’art.
22 e ss. del d.lgs. 82/2005 (codice dell’amministrazione digitale). Il documento informatico, la registrazione su supporto
informatico e la trasmissione con strumenti telematici “sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge” se conformi alle
disposizioni del codice dell’amministrazione digitale. Qualora sottoscritto con firma avanzata, digitale o qualificata, il
documento informatico fa inoltre piena prova, fino a querela di falso, della provenienza della dichiarazione da chi l’ha
sottoscritto (art. 21). Per la formazione, gestione e sottoscrizione di documenti informatici aventi rilevanza esclusivamente
interna, ciascuna amministrazione può adottare nella propria autonomia organizzativa, regole diverse da quelle stabilite in
generale dal codice (art. 34).
La legge prevede due tipologie di firme: la firma elettronica, che attribuisce al documento la validità dell’atto autografo, la
firma elettronica avanzata (insieme di dati in forma elettronica allegati oppure connessi a un documento informatico che
consentono l’identificazione del firmatario del documento e garantiscono la connessione univoca al firmatario), la firma
elettronica qualificata (firma elettronica avanzata basata su un certificato qualificato e realizzata mediante un dispositivo
sicuro per la creazione della firma) e la firma digitale (d.p.m. 22 febbraio 2013), che è un particolare tipo di firma elettronica
avanzata; essa è basata su un sistema di chiavi crittografiche ed è il risultato di una procedura informatica che consente al
sottoscrittore e al destinatario, rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità del documento
informatico o di un insieme di documenti informatici. Essa viene certificata da appositi certificatori. L’interessato è titolare di
una coppia di chiavi crittografiche asimmetriche il cui impiego consente di rendere manifeste e di verificare provenienza e
integrità del documento. La chiave, costituita da codici informatici, è dunque l’elemento che consente di criptare un
documento. Nel caso di coppie asimmetriche, per la cifratura e decifratura dei documenti sono necessarie due chiavi diverse
tra loro: una prima chiave è privata perché è destinata ad essere conosciuta ed utilizzata soltanto dal soggetto titolare; l’altra è
pubblica in quanto destinata ad essere divulgata e viene inserita in apposito elenco.
I documenti sottoscritti con firma elettronica avanzata, firma qualificata e firma digitale hanno comunque lo stesso valore
legale di scrittura privata (art. 21, d.lgs. 82/2005).
Ai sensi dell’art. 45, d.lgs. 82/2005, i documenti trasmessi da chiunque ad una pubblica amministrazione con qualsiasi mezzo
telematico o informatico, ivi compreso il fax, idoneo ad accertarne la fonte di provenienza, soddisfano il requisito della forma
scritta e la loro trasmissione non deve essere seguita da quella del documento originale. Secondo quanto dispone l’art. 136,
codice processo amministrativo, tutti gli atti e i provvedimenti del giudice, dei suoi ausiliari, del personale degli uffici
giudiziari e delle parti, possono essere sottoscritti con firma digitale.
In tema di forma dei provvedimenti un cenno meritano le determinazioni. Con tale termine ci si riferisce nella prassi agli atti
dirigenziali; di particolare rilievo sono quelli che comportano impegni di spesa. In tale ipotesi, la determinazione chiude la
fase amministrativa che genera l’obbligazione e, comportando appunto l’impegno, apre quella contabile di attuazione del suo
contenuto. Essa costituisce quindi il momento iniziale del procedimento contabile destinato a sfociare nel pagamento della
spesa da parte della tesoreria. In linea di massima l’impegno deriva dal perfezionamento dell’obbligazione, anche se vi sono
ipotesi in cui le spese formano impegno pur se non presuppongono l’esistenza di un’obbligazione già perfezionata.
Ai sensi dell’art. 2 d.l. 78/2009, “il funzionario che adotta provvedimenti che comportano impegni di spesa ha l’obbligo di
accertare preventivamente che il programma dei conseguenti pagamenti sia compatibile con i relativi stanziamenti di bilancio
e con le regole di finanza pubblica; la violazione dell’obbligo di accertamento comporta responsabilità disciplinare ed
amministrativa”. Per quanto attiene l’impegno, questo può essere inteso come effetto contabile e, in quanto tale, consegue
all’operazione di registrazione da parte dei competenti uffici di ragioneria. Dopo la registrazione, comporta la costituzione di
un vincolo sul bilancio e l’accantonamento della relativa somma e la riduzione della disponibilità finanziaria, nonché la
legittimazione del dirigente responsabile alla successiva fase dell’ordinazione. Il mancato o illegittimo impegno non libera
l’amministrazione, sotto il profilo civilistico, dell’adempimento dell’obbligazione: il creditore potrebbe infatti esperire le
azioni civili ordinarie per ottenere l’adempimento. Le altre fasi del procedimento contabile sono: liquidazione (consiste nella
precisa determinazione della somma, certa e liquida, da pagare sulla base dei giustificativi documentali che dimostrino ad
esempio la consegna dei beni), ordinazione del pagamento rivolto alla tesoreria (consiste nell’emissione dei titoli di
pagamento) e pagamento.
9. Difformità del provvedimento dal paradigma normativo: la nullità e l’illiceità del provvedimento amministrativo
Le conseguenze che l’ordinamento prevede con riferimento ai casi in cui il provvedimento sia difforme dal paradigma
normativo variano a seconda del tipo di norma non rispettata: il provvedimento emanato in violazione delle norme attributive
del potere è nullo; ove invece esso sia difforme dalle norme di azione che disciplinano l’esercizio del potere va qualificato
come annullabile, fatta salva l’applicazione dell’art. 21 octies, l. 241/1990. La dottrina amministrativistica riconduce nullità e
annullabilità nell’ambito della categoria dell’invalidità, consistente nella difformità dell’atto dalla normativa che lo disciplina.
L’art. 21 septies l. 241/90 si occupa della nullità tipizzando alcuni casi in cui essa ricorre. Tale articolo, tuttavia, non detta il
regime compiuto, sicché questo va mutuato da quello codicistico: assenza di effetti, insanabilità, rilevabilità d’ufficio e in
qualsiasi tempo, possibilità di conversione dell’atto, impossibilità dell’annullamento in via di autotutela. Tali effetti mutuati
dal diritto civile vanno combinati con gli aspetti processuali relativi all’azione volta all’accertamento della nullità. A
differenza della disciplina codicistica, nel diritto amministrativo non si parla espressamente di contrarietà a norme
imperative, all’ordine pubblico o al buon costume, né di mancanza dei requisiti di determinatezza, determinabilità e
possibilità dell’oggetto. La categoria generale della violazione delle norme imperative, nel diritto amministrativo, è quindi
l’annullabilità nel senso che, salvo eccezioni, l’atto contrario a norma pubblicistica è annullabile.
La prima categoria di nullità presa in considerazione dalla norma è quella “strutturale”, essendo nullo il provvedimento
amministrativo che manca degli elementi essenziali. Tali elementi non sono individuati dal legislatore, ma vanno ricavati
dalla norma attributiva del potere. La legge non fa cenno alcuno alle categorie dell’atto illecito e di quello inesistente.
I tentativi di individuare casi concreti in cui venga violata una norma delimitativa del potere sono destinati a risultare poco
fruttuosi: le ipotesi configurabili sono in sostanza scolastiche e a esse va probabilmente riferita la nullità (o l’inesistenza). Con
riferimento al caso relativo a vizio attinente al profilo soggettivo, l’art. 21-septies, individuando una specifica ipotesi di
nullità, parla al riguardo di difetto assoluto di attribuzione (seconda categoria di nullità). La questione del contrasto con una
norma di relazione sorge invece nella situazione di carenza del potere in concreto. Va tuttavia precisato che l’art. 21 septies
non fa cenno a questa figura, poiché vi è chi considera tale omissione come conferma della sua scomparsa o inesistenza,
ritenendo assorbito l’istituto nell’annullabilità.
Il problema in questione, tuttalpiù, si pone al confine tra il piano sostanziale e quello processuale: secondo la giurisprudenza, il
criterio di discriminazione tra giurisdizione del giudice amministrativo e giudice ordinario si fonda sulla contrapposizione tra
cattivo esercizio del potere e carenza del potere. Nel caso di carenza di potere, poiché il privato è titolare di un diritto,
dovrebbe sussistere la giurisdizione del giudice ordinario.
Per quanto riguarda la mancanza del potere, questa può presentarsi sia come carenza in astratto sia come carenza di potere in
concreto. In questo secondo caso, il potere non manca totalmente dal momento che, anche se ridotta, un’estrinsecazione del
potere sussiste poiché in astratto il potere c’è e le norme attributive del potere sono state osservate; ciò basta perché il suo
esercizio mantenga quel tanto di autoritatività che gli consente di esplicare effetti giuridici. La formula dell’inesistenza in
concreto del potere deve quindi essere intesa come rilevatrice dell’esistenza di un potere in astratto che, anche se male
esercitato, produce pur sempre un effetto.
In ogni caso, sul piano sostanziale, il regime del provvedimento emanato in una situazione di carenza di potere in concreto si
riconduce in senso proprio a quello che in dottrina è stato denominato come illiceità: questa è l’unica ipotesi di atto posto in
essere in violazione di norme di relazione che trova un abbozzo di disciplina positiva differente da quella ricavabile ex art. 21
septies l. 241/1990 la quale non ne fa cenno. L’art. 2 della legge abolitrice del contenzioso amministrativo individua la
giurisdizione del giudice ordinario con riferimento alla lesione di un diritto soggettivo “ancorché siano emanati provvedimenti
del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa”; l’atto lesivo di una norma di relazione, perché emanato in carenza di
potere in concreto produce quindi effetti, indipendentemente dell’esecuzione materiale dell’atto illecito e infatti esso è causa
di responsabilità in capo all’amministrazione per risarcimento del danno; l’atto però non è annullabile dal giudice ordinario né
dal giudice amministrativo, ecco che quindi va individuato uno strumento per eliminare gli effetti di un atto posto in essere in
violazione di un diritto soggettivo che non può essere annullato dal giudice amministrativo: il rimedio sarà quindi la mera
disapplicazione da parte del giudice ordinario. In conclusione può dirsi che, in linea di principio, la disapplicazione sta
nell’atto illecito come l’annullamento sta all’atto illegittimo.
L’art. 133, d.lgs. 104/2010 (codice processo amministrativo), stabilisce una terza ipotesi di nullità con riferimento al
provvedimento adottato in violazione o elusione del giudicato. La norma codifica in tal modo un precedente orientamento
giurisprudenziale, e precisa che “le questioni inerenti alla nullità dei provvedimenti amministrativi in violazione o elusione del
giudicato sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo”. L’art. 114 comma 4 lett. c), codice
procedimento amministrativo, si occupa anche degli atti in violazione o elusione di sentenze non ancora passate in giudicato,
stabilendo che essi (i provvedimenti) sono considerati dal giudice inefficaci.
Si consideri che il problema della qualificazione dell’atto non conforme al paradigma normativo non si pone ogni qualvolta la
nullità sia prevista espressamente dalla legge: a queste ipotesi si riferisce l’art. 21 septies quando afferma che l’atto è pure
nullo “negli altri casi espressamente previsti dalla legge” (quarta ipotesi di nullità).
Al cospetto di un atto nullo, il privato dovrebbe essere titolare di un diritto soggettivo, sicché la cognizione della questione
spetterebbe al giudice ordinario; parte della giurisprudenza ritiene possibile che sussista un interesse legittimo, così
radicandosi la giurisdizione del giudice amministrativo. Questa soluzione parrebbe spostata dal codice del processo
amministrativo, che disciplina l’azione di nullità dinanzi al giudice amministrativo senza riferirsi alla sola giurisdizione
esclusiva e, quindi, dando per presupposto che il privato sia titolare di interessi legittimi.
10. L’illegittimità del provvedimento amministrativo
L’atto emanato nel rispetto delle norme attributive del potere ma in difformità di quelle di azione è in linea di principio affetto
da illegittimità e sottoposto al regime di annullabilità. L’atto annullabile rispetta le norme che riconoscono la possibilità di
produrre effetti e per questa ragione produce gli stessi effetti di un atto legittimo: tuttavia questi effetti sono precari, nel senso
che l’ordinamento prevede strumenti giurisdizionali per eliminarli, contemporaneamente all’atto che li pone in essere. L’atto
illegittimo è inoltre annullabile da parte della stessa amministrazione in via di autotutela ovvero in sede di controllo o di
decisione dei ricorsi amministrativi; esso può inoltre essere disapplicato dal giudice ordinario che incidentalmente sia
chiamato a verificarne la legittimità al fine di decidere una controversia che attiene alla lesione di diritti soggettivi. Il
provvedimento illegittimo può essere convalidato.
L’illegittimità può essere di 4 tipi:
1. Originaria -> l’illegittimità si determina con riferimento alla normativa in vigore al momento della perfezione
dell’atto.
2. Sopravvenuta -> la normativa sopravvenuta successivamente all’emanazione del provvedimento in generale non
incide sulla validità dello stesso. Il mutato quadro normativo può aprire la strada all’adozione di provvedimenti di
riesame. Un caso di illegittimità sopravvenuta è quella relativa al caso in cui una legge retroattiva incida su atti già
emanati e, originariamente, conformi al paradigma normativo, ma risultati ormai in contrasto con la nuova disciplina.
Non rientra nell’illegittimità sopravvenuta il caso di una sentenza della corte costituzionale che dichiari l’illegittimità
di norme sul cui fondamento è stato emanato un provvedimento (rientra infatti nell’illegittimità originaria).
3. Derivata -> è il caso dell’ipotesi di annullamento dell’atto che costituisce il presupposto di un altro atto. È incerto se
l’annullamento dell’atto presupposto travolga automaticamente gli atti successivi. La giurisprudenza ammette tale
conseguenza allorché tra i due atti vi sia uno stretto nesso di pregiudizialità necessaria e l’atto annullato sia il
presupposto necessario e unico del successivo, come accade ad esempio nell’annullamento della revisione della pianta
organica delle farmacie, che travolgerebbe automaticamente tutte le autorizzazioni all’apertura di una nuova farmacia.
Dall’illegittimità caducante, ora descritta, si distingue l’illegittimità meramente invalidante dell’atto successivo a
valle, il quale deve essere impugnato o annullato autonomamente, anche d’ufficio.
4. Parziale -> si riscontra allorché solo una parte del contenuto sia illegittimo, sicché solo questa parte sarà oggetto di
annullamento. La restante parte resta in vigore determinando un cambiamento del contenuto originario dell’atto
(modificazione).
L’elenco delle cause di illegittimità si ricava dall’art. 21 octies l. 241/1990 ove si dispone che “è annullabile il provvedimento
amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza”.
L’art. 21 nonies si occupa dell’annullamento d’ufficio dell’atto illegittimo e della sua convalida. Vi sono poi disposizioni
processuali che determinano l’annullamento degli atti amministrativi da parte del giudice amministrativo a seguito di
impugnazione da parte dei soggetti titolari di interessi legittimi.
Queste norme vanno coordinate con l’art. 21.2 octies che ne ha ridotto il campo di applicazione: infatti, talvolta si prevede che
il provvedimento difforme dal paradigma normativo non è annullabile. Il riferimento è ai vizi formali, che indicano i casi in
viene violata una norma il cui rispetto non avrebbe assicurato una decisione diversa che, quindi, non va annullata.
Nel nostro ordinamento ciò accade ove l’atto sia adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti
ma sia palese che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Inoltre il provvedimento
amministrativo non è annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione
dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Rimane da chiarire perché un atto difforme dal paradigma normativo possa essere considerato valido; si potrebbe immaginare
che esso sia tale perché originariamente idoneo a conseguire lo scopo, secondo il modello ricavabile a contrario dall’art.
156.2, c.p.c.
Ammettendo che, nei casi rientranti dall’art. 21 octies, il privato sia titolare di un interesse legittimo si potrebbe concludere
che la l. 241/1990 nega la facoltà di reazione processuale, in contrasto con il principio costituzionale espresso dagli artt. 24 e
113 Cost.
Vi è però una difformità rispetto al paradigma normativo per quanto riguarda la dinamica di esercizio del potere. Si potrebbe
pensare che, pur sussistendo l’illegittimità del provvedimento relativo ad una certa attività, quell’attività verrebbe sanata dal
provvedimento finale che raggiungerebbe così lo scopo voluto dalla legge.
La legittimità del provvedimento verrà svelata nel corso del giudizio, che rappresenterà per certi versi la continuazione del
procedimento: è questa un’ulteriore conseguenza della disciplina, nel senso che essa accentua i poteri del giudice
individuando nel processo la sede in cui si deciderà se alla violazione di una norma consegue o meno l’illegittimità dell’atto.
Vi è una differenza tra le due ipotesi contemplate dal c. 2, l. 241/1990: la prima concerne vizi procedimentali (ad esempio il
vizio della motivazione) e di forma (errata indicazione del numero di protocollo), e richiede che l’attività sia vincolata e che
sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato; la seconda
consente di salvare il provvedimento dell’annullamento a seguito della dimostrazione in sede processuale dell’immutabilità
del suo contenuto dispositivo quando sia mancata la comunicazione dell’avvio del procedimento. Essa, dunque, si applica
anche ai provvedimenti discrezionali.
Ricapitolando, l’area dell’illegittimità del provvedimento si configura a geometria variabile raggruppando i seguenti casi:
a) Con riferimento all’attività discrezionale: scelta irrazionale o incongrua ovvero violazione di legge
b) Nel caso di vizio per omessa comunicazione di avvio (che è un vizio di violazione di legge), il recupero dell’atto può
però avvenire anche se l’atto è discrezionale, rendendo in sostanza irrilevante quello specifico vizio;
c) Con riferimento all’attività discrezionale e vincolata: mancato rispetto delle norme sulla competenza,
indipendentemente dal fatto che il contenuto potesse essere o meno diverso da quello in concreto adottato;
d) Con riferimento all’attività vincolata debbono ricorrere 2 requisiti: violazione di una norma di azione sulla forma o sul
procedimento e prova che il contenuto del provvedimento avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato.
11. I vizi di legittimità del provvedimento amministrativo
I vizi di legittimità degli atti amministrativi, e cioè le concrete cause dell’illegittimità degli stessi, sono: l’incompetenza, la
violazione di legge e l’eccesso di potere.
L’analisi dei vizi va condotta tenendo conto che essi conseguono alla violazione delle norme di azione e delle disposizioni che
attengono alla modalità di esercizio di un potere.
Si suole denominare incompetenza il vizio che consegue alla violazione della norma di azione (leggi, oppure regolamenti o
statuti) che definisce la competenza dell’organo e cioè, il quantum di funzioni spettante all’organo. A tale vizio non si applica
l’art. 21 octies l. 241/90. Non dà pertanto luogo al vizio di incompetenza la violazione di una norma di relazione attinente
all’elemento soggettivo: in tal caso (definito in dottrina come “incompetenza assoluta”, contrapponendola alla
“incompetenza relativa” che consegue alla violazione di norme di azione), l’atto sarà addirittura nullo per carenza di potere.
L’incompetenza può aversi per materia, per valore, per grado o per territorio; quest’ultima si ha allorché un organo eserciti
una competenza di un altro organo dello stesso ente che disponga però di una diversa competenza territoriale (ad esempio un
prefetto che invade la competenza di un altro prefetto).
Il vizio di violazione di legge sussiste allorché si violi una qualsiasi altra norma di azione generale e astratta che non attenga
alla competenza e sempre che, in caso di attività vincolata, non trovi applicazione l’art. 21 octies, l. 241/90. Il vizio ricorre in
tutti i casi in cui sia violata una norma d’azione, indipendentemente dal fatto che essa sia contenuta nella legge in senso
formale, ovvero in altra fonte.
Dal punto di vista contenutistico la violazione di legge abbraccia moltissime situazioni: in particolare sono assai importanti le
violazioni procedimentali, i vizi di forma, la carenza di presupposti fissati dalla legge e la violazione delle norme sulla
formazione della volontà collegiale. La violazione di legge può ricorrere sia nel caso di mancata applicazione della norma, sia
nell’ipotesi di falsa applicazione della stessa.
Ai fini della sua validità, il provvedimento deve essere adottato da organi amministrativi composti da soggetti che, rispetto alla
questione decisa, non abbiano interessi tali da compromettere, anche potenzialmente, la possibilità di una decisione
imparziale. Ai sensi dell’art. 6 bis, l. 241/1990, il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare
i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di
interessi, segnalando ogni situazione di conflitto.
Il vizio di eccesso di potere è il risvolto patologico della discrezionalità. Esso sussiste dunque quando la facoltà di scelta
spettante all’amministrazione non è correttamente esercitata. L’eccesso di potere nasce dalla violazione di quelle prescrizioni
che presiedono allo svolgimento della funzione che non sono ravvisabili in via preventiva e astratta. Tali regole si sostanziano
nel principio di logicità-congruità applicato al caso concreto e la loro violazione è evidenziata dal giudice amministrativo in
occasione del sindacato dell’eccesso di potere.
Il giudizio di logicità-congruità va effettuato tenendo conto dell’interesse primario da perseguire, degli interessi secondari
coinvolti e della situazione di fatto. Il principio di logicità-congruità racchiude altresì quello di proporzionalità, il quale, a
sua volta, è pure presente nell’ordinamento dell’Unione europea e, come tale, viene richiamato da parte della giurisprudenza
quale parametro di legittimità di alcuni atti amministrativi delle autorità nazionali, precisamente di quelli che impongono
restrizioni alle libertà tutelate dal diritto dell’Unione europea. Eccesso di potere non significa straripamento di potere, che
darebbe luogo a nullità dell’atto.
L’eccesso di potere è predicabile soltanto con riferimento agli atti discrezionali; un sindacato di congruità e di ragionevolezza
delle valutazioni operate è compiuto dal giudice amministrativo anche con riferimento alla c.d. discrezionalità tecnica, nel
senso di ritenere illegittima la valutazione di un presupposto che sia manifestamente illogica.
Classica forma dell’eccesso di potere è lo sviamento, che ricorre allorché l’amministrazione persegua un fine differente da
quello per il quale il potere le era stato conferito. La giurisprudenza ha poi elaborato una serie di figure, dette figure
sintomatiche, le quali sono il sintomo del non corretto esercizio del potere in vista del suo fine. Esse agevolano il compito
dell’interprete, perché forniscono una sorta di catalogo delle situazioni in cui l’atto può risultare viziato per eccesso di potere.
Le figure sintomatiche si distinguono in: violazione della prassi; manifesta ingiustizia (sproporzione tra sanzione e illecito),
contraddittorietà tra più parti dello stesso atto (tra dispositivo e preambolo o motivazione) o tra più atti (ad esempio una
sanzione inflitta ad un militare subito dopo la redazione di note informative favorevoli); disparità di trattamento tra
situazioni simili; travisamento dei fatti (si assume a presupposto dell’agire una situazione che non sussiste in realtà),
incompletezza e difetto dell’istruttoria; inosservanza dei limiti, dei parametri di riferimento e dei criteri prefissati per lo
svolgimento futuro dell’azione.
Più in particolare, ricorre eccesso di potere allorché la motivazione sia insufficiente, incongrua, contraddittoria, apodittica,
dubbiosa, illogica e perplessa. In tali ipotesi si parla di difetto di motivazione. L’assenza di motivazione (altrimenti detta
carenza di motivazione) dà luogo al vizio di violazione di legge, atteso che la motivazione è obbligatoria, ex art. 3, l.
241/1990.
Costituiscono figure di eccesso di potere anche le violazioni di circolari, di ordini e di istruzioni di servizio e il mancato
rispetto della prassi amministrativa; tali fatti e atti non pongono norme giuridiche: in caso contrario la loro violazione darebbe
luogo a violazione di legge.
La circolare è un atto non avente carattere normativo mediante la quale l’amministrazione fornisce indicazioni in via generale
ed astratta in ordine alle modalità con cui dovranno comportarsi in futuro i propri dipendenti e i propri uffici; essa ha efficacia
solo interna all’amministrazione, ma non ha rilevanza determinante nella genesi dei provvedimenti e non produce effetti
direttamente in capo ai cittadini i quali, infatti, non possono impugnarla autonomamente. Esistono inoltre circolari
intersoggettive, indirizzate a enti diversi dall’autorità emanante, spesso in funzione di coordinamento.
La prassi amministrativa è il comportamento costantemente tenuto da un’amministrazione nell’esercizio di un potere. Non si
tratta di una fonte del diritto (tale qualifica spetta alla consuetudine). L’inosservanza della prassi non dà luogo a violazione di
legge, ma può essere sintomo, se non sorretta da adeguata motivazione, di eccesso di potere.
Circa le norme interne, nei limiti in cui esse esistano e siano autonome rispetto a quelle poste da circolari, si può dire che si
tratta di norme non operanti per l’ordinamento generale, non aventi la natura di norme giuridiche e destinate a disciplinare
soltanto i rapporti interni, sicché la loro violazione non dà luogo al vizio di violazione di legge, ma al più è sintomo di potere.
12. La motivazione di provvedimenti e atti amministrativi
Un importante requisito di validità, comune ad atti provvedimentali e ad alcuni non provvedimentali, è la motivazione.
Nel nostro ordinamento non era stabilito un dovere generale di motivazione degli atti amministrativi e alla dottrina e
giurisprudenza spettava il compito di individuare quali atti dovessero essere motivati e quale fosse il contenuto della
motivazione e quali invece non necessitavano di motivazione. Questo dovere è stato introdotto dall’art. 3.1, l. 241/1990,
secondo cui “ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo
svolgimento dei pubblici concorsi e il personale, deve essere motivato”. Fanno eccezione gli atti normativi e gli atti a
contenuto generale (art. 3.2). La motivazione deve inoltre indicare “i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno
determinato la decisione amministrativa, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”.
La legge raggruppa in un’unica definizione sia ciò che parte della dottrina qualificava in precedenza come motivazione in
senso stretto (vale a dire l’indicazione dei motivi) sia la c.d. giustificazione (vale a dire l’indicazione dei presupposti
dell’agire), sicché anche i provvedimenti vincolati devono essere motivati. In ogni caso la motivazione dovrebbe esprimere
sostanzialmente l’interesse pubblico che ha guidato l’azione dell’amministrazione e non limitarsi a indicare formalmente
norme e fatti.
Ai sensi dell’art. 3, l. 241/90, il dovere di motivare è soddisfatto se il provvedimento richiama altro atto che contenga esplicita
motivazione e questo sia reso disponibile (motivazione per relationem). Secondo parte della giurisprudenza, è sufficiente che
il provvedimento richiamato sia reso disponibile, vale a dire che sia suscettibile di essere acquisito utilizzando l’istituto
dell’accesso.
Se l’obbligo di motivazione ex art. 3 riguarda i soli provvedimenti, ciò non significa che gli atti amministrativi non
provvedimentali non debbano essere motivati. Riguardo ad essi la legge nulla dice in merito, perciò paiono ammissibili atti
non provvedimentali non motivati, anche se mancando la motivazione non può operare a fondo un controllo sull’operato della
pubblica amministrazione. Ad esempio, secondo il Cons. stato non andrebbe motivata l’attribuzione del punteggio nei
concorsi pubblici poiché si tratta di mera attività di giudizio e non provvedimentale e il voto numerico, in ogni caso, sintetizza
il giudizio. La differenza fra atti provvedimentali e atti non provvedimentali, per quanto attiene all’obbligo di motivazione,
risulta coerente con la distinzione fra le due categorie di atti in ordine agli effetti giuridici: solo dai primi scaturiscono effetti
rilevanti sul piano dell’ordinamento generale, consistenti nella modificazione, costituzione o estinzione di situazioni
giuridiche soggettive. L’eventuale motivazione di atti non provvedimentali ha un diverso significato giuridico: essa esplicita
all’esterno la congruità di scelte, valutazioni o determinazioni che non coinvolgono direttamente situazioni giuridiche, avendo
un esclusivo rilievo infraprocedimentale.
Se la legge ha risolto il problema del “se” motivare (la carenza di motivazione configura oggi violazione di legge), rimane
aperta la questione del “come” motivare: la motivazione, oltre che esistente, deve risultare sufficiente per sottrarsi alle censure
di eccesso di potere, chiarendo i fatti che giustificano la decisione amministrativa adottata. In particolare, l’amministrazione
dovrà motivare se disattende le rappresentazioni dei privati interessati, e deve dar conto delle risultanze istruttorie. Da questo
punto di vista si giustifica l’esclusione del dovere di motivare per gli atti normativi e per quelli amministrativi generali.
L’esclusione del dovere di motivazione degli atti a contenuto generale non impedisce che, quando in essi siano contenute
clausole specifiche di peculiare applicazione, queste possono essere considerate provvedimentali, e quindi debbano essere
motivate. Ciò significa che è pur sempre necessaria un’attenta interpretazione dell’atto stesso.
13. I vizi di merito
Il merito amministrativo è l’insieme delle soluzioni compatibili con il canone della congruità-logicità che regola l’azione
discrezionale, distinguibili e graduabili tra di loro soltanto utilizzando i criteri di opportunità e convenienza.
L’illegittimità per vizi di merito si verifica nei casi in cui la scelta discrezionale configge con tali criteri non giuridici.
L’inopportunità del provvedimento è irrilevante, nel senso che la legge si limita a richiedere che la scelta discrezionale sia
legittima alla stregua del canone di congruità-logicità, ossia non risulti viziata per eccesso di potere: ciò è coerente con
l’esigenza di rispettare la sfera di azione dell’amministrazione. Talora, tuttavia, l’inopportunità assume rilevanza perché
l’ordinamento prevede la sua sindacabilità, e, dunque, la sostituzione della valutazione di un terzo a quella compiuta
dall’amministrazione. I mezzi predisposti sono: il controllo di merito, gli interventi in via di autotutela, i ricorsi amministrativi
e i ricorsi giurisdizionali nell’ambito della giurisdizione di merito.
Il regime dell’atto viziato per vizi di merito è considerato l’annullabilità. La l. 241/1990, nel disciplinare l’annullamento
d’ufficio, ammette l’annullabilità dei soli atti illegittimi. Ai sensi dell’art. 21 quinquies, è revocabile il provvedimento a
seguito di una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario.
14. Procedimenti di riesame dell’atto illegittimo: conferma, annullamento, riforma, convalida
I provvedimenti c.d. di “secondo grado” sono caratterizzati dal fatto di essere espressione di autotutela e di avere ad oggetto
altri e precedenti provvedimenti amministrativi o fatti equipollenti. Si distinguono in particolare: poteri di riesame, sotto il
profilo della validità, di precedenti provvedimenti o di fatti equipollenti (silenzio significativo); poteri di revisione, incidenti
sull’efficacia e sull’esecuzione di precedenti atti.
Il procedimento di riesame può avere esiti differenti: conferma della legittimità, riscontro dell’illegittimità dell’atto, riscontro
dell’illegittimità non sanabile dello stesso. Indipendentemente dalla misura adottata, l’amministrazione deve comunque dare
conto in ogni caso della sussistenza di un interesse pubblico specifico che la giustifichi: l’autotutela è infatti pur sempre
esercizio di amministrazione attiva e rivolta alla tutela di un interesse pubblico.
Il provvedimento che viene adottato allorché l’amministrazione verifichi l’insussistenza dei vizi nell’atto sottoposto a riesame
viene tradizionalmente definito come conferma o atto confermativo.
All’atto confermativo in senso proprio può essere accostato il rifiuto preliminare: trattasi del rifiuto di porre in essere un
procedimento che costituisca esercizio della funzione; tale atto, non impugnabile, consegue ad un’attività preliminare volta
alla verifica dell’esistenza dei presupposti dell’esercizio del potere. Simile al rifiuto preliminare è il silenzio non significativo
serbato su di una istanza in ordine alla quale non sussiste l’obbligo di provvedere. Ai sensi dell’art. 2, l. 241/1990, le
amministrazioni, se ravvisano la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda,
concludono il procedimento con un provvedimento espresso in forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un
sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo.
Il rifiuto preliminare si distingue infine dal provvedimento di rifiuto dell’atto richiesto dal cittadino, che costituisce esercizio
di un potere e, in quanto tale, è impugnabile.
L’annullamento d’ufficio (o annullamento in sede di autotutela) è il provvedimento, espressione di un potere generale,
mediante il quale si elimina un atto invalido e vengono rimossi ex tunc (ossia retroattivamente, a partire dal momento
dell’emanazione) gli effetti prodotti, ancorché questi consistano nella costituzione di un diritto soggettivo in capo al
destinatario.
Ai sensi dell’art. 21 nonies, c.1, l. 241/1990 il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d’ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal
momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, e tenendo conto degli
interessi dei destinatari e dei controinteressati. A differenza dell’annullamento posto in essere dal giudice amministrativo, che
è previsto in vista della tutela delle situazioni giuridiche dei privati, l’annullamento d’ufficio ha la funzione di tutelare
l’interesse pubblico: il rilievo concorre a spiegare perché, accanto alla illegittimità dell’atto, occorra anche la sussistenza di un
interesse pubblico che giustifichi l’eliminazione dell’atto medesimo e dei suoi effetti.
Il potere è esercitabile d’ufficio ma, nella prassi, è spesso preceduto dall’invito all’autotutela da parte del privato: tale istituto
è molto importante anche ai fini dell’azionabilità della pretesa risarcitoria. Ai sensi dell’art. 21 nonies, rimangono ferme le
responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo. Questa norma, sottolineando la
responsabilità in cui potrebbe incorrere il soggetto che non annulli, sembra rafforzare il carattere doveroso dell’annullamento
che potrebbe presupporre un dovere di attivarsi a fronte di un’istanza di autotutela.
Vanno poi individuate alcune situazioni in cui l’annullamento sarebbe doveroso, quindi non discrezionale, ed indipendente
dalla valutazione di interessi pubblici e privati, assumendo caratteri assai prossimi all’esercizio della funzione di controllo.
Ai sensi dell’art. 62, d.lgs. 174/2016, codice della giustizia contabile, la P.A. che denunci alla procura contabile un fatto che
possa aver dato luogo a responsabilità erariale deve porre in essere tutte le iniziative necessarie ad evitare l’aggravamento del
danno, intervenendo ove possibile in via di autotutela o comunque adottando gli atti amministrativi necessari a evitare la
continuazione dell’illecito e determinarne la cessazione.
I presupposti per esercitare il potere di annullamento d’ufficio sono costituiti dall’illegittimità del provvedimento e dalla
sussistenza di ragioni di interesse pubblico. Pertanto l’amministrazione deve valutare se l’eliminazione del provvedimento
invalido sia conforme con l’interesse pubblico, anche tenendo conto degli interessi nel frattempo sorti sia in capo ai privati che
sul provvedimento abbiano fatto affidamento, sia in capo ai controinteressati.
La legge esclude che possa essere annullato un atto al quale si applichi l’art. 21 octies, c. 2, l. 241/1990. Ciò significa che per
il provvedimento vincolato, il vizio di forma è posto al riparo dall’annullamento dell’amministrazione. Strutturalmente diverso
dall’annullamento in via di autotutela è la verifica d’ufficio e in via di autotutela della nullità di un proprio precedente
provvedimento al fine di non dar corso ai relativi effetti: tale atto, di accertamento, non avrebbe carattere autoritativo e
presuppone un atto non già illegittimo, ma nullo.
L’annullamento va posto in essere entro un termine ragionevole, decorso il quale i suoi effetti vanno comunque considerati
consolidati: è questa un’ulteriore applicazione del principio della tutela del legittimo affidamento. Il termine non può essere
superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi
economici: per questa categoria di atti, rileva il valore della stabilità del rapporto con l’amministrazione e il principio
dell’affidamento. Scaduto il termine, è da ritenersi consumato il potere, sicché l’amministrazione non può provvedere
tardivamente.
L’affidamento che giustifica la limitazione temporale del potere di annullare esiste soltanto in caso di buona fede. Dispone,
infatti, l’art. 21 nonies che i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di
dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato,
possono essere annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi.
Dalla lettera dell’art. 21 nonies è altresì possibile ricavare, tra annullamento e convalida, una preferenza per la convalida.
Il potere di annullamento può essere dunque esercitato entro un termine ragionevole. L’eccessivo decorso del tempo,
rapportato all’affidamento ingenerato nei terzi, può dunque causare l’illegittimità del relativo atto. In questa ipotesi ricorre la
figura della convalescenza dell’atto per decorso del tempo la quale impedisce appunto l’annullamento d’ufficio di atti
illegittimi qualora essi abbiano prodotto i loro effetti per un periodo adeguatamente lungo.
Si noti che la produzione degli effetti retroattivi dell’annullamento potrebbe essere impedita dall’esistenza di situazioni già
consolidate non suscettibili di rimozione o la cui rimozione confliggerebbe con il principio di buona fede o di affidamento
ingenerato in capo a chi, sul presupposto della legittimità dell’atto, vi abbia dato esecuzione. L’affermazione tradizionale
secondo cui l’annullamento comporta sempre l’eliminazione dell’atto con efficacia ex tunc va oggi rivisitata, atteso che
l’annullamento è ammesso anche nei confronti del silenzio-assenso, figura in cui un provvedimento non ricorre.
In dottrina si sostiene che l’amministrazione potrebbe limitare o graduare gli effetti retroattivi. Questa tesi pare trovare
conferma nella sentenza del Cons. Stato, sez. VI, n. 2755/2011 che, a livello di obiter dictum, chiarisce che la disciplina
sostanziale non dispone “l’inevitabilità della retroattività degli effetti dell’annullamento di un atto in sede amministrativa…”.
Si deve osservare che, secondo la Cassazione, l’annullamento d’ufficio di un provvedimento favorevole potrebbe aprire la via
del risarcimento a favore del soggetto che abbia fatto affidamento su quell’atto.
Discussa è la sorte degli atti che seguono il provvedimento annullato e di cui lo stesso costituisce il presupposto: sicuramente
essi sono affetti da illegittimità derivata. Secondo un indirizzo giurisprudenziale e dottrinale la caducazione dell’atto
presupposto determinerebbe l’automatica caducazione degli atti consequenziali. Il potere di annullamento spetta all’organo
che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge.
L’ordinamento prevede poi il potere del governo di procedere in ogni tempo all’annullamento degli atti di ogni
amministrazione. Tale possibilità rispecchia la posizione del governo che si colloca al vertice dell’apparato amministrativo. Il
potere in esame ha carattere straordinario e può essere esercitato a tutela dell’unità dell’ordinamento, sicché non è sufficiente
qualsiasi illegittimità, ma occorre un vizio particolarmente grave dell’atto la cui permanenza in vita sia giudicata
incompatibile con il sistema nel suo complesso e non già con i soli interessi della P.A. che lo ha emanato.
Ove la parte annullata sia sostituita da altro contenuto si ha la figura della riforma, avente efficacia ex nunc. Questa è la
riforma “sostitutiva”; esiste altresì la riforma “aggiuntiva”, che consiste nell’introduzione di ulteriori contenuti a quello
originario. Ai sensi dell’art. 14.3, d.lgs. 165/2001, il ministro non può riformare i provvedimenti dei dirigenti.
La convalida è un provvedimento di riesame a contenuto conservativo: ai sensi dell’art. 21 nonies, l. 241/90,
l’amministrazione ha la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico
ed entro un termine ragionevole. Il relativo potere è applicazione del principio di conservazione degli atti giuridici.
L’amministrazione rimuove il vizio che inficia il provvedimento di primo grado e pone in essere una dichiarazione che
espressamente riconosce il vizio ed esprime la volontà di eliminarlo, sempreché tale vizio sia suscettibile di essere rimosso.
Gli effetti della convalida retroagiscono al momento dell’emanazione dell’atto convalidato.
Dalla convalida si distingue la sanatoria in senso stretto, la quale ricorre allorché il vizio dipende dalla mancanza, nel corso
del procedimento, di un atto endoprocedimentale la cui adozione spetta a soggetto diverso dall’amministrazione competente
ad emanare il provvedimento finale. L’atto può essere sanato da un provvedimento tardivo che dà luogo a una sostanziale
inversione dell’ordine procedimentale.
15. Conversione, inoppugnabilità, acquiescenza, ratifica, rettifica e rinnovazione del provvedimento
La conversione è istituto che riguarda gli atti nulli: in luogo dell’atto nullo è da considerare esistente un differente atto, purché
sussistano tutti i requisiti di questo e risulti che l’agente avrebbe voluto il secondo atto ove fosse stato a conoscenza del
mancato venire in essere del primo. Essa opera ex tunc in base al principio della conservazione dei valori giuridici. Si ammette
talora in dottrina e in giurisprudenza la possibilità della conversione anche in atti annullabili. In tali casi si verifica in realtà un
fenomeno più complesso, costituito dall’annullamento dell’atto originario e dalla conseguente caducazione dei suoi effetti e
dalla sostituzione con altro atto di cui sussistono nel primo tutti i requisiti.
L’inoppugnabilità è la condizione in cui l’atto viene a trovarsi ove siano decorsi i termini per impugnarlo. L’atto
inoppugnabile va distinto da quello convalidato: l’inoppugnabilità comporta l’inattaccabilità dell’atto, ma la differenza deriva
dal fatto che la figura opera solo sul piano giustiziale; di conseguenza l’atto inoppugnabile è pur sempre annullabile d’ufficio e
disapplicabile dal giudice ordinario. L’inoppugnabilità stabilizza e sterilizza la situazione nella logica della certezza del
diritto.
L’acquiescenza è l’accettazione spontanea e volontaria, da parte di chi potrebbe impugnarlo, delle conseguenze dell’atto e,
quindi, della situazione da esso determinata. Il comportamento acquiescente deve desumersi da fatti univoci, chiari e
concordanti; esso presuppone la conoscenza del provvedimento e, pur in presenza di alcune decisioni giurisprudenziali in
senso contrario, l’avvenuta sua emanazione. L’acquiescenza, a differenza della convalida, non produce effetti erga omnes:
essa osta infatti alla proposizione del ricorso amministrativo o giurisdizionale da parte del solo soggetto che l’ha prestata.
Essa opera inoltre sul piano processuale, pur derivando da comportamenti posti in essere prima del processo, e si differenzia
dalla rinuncia in quanto richiede un comportamento attivo incompatibile con la proposizione del ricorso.
Ancora differente è l’istituto della ratifica, che ricorre allorché sussista una legittimazione straordinaria di un organo ad
emanare a titolo provvisorio e in una situazione d’urgenza un provvedimento che rientra nella competenza di un altro organo,
il quale, ratificando, fa proprio quel provvedimento originariamente legittimo.
Pure la rettifica non riguarda provvedimenti viziati, ma atti irregolari, e consiste nell’eliminazione dell’errore.
Infine, differente dalla convalida è la rinnovazione del provvedimento annullato che consiste nell’emanazione di un nuovo
atto, avente dunque effetti ex nunc, con la ripetizione della procedura a partire dall’atto endoprocedimentale viziato.
16. L’efficacia del provvedimento amministrativo: limiti spaziali e limiti temporali
I provvedimenti che producano effetti si chiamano efficaci; di norma, salvo che non venga disposta la sospensione o il
differimento dell’efficacia, i provvedimenti vanno eseguiti immediatamente dall’amministrazione o dal destinatario; allorché
sia necessario superare la mancata cooperazione del privato, tali atti possono essere portati a esecuzione direttamente
dall’amministrazione (esecutorietà).
La produzione degli effetti sul piano dell’ordinamento generale (efficacia: può essere costitutiva, dichiarativa, preclusiva) è
subordinata alla sussistenza di tutti gli elementi rilevanti per tale produzione, elementi che non coincidono necessariamente
con quelli di validità del provvedimento. In linea di massima, è efficace quel provvedimento che rispetta le condizioni di
esistenza dettate dall’ordinamento generale, salvo che l’ordinamento medesimo non stabilisca uno scollamento tra esistenza e
efficacia stabilendo ulteriori condizioni di efficacia.
L’efficacia incontra limiti territoriali: essi corrispondono di norma a quelli di competenza dell’autorità; tuttavia non mancano
eccezioni, come nel caso del passaporto rilasciato dalla questura ed efficace su tutto il territorio nazionale.
L’efficacia del provvedimento può essere subordinata al compimento di determinate operazioni, al verificarsi di alcune
circostanze o all’emanazione di ulteriori atti rispetto all’adozione del provvedimento in sé. Solo a quel punto la fattispecie si
completa nel senso che risultano integrate tutte le circostanze che l’ordinamento ha previsto allorché possa prodursi l’effetto
sul piano dell’ordinamento generale. L’atto può essere perfetto ma non efficace, ovvero efficace ma annullabile, in quanto,
pur ricorrendo tutti i requisiti e gli elementi di efficacia, l’atto o il procedimento che lo precede non è conforme al paradigma
normativo.
L’efficacia del provvedimento incontra non solo limiti spaziali, ma anche temporali, nel senso che, pur sussistendo il
principio secondo cui gli atti di norma producono effetti al momento in cui sono venuti in essere, non mancano esempi di atti
ad efficacia differita o ad efficacia retroattiva. I primi sono quelli la cui operatività è subordinata al completarsi della
fattispecie operativa. Le circostanze, gli avvenimenti, le operazioni e i sub-procedimenti che condizionano l’efficacia del
provvedimento esistente sono stati già esaminati nel par. 13 del cap. VI quando sono stati analizzati gli atti della fase
“integrativa dell’efficacia”. Si tratta di alcune forme di pubblicità, degli atti di adesione dei privati, degli atti di controllo.
L’efficacia può essere sospesa e sussistono altre circostanze che del pari condizionano lo spiegarsi dell’efficacia (es. decorso
del termine iniziale di efficacia).
L’atto amministrativo è di regola irretroattivo; tuttavia si riconosce l’efficacia di alcuni atti prima del perfezionarsi della
fattispecie. Esistono atti, come quelli che incidono sulla fattispecie, retroattivi per natura (annullamento, annullamento
parziale, convalida). Al di fuori di queste ipotesi, la retroattività, in quanto mira a soddisfare un interesse del singolo, è
ammessa solo se l’atto produce effetti favorevoli per il destinatario e non sussistono controinteressati, ovvero se vi è il
consenso dell’interessato.
Diversa dalla retroattività è la retrodatazione, conferita ad atti adottati “ora per allora”, vale a dire a quegli atti che
l’amministrazione sarebbe stata tenuta ad emanare, ma che non sono stati adottati tempestivamente, dunque in un contesto
normativo o in una situazione di fatto differenti rispetto a quelli attuali: in altri termini, l’amministrazione procede a riportare
la decorrenza degli effetti dell’atto al momento in cui essi avrebbero dovuto dispiegarsi, anche se l’atto stesso è stato emanato
in seguito.
Sempre in tema di limiti temporali dell’efficacia, occorre poi distinguere tra atti ad efficacia istantanea (l’effetto si produce,
esaurendosi, in un dato momento e riguarda un singolo accadimento o fatto storico o un’isolata situazione) e atti ad efficacia
durevole o prolungata (è il caso dei piani urbanistici e delle concessioni di servizio e di alcune autorizzazioni) che attengono
ad una pluralità di comportamenti considerati come una categoria unitaria.
17. I procedimenti di revisione: sospensione, proroga, revoca e ritiro del provvedimento amministrativo
L’efficacia può essere condizionata anche dall’adozione di provvedimenti amministrativi posti in essere a conclusione di
procedimenti di secondo grado (c.d. procedimenti di revisione) ossia aventi ad oggetto altri provvedimenti o la loro efficacia.
A riguardo, una nozione rilevante è quella dell’eseguibilità, che consiste nella effettiva attitudine del provvedimento ad essere
eseguito. Il provvedimento è poi eseguito mediante l’esecuzione. Ai sensi dell’art. 21 quater, l. 241/1990, i provvedimenti
amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente, salvo che sia diversamente stabilito dalle legge o dal provvedimento
medesimo.
Tipico atto che incide sull’eseguibilità e sull’efficacia è la sospensione amministrativa, espressione di un potere generale di
autotutela. La sospensione è il provvedimento con il quale viene temporaneamente paralizzata l’eseguibilità o l’efficacia di un
provvedimento efficace, sia esso ampliativo o limitativo della sfera del destinatario. Il c. 2 della norma dispone che l’efficacia
ovvero l’esecuzione del provvedimento amministrativo può essere sospesa, per gravi ragioni e per il tempo strettamente
necessario, dallo stesso organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. Il termine della sospensione è
esplicitamente indicato nell’atto che la dispone e può essere prorogato o differito per una sola volta, nonché ridotto per
sopravvenute esigenze. La sospensione non può comunque essere disposta o perdurare oltre i termini per l’esercizio del potere
di annullamento.
La proroga è il provvedimento con cui si protrae ad un momento successivo il termine finale di efficacia di un provvedimento
durevole. La proroga in senso proprio va adottata prima della scadenza del provvedimento di primo grado. Ove sia emanata
successivamente si tratta in realtà di rinnovazione, la quale consiste in un nuovo atto, identico al precedente scaduto,
autonomamente impugnabile, la cui legittimità va valutata al momento della sua adozione.
La revoca è il provvedimento che fa venir meno la vigenza degli effetti di un atto a conclusione di un procedimento volto a
verificare se i risultati cui si è pervenuti attraverso il precedente provvedimento meritino di essere conservati. Ai sensi dell’art.
21 quinquies l. 241/1990, per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di
fatto o di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può
essere revocato. In dottrina si parla anche di revoca (chiamata anche decadenza) per indicare il provvedimento di natura
sanzionatoria che l’amministrazione pone in essere a seguito della violazione di un obbligo dell’interessato.
Alla radice del potere generale della revoca in senso proprio si profilano dunque più situazioni: può accadere che siano
sopravvenuti motivi di interesse pubblico o siano mutate le circostanze di fatto esistenti al momento dell’adozione del
provvedimento di primo grado sicché non appare conforme all’interesse pubblico il perdurare della sua vigenza, ovvero che
l’amministrazione valuti nuovamente la stessa situazione già oggetto di ponderazione al momento dell’adozione dell’atto di
primo grado.
La legge intende comunque rafforzare la posizione del privato: in primo luogo, se il privato ha ottenuto vantaggi economici o
autorizzazioni, quel ripensamento derivante da nuova valutazione non è possibile, nel senso che il provvedimento non è
revocabile per una nuova valutazione dell’interesse pubblico; in secondo luogo, il mutamento della situazione di fatto deve
essere non prevedibile al momento del rilascio del provvedimento favorevole; in terzo luogo, a fronte di eventuali pregiudizi, è
previsto un indennizzo.
La revoca, la quale incide sull’efficacia dell’atto e non sull’atto, è collegata al problema delle sopravvenienze che incidono
sull’efficacia di un atto legittimo, al principio della costante rispondenza dei rapporti amministrativi all’interesse pubblico e al
tema della tutela del legittimo affidamento del privato. La connessione con il tema della sopravvenienza e l’applicazione del
principio dell’irretroattività dei provvedimenti amministrativi spiegano perché essa abbia effetti ex nunc: ai sensi dell’art. 21
quinquies, la revoca determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti.
Se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l’amministrazione ha l’obbligo di provvedere
al loro indennizzo. Il c.1 bis si occupa della quantificazione dell’indennizzo con specifico riferimento ai casi in cui la revoca
di un atto a efficacia durevole o istantanea riguardi un atto originariamente non compatibile con l’interesse pubblico e incida
su rapporti negoziali.
L’indennizzo è parametrato al solo danno emergente, il che non significa che coincida con esso, potendo risultare inferiore; si
esclude comunque il lucro cessante, che può essere conseguito solo dimostrando la presenza di un illecito. L’indennizzo tiene
conto sia dell’eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell’atto amministrativo
all’interesse pubblico, sia dell’eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti alla “erronea valutazione della compatibilità
di tale atto con l’interesse pubblico”. Si può prospettare l’ipotesi di indennizzo liquidato a terzi che abbiano instaurato rapporti
con un concessionario e che risultino pregiudicati dalla revoca della concessione che pure direttamente non li riguarda ma che
è il presupposto dei contratti stipulati con il concessionario: la legge, infatti, al momento di individuare i beneficiari
dell’indennizzo, fa generico riferimento agli interessati e accenna al concorso di altri soggetti.
La competenza a disporre la revoca (che è atto recettizio: art. 21 bis) spetta all’organo che ha emanato l’atto, ovvero ad altro
previsto dalla legge.
Figura simile alla revoca è quella del recesso degli accordi, mentre differente è l’ipotesi disciplinata dall’art. 21 sexies, l.
241/1990, secondo cui il recesso unilaterale dai contratti della pubblica amministrazione è ammesso nei casi previsti dalla
legge o dal contratto.
Nella prassi amministrativa e nel linguaggio comune si parla di revoca anche per indicare la diversa ipotesi (definita in
dottrina rimozione o abrogazione) in cui con un provvedimento vincolato viene fatta cessare la permanenza della vigenza di
atti legittimi ad efficacia prolungata allorché venga meno uno dei presupposti specifici sul fondamento dei quali tali atti erano
stati emanati. La rimozione, che non esclude la revoca, ha efficacia a partire dal momento in cui si realizza la contrarietà al
diritto della perdurante vigenza dell’atto di primo grado.
Va infine ricordato che, ai sensi dell’art. 123 Cost., lo statuto delle regioni regola l’esercizio del referendum su
“provvedimenti amministrativi della regione”: l’esito del referendum può consistere nel ritiro del provvedimento con
efficacia ex nunc. Atteso che la nuova formulazione dell’art. 8, T.U. enti locali, non fa più riferimento al referendum
“consultivo” ma semplicemente al referendum, il ritiro degli atti amministrativi a seguito della celebrazione del referendum
può interessare anche gli atti degli enti locali. La dottrina e la giurisprudenza conoscono più in generale la figura del mero
ritiro dell’atto non efficace: esso potrebbe essere giustificato sia da motivi di legittimità, sia da motivi di inopportunità o da
fatti sopravvenuti.
18. Esecutività ed esecutorietà del provvedimento amministrativo
L’idoneità del provvedimento, legittimo o illegittimo, a produrre automaticamente ed immediatamente i propri effetti allorché
l’atto sia divenuto efficace è detta esecutività.
La l. 241/90 all’art. 21 quater indica con il termine “esecutività” il carattere dell’eseguibilità e, cioè, la sua idoneità non a
produrre effetti, ma ad essere eseguito senza necessità di precostituire titoli esecutivi giudiziari. La norma disciplina poi
l’esecuzione del provvedimento, stabilendo che, se efficace, esso va eseguito immediatamente, salvo che sia diversamente
stabilito dalla legge o dal provvedimento stesso, occupandosi poi della sua sospensione.
È indubbio che, talora, il provvedimento necessiti di esecuzione mediante adozione di attività materiali: con il termine
esecutorietà del provvedimento si indica quindi la possibilità che essa sia compiuta, in quanto espressione di autotutela,
direttamente e coattivamente dalla pubblica amministrazione, senza dover ricorrere previamente a un giudice.
Se il contenuto del provvedimento da portare ad esecuzione comporta la diretta incisione della sfera del soggetto e un obbligo
di dare o consegnare o comunque richiede un’attività esecutiva alla quale deve prestare la propria collaborazione il privato, a
fronte del suo rifiuto l’amministrazione può conseguire il risultato pratico. L’art. 21 ter l. 241/1990 dispone che, nei casi e con
le modalità stabiliti dalla legge, le pubbliche amministrazioni, previa diffida, possono imporre coattivamente
l’adempimento degli obblighi nei loro confronti; ciò avviene qualora l’obbligato non ottemperi spontaneamente nei termini,
ponendo in essere le operazioni e le attività materiali imposte dal provvedimento. Il riferimento alla diffida vale a introdurre
una sorta di procedimentalizzazione dell’esercizio del potere di esecutorietà: l’esecutorietà è rimessa alla scelta del soggetto
pubblico e, in caso di mancanza di determinazione in tal senso, l’attuazione del provvedimento potrà avvenire in sede
giurisdizionale.
La maggioranza dei provvedimenti non sono assistiti da una disciplina legislativa che espressamente preveda l’esecutorietà e
ciò può creare seri problemi per il corretto perseguimento dell’interesse pubblico in caso di mancata spontanea ottemperanza
da parte dei privati.
L’art. 21 ter, l. 241/1990, dispone altresì che il provvedimento costitutivo di obblighi indica il termine e le modalità
dell’esecuzione da parte del soggetto obbligato.
Molteplici sono i mezzi attraverso i quali l’esecutorietà si manifesta nel nostro ordinamento. Nell’ipotesi in cui il
provvedimento costituisca obblighi di fare infungibili, l’amministrazione può procedere alla coercizione diretta, se ammessa
dalla legge e se compatibile con i valori costituzionali, ovvero può minacciare e infliggere sanzioni per ottenere l’esecuzione
spontanea. Ove l’obbligo di fare consti di una prestazione fungibile può essere prevista l’esecuzione d’ufficio:
l’amministrazione esegue direttamente, con propri mezzi ma a spese del terzo, l’attività richiesta. Nei casi di obblighi di dare
relativi a somme di denaro, la legge contempla due ipotesi: l’esecuzione forzata territoriale tramite ruoli e, per quanto riguarda
le entrate patrimoniali, il procedimento caratterizzato dall’ingiunzione, che oggi non richiede più la vidimazione del giudice.
19. Gli accordi amministrativi. Osservazioni generali
È sempre fiorito in dottrina un dibattito, tuttora in corso, in ordine alla configurabilità di un contratto di diritto pubblico
stipulato tra amministrazione o tra amministrazione e privati, ovvero alla possibilità di qualificare come contratti di diritto
privato alcune fattispecie caratterizzate dall’attinenza a beni, servizi e funzioni pubbliche.
Le principali questioni che sono sorte in ordine all’ammissibilità della figura riguardano i profili soggettivi e oggettivi del
rapporto e alla natura dell’attività amministrativa. Sotto l’aspetto soggettivo, si dubitava dell’ammissibilità di un negozio tra
parti che si collocano su posizioni qualitativamente diverse e quindi non legittimate ad impiegare lo strumento contrattuale che
presuppone la parità tra di esse. Sotto il profilo oggettivo, si sosteneva che il carattere necessariamente imperativo e unilaterale
dell’azione pubblica impedisse all’amministrazione di agire a mezzo di contratto.
L’attuale normativa, e in particolare la l. 241/1990, consente che le amministrazioni pubbliche possano sempre concludere tra
loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune (art. 15, l. 241/1990). Inoltre, la
legge sul procedimento amministrativo, dispone all’art. 11 che “in accoglimento di osservazioni o proposte presentate a norma
dell’art. 10, l’amministrazione procedente può concludere senza pregiudizio dei diritti dei terzi e, in ogni caso, nel
perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del
provvedimento finale ovvero in sostituzione di questo”.
L’accordo si caratterizza per il necessario coinvolgimento di profili diversi da quelli patrimoniali, in particolare dell’esercizio
di potere amministrativo che, con formula descrittiva, viene qualificato come bene sottratto alla comune circolazione
giuridica. L’introduzione della figura dell’accordo di diritto amministrativo come forma differente dal provvedimento di
definizione del procedimento lascia insoluto il problema della sua qualificazione e impone di analizzarne la disciplina.
20. Gli accordi tra amministrazione e privati ex art. 11, l. 7 agosto 1990, n. 241
Due sono le tipologie di accordi tra amministrazione e privati: gli accordi sostitutivi di provvedimento e gli accordi
integrativi del provvedimento (determinativi del contenuto discrezionale del provvedimento stesso). Le differenze essenziali
in ordine alla disciplina tra i due modelli sono le seguenti: mentre l’accordo sostitutivo tiene luogo del provvedimento,
l’accordo determinativo del contenuto non elimina la necessità del provvedimento nel quale confluisce, sicché il procedimento
si conclude pur sempre con un classico provvedimento unilaterale produttivo di effetti, onde l’accordo ha effetti solo
interinali; inoltre, soltanto gli accordi sostitutivi sono soggetti ai medesimi controlli previsti per i provvedimenti, mentre nel
caso di accordi determinativi del contenuto discrezionale, il controllo, ove previsto, avrà ad oggetto il provvedimento finale.
Quanto alla possibile qualificazione di tali accordi come contratti, le maggiori perplessità in ordine a tale soluzione, pur
sostenuta da alcuni autori, nascono non tanto dalla circostanza che i negozi in esame hanno ad oggetto l’esercizio del potere,
quanto dall’incompatibilità del regime cui sono assoggettati con il modello civilistico di contratto. L’esercizio del potere dà
luogo all’emanazione di atti o di accordi, mentre ove agisca in modo non autoritativo, l’amministrazione è soggetta alle norme
di diritto privato di cui all’art. 1 bis l. 241/1990.
A differenza di quanto accade nelle fattispecie contrattuali, l’interesse affidato alla cura di una delle due parti (il soggetto
pubblico) assume all’interno dell’accordo un ruolo del tutto differente rispetto a quello del privato: l’accordo deve essere
stipulato “in ogni caso nel perseguimento dell’interesse pubblico” e “per sopravvenuti motivi di pubblico interesse
l’amministrazione recede unilateralmente dall’accordo”. La validità dell’accordo e la sua vincolatività sono subordinate alla
compatibilità con l’interesse pubblico, il quale ne diviene così elemento definitorio. La rilevanza dell’interesse pubblico
consente di qualificare l’accordo come atto appartenente al diritto pubblico, la cui stipulazione è preceduta da un’attività
pubblica dell’amministrazione e da un’attività del cittadino che rimane privata senza che ciò comporti una “privatizzazione”
dell’atto finale. Dall’esame dell’art. 11, l. 241/1990, la dottrina ha tratto numerosi ulteriori spunti a favore della tesi della
natura pubblica dell’accordo. L’accordo sostitutivo risulta assoggettato agli stessi controlli ai quali sarebbe sottoposto il
provvedimento. Dal punto di vista processuale, inoltre, l’art. 133, d.lgs. 104/2010, stabilisce la giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo in ordine alle controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi.
L’accordo si differenzia nettamente anche dai contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni.
Gli accordi debbono essere stipulati, a pena di nullità, per atto scritto, salvo che la legge disponga diversamente; essi debbono
essere motivati e le controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione sono riservate alla giurisdizione
esclusiva; l’amministrazione può recedere unilateralmente dall’accordo per sopravvenuti motivi di pubblico interesse
corrispondendo un indennizzo. Agli accordi si applicano, ove non diversamente previsto, i principi del codice civile in materia
di obbligazioni e contratti in quanto compatibili.
Per quanto riguarda il regime dell’accordo non conforme al paradigma normativo, esso non può prescindere dalla
qualificazione pubblicistica dell’accordo stesso, ma richiede altresì di considerare i principi civilistici cui la norma rinvia: le
regole sull’annullabilità del contratto sono applicabili alla formazione del consenso del cittadino, mentre appaiono
incompatibili con l’esercizio del potere amministrativo. Uno spazio importante per il rinvio ai principi civilistici si profila in
relazione alla disciplina del rapporto scaturente dall’accordo; sembra invece ammissibile il rinvio ai principi che impongono
alle parti di comportarsi secondo buona fede e, con riferimento alle situazioni in cui vi sia un inadempimento degli obblighi
assunti, a quelli in tema di risoluzione per inadempimento e per sopravvenuta impossibilità della prestazione, sempre facendo
salvo il criterio della compatibilità.
L’accordo è strettamente legato al tema della partecipazione: esso può infatti essere concluso “in accoglimento di osservazioni
e proposte” (art. 11.1, l. 241/1990). Ai sensi del c. 4 bis, a garanzia dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione
amministrativa, in tutti i casi in cui una pubblica amministrazione conclude accordi, la stipulazione è preceduta da una
determinazione dell’organo che sarebbe competente per l’adozione del provvedimento.
Si è detto che l’amministrazione può recedere unilateralmente dall’accordo, “salvo l’obbligo di provvedere alla liquidazione di
un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato”. Il recesso dall’accordo corrisponde in
parte alla revoca del provvedimento. Ai sensi dell’art. 11, il recesso è ammissibile soltanto per “sopravvenuti motivi di
interesse pubblico”, sicché si profila insufficiente, ai fini del legittimo recesso, una rinnovata valutazione dell’interesse
pubblico. Il processo è da configurare come “mezzo autoritativo di risoluzione del rapporto”, espressione del potere a fronte
del quale la posizione del privato si atteggia ad interesse legittimo, e incide, sciogliendoli, sui rapporti, piuttosto che sugli atti.
Analizziamo ora più da vicino i due modelli di accordo. L’accordo integrativo è un accordo endoprocedimentale destinato a
riversarsi nel provvedimento finale. Esso, ammissibile soltanto nelle ipotesi in cui il provvedimento sia discrezionale, fa
sorgere un vincolo fra le parti: in particolare l’amministrazione è tenuta ad emanare un provvedimento corrispondente al
tenore dell’accordo. In caso contrario il giudice amministrativo potrà dichiarare l’obbligo di provvedere. L’effetto finale è da
rapportare solo al provvedimento, soggetto al consueto regime pubblicistico, e unico atto impugnabile. Il provvedimento non è
revocabile, almeno per quella parte che corrisponde all’accordo, in ordine alla quale si può esercitare il potere di recesso. Più
complesso è il discorso riguardante l’accordo sostitutivo, in ordine al quale non è più necessaria (dopo le riforme del 2005)
la previsione di legge delle ipotesi in cui è possibile concluderlo: esso elimina la necessità di emanare un provvedimento.
L’accordo sostitutivo del provvedimento è soggetto ai medesimi controlli previsti per quest’ultimo; quanto alla norma
secondo cui l’accordo deve essere concluso “senza pregiudizio dei diritti di terzi”, va osservato che essa non limita l’efficacia
alle sole parti, in quanto l’accordo sostitutivo dovrebbe avere la stessa efficacia del provvedimento che sostituisce.
In conclusione si ribadisce che la indubbia accresciuta considerazione degli interessi dei privati, realizzata dalla recente
normativa sul procedimento amministrativo, non pare in grado di eliminare il carattere di necessaria preordinazione alla cura
degli interessi pubblici dell’azione amministrativa e la unilateralità della disposizione in ordine agli stessi. A conferma di ciò,
si ricordi che la stipulazione dell’accordo è preceduta da una determinazione dell’organo competente a emanare il
provvedimento, evidentemente anche con il fine di giustificare la rilevanza pubblicistica del negozio e la sua maggior
convenienza rispetto all’utilizzo dello strumento unilaterale.
Inoltre l’accordo sostitutivo è strumento che non elimina l’eventualità che il provvedimento sia emanato nel caso in cui
l’accordo stesso non venga stipulato.
21. I contratti di programma e gli accordi tra amministrazioni
Il termine “contratto di programma” può essere impiegato per indicare gli atti mediante i quali soggetti pubblici e privati
raggiungono intese mirate al conseguimento di obiettivi comuni. In questo senso il contratto di programma si contrappone
all’accordo di programma che, essendo un tipo di accordo tra amministrazioni, coinvolge soltanto soggetti pubblici. Spesso il
termine indica però il disciplinare relativo ad alcuni servizi.
Alla prima forma di contratti stipulati con privati, si accostano altre figure introdotte dalla recente normativa. In particolare la
l. 662/1996, recante la disciplina delle attività di programmazione negoziata che coinvolgono una molteplicità di soggetti
pubblici e privati, individua, quali strumenti specifici, le intese istituzionali di programma, gli accordi di programma
quadro, i patti territoriali, i contratti di programma e i contratti d’area.
La distinzione con gli accordi sostitutivi va rinvenuta nel fatto che, con riferimento alle figure di programmazione negoziata,
non è possibile individuare un provvedimento che venga sostituito mediante accordo. La differenza tra le due figure è tuttavia
più netta sul piano sostanziale: a differenza di quanto accade per gli accordi sostitutivi, legati alla partecipazione
procedimentale di un privato in situazione di soggezione, gli altri strumenti servono per concordare azioni comuni tra soggetti
sostanzialmente collocati sullo stesso piano e particolarmente qualificati. Si tratta di strumenti aventi finalità di coordinamento
tra più centri di potere tendenzialmente paritari e tra differenti processi decisionali.
Gli accordi tra amministrazioni sono impiegati come strumenti per concordare lo svolgimento di attività in comune in un
contesto in cui la frammentazione dei poteri richiede costantemente misure di raccordo e di semplificazione. Non a caso, la
norma che stabilisce il potere di concludere accordi tra le amministrazioni è inserita nel capo relativo alla semplificazione
procedimentale, a differenza di quella di cui all’art. 11, l. 241/1990, facente parte del capo sulla partecipazione al
procedimento. L’art. 15, l. 241/1990, prevede in generale che le amministrazioni pubbliche possano sempre concludere tra
loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune.
Per quanto attiene alla normativa concernente tale figura, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni dell’art. 11, cc. 2,
3 e 5 l. 241/1990. Un primo esempio di accordi è costituito dalle conferenze dei servizi le quali sono previste come accordo
sostitutivo di parti del procedimento caratterizzate dalla sussistenza di un interesse pubblico prevalente. Esistono però altri
esempi di accordi tra amministrazioni. Uno dei problemi principali che riguardano tali modelli negoziali attiene alle
conseguenze del dissenso espresso da una delle parti interessate. L’ordinamento prevede talora strumenti per superare siffatto
dissenso affidando in particolare allo Stato poteri sostitutivi da esercitarsi secondo modalità garantistiche in caso di mancato
raggiungimento dell’accordo.
Va poi operata una distinzione tra gli accordi che si inseriscono all’interno di un procedimento amministrativo che sfocia
nell’adozione di un formale atto finale e quelli che invece hanno una rilevanza autonoma: nella prima tipologia di accordi
l’ordinamento si preoccupa di prevedere strumenti per superare il mancato raggiungimento dell’intesa, atteso che esiste
un’amministrazione procedente titolare di un interesse primario, laddove nel secondo caso, allorché manchi
un’amministrazione titolare di un interesse primario, lo stallo va superato sul piano dei rapporti politici tra i due soggetti.
In altri termini, nel primo caso l’intesa è un momento della fase determinativa del contenuto del provvedimento; nella seconda
ipotesi, invece, l’accordo sintetizza l’atto tra soggetti pariordinati che produce effetti e che fissa direttamente il regolamento di
interessi.
Un delicato problema di confine, in materia di partenariato pubblico-pubblico, si pone tra la disciplina degli accordi di cui
all’art. 15, l. 241/1990 e quella degli appalti, di cui possono essere parti contraenti anche due amministrazioni: in linea di
principio, là dove la prestazione dedotta nell’accordo non sia qualificabile come appalto, trova applicazione il regime dettato
dalla stessa legge.
22. In particolare: gli accordi di programma
Particolari accordi tra amministrazioni, destinati ad essere approvati da un provvedimento amministrativo formale, sono gli
accordi di programma, dai quali derivano obblighi reciproci alle parti interessate e coinvolge nella realizzazione di
complessi interventi. La figura è prevista da molteplici normative, alcune delle quali ammettono tra l’altro il coinvolgimento
dei privati, ma trova un importante esempio di disciplina nell’art. 34 T.U. enti locali: “per la definizione e l’attuazione di
opere, interventi o di programmi di intervento che richiedono, per la loro completa realizzazione, l’adozione integrata e
coordinata di comuni, province e regioni, di amministrazioni statali e di altri soggetti pubblici, e comunque di due o più
soggetti predetti, il presidente della regione o il presidente della provincia o il sindaco, in relazione alla competenza primaria o
prevalente sull’opera o sugli interventi e programmi di intervento, promuove la conclusione di un accordo di programma,
anche su richiesta di uno o più soggetti interessati, per assicurare il coordinamento delle azioni e per determinare i tempi, le
modalità, il finanziamento ed ogni altro connesso adempimento”. Rispetto alla norma base di cui all’art. 15, l. 241/1990 gli
accordi di programma di cui al T.U. enti locali, si caratterizzano per la specificità dell’oggetto, per il carattere fortemente
discrezionale che li permea, e per il loro contenuto di regolamentazione dell’esercizio dei poteri delle amministrazioni
interessate, nonché per un notevole grado di dettaglio della disciplina cui sono assoggettati.
In particolare l’art. 34 T.U. enti locali, prevede la fase obbligatoria della conferenza dei servizi, convocata per verificare la
possibilità di raggiungere l’accordo, e si occupa dell’approvazione dell’accordo stesso, della possibilità che l’accordo preveda
procedimenti arbitrali e interventi surrogatori in caso di inadempienze, degli effetti dell’accordo, nonché della vigilanza sulla
sua esecuzione.
CAPITOLO VIII
OBBLIGAZIONI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E DIRITTO COMUNE
1. Il regime delle “obbligazioni pubbliche” tra diritto comune e deviazioni pubblicistiche
Contratto, fatto illecito, legge e altri fatti o atti di cui all’art. 1173 c.c. sono fonti di obbligazioni anche per la pubblica
amministrazione, che si trova nella medesima situazione in cui si colloca ogni altro soggetto dell’ordinamento.
Con riferimento alle obbligazioni a carico dell’amministrazione si parla talora in dottrina di obbligazioni pubbliche. Tale
accezione appare però ambigua atteso che le obbligazioni, comunque sorte, sono sottoposte alla disciplina privatistica.
Il termine obbligazioni pubbliche può dunque essere impiegato soltanto a fini descrittivi, per indicare cioè la natura pubblica
del soggetto alle quali si riferisce: esse gravano infatti sugli enti pubblici.
Esiste un ampio ventaglio di obbligazioni facenti capo all’amministrazione in forza di leggi, di contratti e di provvedimenti,
volte a fornire prestazioni o beni a favore del cittadino o della collettività. Da questo punto di vista, le obbligazioni in esame
vanno raggruppate non già in ragione della loro fonte, bensì sulla base del comune profilo contenutistico che le caratterizza.
La problematica si intreccia strettamente con il tema delle prestazioni pubbliche di cui si fa carico l’amministrazione nel
momento in cui garantisce un servizio pubblico.
2. I contratti della pubblica amministrazione
Gli enti pubblici godono della capacità giuridica di diritto privato e possono utilizzare gli strumenti di diritto comune (pure il
contratto) per svolgere la propria azione e per conseguire i propri fini. In particolare, l’amministrazione ha la capacità
giuridica di stipulare contratti di diritto privato, fatte salve le eccezioni stabilite dalla legge; essa, però, può agire utilizzando
gli strumenti privatistici soltanto nei casi in cui vi sia attinenza con le finalità pubbliche. L’attività contrattuale è disciplinata in
primo luogo dal diritto privato ma è altresì sottoposta a regole di diritto amministrativo.
Il contratto si differenzia nettamente dall’accordo in quanto è caratterizzato dall’irrilevanza dell’interesse pubblico in ordine al
regime di validità del negozio e dall’insensibilità del rapporto contrattuale nei confronti delle variazioni dell’interesse
dell’amministrazione parte contraente.
L’interesse pubblico rileva però con una serie di importanti conseguenze sul piano del procedimento che segna la formazione
della volontà dell’amministrazione: l’espressione “evidenza pubblica”, utilizzata per descrivere il procedimento
amministrativo che accompagna la conclusione dei contratti della pubblica amministrazione, indica appunto il fatto che questa
fase deve svolgersi in modo da esternare l’iter seguito dall’amministrazione, anche al fine di consentire il sindacato alla luce
del criterio della cura dell’interesse pubblico. Tale procedura è caratterizzata dalla presenza di atti amministrativi mediante i
quali l’amministrazione rende note le ragioni di pubblico interesse che giustificano in particolare l’intenzione di contrattare, la
scelta della controparte e la formazione del consenso.
Per quanto attiene alle commesse pubbliche, dal punto di vista dell’evoluzione nazionale della normativa vanno ricordate la l.
di contabilità dello Stato (r.d. 2440/1923), il relativo regolamento (r.d. 827/1924) e la legge di unificazione in materia di lavori
pubblici (l. 2248/1865). Attualmente trova applicazione il d.lgs. 50/2016 (abrogato il d.lgs. 163/2006) che è stato emanato
sulla base delle direttive 2014/23/UE sulle concessioni, 2014/24/UE in tema di appalti pubblici e 2014/25/UE sugli appalti nei
settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali. Disposizioni integrative e correttive sono state emanate con
d.lgs. 56/2017.
Si tratta di una disciplina (“codice dei contratti pubblici”) che recepisce le direttive europee e che al contempo opera il
“riordino” della disciplina sui contratti pubblici.
Gli appalti disciplinati dal codice dei contratti sono i c.d. contratti passivi (attraverso i quali l’amministrazione si procura
beni, servizi e forniture tali contratti comportano dunque l’erogazione di spese). Per quanto attiene ai c.d. contratti attivi,
mediante i quali l’amministrazione si procura entrate, essi sono considerati esclusi dall’ambito di applicazione del codice, ma
il loro affidamento deve avvenire secondo i principi di economicità, efficacia, imparzialità, trasparenza, pubblicità.
A fronte dell'abrogazione del precedente regolamento un ruolo rilevantissimo è stato riconosciuto soprattutto alle linee guida
emanate dall'Anac, alcune delle quali sono poi recepite da atti ministeriali. La loro violazione dà luogo all'irrogazione di
sanzioni, mentre ai sensi dell'Art 214 u.c., il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti può adottare linee guida interpretative
di indirizzo sentite le commissioni parlamentari, per assicurare l'uniforme applicazione e interpretazione delle norme del
codice.
La nuova disciplina mira a risolvere alcuni degli annosi problemi legati ai contratti pubblici in Italia, spesso causa di
corruzione, di spese incontrollate o stipulati a conclusione di procedure che non riescono a garantire una corretta competizione
tra le imprese. Ora vedremo le risposte che il d.lgs. 50/2016 ha inteso fornire.
Onde scongiurare il rischio dell’iper-regolazione, tra i principi e criteri direttivi espressamente indicati dalla legge delega vi è
quello del divieto di gold plating e, cioè, di introduzione di livelli di regolazione superiore a quelli minimi richiesti dalle
direttive.
Un ruolo essenziale, nella prospettiva della lotta alla corruzione, all'illegalità e ai fini della valorizzazione della trasparenza è
affidato all'Anac alla quale spettano, ai sensi dell'art. 213 d.lgs 50/2016, la vigilanza e il controllo sui contratti pubblici e
l'attività di regolazione degli stessi. Attraverso linee guida ed altri strumenti di regolazione flessibile, l’Anac garantisce la
promozione dell'efficienza della qualità dell'attività delle stazioni appaltanti cui fornisce supporto anche facilitando lo scambio
di informazioni e l'omogeneità dei procedimenti amministrativi.
L’Anac regola, vigila, sanziona, suggerisce soluzioni al legislatore e al governo, formula proposte, esercita poteri ispettivi
cautelari e di sospensione, segnala illeciti al giudice penale e al procuratore della Corte dei conti, elabora costi standard dei
lavori e prezzi di riferimento di beni e servizi, infine vigila sul divieto di affidamento dei contratti attraverso procedure diverse
da quelle ordinarie.
Di rilievo sono i poteri di vigilanza collaborativa per affidamenti di particolare interesse, previa stipula di protocolli d'intesa
con le stazioni appaltanti richiedenti, finalizzato a supportare le medesime nella predisposizione degli atti e nelle attività di
gestione dell'intera procedura di gara.
L’Anac, poi, gestisce il sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti e delle centrali di committenza, l'albo nazionale dei
componenti delle commissioni giudicatrici, il sistema del rating di impresa e delle relative premiabilità, la banca dati nazionale
dei Contratti Pubblici e il casellario informatico dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture.
Ai sensi dell'art. 211 (pareri di precontenzioso), su iniziativa di una delle parti, previo contraddittorio, l’Anac esprime
parere relativamente a questioni insorte durante lo svolgimento delle procedure di gara, entro trenta giorni dalla ricezione
della richiesta delle parti. Il parere, impugnabile dinanzi al giudice amministrativo, obbliga le parti ad attenersi a quanto in
esso stabilito. L'amministrazione dovrà agire in via di autotutela ove con il parere l'Anac abbia individuato illegittimità; il
concorrente dovrà astenersi da iniziative processuali se il parere riscontra la legittimità della procedura.
L'art. 211, poi, stabilisce che l'Anac, ove ritenga che una stazione appaltante abbia adottato un provvedimento viziato da gravi
violazioni del codice, emette entro 60 giorni dalla notizia della violazione, un parere motivato nel quale indica specificamente
i vizi di legittimità riscontrati. Il parere è trasmesso alla stazione appaltante e se questa non vi si conforma entro il termine
assegnato dall'Anac quest'ultima può presentare ricorso entro i successivi trenta giorni innanzi al giudice amministrativo. L'art
211, poi, dispone che l’Anac è legittimata ad impugnare bandi, altri atti generali e provvedimenti relativi a contratti di
rilevante impatto emessi da qualsiasi stazione appaltante, qualora ritenga che si violino le norme in materia di contratti
pubblici relativi a lavori servizi e forniture. Oltre a conferire questo ruolo centrale all'Anac, il d.lgs. 50/2016: valorizza i profili
della trasparenza nell'azione amministrativa, quelli di partecipazione quelli di programmazione della spesa (la disciplina va
completata guardando alla l. 190/2012 e al d.lgs. 33/2013, fonti attente alla trasparenza nel settore della scelta del contraente
per l'affidamento di lavori, servizi e forniture); allarga il numero dei contratti e degli strumenti che l'amministrazione può
utilizzare e quello delle procedure; valorizza i mezzi elettronici; incide sulla parte pubblica delle procedure introducendo il
meccanismo della qualificazione delle strutture delle stazioni appaltanti e favorendo l'aggregazione della domanda; ridisegna
la disciplina sui requisiti di partecipazione; considera gli appalti come leve per lo sviluppo; si preoccupa dei riflessi sociali e
ambientali dell'attività contrattuale; prevede istituti a favore delle piccole e medie imprese; introduce una disciplina organica
in materia di concessioni; ridefinisce criteri di aggiudicazione; ridisegna i margini entro cui è possibile il subentro soggettivo;
si occupa diffusamente di esecuzione.
Prima di analizzare nel dettaglio alcuni istituti, va aggiunto che la Costituzione non ricomprende la materia in esame tra quelle
rientranti nella potestà legislativa esclusiva statale o nella potestà legislativa concorrente.
La consulta, con la sent. n. 401/2007 ha salvato la gran parte delle disposizioni contenute nel precedente codice dei contratti
pubblici, riconducendo le stesse alla competenza statale in materia di tutela della concorrenza, inglobando nel concetto di
concorrenza sia gli interventi “per”, sia quelli “nel” mercato. Secondo la sent. 401 occorre registrare il definitivo superamento
della cosiddetta concezione contabilistica che qualificava tale normativa interna come posta esclusivamente nell'interesse
dell'amministrazione. Muta, dunque, il profilo funzionale dell'evidenza pubblica che, da disciplina posta a presidio delle
esigenze dell'interesse pubblico in vista della scelta del miglior contraente e del contenimento della spesa, diviene una
regolamentazione che protegge anche gli interessi delle imprese.
Accanto a questa prima matrice, nella disciplina dei contratti della PA si rinvengono peraltro altre anime: il codice, infatti,
all'art. 30 dispone che per quanto non espressamente previsto nel codice e negli atti attuativi, alle procedure di affidamento e
alle altre attività amministrative in materia di contratti pubblici, si applicano le disposizioni della l. 241/1990; alla stipula del
contratto e alla fase di esecuzione si applicano poi le disposizioni del codice civile.
Ai sensi dell'art. 2 d.lgs. 50/2016, il codice è esercizio della competenza legislativa esclusiva statale in materia di tutela della
concorrenza, nonché nelle altre materie cui è riconducibile lo specifico contratto. Nella prospettiva del risparmio di spesa, ma
anche tenendo conto della necessità che le procedure siano gestite da soggetti dotati di sufficienti capacità, la normativa (art. 9
d.l. 66/2014) prevede la figura dei soggetti aggregatori. Il d.l. 66/2014 impone l'obbligo per le amministrazioni statali centrali
e periferiche, nonché per le regioni, gli enti regionali, gli enti locali e per gli enti del servizio sanitario di ricorrere a Consip o
altri soggetti aggregatori per determinate categorie merceologiche ed entro certi importi. Le centrali, a favore di altre
amministrazioni, gestiscono convenzioni, sistemi dinamici di acquisizione, accordi quadro, mercato elettronici o, per
specifiche amministrazioni, gare su delega. Vi sono ulteriori norme che impongono l’adesione a convenzioni o di utilizzare
sistemi telematici messi a disposizione da Consip o da altre centrali di committenza per alcune categorie merceologiche.
Questa disciplina si caratterizza anche per la tipologia di conseguenze (nullità del contratto) prevista in caso di violazione
delle relative regole nonché per il fatto che sull'altare della convenienza economica viene sacrificata la stabilità del rapporto
contrattuale (ricorrendo talune condizioni, l'amministrazione può recedere dai contratti stipulati precedentemente). In tutti i
casi in cui non è presente una convenzione, costituiscono prezzo massimo di aggiudicazione i prezzi di riferimento pubblicati
dall’Autorità.
La disciplina è stata completata dal d.lgs. 50/2016 prevedendo, per acquisti superiori a una certa soglia, un sistema di
qualificazione delle stazioni appaltanti con riferimento a tutti i casi in cui l'amministrazione potrebbe agire autonomamente,
senza ricorrere a una centrale di committenza. Il sistema di qualificazione dovrebbe portare a una drastica riduzione delle
stazioni appaltanti legittimate a contrattare direttamente: esso interessa le stazioni appaltanti inserite in un elenco gestito da
Anac. Occorre intanto premettere che il codice fissa le soglie di rilevanza comunitaria (art. 35, d.lgs. 50/2016: euro
5.225.000 per gli appalti pubblici di lavori e per le concessioni, euro 135.000 per gli appalti pubblici di forniture, di servizi e
per i concorsi pubblici di progettazione aggiudicati dalle amministrazioni aggiudicatrici che sono autorità governati e così
via).
Ciò chiarito, sotto la soglia di euro 40.000 per servizi e forniture e quella di euro 150.000 per i lavori, l'amministrazione,
fermi restando gli obblighi di utilizzo di strumenti di acquisto e di negoziazione, anche telematici, può procedere
autonomamente senza necessità di essere qualificata. Sopra queste soglie occorre la qualificazione, sicché, sempre ammesso
che non si faccia ricorso agli strumenti di acquisto e di negoziazione anche telematici previsti dalla disposizione sulla
spending review, occorre distinguere:
- se l'amministrazione ha la qualificazione potrà procedere all'acquisto autonomo seguendo le regole che vedremo.
- se non dispone della qualificazione dovrà ricorrere a centrali di committenza o procedere ad aggregazioni con altre
stazioni appaltanti dotate di qualifica.
Quanto alle procedure da seguire per stipulare i contratti si riporta un sintetico riepilogo (schema pag. 629-630).
L'art 1 del codice individua il proprio campo di applicazione: esso si applica ai contratti di appalto e di concessione delle
amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori aventi ad oggetto l'acquisizione di servizi, forniture, lavori e opera,
nonché i concorsi pubblici di progettazione.
Gli appalti pubblici sono i contratti a titolo oneroso, stipulati per iscritto tra una o più stazioni appaltanti e uno o più operatori
economici, aventi per oggetto l'esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti e la prestazione di servizi.
Quelli di lavori hanno ad oggetto l'esecuzione di lavori relativi a una delle attività specificate in apposito allegato
(costruzione, demolizione, recupero ristrutturazione urbanistica ed edilizia); l'esecuzione, oppure la progettazione esecutiva e
l'esecuzione di un'opera, la realizzazione di un'opera corrispondente alle esigenze specificate dall'amministrazione
aggiudicatrice o dall' ente aggiudicatore che esercita un'influenza determinante sul tipo o sulla progettazione dell'opera.
La figura dell’appalto qui si distingue dal corrispondente contratto privatistico per la natura pubblica di uno dei due contraenti
e perché ha ad oggetto la realizzazione di opere pubbliche. È, in linea di principio, vietato il ricorso l'affidamento congiunto
della progettazione ed esecuzione di lavori (c.d. appalto integrato).
Gli appalti pubblici di servizi sono i contratti tra una o più stazioni appaltanti e uno più soggetti economici, aventi per oggetto
la prestazione di servizi diversi da quelli oggetto degli appalti di lavori. Tradizionalmente, la differenza tra un appalto di lavori
e un appalto di servizi è indicata nel fatto che soltanto nel primo caso vi è la trasformazione fisica delle res oggetto del
contratto. La distinzione tra un appalto di servizi e un appalto di forniture risiede invece nella circostanza che l'attività oggetto
del primo consiste in un facere e non in un dare.
Gli appalti pubblici di forniture, infatti, hanno per oggetto l'acquisto, la locazione finanziaria, la locazione o l’acquisto a
riscatto di prodotti. A differenza dell'istituto privatistico ex art 1655 c.c., pertanto, l'appalto è qui impiegato anche in una
ipotesi in cui ha ad oggetto non già il compimento di un'opera o di un servizio, bensì una fornitura (acquisto o locazione di un
bene mobile).
L'art. 1 indica, poi, ulteriori fattispecie che sono assoggettate alla disciplina del codice:
- la locazione finanziaria -> è un contratto avente ad oggetto la prestazione di servizi finanziari e l'esecuzione di
lavori, utilizzabile per la realizzazione, l'acquisizione e il completamento di opere pubbliche o di pubblica utilità.
- il contratto di disponibilità -> tramite esso affidate a un privato la costruzione e la messa a disposizione a favore
dell'amministrazione aggiudicatrice di un'opera di proprietà privata destinata all'esercizio di un pubblico servizio a
fronte di un corrispettivo.
- gli interventi di sussidiarietà orizzontale
- il baratto
- la cessione di immobili in cambio di opere
Il codice disciplina anche il partenariato pubblico-privato, definito come il contratto a titolo oneroso con il quale una o più
stazioni appaltanti conferiscono a uno o più operatori economici, per un periodo determinato in funzione della durata dell'
ammortamento dell'investimento o delle modalità di finanziamento fissate, un complesso di attività consistenti nella
realizzazione, trasformazione, manutenzione e gestione operativa di un'opera in cambio delle sue disponibilità, o del suo
sfruttamento economico, o della fornitura di un servizio connessa all'utilizzo dell'opera stessa, con assunzione di rischio da
parte dell'operatore. L'art 183 disciplina lo strumento della finanza di progetto (project financing): si tratta di una tecnica di
finanziamento per l'esecuzione delle opere pubbliche caratterizzata dal ricorso al finanziamento dei privati. Ricordato che è
stata disciplinata la possibilità di coinvolgere i privati nella programmazione delle opere pubbliche, la normativa prevede una
gara monofase, previo bando, per scegliere il promotore che propone il miglior progetto preliminare. A questo punto inizia
una fase di negoziazione con l'aggiudicatario: il progetto può essere modificato in base alle indicazioni della stazione
appaltante e in caso di mancato consenso l'amministrazione si rivolge concorrenti successivi in graduatoria. Si applica il
criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa e al fine di garantire la separazione finanziaria e giuridica dell'iniziativa,
l’art. 184 disciplina la figura della società di progetto che è una società di scopo che riceve il finanziamento, lo destina alla
realizzazione delle opere, incassa i ricavi di gestione e rimborsa i finanziatori.
Sono poi disciplinati la figura del contraente generale e la realizzazione delle infrastrutture e delle opere prioritari per lo
sviluppo del paese. Sono, invece, esclusi dall'ambito di applicazione gli affidamenti in house e gli accordi tra più
amministrazioni a condizione che sussistano alcune condizioni (esse sono: a) l'accordo stabilisce o realizza una cooperazione
tra amministrazioni aggiudicatrici e enti aggiudicatori partecipanti finalizzata a garantire che i servizi pubblici che essi sono
tenuti a svolgere siano prestati nell'ottica di conseguire gli obiettivi che essi hanno in comune; b) l’attuazione di tale
cooperazione è retta esclusivamente da considerazioni inerenti all’interesse pubblico; c) le amministrazioni aggiudicatrici e gli
enti aggiudicatori partecipanti svolgono sul mercato aperto meno del 20% delle attività interessate dalla cooperazione). Il
codice indica ulteriori e numerosi casi di esclusione: tra questi ricordiamo le concessioni nel settore idrico, alcune tipologie di
servizi legali. Vi è una clausola generale in forza della quale gli appalti relativi allo svolgimento di talune attività nei settori
speciali non sono soggetti al codice se l'attività è direttamente esposta alla concorrenza su mercati liberamente accessibili.
In ogni caso, l'affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, esclusi dall'ambito di
applicazione oggettivo del codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di
trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica.
Taluni aspetti di specifiche fattispecie sono disciplinati dal codice: è il caso delle opere pubbliche, previste dagli strumenti
o programmi urbanistici, realizzate a spese dei privati e dei contratti di sponsorizzazione. Si tratta di una figura con cui
l'amministrazione mira a ottenere un risparmio di spesa, mentre il privato sponsor punta alla valorizzazione del proprio
logo/marchio/immagine durante lo svolgimento di determinate attività, in cambio di dazione di denaro o accollo del debito o
altre modalità di assunzione del pagamento dei corrispettivi dovuti.
Gli appalti, ai sensi dell'art. 59, sono affidati mediante procedura aperta o ristretta previa pubblicazione di un bando o avviso
di indizione di gara. In casi tassativamente indicati possono essere utilizzati il partenariato per l'innovazione, la procedura
competitiva con negoziazione, il dialogo competitivo e la procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara
(queste procedure saranno esaminate nei paragrafi seguenti).
Il codice prevede l'obbligo per le stazioni appaltanti di trasmettere i bandi in via elettronica alla GUE E l'obbligo per gli
operatori economici di presentare le offerte in via elettronica. Va anche ricordata la direttiva 2014/55/UE sulla fatturazione
elettronica degli appalti.
2.1. Le principali scansioni del procedimento ad evidenza pubblica: la deliberazione di contrattare
Il codice, onde superare le asimmetrie informative che spesso affliggono le amministrazioni, ha introdotto una fase
preliminare facoltativa di consultazione preliminare di mercato, in vista della preparazione dell'appalto, dello svolgimento
della relativa procedura e per informare gli operatori economici degli appalti da essi programmati e dei requisiti relativi a
questi ultimi.
Un'altra evidente preoccupazione dell'ordinamento è quella di assicurare la trasparenza e la conoscibilità delle decisioni delle
stazioni appaltanti. L'art. 99 disciplina la relazione unica che, per gli appalti più importanti, le stazioni appaltanti devono
redigere fornendo le informazioni più rilevanti. La relazione va comunicata alla Cabina di regia per una successiva
comunicazione alla Commissione. La Cabina di regia è una struttura istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri:
essa si preoccupa dei rapporti con la Commissione europea e deve altresì promuovere accordi e intese per agevolare la
bancabilità delle opere pubbliche.
Assai rilevante è il principio di programmazione (art. 21). Si prevede un programma biennale obbligatorio per acquisti di
beni e servizi di importo unitario pari o superiore a € 40.000 e un programma triennale per lavori di importo pari o superiore a
€ 100.000, da redigere in coerenza con il bilancio e nel rispetto di documenti programmatori. Gli appalti riguardano spesso
interventi progettati dalle amministrazioni, al termine di un procedimento retto dalla l. 241/1990. Gli appalti relativi ai lavori
sono affidati ponendo a base di gara il progetto esecutivo. La progettazione in materia di lavori pubblici si articola in
progettazione di fattibilità tecnica ed economica (che individua quella migliore in relazione al rapporto tra costi e benefici
per la collettività), definitiva ed esecutiva.
La progettazione esecutiva può essere affidata congiuntamente all'esecuzione dei lavori sulla base del progetto definitivo (c.d.
appalto integrato) nei casi in cui l'elemento tecnologico o innovativo delle opere sia nettamente prevalente rispetto
all'importo complessivo dei lavori. Tale affidamento congiunto è poi consentito nei casi di affidamento a contraente generale,
finanza di progetto, affidamento in concessione, partenariato pubblico privato, contratto di disponibilità, nonché nelle
fattispecie di opere di urbanizzazione realizzate dai privati a scomputo.
Va ancora menzionato il valore della partecipazione. Ai sensi dell'art. 22, per alcune opere è obbligatorio il ricorso alla
procedura di dibattito pubblico, i cui esiti saranno discussi e considerati in sede di predisposizione del progetto. Il
procedimento di evidenza pubblica, volto ad assicurare l'imparzialità e la trasparenza nella scelta del miglior contraente, si
apre con la determinazione di contrattare (art. 32 d.lgs. 50/2016): tale atto, in coerenza con gli strumenti di
programmazione, determina il contenuto del contratto e la spesa prevista e individua altresì la modalità di scelta del
contraente. Le fasi del procedimento sono oggi fissate dall'art. 32 d.lgs. 163/2006, Codice dei Contratti pubblici. L'atto iniziale
della procedura deve essere conforme ai capitolati d'oneri predisposti dall'amministrazione. Tradizionalmente si distingue tra:
- capitolati generali -> definiscono le condizioni che possono applicarsi indistintamente a un determinato genere di
lavoro, appalto o contratto e le forme da seguirsi per le gare. La giurisprudenza afferma che i capitolati non hanno
carattere normativo, sicché la fonte della loro efficacia risiede nell’adesione ad essi prestata dalle parti.
- capitolati speciali (o d’oneri) -> dottrina e giurisprudenza affermano che non hanno carattere normativo. Essi
riguardano le condizioni che si riferiscono più in particolare all’oggetto proprio del contratto e pongono parte della
regolamentazione dello specifico rapporto contrattuale.
Le stazioni appaltanti possono richiedere requisiti particolari per l'esecuzione del contratto, purché siano compatibili con il
diritto europeo e con i principi di parità di trattamento, non discriminazione, proporzionalità, innovazione e siano precisate nel
bando di gara o nell'invito in caso di procedura senza bando o nel capitolato d'oneri.
La determinazione a contrattare e il progetto possono essere soggetti a controlli e pareri. Inoltre, sono considerati
tradizionalmente atti amministrativi interni, che non rilevano per i terzi e quindi non sono né impugnabili né revocabili.
Tuttavia, la giurisprudenza riconosce una posizione giuridica strumentale a quei terzi estranei alla trattativa privata che siano
interessati ad ottenere l’annullamento della determinazione di procedervi, onde giovarsi della successiva indizione di una gara
pubblica.
2.2. La scelta del contraente: le procedure (dal bando all’aggiudicazione)
La seconda fase del procedimento ad evidenza pubblica è costituita dalla scelta del contraente. Nella nostra tradizione, tra le
modalità con cui tale scelta può essere effettuata compaiono l’asta pubblica o la licitazione privata.
L’asta pubblica è il pubblico incanto aperto a tutti gli interessati che posseggano i requisiti fissati nel bando, mentre la
licitazione privata è la gara caratterizzata dal fatto che ad essa sono invitate a partecipare solo le ditte che, in base ad una
valutazione preliminare, sono ritenute idonee a concludere il contratto. Da quanto premesso, deriva che nell’asta pubblica e
nella licitazione privata l’amministrazione predefinisce compiutamente lo schema negoziale, lasciando in bianco il nome del
contraente e il prezzo, senza che il privato possa negoziare i contenuti del contratto.
Ai sensi dell’art. 3 r.d. 2440/1923 l’asta è obbligatoria per i contratti dai quali derivi un’entrata per lo stato (c.d. contratti
attivi), salvo che per circostanze e ragioni particolari non sia opportuno ricorrere alla licitazione.
Il d.lgs. 50/2016, informandosi alle indicazioni comunitarie, e relativamente ai contratti passivi, parla invece di procedura
aperta o ristretta previa pubblicazione di un bando o avviso di indizione di gara, di partenariato per l'innovazione, di procedura
competitiva con negoziazione, di dialogo competitivo e di procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di
gara.
Prima di descrivere le caratteristiche di queste procedure va ricordato che una fase importante è quella della preinformazione
con cui le stazioni appaltanti rendono nota entro il 31 dicembre di ogni anno l'intenzione di bandire per l'anno successivo
appalti, pubblicando un avviso sul proprio profilo di committente. Per le procedure ristrette e procedure competitive con
negoziazione, le amministrazioni aggiudicatrici sub-centrali possono però utilizzare l'avviso di preinformazione come mezzo
di indizione di gara purché l'avviso soddisfi alcune condizioni.
Abbiamo visto che numerose sono le procedure a disposizione delle stazioni appaltanti. La regola generale è quella secondo
cui le stazioni appaltanti scelgono tra procedure aperte e ristrette. Solo ove sussistano gli specifici requisiti indicati dal codice
è possibile ricorrere alle altre procedure. La struttura della gara, nelle due ipotesi più frequenti (procedura aperta e procedura
ristretta), è caratterizzata dalla presenza del bando di gara, nel primo caso, e, nel secondo, dell'invito indirizzato solo agli
interessati. Tali atti debbono indicare le caratteristiche del contratto, il tipo di procedura seguita per l'aggiudicazione, i
requisiti per essere ammessi, i termini e le modalità da seguire per la presentazione delle offerte. In passato questi atti
contenevano spesso prescrizioni da rispettare a pena di esclusione. Secondo quanto dispone l'art 83, i bandi e le lettere di
invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal codice e da altre
disposizioni di legge vigenti. Dette prescrizioni sono comunque nulle.
Oltre al bando vi sono il disciplinare di gara (che integra il bando relativamente alle modalità di partecipazione alle gare e di
presentazione dell'offerta) e il capitolato speciale d'appalto.
I bandi sono trasmessi all'Ufficio delle pubblicazioni dell'Unione Europea per via elettronica e pubblicati ai sensi dell'art. 72
sulla Gazzetta Europea. La violazione dei doveri di pubblicità è censurabile proponendo l'azione di cui all'art. 120 d.lgs.
104/2010. Il bando è altresì pubblicato sul profilo del committente, sulla piattaforma digitale dei bandi di gara presso l'Anac.
La pubblicazione del bando è rilevante anche perché segna il momento in cui resta cristallizzata la disciplina applicabile alla
procedura: le norme sopravvenute non possono infatti incidere su una procedura già in corso nè sulle singole fasi autonome di
essa che si siano già chiuse. Al fine di limitare la discrezionalità nella scelta dei possibili concorrenti e di superare i limiti di
conoscenza del mercato da parte dell'amministrazione, la legge ha introdotto da tempo una fase di preselezione nelle
procedure ristrette: l'amministrazione non procede direttamente all'invito ma pubblica un avviso e le imprese interessate,
purché in possesso dei requisiti, possono far richiesta di partecipare alla procedura. Soltanto a questo punto, l'amministrazione
procede con l'invito. Anche in tutte le altre ipotesi, salvo che non si procede mediante il già citato meccanismo dell'avviso di
preinformazione o non si utilizzi la procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara, occorre procedere
alla pubblicazione del bando/avviso.
Vediamo ora più da vicino queste altre procedure, ricordando che esse sono utilizzabili solo allorché ricorrano specifiche
situazioni.
Il dialogo competitivo è volto a elaborare una o più soluzioni atte a soddisfare le necessità della stazione appaltante e sulla
base della quale o delle quali i candidati selezionati sono invitati a presentare le offerte. Nella fase del dialogo le stazioni
possono discutere con i partecipanti selezionati tutti gli aspetti dell'appalto. L'amministrazione prosegue il dialogo finché non
è in grado di individuare la soluzione o le soluzioni che possono soddisfare le sue necessità. L'appalto che può essere indetto
anche con avviso di preinformazione è aggiudicato unicamente sulla base del criterio dell'offerta con il miglior rapporto
qualità/prezzo. I presupposti per ricorrere al dialogo competitivo sono gli stessi previsti per la procedura competitiva con
negoziazione (art. 59). Solo nella procedura competitiva, tuttavia, le amministrazioni devono previamente identificare
l'oggetto dell'appalto. Nel dialogo esse si limitano a indicare le esigenze e requisiti richiesti, essendo rimesso al dialogo anche
l'individuazione della soluzione: una volta concluso il dialogo verranno presentate le offerte. Nel dialogo, l'unico criterio di
aggiudicazione è quello dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
Nella procedura competitiva con negoziazione, qualsiasi operatore economico può presentare una domanda di
partecipazione in risposta ad un avviso di indizione di gara, con cui le stazioni individuano l'oggetto dell'appalto fornendo una
descrizione delle loro esigenze e illustrando le caratteristiche richieste per fornitura o servizi. Dopo gli inviti, vi è una
negoziazione che non può investire i requisiti minimi e il criterio di aggiudicazione, mentre può riguardare ogni altro aspetto
come qualità e quantità. Se previsto nel bando si può procedere con spostamenti progressivi fino all’inoltro delle offerte finali.
Le amministrazioni aggiudicatrici possono aggiudicare appalti sulla base delle offerte iniziali senza negoziazione se c'è
previsto nel bando di gara o nell'invito a confermare interesse.
La procedura negoziata senza pubblicazione del bando può essere utilizzata solo in casi molto particolari (urgenza, gara
andata deserta, assenza di concorrenza per motivi tecnici). Le amministrazioni aggiudicatrici individuano gli operatori
economici da consultare sulla base di informazioni desunte dal mercato e selezionano almeno cinque operatori economici.
L'amministrazione aggiudicatrice sceglie l'operatore economico che ha offerto le condizioni più vantaggiose previa verifica
del possesso dei requisiti di partecipazione previsti per l'affidamento di contratti di uguale importo mediante procedura aperta,
ristretta o mediante procedura competitiva con negoziazione. Questa figura corrisponde alla tradizionale trattativa privata.
Il partenariato per l'innovazione è utilizzato quando sussiste l'esigenza di sviluppare e acquistare prodotti, servizi o lavori
innovativi non presenti sul mercato. Premesso che, nei documenti di gara le amministrazioni fissano i requisiti minimi, anche
qui vi sono due fasi: la pubblicazione del bando o dell'avviso cui segue, dopo la domanda di partecipazione, la negoziazione.
Nei documenti di gara l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore definisce il regime applicabile ai diritti di
proprietà intellettuale.
Vanno pure ricordati il sistema dinamico di acquisizione: si tratta di un processo di acquisizione interamente elettronico che
concerne unicamente acquisti di uso corrente; le aste elettroniche (si tratta di un processo per fasi successive basato su un
dispositivo elettronico di presentazione di nuovi prezzi, modificati al ribasso o di nuovi valori riguardanti taluni elementi delle
offerte che interviene dopo una prima valutazione completa delle offerte permettendo che la loro classificazione possa essere
effettuata sulla base di un trattamento automatico). L'accordo-quadro relativo ad una pluralità di prestazioni da garantire nel
tempo è caratterizzato dalla definizione delle condizioni generali di contratto, i cataloghi elettronici e le procedure svolte
attraverso piattaforme telematiche di negoziazione.
Per quanto attiene alla trasparenza, le stazioni appaltanti offrono un accesso gratuito, illimitato e diretto, per via elettronica, ai
documenti di gara a decorrere dalla data di pubblicazione di un avviso o dalla data di invio di un invito a confermare interesse.
Se non è possibile offrire l'accesso gratuito, esse possono indicare nell'avviso o nell'invito a confermare interesse che i
medesimi documenti saranno trasmessi per posta elettronica certificata o strumenti analoghi negli altri Stati membri ovvero
per vie diverse da quelle elettronica.
Consideriamo ora le controparti private della procedura. I soggetti ammessi alle gare per affidamento di contratti pubblici sono
detti “operatori economici”: persone fisiche o giuridiche, enti pubblici, raggruppamenti di tali persone o enti, un ente senza
personalità giuridica che offre sul mercato la realizzazione di lavori e opere, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi.
Rientrano nella definizione non solo gli imprenditori individuali e le società ma anche i consorzi fra società cooperative e tra
imprese artigiane, consorzi stabili, consorzi di concorrenti, gli operatori economici stabiliti in altri membri e raggruppamenti
temporanei costituiti ai soli fini della partecipazione all'appalto dai predetti soggetti che conferiscono mandato collettivo
speciale con rappresentanza a uno di essi, il quale esprime l'offerta in nome e per conto anche dei mandanti.
Il raggruppamento può essere orizzontale se costituito ai fini della ripartizione dello stesso lavoro fra più imprese oppure
verticale; quest'ultima figura ricorre quando il bando prevede lavori di categorie differenti e il raggruppamento sia costituito
da una o più imprese che abbiano i requisiti per realizzare il lavoro della categoria prevalente e ad imprese raggruppate di
norma maggiormente specializzate per il lavoro o la parte dell’opera scorporabile. La Corte Costituzionale nel 2014 ha
ricondotto nel novero degli operatori anche gli enti no profit. Più in generale, la giurisprudenza ha riconosciuto alle indicazioni
codicistiche valenza non tassativa, qualificando come contraenti anche le onlus, le fondazioni, le università e gli enti di
ricerca, pur se non direttamente riconducibili all'interno dell'elenco normativo.
Il codice, incidentalmente, esclude dal proprio campo di applicazione gli appalti e le concessioni concernenti taluni servizi
forniti da organizzazioni e associazioni senza scopo di lucro, ad eccezione dei servizi di trasporto dei pazienti in ambulanza.
La normativa sui contratti contiene una serie di regole volte a garantire che l'operatore economico che si affaccia alla gara
possieda sia peculiari capacità tecniche, professionali, economiche e finanziarie in grado di garantire l'esatta esecuzione dei
contratti (cd. requisiti di qualificazione), sia taluni requisiti soggettivi (requisiti di ordine generale). Questi ultimi tutelano
l'elemento fiduciario e attengono alla sussistenza di precedenti penali dei legali rappresentanti, referenze negative, gravi
infrazioni accertate delle norme in materia di salute e sicurezza del lavoro, pendenze con il fisco, comprovata inaffidabilità,
false dichiarazioni e così via. Il difetto di questi requisiti di ordine generale accertato in qualunque momento della procedura
porta all'esclusione dell'offerente dalla gara. Ecco perché la normativa più recente li prende in considerazione definendoli
come cause di esclusione.
La documentazione comprovante il possesso di tutti i requisiti per la partecipazione alle procedure e per il controllo in fase di
esecuzione circa la permanenza dei suddetti requisiti è acquisita attraverso la banca dati nazionale degli operatori economici.
L'art 83 si occupa dei requisiti di qualificazione (idoneità professionale e capacità economica e finanziaria, tecniche e
professionali), al contempo indicando come può essere fornita la prova dell'esistenza dei requisiti. La norma ribadisce il
principio secondo cui i requisiti devono essere attinenti e proporzionati tenendo presente l'interesse pubblico ad avere il più
ampio numero di potenziali partecipanti. Di rilievo è la possibilità di soddisfare i requisiti di carattere economico, finanziario,
tecnico ed economico avvalendosi dei requisiti di un altro soggetto. L'avvalimento non può riguardare requisiti morali e non è
ammesso per la qualificazione necessaria per le opere superspecialistiche e per il requisito dell'iscrizione all'albo nazionale dei
gestori ambientali. L’Anac gestisce anche il sistema di rating di impresa e delle relative premialità, rilevante ai fini della
qualificazione delle imprese. Spetta poi alle amministrazioni indicare nel bando di gara, nell'avviso o nell'invito, i criteri
premiali che intendono applicare alla valutazione dell'offerta in relazione al maggiore rating dell'offerente, nonché per
agevolare la partecipazione alla procedura di affidamento per le microimprese. L'attività di verifica del possesso dei requisiti è
potenzialmente complessa. La normativa prevede allora ulteriori meccanismi che agevolino il riscontro e semplifichino
l’azione delle stazioni appaltanti: è questo il sistema di qualificazione nel settore dei lavori pubblici che va articolato in
rapporto alle tipologie e all'importo dei lavori. I soggetti esecutori a qualsiasi titolo di lavori pubblici di importo pari o
superiore a € 150.000 provano il possesso dei requisiti di qualificazione mediante attestazione da parte di appositi società
organismi di diritto privato (SOA) autorizzati dall'Anac. L'attestazione costituisce, dunque, condizione necessaria e
sufficiente per la dimostrazione dei requisiti di capacità tecnica e finanziaria.
Ciò chiarito, arriviamo al momento in cui i concorrenti presentano l'offerta. Ove non trasmessa in formato elettronico, essa
consiste in tre buste, contenenti la documentazione amministrativa, l'offerta tecnica e quella economica. L'art 85 disciplina il
documento di gara unico europeo che consiste in un’autodichiarazione aggiornata come prova documentale preliminare in
sostituzione dei certificati rilasciati da autorità pubbliche o terzi in cui si conferma che l'operatore economico non si trova in
una delle situazioni di cui all'art. 80 e che soddisfa i requisiti di qualificazione.
Le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda possono essere sanate attraverso la procedura di soccorso istruttorio.
In particolare, in caso di mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del DGUE, con
esclusione di quelle afferenti l'offerta tecnica ed economica, la stazione appaltante assegna un termine, non superiore a
dieci giorni, per rendere, integrare o regolarizzare le dichiarazioni necessarie, indicando il contenuto e i soggetti che devono
rendere. In caso di inutile decorso del termine di regolarizzazione, il concorrente è escluso. Il codice, introducendo una
specifica categoria di irregolarità, riconduce all'area di quelle essenziali non sanabili le carenze della documentazione che non
consentono l'individuazione del contenuto o del soggetto responsabile della stessa.
Le operazioni di gara volte a prendere cognizione delle offerte e a compararle sono verbalizzate dall’ufficiale rogante e si
concludono con l'aggiudicazione. Per quanto attiene criteri di scelta, il d.lgs. 50/2016 all’art. 95 prevede vari meccanismi.
L'offerta – sempre definita come “economicamente più vantaggiosa”, quale categoria generale - può essere individuata sulla
base del criterio del minor prezzo (meccanismo del massimo ribasso che non considera ulteriori fattori) o sulla base del minor
costo (si considera il costo dell’acquisizione, unitamente ad altri costi economici legati al ciclo di vita; es. manutenzione,
riciclaggio, consumo).
Il codice prevede poi il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa usa in ragione del miglior rapporto
qualità/prezzo (e cioè tenendo in debita considerazione altri criteri qualitativi, ambientali e sociali). In questo caso, i
documenti di gara elencano i criteri di valutazione, la ponderazione relativa attribuita a ciascuno di essi. Il codice lascia in
linea di principio la discrezionalità in capo all'amministrazione circa la scelta del criterio, ma pone due “paletti”. Il criterio del
miglior rapporto qualità/prezzo è infatti obbligatorio in taluni casi (contratti, non assegnati con affidamento diretto, relativi ai
servizi sociali e di ristorazione ospedaliera, assistenziale e scolastica, nonché a servizi ad alta intensità di manodopera). Il
criterio del minor prezzo poi è meramente consentito (e non imposto) in altri casi tassativamente indicati come ad esempio
per i servizi e le forniture con caratteristiche standardizzate o sotto la soglia di € 2.000.000 purché l'appalto si è indetto sulla
base del progetto esecutivo.
Un cenno merita la disciplina delle offerte anomale (art. 97). La normativa, con riferimento al criterio residuale del prezzo
più basso, stabilisce le modalità per definire la soglia di anomalia. Il calcolo è effettuato solo quando il numero delle offerte
ammesse sia pari o superiore a 5. Quando il criterio di aggiudicazione è quello dell'offerta economicamente più vantaggiosa,
la congruità delle offerte è valutata sulle offerte che presentano sia i punti relativi al prezzo, sia la somma dei punti relativi agli
altri elementi di valutazione. La stazione appaltante richiede per iscritto la presentazione di spiegazioni a fronte di offerte
anormalmente basse, così individuate sulla base di un giudizio tecnico sulla congruità, serietà e realizzabilità dell'offerta
dell'anomalia. Il codice prevede poi una sorta di clausola di chiusura in forza della quale la stazione appaltante in ogni caso
può valutare la congruità di ogni offerta che appaia anormalmente bassa. Infine soltanto quando il criterio di aggiudicazione è
quello del prezzo più basso e, comunque, per importi inferiori alle soglie comunitarie il bando può prevedere l'esclusione
automatica. Limitatamente ai casi di aggiudicazione con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, la
valutazione delle offerte dal punto di vista tecnico ed economico è affidata ad una commissione che ha la possibilità di
lavorare a distanza con procedure telematiche che salvaguardino la riservatezza delle comunicazioni.
In senso proprio, l’aggiudicazione è l’atto amministrativo con cui viene accertato e proclamato il vincitore da parte del
soggetto che presiede la celebrazione dell’asta o la commissione di valutazione. Prima dell'aggiudicazione definitiva vi è la
proposta di aggiudicazione che deve essere approvata dall'organo competente. L'aggiudicazione diventa efficace dopo la
verifica del possesso dei prescritti requisiti. L'art. 32 d.lgs. 50/2016 stabilisce che l'aggiudicazione definitiva non equivale ad
accettazione dell'offerta; dal punto di vista sistematico, ciò porta ad escludere che essa abbia valore negoziale, da attribuire
invece alla successiva stipulazione.
Il codice disciplina anche le informazioni che devono essere fornite ai candidati e offerenti: ciascun candidato e ciascun
offerente è tempestivamente informato delle decisioni adottate riguardo alla conclusione di un accordo quadro,
all’aggiudicazione di un appalto o all’ammissione ad un sistema dinamico di acquisizione; inoltre su richiesta scritta
dell'offerente interessato o del candidato, l'amministrazione aggiudicatrice comunica, a ogni offerente escluso, i motivi del
rigetto della sua offerta e al candidato escluso quelli di rigetto della domanda di partecipazione. Nella sezione
“amministrazione trasparente” vengono poi pubblicati tutti gli atti relativi alla programmazione dei lavori, opere, servizi e
forniture, nonché alle procedure di affidamento degli appalti pubblici e alla composizione delle commissioni giudicatrici.
Entro due giorni dalla loro adozione vanno pubblicati il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di
affidamento e le ammissioni all'esito della verifica della documentazione attestante l'assenza dei motivi di esclusione nonché
la sussistenza dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali. Entro lo stesso termine di due giorni è dato
avviso ai concorrenti via telematica di tali atti.
2.3. Stipulazione, approvazione, controllo ed esecuzione del contratto
Le altre fasi della procedura ad evidenza pubblica, successive alla deliberazione a contrattare e alla scelta del contraente, sono
costituite della stipulazione, dall’approvazione e dal controllo.
In relazione alla stipulazione, secondo la tradizione giurisprudenziale, i contratti della pubblica amministrazione devono
essere sempre conclusi in forma scritta, anche se non attengono a beni immobili (Cass. 7819/2003). in ogni caso, nell'ambito
dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, l'art. 32, d.lgs. 50/2016 stabilisce che il contratto è stipulato, a pena di
nullità, con atto pubblico notarile informatico ovvero in modalità elettronica secondo le norme vigenti per ciascuna stazione
appaltante. L’aggiudicazione definitiva non equivale ad accettazione dell’offerta, sicché il vincolo sorge solo con la stipula del
contratto, che avviene entro 60 giorni dall’aggiudicazione definitiva. L’esigenza che il ricorso giurisdizionale da parte di chi
contesta l’aggiudicazione possa venir notificato prima della stipula del contratto si traduce nell'istituto dello stand still: la
conclusione del contratto non può avvenire prima dello scadere di un termine che decorre dal giorno successivo alla data in cui
la decisione di aggiudicazione è stata inviata agli interessati. Tale termine è di 35 giorni e viene fatto decorrere dall’avvenuta
comunicazione del provvedimento di aggiudicazione definitiva.
Un secondo periodo di stand still impedisce la stipula o l’esecuzione del contratto nel caso di proposizione di un ricorso
avverso l’aggiudicazione definitiva che contenga anche la domanda cautelare. Il divieto in questo caso opera per 20 giorni a
condizione che, entro tale termine, intervenga la pronuncia del provvedimento cautelare di primo grado o la pubblicazione del
dispositivo della sentenza di primo grado. Se tali provvedimenti sono assunti dopo, il termine di sospensione viene prolungato.
La regola generale è quella secondo cui la stipulazione del contratto ha luogo entro il termine di sessanta giorni dal momento
in cui l’aggiudicazione diventa efficace, salvo diverso termine previsto nel bando o nell’invito ad offrire, oppure salva
l’ipotesi di differimento espressamente concordata con l’aggiudicatario. In caso contrario, l’aggiudicatario può sciogliersi da
ogni vincolo o recedere dal contratto.
L’esecuzione del contratto così concluso può essere subordinata ad approvazione da parte della competente autorità. Si tratta
di una condicio juris di efficacia del contratto, la quale è estranea rispetto alla fase formativa del contratto in sè considerato. Il
rifiuto di approvazione del contratto concluso è riconosciuto legittimo dalla giurisprudenza quando sia giustificato dalla
presenza di vizi di legittimità presenti nella procedura o dalla inesistenza della copertura finanziaria, ovvero dalla sussistenza
di gravi motivi di interesse pubblico o dall’incongruità dell’offerta o dall’eccessiva onerosità del prezzo.
Successivamente alla conclusione e al perfezionamento degli eventuali procedimenti di approvazione e controllo, il contratto è
efficace e viene eseguito dai contraenti nel rispetto delle norme civilistiche.
In generale, va ricordato che il d.lgs. 50/2016, anche in fase di esecuzione, dà particolare rilevanza agli interessi ambientali e
sociali. L'idea di massima è quella di orientare la contrattazione pubblica verso l'obiettivo di una maggiore tutela di quei
valori. Cioè avviene secondo modalità diverse tra di loro: favorendo nella scelta i candidati più virtuosi, i quali non sono
obbligati a rispettare standard di protezione ambientale più rigorosi ma sono indotti a farlo per poter avere maggiori chance di
vittoria nelle gare; oppure limitando l'accesso alle procedure a certi soggetti o inserendo clausole che impongono agli operatori
economici a eseguire il contratto con specifiche modalità. Ai sensi dell'art. 34, le stazioni appaltanti contribuiscono al
conseguimento degli obiettivi ambientali previsti dal piano d'azione per la sostenibilità ambientale dei consumi nel settore
della p.a. attraverso l'inserimento, nella documentazione progettuale di gara, delle specifiche tecniche e delle clausole
contrattuali contenute nei criteri minimi adottati con decreto del ministro dell'ambiente. Le amministrazioni aggiudicatrici
che intendono acquistare lavori, forniture e servizi con specifiche caratteristiche ambientali, sociali o di altro tipo, possono
imporre nelle specifiche tecniche, nei criteri di aggiudicazione, le condizioni relative all'esecuzione dell'appalto. Più in
generale, le specifiche tecniche sono formulate secondo modalità che comprendono la definizione in termini di prestazione di
requisiti funzionali, comprese le caratteristiche ambientali. Le stazioni appaltanti possono richiedere la presentazione di
certificati ambientali o requisiti particolari per l'esecuzione del contratto. Ai sensi dell'art 95, l'offerta economicamente più
vantaggiosa è valutata sulla base di criteri oggettivi quali quelli qualitativi, ambientali o sociali. Nell'esecuzione di appalti
pubblici e di concessioni, gli operatori economici rispettano gli obblighi in materia di ambiente, sociale e del lavoro stabiliti
dalla normativa europea e nazionale. Tra i requisiti premianti per l'accreditamento delle stazioni appaltanti rientra
l’applicazione di criteri di sostenibilità ambientale e sociale nelle attività di progettazione e affidamento. Circa la protezione
sociale e del lavoro va ricordato che sono dette clausole sociali quelle che impongono al datore di lavoro il rispetto di
determinati standard di protezione sociale e del lavoro come condizione per svolgere attività economiche in appalto o in
concessione.
Altre importanti vicende che possono verificarsi nel corso dell'esecuzione sono legate al potere di revoca del contratto al
ricevimento di informazione antimafia interdittiva del prefetto.
Specifiche norme del d.lgs. 50/2016 si riferiscono alle modifiche possibili senza una nuova gara in corso di esecuzione,
identificando i casi in cui ciò è consentito (in particolare, allorché si tratti di modifiche non sostanziali o siano state previste
nei documenti di gara iniziali in clausole chiare, precise e inequivocabili, che possono comprendere clausole di revisione dei
prezzi).
La durata del contratto può essere modificata esclusivamente per i contratti in corso di esecuzione se è prevista nel bando e nei
documenti di gara l'opzione di proroga. La proroga è limitata al tempo strettamente necessario alla conclusione delle
procedure richieste per l'individuazione di un nuovo contraente. In tal caso, il contraente è tenuto all'esecuzione delle
prestazioni previste nel contratto agli stessi prezzi, patti e condizioni più favorevoli per la stazione appaltante. Non è ammesso
invece il rinnovo del contratto.
Il d.lgs. 50/2016 riconosce altresì alla parte pubblica, che abbia stipulato contratti relativi alla esecuzione di contratti di
appalto, una serie di poteri peculiari e tassativi. Secondo l'art. 108 l'amministrazione può risolvere il contratto ove ricorrano
specifiche condizioni (in particolare grave inadempimento: l'appaltatore deve provvedere al ripiegamento dei cantieri già
allestiti e lo sgombero delle aree di lavoro). All'art. 109 invece si dice che l'amministrazione può recedere in qualunque tempo
dai contratti, previo pagamento dei lavori eseguiti o delle prestazioni relative ai servizi e alle forniture eseguiti.
Si noti che, secondo la giurisprudenza, l'atto con il quale l'amministrazione esercita dette facoltà ha natura provvedimentale e
non è idoneo a incidere autoritativamente sulle posizioni soggettive del contraente, sicché la giurisdizione sulle relative
controversie spetta al giudice ordinario.
Il codice infine detta importanti norme in materia di rimedi alternativi alla tutela giurisdizionale. Intanto è disciplinata la
transazione e vi è la possibilità che a fronte delle sopracitate riserve, qualora l'importo economico dell'opera possa variare tra
il 5 e il 15% dell'importo contrattuale, sia attivato il procedimento al fine del raggiungimento di un accordo bonario proposto
da un esperto scelto nell'ambito di una lista fornita dalla camera arbitrale o, in caso di disaccordo tra le parti, individuato
direttamente dalla camera stessa. Le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall'esecuzione dei contratti, comprese quelle
conseguenti al mancato raggiungimento dell'accordo bonario, possono essere deferite ad arbitri. Infine già si è detto dei poteri
dell'Anac di esprimere pareri di precontenzioso.
2.4. Concessioni e appalti nei settori speciali
Il codice dei contratti pubblici disciplina anche la concessione (novità rispetto al passato) di servizi e di lavori, nonché gli
appalti nei settori c.d. speciali.
La concessione di costruzione e la concessione di costruzione ed esercizio erano già disciplinate con l. 1137/1929 che ha
però dovuto confrontarsi con la legislazione comunitaria in materia, la quale era preoccupata che uno strumento nato per
consentire ai privati di sostituirsi all’amministrazione nella realizzazione complessiva di opere di sua competenza si
trasformasse in un mezzo per eludere la rigida disciplina comunitaria in materia di appalti. La legge ha così progressivamente
equiparato la concessione di costruzione all’appalto.
La concessione di lavori o di servizi pubblici si caratterizza per l'affidamento della gestione (a titolo di corrispettivo) e per il
trasferimento del rischio (che l'appaltatore invece non sopporta): in sostanza si tratta di un meccanismo di esternalizzazione
del rischio. Si considera che il cessionario assume il rischio operativo nel caso in cui, in condizioni operative normali, non
sia garantito il recupero degli investimenti effettuati o dei costi sostenuti per la gestione dei lavori o dei servizi oggetto della
concessione. Il rischio può essere limitato, ma non eliminato, e deve comportare una reale esposizione alle fluttuazioni del
mercato tale per cui ogni potenziale perdita stimata subita dal concessionario non sia puramente nominale o trascurabile.
Ove i ricavi di gestione provengano dal canone riconosciuto dall'ente concedente, la concessione viene riassorbita nella
disciplina del partenariato pubblico privato di cui all'art 180. Siamo al cospetto delle c.d. opere fredde a canone o comunque
di opere nelle quali principale pagatore è l'amministrazione acquirente dei servizi. La norma aggiunge anche il caso in cui i
ricavi derivino da qualsiasi altra forma di contropartita economica ricevuta dal concessionario anche sotto forma di introito
diretto della gestione del servizio di utenza esterna. In sostanza, seguendo il modello europeo, le concessioni vere e proprie
vanno distinte dal PPP, in cui debbono essere ricondotte le operazioni fredde a canone. Giusta la presenza di un corrispettivo
pubblico, per queste ultime è difficile identificare il trasferimento del rischio in capo al soggetto al quale l'amministrazione si
rivolge per ottenere prestazione o per fruire di assets. In altri termini, dopo l'enfasi posta in generale sul concetto di rischio,
con riferimento a queste operazioni si assiste a un certo ridimensionamento della rilevanza di tale aspetto, quantomeno nel
senso che ciò che conta è piuttosto il rischio sul lato dell'offerta, declinabile come rischio di disponibilità (legato, dunque,
alla capacità del concessionario di erogare le prestazioni contrattuali pattuite sia per volume che per standard di qualità
previste). Per altro verso, rientrano nella disciplina delle concessioni quelle, sia bilaterali, sia trilaterali, in cui vi sia un
trasferimento di rischio. Senza rischio la fattispecie ricade nella disciplina dell'appalto. Accanto alle concessioni per opere
fredde, rientrano nei PPP il contratto di disponibilità e la locazione finanziaria di opere pubbliche. Anche nel partenariato,
comunque, vi deve essere il trasferimento di un rischio operativo che però assume caratteri specifici: al concessionario, infatti
viene trasferito il rischio di costruzione e il rischio di disponibilità come definito sopra. Spetterà poi alle clausole contrattuali
costruire un modello che consente il trasferimento effettivo del rischio.
Tornando alle concessioni che si collocano al di fuori del PPP, il trasferimento del rischio dà ragione dell'esigenza di disporre
di un piano economico finanziario adeguato e spiega il riferimento alla gestione per la durata della concessione. Il codice
descrive poi in generale che la durata delle concessioni è limitata ed è determinata nel bando di gara dall'amministrazione
aggiudicatrice o dall'ente aggiudicatore in funzione dei lavori o servizi richiesti al concessionario. La stessa è commisurata al
valore della concessione, nonché alla complessità organizzativa dell'oggetto della stessa. Non può essere superiore al periodo
di tempo necessario al recupero degli investimenti da parte del concessionario, insieme ad una remunerazione del capitale
investito.
Ciò chiarito, quanto alle procedure di aggiudicazione, il codice prevede che si applicano le disposizioni relative ai contratti
di appalto relativamente ai principi generali, alle esclusioni, alle modalità e alle procedure di affidamento, alle modalità di
pubblicazione e redazione dei bandi e degli avvisi, ai requisiti generali e speciali e i motivi di esclusione, ai criteri di
aggiudicazione, alle modalità di comunicazione ai candidati e agli offerenti, ai requisiti di qualificazione degli operatori
economici, alle modalità di esecuzione. La scelta del codice, dunque, è stata quella di richiamare i principi generali sui
contratti. Rimane però assicurata è garantita dall'art 166 la rilevante libertà per le amministrazioni e per gli enti aggiudicatori
di organizzare la procedura per la scelta del concessionario. A questa regola che consente ad esempio di sfruttare la gara in
modo da ampliare i confronti competitivi, si aggiunge la prescrizione secondo cui la stazione appaltante può condurre
liberamente negoziazioni con i candidati e gli offerenti. Tra le ulteriori particolarità dettate dagli artt 164 e ss vi sono la norma
secondo cui la stazione appaltante elenca i criteri di aggiudicazione in ordine decrescente di importanza e la regola per cui, se
la stazione appaltante riceve un’offerta che propone una soluzione innovativa con un livello straordinario di prestazioni
funzionali che non avrebbe potuto essere prevista utilizzando l'ordinaria diligenza, questa può modificare l'ordine dei criteri di
aggiudicazione per tenere conto di tale soluzione innovativa.
L'art. 175, occupandosi del ius variandi, indica i casi in cui le concessioni possono essere modificate senza una nuova
procedura di aggiudicazione. Ricordiamo quelli prevedibili (le modifiche devono però essere state previste con clausole chiare
e precise inequivocabili inserite nei documenti di gara; tali clausole tuttavia non possono apportare modifiche che alterino la
natura generale della concessione o contemplare proroghe) e quelli imprevedibili (utilizzando l'ordinaria diligenza: la modifica
non deve però alterare la natura generale della concessione), la necessità sopravvenuta di lavori o i servizi supplementari, le
esigenze di modifiche soggettive del concessionario in circostanze tassativamente indicate.
L'art 176 invece si occupa di cessazione, revoca d'ufficio, risoluzione per inadempimento e subentro. La concessione può
essere annullata in via di autotutela e, per vizi originari o sopravvenuti tassativamente indicati, cessa quando: a) il
concessionario avrebbe dovuto essere escluso per carenza di requisiti di ordine generale; b) la stazione appaltante ha violato il
diritto dell'Unione Europea con riferimento al procedimento di aggiudicazione; c) la concessione ha subito una modifica che
avrebbe richiesto la nuova procedura di aggiudicazione. In questi casi al concessionario al quale non sia imputabile il vizio
spettano le somme secondo la disciplina della revoca e della risoluzione per inadempimento dell'amministrazione.
La concessione può essere risolta per inadempimento della amministrazione aggiudicatrice o revocata per motivi di
interesse pubblico. In tali ipotesi spetta nel concessionario il valore delle opere realizzate più gli oneri accessori, le penali e gli
altri costi sostenuti o da sostenere in conseguenza della risoluzione, un indennizzo a titolo di risarcimento del mancato
guadagno pari al 10% del valore delle opere ancora da eseguire o del valore attuale dei ricavi risultanti dal piano economico
finanziario. È altresì possibile la risoluzione per cause imputabili al concessionario, rinviando alla disciplina sulla
risoluzione del contratto per inadempimento (solo in tal caso il concessionario non ha diritto di proseguire nella gestione
dell'opera sino al pagamento delle somme a lui spettanti da parte del subentrante). A differenza delle ipotesi indicate, vi è
anche la possibilità che gli enti finanziari possono indicare un operatore economico che subentri nella concessione avente
caratteristiche tecniche-finanziarie corrispondenti o analoghe a quelle previste nel bando di gara o negli atti in forza dei quali
la concessione è stata affidata. L'operatore economico subentrante deve assicurare la ripresa dell'esecuzione della concessione
e l'esatto adempimento originariamente richiesto al concessionario sostituito. La sostituzione del concessionario è limitata al
tempo necessario per l'espletamento di una nuova procedura di gara.
La previsione, che consente all'amministrazione di revocare la concessione per motivi di interesse pubblico, sembra
allontanare la figura dal lido della fattispecie contrattuale per avvicinarla a quello degli accordi pubblicistici, posto che la
permanenza del rapporto contrattuale è esposta alle conseguenze derivanti dalla variazione dell'interesse pubblico. In concreto,
paiono così emergere alcuni tratti tradizionali della concessione: piuttosto che il profilo del privilegio accompagnato dalla
sostituzione del concessionario in un compito pubblicistico, la disciplina codicistica coglie quello della gestione e della
sostituzione del rischio, con l'ulteriore non secondaria conseguenza che le operazioni non ricadono nel bilancio delle
amministrazioni (off-balance). La circostanza che non sia possibile una concessione di forniture, tuttavia, conferma che
permane il momento della “sostituzione” in una dimensione giuridica sottratta alla comune circolazione giuridica. La presenza
di un rilevante momento organizzativo a monte che definisce quella dimensione è ribadita dalla regola secondo cui va
salvaguardata la libertà delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori di organizzare l'espletamento dei propri
compiti, anche gestendoli direttamente o attivando la procedura per scelta del concessionario. Essi, ai sensi dell'art 166, sono
liberi di decidere il modo migliore per gestire l'esecuzione dei lavori e la prestazione dei servizi per garantire in particolare un
elevato livello di qualità, sicurezza ed accessibilità.
Per lungo tempo la normativa comunitaria ha escluso dal proprio ambito di applicazione gli appalti relativi ai settori (c.d.
settori esclusi) quali quello del gas, energia termica, acqua, elettricità, trasporti, servizi postali, porti e aeroporti, sfruttamento
di area geografica di rilevanza. Si tratta di mercati chiusi che offrono resistenze a essere assoggettati alla stessa disciplina cui
sono sottoposti gli appalti pubblici, anche perché caratterizzati da estrema disomogeneità nelle strutture operative dei vari
paesi. In relazione a questi settori, la parte III del codice individua il proprio ambito soggettivo di applicazione anche con
riferimento a enti aggiudicatori e, cioè, ad esempio imprese pubbliche e peculiari soggetti privati che agiscono sulla base di
diritti speciali ed esclusivi. Proprio in virtù del fatto che le attività di gestione nei settori in esame sono di competenza non
solo degli enti pubblici ma anche di privati, occorre prescindere dalla natura giuridica del soggetto aggiudicatore. Le regole
applicabili sono più flessibili soprattutto quando si tratta di procedure gestite dagli enti aggiudicatori.
2.5. Interessi legittimi, vizi del procedimento amministrativo e riflessi sulla validità del contratto
Gli atti compiuti dall’amministrazione in vista della conclusione del contratto sono sempre finalizzati al perseguimento di
interessi pubblici e quindi non sono riconducibili agli atti di autonomia dei privati. Gli atti del c.d. procedimento ad evidenza
pubblica non producono direttamente modificazioni giuridiche unilaterali, almeno nel senso che sono destinati ad essere
integrati dal consenso privato e che la disciplina giuridica del rapporto deriva non già da essi bensì dal contratto.
Gli interessi legittimi sono correlati normalmente all’esercizio di tradizionali poteri amministrativi destinati ad incidere sulle
posizioni giuridiche dei privati in modo unilaterale: tuttavia anche un atto del procedimento ad evidenza pubblica può incidere
direttamente sulle situazioni giuridiche degli amministrati sicchè la questione va risolta come quella dell’agire
provvedimentale. La delibera a concludere un contratto a trattativa privata, che pregiudica l’interesse protetto
dell’imprenditore il quale aspira a partecipare alla gara, e l’aggiudicazione o l’approvazione del contratto possono quindi
essere lesivi di interessi legittimi e di conseguenza venire autonomamente impugnati.
A seguito dell’annullamento degli atti amministrativi e dei loro effetti si producono conseguenze che si riverberano sulla
validità del contratto. Secondo una risalente giurisprudenza del giudice ordinario, l’annullamento con effetto ex tunc degli atti
amministrativi emanati in vista della conclusione del contratto incide sulla sua validità in quanto priva l’amministrazione della
legittimazione e della capacità stessa a contrattare, determinando l’annullabilità del contratto. Tale annullamento può essere
pronunciato solo su richiesta dell’amministrazione, la quale sarebbe l’unica parte interessata ai sensi dell’art. 1441 cc.
Un’altra tesi sostiene invece che il contratto che viene stipulato a seguito di un’aggiudicazione illegittima sarebbe destinato
alla caducazione automatica come conseguenza dell’annullamento dell’aggiudicazione (Cons. stato 2332/2003). Si è inoltre
anche sostenuto che il contratto risulterebbe affetto da inefficacia sopravvenuta relativa: al fine di tutelare i terzi in buona
fede, si è invocata l’applicazione analogica degli artt. 23 e 25 cc che, con riferimento alle associazioni e fondazioni, fanno
salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione.
Si dibatteva poi in ordine all’individuazione del giudice cui spettasse la giurisdizione sulle controversie attinenti alla sorte del
contratto. Da un lato nel 2007 la Cassazione affermava la giurisdizione del giudice ordinario mentre nel 2010 viene affermata
la giurisdizione del giudice amministrativo.
Le tre questioni (sorte del contratto dopo l’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione; sorte del contratto a seguito
dell’annullamento in via di autotutela dell’aggiudicazione; spettanza delle controversie alla giurisdizione del giudice ordinario
o amministrativo) hanno impegnato a lungo dottrina e giurisprudenza. I problemi in questione sono stati parzialmente risolti
con il d.lgs. 53/2010 che, sul piano processuale, ha ricondotto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la
cognizione delle controversie che attengono anche alla sorte del contratto a seguito dell’annullamento giurisdizionale
dell’aggiudicazione mentre, sul piano sostanziale, viene previsto che il contratto possa essere in questi casi dichiarato
inefficace dal giudice.
Si discute invece se l’annullamento dell’aggiudicazione in via di autotutela a opera dell’amministrazione comporti
l’inefficacia automatica del contratto nel frattempo stipulato. Il tema si intreccia con quello dei poteri dell’amministrazione
che vanno ad incidere unilateralmente sul rapporto negoziale: ai sensi dell’art. 21 sexies l. 241/1990 il recesso unilaterale dai
contratti dell’amministrazione è ammesso nei casi previsti dalla legge o dal contratto. L’art. 21 quinquies che menziona la
revoca di atti amministrativi che incidono su rapporti negoziali sembra indurre ad ammettere che l’amministrazione, anche
dopo la stipula del contratto, possa revocare l’aggiudicazione, così sciogliendosi automaticamente dai vincoli contrattuali,
salvo l’obbligo di corrispondere un indennizzo. Ciò pare in contrasto con il fatto che, nel contratto, l’impegno negoziale resta
insensibile alla variazione dell’interesse del contraente, con il carattere non retroattivo della revoca e con la tassatività dei casi
di possibile recesso unilaterale dal contratto di cui all’art. 21 sexies.
Sul piano processuale, l’inefficacia del contratto può talora essere pronunciata ma solo dal giudice.
In ogni caso, l’art. 21 quinquies non parla espressamente di contratti e rinvia alle ipotesi in cui la revoca incide sui rapporti
negoziali, senza introdurre in generale il relativo potere. L’Ad. Plen. 14/2014 ha sottolineato che l’applicazione dell’art. 21
quinquies va limitata ai casi di revoca già disciplinati dalla legge.
Ritornando sulla possibilità che l’annullamento in via di autotutela dell’aggiudicazione dopo la stipula del contratto incida sul
contratto medesimo, si pone il problema della sorte del negozio, non direttamente interessato dal vizio che colpisce solo l’atto
presupposto di aggiudicazione. L’Ad. Plen. 14/2014 ha ribadito la tesi della caducazione automatica del contratto.
Dal punto di vista processuale, la Cass. sent. 14260/2012, proponendo un’interpretazione estensiva della disciplina, ha statuito
che appartengono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche le controversie relative all’inefficacia del
contratto come conseguenza dell’annullamento in via di autotutela dell’aggiudicazione. Occorre però constatare come non
siano mancate a riguardo oscillazioni giurisprudenziali: infatti, in precedenza si era orientati a ritenere che la giurisdizione
fosse del giudice ordinario con riferimento a situazioni in cui la vicenda era stata ricostruita in termini esclusivamente
privatistici, in specie nelle ipotesi in cui il contratto non sia stato preceduto da una procedura pubblicistica e
dall’aggiudicazione risulta non semplice qualificare la misura adottata dall’amministrazione che voglia svincolarsi dal
contratto. La questione è stata nuovamente affrontata con sent. 12110/2013 e la Cassazione ha stabilito che l’atto
amministrativo di accertamento “si traduce nell’affermazione di una delle due parti del contratto di non considerare vincolanti
gli atti che hanno dato vita al contratto stesso” sicché la sua cognizione spetta al giudice ordinario.
Un regime diverso dal contratto stipulato in violazione delle regole che l’amministrazione deve osservare è stabilito da alcune
disposizioni che perseguono la finalità di garantire il buon uso delle risorse pubbliche e che richiamano la figura della nullità.
3. Gestione di affari, arricchimento senza causa e pagamento di indebito.
La gestione di affari di cui agli artt. 2028-2032 cc prevede l’obbligo in capo a chi scientemente e “senza esservi obbligato,
assume la gestione di un affare altrui”, di continuare la gestione stessa e di condurla a termine finché l’interessato non sia in
grado di provvedervi da sé. Questi, qualora la gestione sia utilmente iniziata, ha l’obbligo di adempiere le obbligazioni che il
gestore abbia assunto in suo nome e deve tenerlo indenne di quelle da lui assunte in nome proprio, rimborsandogli altresì le
spese necessarie o utili.
L’istituto in esame si può applicare anche all’amministrazione nel caso in cui il terzo gestisca affari di spettanza del soggetto
pubblico, purché non si tratti dell’esercizio di pubbliche potestà. Tuttavia, la giurisprudenza ha introdotto la regola secondo
cui l’utilità della gestione deve essere accertata con atto di riconoscimento da parte dell’amministrazione: siffatta regola la si
desume dal principio di cui all’art. 4 l. 2248/1865, che impedisce al giudice ordinario di sostituirsi alle scelte di spettanza
dell’amministrazione stessa.
Per quanto concerne l’arricchimento senza causa, questo è disciplino ex art. 2041-2042 cc che prevedono che “chi, senza
giusta causa, si è arricchito a danno di un’altra persona è tenuto, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultima
della correlativa diminuzione patrimoniale”. L’arricchimento consiste nel vantaggio che può essere rappresentato da un
incremento del patrimonio, da un risparmio di spesa o della mancata perdita di beni. Nell’ambito del diritto amministrativo,
rileva il caso in cui sia l’amministrazione ad arricchirsi: è previsto che l’amministratore, funzionario o dipendente sia titolare,
nei confronti dell’ente pubblico che si sia eventualmente arricchito, dell’azione diretta di indebito arricchimento. Il contraente
privato è a sua volta legittimato ad agire contro l’ente medesimo, anche contestualmente alla domanda nei confronti del
funzionario, in via surrogatoria ex art. 2900 cc per assicurare che siano soddisfatte o conservate le ragioni del proprio debitore.
Ai sensi dell’art. 194 T.U. enti locali, gli enti locali hanno la possibilità di riconoscere i debiti fuori bilancio derivanti da
acquisizione di beni e servizi senza delibera autorizzata o impegno contabile, purché siano accertati e dimostrati l’utilità e
l’arricchimento per l’ente nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza.
La giurisprudenza, in relazione all’arricchimento senza causa, individua un ulteriore presupposto per l’esercizio dell’azione
giurisdizionale nei confronti dell’amministrazione: è il riconoscimento esplicito o implicito dell’utilità dell’opera da parte del
soggetto pubblico.
Infine, occorre accennare al pagamento di indebito (indebito oggettivo) che trova applicazione nelle ipotesi in cui
l’amministrazione abbia disposto a favore dei propri dipendenti il pagamento di somme in eccedenza rispetto a quelle che
avrebbe dovuto versare. L’art. 2033 cc prevede che “chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha
pagato”. La giurisprudenza ha poi introdotto il principio della tutela dell’affidamento ingenerato nel privato in buona fede: si è
previsto che la legittimità della scelta dell’amministrazione di agire per la ripetizione dell’indebito viene valutata anche alla
stregua di questo affidamento.
4. La responsabilità civile dell’amministrazione e dei suoi agenti: l’art. 28 Cost. e la responsabilità extracontrattuale
Il problema della responsabilità della PA, da quando è stata ammessa nei confronti dei cittadini anche per l’attività di diritto
pubblico da essa posta in essere, si è sempre e ovunque rivelato di difficile soluzione. Si tratta, infatti, di conciliare la necessità
di tutelare i cittadini di fronte agli illeciti dannosi perpetrati dai pubblici poteri e, dall’altro lato, salvaguardare le pubbliche
finanze da risarcimenti insostenibili.
La Costituzione pone per la prima volta disposizioni concernenti la responsabilità dell’amministrazione e dei suoi agenti: l’art.
28 Cost. recita che “i funzionari e i dipendenti dello stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi
penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti” e aggiunge che: “In tali casi la responsabilità civile si
estende allo stato e agli enti pubblici”. Quest’ultima è una sorta di responsabilità indiretta per fatto altrui di cui all’art. 2049
cc. Il richiamo all’applicazione delle leggi civili permette di completare la fattispecie di illecito lacunosamente disciplinata
dall’art. 28 Cost. con la indicazione del solo requisito della lesione dei diritti.
Identificata dunque la iniuria, basta qui ricordare che essi sono: la condotta (comportamento attivo o omissivo imputabile
all'agente); un danno (pregiudizio economico o comunque valutabile in termini economici); la dolosità o colposità della
condotta; il nesso di causalità tra condotta e danno. Affinché l’obbligo di risarcimento sorga in capo all’amministrazione,
occorre che tra amministrazione e agente intercorra un rapporto di servizio, presupposto necessario per l’estensione della
responsabilità agli enti pubblici di cui all’art. 28 Cost. Tuttavia, l’essenza del rapporto di servizio non è sufficiente a
determinare la responsabilità dell’ente pubblico: occorre infatti che l’illecito sia stato commesso nell’esercizio delle
incombenze inerenti al posto ricoperto.
5. La disciplina posta dal legislatore ordinario: il t.u. degli impiegati civili dello stato (d.p.r. 3/1957)
L’art. 28 non ha distolto una parte della dottrina e della giurisprudenza dal continuare a sostenere la tesi della responsabilità
diretta della PA. Ma il legislatore ordinario, che in precedenza mai si era occupato della disciplina della responsabilità dei
funzionari e dei dipendenti pubblici, ha incluso un intero capo dedicato alla responsabilità, nel t.u. dello statuto degli impiegati
civili dello stato, le cui disposizioni sono state successivamente estese, in via legislativa o interpretativa, a tutti i soggetti
contemplati nell’art. 28 Cost. con successive modifiche intervenute con il d.lgs. 165/2001.
L’art. 22 d.p.r. 3/1957 sancisce la personale responsabilità dell’impiegato “che cagioni ad altri un danno ingiusto” e l’art. 23
definisce ingiusto il danno “derivante da ogni violazione dei diritti dei terzi commessa con dolo o colpa grave”. Viene poi
previsto che “tutti i membri sono responsabili in solido, salvo il caso di dissenso espresso e fatto constatare nel verbale” e,
all’art. 30, si prevede che “il mancato esercizio dell’azione del terzo nei confronti del dipendente, la reiezione della domanda,
la presenza di rinunce o di transazioni non escludono che il comportamento del dipendente medesimo sia valutato
dall’amministrazione al fine di farne valere la responsabilità nei propri confronti”.
Tale disciplina è rivolta ad alleggerire la responsabilità civile dei funzionari e dipendenti pubblici discostandosi dal requisito
della colpa di cui all’art. 2043 cc e prevedendo invece il requisito della colpa grave, che consiste, secondo la giurisprudenza,
in una “sprezzante trascuratezza dei doveri d’ufficio”.
6. I riflessi di tale disciplina su dottrina e giurisprudenza: la responsabilità diretta della PA e la responsabilità dei suoi
funzionari e dipendenti
Visto che era consentito, in base all’interpretazione della Corte Costituzionale, limitare mediante leggi amministrative la
responsabilità dei funzionari e dei dipendenti pubblici, analoghe limitazioni si sarebbero dovute applicare anche alla
responsabilità degli enti pubblici: così facendo però la tutela dei diritti dei terzi sarebbe stata compressa.
Viene quindi adottata la tesi della c.d. responsabilità diretta o per fatto proprio della pubblica amministrazione. Tale
fattispecie viene individuata in quella prevista dall’art. 2043 cc e in essa l’elemento soggettivo non è la colpa grave bensì la
colpa dell’uomo medio. Tale colpa veniva richiesta solo ove si trattasse di attività c.d. materiale dell’ente pubblico e non
anche quando il danno derivasse da atto amministrativo o dalla sua esecuzione. Tale orientamento del 1994 è stato
abbandonato con la storica pronuncia sent. 500/1999 da parte della Cassazione, che ha affermato che il giudice dovrà
effettuare un’indagine estesa alla valutazione della colpa, non del funzionario agente, ma della pubblica amministrazione
intesa come apparato, che sarà configurabile “nel caso in cui l’adozione o l’esecuzione dell’atto illegittimo sia avvenuta in
violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione
amministrativa deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni alla
discrezionalità”.
Ove l’ente pubblico sia ritenuto responsabile ex art. 2043 cc del danno arrecato al terzo, il funzionario o dipendente, ai sensi
dell’art. 18 d.p.r. 3/1957 dovrà a sua volta ristorare il danno subito dall’ente (è la c.d. azione di rivalsa, ove si prevede che
l’amministrazione si rivale agendo contro il dipendente) in quanto da lui cagionato in violazione di obblighi di servizio, salvo
il caso in cui abbia agito per un ordine che era obbligato ad eseguire, mentre la sua responsabilità non viene meno se ha agito
per delega del superiore.
Appare evidente come la fattispecie di illecito del dipendente presenti differenze nei confronti di quella dell’amministrazione.
Per i dipendenti è richiesta la colpa grave, mentre per l’amministrazione è sufficiente la colpa dell’uomo medio o, quando il
fatto dannoso consista nell’emanazione di un atto amministrativo, la colpa intesa come colpa dell’apparato.
Muta il giudice: la responsabilità dell’amministrazione per i danni cagionati da attività provvedimentale è giudicata dal
giudice amministrativo mentre quella del dipendente spetta alla giurisdizione del giudice ordinario.
Inoltre, una volta risarcito il terzo, l’amministrazione agirà contro il dipendente non a titolo di regresso di cui all’art. 1299 cc
ma sulla base della violazione di dovere d’ufficio da lui compiuta, pertanto la giurisdizione sarà quella della Corte dei conti.
7. I recenti indirizzi ampliativi della responsabilità della pubblica amministrazione. In particolare: la responsabilità
precontrattuale
Negli anni recenti, pur rimanendo immutati i lineamenti fondamentali della responsabilità della PA sopra descritti, si sono
potuti riscontrare taluni ripensamenti, soprattutto in giurisprudenza. Ad esempio, la giurisprudenza estende con sempre
maggior ampiezza agli enti pubblici quelle norme del codice civile del libro IV titolo IX che prevedono ipotesi particolari di
illecito e che in passato erano state ritenute inapplicabili nei confronti della PA; ad esempio si sosteneva che, con riferimento
ai danni subiti dagli utenti di pubbliche strade, non si applicasse tout court l’art. 2051 cc ma, anzi, sovente veniva invocato
l’art. 2043 cc, escludendo la responsabilità dell’ente pubblico quando la considerevole estensione del bene che ha prodotto il
danno e il suo uso generalizzato e diretto da parte dei terzi non consentano l’adempimento dei doveri di vigilanza.
In tema di contratti, la giurisprudenza ammette, nei confronti degli enti pubblici, l’applicazione dell’istituto della
responsabilità precontrattuale per violazione dell’art. 1337 cc, vale a dire la violazione del dovere di buona fede nelle
trattative e nella formazione del contratto, e dell’art. 1338 cc, vale a dire la violazione del dovere di comunicare all’altra parte
le cause di invalidità del contratto, come affermato da Cass. 4382/2012 e 15620/2014, che ritiene che, anche prima
dell’aggiudicazione rileva, a prescindere dalla legittimità dell’atto di revoca, il comportamento complessivo
dell’amministrazione. Il Consiglio di stato, con sent. 1864/2015, opta per un orientamento più restrittivo e tradizionale,
affermando che se un affidamento tutelabile ex art. 1337 cc non presuppone necessariamente l’aggiudicazione definitiva, lo
stesso non può comunque prescindere dal compimento di un atto della procedura dal quale non possa ritenersi sorto in capo
all’impresa partecipante un ragionevole affidamento circa l’esito positivo del concorso.
8. Il problema del risarcimento degli interessi legittimi
In una prospettiva di sintesi, si può dire che è l'amministrazione risponde verso i terzi a diverso titolo. Allorché abbia assunto
un’obbligazione, risponde per responsabilità contrattuale. Più complessa è la questione che sorge quando il danno è legato
all'esercizio di poteri provvedimentali. Essa si intreccia con il tema del risarcimento degli interessi legittimi. Il discorso
potrebbe essere troncato immediatamente ove si ritiene che la selezione delle situazioni risarcibili deve essere operata in
ossequio al dettato dell'art. 28 Cost. che, interpretato in via strettamente letterale, si riferisce soltanto alla lesione di diritti. Il
problema in realtà è mal posto. Fino al recente passato, occorreva distinguere alcune ipotesi principali.
L’annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo che comprimesse illegittimamente un diritto consolidato,
eliminando la causa di compressione del diritto, apriva la via, in presenza degli altri elementi dell’illecito, al risarcimento del
danno patito dal privato per il periodo di indebita limitazione della sua situazione di diritto soggettivo. In questo caso però il
risarcimento deriva dalla lesione del diritto e non dell’interesse legittimo. Nell’ipotesi di lesione di diritti “in attesa di
espansione”, nonostante il precedente orientamento negativo della giurisprudenza, non sussistevano ostacoli ad ammettere il
risarcimento del danno patito dal privato: il pregiudizio del privato a seguito del ritardo nel rilascio del provvedimento che già
in precedenza l’amministrazione avrebbe potuto e dovuto rilasciare è pur sempre correlato alla violazione di un diritto,
seppure in attesa di espansione, e non dell’interesse legittimo la cui lesione, di per sé, non è sufficiente ai fini del risarcimento.
Occorre poi considerare che l’ordinamento risolve i conflitti intersoggettivi fornendo tutela agli interessi dei privati, la cui
lesione dà luogo al risarcimento ex art. 2043 cc, ma non è affatto escluso che altri interessi meritevoli di tutela possano
essere individuati come protetti e che la loro lesione apra la via al risarcimento. Tali interessi vivono sul piano
dell’ordinamento generale, indipendentemente dall’azione amministrativa e sono protetti da norme diverse da quelle che
disciplinano l’attività amministrativa. La Cassazione, con la sent. 500/1999, qualificando l’art. 2043 cc come norma che pone
automaticamente il criterio per considerare come ingiusto il danno, ha affermato che “potrà pervenirsi al risarcimento solo se
l’attività illegittima della pubblica amministrazione abbia determinato la lesione di un bene della vita al quale l’interesse
legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega e che risulti meritevole di protezione alla
stregua dell’ordinamento”. Viene inoltre precisato che il diritto al risarcimento del danno “è distinto dalla posizione giuridica
soggettiva la cui lesione è fonte di danno ingiusto che può avere, indifferentemente, natura di diritto soggettivo, di interesse
legittimo o di interesse comunque rilevante per l’ordinamento”. Si sottolinea quindi come l’atto lesivo di interessi meritevoli
di tutela risarcibili e collegati a interessi legittimi, illecito perché causa di danno ingiusto, è tale solo se risulta anche
illegittimo, sicché tale illegittimità diventa un presupposto dell’illiceità, come affermato da Cons. stato sent. 4072/2011 e
successivamente art. 41 d.lgs. 104/2010.
Circa la meritevolezza dell’interesse, essa è in re ipsa quando siano in gioco interessi oppositivi come affermato da Cons.
stato 2187/2014. Viceversa, per gli interessi pretensivi occorre svolgere un giudizio prognostico sulla fondatezza dell’istanza
ipotizzando un’azione legittima: se il giudizio è positivo, il privato ha affidamento serio, l’interesse è meritevole di tutela e la
sua lesione è risarcibile. Ove sia soltanto possibile accertare una concreta ed effettiva probabilità di conservazione o di
acquisizione del bene, si potrà procedere a risarcire la perdita di chance. Sul punto però vi sono oscillazioni
giurisprudenziali: alcune decisioni ancorano la risarcibilità per lesione della chance a un criterio statistico/ probabilistico come
Cons. Stato n. 3249/2015 (la perdita sarebbe risarcibile ove si provi una probabilità superiore al 50% di ottenere il bene
finale), altre decisioni come Tar Lombardia 2152/2014 distinguono la perdita di chance da aspettativa di risultato favorevole,
nel senso che la perdita di chance presuppone la “necessaria incertezza oggettiva del decorso causale” mentre il sacrificio
subito dal privato si configura come situazione autonoma risarcibile. La chance opera come criterio di quantificazione del
quantum, anche se rimane il problema di comprendere quale sia la soglia di probabilità superata oltre la quale la situazione
giuridica assume consistenza.
La Corte cost. con sent. 204/2004 afferma la giurisdizione del giudice amministrativo delle questioni risarcitorie connesse
all’attività provvedimentale dell’amministrazione: tale soluzione è stata recepita dal cpa all’art. 7. Tuttavia, quando il
problema sembrava superato, la Cassazione con 3 sentenze 6594-6595 e 6596 del 2011 ha affermato nuovamente uno spazio
di giurisdizione a favore del giudice ordinario. Nel caso di pretese risarcitorie a seguito dell’annullamento di un
provvedimento favorevole la Cassazione afferma che, i privati, “sulla base di questa situazione non possono invocare né la
tutela demolitoria di qualche atto, né quella risarcitoria alla possibilità di quel tipo di tutela strettamente legata”: vale a dire
che la legittima privazione del diritto conseguente a un provvedimento illegittimamente favorevole, non aprendo la via alla
tutela demolitoria, neppure consentirebbe di agire dinnanzi al giudice amministrativo per ottenere la tutela risarcitoria
consequenziale alla prima. Poiché dopo essere stato annullato, il provvedimento continuerebbe a rilevare per il soggetto che ne
aveva tratto vantaggio “esclusivamente quale mero comportamento”, l’unico rimedio sarebbe la tutela risarcitoria fondata
sull’affidamento, relativa ad un danno “che oggettivamente prescinde da valutazioni sull’esercizio del potere pubblico,
fondandosi su doveri di comportamento i cui contenuto certamente non dipende dalla natura privatistica o pubblicistica del
soggetto che ne è responsabile, atteso che anche la pubblica amministrazione, come qualsiasi privato, è tenuta a rispettare
nell’esercizio dell’attività amministrativa principi generali di comportamento quali la perizia, prudenza, diligenza e la
correttezza”.
Ciò chiarito, quanto al tipo di responsabilità civile configurabile in capo all’amministrazione, si discute se si tratta di
responsabilità precontrattuale, contrattuale o extracontrattuale. Un problema di situazione risarcibile a fronte di attività
discrezionale si delinea anche con riferimento all’attività degli organi nazionali volta a recepire la normativa comunitaria: la
giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Ue ammette infatti la responsabilità dello stato per danni causati al singolo da
violazione del diritto dell’Ue anche nelle ipotesi di c.d. illecito del legislatore, che riconduce tale forma di illecito all’area
della responsabilità contrattuale. Il risarcimento è subordinato ad alcuni condizioni: a) la norma comunitaria violata deve
avere lo scopo di attribuire diritti a favore dei singoli; b) deve sussistere un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a
carico dello stato membro e il danno.
9. La responsabilità contrattuale della pubblica amministrazione, la responsabilità da contatto e il danno da ritardo
La responsabilità civile concerne l'illecito collegato all'emanazione di un provvedimento; essa è stata tradizionalmente
inquadrata nella responsabilità extracontrattuale, ossia in quella che ha come fonte un fatto illecito costituito dalla violazione
del generale obbligo del neminem laedere. Oggi questa tesi è sottoposta a critica.
Prima di esaminare gli orientamenti più recenti, però, è opportuno sottolineare che cosa diversa è la responsabilità
contrattuale, fondata sulla violazione di un rapporto obbligatorio già vincolante tra le parti, sorto in virtù di contratto, in forza
di legge, per atto unilaterale o da un precedente fatto illecito. La responsabilità contrattuale della p.a. è stata oggetto di
dibattito in dottrina, la quale si limita a rinviare alle norme di diritto privato mentre occorre invece affrontare la questione dal
punto di vista amministrativo: accanto ai contratti di diritto privato, esiste un campo vastissimo peculiare alla responsabilità
contrattuale, come ad esempio il settore dei servizi pubblici, in cui l’obbligazione sorge oltre che in forza della legge anche a
seguito di atti della pubblica amministrazione.
Se l’inadempimento, in tali campi, fa sorgere la responsabilità in capo alla sola amministrazione, unica obbligata, risulta
irrilevante la distinzione tra responsabilità diretta e responsabilità indiretta propria della responsabilità extracontrattuale.
Il funzionario o il dipendente rimane estraneo alla responsabilità ex art. 1218 cc e contro di lui non si potrà rivolgere il terzo,
poiché il diritto leso prevede solo l’obbligo dell’amministrazione e non anche quello della persona fisica agente.
La l. 24/2017 chiarisce che la struttura sanitaria o sociosanitaria anche pubblica risponde ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c.
delle condotte dolose o colpose degli esercenti la professione sanitaria di cui si avvalga. Il dipendente risponde invece a titolo
di responsabilità contrattuale Ai sensi dell'Art 28 cost
Dopo aver analizzato la responsabilità contrattuale, possiamo concludere sul problema del “titolo” di responsabilità
dell'amministrazione per emanazione di un provvedimento amministrativo. Si discute oggi se trattasi di responsabilità
precontrattuale, contrattuale o extracontrattuale.
La soluzione seguita dalla sent. Cass. 500/1999 è quella di ritenere la responsabilità dell’amministrazione di natura
extracontrattuale: tale responsabilità si riferisce alle situazioni in cui non preesiste un rapporto particolare tra danneggiato e
danneggiante. Parte della dottrina e della giurisprudenza sul presupposto che, rispetto al privato coinvolto dall’azione,
l’amministrazione non può considerarsi come terzo qualunque la cui responsabilità è disciplinata dall’art. 2043 cc, sembrano
propendere per il riconoscimento di un nuovo modello di responsabilità: la c.d. responsabilità da contatto amministrativo
qualificato, che è collegata alla violazione di obblighi di protezione esistenti in capo all’amministrazione.
La sussistenza di un contatto tra amministrazione e privato comporta il sorgere di alcuni obblighi senza prestazione in capo
all’amministrazione, la cui violazione determina una responsabilità riconducibile all’art. 1218 cc quanto al riparto dell’onere
della prova relativo all’elemento psicologico (l’onere della prova sarà a carico del danneggiante, che dovrà provare che
l’inadempimento è dovuto a causa a lui non imputabile) e al termine di prescrizione (opera il termine decennale). In tema di
alleggerimento dell’onere probatorio del danneggiato va comunque osservato che parte della giurisprudenza, pur
mantenendosi fedele al modello dell’art. 2043 cc, ammette che la colpa possa essere provata dall’attore mediante
presunzione.
La Corte di giustizia dell’Ue 314/2010 ha affermato che il diritto dell’Ue osta a una normativa nazionale che nelle ipotesi di
violazione della disciplina sugli appalti pubblici subordini il diritto ad ottenere il risarcimento dei danni al carattere colpevole
di tale violazione, precisando che non sono ammesse né presunzioni di colpevolezza in capo all’amministrazione né la
possibilità di far valere un difetto di impugnabilità soggettiva della violazione lamentata: si configura quindi una
responsabilità oggettiva. Tuttavia, tale regola si applica esclusivamente nel settore delle procedure di aggiudicazione degli
appalti pubblici di rilevanza comunitaria, come affermato da Cons. stato 1672/2014: in questo caso il rimedio risarcitorio
costituisce un’alternativa alle altre procedure di ricorso, sicchè esso può considerarsi compatibile con il principio di effettività
solo se il risarcimento non è subordinato alla constatazione dell’esistenza di un comportamento colpevole
dell’amministrazione aggiudicatrice.
La suddetta decisione attiene al problema dell’elemento psicologico all’interno dell’illecito. Rilevante è però anche il profilo
del nesso di causalità: qui l’onere probatorio è in capo alla vittima e con Ad. Plen. 3/2011 si è affermato che non sono
risarciti i danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento dell’azione di
annullamento.
La necessità della sussistenza di colpa o di dolo ai fini della configurazione dell’illecito è stata riconosciuta dall’art. 2 bis l.
241/1990, che dispone che “l’inosservanza del termine di conclusione del procedimento che cagioni un danno ingiusto dà
luogo a responsabilità in capo all’amministrazione e ai soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative solo se
l’inosservanza è dovuta a colpa o dolo”. Secondo un precedente orientamento invece in tema di danno da ritardo, il ristoro
patrimoniale richiedeva la dimostrazione del pregiudizio derivante dalla mancata tempestiva concessione del bene della vita
cui comunque si avrebbe titolo. Secondo l’art. 2 bis il mero ritardo lo si ritiene risarcibile in quanto tale: su tale posizione si
colloca anche il Cons. stato 1739/2011, secondo cui il ritardo è elemento sufficiente per configurare un danno ingiusto nel
caso di procedimento lesivo di un interesse pretensivo dell’amministrato, laddove tale procedimento sia da concludere con un
provvedimento favorevole o se sussistano fondate ragioni per ritenere che l’interessato avrebbe dovuto ottenerlo. Una parte
della giurisprudenza ritiene invece che la parte abbia preventivamente reagito all’inerzia impugnando il silenzio rifiuto,
confermando così la sussistenza di un onere di preventiva attivazione in capo al soggetto che domanda il risarcimento. Rimane
il problema se tale omissione possa incidere sull’entità del danno.
Va comunque ricordato che, richiedendo dolo o colpa, questa disciplina sembra sconfessare la tesi della responsabilità da
contatto. Tale disciplina non esclude però l’impiego del meccanismo della presunzione. Lo spazio per il danno da mero ritardo
è venuto man mano ad assottigliarsi a seguito dell’entrata in vigore della disciplina dell’indennizzo da ritardo ex art. 28 d.l.
68/2013 che dispone che le some corrisposte o da corrispondere a titolo di indennizzo sono detratte dal risarcimento.
Secondo Cons. stato 2638/2014 la previsione di un indennizzo conferma la tesi secondo cui il risarcimento non è dovuto come
conseguenza del mero superamento dei termini, ponendosi l’inosservanza del termine come presupposto causale del danno
ingiusto eventualmente cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine. Un’altra impostazione vede
invece la responsabilità dell’amministrazione come una responsabilità speciale poiché retta unicamente dal diritto pubblico e
disancorata dal diritto civile.
10. La responsabilità amministrativa e la responsabilità contabile
La responsabilità amministrativa dei dipendenti verso l’amministrazione viene inquadrata nell’istituto della responsabilità
e dell’illecito di cui è conseguenza.
In tema di danno indiretto, va ricordato che ai sensi dell’art. 55 septies d.lgs. 165/2001 la condanna della pubblica
amministrazione al risarcimento del danno derivante dalla violazione, da parte del lavoratore dipendente, degli obblighi
concernenti la prestazione lavorativa comporta l’applicazione nei suoi confronti della sospensione dal servizio con privazione
della retribuzione da un minimo di 3 gg fino ad un massimo di 3 mesi in base all’entità del risarcimento.
Con la locuzione “responsabilità amministrativa” si intende però solo quella in cui incorre il soggetto persona fisica avente un
rapporto di servizio con un ente pubblico il quale, in violazione dei doveri che derivano da tale rapporto, abbia cagionato un
danno alla sua pubblica amministrazione.
L’obbligo di risarcimento permette di qualificare tale responsabilità come responsabilità civile: questa tesi viene ulteriormente
avvalorata dal fatto che l’art. 18 d.p.r. 3/1957 stabilisce che “di fronte alla responsabilità civile fatta valere dal terzo nei
confronti della sola pubblica amministrazione, l’impiegato è tenuto a risarcire il danno a questa cagionato, consistente nella
somma pagata da essa al terzo”. Pertanto, mutando il titolo di responsabilità, muterà anche il giudice che deve pronunciarsi
che sarà la Corte dei conti e non invece il giudice ordinario.
Una parte della dottrina, risalente agli anni ’70, ha affermato la necessità di staccare in modo definitivo la responsabilità
amministrativa dagli schemi civilistici, affermandone il suo carattere autonomo. Tale natura pubblicistica della
responsabilità amministrativa veniva dedotta sulla base di alcuni elementi quali: la nascita nell’ambito del pubblico impiego;
l’azione di responsabilità promossa dal Procuratore generale della Corte dei conti; l’interesse tutelato è quello pubblico;
l’operare del principio della divisibilità del danno in luogo del principio di solidarietà previsto dal codice civile; il potere
riduttivo attribuito alla Corte dei conti e non al giudice ordinario; la responsabilità estesa anche a coloro che avessero omesso
di denunciare gli autori del fatto dannoso. Tale orientamento dottrinale è stato recepito dalla Corte dei conti.
Carattere peculiare assumono poi alcune forme di responsabilità tipizzate dal legislatore, che sono però staccate dalla
prospettiva risarcitoria-compensativa e molto più prossime alla dimensione sanzionatoria. Si discute se queste, che sembrano
avvicinarsi ad una forma di responsabilità formale che prescindono dal danno e dall’elemento psicologico, siano riconducibili
alla responsabilità amministrativa o costituiscano altra materia cui la giurisdizione contabile può essere estesa dalla legge
ordinaria secondo quanto prescritto dall’art. 103 Cost., nel rispetto del principio di legalità e tipicità proprio di ogni fattispecie
sanzionatoria. Si dibatte inoltre se per queste forme di responsabilità si possano applicare le altre disposizioni proprie della
responsabilità amministrativa: la risposta sembra essere positiva in quanto si tratta di una disciplina garantistica ed essenziale
ai fini dell’integrazione di un illecito. Tra le forme principali di responsabilità amministrativa troviamo: art. 30.15 l. 289/2002
che prevede che qualora gli enti territoriali ricorrano all’indebitamento per finanziare spese diverse da quelle di investimento, i
relativi atti e contratti sono nulli e le sezioni giurisdizionali della Corte dei conti possono irrogare agli amministratori che
hanno adottato la delibera la condanna ad una sanzione pari ad un minimo di 5 e fino da un massimo di 20 volte l’indennità di
carica percepita al momento della commissione della violazione; art. 3.44 l. 244/2007 che prevede in materia di tetto al
trattamento economico onnicomprensivo a favore di chi riceva emolumenti pubblici una sanzione che è pari a 10 volte la
somma illecitamente consentita ed erogata; art. 3 cc 53 e 59 che prevedono la nullità dei contratti di assicurazione stipulati in
favore degli amministratori per le conseguenze derivanti da condotte illecite poste in essere ai danni dello stato o di altri enti
pubblici; art. 12 d.l. 98/2011 che prevede una sanzione pecuniaria a carico degli amministratori e responsabili del servizio
economico-finanziario che artificiosamente abbiano rispettato il patto di stabilità; art. 248 T.U. enti locali che prevede una
pena accessoria interdittiva con riferimento alle procedura di dissesto finanziario per sindaci e presidenti di provincia ritenuti
responsabili del dissesto; art. 53 d.lgs. 165/2001 che prevede l’ipotesi di responsabilità erariale relativa all’omissione del
versamento del compenso da parte del dipendente pubblico non autorizzato dall’amministrazione di appartenenza e indebito
percettore.
Occorre ora esaminare gli aspetti sostanziali della responsabilità amministrativa atipica, quale, in via generale, si configura per
gli impiegati pubblici. Essa ha le sue fonti negli artt. 82- 83 r.d. 2440/1923 recante disposizioni sull’amministrazione del
patrimonio e sulla contabilità generale dello stato. L’art. 82 dispone che “l’impiegato che per azione od omissione, anche solo
colposa, nell’esercizio delle sue funzioni, cagioni danno allo stato, è tenuto a risarcirlo. Quando l’azione od omissione è
dovuta al fatto di più impiegati, ciascuno risponde per la parte che vi ha presa, tenuto conto delle attribuzioni e dei doveri del
suo ufficio, tranne che dimostri di aver agito per ordine superiore che era obbligato ad eseguire”. Ai sensi dell’art. 18 d.p.r.
3/1957, “se l’impiegato ha agito per un ordine, va esente da responsabilità, salva la responsabilità del superiore che ha
impartito l’ordine”. L’impiegato è invece responsabile se ha agito per delega. L’art. 83 assoggetta i dipendenti che hanno
cagionato il danno alla giurisdizione della Corte dei conti. Si discute se, ferma restando la natura civilistica della
responsabilità, la responsabilità suddetta sia contrattuale o extracontrattuale: in origine veniva qualificata come responsabilità
extracontrattuale e questo fino all’immediato dopoguerra. Man mano però la Corte dei conti ha cambiato orientamento,
ritenendo tale responsabilità come contrattuale, in base allo “speciale rapporto tra l’amministrazione e i suoi dipendenti dal
quale nascono specifici doveri e obblighi, alla cui infrazione e osservanza si riconnette la speciale responsabilità”. A riguardo,
l’art. 82 della legge di contabilità è stato infatti inserito, nel d.p.r. 3/1957, ed mutato in “danni derivanti dalla violazione di
ordini di servizio”: così facendo, si è evidenziata la preesistenza del rapporto di servizio, che è una nozione interpretata in
modo estensivo dalla giurisprudenza, tanto da ritenerla presente non solo nei casi di pubblico impiego ma anche per gli organi
elettivi, funzionari onorari e soggetti privati incaricati di svolgere un’attività pubblicistica.
Il rapporto di servizio è alla radice della responsabilità in questione, sebbene l’art. 1.4 l. 20/1994 estenda la giurisdizione
della Corte dei conti a controversie nelle quali un tale rapporto non sussiste con l’amministrazione danneggiata.
La Cassazione, inoltre, in passato ha affermato la giurisdizione della Corte dei conti anche per i fatti commessi dagli
amministratori e dipendenti di enti pubblici economici e nei riguardi degli amministratori della s.p.a. miste per i danni erariali
cagionati al patrimonio dell’ente pubblico locale. Si distingueva il caso della società pubblica come soggetto danneggiato
dalle persone fisiche (in ordine al quale, secondo la Cassazione, sussiste tendenzialmente la giurisdizione del giudice ordinario
in quanto viene colpito il patrimonio sociale che, in ragione della personalità giuridica, è distinto da quello dei soci pubblici)
dalle ipotesi in cui l’amministratore o il componente di organi di controllo della società partecipata dall’ente pubblico
danneggiasse direttamente l’ente medesimo (qui la Cassazione a SS.UU. afferma la giurisdizione contabile).
L'art 12 d.lgs. 175/2016 (cap. III) chiarisce al riguardo il principio generale in forza del quale i componenti degli organi di
amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina
ordinaria delle società di capitali. Sussiste però la giurisdizione della Corte dei Conti allorché il danno sia arrecato agli enti
partecipanti. La norma indica in particolare il caso in cui il danno sia conseguente alla condotta dei rappresentanti degli enti
pubblici partecipanti o comunque dai titolari del potere di decidere per essi che, nell'esercizio dei propri diritti di socio,
abbiano con dolo o colpa grave pregiudicato il valore della partecipazione.
La Cassazione ha poi chiarito che il criterio per discriminare la giurisdizione ordinaria da quella contabile in materia di azione
di responsabilità per danno erariale consiste nel verificare la natura del denaro e degli scopi perseguiti: esiste quindi
giurisdizione della Corte dei conti con riguardo ai giudizi nei confronti di società o associazioni nei quali si contesti
l’illegittima erogazione di fondi pubblici. Per questa forma di responsabilità finanziaria, a parere della dottrina, “risulta meno
rilevante il criterio del rapporto di servizio, al più da concepire come nesso funzionare tra risorse pubbliche e perseguimento di
interessi pubblici, mentre assume importanza decisiva la sussistenza di un qualsivoglia titolo in forza del quale il soggetto, pur
privato, venga ad agire in vista di finalità pubbliche”. Affinchè sorga responsabilità amministrativa occorrono ulteriori
elementi: violazione dei doveri o obblighi di servizio; elemento psicologico; danno; nesso di causalità tra fatto e danno.
Per quanto attiene l’elemento psicologico, è richiesta almeno la colpa grave e ciò al fine di attenuare le preoccupazioni dei
dipendenti circa le pesanti conseguenze connesse alla valutazione della colpa effettuata dal giudice contabile con un rigore
eccessivo. Il giudice contabile ha il compito di valutare i comportamenti e non la legittimità degli atti amministrativi pur
potendone comunque valutare, incidenter tantum, anche la legittimità: la l. 639/1996 chiarisce comunque che le scelte
discrezionali dell’amministrazione non sono sindacabili nel merito. In ogni caso, la giurisprudenza afferma che la semplice
illegittimità di un provvedimento amministrativo non è di per sé sufficiente a costituirne in colpa gli autori.
È cmq esclusa la gravità della colpa quando il fatto dannoso tragga origine dall’emanazione di un atto vistato e registrato in
sede di controllo preventivo di legittimità.
Quanto al danno, consiste in un ammanco e in un pregiudizio alle casse pubbliche. Secondo la giurisprudenza della Corte dei
conti, tale nozione va interpretata in modo estensivo sulla base di determinate caratteristiche: si parla a riguardo di una figura
di danno “connessa alla violazione di norme di tutela aventi per oggetto non già beni materiali che costituiscono il patrimonio
in senso proprio del soggetto-persona, ma l’interesse a utilità non suscettibili di godimento ripartito e quindi riferibili a tutti i
membri indifferenziati della collettività”.
È ivi ricompreso nella nozione di danno anche il c.d. danno morale, quale effetto lesivo consistente nel discredito subito
dall’ente pubblico in conseguenza dell’attività illecita dei propri amministratori o dipendenti, nonché del danno all’immagine
dell’ente: la l. 190/2012 ha ampliato l’area del c.d. danno all’immagine della pubblica amministrazione, stabilendo che questo
deriva dalla commissione di un reato contro la stessa PA accertato con sentenza penale passata in giudicato. L’entità del danno
si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente
percepita dal dipendente.
La suddetta legge prevede che, in caso di commissione all’interno dell’amministrazione di un reato di corruzione accertato con
sentenza passata in giudicato, il responsabile risponda anche per il danno erariale e all’immagine della pubblica
amministrazione, salvo che provi di aver predisposto, prima della commissione del fatto, un piano di prevenzione della
corruzione, di aver osservato le prescrizioni della l. 190/2012 e di aver vigilato sul funzionamento e sull’osservanza dello
stesso. L’art. 1 l. 95/2012 prevede l’ipotesi di danno erariale come conseguenza della stipula di contratti in violazione delle
norme sul buon uso delle risorse pubbliche. Altre ipotesi di danno sono: il danno da disservizio, il danno al prestigio e il
danno alla concorrenza, scaturente da una gara illegittima.
In relazione al nesso di causalità, questo consiste nell’appurare il rapporto di causazione che intercorre tra l’inadempimento
costituito dalla violazione di uno o più obblighi e/o doveri e modalità di comportamento derivanti dal rapporto di servizio e il
danno subito dall’amministrazione. La base normativa su cui si fonda la giurisprudenza della Corte dei conti è l’art. 1223 cc e
si afferma che la trasgressione dei doveri emergenti dal rapporto di servizi non va valutata in sé stessa ma solo in rapporto alla
concreta efficacia svolta nella provocazione del danno e, nella valutazione fatta ex ante in merito all’idoneità della causa a
produrre quell’effetto.
Dalla lettura degli artt. 82/83 della legge sulla contabilità dello stato, si ricavavano altri principi inerenti alla responsabilità
amministrativa: divisibilità del danno (oggi disciplinato dalla l. 639/1996 che stabilisce che se il fatto dannoso è causato da più
persone, la Corte dei conti, valutate le singole responsabilità, condanna ciascuno per la parte che vi ha preso) e potere
riduttivo attribuito alla Corte dei conti. Ai sensi dell’art. 1 l. 20/1994, fermo restando il potere di riduzione, deve tenersi
conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione o dalla comunità amministrata in relazione al comportamento
degli amministratori o dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di responsabilità.
La l. 20/1994 e successive modificazioni introduce una disciplina della responsabilità amministrativa uniforme per tutti i
soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti. L’art. 1 l. cit. introduce delle novità:
1. il carattere personale della responsabilità stessa e la trasmissibilità del debito agli eredi secondo le leggi vigenti nei
casi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi
2. la responsabilità imputata esclusivamente a coloro che hanno espresso voto favorevole nel caso di deliberazioni di
organi collegiali
3. la limitazione della responsabilità a fatti e alle omissioni commesse con dolo o colpa grave
4. la condanna a ciascuno per la parte che vi ha preso, valutate le singole responsabilità, da parte della Corte dei conti, se
il fatto dannoso è causato da più persone
5. la circostanza che la “Corte dei conti giudica sulla responsabilità amministrativa degli amministratori e dei dipendenti
pubblici anche quando il danno sia stato cagionato ad amministrazioni ed enti diversi da quelli di appartenenza”.
Alla luce di tale norma, la giurisprudenza ritiene che la Corte dei conti possa esercitare la propria giurisdizione in
relazione alle azioni di responsabilità anche in mancanza di un rapporto di impiego o di servizio tra danneggiante e
danneggiato
6. la prescrizione del diritto al risarcimento del danno in 5 anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto danno.
In caso di mancata denuncia da parte degli organi al vertice di fatti dannosi che abbia fatto prescrivere il diritto al
risarcimento, la prescrizione per questo secondo illecito decorre dalla data in cui è maturata la prescrizione per il
primo fatto illecito non denunciato. Quando il diritto al risarcimento nasce da un fatto previsto dalla legge come reato,
il termine di prescrizione comincia a decorrere dal momento in cui il danno si manifesta all’esterno.
In relazione al termine prescrizionale di 5 anni e della tendenziale intrasmissibilità agli eredi della responsabilità
amministrativa ha creato polemiche. Il principio secondo cui la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della
Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale: ciò non è in sintonia con la configurazione della responsabilità
amministrativa quale responsabile contrattuale, cui dovrebbe invece conseguire la trasmissibilità in ogni caso agli eredi
dell’obbligo di risarcimento.
Una specie particolare di responsabilità amministrativa è la c.d. responsabilità contabile, che riguarda solo gli agenti che
maneggiano denaro e valori pubblici e che sono tenuti al rendiconto (= obbligo di documentare i risultati della gestione
effettuata e dimostrare le diverse operazioni effettuate nel corso della gestione). I contabili, che hanno l’obbligo strumentale
della custodia dei valori loro assegnati, si distinguono in: contabili di diritto (che svolgono tale funzione in base a norme, a
rapporto di impiego o contratto) e contabili di fatto (soggetti che hanno comunque maneggio di denari e beni: è l’es. del
funzionario che non ha conservato in cassaforte una somma rilevante giacente in ufficio e poi scomparsa).
Gli agenti contabili si distinguono in agenti della riscossione, agenti pagatori e agenti consegnatari di oggetti o beni pubblici.
Non sono agenti contabili coloro che hanno in consegna mobili d’ufficio, quadri ed altri oggetti ornamentali “per solo debito
di vigilanza o di ufficio”. Esempi di agenti contabili sono: l’economo, l’impiegato che tra i suoi compiti ha quello di riscuotere
i proventi di un’attività dell’ente e versare le somme al relativo ufficio, l’ufficiale giudiziario in caso di tardivo versamento di
tasse all’erario. I conti che l’agente deve rendere sono i conti giudiziali, chiamati così perché sono sottoposti al vaglio del
giudice contabile.
Gli elementi della responsabilità contabile, che deriva in sostanza dal mancato adempimento di un’obbligazione di custodia o
restituzione, sono analoghi a quelli della responsabilità amministrativa ai quali si aggiunge però la qualifica di agente
contabile. La l. 639/1996 richiede l’elemento della colpa grave senza operare alcuna distinzione tra responsabilità
amministrativa e responsabilità contabile. Giurisprudenza e dottrina oscillano sul regime del profilo psicologico. Viene
richiesto di provare l’esistenza dell’obbligazione del contabile e spetta all’attore (procuratore) dimostrare anche la colpa grave
o il dolo. Altra opinione accosta invece l’illecito dell’agente contabile alla responsabilità contrattuale ex art. 1218 cc e invoca
quindi l’inversione dell’onere probatorio, affermando che il Procuratore debba provare esclusivamente il fatto costitutivo e
l’ammanco mentre l’agente deve provare i fatti impeditivi o estintivi.
I conti degli agenti contabili, al compimento del procedimento di rendimento del conto, debbono essere presentati presso la
Corte dei conti. Per quanto riguarda l’amministrazione statale, entro i 2 mesi successivi alla chiusura dell’esercizio finanziario,
i conti sono trasmessi alla competente ragioneria dello stato e sono trasmessi alla Corte dei conti entro i 2 mesi successivi. Il
giudizio di conto si instaura necessariamente con la presentazione del conto giudiziale. Ai sensi dell’art. 150, d.lgs. 174/2016,
decorsi 5 anni dal deposito del conto senza che sia stata depositata presso la segreteria della Corte dei conti la relazione su di
esso o siano stata elevate eventuali contestazioni, il giudizio sul conto si estingue. La norma aggiunge che tale estinzione non
estingue l’azione di responsabilità.
11. Obbligazioni e servizi pubblici
All’amministrazione fanno capo rilevanti obbligazioni nell’ambito dei pubblici servizi: in questi casi il rapporto obbligatorio,
che attiene alla concreta prestazione fornita al cittadino considerato come utente, si inserisce in un contesto più ampio, segnato
dal dovere dell’amministrazione di assicurare prestazioni di servizi a favore della collettività.
L’evoluzione dei compiti e delle funzioni dello stato ha progressivamente determinato un’incisiva crescita delle dimensioni
dell’intervento dello stato nella società e nell’economia, in funzione di ausilio ai cittadini e di riequilibrio economico e sociale.
La Costituzione, pur non occupandosi direttamente dei servizi pubblici, ha dato un ulteriore impulso a questo processo,
garantendo diritti in capo ai cittadini e impegnando lo stato legislatore e i soggetti istituzionali a svolgere attività pubbliche al
fine di assicurare loro l’eguaglianza sostanziale.
L’attività di prestazione di servizi ai cittadini ha ormai acquisito un rilievo così importante da affiancarsi a pieno titolo alla
tradizionale attività che si svolge mediante provvedimenti autoritativi. In particolare, in dottrina si sottolineano: a) l’aspetto
organizzativo, atteso che l’amministrazione deve garantire la soddisfazione di alcuni bisogni apprestando le strutture
necessarie ed individuando le modalità di erogazione dei servizi più idonee; b) il punto di vista economico, nel senso che la
scelta delle attività da elevare a servizio pubblico onde soddisfare alcuni bisogni e la scelta in ordine al tipo di organizzazione
del servizio dipendono dall’entità delle risorse economiche disponibili; c) il problema delle posizioni giuridiche dei cittadini
utenti; d) il tema delle autonomie territoriali in quanto esse, sia per il loro carattere di enti a fini generali, sia per la forte
vocazione verso il sociale, sia per la vicinanza ai bisogni, sono coinvolte in modo rilevante nell’attività di erogazione dei
servizi; e) il rapporto pubblico- privato; f) il tema della trasparenza; g) il rapporto con il diritto europeo.
Il servizio pubblico è la relazione che instaura tra soggetto pubblico, che organizza un’offerta pubblica di prestazioni, e
utenti. Tale relazione ha ad oggetto le prestazioni di cui l’amministrazione garantisce, direttamente o indirettamente,
l’erogazione, al fine di soddisfare in modo continuativo e rispettando il principio della parità di trattamento i bisogni della
collettività di riferimento. Il servizio è quindi pubblico in quanto reso al pubblico degli utenti per la soddisfazione dei bisogni
della collettività, nonché in ragione del fatto che un soggetto pubblico lo assume come doveroso. Non è invece servizio
pubblico l’attività alla quale non corrisponda una specifica pretesa degli utenti, come ad esempio la gestione del calore degli
edifici pubblici.
La giurisprudenza tende però ad interpretare in modo estensivo la nozione di pubblico: sembra tuttavia preferibile ritenere nel
senso che tra gli elementi che caratterizzano il servizio pubblico figuri anche quello dell’effettiva produzione ex novo di beni e
attività che prima non esistevano.
Il servizio pubblico è assunto dal soggetto pubblico con legge o con atto generale: tale momento è espressione di una scelta
politica che consegue ad una valutazione dei bisogni della collettività. (Ai sensi dell’art. 42 T.U. enti locali, l’assunzione dei
pubblici servizi locali è di competenza del consiglio dell’ente locale; in ordine al servizio di istruzione scolastica, l’assunzione
di questo trova diretto fondamento nella Costituzione e nella legge ordinaria, mentre la programmazione avviene anche
mediante la definizione dei programmi scolastici).
Nel servizio pubblico sono perciò anche presenti momenti provvedimentali. Nella predefinizione e attuazione del rapporto tra
utente ed ente vengono cioè in evidenza atti e fatti di varia natura: legislativi, amministrativi autoritativi, operazioni materiali e
pure contratti di diritto comune (contratti di utenza).
Alla fase dell’assunzione del servizio segue poi quella della sua erogazione: vale a dire la concreta attività volte a fornire
prestazioni ai cittadini. A riguardo, l’ordinamento prevede forme tipizzate di gestione: a) gestione diretta; b) gestione
indiretta a mezzo di enti pubblici; c) intervento di soggetti privati (tale intervento non elimina il carattere pubblico del
servizio, che è tale in quanto oggetto di un atto di assunzione da parte di un soggetto pubblico. Il privato che eroga il servizio
deve rispettare gli stessi limiti e criteri predefiniti in sede di assunzione del servizio, in particolare è tenuto a garantire la parità
di trattamento nei confronti dell’utente).
Frequente è poi l’impiego del contratto di servizio quale strumento per disciplinare i rapporti tra amministrazione e soggetto
esercente. Ad es., il d.lgs. 422/1997 dispone che l’esercizio dei servizi di trasporto pubblico regionale e locale, con qualsiasi
modalità effettuati e in qualunque forma affidati è regolato mediante contratti di servizio di durata non > a 9 anni.
Al fine di garantire la continuità dell’offerta di una prestazione, la normativa prevede talora il meccanismo dell’imposizione ai
privati già presenti sul mercato e operanti come imprenditori di obblighi di servizio, che riguardano la sicurezza, regolarità,
qualità e il prezzo di alcune prestazioni.
Un tema rilevante è quello relativo alla competenza legislativa. In ordine ai servizi pubblici privi di rilevanza economica, la
Corte cost. con sent. 272/2004 ha sottolineato che in questo ambito non si può individuare un mercato concorrenziale e ha
dichiarato incostituzionale l’art. 113 bis T.U. enti locali, che aveva ad oggetto siffatti servizi. Oggi la disciplina relativa a
questi ambiti è rimessa alle fonti regionali e locali, anche se non si può escludere in radice un intervento statale sulla base
dell’art. 117. 2 lett. m) in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni. Il suddetto art. 113 bis T.U. enti
locali prevedeva che gli affidamenti diretti potevano avvenire a favore dei seguenti soggetti: a) istituzione “organismo
strumentale dell’ente locale per l’esercizio di servizi sociali, dotato di autonomia gestionale”; b) aziende speciali: si tratta di
un ente pubblico strumentale che è dotato di personalità giuridica, di autonomia imprenditoriale e di un proprio statuto
società a capitale interamente pubblico; c) società a capitale interamente pubblico, secondo il modello del in house providing.
Nel settore sanitario la legge prevede che la partecipazione dei privati allo svolgimento del servizio pubblico possa fondarsi
sull’istituto dell’accreditamento, in forza del quale, subordinatamente all’accertamento del possesso dei requisiti fissati
dall’amministrazione, la struttura privata è riconosciuta idonea ad operare a favore degli utenti.
La Corte cost. con sent. 325/2010 è intervenuta sulla legittimità dell’art. 23 bis d.l. 112/2008 concernente i servizi a rilevanza
economica. Nella sentenza in questione, la Corte ha posto in luce la corrispondenza tra le nozioni di servizi pubblici e di
servizi di interesse economico generale affermando la competenza legislativa statale alla tutela della concorrenza,
aggiungendo che “non appare irragionevole, anche se non costituzionalmente obbligata, una disciplina tesa a rendere più
stringenti le regole della concorrenza in ordine alla scelta dei gestori riducendo le eccezioni al principio della gara”. Inoltre, “è
compito dello stato definire le condizioni di rilevanza economica dei servizi e indicare i presupposti per l’applicazione della
disciplina generale”.
A livello di TFUE, il servizio pubblico (o meglio, il servizio di interesse generale) costituisce oggetto di disciplina indiretta,
sul presupposto che, se economico, possa incidere sul libero gioco della concorrenza e, più in generale, nella prospettiva della
coesione sociale e territoriale. In specie, la normativa europea definisce i confini entro i quali sono ammesse deroghe al
rispetto delle norme del Trattato: viene infatti stabilito che le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse
economico generale sono sottoposte alle norme del Trattato e al regime della concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di
tali norme non osti all’adempimento della specifica missione loro affidata; si vuole impedire che la situazione di vantaggio
riconosciuta all’impresa che eroga il servizio si estenda al di là di quanto necessario.
L’art. 14 Tue stabilisce che “L’Unione e gli stati, in considerazione della loro importanza nell’ambito dei valori comuni
dell’unione, nonché del loro ruolo nella promozione della coesione sociale e territoriale, provvedano affinché i servizi di
interesse economico generale funzionino in base a principi e condizioni che consentano loro di assolvere i loro compiti”.
Alla luce di quanto visto, i servizi costituiscono un ambito nel quale i poteri pubblici, anche europei, debbono impegnarsi per
la promozione della coesione sociale e territoriale.
Accanto alle norme del Trattato vi sono diverse direttive che si occupano di settori specifici nella prospettiva della
liberalizzazione.
Molteplici sono le classificazioni che possono essere operate in relazione ai servizi pubblici. Per quanto riguarda la distinzione
tra servizi a rilevanza economica (per i quali sussiste un mercato e, dunque, la competenza legislativa statale esclusiva in
materia di concorrenza) e servizi privi di rilevanza economica (questi ultimi sono collocati fuori dal mercato, come ad
esempio i servizi sociali).
La Costituzione parla di servizi pubblici essenziali all’art. 43 Cost.: tale articolo si occupa della riserva operata con legge allo
stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti di determinate attività ed individua quale oggetto della riserva le
imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali. Con tale formulazione sembra quasi volersi chiudere il mercato dei
servizi pubblici essenziali, escludendo quindi la libertà di iniziativa economica. Gli artt. 33, 34 e 38 Cost. si oppongono invece
all’instaurazione di un monopolio pubblico per i servizi di istruzione e di assistenza.
Con riferimento agli enti locali, la legge si riferisce ai servizi indispensabili e a quelli ritenuti necessari per lo sviluppo della
comunità: tali servizi sono finanziati dalle entrate fiscali, che vanno comunque ad integrare la contribuzione erariale per
l’erogazione dei servizi indispensabili.
I servizi sociali sono caratterizzati invece da elementi quali: finalizzazione alla tutela e alla promozione del benessere della
persona; doverosità della predisposizione degli apparati pubblici necessari per la loro gestione; assenza del divieto per i privati
di svolgere tale attività.
L’intervento pubblico è imposto dall’ordinamento (si pensi a sanità e scuola), ma non è subordinato al fallimento del
mercato, garantendosi anzi uno spazio per l’iniziativa delle parti. La l. 328/2000 prevede una disciplina completa in materia
di assistenza, considerando unitariamente i differenti servizi oggetto di discipline settoriali e precisando che per interventi e
servizi sociali si intendano “tutte le attività previste dall’art. 128 d.lgs. 112/1998”: si tratta di tutte quelle attività che sono
volte a combattere l’esclusione e a promuovere l’integrazione, le quali comportano indubbiamente un sacrificio a livello
economico. I tradizionali servizi sociali possono essere inquadrati giuridicamente richiamando il principio del dovere di
solidarietà ex art. 2 Cost.
Di recente è poi emersa la categoria di servizio universale che è un “insieme minimo definito di servizi di qualità
determinata, accessibili a tutti gli utenti a prescindere dalla loro ubicazione geografica e ad un prezzo accessibile”.
Nozione ancora diversa è quella di servizi di pubblica utilità: qui l’accento va posto sul pubblico cui possono essere rese le
prestazioni e non già sul “pubblico” che assume il dovere di assicurarle.
Si distingue tra servizi a fruizione collettiva e servizi a fruizione individuale, erogati sulla base di n rapporto giuridico
preciso con l’utente. Le forme di affidamento del servizio pubblico, alla luce della copiosa legislazione sia interna sia
comunitaria, sono tipizzate dal legislatore e in alcuni casi l’amministrazione si avvale della propria organizzazione mentre
altre volte si rivolge ad altri soggetti per attuare i servizi previsti dalla legge.
Rilevano in particolare i servizi pubblici locali, che rientrano nella titolarità di comuni e province e hanno ad oggetto “la
produzione di beni e attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità
locali” ma la cui disciplina, secondo Corte cost. sent. 22/2014, non può ascriversi nell’ambito delle funzioni fondamentali. Gli
artt. 112 ss. T.U. enti locali distinguono tra servizi a rilevanza economica e servizi che non hanno rilevanza economica: tra i
servizi aventi rilevanza economica rientrano ad esempio i servizi dell’energia elettrica, trasporto, raccolta rifiuti. Non esiste
però un criterio per qualificare in modo chiaro e preciso un servizio come avente o meno rilevanza economica; a riguardo, la
giurisprudenza valuta caso per caso.
Con riguardo alla disciplina dell’affidamento e della gestione dei servizi locali di rilevanza economica, la disciplina era
prevista all’art. 113 Tuel e poi trasposta nella l. 133/2008, la quale è stata oggetto di referendum abrogativo avente ad oggetto
la consultazione sulla gestione dell’acqua: tale referendum andava però ad incidere anche sull’intero sistema della gestione dei
servizi pubblici locali. Successivamente al referendum il legislatore è intervenuto con l. 148/2011 disciplinando l’assunzione e
l’organizzazione del servizio. Tuttavia, la Corte cost. sent. 199/2012 ha dichiarato tale disciplina incostituzionale nella parte in
cui, in contrasto con l’esito del referendum del 2011, riproduceva la precedente norma oggetto di abrogazione referendaria).
Dal punto di vista organizzativo, nella parte della l. 148/2011 che è rimasta in vita dopo il referendum si prevede che le regioni
definiscano lo svolgimento dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica per ambiti o bacini territoriali ottimali ed
omogenei, di norma non inferiori al territorio provinciale, tali da garantire economie di scala ed assicurare l’efficienza del
servizio. È però prevista una deroga: infatti, le regioni possono individuare specifici bacini territoriali di dimensione diversa
da quella provinciale, motivando tale scelta in base a criteri di differenziazione territoriale e socio- economica e in base ai
principi di proporzionalità, adeguatezza ed efficienza rispetto alle caratteristiche del servizio, anche su proposta dei comuni.
Viene inoltre chiarito all’art. 3 bis l. 148/2011 che le funzioni di organizzazione dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza
economica, compresi quelli appartenenti al settore dei rifiuti urbani, di scelta della forma di gestione, di determinazione delle
tariffe all’utenza, di affidamento della gestione e relativo controllo sono esercitate unicamente dagli enti di governo degli
ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei istituiti o designati.
Per quanto attiene all’affidamento, l’art. 34 d.l. 179/2012 dispone che quello del servizio pubblico locale a rilevanza
economica è effettuato sulla base di apposita relazione, pubblicata sul sito internet dell’ente affidante, che dà conto delle
ragioni e della sussistenza dei requisiti previsto dall’ordinamento UE per la forma di affidamento prescelta e che definisce i
contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale. Tale norma, è sintetica, anche se deve ritenersi
ferma quantomeno la possibilità di procedere con le modalità compatibili con il diritto europeo e garantite dalla Corte
costituzionale, vale a dire: la gara, l’affidamento a società mista con gara per la scelta del socio operativo, affidamento in
house. Ci si domanda se tra queste forme vi sia una gerarchia: sul punto vi sono opinioni tra loro differenti, anche se vi è chi
sostiene che la scelta di procedere all’affidamento in house debba essere giustificata alla luce del tipo di servizio da erogare e
delle sue caratteristiche.
In relazione alle forme di affidamento, in passato la giurisprudenza aveva ammesso la possibilità per l’ente di esercitare i
servizi pubblici nella forma dell’amministrazione diretta, come si evince da Cons. stato sent. 552/2011 (la sentenza
riguardava la gestione e manutenzione delle lampade votive all’interno dei cimiteri comunali). Tuttavia l’art. 34 d.lgs.
179/2012 ammette ulteriori forme di affidamenti diretti solo in un caso, disponendo che il servizio di illuminazione votiva
deve essere affidato in concessione ai sensi dell’art. 130 d.lgs. 153/2006 o 125 d.lgs. cit. (il c.d. affidamento in economia).
In ogni caso, la disciplina impone che la scelta di affidamento sia il risultato di un’istruttoria e sia supportata da adeguata
motivazione. L’art. 113.11 TUEL stabilisce l’obbligo di stipulare il contratto di servizio per la regolazione dei rapporti tra PA
e soggetto erogatore del servizio pubblico.
Con riguardo ai servizi pubblici in generale, la dottrina ha individuato i principi giuridici applicabili al settore che sono:
doverosità, continuità, parità di trattamento, tipicità dei modelli di gestione, eguaglianza, economicità, qualità, tutela,
partecipazione (art. 11 d.lgs. 286/1999). La norma in questione prevede che i casi e le modalità di adozione delle carte dei
servizi, i criteri di misurazione della qualità dei servizi, le condizioni di tutela degli utenti, nonché i casi e le modalità di
indennizzo automatico e forfettario all’utenza per mancato rispetto degli standard di qualità sono stabilite con direttive del
Presidente del consiglio. da rimarcare è anche il nesso con la trasparenza: ai sensi dell’art. 10 d.lgs. 33/2013 essa rileva come
dimensione principale ai fini della determinazione degli standard di qualità dei servizi pubblici da adottare con le carte dei
servizi. Ulteriori principi, ricavabili dalla nozione di servizio universale, sono quelli dell’universalità e dell’accessibilità.
Sulla scorta dell’influenza esercitata dal diritto dell’Ue, l’Italia ha avviato in modo deciso il processo di liberalizzazione di
alcuni mercati. Tale fenomeno ha alcune connessioni con la tematica dei servizi pubblici nel senso che le attività liberalizzate
in passato erano gestite in situazioni di monopolio da concessionari di servizi pubblici, laddove la liberalizzazione comporta
l’eliminazione di barriere all’ingresso e l’apertura alla concorrenza. L’apertura del mercato è spesso compensata attraverso la
regolamentazione del mercato medesimo, con la conseguenza che alcune prestazioni possono essere svolte da più
imprenditori, spesso in regime di autorizzazione e talora con l’imposizione di obblighi di servizio.
L’art. 133 c.p.a. devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo “le controversie in materia di pubblici servizi
relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a
provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio, e alla vigilanza e controllo nei
confronti del gestore nonché afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare, al servizio
farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di pubblica utilità”. La nozione più ampia di pubblico servizio
qui impiegata ricomprende anche attività che non rientrano in quella sopra fornita (vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e
sul mercato mobiliare).
12. Servizi pubblici e tutela delle situazioni soggettive
Mediante l’assunzione e la programmazione del servizio pubblico l’amministrazione assume il dovere di garantirne il servizio
e tramite questi atti vengono conferiti diritti ai singoli utenti, che hanno ad oggetto la prestazione che costituisce il servizio
pubblico. Le prestazioni possono essere rese indistintamente a tutti gli interessati ovvero ai singoli utenti che ne facciano
richiesta. In questo secondo caso, l’erogazione dei servizi, a domanda individuale, presuppone l’instaurazione di contratti di
utenza pubblica, che sono configurati sul modello del contratto per adesione. Giurisprudenza e dottrina affermano infatti che
con riferimento ai servizi economici questi “non possono che avere natura contrattuale”.
Dal punto di vista della situazione giuridica dell’utente, ove vi sia stata la stipulazione di un vero e proprio contratto, ovvero il
soggetto sia stato ammesso al servizio, non si pone nessun problema in quanto sorge un diritto soggettivo in capo al privato.
La questione riguarda piuttosto l’aspirazione dell’utente ad ottenere prestazioni che l’amministrazione ha il dovere di erogare
alla collettività precedentemente all’eventuale stipulazione di un contratto o all’atto di ammissione (quelle prestazioni sono
spesso definite in termini di livelli essenziali) e in relazione alle scelte concrete di organizzazione del servizio (si pensi ad
esempio alle prestazioni sanitarie: la giurisprudenza oscilla tra l’affermazione della sussistenza di un diritto soggettivo e il
riconoscimento di un interesse legittimo al corretto esercizio del potere amministrativo di organizzazione del servizio). La
protezione del cittadino, in questo caso, è realizzata attraverso il ricorso alla tutela propria dell’interesse legittimo, che si
completa con la responsabilità contrattuale o extracontrattuale per lesione di interessi legittimi. Inoltre, riconoscendo la
sussistenza di obblighi di servizio, l’ordinamento consente di configurare veri e propri diritti soggettivi che hanno ad oggetto
le prestazioni di servizio pubblico che sono tutelate dall’art. 2.2 lett. g) d.lgs. 206/2005. L’art. 30 l. 69/2009 prevede che le
carte dei servizi adottate dalle amministrazioni e dai privati che erogano servizi pubblici o di pubblica utilità devono
contemplare la possibilità per l’utente o per la categoria di utenti che lamenti la violazione di un diritto o di un interesse
giuridico rilevante di promuovere la risoluzione non giurisdizionale della controversia. (In tema di carte dei servizi rileva la
disciplina di cui all’art. 8 d.l. 1/2012 ai sensi della quale tali carte indicano in modo specifico i diritti, anche di natura
risarcitoria, che gli utenti possono esigere nei confronti dei gestori del servizio e dell’infrastruttura.
L’azione sull’efficienza di amministrazioni e concessionari di cui al d.lgs. 198/2009 in quanto preordinata al ripristino delle
condizioni organizzative attinente anche alla migliore erogazione dei servizi pubblici potrebbe costituire uno strumento anche
per fornire tutela all’utente il cui interesse sia leso dalla non corretta prestazione del servizio.
L’art. 21 bis l. 287/1990 attribuisce all’autorità garante della concorrenza e del mercato la legittimazione ad agire in giudizio
contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le
norme a tutela della concorrenza e del mercato.

13. Adempimento delle obbligazioni pubbliche e responsabilità patrimoniale dell’amministrazione


Alcune obbligazioni non hanno ad oggetto una somma di denaro mentre altre hanno invece carattere patrimoniale: queste
ultime sono soggette non solo alla disciplina di diritto comune ma anche a quella pubblicistica relativa al pagamento di somme
di denaro da parte dell’amministrazione. Le disposizioni di contabilità pubblica prevedono un procedimento molto dettagliato
che inizia con la comunicazione agli uffici di ragioneria dell’atto dal quale deriva l’obbligo di pagare una somma, per la
registrazione dell’impegno, e si chiude con il pagamento della somma.
Per quanto attiene il luogo dell’adempimento della prestazione, dottrina e giurisprudenza sono divise: seguendo un’opinione,
si afferma che i pagamenti debbono essere eseguiti secondo le regole civilistiche (domicilio del creditore) mentre secondo
altra opinione si ritiene che il luogo dell’adempimento sia costituito dalla sede degli uffici di tesoreria.
Per quanto attiene il tempo dell’adempimento, per la giurisprudenza si ritiene che l’esaurimento della procedura di
erogazione della spesa non condiziona il sorgere degli interessi, abbandonando l’indirizzo secondo cui i debiti diventerebbero
liquidi ed esigibili solo a conclusione del procedimento contabile.
La disciplina del procedimento contabile stabilisce che i pagamenti avvengano “nel tempo stabilito dalle leggi, dai
regolamenti e dagli atti amministrativi generali”. La direttiva 35/2000 Ue in materia di lotta contro i ritardi di pagamento nelle
transazioni commerciali viene ritenuta applicabile anche alle transazioni effettuate con soggetti pubblici; per transazione
commerciale si intende qualunque contratto tra imprese o tra imprese e pubblica amministrazione che comporti la consegna di
merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo.
Il termine per il pagamento è di 30 gg dal ricevimento della fattura, o delle merci o dalla data di prestazione dei servizi o
dall’accettazione o dalla verifica di merci e servizi. Si stabilisce che ove il debitore sia una PA, le parti possono pattuire in
modo espresso un termine per il pagamento superiore, quando ciò sia giustificato dalla natura o dall’oggetto del contratto o
dalle circostanze esistenti al momento della sua conclusione. In ogni caso i termini non possono essere superiori a 60 giorni. I
termini sono però raddoppiati per gli enti pubblici che forniscono assistenza sanitaria e che siano stati debitamente
riconosciuti a tal fine e per le imprese pubbliche. In merito agli interessi di mora, si stabilisce che questi decorrono, senza che
sia necessaria la costituzione in mora, dal giorno successivo alla scadenza.
Stando alle statistiche, risulta che la PA sia un pessimo pagatore e ciò ha generato un’ingente entità di debito commerciale;
l’ordinamento ha tentato di porre rimedio al problema del pagamento dei debiti delle amministrazioni disciplinando prima
la certificazione dei crediti delle imprese e poi adottando un intervento più organico con le l. 64/2013 e 89/2014, ove viene
stabilito che le amministrazioni che registrano tempi medi di pagamento notevolmente superiori a quelli previsti, nell’anno
successivo a quello di riferimento, non possono procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo.
Particolarmente rilevante è poi il profilo della ricognizione dei debiti contratti dalle amministrazioni: le comunicazioni
relative all’elenco completo dei debiti certi, liquidi ed esigibili non estinti dalla data del 31 dicembre di ciascun anno sono
trasmesse dalle amministrazioni pubbliche per il tramite della piattaforma elettronica entro il 30 aprile dell’anno successivo.
Il meccanismo di certificazioni dei crediti riguardava in origine le somme dovute per somministrazione, forniture e appalti, ma
è stato esteso anche a quelle dovute ai professionisti. I crediti certificati come certi, liquidi ed esigibili possono essere ceduti
dal creditore pro soluto o pro solvendo a favore di banche o intermediari finanziari riconosciuti dalla legislazione vigente.
Un’ulteriore misura attiene alla semplificazione della cessione dei crediti certi, liquidi ed esigibili maturati nei confronti delle
pubbliche amministrazioni per somministrazioni, forniture ed appalti.
Altra misura prevista per porre rimedio alle inadempienze di pagamento della PA è la compensazione, ossia la possibilità che
viene riconosciuta a favore dello stato di operare compensazioni tra propri crediti e propri debiti, mentre il privato, in forza del
principio dell’integrità del bilancio, non può operare una compensazione tra un proprio debito con un credito vantato nei
confronti dello stato: tale principio trova però una deroga con la l. 64/2013 dove si prevede che i crediti possono essere
compensati con le somme dovute a seguito di iscrizione a ruolo.
Si ritiene inoltre inapplicabile alla PA l’art. 1181 cc sicché il creditore privato non può rifiutare un adempimento parziale
della PA.
Istituto peculiare è poi il c.d. fermo amministrativo ex art. 69 della legge di contabilità dello stato, che prevede che “qualora
un’amministrazione dello stato che abbia, a qualsiasi titolo, ragione di credito verso aventi diritto a somme dovute da altre
amministrazioni, richieda la sospensione del pagamento, questa deve essere eseguita in attesa del provvedimento definitivo”;
vuol dire che l’amministrazione creditrice verso un creditore di altra amministrazione chiede la sospensione provvisoria dei
pagamenti dovuti all’amministrazione debitrice senza la necessità di utilizzare lo strumento del pignoramento o sequestro.
La responsabilità patrimoniale è invece l’istituto, disciplinato dal c.c., che è posto a presidio della ragione dei creditori.
Ai sensi dell’art. 2740 cc il titolare del diritto di credito vede tutelate le sue ragioni dal fatto che il debitore risponde
dell’adempimento delle proprie obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri. Si prevede inoltre in capo al creditore diritti
e strumenti giuridici che hanno il fine di garantire la conservazione del patrimonio del debitore, evitando così eventuali
depauperamenti in pendenza del rapporto di obbligazione. Tali meccanismi sono: azione surrogatoria, azione revocatoria,
sequestro conservativo, diritti reali di garanzia.
In caso di inadempimento dell’obbligazione ove il credito risulti da titolo esecutivo ex art. 474 cpc, il creditore può procedere
ad esecuzione forzata. Tuttavia, alcuni beni dell’amministrazione non possono essere oggetto di esecuzione forzata, come nel
caso di beni riservati all’amministrazione e beni destinati a funzioni e servizi pubblici (non possono essere pignorati). In linea
di massima quindi l’esecuzione forzata è possibile solo nei confronti di beni patrimoniali disponibili.
Analogo discorso viene fatto in ordine al sequestro conservativo ex art. 671 c.p.c.: i beni demaniali e quelli patrimoniali
indisponibili non sono sequestrabili, poiché sono riservati o destinati ad una funzioni o ad un servizio pubblico.
Inoltre alcune deroghe sono previste da leggi speciali: ad esempio l’art. 5 bis l. 69/2001 prevede che non possono essere
effettuati atti di sequestro o pignoramento presso la tesoreria centrale e le tesorerie provinciali dello stato; ancora, va ricordata,
in tema di regole applicabili alle obbligazioni pubbliche, la disciplina della cessione dei crediti di cui all’art. 106, d.lgs.
50/2016, codice dei contratti.
PARTE II: GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA
CAPITOLO IX
L’EVOLUZIONE DEL SISTEMA ITALIANO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA E LA TUTELA INNANZI AL
GIUDICE ORDINARIO
1. Giustizia amministrativa: definizione e cenni di diritto comparato
Con il termine “giustizia amministrativa” si indica nel nostro ordinamento un complesso di istituti assoggettati a differenti
discipline. La giustizia amministrativa comprende infatti: a) le disposizioni che trovano applicazione a opera del giudice
amministrativo o di un giudice amministrativo speciale; b) parte delle disposizioni relative al giudizio che si svolge dinanzi al
giudice ordinario; c) la normativa sui ricorsi amministrativi.
Di tali discipline alcune sono di natura processuale, altre (relative ai ricorsi amministrativi) di natura sostanziale.
La giustizia amministrativa italiana si caratterizza così per la presenza di rimedi giurisdizionali (dinanzi al giudice ordinario,
a quello amministrativo e ai giudici amministrativi speciali) e di rimedi amministrativi.
Inoltre, confluisce in essa l’intero processo amministrativo, mentre, per ciò che attiene al giudice ordinario, le trattazioni di
giustizia amministrativa si occupano in particolar modo di studiare le disposizioni processuali che trovano applicazione
quando parte del rapporto processuale sia una pubblica amministrazione. Va però osservato che l’art. 117.2, lett. l), Cost.
attribuisce oggi alla potestà legislativa esclusiva dello Stato le materie della “giurisdizione e norme processuali (...); giustizia
amministrativa”: quest’ultima, per esclusione, parrebbe includere i soli rimedi non aventi natura giurisdizionale. Ma
l’espressione “giustizia amministrativa” è chiaramente usata nell’art.125 Cost. (che si riferisce agli organi di primo grado
appunto di giustizia amministrativa) per indicare rimedi giurisdizionali. Il momento unificante di questo eterogeneo sistema è
rappresentato dalla comune finalità, costituita dalla tutela del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione attraverso
il riconoscimento del potere di rivolgersi ad una autorità (giudice ammnistrativo, giudice ordinario, autorità amministrativa) al
fine di ottenere giustizia.
L’attuale sistema è il frutto di un lungo e complesso processo che affonda le proprie radici in periodi storici ormai risalenti.
Già nello Stato assoluto e nello Stato di polizia erano presenti meccanismi volti a sindacare il rispetto delle regole di
condotta del potere amministrativo; tuttavia l’esigenza di soddisfare la domanda di giustizia dei privati si fece più pressante
dopo la Rivoluzione francese e in occasione della nascita dello Stato a regime amministrativo. Se l’affermazione della
separazione dei poteri condusse alla sottrazione dell’attività amministrativa al sindacato dell’autorità giudiziaria, ciò non
impedì la creazione di un sistema di tutela speciale e interno ad esso (contentieux administratif); in questo sistema il Consiglio
di Stato si trasformò da organo di giustizia ritenuta, secondo un modello in cui la decisione finale era pur sempre emanata dal
capo del potere esecutivo (il Consiglio si limitava a formulare la decisione), in organo di giustizia delegata (al quale, dunque,
era attribuito l’esercizio della funzione giurisdizionale). Ebbe luogo così, nel modello francese, l’enucleazione di un corpo di
regole peculiari di “diritto amministrativo”. Tale sistema può essere definito modello monistico con prevalenza del giudice
amministrativo, in quanto caratterizzato dalla presenza di un giudice amministrativo, non completamente separato
dall’esecutivo, che si presenta come “maggior polo d’attrazione” delle liti con l’amministrazione, occupandosene con
competenza tendenzialmente generale.
Per quanto attiene all’attualità, con l. 95-125/1995, il Consiglio di Stato francese è stato trasformato da giudice d’appello in
giudice di “cassazione”, mentire i giudici di appello sono le Cours administratives d’Appel. In Francia più di recente si va
imponendo il richiamo alla natura della disposizione che deve essere applicata nel caso su cui il giudice è chiamato a
pronunciarsi. Accanto ai ricorsi per l’annullamento dell’atto, sono ammissibili ricorsi di piena giurisdizione, mediante i quali
si chiede al giudice anche la condanna dell’amministrazione al pagamento di una somma a titolo di risarcimento. Il modello
francese fu esteso in alcuni Paesi dell’Europa occidentale e perfino in alcuni Paesi latino-americani. In Germania la nascita
degli istituti del contenzioso avvenne soltanto dopo la metà dell’Ottocento; i giudici amministrativi tedeschi (i quali oggi
hanno competenza generale a decidere le controversie circa le materie di diritto pubblico e sono nettamente separati
dall’amministrazione) si articolano in giudici di primo grado, giudici d’appello (presenti in ogni Stato) e nel giudice di
revisione delle decisioni dei giudici d’appello. Le azioni ammissibili sono quella di annullamento, quella di condanna (che
ricomprende anche la condanna all’emanazione di un atto amministrativo) e l’azione di accertamento di rapporti o della nullità
dell’atto amministrativo.
Diverso invece è il modello monistico con prevalenza del giudice ordinario, ispirato a una differente visione del liberalismo
e attutato nel sistema belga, che nel 1831 istituì la giurisdizione unica, soluzione che influenzò profondamente il diritto
italiano.
Attualmente sussiste una netta censura tra sistema continentale (tranne il Belgio) e il modello inglese, caratterizzato dalla
giurisdizione unica del giudice ordinario. La tradizione liberale del potere, che affonda le sue radici nella Magna Charta del
1215, e la supremazia del Parlamento non offrirono nel Regno Unito spazi sufficienti per la creazione di un regime specifico
di giurisdizione per l’azione amministrativa. Il controllo sull’amministrazione e sul governo si sviluppò come controllo di
legalità esercitato dal parlamento, posto in superiorità rispetto all’esecutivo. Di conseguenza, i rapporti tra privati e
amministrazione erano, e sono ancora oggi, equiparati a quelli tra privati e assoggettati allo stesso diritto comune. Le corti
ordinarie giudicano anche nella materia amministrativa. Per quanto riguarda la struttura dell’apparato giudiziario, al vertice si
colloca l’House of Lords, mentre al di sotto vi è la Court of Appeal e l’High Court, distinta in Family Division, Chancery
Division e Queen’s Bench Division. Nel segno della separazione tra i poteri dello Stato, il Constitutional Reform Act del 2005
introduce nel Regno Unito la Corte suprema, alla quale sono trasferite tutte le funzioni giurisdizionali della House of Lords.
2. L’evoluzione del sistema italiano
Nel 1831 venne istituito da Carlo Alberto il Consiglio di Stato: tale organo sarebbe divenuto in seguito punto di riferimento
del sistema di giustizia amministrativa; esso era diviso in 3 sezioni e fu mantenuto dallo statuto del Regno concesso nel marzo
1948.
Attribuzioni contenziose erano invece riconosciute a livello periferico ai Consigli di intendenza, qualificati dal regio editto
del 1847 come giudici ordinari del contenzioso amministrativo. La competenza a giudicare in appello le decisioni di tali
consigli era attribuita alla Camera dei conti (denominata Corte dei conti a partire dal 1859), le cui decisioni potevano essere
impugnate per incompetenza dinanzi al Consiglio di Stato. Nel 1859, a seguito della riforma Rattazzi, giudice supremo del
contenzioso venne riconosciuto il Consiglio di Stato, al quale poteva essere presentato appello nei confronti di una serie di
controversie relative a diritti civili (appalti), di diritto pubblico (imposte, tasse provinciali e comunali) e relative a
contravvenzioni. Il Consiglio di Stato giudicava in unico grado sulle controversie relative al debito pubblico e alle pensioni.
Gli organi indicati costituivano nel loro complesso i Tribunali ordinari del contenzioso amministrativo. Al Re era riservata la
soluzione dei conflitti che insorgessero tra amministrazione e giudici, ovvero tra tribunali ordinari e speciali; tutte le restanti
questioni erano risolte in via amministrativa dalla pubblica amministrazione.
Al momento in cui venne raggiunta l’unità d’Italia, il nuovo Stato dovette affrontare il tema dell’unificazione del sistema di
giustizia amministrativa. Questa fu risolta nel 1865 quando fu emanata la l. 2248/1865, composta da un solo articolo, la quale
era completata da sei allegati: il più interessante, in questione, è l’allegato E (ancora in vigore). Il legislatore post-unitario
accolse il modello belga: in quello Stato (come detto precedentemente) erano state devolute alla giurisdizione dei tribunali
ordinari sia le questioni relative ai diritti privati, sia quelle relative ai diritti politici. Tale fu quindi la fonte ispiratrice della
legge del 1865, detta anche legge abolitrice del contenzioso amministrativo, che aboliva soltanto il contenzioso
amministrativo ordinario, lasciando intatte alcune giurisdizioni amministrative “speciali”: in particolare si ricordano le
competenze della Corte dei conti in materia contabile e di pensioni e quelle del Consiglio di Stato in relazione ad alcune
controversie tassativamente indicate, nonché ai ricorsi per annullamento avverso le decisioni della Corte dei conti. Il criterio
per individuare la giurisdizione era dunque quello della natura della situazione giuridica di cui si affermasse la lesione (art. 2).
Per quanto attiene alle questioni non attinente a diritti (art. 3), la “tutela” era lasciata alle amministrazioni: lo spartiacque della
tutela giurisdizionale coincideva con la distinzione tra diritti soggettivi (uniche situazioni tutelabili) e “altri affari” (questioni
non attinenti a diritti) e la tutela delle posizioni soggettive di cui non poteva conoscere il giudice ordinario era affidata ai soli
ricorsi amministrativi. Il potere del giudice ordinario era limitato alla conoscenza degli effetti dell’atto in relazione all’oggetto
dedotto in giudizio, escluso dunque quello di revocare o annullare l’atto stesso. Inoltre si sanciva l’obbligo di applicare solo
gli atti amministrativi e i regolamenti conformi a leggi.
La soppressione dei tribunali del contenzioso amministrativo mostrò come fosse grave la lacuna di tutela che si era aperta in
relazione alla situazioni dei privati che non avessero la dignità di diritti soggettivi, tenendo conto della “timidezza” talora
mostrata dall’ordine giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione. Il giudice ordinario, in particolare,
escludeva la propria giurisdizione nei casi in cui il comportamento del soggetto pubblico coinvolgesse in qualche modo le
funzioni amministrative, ritenendo che ciò fosse sufficiente a determinare l’estinzione del diritto soggettivo.
Di conseguenza, le ipotesi nelle quali sopravviveva un sindacato giurisdizionale risultavano estremamente limitate. Iniziarono
dunque a fiorire voci critiche in ordine al sistema adottato con la legge del 1865. Esso venne modificato con la 1.3761/1877, la
quale attribuì alle sezioni unite della Corte di cassazione di Roma la competenza, in precedenza spettante al Consiglio di Stato
(l. 2248/1865, allegato D), a risolvere i conflitti di attribuzione tra giudice ordinario e pubblica amministrazione.
La reazione al sistema sorto a seguito della svolta del 1865 ebbe come principale protagonista Silvio Spaventa, che affermò
l’importanza essenziale dell’istituzione di un giudice per la soluzione delle controversie tra amministrazione e cittadini. In
particolare venne sottolineata l’insufficienza della tutela assicurata dall’art. 3, l. 2248/1865, all. E agli interessi non
configurabili come diritti. Il dibattito sfociò nella riforma del 1889. Con l’approvazione della 1.5992/1889, istitutiva della IV
sezione del Consiglio di Stato, la giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione risultò divisa tra due ordini
giurisdizionali, caratterizzando il nostro sistema di giustizia come “dualistico”.
Almeno fino al 1907, anno in cui fu affermata espressamente la natura giurisdizionale delle decisioni del Consiglio di Stato,
non vi fu unanimità di opinioni in ordine al carattere giurisdizionale di esso: alcune voci infatti affermarono che la nuova
istituzione fosse pur sempre da collocare nell’ambito del potere esecutivo; più precisamente, si sarebbe trattato di una forma di
controllo amministrativo, pur assistita dalla garanzia del contraddittorio. D’altro canto, va notato che la IV sezione aveva gli
stessi poteri di annullamento degli atti spettanti in via di autotutela all’amministrazione. Vero è che la giurisdizione del
giudice amministrativo era individuata facendo riferimento all’illegittimità del provvedimento.
Quasi immediatamente il sistema si assestò secondo un principio di duplicità-esclusione, nel senso che le due aree interessate
dalle giurisdizioni del giudice ordinario e di quello amministrativo in ordine alle controversie di cui fosse parte
l’amministrazione vennero ritenute escludersi a vicenda: il giudice ordinario continuava a conoscere della lesione dei diritti
soggettivi, mentre il giudice amministrativo si occupava della sola illegittimità degli atti amministrativi derivante della
violazione di norme differenti, di norme cioè che disciplinano l’azione della pubblica amministrazione.
L’opera di riforma del sistema di giustizia amministrativa fu completata grazie all’attribuzione, con la legge 6837/1890, alle
giunte provinciali amministrative della competenza, estesa di regola anche al merito, a conoscere di alcune controversie
tassativamente indicate e relative agli atti degli enti controllati in sede locale, prevedendo altresì la possibilità di appello al
Consiglio di Stato.
Per quanto attiene ai rimedi non giurisdizionali, le innovative riforme di questi anni non intaccavano in modo decisivo il ruolo
e la funzione dei ricorsi amministrativi e in particolare il ricorso gerarchico. In ogni caso, la proposizione del ricorso
giurisdizionale non era ammissibile nelle ipotesi in cui fosse stato esperito il ricorso amministrativo e, per quanto attiene al
Consiglio di Stato, era subordinata alla definitività dell’atto, carattere questo che poteva essere acquisito mediante l’impiego di
un rimedio amministrativo. Nel 1907 fu istituita la V sez. alla quale fu attribuita unicamente la giurisdizione di merito. II
coordinamento con la IV sez. era affidato alle sezioni riunite. Nello stesso anno furono approvati i testi unici sul Consiglio di
Stato, sulla giunta provinciale amministrativa e il regolamento di procedura avanti al Consiglio di Stato (r.d. 642/1907, ancora
oggi in vigore).
Negli anni 1923-1924 fu abolita la distinzione di competenza tra IV e V sezione e fu introdotta la giurisdizione esclusiva del
Consiglio di Stato: infatti in ordine ad alcune materie tassativamente indicate, tra cui quella del pubblico impiego, in cui era
difficile distinguere tra diritti soggettivi e interessi legittimi e in cui i conflitti di giurisdizione erano particolarmente frequenti,
si decise la devoluzione della giurisdizione al giudice amministrativo, competente a sindacare anche della lesione di diritti,
con “esclusione” della giurisdizione del giudice ordinario. Fu riconosciuto al giudice amministrativo il potere di giudicare, con
efficacia limitata al caso, delle questioni pregiudiziali e incidentali relative a diritti, ad eccezione delle questioni di stato e
falso documentale.
Nel 1948 fu istituita la VI sez. del Consiglio di Stato (d.lgs. 642/1948) e il Consiglio di giustizia amministrativa per la Sicilia
(d.lgs. 654/1948). Siamo giunti al periodo della costituzione, la quale contiene importanti disposizioni di giustizia
amministrativa o, per meglio dire, di quella giustizia amministrativa costituita dai mezzi di tutela giurisdizionali.
3. La disciplina costituzionale
La Costituzione si è inserita in un contesto caratterizzato dalla presenza di due giurisdizioni: quella del giudice ordinario e
quella del giudice amministrativo. A ciò si aggiunga la presenza di giurisdizioni amministrative speciali, quali la Corte dei
Conti e il Tribunale superiore delle acque pubbliche, e di rimedi amministrativi. Il Consiglio di Stato era riuscito a rafforzare
la propria autorevolezza e a mantenere un’apprezzabile indipendenza anche negli anni del fascismo.
Tra le scelte possibili, la Costituzione ha accolto espressamente e meglio esplicitato il principio di ripartizione della
giurisdizione tra i due ordini di giudici (ordinario e amministrativo), fondato sulla natura della situazione giuridica soggettiva
lesa, demandando al giudice ordinario la tutela dei diritti e a quello amministrativo la tutela degli interessi legittimi (artt. 24,
103, 113 Cost.):
L’art. 24 dispone che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”, sancendo in tal modo
l’azionabilità delle situazioni soggettive dei privati nei confronti dell’amministrazione ed escludendo esenzioni o privilegi di
questa in ordine alla legittimazione passiva. All’art. 24 della Cost., spesso letto in combinato disposto con l’art.113, si collega
anche il principio dell’effettività della tutela; esso implica la facoltà di utilizzare tutti gli strumenti di tutela connaturati al
diritto di difesa: ad esempio la Corte costituzionale ha valutato con rigore le scelte legislative volte a limitare la possibilità di
una misura cautelare e ha introdotto l’opposizione di un terzo nel processo amministrativo.
L’art. 103 contempla le funzioni giurisdizionali del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, individuandone l’estensione, e
costituzionalizza la preesistente attribuzione al giudice amministrativo “in particolari materie indicate dalla legge”, della
cognizione anche di diritti soggettivi (c.d. “giurisdizione esclusiva”): dunque ribadisce la possibilità di spostamento del limite
interno di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo a favore di quest’ultimo, grazie alla sottrazione della
cognizione dei diritti al primo. Si tratta però di una deroga, sicché il nostro legislatore non potrebbe generalizzare il sistema
della giurisdizione esclusiva. Si consideri, inoltre, che l’allargamento delle ipotesi di giurisdizione esclusiva esclude
l’assoggettabilità al sindacato della Cassazione per violazione di legge (art. 111 Cost.) delle controversie attribuite al giudice
amministrativo, atteso che avverso le decisioni del Consiglio di Stato è possibile il ricorso per Cassazione soltanto per motivi
attinenti alla giurisdizione, mentre questi limiti non sussisterebbero ove la pronuncia sui diritti fosse rimasta al giudice
ordinario: in tal modo non è però garantita l’uniforme applicazione del diritto, quando il giudice amministrativo conosca di
controversie analoghe a quelle giudicate dal giudice ordinario; se il giudice amministrativo conosce anche di diritti soggettivi,
la limitazione del sindacato operato dalla Corte Suprema può avviare orientamenti contrastanti tra i due ordini giurisdizionali.
Nel senso dell’aumento dei casi di giurisdizione esclusiva, si può notare una tendenza del giudice amministrativo a
configurarsi come il giudice dell’amministrazione, che si occupa di controversie del tutto analoghe a quelle del giudice
ordinario, pur mantenendo la possibilità di sindacare le modalità di esercizio del potere amministrativo. La Corte
costituzionale, con sent. n. 204/2004 ha limitato questo ampliamento, statuendo che la giurisdizione esclusiva può essere
introdotta soltanto nelle materie in cui l’amministrazione agisce come autorità.
Ai sensi dell’art. 113, che si occupa espressamente della sindacabilità degli atti della pubblica amministrazione indicando il
tipo di tutela garantita nei confronti degli stessi, siffatta tutela “è sempre ammessa” e “non può essere esclusa o limitata a
particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti”. La determinazione degli organi (giudice ordinario,
amministrativo o speciale) che possono annullare gli atti della pubblica amministrazione spetta invece alla legge, che deve
indicarne anche i “casi” e gli “effetti”. Un problema di compatibilità con la norma costituzionale potrebbe sorgere in relazione
all’art. 7 del d.lgs.104/2010, codice del processo amministrativo, che esclude l’impugnabilità in sede giurisdizionale degli atti
emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico. Ma se l’atto politico è comunque atto della pubblica amministrazione,
la sua sottrazione al sindacato giurisdizionale si pone in conflitto con l’art.113 Cost., il quale prevede che contro gli atti della
pubblica amministrazione (e non contro gli atti amministrativi) sia sempre ammessa la tutela dei diritti e degli interessi
legittimi. In realtà gli atti politici, anche quando emanati dal governo, sono sottratti al sindacato giurisdizionale soltanto
perché, data la loro ampissima discrezionalità e il carattere libero del loro fine, non ledono diritti soggettivi o interessi
legittimi, i quali sono le sole situazioni cui l’ordinamento assicura tutela giurisdizionale. L’art.113 Cost., spesso letto in
combinato disposto con l’art.24 Cost., riveste altresì una notevole importanza sotto il profilo dell’esclusione della legittimità
di norme che limitino i mezzi di tutela. La Corte costituzionale, in particolare, ha censurato le norme che limitavano in modo
irragionevole la possibilità per il giudice di disporre la sospensione cautelare.
La Costituzione (artt. 101 e 108) sancisce poi l’indipendenza di ogni giudice e quindi anche di quello amministrativo, nonché
l’indipendenza degli “istituti” e dei componenti della Corte dei conti e del Consiglio di Stato. Mentre l’imparzialità e la
terzietà del giudice concernono la distanza del giudice medesimo dalle parti del giudizio e l’equidistanza rispetto ai loro
interessi, l’indipendenza attiene ai rapporti del giudice con soggetti estranei al rapporto processuale. Invocando tale principio,
la Corte costituzionale ha provveduto ad eliminare molte giurisdizioni speciali e ha escluso che l’indipendenza degli ordini
giurisdizionali e della Corte dei conti e del Consiglio di Stato possa risultare lesa dalla nomina governativa di una parte dei
loro magistrati: per quanto riguarda il Consiglio di Stato, la Corte cost. ha affermato che deve essere accertata l’idoneità dei
soggetti prescelti allo svolgimento delle funzioni di consigliere, nonché la necessità di un equilibrio tra i consiglieri di nomina
governativa e quelli assunti mediante concorso.
La Costituzione prevede, ma non impone, che “altri organi di giustizia amministrativa” (art. 103.1) vadano ad affiancare il
Consiglio di Stato: trattasi dei giudici aventi funzioni “affini” al Consiglio di Stato, quali il Tribunale superiore delle acque
pubbliche ed il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana.
Ai sensi dell’art. 125 poi, sono istituiti nella regione “organi di giustizia amministrativa di primo grado”. Se la disposizione
impedisce di configurare i Tar (istituiti con l.1034/1971) come organi di unico grado, non esclude che sia attribuita la
cognizione di controversie in unico grado al Consiglio di Stato.
L’art. 103 Cost. mantiene inoltre espressamente la giurisdizione della Corte dei Conti nelle materie di contabilità pubblica e
nelle altre specificate dalla legge: vi è dunque una riserva di giurisdizione per quanto attiene alla materia della contabilità
pubblica, mentre spetta al legislatore individuarne altre eventuali, così come al legislatore è comunque riconosciuta la
possibilità di derogare alla giurisdizione della Corte dei Conti per particolari profili nella materia della contabilità pubblica.
La Costituzione, all’art. 102, vieta invece l’istituzione di nuovi giudici speciali, ammettendo soltanto che, presso gli organi
giurisdizionali ordinari, vengano istituite “sezioni specializzate per determinate materie, con la partecipazione di cittadini
idonei estranei alla magistratura”. Per quanto attiene alle preesistenti giurisdizioni speciali (diverse dal Consiglio di Stato,
dalla Corte dei conti e dai Tribunali militari, i quali in nessun caso possono essere soppressi), esse avrebbero dovuto essere
assoggettate a revisione ad opera del legislatore entro cinque anni dalla entrata in vigore della Costituzione.
L’art. 111 Cost., infine, oltre ad affermare il principio della riserva di legge, stabilisce che contro le decisioni del Consiglio di
Stato e della Corte dei conti è ammesso il ricorso per Cassazione per i soli motivi inerenti alla giurisdizione, mentre per
quanto attiene alle sentenze pronunciate dagli “organi giurisdizionali speciali”, è ammesso il ricorso in Cassazione anche per
violazione di legge. La l. cost. 2/1999 ha modificato la disposizione introducendo il principio del giusto processo, in forza del
quale “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. La
legge deve inoltre assicurarne la “ragionevole durata”.
Nulla è invece detto nella Costituzione in ordine ai ricorsi amministrativi: di conseguenza, il legislatore può anche non
prevedere tali mezzi giustiziali, ovvero può addirittura vietarne l’esperibilità. D’alto canto, proprio perché la tutela
giurisdizionale è garantita come immancabile (“è sempre ammessa”) dall’art. 113 Cost., essa non può essere sostituita dai
ricorsi amministrativi. La Corte costituzionale ha comunque ritenuto compatibile con la Costituzione il principio
dell’alternatività del ricorso straordinario al Capo dello Stato rispetto a quello giurisdizionale attesa la volontarietà della
scelta dell’interessato, il quale decide di utilizzare la via del ricorso straordinario in luogo di quella giurisdizionale.
La regola della facoltatività dei ricorsi amministrativi soffre di alcune eccezioni: ad esempio nell’ambito dell’ordinamento
militare, “avverso le sanzioni disciplinari di corpo dove si prevedeva la previa esperibilità del ricorso gerarchico prima di
quello straordinario al Presidente della Repubblica o di quello giurisdizionale”. La corte costituzionale ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale di una serie di norme che prevedevano la necessità di esperire ricorsi amministrativi prima di
poter adire il giudice (ordinario) mentre l’obbligatorietà del previo ricorso permane in alcune ipotesi, ad esempio nell’ambito
sportivo, subordinando l’esperibilità dell’azione giurisdizionale all’esaurimento dei gradi della stessa giustizia sportiva
(pregiudizialità sportiva).
Più in generale, l’ordinamento introduce talora meccanismi di risoluzione non giurisdizionale delle controversie insorte tra
privati o con l’amministrazione, talora in via preventiva, in altri casi con riferimento a contenziosi già sorti (ad esempio
l’istituzione presso camere di commercio di sportelli di conciliazione con il compito di risolvere controversie tra consumatori
e prestatori d’opera e piccoli artigiani, ossia ADR, Alternative Dispute Resolution).
In sintesi, può osservarsi che la costituzione espressamente contempla, garantisce e disciplina la giurisdizione del giudice
ordinario (art 102.1), quelle del giudice amministrativo (art. 103.1) e dei giudici speciali, mentre nulla dice del mezzo di tutela
costituito dai ricorsi amministrativi proponibili davanti alla stessa amministrazione. Un riferimento alla giustizia
amministrativa è da ultimo contenuto nell’art.117.2, lett. l), che ne attribuisce la disciplina alla potestà esclusiva dello Stato.
4. L’evoluzione successiva all’entrata in vigore della Costituzione
L’adeguamento della normativa al disegno tracciato dalla Costituzione non è stato immediato e, soprattutto, non è avvenuto in
modo lineare. In particolare, il legislatore non ha provveduto alla revisione delle preesistenti giurisdizioni speciali nel termine
di 5 anni fissato dalle disposizioni transitorie e finali della Costituzione. Dell’eliminazione di molte di esse si è di conseguenza
dovuta far carico la Corte costituzionale, la quale ha censurato la mancata indipendenza di svariati organi giurisdizionali fino
ad allora sopravvissuti.
Dopo la soppressione delle giunte provinciali amministrative, con l. 1034/1971 furono istituiti i Tribunali amministrativi
regionali ai sensi dell’art. 125 Cost. A seguito di tale riforma, il Consiglio di Stato si configura oggi come giudice di secondo
grado (ad eccezione del caso in cui sia esperito un ricorso per ottemperanza di una decisione del Consiglio stesso che abbia
riformato la decisione del Tar). La duplicità di grado nel giudizio amministrativo si è pertanto realizzata per sovrapposizione
di un giudice di primo grado al giudice preesistente (Consiglio di Stato). Per quanto riguarda le modificazioni e le innovazioni
successive, si ricorda il d.p.r. 214/1973, contenente il regolamento di esecuzione della legge istitutiva dei Tar, e la l. 186/1982,
che ha disciplinato la composizione delle sezioni del Consiglio di Stato e dei Tar, integrandone in un’unica magistratura
amministrativa i magistrati del Tas e del Consiglio di Stato. Con d.p.r. 426/1984 è stato istituito il Tar del Trentino-Alto
Adige, che gode di un ordinamento particolare. Il d.lgs. 29/1993 (sostituito dall’art. 165/2001), ha poi sottratto all’ambito della
giurisdizione esclusiva molte controversie in tema di pubblico impiego. Il d.lgs. 80/1998 ha invece esteso la giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo alle materie di servizi pubblici, dell’edilizia e dell’urbanistica.
La l. 205/2000 ha riprodotto le norme del d.lgs. 80/1998 censurate dalla Corte costituzionale, aggiungendo anche altri ambiti
di giurisdizione esclusiva, e ha pure introdotto rilevanti modificazioni relative al processo amministrativo.
La sentenza cost. 204/2004 ha in seguito notevolmente ridimensionato l’area della giurisdizione esclusiva, individuando i già
richiamati limiti che incontra il legislatore nel delineare le relative materie; la sentenza cost. 77/2007 ha poi inteso garantire ai
cittadini una risposta sul merito dell’azione, introducendo il meccanismo della translatio iudicii volto a consentire al privato la
conservazione degli effetti della domanda proposta dinanzi a un giudice poi dichiarato privo di giurisdizione. La fattispecie è
stata poi regolata dalla l. 69/2009. La medesima legge ha delegato il Governo a ridisciplinare la materia del processo
amministrativo, al fine di adeguare le norme vigenti alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni
superiori, di coordinarle con le norme del codice di procedura civile in quanto espressione di principi generali e di assicurare
la concentrazione di tutela: la delega è stata esercitata con il d.lgs. 104/2010 con cui è stato introdotto il codice del processo
amministrativo (c.p.a.).
5. La giurisdizione e i suoi limiti: la ripartizione della giurisdizione tra giudice ordinario e amministrativo
La funzione giurisdizionale è l’unica funzione che appartiene esclusivamente allo Stato: mentre infatti la funzione normativa e
quella amministrativa sono riconosciute e attribuite anche ad altri soggetti dell’ordinamento, spetta soltanto allo Stato la
possibilità di applicare il diritto al caso concreto al fine di risolvere una controversia con una decisione idonea ad acquisire
efficacia di giudicato.
La giurisdizione è attuazione della legge; è la legge che attribuisce la giurisdizione a soggetti dell’ordinamento, individuando
contestualmente i limiti del relativo potere: trattasi da un lato di limiti esterni, nel senso che oltre di essi non sussiste nessun
giudice dell’ordinamento che abbia appunto giurisdizione, dall’altro di limiti interni e, cioè, operanti nell’ambito della sfera
di giurisdizione spettante ai vari organi del medesimo ordinamento. Il superamento dei limiti esterni determina un difetto
assoluto di giurisdizione; il superamento di quelli interni comporta un difetto relativo di giurisdizione allorché la giurisdizione
comunque sussista, ma sorga conflitto in ordine alla appartenenza della controversia fra ordini giurisdizionali diversi (ad
esempio, giudice amministrativo e giudice ordinario). Nelle ipotesi in cui il conflitto sorga all’interno del medesimo ordine
giurisdizionale, si profila allora una questione di “competenza”.
Occorre procedere all’identificazione dell’azione concretamente esercitata nel processo. Elementi di essa sono il soggetto, la
causa petendi e il petitum. Il petitum è l’oggetto dell’azione e, di solito, nel giudizio amministrativo, consiste nella domanda
di annullamento; la causa petendi è il titolo sul quale si fonda l’azione. Il riferimento a tali elementi è rilevante anche in vista
dell’identificazione di un criterio per distinguere la giurisdizione del giudice ordinario da quella del giudice amministrativo.
Riconosciuta con sentenza delle sezioni unite della Cassazione nel 1949 la rilevanza della causa petendi ai fini del riparto, la
giurisprudenza si è impegnata nel definire una regola per decidere quando si sia in presenza della lesione di un diritto
soggettivo ovvero di un interesse legittimo, individuato sulla base della contrapposizione tra carenza di potere e cattivo
esercizio del potere: se si contesta l’esistenza del potere si è in presenza di diritti soggettivi; ove si lamenti il cattivo uso del
potere, si fa valere un interesse legittimo. Se tale criterio rimane in linea di principio ancora valido, deve essere richiamato
l’allargamento del limite interno che divide appunto giurisdizione amministrativa da giurisdizione ordinaria, operato dalla
legislazione attraverso l’estensione di casi di giurisdizione esclusiva, con la conseguenza che rimangono residuali i casi in cui
il giudice ordinario può sindacare la legittimità di atti amministrativi.
Secondo la giurisprudenza, si verifica carenza di potere in concreto allorché l’amministrazione agisca in una situazione in
cui difettino uno o più fatti stabiliti dalla legge (norma di relazione) come presupposti per l’esistenza in concreto del potere:
paradigmatica è l’ipotesi del provvedimento di esproprio emanato quando sia spirato il termine fissato dalla dichiarazione di
pubblica utilità.
6. Conflitti di attribuzione, conflitti di giurisdizione e verifica della giurisdizione: profili storici
Nel nostro ordinamento sussistono dunque due ordini giurisdizionali – ordinario e amministrativo – competenti a conoscere di
controversie che riguardano la pubblica amministrazione. Tra questi diversi organi giurisdizionali possono sorgere conflitti in
ordine alla spettanza del potere di giudicare le controversie. La soluzione di tali conflitti implica una verifica della
giurisdizione e, cioè, un riscontro circa l’effettiva sussistenza o insussistenza della potestà, spettante ad un giudice, di
giudicare una controversia. Occorre ricordare che nel nostro ordinamento i conflitti possono essere: a) conflitti di
attribuzione, allorché sorgano tra soggetti dotati di una sfera di competenza costituzionalmente riservata: la Costituzione
affida alla Corte Costituzionale il compito di fornire loro soluzione; b) conflitti di giurisdizione, se riguardano organi
appartenenti a diversi ordini giurisdizionali: la loro soluzione spetta alla Corte di Cassazione a sezioni unite (art. 374 c.p.c.);
conflitti di competenza (“amministrativi” o “giurisdizionali”), nell’ipotesi in cui sorgano tra organi appartenenti allo stesso
soggetto o allo stesso complesso giurisdizionale: la soluzione dei conflitti amministrativi spetta all’organo sovraordinato (nel
caso di conflitti tra ministri, al Consiglio dei ministri), mentre per quanto attiene ai conflitti giurisdizionali, la loro soluzione è
affidata alla Corte di cassazione a sezione semplice, ovvero, nell’ipotesi di giudice speciale, a quello di grado più elevato.
In questa sede interessano soprattutto i conflitti di giurisdizione. Importanti sono tuttavia i conflitti di attribuzione: infatti
questi possono involgere pure questioni di giurisdizione. Ciò accade quando sorgono in un giudizio di cui sia parte una
pubblica amministrazione e attengono alla spettanza al giudice della potestà di conoscere circa questioni che involgono la
pubblica amministrazione stessa. La loro soluzione, in queste ipotesi, spetta alla Corte di cassazione. La l. 3780/1859
devolveva la competenza a risolvere i conflitti al Re, previo parere del Consiglio di Stato. Nel 1865, a seguito dell’abolizione
del contenzioso amministrativo, il sistema rimase in vigore nella parte concernente i conflitti tra giurisdizione ordinaria e
amministrazione. La competenza a risolvere il conflitto fu attribuita al Consiglio di Stato, il quale risolveva altresì i conflitti di
giurisdizione positivi e negativi tra tribunali ordinari e giurisdizioni speciali. Con la l. 3761/1877, la competenza a risolvere i
conflitti fu attribuita alle sezioni unite della Cassazione romana. Allorché si riconobbe natura giurisdizionale alla IV sezione
(formalmente nel 1907), si propose il problema del sindacato del limite esterno della giurisdizione di un giudice
amministrativo in precedenza considerato come omogeneo all’amministrazione, cioè in relazione alla sfera della pubblica
amministrazione. La Costituzione, infine, si occupa soltanto dei conflitti di attribuzioni tra poteri dello Stato, ovvero tra Stato
e regioni e tra regioni (l. 87/1953).
Va richiamata la difficoltà di operare una netta distinzione tra conflitti di attribuzione risolti dalla Corte costituzionale e
conflitti di giurisdizione risolti dalla Corte di Cassazione. La linea distintiva andrebbe ricercata nel fatto che, nel caso di
conflitto di attribuzione, il conflitto tra poteri non si esaurisce all’interno del singolo processo, ma si riferisce alla contestata
possibilità per uno dei poteri di esercitare attribuzioni costituzionalmente riconosciute. Ai sensi della l. 87/1953, la Corte
costituzionale risolve i conflitti tra poteri, di cui all’art. 134 Cost., che insorgano tra organi “competenti a dichiarare
definitivamente la volontà del potere cui appartengono per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari
poteri da norme costituzionali” (art. 37).
In ordine ai conflitti tra Stato e regioni e tra regioni, la disciplina processuale prevede un termine perentorio per la
notificazione del ricorso e la necessità di notificare il ricorso all’ente controinteressato. Il termine per proporre ricorso (da
parte del Presidente del Consiglio dei Ministri o di un ministro delegato previa deliberazione del Consiglio dei ministri se
agisce lo Stato, o da parte del presidente della giunta regionale previa deliberazione della giunta nell’ipotesi in cui ad agire sia
la regione) è di 60 giorni dalla notificazione o pubblicazione o avvenuta conoscenza dell’atto lesivo; il ricorso insieme alla
prova delle notifiche e alla procura speciale deve poi essere depositato nella Cancelleria della Corte entro 20 giorni dall’ultima
notificazione; entro 20 giorni dalla notifica l’ente resistente può costituirsi mediante deposito di procura speciale e di eventuali
deduzioni scritte e documenti; la Corte, infine, dispone di poteri cautelari. Nel caso di conflitto tra regioni (o province
autonome), la notifica del ricorso deve essere fatta pure al Presidente del Consiglio dei ministri. La Corte decide accertando il
rapporto tra le due sfere di attribuzioni ed eventualmente, nel caso in cui accolga il ricorso, annullando l’atto invasivo.

7. Gli strumenti di verifica della giurisdizione


La situazione attuale è caratterizzata dalla presenza di molteplici strumenti di verifica della giurisdizione. L’incertezza
sull’individuazione del giudice dotato di giurisdizione rischia di danneggiare notevolmente il privato. L’ordinamento non
prevedeva un meccanismo espresso che consentisse di conservare gli effetti della domanda proposta dinanzi ad un giudice che
si fosse poi rivelato (o dichiarato) privo di giurisdizione.
Il meccanismo che evita la definizione solo in rito del processo (garantendo dunque al cittadino una risposta sul merito
dell’azione) è la translatio iudicii che, tuttavia, fino al 2007 operava soltanto nel caso della competenza. Dopo una pronuncia
della Corte costituzionale, n. 77/2007, il legislatore, raccogliendo l’invito della Consulta, si è fatto carico di disciplinare, in
generale, i casi di trasmigrazione del processo, e di sancire il superamento dell’incolumità tra giudici. L’art. 11 del c.p.a. si
occupa del problema con specifico riferimento alle trasmigrazioni “verso” e “dal” giudice amministrativo: essa ribadisce che,
quando declina la propria giurisdizione, il giudice amministrativo indica, se esistente, il giudice nazionale che ne è fornito. Il
comma 2 aggiunge che, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute, sono fatti salvi gli effetti processuali e
sostanziali della domanda, se il processo è riproposto innanzi al giudice indicato nella pronuncia che declina la giurisdizione
entro il termine perentorio di 3 mesi dal suo passaggio in giudicato. La norma non subordina la riproposizione al fatto che la
decisione abbia acquisito autorità di cosa giudicata; ove la riproposizione avvenga prima del passaggio in giudicato le parti
restano vincolate alla giurisdizione, senza poter dedurre il difetto di giurisdizione dinanzi al nuovo giudice, e possono
unicamente proporre appello avverso la decisione che aveva declinato la giurisdizione.
Questo congegno non esclude un conflitto: l’art. 11, c.3, precisa che quando il giudizio è tempestivamente riproposto davanti a
tale giudice, esso, alla prima udienza, può sollevare anche d’ufficio il conflitto di giurisdizione. Vi è dunque una restrizione
del più ampio e generale potere del giudice di rilevare d’ufficio la questione; ma un conto è proporre l’azione dinanzi al
giudice civile, un altro è rivolgersi al giudice amministrativo: si potrebbe immaginare che la parte articoli in via subordinata o
graduata varie domande, ovvero che venga utilizzato l’istituto dell’emendatio dell’azione.
La norma poi si occupa espressamente della sorte delle prove e delle misure cautelari che, nella logica della trasmigrazione,
dovrebbero tendenzialmente sopravvivere. Si dispone, invece, che nel giudizio riproposto dinanzi al giudice amministrativo, le
prove raccolte nel processo davanti al giudice privo di giurisdizione possono essere valutate soltanto come argomenti di
prova. Circa le misure cautelari, si stabilisce che esse perdono efficacia trenta giorni dopo la pubblicazione del
provvedimento che dichiara il difetto di giurisdizione del giudice che le ha emanate. Le parti possono però riproporre le
domande cautelari al giudice munito di giurisdizione.
Ciò chiarito, analizziamo gli strumenti di verifica della giurisdizione:
a) il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali può
essere proposto in qualunque stato e grado del processo ed è rilevabile anche d’ufficio; per quanto riguarda il giudice
amministrativo, l’art. 9 del c.p.a. dispone che il difetto di giurisdizione è rilevato in primo grado anche d’ufficio; nei
giudizi d’impugnazione, invece, esso è rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia
impugnata che, in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione.
b) Intervenuta una pronuncia espressa sono poi proponibili, anche sotto il profilo della giurisdizione, le impugnazioni
previste per quel tipo di sentenza. Con riferimento al giudice amministrativo, il giudice d’appello, nell’ipotesi in cui
riconosca il difetto della giurisdizione affermata dal Tar, indica, se esistente, il giudice nazionale che ne è fornito (art.
11 c.p.a.); allorché affermi la giurisdizione negata dal giudice di primo grado, annullerà la decisione con rinvio al
giudice di primo grado (art. 105 c.p.a.); infine, nel caso in cui ritenga legittima la statuizione del Tar in punto
giurisdizione, confermerà la sentenza e all’appellante soccombente non resterà altro che proporre ricorso alle sezioni
unite della Cassazione;
c) È previsto inoltre il regolamento preventivo di giurisdizione; esso è disciplinato dall’art. 10 del c.p.a., ai sensi del
quale finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado, ciascuna parte può chiedere alle sezioni unite della
Corte di Cassazione che risolvano le questioni di giurisdizione. Trattasi di un mezzo di natura non impugnatoria
relativo a un caso di conflitto virtuale di giurisdizione, atteso che sulla giurisdizione non si è pronunciato ancora alcun
giudice. La Cassazione ritiene che qualsiasi decisione emanata dal giudice presso il quale il processo è radicato, sia
attinente al merito sia a questioni inerenti ai presupposti processuali, precluda la proponibilità del regolamento di
giurisdizione.
d) In ogni stato e grado del processo, l’amministrazione che non sia parte in causa può chiedere alle sezioni unite della
Cassazione che sia dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice ordinario a causa dei poteri attributi dalla legge
all’amministrazione, finché la giurisdizione non sia stata affermata con sentenza passata in giudicato. Trattasi di un
caso di conflitto virtuale di attribuzioni che involge una questione di giurisdizione tra giudice e pubblica
amministrazione. Il prefetto (organo amministrativo competente), con decreto motivato da notificare alle parti e al
pubblico ministero, eleva il conflitto; il giudizio viene sospeso dal capo dell’ufficio giudiziario dinanzi al quale pende
il processo su istanza del pubblico ministero, il quale è tenuto a notificare alle parti il decreto di sospensione entro
dieci giorni; se nessuna delle parti in causa provvede entro trenta giorni dalla notificazione del decreto a presentare il
ricorso alla Corte di cassazione per il regolamento del conflitto, la causa si estingue (art. 368 c.p.c.);
e) È ammesso il ricorso per Cassazione avverso le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado dal giudice
ordinario ex art. 360 c.p.c. per motivi attinenti alla giurisdizione;
f) È previsto il ricorso per Cassazione avverso le sentenze di un giudice speciale in unico grado o in grado di appello
ex art.362 c.p.c. per motivi attinenti alla giurisdizione. Con riferimento alle sentenze del Consiglio di Stato il principio
è ribadito dall’art. 110 c.p.a. (che si riferisce ai motivi inerenti alla giurisdizione);
g) È infine ammesso il ricorso per Cassazione in ogni tempo in caso di conflitti reali positivi e negativi tra giudici
speciali, ovvero tra questi e il giudice ordinario (art. 362.2 c.p.c.).
Le questioni di giurisdizione, secondo l’elaborazione giurisprudenziale della Corte di Cassazione, attengono all’invasione
della sfera dell’altrui giurisdizione (superamento del limite interno di giurisdizione) e all’eccesso di potere giurisdizionale
(sconfinamento nella sfera dei poteri spettanti a organi amministrativi, legislativi e costituzionali). Nell’ultima ipotesi rientra
anche il superamento del limite esterno di giurisdizione: esso si realizza quando il giudice sindaca ambiti coperti da riserva di
amministrazione. La Cass., sez. un., n.3712/2012, ha cassato per motivi di giurisdizione una decisione del giudice
amministrativo che si era sostituito all’amministrazione nello svolgimento della discrezionalità tecnica. Viene prospettata
come autonoma questione di giurisdizione relativa al superamento del limite esterno di giurisdizione anche l’improponibilità
assoluta della domanda, ossia la questione dell’insussistenza in astratto di una situazione tutelata in capo al ricorrente (manca
cioè giurisdizione affinché la domanda si fonda su di una situazione che non riceve tutela). Il discrimine tra domanda (in
concreto) inammissibile e domanda (in astratto) improponibile è di difficile individuazione: il rischio è di far decidere alla
Cassazione il merito della causa, arrivando a “saltare” il giudizio del giudice amministrativo in virtù dell’impiego del
regolamento preventivo di giurisdizione, che può essere esperito soltanto nel corso del giudizio di primo grado.
8. Il giudice ordinario e la pubblica amministrazione: la disciplina di cui alla l. 2248/1865, all. E
I giudici ordinari sono: il giudice di pace, il tribunale, la corte d’appello e la Corte di cassazione; per quanto riguarda la
giustizia penale si aggiungono anche le corti di assise e le corti di assise d’appello. La figura del pretore è stata soppressa e le
sue competenze trasferite al giudice di pace e al tribunale. Sono gli artt. 2, 4 e 5 della l. 2248/1865, all. E, ad individuare sia
l’ambito di giurisdizione spettante al giudice ordinario in relazione alle controversie che coinvolgono una pubblica
amministrazione (art. 2), sia i poteri del giudice medesimo. Sotto il primo profilo, ai sensi dell’art. 2, i giudici ordinari
conoscono di tutte le controversie in cui “si faccia questione di un diritto civile o politico” (in materia civile), nonché di tutte
le cause per contravvenzione e delitti (in materia penale). Oggi un’eccezione al principio della giurisdizione generale del
giudice ordinario in materia penale è costituita dalle ipotesi di reato per le quali sono competenti i tribunali militari di pace e di
guerra. Per quanto attiene ai poteri del giudice, l’art.4, cc. 1 e 2 della l. 2248/1865, all. E, dispone che quando la contestazione
cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell’Autorità amministrativa, i Tribunali si limiteranno a conoscere degli
effetti dell’atto stesso in relazione all’oggetto dedotto in giudizio.
L’atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non dietro ricorso alle competenti autorità amministrative. La
norma di cui al primo comma riguarda i poteri di cognizione del giudice ordinario, mentre il secondo si occupa dei suoi
poteri di decisione. Con riferimento all’atto la pronuncia del giudice non ha efficacia erga omnes, ma vale soltanto per il caso
deciso ed inter partes, in quanto il giudice si limita a conoscere degli effetti dell’atto in relazione all’oggetto dedotto in
giudizio.
Il giudizio di cui si occupa l’art.4 ha come oggetto la lesione del diritto e non già la legittimità dell’atto. Poiché la lesione è
prodotta dagli effetti del provvedimento, si comprende la ragione per cui il giudice, chiamato a giudicare della lesione del
diritto, si disinteressi dell’atto in quanto tale. È questa in sostanza la differenza tra il processo che verte sulla lesione del diritto
e quello che conosce della lesione dell’interesse legittimo a mezzo di un atto: nell’ipotesi di lesione di un diritto la tutela è
offerta a prescindere dall’impugnazione dell’atto e il giudice non si occupa della sua sorte fuori dal processo.
Il giudice, pur riconoscendone l’illiceità, non può però intervenire sull’atto e, dovendo considerarne gli effetti ai fini della
decisione, sarebbe costretto a respingere la domanda del privato volta a ottenere la restituzione del bene oggetto del
provvedimento di esproprio non conforme a legge. Soccorre allora il disposto dell’art. 5, il quale ha peraltro un campo
d’applicazione più ampio di quello definito dall’art.4, che riguarda le controversie in cui si faccia questione di un diritto
soggettivo leso dall’atto.
Dispone l’art. 5 che “In questo, come in ogni altro caso, le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi e i
regolamenti generali e locali in quanto siano conformi a legge”. Da questa norma è stato tratto l’istituto della disapplicazione
del provvedimento amministrativo.
L’atto illegittimo potrà essere disapplicato dal giudice ordinario. Ciò significa che il giudice, una volta accertata l’illegittimità
dell’atto, dovrà ricostruire il rapporto prescindendo dagli effetti da esso prodotti e, quindi, giudicare come se questi non
sussistessero. Il potere di disapplicazione può essere impiegato anche in ambiti diversi da quelli rientranti nel campo
d’applicazione dell’art. 4 e in tal caso si parla di disapplicazione accidentale.
Il potere incidentale di disapplicazione può essere impiegato nelle situazioni caratterizzate dal fatto che il privato (o
l’amministrazione, ove pretenda una prestazione da parte di un cittadino affermando che essa scaturirebbe da un proprio atto)
invoca a fondamento del proprio comportamento o della propria pretesa un provvedimento amministrativo.
Il completamento dell’analisi dei due articoli (4 e 5, l. cont. amm.) richiede delle precisazioni:
a. ai sensi dell’art. 4.2, le autorità amministrative hanno l’obbligo di conformarsi al giudicato dei tribunali in quanto
riguarda il caso deciso. Il privato che abbia ottenuto una pronuncia favorevole può rivolgersi all’amministrazione al
fine di ottenere la rimozione dell’atto. Parte della dottrina ritiene però che l’amministrazione non sia vincolata in
modo assoluto dalla pronuncia del giudice ordinario; d’altro canto, in giurisprudenza si esclude pure che, una volta
conseguita la liquidazione del danno, la parte privata possa pretendere che l’amministrazione annulli l’atto. Con
riferimento all’ipotesi in cui l’amministrazione non osservi l’obbligo, la legge istitutiva della IV sezione del Consiglio
di Stato nel 1889 ha introdotto il rimedio del ricorso di ottemperanza, che consente alla parte che abbia ottenuto una
pronuncia favorevole del giudice ordinario passata in giudicato di rivolgersi al giudice amministrativo nel caso in cui
l’amministrazione non si conformi al giudicato. Va sottolineato che tale rimedio può trovare applicazione nell’ipotesi
di cui all’art. 4 della legge del 1865 (là dove il giudice conosce direttamente di diritti soggettivi lesi dall’atto), nel
quale è previsto l’obbligo di conformarsi, non invece nel giudizio in via incidentale, in cui tale obbligo non sussiste
anche perché si sostiene tradizionalmente che il giudicato del giudice ordinario non copre l’accertamento incidentale
dell’illegittimità dell’atto;
b. l’atto è disapplicabile quando sia affetto da qualsiasi vizio di legittimità, atteso che la legge non pone alcuna
limitazione; il potere di disapplicazione è esercitabile d’ufficio;
c. parte della dottrina e della giurisprudenza ritiene che il potere di disapplicazione sia esercitabile anche dal giudice
penale. In verità non sembra che gli esempi addotti a supporto di tale conclusione (in particolare l’art. 650 c.p.)
possano essere ricondotti nell’ambito dell’art. 5: il giudice penale, infatti, conosce degli atti amministrativi al fine di
verificare la sussistenza di fattispecie descritte dalla legge penale e caratterizzate dalla necessaria presenza di un atto
legittimo. Nel caso dell’art. 650, in particolare, la sanzione è applicabile solo se il comportamento dell’imputato
comporti inosservanza di un provvedimento legittimo dell’Autorità, sicché, ove il provvedimento sia illegittimo, il
giudice non disapplica l’atto, ma semplicemente riscontra che l’illecito penale non si è integrato perché la condotta del
privato non rientra nella descrizione della norma.
Va ancora ricordato che il potere di disapplicazione è stato di recente riconosciuto in capo al giudice amministrativo.
8.1 Le azioni ammissibili nei confronti della pubblica amministrazione
Muovendo dall’interpretazione degli artt. 4 e 5 della l. 2248/1865, all. E, dottrina e giurisprudenza hanno proceduto ad
individuare la tipologia di azioni (e quindi di sentenze) esperibili dinanzi al giudice civile da parte dei privati nei confronti
della pubblica amministrazione.
Sulla base del divieto per il giudice di revocare o modificare l’atto amministrativo, si negava tradizionalmente la possibilità
che detto giudice potesse pronunciare sentenze costitutive e le sentenze di condanna ad un dare infungibile, un fare o un
sopportare nei confronti dell’amministrazione. Pacificamente ammesse, invece, erano (e sono) le sentenze dichiarative, così
come nessun dubbio sussisteva circa l’ammissibilità di sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro (a titolo di
risarcimento o per inadempimento). La conclusione appariva pienamente coerente con il principio dei poteri in quanto si
impediva al potere giurisdizionale di ingerirsi nella sfera dell’amministrazione.
Nel corso del tempo, con particolare riferimento ai poteri decisori, sono stati però individuati con maggiore precisione i limiti
del divieto del giudice ordinario di emanare sentenze costitutive o di condanna. La giurisprudenza e la dottrina hanno
innanzitutto affermato che i limiti attengono soltanto agli atti posti dai soggetti pubblici nell’esercizio del potere
amministrativo: le sentenze di condanna e quelle costitutive possono invece essere emanate anche nei confronti di
un’amministrazione che abbia posto in essere atti di diritto civile.
Le limitazioni dei poteri del giudice non operano poi nei casi in cui l’amministrazione abbia agito in situazioni di carenza di
potere: l’attività così posta in essere dall’amministrazione è considerata dal giudice civile alla stregua dell’attività di qualsiasi
altro soggetto di diritto comune. In queste ipotesi, infatti, non si può verificare alcuna interferenza con l’esercizio delle potestà
pubblicistiche spettanti all’amministrazione.
Per quanto concerne le azioni possessorie (reintegrazione e manutenzione, artt. 1168 e 1170 c.c.), le azioni nunciatorie
(denuncia di nuova opera e di danno temuto, artt. 1171 e 1172 c.c.), nonché le azioni volte ad ottenere un provvedimento
cautelare d’urgenza ex art. 700 c.p.c., tradizionalmente si nega che esse siano esperibili nei confronti della pubblica
amministrazione quando determinino la paralisi dell’efficacia di un atto amministrativo che si pone alla base del suo
comportamento. Peraltro, allorché l’amministrazione agisca nell’esercizio della capacità di diritto privato o sine titulo (ad
esempio impossessandosi del bene), il limite ai poteri del giudice ordinario viene superato.
Circa i limiti entro i quali il giudice ordinario può disporre il sequestro conservativo nei confronti della pubblica
amministrazione, esso, come del resto il sequestro giudiziario, non è ritenuto ammissibile quando comporti la paralisi degli
effetti di un provvedimento amministrativo.
In sostanza si può sintetizzare quanto sin qui osservato affermando che i limiti ai poteri del giudice ordinario sussistono
soltanto allorché il soggetto pubblico abbia esercitato con atto formale poteri pubblicistici attribuiti dalla legge. Soltanto in
questa ipotesi, infatti, nel pieno rispetto del principio di legalità, si giustifica un regime differenziato per la P.A. In
conclusione, tenendo conto che il giudice civile ha giurisdizione ove manchi il potere pubblico, dovrebbero ritenersi sempre
ammissibili le sentenze di condanna nei confronti dell’amministrazione (nonché le azioni possessorie, nunciatorie e così via)
presenti in un processo dinanzi al giudice medesimo, purché munito di giurisdizione: il criterio per individuarne la
giurisdizione, infatti, coincide con quello che esclude limitazioni ai suoi poteri.
8.2. Segue: le azioni annullabili nei confronti della pubblica amministrazione
Il principio posto dall’art. 4.2, che vieta al giudice ordinario di intervenire sull’atto, non è stato costituzionalizzato.
Sono pertanto legittime le norme che vi deroghino. Il d.lgs. 150/200, in tema di sanzioni amministrative pecuniarie, consente
al giudice di pace (e relativamente ad alcune controversie al tribunale) di annullare, in tutto o in parte, le ordinanze
amministrative con cui vengono irrogate le sanzioni, nonché di modificare l’entità della sanzione stessa e di sospenderne
l’esecuzione. Secondo parte della dottrina le questioni relative all’ammontare della sanzione inerirebbero ad interessi legittimi,
eccezionalmente rimessi alla cognizione del giudice ordinario che, comunque, si spinge ad esaminare tutti gli aspetti del
rapporto.
Il riconoscimento della possibilità di pronunciare tutti i tipi di sentenza nei confronti dei soggetti pubblici è stato poi operato
dalla recente legislazione in tema di rapporto di impiego presso le pubbliche amministrazioni. In questo ambito è attribuita al
giudice ordinario la competenza in ordine a tutte le controversie, “ancorché concernenti in via incidentale atti amministrativi
presupposti, ai fini della disapplicazione” (art.11.4, lett. g, l. 59/1997). Ai sensi dell’art. 63, d.lgs. 165/2001, “il giudice adotta,
nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla
natura dei diritti tutelati. Le sentenze con le quali riconosce il diritto all’assunzione, ovvero accerta che l’assunzione è
avvenuta in violazione di norme sostanziali o procedurali, hanno anche effetto rispettivamente costitutivo o estintivo del
rapporto di lavoro”. Il giudice decide ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti: “quando questi ultimi
siano rilevanti ai fini della decisione, il giudice li disapplica se illegittimi” (art. 63.1). Si tratta dunque della disapplicazione
degli atti amministrativi di organizzazione che il giudice debba incidentalmente conoscere per decidere la controversia.
Sono peraltro escluse dalla devoluzione al giudice ordinario le controversie relative ai rapporti di lavoro (art. 3 d.lgs.
165/2001) e di quelle in materia di procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti (art. 63.4). Appartengono alla
giurisdizione del giudice ordinario le controversie circa le procedure concorsuali di reclutamento del personale le società
pubbliche (art. 19 d.lgs. 175/2016).
8.3. Pubblica amministrazione ed esecuzione forzata
Vediamo ora la situazione relativa al processo di esecuzione. Nei casi in cui siano ammissibili sentenze di condanna, si pone
il problema della tutela che può essere offerta al privato ove l’amministrazione si rifiuti di eseguirle spontaneamente. Il codice
di procedura civile prevede il rimedio dell’esecuzione in forma specifica (esecuzione forzata per consegna e rilascio,
esecuzione forzata di obblighi di fare o di non fare) e quello dell’espropriazione.
L’espropriazione forzata è ammissibile sia nell’ipotesi in cui il credito, originariamente, avesse ad oggetto il pagamento di una
somma di denaro, sia nei casi in cui risulti impossibile ricorrere all’esecuzione in forma specifica.
Un primo limite all’esecuzione forzata deriva dal regime sostanziale dei beni che costituiscono il patrimonio della
amministrazione debitrice. Come già chiarito, i beni indisponibili e i beni demaniali non possono essere sottratti alla loro
funzione pubblicistica e, quindi, non possono venire assoggettati ad espropriazione forzata. Per quanto attiene alle somme di
denaro presenti nelle casse degli enti e ai crediti monetari, si ricordi che nel bilancio sono previsti capitoli destinati al
pagamento di spese per liti giudiziarie. Il problema sorge quando tali capitoli siano incapienti. La giurisprudenza, in passato,
riteneva, con riferimento ai bilanci degli enti territoriali minori, che il provvedimento del giudice dell’esecuzione forzata
avrebbe inciso sulla destinazione assegnata al denaro del bilancio, che è pur sempre un atto amministrativo, costituendo
dunque un’indebita intromissione nella sfera discrezionale dell’amministrazione in forza dell’art. 4, legge abolitrice del
contenzioso. Essa affermava che i provvedimenti necessari per collocare in bilancio le spese dovessero essere assunti
dall’amministrazione stessa o dal giudice amministrativo in sede di ottemperanza. In seguito, si è comunque negato che le
destinazioni attribuite al denaro in sede di bilancio potessero trasformarlo in beni indisponibili, impedendo l’esecuzione
forzata e la soddisfazione dei diritti dei terzi.
Per quanto attiene ai crediti dell’amministrazione (che sia contemporaneamente debitrice verso un terzo) relativi al denaro
depositato presso le tesorerie, parte della giurisprudenza ritiene inoltre ammissibile l’esecuzione forzata da parte del terzo
(creditore dell’amministrazione), anche se trattasi di crediti illiquidi e inesigibili in quanto non vi sia stata l’approvazione del
bilancio. La giurisprudenza continua però a ritenere che denaro e crediti siano impignorabili quando siano stati oggetto di
una specifica destinazione univoca, precisa e concreta da parte del soggetto pubblico, anche se riconosce l’insufficienza, a tali
fini, dell’iscrizione della somma a bilancio, richiedendo un provvedimento o una norma di legge che li vincoli alla
destinazione a pubblico servizio con effetto esterno (Cass., n. 14847/2000 e n. 26497/2009).
Per l’esecuzione delle sentenze di condanna si ammette inoltre dal Consiglio di Stato la via, alternativa rispetto all’esecuzione
disciplinata dal c.p.c., rappresentata dal giudizio di ottemperanza, il quale consente al giudice amministrativo di sostituirsi
all’amministrazione.
L’art. 112 d.lgs. 104/2010 (c.p.a.) prevede comunque in generale l’ammissibilità del giudizio di ottemperanza per l’esecuzione
delle sentenze del giudice ordinario passate in giudicato. È ammessa la pignorabilità delle somme degli enti depositate presso
il tesoriere-terzo: ulteriori e delicate questioni sorgono poi in conseguenza del fatto che il pubblico denaro di molti enti rimane
in gran parte depositato non presso l’azienda di credito esercente il servizio di tesoreria, bensì presso la tesoreria dello Stato
(in virtù del sistema della “tesoreria unica”).
Ai sensi dell’art. 14, d.l. 669/1996, le amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici non economici completano le procedure
per l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali entro il termine di 120 giorni dalla notificazione del
titolo esecutivo.
8.4. Deroghe al diritto processuale comune
La presenza in causa dell’amministrazione comporta variazioni rispetto all’ordinario regime processuale. La difesa in giudizio
dell’amministrazione statale spetta all’avvocatura dello Stato, avente sede presso ciascun distretto di Corte d’appello, ad
eccezione dei giudizi innanzi al giudice di pace, ove le amministrazioni possono avvalersi anche di propri funzionari.
Nelle controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (art. 417 bis), le
amministrazioni stesse, limitatamente al giudizio di primo grado, possono stare in giudizio avvalendosi direttamente di propri
dipendenti. Per le amministrazioni difese dall’avvocatura dello Stato si applica tale regola salvo che l’avvocatura competente
per territorio determini di assumere direttamente la trattazione della causa.
Nel caso in cui parte del giudizio sia un’amministrazione statale, è stabilita, in base agli artt. 25 c.p.c. e 6 t.u. avv. Stato, la
regola del c.d. foro erariale: la competenza spetta al giudice del luogo dove ha sede l’avvocatura dello Stato nel cui distretto
si trova il giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie. In pratica, ove nella sede del giudice che sarebbe
competente secondo le normali regole non si trovi alcun ufficio dell’avvocatura, la competenza si radica a favore del tribunale
del luogo in cui ha sede l’avvocatura dello Stato nel cui distretto è ricompreso il primo giudice. La regola del foro erariale vale
solo per le cause di competenza dei tribunali e delle corti di appello e non si estende alle controversie di lavoro (art. 413.6
c.p.c.), alle cause ereditarie, ai provvedimenti esecutivi e fallimentari, ai casi di volontario intervento in causa
dell’amministrazione, ai giudizi di opposizione di terzo, ai giudizi di opposizione a ordinanza di ingiunzione di pagamento e a
quelli in materia di immigrazione.
L'appello delle sentenze dei tribunali emesse in tali giudizi va però proposto alla Corte d'Appello individuata con la regola del
foro erariale. Essa mira a perseguire la specializzazione dei giudici di quelle controversie ed è pure ispirata da ragioni di
economicità della difesa dello stato. La competenza del foro erariale è inderogabile: il suo difetto può essere rilevato anche
d'ufficio in qualsiasi stato e grado del giudizio.
Nelle cause proposte contro l’amministrazione statale, la capacità di stare in giudizio spetta al ministro in carica competente
per materia. Gli atti introduttivi del giudizio debbono pertanto essere notificati all’amministrazione statale in persona del
ministro competente presso l’ufficio dell’avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede il giudice adito.
L’avvocatura dello Stato è domiciliataria ex lege per le amministrazioni per le quali abbia il patrocinio legale: la notificazione
delle citazioni e dei ricorsi, pertanto, non deve essere effettuata presso il domicilio delle singole amministrazioni, ma presso la
sede dell’avvocatura. In caso contrario, essa è nulla, ma questa invalidità viene sanata ove l’avvocatura dello Stato si
costituisca in giudizio. Per contro, ai sensi dell’art. 55, l. 69/2009, l’avvocatura può “eseguire la notificazione di atti civili,
amministrativi e stragiudiziali ai sensi della legge del 21 gennaio 1994, n. 53” e, dunque, a mezzo del servizio postale, se del
caso avvalendosi anche delle procedure informatiche. Ai fini della c.d. notifica in proprio, le avvocature si dotano di un
registro cronologico. Gli enti pubblici diversi dallo Stato stanno in giudizio in persona del loro legale rappresentante.
Si discute se siano ammissibili come mezzi di prova la confessione e il giuramento: essi presuppongono infatti la piena
disponibilità della situazione dedotta in giudizio. Chi propende per la tesi positiva ritiene che tali mezzi di prova possano
essere deferiti all’organo che ha la legittimazione a disporre in ordine alla lite.
A tacere degli atti pubblici, i quali fanno fede fino a querela di falso dei fatti che chi redige l’atto attesta essere avvenuti in sua
presenza, anche gli altri documenti dell’amministrazione vengono considerati come corrispondenti al vero fino a prova
contraria. Gli atti giudiziari nell’interesse dell’amministrazione statale e degli enti parificati per legge sono esenti da bollo.
Alcune leggi speciali stabiliscono che l’azione giudiziaria debba essere preceduta dalla proposizione di un ricorso o reclamo
amministrativo (in tema di previdenza e assistenza, ai sensi dell’art. 443 c.p.c.); nelle controversie in materia di invalidità
l’espletamento dell’accertamento tecnico preventivo è invece condizione di procedibilità della domanda (art. 445-bis,
c.p.c.). Nel giudizio relativo ai rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici è previsto poi il tentativo di conciliazione,
disciplinato alla stessa stregua delle ordinarie controversie tra privati (art. 31.9, l. 183/2010).
CAPITOLO X
LA TUTELA INNANZI AL GIUDICE AMMINISTRATIVO
SEZIONE I: IL GIUDICE AMMINISTRATIVO
1. Il ruolo del giudice amministrativo nell’attuale fase storica e il c.p.a.
Il giudice amministrativo è sorto in funzione del sindacato dell’azione amministrativa in un contesto in cui il Consiglio di
Stato non assumeva la posizione di soggetto imparziale e terzo rispetto ad un conflitto di interessi. Non a caso, nei primi anni
della creazione della IV sezione molti dubbi si affacciarono in ordine alla sua natura giurisdizionale: il processo non era un
processo di parti (o meglio, era di parti in senso formale, ossia quelle parti che propongono la domanda o che a essa resistono),
ma si trattava piuttosto di un meccanismo volto a tutelare l’interesse pubblico, nell’ambito del quale il compito del privato era
quello di eccitare l’attività del Consiglio di Stato per la tutela di interessi differenti da quelli di cui il privato stesso era
portatore.
Il giudizio, anche dopo il riconoscimento della sua natura giurisdizionale, rimaneva comunque ispirato al modello cassatorio o
impugnatorio perché immancabilmente segnato dall’impugnazione di un provvedimento amministrativo. Esso ha dovuto in
seguito confrontarsi con situazioni ed esigenze di tutela diverse: in primo luogo il caso in cui venisse censurato il silenzio
dell’amministrazione (processo senza atto), in secondo luogo le ipotesi di giurisdizione che si estende anche ai diritti
soggettivi (giurisdizione esclusiva).
Da giurisdizione di diritto oggettivo (avente come fine quello di tutelare l’osservanza della legge e caratterizzata sia dal fatto
che il giudizio non è attivato dalla parte, sia dalla circostanza che il giudice “governa” la domanda nel corso della vicenda
processuale), la giurisdizione del giudice amministrativo si è progressivamente configurata come giurisdizione di tipo
soggettivo, volta cioè alla tutela di situazioni sostanziali e individuali (alla stregua dell’art. 24 Cost.). Si ricordano i seguenti
indici: il contraddittorio deve essere instaurato non solo con l’amministrazione ma anche con i controinteressati; la parte ha la
disponibilità del ricorso, potendovi rinunciare; la morte interrompe il processo, il quale, attualmente, non continua in assenza
di un impulso dell’interessato; la soddisfazione dell’interesse sostanziale del ricorrente determina la cessazione della materia
del contendere. Ma bisogna dire che, ai sensi dell’art. 21 bis, l. 287/1990, l’autorità garante della concorrenza e del mercato è
legittimata ad agire in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti e i provvedimenti di qualsiasi
amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato: in tal caso, il giudizio si profila come
un sindacato a tutela di un interesse oggettivo, quello della concorrenza, piuttosto che come protezione dell’interesse della
parte. Ulteriori frammenti di giurisdizione di tipo oggettivo sono rinvenibili nell’azione collettiva per l’efficienza
(d.lgs.198/2009), nonché in ordine ai poteri del giudice di agire a prescindere dalla domanda di parte. Pure sotto il profilo
organizzatorio, sono stati progressivamente affievoliti i rapporti tra giudice amministrativo e amministrazione: a conferma del
rafforzamento della terzietà del giudice, basti pensare alla disciplina dell’accesso alla magistratura amministrativa dei Tar e
alla riduzione dell’ingerenza dell’esecutivo nelle nomine dei consiglieri di Stato; tutto ciò può essere sintetizzato affermando
che il giudice amministrativo, da istituzione collocata all’interno dell’amministrazione, è ormai configurabile come un vero e
proprio giudice situato in una posizione di terzietà anche rispetto all’amministrazione.
La riforma introdotta dalla l. 205/2000 si è mossa nel senso di un’incisiva modifica di istituti fondamentali quali la
giurisdizione esclusiva, le misure cautelari, l’istruttoria e l’ottemperanza, introducendo altri riti speciali circa le possibilità di
tutela per il privato. La giurisdizione di legittimità si è avvicinata a quella esclusiva in forza dell’estensione alla prima di
alcuni istituti propri della seconda, quale il potere di condanna. La Corte costituzionale, con sent. n. 204/2004, ha introdotto
un limite molto preciso in grado di arginare un’eccessiva estensione della giurisdizione esclusiva ad opera del legislatore. La
disciplina di cui all’art. 21-octies, l. 241/1990 amplia notevolmente i poteri del giudice: la violazione del parametro di
ragionevolezza o di una norma generale e astratta che non sia sulla competenza è solo un sintomo dell’illegittimità, che
dipende dal fatto che il provvedimento abbia assunto un contenuto diverso da quello che avrebbe dovuto avere.
Va pure richiamata l’influenza che il diritto dell’Unione europea produce anche nel settore del processo amministrativo. Non
è un caso infatti che il codice del processo amministrativo esordisca affermando che “la giurisdizione amministrativa assicura
una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”. Si ricordano le rilevanti direttive in
materia di gare d’appalti e forniture e, più in generale, sull’incidenza del diritto dell’Unione europea in ordine all’istituto
della tutela cautelare. Un altro principio introdotto dalla Corte di giustizia delle Comunità europee è quello del risarcimento
a carico dello Stato membro per i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto dell’Unione europea e in particolare al
mancato recepimento di direttive. Di rilievo è poi quanto affermato dal Consiglio di Stato, sez. VI, n. 2755/2011 che, al fine di
giustificare la possibilità di “modulare” gli effetti delle proprie statuizioni, richiama (oltre ai principi comunitari) le decisioni
della Corte di giustizia, affermando che “non può disconoscersi (in materia ambientale) che gli standard della tutela
giurisdizionale non possano essere diversi, a seconda che gli atti regolari siano emessi in sede comunitaria o nazionale”.
L’esistenza di una giurisdizione comunitaria rende comunque necessario un coordinamento tra giudici nazionali e giudice
comunitario.
La struttura del processo sembrava destinata a mutare in modo incisivo in occasione dell’emanazione del codice del processo
amministrativo. L’art.44, l. 69/2009 ha infatti delegato il Governo per il riordino del processo avanti ai tribunali
amministrativi regionali e al Consiglio di Stato, con la finalità di “adeguare le norme vigenti alla giurisprudenza della Corte
costituzionale e delle giurisdizioni superiori, di coordinarle con le norme del codice di procedura civile in quanto espressione
di principi generali e di assicurare la concentrazione delle tutele”. Il codice è stato emanato con d.lgs. 104/2010. Svariati
aspetti sono stati disciplinati dal c.p.a., che ha in parte chiarito il novero delle azioni e riordinato istituti quali la tutela
cautelare, le impugnazioni e l’ottemperanza. La legge di delegazione prevede che possono essere apportate disposizioni
correttive e integrative entro due anni: il primo correttivo è stato introdotto con il d.lgs. 195/2011, il secondo con d.lgs.
160/2012 (esso ha disciplinato e delimitato l’azione di condanna). Il codice si articola in cinque libri: disposizioni generali,
processo amministrativo di primo grado, impugnazioni, ottemperanza e riti speciali, norme finali; a loro volta i libri sono
divisi in titoli, capi, sezioni e articoli. Il d.lgs. 104/2010 poi prevede norme di attuazione, norme transitorie, norme di
coordinamento e abrogazioni.
Si possono sottolineare, sin d’ora, alcune caratteristiche della tutela offerta dal giudice amministrativo: tradizionalmente
centrale è la tutela impugnatoria, molto ampio è lo spettro degli interessi che hanno accesso al giudizio, specifico è il profilo
del sindacato sulla discrezionalità amministrativa, molto articolata è la tutela cautelare, così come affatto peculiare è quella
relativa al silenzio; esiste infine un’azione specifica, l’ottemperanza costruita, per portare a esecuzione le decisioni
giurisdizionali in caso di inottemperanza dell’amministrazione. (dare occhiata schemi da pag. 798 a pag. 810)
1.1 La magistratura amministrativa
La l. 186/1982 ha qualificato il complesso organizzativo Tar-Consiglio di Stato-Consiglio di giustizia amministrativa per la
regione Sicilia come “ordinamento della giurisdizione amministrativa”; la medesima legge ha istituito un Consiglio di
presidenza unico per i magistrati dei Tar e per quelli del Consiglio di Stato. L’art.4 c.p.a. chiarisce che la giurisdizione
amministrativa è esercitata dai tribunali amministrativi regionali e dal Consiglio di Stato.
Il Consiglio di presidenza è disciplinato dall’art. 18, l. 205/2000, ed è costituito con d.p.r. su proposta del Presidente del
Consiglio dei Ministri; esso è composto dal presidente del Consiglio di Stato (unico membro di diritto) che lo presiede, da
quattro magistrati in servizio presso il Consiglio di Stato, da sei magistrati in servizio presso i Tar, da 1uattro cittadini eletti
(due alla camera e due al senato) tra i professori ordinari di università in materie giuridiche o gli avvocati con venti anni di
esercizio professionale. I componenti elettivi durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili. Il
Consiglio di presidenza ha compiti deliberativi in materia di assunzioni, assegnazioni di sedi, nonché in materia di
determinazione di criteri e modalità per la fissazione dei carichi di lavoro, di funzioni, trasferimenti, promozioni e
provvedimenti disciplinari riguardanti i magistrati; avverso i provvedimenti del Consiglio di presidenza è ammessa tutela
dinnanzi al giudice amministrativo. L’azione disciplinare relativa ai magistrati amministrativi può essere promossa dal
Presidente del Consiglio di Stato e dal Presidente del Consiglio dei Ministri, al quale spetta anche la sorveglianza su tutti gli
uffici e magistrati. La vigilanza spetta invece al Presidente del Consiglio di Stato.
La magistratura amministrativa è costituita dal presidente del Consiglio di Stato, dai presidenti di sezione del Consiglio di
Stato e dai presidenti dei Tar, i quali hanno funzioni direttive, nonché dai consiglieri di stato, consiglieri, primi referendari e
referendari di Tar.
Il Consiglio di Stato, organo di ultimo grado della giurisdizione amministrativa (art. 6 c.p.a.), consta di sei sezioni, tre con
funzioni consultive e tre con funzioni giurisdizionali: queste ultime, la cui composizione è stabilita all’inizio di ogni anno dal
Presidente del Consiglio di Stato sulla base dei criteri fissati dal consiglio di presidenza, pronunciano con l’intervento di un
Presidente e di quattro consiglieri.
Il d.l. 112/2008 conv. nella l. 133/2008 prevede all’art. 54 che spetti al Presidente del Consiglio di Stato, all’inizio di ogni
anno e sentito il Consiglio di Presidenza, individuare le sezioni che svolgono funzioni giurisdizionali e consultive,
determinando le rispettive materie di competenza e la composizione, nonché la composizione dell’Adunanza plenaria.
L’Adunanza generale, con funzioni consultive per questioni di particolare importanza, è composta da tutti i magistrati in
servizio presso il Consiglio di Stato.
L’adunanza plenaria ha funzioni giurisdizionali ed è composta dal Presidente del Consiglio di Stato, che la presiede, e da
dodici magistrati dello stesso, assegnati alle sezioni giurisdizionali.
L’art. 99 c.p.a è quella di rafforzare il luogo nomofilattico dell’Adunanza, secondo il modello di Cassazione, e cioè quella di
garantire l’uniformità degli indirizzi giurisprudenziali. L’adunanza, infatti, può essere chiamata ad enunciare “il principio di
diritto”.
Ciò avviene attraverso 3 canali, disciplinati in modo diverso anche quanto a presupposti. In primo luogo le singole sezioni, se
rilevano che il punto di diritto sottoposto al loro esame ha dato luogo o possa dar luogo a contrasti giurisprudenziali, possono
rimettere il ricorso (con ordinanza emanata su richiesta delle parti o d’ufficio) all’esame dell’Adunanza plenaria che, qualora
ne ravvisi l’opportunità, può restituire gli atti alla sezione rimettente; in secondo luogo, essa può essere investita pure dal
Presidente del Consiglio di Stato non solo su richiesta delle parti, ma anche d’ufficio, dei ricorsi ove si debbano risolvere
questioni di massima di particolare importanza (contrasti giurisprudenziali); il terzo canale di accesso è disciplinato dall’art.
99 che stabilisce anche il “vincolo” derivante dalle sentenze dell’Adunanza plenaria (se la sezione alla quale è assegnato il
ricorso ritiene di non condividere un principio di diritto enunciato dall’adunanza plenaria, rimette a quest’ultima la decisione
del ricorso: si tratta, in questo caso, di deferimento obbligatorio; esso riguarda solo le sezioni del Consiglio di Stato e non i
Tar). In questo terzo caso, dunque, l’Adunanza plenaria fissa il principio, ma ha anche il potere di decidere nel merito la
controversia, in tale ultimo caso spesso pronunciando sentenze molto articolate e complesse. Essa, tuttavia, può decidere di
enunciare il principio di diritto e di restituire per il resto il giudizio alla sezione remittente. Se ritiene che la questione è di
particolare importanza, l’adunanza plenaria può comunque enunciare il principio di diritto nell’interesse della legge anche
quando dichiara il ricorso irricevibile, inammissibile o improcedibile, ovvero l’estinzione del giudizio.
I posti che si rendono vacanti nella qualifica di consigliere di Stato sono conferiti:
− in ragione della metà ai consiglieri di Tar che ne facciano domanda e che abbiano almeno quattro anni di effettivo
servizio della qualifica, previo giudizio favorevole espresso dal Consiglio di Presidenza;
− in ragione di un quarto a soggetti estranei alla magistratura amministrativa nominati dal governo tra persone aventi i
suddetti requisiti: professori universitari ordinari di materie giuridiche, avvocati aventi almeno quindici anni di
esercizio professionale e iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori, dirigenti generali, nonché magistrati
con qualifica di magistrato di Corte d’appello;
− in ragione di un quarto mediante concorso pubblico al quale possono partecipare magistrati amministrativi, ordinari,
avvocati dello Stato, funzionari e dirigenti in possesso dei requisiti di cui all’art. 19, l. 186/1982.
In ogni regione è istituito un Tribunale amministrativo regionale con sede nel capoluogo. I Tar sono dunque venti. L’art. 1,
l. 1034/1971 istituisce sezioni staccate nelle regioni Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio, Abruzzo, Campania, Puglia,
Calabria, Sicilia, sul presupposto della maggiore popolosità o estensione territoriale delle regioni stesse. Con deliberazione del
Consiglio di Presidenza i Tar possono inoltre essere divisi nella sede centrale in più sezioni, ciascuna composta da non meno
di cinque magistrati (art.6, l. 186/1982). I Tar e le sezioni pronunziano con l’intervento del Presidente e di due componenti; il
presidente è nominato per ciascun tribunale con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del
Consiglio dei ministri ed è scelto tra i presidenti di sezione del Consiglio di Stato o tra i consiglieri di Stato.
Con d.p.r. 426/1984, ora art. 5 c.p.a., è stato istituito il Tar della regione Trentino-Alto Adige, la cui sezione autonoma di
Bolzano si profila come autonomo Tribunale; la composizione del Tar del Trentino-Alto Adige è particolare, in modo da
assicurare la presenza di consiglieri appartenenti ai gruppi linguistici italiano e tedesco.
I magistrati dei Tar, tutti giudici professionali (ad eccezione di quelli del Trentino-Alto Adige), sono distinti nelle qualifiche di
referendari, primi referendari e consiglieri. Essi sono assunti alla prima qualifica (referendari), a seguito di pubblico concorso
e purché non abbiano superato il quarantacinquesimo anno d’età: magistrati dell’ordine giudiziario, magistrati amministrativi
e di giustizia militare con una certa anzianità, avocati dello Stato e procuratori dello Stato (con titolo non inferiore a sostituto
procuratore dello Stato), dipendenti pubblici (con laurea in giurisprudenza) con almeno cinque anni di effettivo servizio nella
carriera direttiva, avvocati iscritti all’albo da quattro anni, consiglieri comunali e provinciali che abbiano esercitato tali
funzioni per almeno cinque anni, ex componenti elettivi delle g.p.a. che abbiano esercitato le funzioni per almeno cinque anni.
Essi accedono per promozione alle qualifiche superiori dopo quattro anni di anzianità della qualifica precedente. L’art. 21, l.
186/1982 prevede l’obbligo per i presidenti Tar e per i presidenti di sezione del Consiglio di Stato di permanere nella sede di
assegnazione per un periodo non inferiore a tre anni, salvo il trasferimento d’ufficio.
Il Consiglio di giustizia amministrativa per la regione Siciliana in sede giurisdizionale (disciplinato dal d.lgs. 373/2003) ha
composizione mista, essendo gli otto magistrati per metà di carriera e per metà nominati dal presidente della regione. Il
collegio giudicante è formato dal Presidente, da due consiglieri di Stato e da due giudici di nomina regionale. Il Tar Sicilia è
stato istituito nel 1971; ai sensi dell’art. 6, c.p.a., gli appelli avverso le pronunce del Tar della Sicilia sono proposti al
Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, nel rispetto delle disposizioni dello statuto speciale.
Circa il tema dell’estraneità del giudice rispetto alla controversia, l’art. 17 c.p.a. richiama le norme del c.p.c. in ordine alla
disciplina delle cause e delle modalità di astensione (l’atto con cui il giudice, riconoscendo di trovarsi in presenza di una
situazione che potrebbe comprometterne l’imparzialità, dichiara di non potere provvedere) e di ricusazione (istanza di parte
volta a evitare che il giudice si pronunci sulla controversia ritenendo che esso non si trovi in una posizione di imparzialità).
2. La ripartizione tra giurisdizione generale di legittimità, giurisdizione esclusiva e giurisdizione di merito; in particolare: la
giurisdizione esclusiva
Il termine giurisdizione può essere impiegato anche per indicare i poteri del giudice amministrativo. Infatti l’art. 7.4, chiarisce
che “sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e,
nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere
amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di
tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni”.
Il comma 3, invece, dispone che la giurisdizione amministrativa si articola in giurisdizione di legittimità, esclusiva ed estesa
al merito; di rilievo è la norma (art. 34.2) secondo cui “in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri
amministrativi non ancora esercitati”.
Il giudice amministrativo giudica, in via generale, sulle controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle
pubbliche amministrazioni. Caratteristiche di tale giurisdizione, definita giurisdizione di legittimità, sono quindi la generalità
e il fatto che la causa petendi sia l’interesse legittimo. Il giudice esercita i poteri istruttori definiti dal codice e quelli decisori
che vanno dall’annullamento dell’atto alla condanna al risarcimento dell’atto. Il giudice amministrativo inoltre conosce, in
determinate materie, anche di diritti soggettivi (art. 103), pure a fini risarcitori: in tal caso vi è una deroga al criterio di riparto
basato sulla natura della situazione giuridica lesa e si dice che il giudice amministrativo ha giurisdizione esclusiva. Il limite
esterno può anche essere superato nei casi in cui il giudice amministrativo può sostituirsi all’amministrazione: in questo caso
si parla di giurisdizione di merito.
I tre ambiti di giurisdizione individuati non risultano comparabili in quanto non sono omogenei:
− la giurisdizione esclusiva e di merito sono eccezionali, in quanto sussistono solo nei casi previsti dalla legge, in ciò
differenziandosi da quella generale di legittimità;
− sotto il profilo delle azioni proponibili e dei profili decisori, la distinzione tra processo di annullamento, di
accertamento e di condanna non corrisponde agli ambiti citati; nella giurisdizione di merito rientra poi il giudizio di
esecuzione delle sentenze passate in giudicato;
− la giurisdizione esclusiva e quella di legittimità si caratterizzano per il tipo di situazioni giuridiche alle quali offrono
tutela, mentre quella di merito è individuata in ragione dei diversi poteri cognitori e decisori del giudice.
Ai sensi dell’art. 7.7 c.p.a. il principio di effettività è realizzato attraverso la concentrazione davanti al giudice amministrativo
di ogni forma di tutela degli interessi legittimi e dei diritti soggettivi. La giurisdizione amministrativa esclusiva riguarda le
materie in cui è “esclusa” la giurisdizione di un altro giudice, in particolare del giudice ordinario. Si discute circa la ratio che
giustifica l’introduzione di tale tipo di giurisdizione: secondo alcuni alla base della scelta legislativa si collocherebbe la
maggiore specializzazione del giudice amministrativo a conoscere alcune materie caratterizzate dall’applicazione di regole
sostanziali previste da leggi amministrative, secondo altri, invece, l’introduzione della giurisdizione esclusiva risponderebbe
all’esigenza di attribuire ad un unico giudice la cognizione di controversie in materie nelle quali interessi legittimi e illegittimi
sono strettamente intrecciati.
La sent. 204/2004 della Corte costituzionale ha individuato il limite che incontra il legislatore nel delineare le materie devolute
alla giurisdizione esclusiva: esse devono essere “particolari” rispetto a quelle devolute alla giurisdizione di legittimità, e,
dunque, partecipano della loro medesima natura che è contrassegnata dalla circostanza che la pubblica amministrazione agisce
come “autorità”. In tal modo, prosegue la Corte, viene anche evitato il conflitto con l’art. 111 Cost., nel senso che sono
sottratte al vaglio della Corte di Cassazione soltanto le pronunce che investono diritti soggettivi attinenti a materie
“particolari”. Resta difficile in tal modo cogliere il valore aggiunto della giurisdizione esclusiva rispetto a quella di legittimità,
atteso che l’estensione dei due ambiti parrebbe coincidere proprio in ragione del riferimento alla “peculiarità” della materia.
Una differenza risiederebbe solo nella circostanza che la giurisdizione esclusiva consente di conoscere controversie in cui si fa
questione di carenza di potere in concreto. Pur tenendo conto di queste ultime precisazioni, la giurisdizione esclusiva oggi si
sovrappone quasi completamente a quella di legittimità.

2.1. L’ambito della giurisdizione esclusiva


L’elenco delle materie di giurisdizione esclusiva era costituito in passato dal pubblico impiego e dalle concessioni di beni e
servizi pubblici. Altri casi di giurisdizione esclusiva sono stati aggiunti da disposizioni legislative successive alla legge Tar.
Oggi il c.p.a., all’art.133, ha raggruppato ed elencato le controversie devolute alla giurisdizione esclusiva, ancorché faccia
salve ulteriori disposizioni di legge (si pensi al d.lgs. 198/2009, c.d. class action pubblica).
L’elenco di cui all’art. 133 c.p.a. (che si occupa, insieme all’art. 134, di giurisdizione) è molto eterogeneo, concernendo sia
interi ambiti sia settori da cui sono espunte alcune fasce di controversie, ancora ora istituiti; alcune controversie concernono
fattispecie regolate dalla l. 241/1990, in materia di:
− risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di
conclusione del procedimento amministrativo;
− formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo e degli
accordi fra pubbliche amministrazioni;
− silenzio di cui all’art. 31, cc 1, 2, 3 (silenzio inadempimento), e provvedimenti espressi adottati in sede di verifica di
segnalazione certificata, denuncia e dichiarazione di inizio attività;
− determinazione e corresponsione dell’indennizzo dovuto in caso di revoca del provvedimento amministrativo;
− nullità del provvedimento amministrativo adottato in violazione o elusione del giudicato;
− diritto di accesso ai documenti amministrativi e violazione dei doveri di trasparenza amministrativa (la devoluzione
alla giurisdizione esclusiva di tutte le controversie originate dalla violazione di tali doveri presuppone che i compiti
definiti dal d.lgs. 33/2013 siano comunque connessi con un potere);
− applicazione dell’art. 20, l. 241/1990 (silenzio assenso).
Altre invece riguardano concessioni di beni, servizi pubblici, urbanistica ed edilizia; si tratta delle controversie:
− aventi a oggetto atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici, ad eccezione delle
controversie concernenti indennità, canoni e altri corrispettivi e quelle attribuite ai tribunali delle acque pubbliche e
al Tribunale superiore delle acque pubbliche;
− in materia di pubblici servizi, relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni e
altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico
servizi in un procedimento amministrativo, ovvero ancora relative all’affidamento di un pubblico servizio, ed alla
vigilanza e controllo nei confronti del gestore, nonché afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul
mercato immobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di pubblica utilità;
− aventi a oggetto gli atti e i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica ed edilizia,
concernente tutti gli aspetti dell’uso del territorio.
La Corte costituzionale, con sent. 204/2004, ha dichiarato incostituzionali gli art. 33 e 34 del d.lgs. 80/1998 (attinenti ai
servizi, all’edilizia e all’urbanistica), ritenendo che l’estensione della giurisdizione esclusiva, da tali norme operata,
confliggesse con i criteri ai quali, ai sensi dell’art. 103 Cost., deve ispirarsi il legislatore quando voglia riservare una
“particolare materia” alla giurisdizione esclusiva. La materia dei servizi pubblici può essere oggetto di giurisdizione esclusiva
soltanto se in essa l’amministrazione agisce esercitando il suo potere autoritativo, ovvero se essa si avvale della facoltà di
usare strumenti negoziali in sostituzione del potere autoritativo. Alla luce dell’intervento della Consulta, che ha eliminato ogni
riferimento ai comportamenti, viene oggi meno la giurisdizione esclusiva sulle controversie ad essi inerenti, ad esempio a
quello tenuto dall’amministrazione in ordine alle azioni possessorie.
In materia di rapporti individuali di utenza si applica il normale criterio di riparto basato su interessi legittimi e diritti
soggettivi. In materia di concessioni, la formula che fa salva la giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria per le
controversie concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, è stata in passato interpretata dalla Cassazione nel senso che
non configurerebbe una riserva di giurisdizione a favore del giudice ordinario: sussiste la giurisdizione del giudice
amministrativo nelle ipotesi in cui bisogna spingersi fino alla considerazione del contenuto del rapporto concessorio. Spettano
invece al Tribunale superiore delle acque le controversie attinenti alle concessioni del demanio idrico. Circa l’urbanistica,
deve essere rilevato che, prima dell’intervento della sent. n. 2014/2001, la giurisprudenza aveva affermato che la materia
urbanistica concernerebbe non solo la disciplina dell’uso del territorio attraverso l’esercizio dei poteri di pianificazione, ma
anche il profilo gestionale contenente nella realizzazione delle scelte urbanistiche: la Cass., n. 494/2000 riconduce alla
giurisdizione esclusiva anche le controversie attinenti ai comportamenti costituenti illecito extracontrattuale, contrattuale e
precontrattuale; anche la tutela possessoria era stata fatta rientrare nella giurisdizione esclusiva, tramite Cass., sez. un., n.
5055/2004. Secondo tali decisioni, inoltre, permarrebbe la giurisdizione esclusiva sulle controversie relative alle sanzioni
pecuniarie irrogate in connessione con l’attività di vigilanza (ad esempio in tema di servizi pubblici), o legate all’uso del
territorio.
Vi sono poi le controversie concernenti i contratti delle amministrazioni, ossia:
− relative a procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi, forniture, svolti da soggetti comunque tenuti
all’applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla
normativa statale o regionale, ivi incluse quelle risarcitorie e con estensione della giurisdizione esclusiva alla
dichiarazione di inefficacia del contratto a seguito di annullamento dell’aggiudicazione ed alle sanzioni alternative. In
linea di principio, il sindacato del giudice amministrativo si incentra in via principale sulla procedura amministrativa
e, solo di riflesso, investe consequenzialmente la sorte del contratto nella misura in cui essa sia determinata dagli
effetti dell’annullamento; il giudice ordinario, invece, si occupa della validità del contratto: secondo Cass., sez. un., n.
12110/2013, in particolare, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia originata dalla
contestazione dell’atto non autoritativo (lesivo di diritti) con cui l’amministrazione abbia d’ufficio vagliato la nullità
di un proprio provvedimento da cui era scaturito un contratto. Il suddetto orientamento sembra integrare e superare le
decisioni precedenti che avevano riconosciuto maggiori spazi in capo al giudice ordinario (Cass., sez. un., n. 8515/ e
n. 5446/2012): in sostanza, ove si faccia questione della sorte del contratto a seguito dell’annullamento
dell’aggiudicazione o della procedura a evidenza pubblica, la giurisdizione dovrebbe spettare al giudice
amministrativo, mentre negli altri casi sussiste la giurisdizione del giudice ordinario;
− relative al divieto di rinnovo tacito dei contratti pubblici di lavori, servizi, forniture, relative alla clausola di revisione
del prezzo e al relativo provvedimento applicativo, nei contratti ad esecuzione forzata o periodica, nonché quelle
relative ai provvedimenti applicativi dell’adeguamento dei prezzi ai sensi dell’art. 133, cc. 3 e 4 del codice.
Di rilievo sono le controversie relative alle Authorities. L’art. 133, c.p.a., richiama le controversie aventi a oggetto tutti i
provvedimenti, compresi quelli sanzionatori (ai sensi dell’art. 134, in caso di sanzioni pecuniarie, sussiste la giurisdizione di
merito) ed esclusi quelli inerenti ai rapporti di impiego privatizzati, adottati da: Banca d’Italia, Organismi di cui agli artt. 112
bis, 113 e 128-duodecies, d. lgs. 385/1993, Autorità garante della concorrenza e del mercato, Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni, Autorità per l’energia elettrica e il gas, Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e
forniture, Commissione vigilanza fondi pensione, Commissione per la valutazione, trasparenza e integrità della pubblica
amministrazione, Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private. Va aggiunto che, in materia di Antitrust, i ricorsi intesi a
ottenere i provvedimenti di urgenza, le azioni di nullità e di risarcimento del danno sono promossi davanti alla Corte d’appello
competente per territorio, così come le controversie insorte in relazione ai provvedimenti del Garante per la protezione dei dati
personali e quelle originate dalla contestazione delle sanzioni irrogate dalla Consob.
Il codice ha sposato la tesi secondo cui anche il giudice amministrativo può occuparsi della tutela dei diritti costituzionalmente
protetti; essa contempla le controversie: a) relative ai rapporti di lavoro del personale in regime di diritto pubblico (magistrati,
avvocati e procuratori dello Stato, personale militare, professori e ricercatori universitari); b) aventi a oggetto i provvedimenti
in materia di comunicazioni elettroniche (compresi quelli relativi all’imposizione di servitù), nonché i giudizi riguardanti
l’assegnazione di diritti d’uso delle frequenze, la gara e le procedure di cui all’art. 1, cc. da 8 a 13, l. 220/2010; c) relative alle
sanzioni amministrative e ai provvedimenti adottati dall’organismo di regolazione competente in materia di infrastrutture
ferroviarie; d) attinenti alle procedure e ai provvedimenti della pubblica amministrazione concernenti la produzione di energia,
i gasdotti d’importazione e le centrali termoelettriche; e) aventi a oggetto le ordinanze e i provvedimenti commissariali
adottati in tutte le situazioni di emergenza dichiarate ai sensi dell’art. 5.1, l. 225/1992, nonché gli atti e le controversie attinenti
alla complessiva azione di gestione dei rifiuti; f) aventi a oggetto i provvedimenti anche contingibili e urgenti, emanati dal
sindaco in materia di ordine e sicurezza pubblica, di incolumità pubblica e di sicurezza urbana, di edilità e polizia locale,
d’igiene pubblica e abitato; g) aventi a oggetto i provvedimenti relativi alla disciplina o al divieto dell’esercizio d’industrie
insalubri o pericolose; h) aventi a oggetto atti e provvedimenti adottati in violazione delle disposizioni in materia di danni
all’ambiente; i) relative all’applicazione del prelievo supplementare nel settore del latte e dei prodotti lattiero-caseari; l) aventi
a oggetto i provvedimenti in materia di passaporti; m) tra lo Stato e i suoi creditori riguardanti l’interpretazione dei contratti
aventi per oggetto i titoli di Stato o le leggi relative ad esso; n) aventi a oggetto atti del comitato olimpico nazionale italiano o
delle federazioni sportive non riservate agli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo; o) concernenti l’esercizio del diritto
a chiedere e ottenere l’uso delle tecnologie telematiche nelle comunicazioni con le pubbliche amministrazioni e con i gestori
di servizi pubblici; p) aventi a oggetto tutti i provvedimenti adottati dall’agenzia nazionale di regolamentazione del settore
postale (ora le competenze sono passate all’autorità per le garanzie nelle comunicazioni); q) aventi a oggetto i provvedimenti
dell’agenzia nazionale per la regolazione e la vigilanza in materia di acqua (le cui competenze sono state attribuite al ministero
dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, con l. 214/2011); r) aventi a oggetto i provvedimenti di interdizione dei
funzionari regionali e dei revisori dei conti; s) relative all’esercizio dei poteri speciali inerente alle attività di rilevanza
strategica nei settori della difesa e della sicurezza nazionale e nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni
(Golden power); t) relative agli atti e ai provvedimenti che concedono aiuti di Stato in violazione all’art. 108, paragrafo 3, del
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
Un ultimo gruppo di casi contemplati dall’art. 133, c.p.a., attiene al settore dell’espropriazione e dei poteri ablatori; si tratta
delle controversie aventi a oggetto: gli atti, i provvedimenti, gli accordi e i comportamenti riconducibili all’esercizio di un
pubblico potere, delle pubbliche amministrazioni in materia di espropriazione per pubblica utilità, e i decreti di espropriazione
per causa di pubblica utilità delle invenzioni industriali. Molto delicato è il tema dell’occupazione appropriativa (che “si
verifica quando il fondo è stato occupato a seguito di dichiarazione di pubblica utilità, e pertanto nell’ambito di una procedura
d’espropriazione, e ha subito un’irreversibile trasformazione in esecuzione dell’opera di pubblica utilità senza che, tuttavia, sia
intervenuto il decreto di esproprio o altro atto idoneo a produrre l’effetto traslativo della proprietà”) e dell’occupazione
usurpativa (caratterizzata “dall’apprensione del fondo altrui in carenza di titolo: carenza universalmente ravvisata nell’ipotesi
di assenza ab initio della dichiarazione di pubblica utilità, e da taluni anche nell’ipotesi di annullamento, con efficacia ex tunc,
della dichiarazione inizialmente esistente ovvero di una sua inefficacia per inutile decorso dei termini previsti per l’esecuzione
dell’opera pubblica”).
La sent. della Corte cost. n. 191/2006 aveva ritenuto conforme a Costituzione la disciplina di cui all’art. 53, d.p.r. 327/2001
(ora confluita nel c.p.a., art 7), che operava la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle
controversie relative a “comportamenti” collegati anche solo “mediamente” all’esercizio di un pubblico potere, laddove deve
essere dichiarata costituzionalmente illegittima la devoluzione alla giurisdizione esclusiva di “comportamenti” posti in essere
in totale carenza di potere ovvero in via di mero fatto. In generale, alla luce dell’intervento della Corte costituzionale, viene
oggi meno la giurisdizione esclusiva sulle controversie a essi inerenti, ad esempio a quello tenuto dall’amministrazione in
ordine alle azioni possessorie.
Un problema particolarmente delicato attiene alle controversie risarcitorie. L’art. 7, l. 205/2000 dispone che il giudice
amministrativo “conosce di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno…e gli altri diritti patrimoniali
consequenziali.” Risultava così eliminata la riserva al giudice ordinario della cognizione delle controversie attinenti alle
questioni patrimoniali consequenziali e non solo nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo. La sent. 204/2004 ha chiarito che “il potere di disporre il risarcimento del danno ingiusto non costituisce
sotto alcun profilo una materia nuova devoluta alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello
classico demolitorio, da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione”. Il principio
di cui all’art. 7 c.p.a. attribuisce alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad
atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per
lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali.
2.2. La giurisdizione di merito
Vengono configurati come casi in cui si verifica un ampliamento del limite esterno della giurisdizione del giudice
amministrativo quelle situazioni in cui il giudice dispone di giurisdizione di merito: essa consente di sindacare non solo la
legittimità bensì anche il merito (e cioè l’opportunità) dell’atto amministrativo, ingerendosi dunque in un ambito sottratto in
via normale alla sua cognizione. Nei casi di giurisdizione di merito, aventi carattere eccezionale perché sussistenti solo nelle
materie tassativamente indicate dalla legge, il giudice conosce peraltro anche dei vizi di legittimità: si tratta dunque di
un’estensione dell’ambito del sindacato e/o del potere del giudice che non tocca quello attinente ai profili di legittimità. Parte
della dottrina ha sostenuto che nella giurisdizione di merito il giudice ha solo più ampi poteri di decisione e di cognizione,
questi ultimi relativi in particolare al sindacato sul fatto, anche in ragione dei maggiori mezzi istruttori di cui dispone
(almeno fino alle recenti riforme).
In linea di principio, la tesi preferibile è quella che identifica la giurisdizione di merito con un’area in cui il giudice ha
maggiori poteri decisori, i quali talora sono la conseguenza di poteri cognitori più ampi, e quindi di un sindacato
sull’opportunità. Il giudice ha la possibilità di annullare l’atto, di disporre il risarcimento dei danni nonché quello di
“sostituirsi all’amministrazione” (art. 6). Ai sensi dell’art. 21, qualora il giudice amministrativo debba sostituirsi
all’amministrazione, può nominare come proprio ausiliario un commissario ad acta. Con riferimento ai poteri sull’atto, l’art.
34 precisa che, nei casi di giurisdizione di merito, il giudice adotta un nuovo atto, ossia modifica o riforma quello impugnato.
Un caso molto importante è quello dell’ottemperanza: in tale ipotesi il vero tema è quello dell’effettività di tutela, nel senso
che una sostituzione dell’amministrazione che non ottemperi a una precedente statuizione giurisdizionale è necessaria onde
garantire l’adempimento del dovere di dar attuazione alle sentenze e l’effettività della tutela. Il merito è qui un risvolto interno
dell’ottemperanza; in questi casi non si può parlare di riserva di amministrazione, intesa come sfera rimessa alla valutazione
discrezionale del solo soggetto pubblico.
In sintesi, la giurisdizione di merito accoglie ipotesi diverse tra loro: casi in cui il giudice ha maggiori poteri decisori
giudicando scelte già effettuate dall’amministrazione, casi in cui può sindacare l’opportunità di un precedente atto e un’ipotesi
di possibile vera sostituzione, anche per il futuro, con riferimento all’ottemperanza. Per un altro verso può anche dirsi che in
alcuni casi il giudice si sostituisce alla valutazione discrezionale dell’amministrazione (ottemperanza); in altri si sostituisce
nella “produzione di effetti giuridici” spettanti in prima battuta all’amministrazione.
2.3. Le materie rientranti nella giurisdizione di merito
Quanto alle materie rientranti nella giurisdizione di merito, l’art. 134 c.p.a. indica le controversie aventi ad oggetto: a)
l’attuazione delle pronunce giurisdizionali esecutive o del giudicato nell’ambito del giudizio di ottemperanza; b) gli atti e le
operazioni in materia elettorale, attribuiti alla giurisdizione amministrativa (correzione del risultato delle elezioni e
sostituzione dei candidati illegittimamente proclamati); c) le sanzioni pecuniarie la cui contestazione è devoluta alla
giurisdizione del giudice amministrativo, comprese quelle applicate dalle Autorità amministrative indipendenti e quelle
previste dall’art. 123 c.p.a.); d) le contestazioni sui confini degli enti territoriali; e) il diniego di rilascio di nulla osta
cinematografico di cui all’art. 8, l. 161/1962.
SEZIONE II: IL PROCESSO AMMINISTRATIVO
3. Le fonti del processo amministrativo
Il processo amministrativo era in passato retto da una molteplicità di norme, non sempre coordinate tra loro. Il legislatore non
aveva mai affrontato in modo complessivo il problema della disciplina del processo amministrativo. In questo quadro, è
risultata determinante l’opera della giurisprudenza che, anche sotto il profilo processuale, ha contribuito alla nascita di istituti
giuridici, alcuni dei quali (motivi aggiunti, appello per le ordinanze cautelari) poi recepiti dal legislatore: di origine
giurisprudenziale sono, ad esempio, l’elaborazione del criterio di riparto di giurisdizione, la teorizzazione dell’atto paritetico e
l’affermazione dell’appellabilità delle sentenze emanate nel giudizio di ottemperanza.
Il d. lgs. 104/2010 (emanato esercitando la delega conferita dalla l. 69/2009) ha introdotto nel nostro ordinamento un codice
del processo amministrativo che costituisce la fonte principale del processo; tra i principi e i criteri direttivi indicati dalla legge
delega vi era l’adeguamento alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle altre giurisdizioni superiori, nonché quello
del coordinamento con le norme del c.p.c. in quanto espressione di principi generali. L’art. 1 afferma che la giurisdizione
amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo.
L’art. 39, c.p.a., sul rinvio esterno, stabilisce che “per quanto non disciplinato dal seguente codice si applicano le disposizioni
del codice di procedura civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali”; ma questa formulazione appare
infelice, in quanto sembrerebbe ammettere che le norme espressione di principi generali siano applicabili anche se
incompatibili. Nella disciplina delle impugnazioni, il codice ha avuto l’ambizione di disciplinare quasi compiutamente la
materia, riproducendo svariate disposizioni del codice di rito.
Di rilievo è l’art. 38 sul rinvio interno, ai sensi del quale il processo amministrativo si svolge secondo le disposizioni del libro
II (relative al processo di primo grado) che, se non espressamente derogate, si applicano anche alle impugnazioni e ai riti
speciali.
Il processo amministrativo telematico è regolato dal d.p.c.m. 40/2016, atto al quale sono allegate le specifiche tecniche. Il
regolamento è stato emanato in attuazione dell’13, disposizioni attuative, c.p.a. Il processo telematico interessa la redazione di
atti, la formazione del fascicolo, la tenuta dei registri, il deposito, la conservazione, la visualizzazione e l’estrazione di copie
degli atti del fascicolo, la pubblicazione dei provvedimenti giurisdizionali, le comunicazioni di segreteria, la trasmissione di
fascicoli.
Il deposito di ricorsi, memorie, motivi aggiunti e ricorsi incidentali avviene esclusivamente per via telematica; le
comunicazioni sono effettuate unicamente con modalità telematiche nei confronti di ciascun avvocato componente il collegio
difensivo o nei confronti dell’avvocato domiciliatario eventualmente nominato, agli indirizzi PEC risultanti dai pubblici
elenchi, mentre la notificazione degli atti giudiziari per via telematica è facoltativa.
Ai sensi dell’art. 136 tutti gli atti e i provvedimenti del giudice, dei suoi ausiliari, del personale degli uffici giudiziari e delle
parti possono essere sottoscritti con firma digitale.
La formazione del fascicolo telematico è disciplinata dall’art. 5 d.p.c.m. 40/2016. Esso è dematerializzato salvo casi
eccezionali. L’accesso allo stesso è disciplinato dall’art. 18: esso è consentito all’avvocato munito di procura, agli avvocati
domiciliatari, agli avvocati delegati, alle parti personalmente e, previa autorizzazione del giudice, a coloro che intendono
intervenire.
4. I principi del processo amministrativo
La funzione giurisdizionale si differenzia da quella amministrativa in quanto non è finalizzata alla cura di interessi di una delle
parti in causa, ma è caratterizzata dalla mera applicazione della legge, al fine di ristabilire nell’ordinamento giuridico l’ordine
violato nel rispetto di alcune fondamentali garanzie delle parti stesse. Da un punto di vista generale, il processo prevede
normalmente la partecipazione delle parti che, in contraddittorio, pongono in essere un’attività che il giudice deve prendere in
considerazione: atteso che la partecipazione connota anche il procedimento, si deve aggiungere che il processo si caratterizza
anche per la posizione di terzietà assunta dal giudice nei confronti degli interessi in gioco. Analizziamo i principi che reggono
il processo amministrativo. L’art. 1 si riferisce al principio della tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione
e del diritto europeo; l’art. 2, rubricato giusto processo, contempla i principi della parità delle parti, del contraddittorio e del
giusto processo, aggiungendo che il giudice amministrativo e le parti operano per la ragionevole durata del processo.
Il principio di effettività è spesso richiamato per invocare spazi di intervento maggiori a favore del giudice onde venire
incontro alle esigenze del ricorrente e per pienamente soddisfarne le richieste: il tema emerge, ad esempio, nel caso di tutela
atipica, di convertibilità delle azioni e dei poteri del giudice di modulare gli effetti delle sentenze di annullamento.
L’effettività, secondo le letture più estensive, sarebbe il principio che consente di individuare i margini di decisione del
giudice, spesso così chiamato a ponderare nel processo i contrapposti interessi per ragioni di equità. Pare ostacolo non
superabile dal giudice il divieto di pronunciare su pareri non ancora esercitati. L’art. 7.7 dispone comunque che il principio è
realizzato attraverso la concentrazione davanti al giudice amministrativo di ogni forma di tutela degli interessi legittimi e dei
diritti soggettivi.
L’art. 3 si riferisce al dovere di motivazione (ogni provvedimento del giudice è motivato) e al principio di sinteticità (la
redazione degli atti deve essere chiara e sintetica).
Per quanto attiene al principio di parità, non si può non notare che permane una certa disparità tra le parti, quanto meno nel
senso che il dialogo tra esse prima dell’udienza non è caratterizzato dalla previsione di preclusioni e decadenze per le parti
intimate.
Quanto al principio del contraddittorio, esso esprime la posizione di eguaglianza delle parti in ordine alla possibilità di
elaborazione del contenuto della sentenza. Ai fini della validità della domanda, il ricorso deve essere notificato all’autorità che
ha emanato l’atto e ad almeno uno dei controinteressati; il contraddittorio deve comunque essere integrato nei confronti di tutti
i controinteressati nel corso del giudizio e assicurato nelle varie fasi (istruttoria, cautelare, decisoria nel merito). L’art. 73
c.p.a. impedisce al giudice medesimo di porre a fondamento della decisione questioni rilevate d’ufficio che non siano state
previamente sottoposte alle parti.
In aggiunta a quelli codificati, altri principi possono senz’altro riferirsi al processo o, comunque, si evincono dal tessuto
normativo del codice.
Il giudizio si instaura solo a seguito del ricorso della parte, sicché il giudice non può procedere d’ufficio (principio della
domanda). Una conferma di tale principio si trova nell’art. 34 c.p.a., che disciplina i poteri del giudice in caso di
accoglimento del ricorso “nei limiti della domanda”. Il giudice amministrativo deve rispettare i limiti della domanda avanzata
dalla parte, non potendo annullare l’atto per motivi differenti da quelli denunciati. Al riguardo si aggiunga che il thema
decidendum è stabilito in linea di massima dal ricorrente in modo unilaterale (un’eccezione è costituita dal ricorso
incidentale proposto dal controinteressato). A questo principio si lega anche l’onere della parte di contestare la fondatezza
delle affermazioni di controparte.
Spesso si afferma che il processo amministrativo è un processo di parte (o accusatorio), in cui la disposizione dell’oggetto del
processo, delle pretese e delle prove spetta alle parti. Il principio è attenuato in forza del potere-dovere del giudice di
disapplicare d’ufficio le fonti interne che confliggono con il diritto dell’UE e anche quelle regolamentari lesive di diritti
soggettivi. Il giudice deve sempre seguire le norme del diritto, anche nei casi in cui viga il principio secondo cui il ricorrente è
dominus delle doglianze.
Nel processo amministrativo vige, poi, il principio dell’impulso processuale di parte: il giudizio prosegue solo in forza
dell’impulso delle parti; in particolare, dopo il deposito del ricorso, occorre la presentazione di una domanda di fissazione
dell’udienza, pena la perenzione del ricorso stesso (tranne i casi in cui la fissazione dell’udienza di merito viene effettuata
d’ufficio (art. 120.6).
Va ribadito che la sussistenza di poteri esercitabili d’ufficio dal giudice non è incompatibile con il carattere di giurisdizione
di tipo soggettivo del processo amministrativo; questi poteri si dovrebbero giustificare solo in quanto siano necessari per
“proteggere” il processo (ad esempio nullità), ovvero risultino essenziali per garantirne una corretta conduzione (direzione
d’udienza, fissazione del calendario delle udienze, ecc.) o per assicurare la parità tra le parti, soprattutto correggendo uno
squilibrio iniziale.
Il processo amministrativo, inoltre, è un processo da ricorso, nel senso che con l’atto introduttivo non si cita la controparte a
comparire in giudizio (vocatio in jus): l’atto amministrativo è infatti una vocatio judicis, con il quale si chiama il giudice a
provvedere sull’oggetto della domanda sicché, ad esempio, il rapporto processuale si instaura nel momento del suo deposito
presso il giudice amministrativo (oltre al momento della notificazione del ricorso della controparte).
La trattazione della causa si svolge davanti al collegio (principio della collegialità), anche se vi sono numerose ipotesi in cui il
presidente dispone di autonomi poteri (si pensi al caso delle misure cautelari provvisorie, che possono essere disposte dal
presidente del Tar o della sezione ai sensi dell’art. 56 c.p.a.).
Secondo Corte Cost., n. 8/1982, il principio del doppio grado di giurisdizione nel processo amministrativo avrebbe un
fondamento costituzionale nell’art. 125 Cost., dal quale emerge l’impossibilità di attribuire al Tar competenze giurisdizionali
in unico grado, onde la garanzia del doppio grado va riferita alle controversie che il legislatore attribuisce agli organi locali di
giustizia amministrativa. L’art. 6 c.p.a. oggi stabilisce che il Consiglio di Stato è organo di ultimo grado della giurisdizione
amministrativa; nel caso dell’ottemperanza, tuttavia, il Consiglio può giudicare in unico grado e, a certe condizioni, può essere
per la prima volta proposta l’azione risarcitoria.
Infine, salvo i casi dei procedimenti celebrati con rito camerale, il giudizio si celebra in pubbliche udienze (principio della
pubblicità delle udienze).
5. Le parti del processo amministrativo: le parti necessarie
Le parti sono i soggetti del processo diversi dal giudice. La parte processuale in senso formale è il soggetto che propone la
domanda (o quello nei confronti del quale la domanda è proposta); l’individuazione delle parti in senso formale avviene in
base al regime delle notificazioni del ricorso, identificando così il ricorrente, l’amministrazione resistente ed eventualmente i
controinteressati.
Nel processo amministrativo vi sono alcune parti necessarie, nel senso che non possono mancare, ovvero che devono essere
messe in condizione di partecipare e di contraddire a seguito della notificazione del ricorso: nell’azione di impugnazione, oltre
al ricorrente, sono parti necessarie anche l’amministrazione e i controinteressati. Ai sensi dell’art. 27, c.p.a., il contraddittorio
è integralmente costituito quando l’atto introduttivo è notificato dall’amministrazione resistente e, se esistenti, ai
controinteressati.
Il difetto di notificazione del ricorso delle parti rende irricevibile il ricorso stesso, in quanto il processo manca di un
presupposto processuale. L’irricevibilità (chiamata anche inammissibilità) è rilevabile d’ufficio dal giudice. La determinazione
delle parti necessarie è importante perché solo esse hanno il diritto ad ottenere una pronuncia sul merito della controversia (in
quanto titolari della legittimazione ad agire e contraddire).
Parlando di notifica ai controinteressati, si deve precisare che, qualora vi siano più controinteressati, è sufficiente che il ricorso
sia notificato ad almeno uno di essi (art. 41). Il quadro normativo si completa con la regola di cui all’art. 49, c.p.a.: se il
giudizio è promosso solo contro taluno dei controinteressati, il presidente o il collegio ordina l’integrazione del
contraddittorio nei confronti degli altri. In assenza di tempestiva integrazione del contraddittorio, il ricorso diventa
improcedibile ai sensi dell’art. 35, c.p.a.; questo ritardo potrebbe causare problemi con riferimento alle esigenze del ricorrente
di ottenere con immediatezza la tutela cautelare. Tuttavia, tramite l’art. 27, c.p.a., vi è una soluzione secondo cui il giudice può
pronunciare provvedimenti cautelari interinali (provvisori in attesa dell’integrazione).
Le parti necessarie del processo amministrativo dunque sono:
• Ricorrente: è il titolare del diritto di azione che agisce a tutela di un interesse legittimo o, nei casi di giurisdizione
esclusiva, di un diritto soggettivo; può trattarsi anche di un ente pubblico, ove esso impugni un atto amministrativo
lesivo della propria sfera giuridica;
• Amministrazione resistente: è l’autorità che ha emanato l’atto o nei cui confronti deve essere fatta valere la pretesa;
l’amministrazione presente in causa assomma alla qualità di parte anche quella di soggetto che deve agire in vista
dell’interesse pubblico. Va ribadito che, ai sensi dell’art. 7, c.p.a., per pubbliche amministrazioni si intendono anche i
soggetti a essi equiparate o tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo (anche soggetto privato);
• Controinteressati (eventuali): sono i soggetti titolari della legittimazione a contraddire; essi traggono vantaggio
dall’atto impugnato, sicché l’annullamento dell’atto arrecherebbe loro uno svantaggio. Il controinteressato ha quindi
un interesse giuridicamente rilevante di segno opposto rispetto a quello del ricorrente, in quanto mira alla
conservazione dell’atto. Non tutti i controinteressati sono parti necessarie: secondo la giurisprudenza infatti, devono
obbligatoriamente essere messi nelle condizioni di partecipare al processo solo i soggetti che, titolari di un interesse
qualificato alla conservazione del processo, siano individuati alla stregua delle indicazioni contenute nell’atto. In
quanto titolari di un interesse legittimo di segno contrario rispetto a quello del ricorrente, i controinteressati possono
comunque sempre intervenire nel giudizio e proporre opposizione di terzo.
Si deve menzionare anche la posizione dei cointeressati, ossia di quei soggetti che si trovano nella stessa situazione del
ricorrente: la giurisprudenza nega che debbano essere chiamati in giudizio, ma consente che possano intervenirvi a
determinate condizioni, realizzando un’ipotesi di litisconsorzio attivo. Il codice contiene una disciplina specifica relativa
all’azione di condanna (art. 41.2, c.p.a.): ove essa, anche in via autonoma, sia proposta, il ricorso è notificato altresì agli
eventuali beneficiari dell’atto illegittimo ai sensi dell’art. 102 c.p.c. (litisconsorzio); in caso contrario, il giudice provvede a
ordinare l’integrazione del contraddittorio.
5.1. Le parti non necessarie; in particolare: le parti eventuali
Pure altri soggetti possono essere presenti nel processo, configurandosi come parti eventuali. Ai sensi dell’art. 28, c.p.a., se il
giudizio non è stato promosso contro alcuna delle parti nei cui confronti la sentenza deve essere pronunciata, queste possono
intervenirvi, senza pregiudizio del diritto di difesa. Il c. 2 aggiunge che chiunque non sia parte del giudizio e non sia decaduto
dall’esercizio delle relative azioni, ma vi abbia interesse, può intervenire accettando lo stato e il grado in cui il giudizio si
trova. Infine, il giudice, anche su istanza di parte, quando ritiene opportuno che il processo si svolga nei confronti di un terzo,
ne ordina l’intervento. L’intervento volontario, di cui ai primi due commi dell’art. 28, stante l’ampia formulazione della
norma, può assumere varie forme.
Con riferimento al giudizio di primo grado, gli artt. 50 e 51, c.p.a. si occupano specificamente dell’intervento. Giova ricordare
che, prima del codice, erano ammessi soltanto l’intervento adesivo ad adiuvandum (quello posto in essere per sostenere la
posizione del ricorrente) e l’intervento adesivo ad opponendum (esperito per appoggiare la posizione dell’amministrazione e
di eventuali controinteressati). Parte della giurisprudenza ammetteva poi l’intervento di chi fosse titolare di un mero interesse
di fatto. In ordine all’intervento ad opponendum, poi, in dottrina si riconosceva la possibilità, per il controinteressato non
intimato, di introdursi nel processo pendente (Cons. Stato, ad. plen., n. 15/1997). Si ritiene oggi ammissibile il solo intervento
adesivo (Cons. Stato, sez. V, n. 5591/2012: intervento litisconsortile autonomo; Tar Liguria, n. 754/2012, che esclude
l’intervento principale nella giurisdizione di legittimità).
Il c. l dell’art. 28 si riferisce ai casi di intervento ad opponendum del controinteressato non intimato: in tal caso, in realtà, si
tratta di costituzione in giudizio di una parte necessaria ed è per questo che la norma si preoccupa di specificare che non vi è
pregiudizio per i diritti di difesa. Facendo leva sull’ampiezza della formula ora indicata e, soprattutto, invocando i principi di
effettività della tutela e di economia processuale, sembra da risolvere in senso positivo l’interrogativo circa l’ammissibilità di
un intervento del controinteressato sul piano sostanziale che non sia parte necessaria. Il secondo comma contempla ipotesi
diverse: si può pensare sia all’intervento del cointeressato che avvenga prima della consumazione del termine di decadenza (si
avrebbe, cioè, un caso di intervento litisconsortile), sia all’intervento adesivo.
L’ultimo c. dell’art. 28 ammette poi l’intervento per ordine del giudice, che valuta l’opportunità che il processo si svolga nei
confronti di un terzo. In tal caso, esso ordina alla parte di chiamare il terzo in giudizio, indicando gli atti da notificare e il
termine della notificazione; ove la chiamata non venga effettuata, il ricorso è dichiarato improcedibile. Il terzo può essere un
controinteressato pretermesso sostanziale, ma potrebbe trattarsi anche di un’altra amministrazione interessata al giudizio o nei
confronti della quale si vuole estendere la portata soggettiva della domanda.
In sintesi, alla luce delle considerazioni che precedono possiamo individuare ipotesi di: litisconsorzio necessario dal lato
passivo (tra amministrazione e controinteressati, allorché vi siano controinteressati); litisconsorzio facoltativo dal lato
passivo, nel caso di intervento di controinteressati; litisconsorzio facoltativo dal lato attivo (intervento in causa di
cointeressati effettuato entro il termine di decadenza). Il litisconsorzio dal lato attivo può però realizzarsi anche per effetto del
ricorso collettivo e dell’esercizio del potere del giudice di procedere alla riunione di ricorsi.
6. I presupposti processuali. Osservazioni generali. La giurisdizione del giudice amministrativo (rinvio)
L’azione processuale si rivolge all’autorità giurisdizionale e ha quale oggetto la pretesa a una pronunzia sul merito della
domanda. Il legittimo esercizio del potere generale di azione, riconosciuto a livello costituzionale a “tutti” dall’art. 24, richiede
la sussistenza di una serie di presupposti, la cui esistenza deve essere accertata dal giudice prima di poter scendere all’esame
della fondatezza della domanda, al fine di accoglierla o di respingerla. La parte deve essere sicura che, in concreto, tali
presupposti esistano.
Tra questi presupposti rientra in primo luogo l’esistenza di una domanda rivolta a un giudice: tale circostanza si profila come
presupposto di esistenza del processo, nel senso che la presentazione di una domanda a un organo che non sia
giurisdizionale ne impedisce addirittura l’instaurazione. Sono presupposti processuali del ricorso la capacità ad essere parte
nel processo, la capacità processuale e il rispetto del contraddittorio. La loro assenza comporta che il giudice dichiari
inammissibile il ricorso, prendendo atto che il rapporto processuale non è stato validamente costituito.
I presupposti processuali debbono sussistere al momento in cui il ricorso viene proposto. Rilevanza analoga ai presupposti
processuali di inammissibilità hanno alcuni presupposti di procedibilità del ricorso, la cui assenza osta a che il giudizio giunga
legittimamente alla sua conclusione (in tale ipotesi il ricorso deve essere dichiarato “improcedibile”): l’improcedibilità è
causata, ad esempio, dalla rinuncia agli atti (par. 15.6) e dalla mancata integrazione del contraddittorio (art. 35). La pronuncia
di inammissibilità o di improcedibilità (regolata dall’art. 85) del ricorso significa che essa non può essere fatta valere in “quel”
processo: in linea teorica, dunque, la parte potrebbe far valere la propria pretesa in un altro processo, in cui il relativo ricorso
potrebbe essere “ammissibile” o “procedibile”.
La possibilità o meno di far valere la pretesa in un altro processo è l’unico criterio che pare in grado di risolvere il controverso
problema della distinzione tra presupposti processuali qui analizzati e condizioni dell’azione.
6.1. La competenza dei giudici amministrativi
Uno dei primi problemi che deve porsi il ricorrente è quello dell’individuazione del giudice competente. Storicamente, la
soluzione della competenza spettante ai singoli Tar è stata facilitata dal fatto che nel processo amministrativo i giudici di
primo grado sono di un solo tipo, sicché il legislatore ha dovuto affrontare unicamente il tema della competenza per territorio.
Quanto alla competenza per territorio, basata sul criterio appunto territoriale e relativa alla distribuzione della giurisdizione
tra giudici dello stesso tipo, essa è inderogabile (art. 13, c.p.a.), differenziandosi dal regime precedente caratterizzato dal fatto
che la competenza era derogabile. La competenza è inderogabile anche quanto alla tutela cautelare (art. 13), sicché il giudice
non provvede sulla stessa ove ritenga di essere incompetente. La competenza viene individuata sulla base di quattro criteri
(relativi a sede, effetti dell’atto, tipologia di controversie e carattere di atto statale o emanato da soggetti pubblici a carattere
ultra regionale).
L’art. 13, c.p.a. esordisce introducendo il criterio generale: sulle controversie riguardanti provvedimenti, atti, accordi o
comportamenti di pubbliche amministrazioni è competente il Tar nella cui circoscrizione territoriale esse hanno sede, e il Tar
è comunque competente sulle controversie riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti di pubbliche
amministrazioni i cui effetti diretti sono limitati all’ambito territoriale della regione in cui il tribunale ha sede. Solo quando
l’efficacia non è territorialmente limitata opera la regola di chiusura del sistema che si volge a considerare la sede.
Per le controversie riguardanti pubblici dipendenti, poi, è competente il tribunale nella cui circoscrizione territoriale è situata
la sede di servizio. Tale criterio è previsto a favore del dipendente in servizio: esso ha oggi un angusto campo di applicazione,
atteso che la giurisdizione sulle controversie attinenti al rapporto di lavoro privatizzato è stata attribuita al giudice ordinario.
“Negli altri casi” è competente, per gli atti statali, il Tar Lazio, sede di Roma e, per gli atti dei soggetti pubblici a carattere
ultra regionale, il Tar nella cui circoscrizione ha sede il soggetto. L’art. 14, c.p.a., peraltro individua alcune ipotesi di
competenza funzionale inderogabile e, cioè, spettante a taluni giudici in ragione delle funzioni a essi specificamente
spettanti. Viene in primo luogo in rilievo il Tar Lazio, sede di Roma, in ordine al quale sono richiamate le controversie
indicate dall’art. 135 e dalla legge. Ad. plen., n. 23/2012, ha ricordato che tale competenza si fonda sulla particolare natura
dell’interesse pubblico sotteso al provvedimento impugnato ovvero sull’esigenza di favorire fin dal primo grado l’omogeneità
della giurisprudenza.
L’art. 135 contiene un lungo elenco di fattispecie, anche molto importanti, che vanno dalle controversie relative ai
provvedimenti riguardanti i magistrati ordinari a quelle aventi ad oggetto i provvedimenti dell’Autorità garante per la
concorrenza ed il mercato e quelli dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni; da quelle concernenti la produzione di
energia elettrica da fonte nucleare a quelle aventi a oggetto i provvedimenti di espulsione di cittadini extracomunitari per
motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, nonché quelle aventi a oggetto i provvedimenti dell’agenzia nazionale per
la regolazione e la vigilanza in materia di acqua (le cui competenze sono state attribuite al ministero dell’ambiente e della
tutela del territorio e del mare, l. 214/2011).
Sono poi devolute funzionalmente alla competenza inderogabile del Tar Lombardia, sede di Milano, le controversie relative
ai poteri esercitati dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas.
La competenza è funzionalmente inderogabile per i giudizi di ottemperanza e per quelli “abbreviati” di cui all’art. 119.
Non implica un problema di riparto di competenza la distribuzione dei ricorsi tra le sezioni giurisdizionali del Consiglio di
Stato, da un lato (la distribuzione spetta al Presidente), e tra Tar avente sede nel capoluogo e le sezioni staccate, dall’altro,
salvi, ovviamente, i casi di competenza funzionale inderogabile (è questo un altro profilo di disciplina in cui si coglie una
differenza tra competenza territoriale e competenza funzionale). Con riferimento al caso d’impugnazione, sussistevano
dubbi circa l’individuazione del giudice competente e si era prodotta una rilevante giurisprudenza. La connessione tra atto
presupposto e atto lesivo è ora disciplinata dall’art. 13.4-bis (la norma sposta il baricentro della competenza verso il Tar che
conosce dell’effetto lesivo dell’atto); tale disciplina riguarda soltanto la competenza territoriale, sicché si può ritenere che
siano inapplicabili le regole di spostamento della competenza a favore del Tar nella cui circoscrizione si verifica l’effetto
lesivo per ragioni di connessione (ad. plen., n. 23/2012).
6.2. Il rilievo dell’incompetenza e il regolamento di competenza
La competenza, come s’è visto, è inderogabile. Essa può essere rilevata dal giudice o eccepita dalle parti in ossequio a delle
regole, caratterizzate dal fatto che il giudice di primo grado ha la possibilità di decidere direttamente e immediatamente sulla
competenza su eccezione della parte o d’ufficio, sicché il Consiglio di Stato può essere chiamato a pronunciarsi solo in sede
d’impugnazione delle ordinanze del giudice di primo grado.
Ai sensi dell’art. 15, c.p.a., per quanto attiene al giudice, il difetto di competenza può essere rilevato d’ufficio finché la causa
non è decisa in primo grado; in sostanza è difficile che il giudice, prima della decisione nel merito, affronti il tema della
competenza. Se però è stata proposta domanda cautelare, il giudice, indipendentemente dall’eccezione della parte, deve
decidere con ordinanza sulla competenza prima di provvedere sulla domanda cautelare e, se non riconosce la competenza, non
decide sulla stessa. Per quanto riguarda le parti, mentre il ricorrente individua il giudice competente nel momento in cui redige
il ricorso, le altre parti, in mancanza di domanda cautelare, possono eccepire il difetto di competenza soltanto entro il termine
previsto per la costituzione in giudizio. In sostanza, il giudice deve decidere la questione di competenza in due casi: se è stata
proposta la domanda cautelare e se è stata avanzata l’eccezione di parte.
Si possono aprire tre scenari: se la causa non è riassunta, essa si estingue ai sensi dell’art. 35 c.p.a.; se, nel termine perentorio
di trenta giorni dalla comunicazione di tale ordinanza, la causa è riassunta davanti al giudice dichiarato competente, il
processo prosegue davanti al nuovo giudice; questi, però, non è costretto ad “accettare” la competenza in caso di riassunzione:
infatti, se ritiene di essere a sua volta incompetente, può richiedere d’ufficio il regolamento di competenza.
La parte potrebbe però decidere di contestare la decisione, ma sul punto bisogna distinguere:
− l’ordinanza che pronuncia sulla competenza e sulla domanda cautelare può essere impugnata con il regolamento di
competenza, oppure nei modi ordinari (appello cautelare) quando insieme con la pronuncia sulla competenza si
impugna quella sulla domanda cautelare (art. 92, c.5);
− l’ordinanza che pronuncia solo sulla competenza è invece impugnabile esclusivamente con il regolamento di
competenza; il termine è lo stesso (30 giorni) di quello fissato per la riassunzione.
Il regolamento di competenza può essere proposto su istanza di parte (con carattere impugnatorio della pronuncia sul
collegio) o d’ufficio (sollevando un conflitto negativo di competenza). Esso è un rimedio soltanto successivo (il Consiglio di
Stato, cioè, è adito soltanto dopo che un giudice di primo grado si è pronunciato) ed è disciplinato dall’art. 16.
Su istanza di parte, il regolamento è proposto con istanza notificata alle altre parti nel termine (perentorio e non soggetto a
dimezzamento) di trenta giorni dalla notificazione, ovvero di sessanta giorni dalla pubblicazione dell’ordinanza che pronuncia
sulla competenza ed è depositato, unitamente agli atti utili al fine di decidere, entro il termine di cui all’art. 45 ridotto alla
metà (quindici giorni) presso la segreteria del Consiglio di Stato. Nel caso di regolamento richiesto d’ufficio, l’ordinanza è
immediatamente trasmessa al Consiglio di Stato a cura della segreteria e comunicata alle parti.
La pronuncia della competenza resa dal Consiglio di Stato, in sede di regolamento o di appello ai sensi dell’art. 62.4 (appello
contro le misure cautelari), vincola i tribunali amministrativi regionali. Se viene indicato come competente un tribunale
diverso da quello adito, il giudizio deve essere riassunto nel termine di trenta giorni dalla notificazione dell’ordinanza che
pronuncia sul regolamento, ovvero entro sessanta giorni dalla sua pubblicazione. In caso contrario, il giudizio si estingue (art.
35, c.p.a.).
Non è previsto un automatico effetto sospensivo del giudizio principale come conseguenza della proposizione del
regolamento di competenza su istanza della parte: il giudizio principale, dunque, deve giungere a decisione. Questa norma,
però, introduce una specifica disciplina con riferimento al solo caso in cui la parte interessata depositi presso il Tar l’istanza di
regolamento di competenza notificata nel termine di cui all’art. 73.1, ipotesi nella quale il giudice può differire la decisione
fino alla decisione del regolamento di competenza.
Una specifica attenzione è dedicata alla tutela cautelare; va ribadito che il giudice decide sulla competenza prima di
provvedere sulla domanda cautelare e che, se non riconosce la propria competenza, non decide sulla stessa; l’ordinanza che
pronuncia sulla competenza e sulla domanda cautelare può essere impugnata col regolamento di competenza, oppure nei modi
ordinari quando insieme alla pronuncia sulla competenza si impugna quella sulla domanda cautelare. In pendenza del
regolamento di competenza, la tutela cautelare non può essere “compressa”: la domanda si propone al giudice indicato come
competente nell’ordinanza del giudice che ha declinato la propria competenza, e quel giudice decide in ogni caso (art. 15.6),
anche se propone il regolamento di competenza d’ufficio.
I provvedimenti cautelari pronunciati dal giudice dichiarato incompetente perdono efficacia alla scadenza del termine di trenta
giorni di pubblicazione dell’ordinanza che regola la competenza, ma la domanda cautelare può essere riproposta al giudice
dichiarato competente. Ai sensi dell’art. 60, se la parte dichiara che intende proporre regolamento di competenza o
giurisdizione, il giudice assegna un termine non superiore a trenta giorni.
Nei giudizi di impugnazione, il difetto di competenza è rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della
pronuncia impugnata che ha statuito sulla competenza; l’accoglimento del motivo d’appello determina l’annullamento della
sentenza con rinvio al giudice competente.
6.3. Modificazioni della competenza: connessione, litispendenza, continenza
La prima versione del codice non disciplinava la connessione nel processo amministrativo, fatta salva la norma (art. 43 c.p.a.)
secondo cui “i ricorrenti, principale e incidentale, possono introdurre con motivi aggiunti… domande nuove purché connesse a
quelle già proposte”: questa disposizione potrebbe anche determinare, invero in casi eccezionali, uno spostamento di
competenza.
La rilevanza della connessione tra atti sotto il profilo processuale, la quale presuppone l’impegnativa degli atti coinvolti ed è il
riflesso di una connessione sul piano sostanziale tra più provvedimenti, emerge sotto altri profili. La proposizione di più
ricorsi separati dinnanzi allo stesso giudice relativi ad atti oggettivamente connessi, infatti, può dar luogo all’ipotesi di
“riunione” dei ricorsi; vi è poi l’istituto del cumulo delle domande connesse. La connessione, inoltre, legittima la
proposizione di domande incidentali e, ove non sia possibile il simultaneus processus, determina la sospensione dei processi.
Nel processo amministrativo, a differenza di quanto accade nel giudizio civile, viene in evidenza soltanto la connessione
oggettiva, posto che quella soggettiva non è di per sé rilevante, salvo che non si accompagni a quella oggettiva. Essa ricorre
allorché, sul piano sostanziale, tra i provvedimenti impugnati esista una connessione procedimentale di presupposizione
giuridica (ossia, sulla base di uno schema normativo) o quantomeno di carattere logico in quanto i diversi atti incidono sulla
medesima vicenda.
Tornando al tema del riflesso sulla competenza della connessione, va osservato che l’art. 13.4-bis, introdotto dal secondo
correttivo, pone una regola ed una eccezione. Il codice si riferisce al caso di impugnazione congiunta, dinanzi al medesimo
giudice, di più atti con riferimento a un particolare tipo di connessione, cioè a quella tra atto principale e atto presupposto. La
norma stabilisce la competenza territoriale del Tar nella cui circoscrizione si producono gli effetti del provvedimento
applicativo di un precedente “atto presupposto”. Si determina così l’attrazione in capo al Tar periferico della competenza
relativa anche agli atti presupposti, arginando la tendenza a far convergere la competenza in capo al Tar centrale (ad. plen., n.
38/2012). La regola però non si applica là ove si tratti di atti normativi o generali, per la cui impugnazione restano fermi gli
ordinari criteri di attribuzione della competenza. L’art. 13.4-bis sembrerebbe applicarsi solo alle ipotesi di competenza
territoriale: quando invece si versi in un caso di competenza funzionale, nel silenzio della norma pare doversi concludere che
“receda” la competenza del Tar periferico a favore di quello dotato di competenza funzionale (ad. plen., n. 23/2012).
La disciplina del comma 4-bis trova applicazione unicamente nei casi di impugnazione contestuale. Nell’ipotesi di
sopravvenuta (e non già congiunta) impugnazione dell’atto connesso, mediante motivi aggiunti, si realizza l’attrazione del
ricorso per motivi aggiunti alla competenza relativa al provvedimento presupposto, originariamente impugnato.
La legislazione in tema di processo amministrativo non contiene una disciplina specifica della litispendenza (la quale si
verifica allorché la stessa azione venga proposta dinanzi a giudici diversi) e della continenza (essa ricorre tra due azioni
quando il petitum di una delle due sia più ampio, ricomprendendo in sé quello che costituisce oggetto dell’altra).
Secondo una parte della dottrina, seguita dalla giurisprudenza prevalente, in tema di litispendenza troverebbe applicazione
analogica l’art. 39 c.p.c. (oggi applicabile anche in forza del c.d. rinvio esterno al c.p.c.), il quale afferma il principio della
prevenzione: giudice competente a pronunciarsi è quello adito per primo in ordine di tempo, avendo riguardo alla data di
deposito del ricorso, mentre il giudice successivamente adito deve rilevare, anche d’ufficio, la litispendenza, dichiararla con
sentenza, disporre con ordinanza e disporre la cancellazione della causa dal ruolo.
Per quanto riguarda la continenza di una causa rispetto all’altra, ipotesi che può verificarsi raramente (nei giudizi di
annullamento è difficile infatti che l’oggetto di un giudizio possa ricomprendere un altro oggetto relativo all’impugnazione di
un atto diverso), la dottrina è divisa. Alcune decisioni della giurisprudenza escludono infatti la vigenza dell’istituto nel
giudizio amministrativo. L’art. 39 c.p.c. prevede un meccanismo fondato sulla valutazione in ordine alla competenza operata
dai giudici dinanzi ai quali pendono le cause: se il giudice preventivamente adito è competente anche per la causa proposta
successivamente, il giudice di questa dispone la riassunzione dinanzi al primo; nel caso in cui il giudice preventivamente adito
non sia competente anche per la causa successivamente proposta, esso dichiara la continenza e si spoglia della causa a favore
del secondo.
7. La capacità di essere parte, la capacità di stare in giudizio (rappresentanza processuale). Lo ius postulandi
Si vogliono esaminare i presupposti processuali: capacità ad essere parte nel processo, capacità processuale (capacità di stare
in giudizio) e rispetto del contraddittorio.
La capacità di essere parte è una manifestazione della capacità giuridica: possono essere parti nel processo amministrativo le
persone fisiche e quelle giuridiche. Questa capacità è indipendente dalla posizione che la parte stessa abbia con il rapporto
controverso, e spetta agli enti pubblici e non già agli organi.
La capacità di assumere il ruolo di parte nel processo va distinta dalla capacità di stare in giudizio in proprio o in
rappresentanza di un altro soggetto (legitimatio ad processum): la prima, come detto, è manifestazione della capacità
giuridica, la seconda, invece, indicativa della capacità di gestire i rapporti processuali, è la proiezione sul piano processuale
della capacità di agire. La rappresentanza processuale spetta soltanto alle persone fisiche che abbiano il libero esercizio dei
diritti (art. 75 c.p.c.), mentre non è riconosciuta alle altre persone fisiche e alle persone giuridiche. Le persone fisiche prive di
legitimatio ad processum non possono stare in giudizio se non rappresentate (rappresentanza legale: ad esempio dei genitori o
dei tutori; rappresentanza volontaria), assistite o autorizzate secondo le norme che disciplinano la loro capacità.
Per quanto attiene in particolare alla rappresentanza volontaria, l’art. 77 c.p.c. dispone che “il procuratore generale o quello
preposto a determinati affari non possono stare in giudizio per il preponente, quando questo potere non è stato loro conferito
espressamente per scritto, tranne che per gli atti urgenti e per le misure cautelari”. Le persone giuridiche stanno in giudizio per
mezzo delle persone fisiche che ne hanno la legale rappresentanza, le quali agiscono in nome e per conto dell’ente.
Le pubbliche amministrazioni stanno in giudizio in persona del ministro pro tempore ove si tratti dello Stato, mentre gli altri
enti pubblici stanno in giudizio per mezzo delle persone che ne hanno la rappresentanza in virtù di legge o di statuto. Spesso il
soggetto che dispone di rappresentanza processuale non è quello che può decidere in ordine alla lite: in tali casi, la
legittimazione processuale è condizionata dagli atti che esternano la volontà dell’organo che nell’ente è competente ad
assumere la relativa decisione. Il soggetto rappresentante legale deve allora munirsi dell’”autorizzazione a stare in giudizio”
rilasciata dal competente organo deliberativo. Nell’amministrazione dello Stato, ai sensi dell’art. 16, lett. f), d.lgs. 165/2001, il
potere di promuovere e di resistere alle liti è riservato ai dirigenti di uffici dirigenziali generali. Ai dirigenti degli enti locali è
riconosciuto il potere di promuovere e resistere alle liti, tradizionalmente spettante alla giunta (Cass., sez. un., n. 12868/2005).
Si osservi che l’autorizzazione a stare in giudizio non è atto processuale: essendo però “presupposto” di un “presupposto”
processuale, la sua assenza, rilevabile d’ufficio, determina l’inammissibilità del ricorso. La giurisprudenza ha affermato che
l’autorizzazione a stare in giudizio può essere assunta anche dopo che l’organo rappresentante ha posto in essere gli atti
relativi alla instaurazione del giudizio, sempre che la causa non sia passata in decisione. L’autorizzazione a ricorrere in primo
grado non può però essere prodotta in appello (Cons. Stato, sez. V, n. 1045/1998). L’autorizzazione a resistere in primo grado
non comprende l’autorizzazione a ricorrere in appello in caso di soccombenza.
La capacità di stare in giudizio (legitimatio ad processum), a sua volta, non va confusa con la legittimazione ad agire (c.d.
legitimatio ad causam) e con lo ius postulandi o rappresentanza in giudizio: essi non rientrano comunque tra i presupposti
processuali. Sulla rappresentanza in giudizio si precisa che, ai sensi dell’art. 22, c.p.a., le parti non possono stare in giudizio se
non con il patrocinio di avvocato, mentre per i giudizi davanti al Consiglio di Stato è obbligatorio il ministero di avvocato
ammesso al patrocinio innanzi alle giurisdizioni superiori.
L’amministrazione statale è rappresentata in giudizio ex lege (senza bisogno di apposito mandato) dall’avvocatura dello
Stato, la quale ha in via esclusiva e obbligatoriamente il patrocinio dell’amministrazione statale (t.u. 1611/1933). Il patrocinio
si estende poi alle regioni a statuto speciale, alle regioni a statuto ordinario che con deliberazione a carattere generale del
consiglio regionale abbiano deciso di avvalersene (art. 10, l. 103/1079), nonché ad alcuni degli agli altri enti soggetti alla
tutela e alla vigilanza dello Stato o da questo sovvenzionati (r.d. 779/1940). La difesa degli altri enti pubblici è assunta da
professionisti del libero foro ovvero dai componenti dei rispettivi uffici legali, iscritti in elenchi speciali annessi agli albi degli
avvocati. L’avvocatura di Stato può essere autorizzata con legge o d.p.c.m. ad assumere la rappresentanza e difesa anche di
altre amministrazioni pubbliche non statali e di enti pubblici (art. 43, t.u. 1611/1933: c.d. patrocinio autorizzato). Nel
giudizio amministrativo trova infine applicazione l’art. 14 delle norme di attuazione al c.p.a. sull’ammissione anticipata e
provvisoria al patrocinio a spese dello Stato.
7.1. Le condizioni dell’azione
Il ricorrente deve preoccuparsi di verificare l’esistenza di altri importanti condizioni. Al riguardo, si deve considerare che,
esaurito l’accertamento dei presupposti processuali, il giudice non arriva ancora ad esaminare il merito del ricorso, dovendo
verificare la sussistenza di quei requisiti, diversi da quelli di validità del rapporto processuale, che sono le condizioni
dell’azione in senso proprio.
Trattasi delle condizioni la cui mancanza impedisce al giudice di esaminare la fondatezza della domanda proposta dalla parte:
il disconoscimento dell’esistenza delle condizioni dell’azione dà luogo a una pronuncia di rito di inammissibilità (art. 34,
c.p.a., che si riferisce alla carenza di interesse e alla sussistenza di altre ragioni ostative ad una pronuncia sul merito) che può
essere pronunciata anche d’ufficio in ogni stato e grado. Tale pronuncia preclude ulteriori possibilità di ottenere una
decisione sul merito della domanda, almeno finché tale esistenza non si verifichi.
Le condizioni dell’azione sono di carattere soggettivo e di carattere oggettivo. Le condizioni soggettive sono la legittimazione
ad agire e a contraddire (legitimatio ad causam) e l’interesse a ricorrere; condizioni oggettive sono l’esistenza di un
provvedimento impugnabile e la circostanza che il provvedimento richiesto al giudice rientri nell’ambito della sua
giurisdizione (l’azione deve cioè essere una di quelle ammesse dall’ordinamento di fronte a quel giudice).
La legittimazione ad agire sul piano processuale (detta anche legitimatio ad causam) spetta al titolare della situazione
giuridica sostanziale che si assume essere stata ingiustamente lesa dal provvedimento amministrativo e che viene dedotta in
giudizio. Atteso che la titolarità della situazione sostanziale si riflette sul piano processuale nel senso di aprire la via
all’esercizio del potere di azione, si può definire la legittimazione ad agire come la titolarità dell’azione. La legittimazione ad
agire (e a contraddire) si lega al concetto di parte in senso sostanziale al fatto che chi agisce sia una “giusta” parte, in quanto
titolare della relazione sostanziale.
Il nostro ordinamento conosce alcune ipotesi di legittimazione ex lege. L’art. 139, d.lgs. 206/2005 prevede, in capo alle
associazioni inserite in un apposito elenco (art. 137 del decreto medesimo), la legittimazione ad agire per la tutela degli
interessi collettivi dei consumatori e degli utenti. Particolarmente rilevante è quanto disposto dall’art. 4, l.180/2011, ai sensi
del quale le associazioni di categoria rappresentate in almeno cinque camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura,
sono legittimate a proporre azioni in giudizio sia a tutela di interessi relativi alla generalità dei soggetti appartenenti alla
categoria professionale, sia a tutela di interessi omogenei relativi solo ad alcuni soggetti. Un’ipotesi eccezionale di
legittimazione a ricorrere in capo a un organo amministrativo è prevista dall’art. 6.10, l. 168/1989, che, in taluni casi, legittima
il ministro dell’università ad impugnare l’atto del rettore con cui vengono emanati statuto e regolamenti di ateneo.
Un importante caso di legittimazione ex lege è previsto dall’art. 21-bis, l. 287/1990, ai sensi del quale l’Autorità garante della
concorrenza e del mercato (AGCM) è legittimata ad agire in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti e i
provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato. La norma
da un lato rafforza la protezione del valore della concorrenza e il ruolo dell’AGCM, dall’altro sembra delineare il profilo di un
giudizio a tutela di un interesse pubblico piuttosto che a protezione della posizione dei singoli (frammento di giurisdizione di
tipo oggettivo), dovendosi tra l’altro ritenersi esclusa la necessità di un interesse legittimo ad agire in capo all’AGCM. In
senso contrario, però, si è espresso il Tar Lazio, con la decisione 2720/2013, secondo cui la disposizione mira alla tutela
dell’interesse sostanziale al corretto funzionamento del mercato che assume una specifica dimensione sostanziale in capo
all’AGCM.
Il già cit. art. 211, d.lgs. 50/2016 attribuisce poi all’Anac la legittimazione ad agire in giudizio per l’impugnazione dei bandi,
degli altri atti generali e dei provvedimenti relativi a contratti di rilevante impatto, emesse da qualsiasi stazione appaltante,
qualora ritenga che essi violino le norme in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture.
In alcune situazioni, la legittimazione ad agire spetta a una cerchia molto ampia di soggetti (azioni popolari). Ai sensi dell’art.
9, T.U. enti locali, ad esempio, ogni elettore può far valere le azioni e i ricorsi che spettano al comune: in tale ipotesi chi
ricorre non è titolare d’interesse legittimo, ma agisce in rappresentanza della comunità (azioni di tipo suppletivo, in cui
l’amministrazione non diventa soggetto resistente. In questi casi si verifica cioè la sostituzione processuale, in quanto chi
agisce in nome proprio fa valere una situazione soggettiva di altri.
L’interesse al ricorso consiste in un vantaggio pratico e concreto che può derivare dall’accoglimento del ricorso; esso è
coerente con il carattere di giurisdizione di tipo soggettivo del processo amministrativo. Il vantaggio può essere anche soltanto
di carattere morale; secondo la giurisprudenza, esso può consistere pure in una utilità strumentale: si pensi all’interesse ad
impugnare l’aggiudicazione di una gara a favore dell’unica altra impresa concorrente, sulla scorta della prospettazione che
anche questa avrebbe dovuto essere esclusa; in caso di esito positivo del giudizio, la gara andrebbe ripetuta e vi sarebbe per il
ricorrente la chance di una possibile aggiudicazione.
L’interesse al ricorso, condizione dell’azione corrispondente all’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c., va tenuto distinto
dall’interesse legittimo, posizione giuridica sostanziale protetta, che sussiste già prima del processo e, cioè, nella fase
procedimentale. Non mancano, però, alcune voci nettamente contrarie alla distinzione tra interesse sostanziale e interesse
processuale; in particolare, considerando quale oggetto dell’interesse legittimo un bene della vita che racchiude il risultato
utile, l’insussistenza di un vantaggio concreto comporterebbe in realtà l’assenza dell’interesse legittimo. La valutazione circa
l’interesse deve riguardare l’utilità della sentenza e il suo riconoscimento non implica necessariamente il riconoscimento della
titolarità della situazione giuridica (ad. plen., n. 4/2011). La distinzione tra le due figure spiega perché il ricorso potrebbe
essere dichiarato inammissibile per carenza di interesse: ciò accade, ad esempio, ove il soggetto che impugna una graduatoria
concorsuale, lamentando l’attribuzione di un punteggio inferiore a quello cui avrebbe titolo, non riesca a dimostrare che il
punteggio corretto lo avrebbe collocato in una posizione utile per l’assunzione.
Secondo la giurisprudenza, l’interesse al ricorso deve essere:
• personale: non è ammissibile il ricorso proposto per il conseguimento di un vantaggio di un terzo;
• diretto: non può impugnarsi un provvedimento soltanto perché la decisione del giudice, direttamente riferibile a una
situazione altrui, potrà avere riflessi indiretti sulla sfera giuridica del ricorrente;
• attuale: la lesione arrecata dal provvedimento (e il conseguente interesse a impugnarlo) deve sussistere o permanere
al momento della proposizione del ricorso e non già essere meramente futura o eventuale.
Non sono impugnabili per carenza attuale di interesse gli atti di mera esecuzione o confermativi di precedenti provvedimenti,
gli atti sottoposti a controllo (in quanto non ancora efficaci), gli atti endoprocedimentali, non aventi effetti, i regolamenti, gli
atti generali e le circolari, nella misura in cui non contengano disposizioni idonee a ledere direttamente la posizione dei
singoli.
Ai sensi dell’art. 113 Cost. la tutela giurisdizionale è sempre ammessa nei confronti di tutti gli atti della pubblica
amministrazione: gli atti ora esaminati, dunque, sono non immediatamente impugnabili, ma il privato potrà farne valere le
illegittimità successivamente. Per quanto attiene agli atti sottoposti a controllo, l’impugnazione può aver luogo dopo il
perfezionamento del relativo procedimento; in ordine agli atti endoprocedimentali, la loro illegittimità può essere dedotta in
occasione della impugnazione del provvedimento conclusivo del procedimento; infine, per ciò che riguarda regolamenti, atti
generali e circolari, l’illegittimità può essere censurata al momento dell’impugnazione degli atti applicativi.
L’interesse al ricorso e la legittimazione ad agire debbono esistere al momento della presentazione della domanda e permanere
fino a quello della decisione.
Con riferimento all’interesse al ricorso, il suo venir meno nel corso del processo determina la declaratoria di improcedibilità
per sopravvenuta carenza di interesse (art. 35, c.p.a.). La figura della sopravvenuta carenza di interesse è sottoposta a molte
critiche. Nella misura in cui il nuovo atto non soddisfi la pretesa del ricorrente, la pronuncia di improcedibilità del ricorso
contrasta infatti con il disposto dell’art. 34, u.c. c.p.a., il quale disciplina la figura della cessazione della materia del
contendere con riferimento alle ipotesi in cui, nel corso del giudizio, la pretesa del ricorrente risulti pienamente soddisfatta.
La differenza tra le due figure è netta: mentre la carenza di interesse incide su una condizione dell’azione, la cessazione della
materia del contendere elimina addirittura la ragione stessa del giudizio.
Affinché il giudice possa scendere all’esame del merito, altre situazioni debbono esistere (rispetto dei termini per la
proposizione del ricorso) e altre ancora non esistere (acquiescenza, rinuncia al diritto sostanziale e proposizione di un ricorso
straordinario al Capo dello Stato).
La decadenza per decorso del termine cagiona l’irricevibilità del ricorso (art. 35: il giudice, anche d’ufficio, dichiara il ricorso
irricevibile se accerta la tardività della notificazione o del deposito), mentre l’acquiescenza, la rinuncia e la proposizione del
ricorso straordinario sono ragioni ostative ad una pronuncia sul merito e comportano una pronuncia di inammissibilità.
La rinuncia è l’atto volontario e successivo alla lesione della situazione giuridica protetta, con il quale il soggetto titolare del
potere di azione manifesta la volontà contraria alla proposizione del ricorso, ovvero, successivamente alla impugnativa,
dichiara di desistervi; la rinuncia, facendo venir meno la possibilità di ricorrere, impedisce la proposizione di una ulteriore
azione.
L’acquiescenza deve essere eccepita dalla parte interessata e non può essere rilevata d’ufficio dal giudice. Si tratta di
un’ipotesi di eccezione in senso tecnico e, cioè, di una controaffermazione proveniente da una parte rispetto a quanto
argomentato da una controparte e che altri non può effettuare. Circa la tematica della “rilevabilità d’ufficio”, occorre dire
che, ai sensi dell’art. 73, c.p.a., la relativa questione non può essere decisa d’ufficio senza esser sottoposta al contraddittorio
delle parti.
La decadenza opera invece per decorso dei termini previsti per proporre l’impugnazione ed è rilevabile d’ufficio (art. 35,
c.p.a.).
Pure nel silenzio del codice, in ossequio al principio di alternatività, è da ritenere non ammesso il ricorso in sede
giurisdizionale quando contro il provvedimento sia stato proposto ricorso straordinario al P.d.R. da parte dello stesso soggetto.
8. Il termine per ricorrere
Individuate le parti e verificata la sussistenza dei requisiti, un ulteriore problema che si presenta al ricorrente è quello del
calcolo del termine di sessanta giorni per proporre il ricorso.
Onde poter impostare la propria critica, la parte deve conoscere il provvedimento: è questo il momento in cui il termine
comincia a decorrere; la conoscenza avviene secondo modalità previste dalla legge (art. 41, c.p.a.): la notifica dell’atto, la sua
comunicazione e la piena conoscenza; per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale, si prevede poi la
pubblicazione.
L’inoppugnabilità del provvedimento (cap. VIII, par. 15) può dunque realizzarsi in tempi diversi a seconda dei soggetti
considerati e delle forme di comunicazione del provvedimento ad essi riferibili.
La notifica dell’atto impugnabile è la forma di comunicazione del provvedimento effettuata mediante un procedimento
formalizzato che garantisce la presunzione di conoscenza dell’atto da parte del destinatario. La notificazione, se effettuata,
produce effetti a prescindere dall’effettiva conoscenza dell’atto da parte del destinatario. La notificazione può avvenire ad
opera di un ufficiale giudiziario, ma pure a mezzo posta e di altro agente notifìcatore. In ogni caso, l’agente qualificato deve
dare attestazione sull’originale, mediante la c.d. “relata di notifica”, della consegna al destinatario della copia, indicando
oggetto, destinatario, consegnatario e data.
Ove l’ordinamento preveda la notificazione individuale a taluni soggetti, l’eventuale pubblicazione dell’atto stesso non fa
decorrere per essi il termine di impugnazione. Tale termine, infatti, decorre dal giorno in cui sia scaduto il termine della
pubblicazione del provvedimento solo nei casi in cui si tratti di atti di cui non sia richiesta la notifica individuale (art. 41,
c.p.a.) e sempre che la pubblicazione stessa sia prevista dalla legge o in base alla legge.
Si ricordi che, ai sensi dell’art. 32, l. 69/2009, gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti amministrativi aventi
effetto di pubblicità legale (ferma restando la pubblicazione sulle Gazzette ufficiali europea e italiana) si intendono assolti con
la pubblicazione nei propri siti informatici da parte delle amministrazioni e degli enti pubblici obbligati (albo elettronico).
Il termine decadenziale dell’impugnativa decorre dalla data di pubblicazione del provvedimento soltanto per quanto
concerne i terzi, mentre, con riferimento allo stesso atto, decorre dalla data di notifica o comunicazione dell’atto o di quella
della piena conoscenza con riferimento ai soggetti direttamente contemplati nell’atto o che siano immediatamente incisi dai
suoi effetti anche se in esso non contemplati.
Il momento iniziale del decorso del termine per l’impugnazione può anche coincidere con quello in cui si è avuta la piena
conoscenza del provvedimento allorché non sia prevista né la notificazione, né la comunicazione, né la pubblicazione,
ovvero, pur essendo previste, esse non siano state ancora effettuate. Il termine “piena conoscenza” va inteso nel senso che non
è necessario che il privato prenda conoscenza di tutti gli elementi dell’atto, essendo sufficiente che conosca l’autorità, il
dispositivo dell’atto e la sua portata lesiva. Non è richiesta la conoscenza della motivazione dell’atto: questa circostanza è alla
radice dei motivi aggiunti.
Sono ritenuti modi attraverso i quali si realizza la piena conoscenza dell’atto, l’acquisizione di una copia informale dell’atto e
la proposizione di un esposto o di una diffida rivolti dall’interessato all’amministrazione dai quali risulti che egli conosceva
l’atto censurato.
9. Il ricorso e la sua nullità
Il ricorrente deve innanzitutto preoccuparsi della stesura dell’atto introduttivo del giudizio, costituito dal ricorso, e deve
versare il “contributo unificato” (nelle conclusioni del ricorso occorre dichiarare l’importo dovuto). L’art. 13, d.p.r. 115/2002
ha fissato l’entità di tale contributo in 650 euro; per i ricorsi avverso il silenzio e in materia di eccesso, cittadinanza, residenza,
soggiorno e ingresso nel territorio dello Stato, per i ricorsi di esecuzione e ottemperanza esso ammonta a 300 euro; in caso di
rito abbreviato comune a determinate materie (libro IV, titolo V, c.p.a.) è di 1800 euro; per i ricorsi in materia di affidamento
di pubblici lavori, servizi e forniture esso ammonta a 2000 euro quando il valore della controversia è pari o inferiore a 200.000
euro.
Il ricorso, rivolto al giudice, va redatto in forma scritta e deve contenere distintamente questi elementi: a) epigrafe (ossi gli
elementi identificativi della parte ricorrente e del difensore, nonché delle parti nei cui confronti il ricorso è proposto); b)
l’indicazione dell’oggetto della domanda; c) l’esposizione sommaria dei fatti; d) i motivi specifici su cui si fonda il ricorso;
e) l’indicazione dei mezzi di prova; f) l’indicazione dei provvedimenti chiesti al giudice; g) la sottoscrizione del ricorrente o
del difensore (con indicazione in quest’ultimo caso della procura speciale conferita a mezzo di atto pubblico o di scrittura
privata autenticata da notaio). La sottoscrizione avviene con firma digitale.
Non tutte le prescrizioni relative al contenuto del ricorso sono rilevanti ai fini della sua validità. In ossequio al principio della
strumentalità delle forme, la nullità è prevista nelle sole ipotesi in cui dall’atto introduttivo non emergano gli elementi
essenziali della controversia. Ai sensi dell’art. 44, c.p.a., il ricorso è cioè nullo qualora manchi la sottoscrizione richiesta
dall’art. 40, ovvero se, per l’inosservanza delle altre norme previste nel suddetto articolo, vi sia incertezza assoluta sulle
persone (ricorrente, resistente o controinteressato) o sull’oggetto della domanda (si pensi alla mancanza del petitum o alla
insufficiente indicazione del provvedimento impugnato). La nullità degli atti è rilevabile d’ufficio e viene ritenuta non
opponibile dalla parte che vi ha dato causa; essa, quando attiene al ricorso introduttivo, determina una pronuncia di
inammissibilità.
Ai sensi dell’art. 44.2, c.p.a., se il ricorso contiene altre irregolarità (violazioni formali che non impediscono all’atto di
raggiungere il suo scopo e che non comportano la nullità), il giudice può ordinarne la rinnovazione entro un termine stabilito
nell’ordinanza. In caso contrario l’irregolarità non ha rilievo. La costituzione dell’intimato sana l’irregolarità del ricorso,
salvo i diritti acquisiti anteriormente alla comparizione (c. 3).
Ove i ricorrenti siano più d’uno, essi possono agire assieme proponendo un unico ricorso denominato ricorso collettivo, che
realizza una ipotesi di litisconsorzio facoltativo dal lato attivo. Il cumulo soggettivo è giustificato da ragioni di economia
processuale. Esso può riguardare i giudizi di accertamento, di condanna e di impugnazione. Il ricorso proposto da più soggetti
dà luogo a una pluralità di azioni. Deve sussistere identità sostanziale e processuale di interessi. Il ricorso proposto da più
soggetti dà luogo ad una pluralità di azioni, sicché in realtà, si ha anche un cumulo di domande. A causa dell’autonomia di
ciascuna, le vicende o le invalidità relative a un ricorso (rinuncia, irricevibilità, nullità della sottoscrizione) non producono
effetti sulla situazione degli altri ricorrenti.
Ai sensi dell’art. 32, c.p.a., è sempre possibile nello stesso giudizio il cumulo di domande connesse proposte in via principale
o incidentale, e ciò dà luogo al cumulo oggettivo di domande. La norma, in realtà, disciplina quattro diversi istituti: il cumulo
oggettivo di domande, il caso in cui le domande diano luogo a riti diversi, la qualificazione delle azioni e la conversione delle
azioni. Il cumulo delle domande proposte in via principale o incidentale è sempre ammesso ove esiste una connessione
oggettiva (e non meramente soggettiva). Se le azioni sono soggette a riti diversi, si applica quello ordinario. Il rito ordinario,
dunque, si applica anche quando coesistono domande soggette a riti speciali diversi, salvo che per una di esse si applichi il
“rito speciale comune” (Cons. Stato, sez. V, n. 1058/2012).
9.1. Le azioni esperibili nel processo amministrativo e i “tipi” di processo
Si vuole approfondire il tema del petitum. Nel processo amministrativo sono esperibili svariate azioni, delineate dal codice a
prescindere dalla tipologia di giurisdizione. A differenza del giudizio civile, ove è prevista un’azione generale, a fronte del
potere amministrativo il legislatore ha scelto di tipizzare le forme di azione che la parte può proporre. Tradizionalmente, un
ruolo centrale ha rivestito l’azione di annullamento, che corrisponde perfettamente all’idea di un processo in cui si faccia
questione della lesione di interessi oppositivi. La tutela offerta dal giudice consiste nella verifica della legittimità dell’azione
pubblica, nei limiti dei motivi di doglianza fatti valere dal ricorrente: l’annullamento dell’atto consente normalmente di
soddisfare la pretesa del cittadino. Tale verifica non intacca la potestà dell’amministrazione di determinare unilateralmente la
soddisfazione della pretesa finale della parte. La circostanza che l’azione “per eccellenza” sia stata considerata quella
costitutiva di annullamento ha fatto sì che si trascurassero i diversi indici normativi contenuti nella legge istitutiva della IV
sezione del Consiglio di Stato, la quale ammetteva anche sentenze di tipo diverso. La negazione di altri e diversi poteri in capo
al giudice amministrativo (si pensi sia al potere di condanna, sia a quello di accertamento giudiziale) dipendeva anche dalla
volontà di rispettare la sfera autonoma dell’amministrazione: la condanna avrebbe rappresentato un’intrusione nell’ambito
delle scelte discrezionali dell’ amministrazione; l’ accertamento si sarebbe tradotto in una applicazione autoritativa del diritto
al caso concreto in grado di prevalere sulla medesima operazione compiuta dall’amministrazione in sede di emanazione del
provvedimento.
Per quanto attiene agli interessi pretensivi, al fine di assicurare la loro tutela, nel tempo è stata utilizzata tutta la gamma degli
strumenti processuali: azioni cautelari (con le c.d. ordinanze propulsive), effetto conformativo della decisione di
annullamento, risarcimento in forma specifica, ricorso avverso il silenzio e azione di accertamento.
Si può sottolineare che della centralità dell’azione di annullamento permane una traccia anche nell’attuale codice in ragione
sia del fatto che l’azione risarcitoria autonoma può essere esperita entro un breve termine di decadenza, sia della disciplina che
impone al privato un onere di impugnare previamente l’atto. In questo modo risulta in qualche misura riproposta, ancorché
trasfigurata, la logica della c.d. “pregiudizialità”, tradendo una profonda incertezza circa il disegno di fondo perseguito dal
legislatore delegato, che sembra ancorato alla tradizione seguita dal giudice amministrativo. Va ricordato che la
giurisprudenza amministrativa ha tradizionalmente subordinato l’azione risarcitoria a quella di annullamento. È questa la
regola della c.d. pregiudizialità, in forza della quale la parte non potrebbe azionare la pretesa risarcitoria ove abbia omesso di
impugnare tempestivamente l’atto. Con tre ordinanze, nn. 13659, 13660 e 13991/2006 delle sez. un., la Corte ha invece
precisato che la parte può chiedere il risarcimento anche senza dover osservare il termine di decadenza previsto per l’esercizio
dell’azione di annullamento. Si ribadisce che la tutela risarcitoria ha carattere consequenziale e ulteriore rispetto a quella
cassatoria, che connota il giudizio amministrativo, sicché la prima può essere azionata solo dopo aver chiesto l’annullamento
dell’atto dinanzi al giudice amministrativo. Viene dunque sottolineato con forza che la tutela risarcitoria è un completamento
di quella di annullamento. Secondo Corte cost., n. 49/2011 è costituzionalmente legittima la l. 280/2003 nella parte in cui
riserva alla giustizia sportiva la tutela avverso i provvedimenti disciplinari; la giurisdizione del giudice amministrativo è
esclusa solo quanto alla tutela costitutiva, potendo la parte chiedere al giudice medesimo il risarcimento dei danni derivanti
dall’esecuzione del provvedimento illegittimo.
Il codice contiene nell’art. 30 un’espressa disciplina dell’azione di condanna, stabilendo il citato onere di previa
impugnazione. Dopo l’entrata in vigore del c.p.a., l’ad. plen. 3/2011 ha affermato che la disciplina codicistica sarebbe
ricognitiva di principi evincibili dal sistema normativo precedente; per altro verso, dopo aver ribadito la rilevanza
dell’autonoma azionabilità della pretesa risarcitoria e l’indipendenza dei vari rimedi, ha ricondotto il tema della mancata
impugnazione dell’atto all’istituto sostanziale di cui all’art. 1227 c.c., e dunque al profilo della causalità. In questo modo la
pregiudizialità risulta trasfigurata sul piano sostanziale ma sostanzialmente confermata.
Si procede ora all’esame della disciplina del codice, tenendo conto che gli artt. 29-31, completati dall’art. 34.1, lett a-d, si
riferiscono alle azioni di cognizione (annullamento, condanna, silenzio e nullità); a esse si accostano l’azione cautelare,
l’ottemperanza e l’azione in materia del diritto di accesso. Non contemplata è l’azione di accertamento.
L’azione principale e generalmente proponibile dinanzi al giudice amministrativo consiste tradizionalmente nell’azione di
impugnazione, la quale mira a ottenere una pronuncia di annullamento dell’atto amministrativo e, cioè, l’eliminazione del
provvedimento e dei suoi effetti dal mondo del diritto (artt. 29 e 34, c.p.a.).
La parte può proporre anche l’azione di condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante sia dall’illegittimo esercizio
dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria, sia, nei casi di giurisdizione esclusiva, dalla lesione
di diritti. L’azione è poi da ritenersi ammessa anche nella giurisdizione di merito, che ha carattere aggiuntivo rispetto a quella
di legittimità.
Il contenuto del potere giurisdizionale di condanna è definito dall’art. 34, dove, occupandosi delle sentenze del giudice, si
chiarisce che questi, se accoglie il ricorso, condanna al pagamento di una somma di denaro, anche a titolo di risarcimento
del danno, all’adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio e dispone misure
di risarcimento in forma specifica ai sensi dell’articolo 2058 c.c. La condanna, essendo svincolata dalla commissione di un
illecito in ragione della formulazione molto ampia della norma, ha quale proprio baricentro la tutela della situazione giuridica.
La possibilità di disporre il risarcimento in forma specifica, in passato, secondo parte della dottrina e della giurisprudenza,
avrebbe consentito di ottenere sia un ordine a un facere specifico in funzione di risarcimento, sia un vantaggio diverso e
ulteriore. Si sarebbe trattato, in sostanza, di un ordine avente anche ad oggetto l’emanazione del provvedimento
illegittimamente negato, previo accertamento della fondatezza della pretesa della parte. Con riferimento al periodo successivo
all’adozione della prima versione del codice, Ad. plen. n. 3/2011 sembrava aver abbracciato la tesi estensiva, sostenendo che
sul piano cognitorio un’azione di condanna finalizzata a ottenere l’adozione dell’atto amministrativo richiesto sarebbe
desumibile dall’art. 30.1, che fa riferimento all’azione di condanna senza una tipizzazione dei relativi contenuti, e dall’art.
34.1, lett c. Il codice dispone all’art. 115 che le pronunce del giudice amministrativo che costituiscono titolo esecutivo sono
spedite, su richiesta di parte, in forma esecutiva e che i provvedimenti che dispongono il pagamento di somme di denaro
costituiscono titolo anche per l’esecuzione nelle forme disciplinate dal libro III del c.p.c. e per l’iscrizione di ipoteca. È
dunque escluso il ricorso all’esecuzione forzata nelle forme del processo civile per i provvedimenti che non dispongono il
pagamento di somme di denaro: si potrà procedere unicamente con il giudizio di ottemperanza. Si può aggiungere che il
giudice può sempre condannare le parti soccombenti al pagamento delle spese processuali e, ricorrendone i presupposti,
l’amministrazione al pagamento dell’indennizzo da ritardo.
Premesso che un risultato analogo all’azione di adempimento può essere ottenuto in virtù della sovrapposizione delle azioni di
annullamento combinate con il giudizio di ottemperanza, si osserva che la questione ha trovato una soluzione espressa con il
secondo correttivo, che all’art. 34 ha aggiunto la disposizione: “L’azione di condanna al rilascio di un provvedimento
richiesto è esercitata, nei limiti di cui all’art. 31.3, contestualmente all’azione di annullamento del provvedimento di diniego o
all’azione avverso il silenzio”. Questi limiti sono di due tipi: dal punto di vista processuale, l’azione va proposta
contestualmente all’azione di annullamento del provvedimento di diniego o all’azione avverso il silenzio mentre, dal punto di
vista sostanziale, essa è reperibile solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori
margini di esercizio della discrezionalità, e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti
dall’amministrazione. Non semplice è delimitare il concetto di assenza di ulteriori margini di esercizio della discrezionalità.
Si può pensare all’esaurimento degli stessi a seguito di reiterate pronunce di annullamento, oppure all’emanazione dell’atto
successivo a una sentenza di annullamento di un provvedimento di diniego, oppure ancora all’uso della tecnica del remand in
sede cautelare, con cui il giudice restituisce all’amministrazione il potere decisione iniziale. Invece di riferirsi al concetto di
atipicità delle azioni, si dovrebbe piuttosto parlare di modulabilità degli effetti in relazione al concreto contenuto dei poteri
esercitati al giudice perché espressamente attribuiti dalla legge.
Tornando alla disciplina procedurale dell’azione di condanna in generale, l’art. 30, c.p.a. esordisce affermando che l’azione di
condanna può essere proposta contestualmente ad altra azione o, nei soli casi di giurisdizione esclusiva e nei casi previsti
dall’art. medesimo, anche in via autonoma. Con riferimento all’azione proposta contestualmente non vi sono questioni
particolari circa il termine. Si deve però osservare che il codice non si fa carico di disciplinare i casi in cui il provvedimento
venga annullato d’ufficio dall’amministrazione o in sede di ricorso amministrativo.
Riguardo la via dell’azione autonoma, il ricorrente deve agire nel termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal
giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo. In
questi casi, il giudice effettua, in deroga ai principi generali, un accertamento dell’illegittimità dell’atto senza pronunciarne
l’annullamento (art. 34, cc. 3 e 4, c.p.a.). Cons. Stato, sez. IV, n. 4064/2011, ha statuito che la domanda risarcitoria è
ammissibile anche in caso di declaratoria di improcedibilità riferita alla domanda di annullamento dell’atto cui dovrebbe
ricondursi la dedotta lesione.
Il quadro va completato tenendo conto delle seguenti regole. Per il caso del risarcimento dell’eventuale danno che il ricorrente
comprovi di aver subito in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento
(danno da ritardo: art. 2, l. 241/1990), il termine di 120 gg. non decorre fintanto che perdura l’inadempimento e inizia
comunque a decorrere dopo un anno dalla scadenza del termine per provvedere.
L’art. 30.5 (caso in cui sia stata proposta un’azione soltanto di annullamento) chiarisce che la domanda risarcitoria può essere
formulata anche nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa
sentenza.
La parte, una volta impugnato l’atto, può attendere lo svolgimento del giudizio prima di azionare la pretesa risarcitoria legata
al provvedimento, con il limite temporale ora indicato. L’art. 104 c.p.a. esclude domande nuove in appello; l’art. 30 dovrebbe
allora intendersi come norma che consente l’azionabilità della pretesa risarcitoria in primo grado (Cons. Stato, sez. IV, n.
2916/2012). L’azione risarcitoria non può invece proporsi in sede di ottemperanza.
Tornando all’azione autonoma, se il codice consegna alla parte la scelta di azionare in via autonoma la pretesa risarcitoria,
esso pone pure la regola secondo cui, nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il
comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando
l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti; il riferimento generico agli “strumenti di
tutela” potrebbe poi allargare l’orizzonte delle azioni che il privato può assumere per evitare il danno (inclusi i ricorsi
amministrativi e l’assunzione di atti finalizzati a stimolare l’autotutela amministrativa: il c.d. invito all’autotutela).
Gli avvocati che intendano azionare la pretesa risarcitoria sono incentivati a impugnare nei termini o, comunque, a sollecitare
interventi in autotutela. Il quadro normativo va completato ricordando che quando, nel corso del giudizio, l’annullamento
del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste
l’interesse ai fini risarcitori (Cons. Stato, sez. V, n. 2817/2011, secondo cui ove sussista ancora spazio per un risarcimento per
equivalente e non sia possibile l’annullamento dell’atto impugnato, il giudice può accertarne comunque l’illegittimità,
indipendentemente dalla proposizione della domanda risarcitoria sulla sola base della domanda di annullamento).
La terza azione espressamente contemplate dal codice (art. 31, c.p.a.) è quella avverso il silenzio, mediante la quale chi vi ha
interesse può chiedere l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere e della fondatezza della pretesa dedotta
in giudizio. Si può affermare che l’azione menzionata può essere proposta fintanto che perdura l’inadempimento e, comunque,
non oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento, a nulla rilevando eventuali successive diffide.
In tema di Scia, il c.6-ter dell’art. 19, l. 241/1990 dispone che: “la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la
dichiarazione di inizio attività si riferiscono ad attività liberalizzate e non costituiscono provvedimenti taciti direttamente
impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia,
esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, cc. 1, 2, 3 del d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104”. La norma, usando l’avverbio
“esclusivamente”, conferma che l’atto è del privato, e non dà luogo a una forma di silenzio assenso o significativo. Il ricorso
avverso il silenzio è qui l’unica forma di tutela innanzi al giudice amministrativo esperibile a fronte di una infruttuosa
sollecitazione intervenuta prima della scadenza del termine, o di una sollecitazione successiva all’esercizio dei poteri di
intervento in presenza delle condizioni previste dall’art. 21 nonies per l’annullamento d’ufficio. In quest’ultimo caso il
ripristino della legalità violata, però, non dipende dal mero fatto che mancano i requisiti della Scia, dovendo l’amministrazione
valutare discrezionalmente la sussistenza delle ragioni di interesse pubblico e tenere conto degli interessi dei controinteressati.
Il medesimo art. 31 si occupa anche dell’azione di nullità, disponendo che la domanda volta all’accertamento delle nullità
previste dalla legge si propone entro il termine di decadenza di centottanta giorni, escludendo peraltro le nullità di cui all’art.
114, c.p.a., relativo agli atti elusivi o in violazione di un giudicato. Il ricorrente che deve agire nei centoottanta giorni è colui
che cerca di contrapporsi a un’iniziativa del soggetto pubblico ritenuta pregiudizievole. La nullità dell’atto può sempre essere
opposta dalla parte resistente o essere rilevata d’ufficio dal giudice. Ciò non consente al ricorrente di eludere il termine di
decadenza.
È poi ammissibile, ma non disciplinata in modo specifico, l’azione di accertamento della situazione controversa, anche al di
fuori dei casi di nullità: essa, in particolare, è sicuramente esperibile nell’ipotesi di giurisdizione esclusiva, relativamente ai
diritti (Cons. Stato, sez. V, n. 1498/2010). La dottrina più recente ha sottolineato come il potere di accertamento sia
connaturato al concetto di giurisdizione, sicché esso appartiene anche al giudice amministrativo, la cui natura giurisdizionale
trova espresso riconoscimento nella stessa Costituzione. La giurisprudenza tradizionale ritiene che, a fronte di un atto
illegittimo, la parte possa chiederne soltanto l’annullamento e non già un mero accertamento; vi è la convinzione secondo cui
la tutela dell’interesse legittimo richiederebbe l’annullamento dell’atto lesivo dell’interesse oppositivo. Un’eco di questa
impostazione si ritrova nella diposizione (art. 34), secondo cui il giudice non può conoscere della legittimità degli atti che il
ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l’azione di annullamento, così escludendo l’azione di accertamento autonomo
della legittimità dell’atto. L’azione di accertamento, comunque, ha “guadagnato” spazi: a tacere del caso della nullità, ora
espressamente disciplinata, contenuto di accertamento avrebbero l’azione avverso il silenzio e quella in tema di accesso.
Infine, può essere ricondotta alla categoria delle pronunce di accertamento anche l’azione di cui all’art. 21-octies, l. 241/1990.
L’ordinamento conosce la già menzionata azione di ottemperanza, che il codice disciplina anche sotto il profilo del rito:
l’eliminazione del provvedimento e dei suoi effetti dal mondo del diritto molto spesso non consente di ripristinare l’ordine
giuridico violato e di soddisfare la pretesa del ricorrente. In tali casi, infatti, occorre un’ulteriore attività amministrativa
consistente nell’esecuzione della sentenza; qualora l’amministrazione rimanga inerte o, comunque, non ottemperi alle
statuizioni della decisione, il ricorrente può esperire siffatta azione, chiedendo al giudice di sostituirsi all’amministrazione
nell’adozione dei provvedimenti necessari.
È ora possibile operare una classificazione delle forme del processo amministrativo in relazione “al contenuto e all’oggetto
delle pronunce del giudice amministrativo”. Utilizzando la sistematica del processo civile, si possono individuare un processo
di cognizione, un processo esecutivo, un processo cautelare e, all’interno del processo di cognizione, distinguere il processo
d’impugnazione, il processo di condanna e il processo di accertamento.
Il processo d’impugnazione mantiene una sua centralità nell’ambito del sistema del processo amministrativo: esso costituisce
ancora il fulcro del giudizio di primo grado, la cui disciplina, a sua volta, in forza dell’art. 38, c.p.a., costituisce il modello
generale. Vero è che esistono numerosi riti speciali, la cui presenza vale a differenziare in modo rilevante la connotazione
dell’attuale processo amministrativo rispetto a quello tradizionale, nel senso che, in luogo di un unico rito ordinario, si deve
registrare la presenza di molteplici possibilità procedurali che talora assumono caratteri di notevole specificità.
9.2. Il problema dell’individuazione dell’oggetto del processo
Nel corso del tempo, da giurisdizione di diritto oggettivo, la giurisdizione del giudice amministrativo si è progressivamente
configurata come giurisdizione di tipo soggettivo, volta cioè alla tutela di interessi individuali. L’accentuazione del ruolo delle
parti e dell’interesse sostanziale di cui queste sono titolari ha ripercussioni pure sul tema dell’oggetto del giudizio, e cioè sulla
definizione della questione di merito che esso deve risolvere. Questo, inizialmente identificabile con la verifica della legalità
dell’azione, è oggi di difficile definizione. Una tesi seguita in dottrina e in giurisprudenza afferma che l’oggetto del giudizio
sarebbe rappresentato dall’illegittimità dell’atto in relazione al vizio denunciato. Una tesi più radicale considera oggetto del
processo il rapporto che corre tra amministrazione e cittadini. Altri identificano l’oggetto del processo con la situazione
soggettiva lesa, relegando così in secondo piano il tradizionale protagonista del processo amministrativo, costituito dal
provvedimento, considerato al più come “mero veicolo della lesione”.
Porre al centro del processo il rapporto impone ad esempio di riconoscere al giudice i poteri necessari per accertare il rapporto
stesso una volta per tutte. L’art. 34, c.p.a., chiarisce che in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri
amministrativi non ancora esercitati. A parte i casi di giurisdizione esclusiva, ove il rapporto sostanziale è investito dal
giudizio, occorre riconoscere che il “rapporto” è investito solo nei limiti in cui è interessato dal vizio dell’atto, sicché il
giudice non dispone attualmente degli strumenti per accertare comunque il rapporto stesso nella sua integrità; il processo, in
alcuni casi, può attribuire il bene della vita. In conclusione, si può dire che il processo ha per oggetto il modo con cui è stato
esercitato il potere finalizzato al perseguimento di interessi pubblici, fatta eccezione per i casi di giurisdizione esclusiva.
9.3. Motivi aggiunti e temperamenti al principio di rigidità della domanda
È discusso se l’azione rimanga unitaria anche in presenza di più motivi, ovvero se a ogni motivo corrisponda un’autonoma
azione. La diversità di vedute si riflette sul tema dei motivi aggiunti, e cioè sui motivi presentati dal ricorrente in una fase
successiva alla scadenza del termine per la proposizione del ricorso iniziale. La possibilità di presentare motivi
successivamente alla proposizione del ricorso sussiste quando i fatti che si pongono alla base dei motivi stessi non erano
conosciuti inizialmente. Al fine di meglio comprendere l’istituto dei motivi aggiunti occorre ribadire che la parte ha l’onere di
impugnare tempestivamente l’atto pur non conoscendo nella sua completezza l’attività della pubblica amministrazione
preordinata all’emanazione del provvedimento stesso.
Con l’istituto dei motivi aggiunti, che, a determinate condizioni, possono anche essere proposti nel giudizio di appello (art.
104 c.p.a.), la giurisprudenza tenta di contemperare vari principi: quello di consolidamento degli atti amministrativi (da cui
sorge l’onere di impugnare un atto pur senza conoscere tutti gli elementi da cui deriva l’illegittimità), il diritto di difesa del
ricorrente (che deve consentire di aggiungere doglianze in un momento successivo alla proposizione del ricorso iniziale se i
vizi sono conosciuti soltanto dopo l’ instaurazione del giudizio), la parità delle parti (che sarebbe pregiudicata lasciando
all’amministrazione in possesso degli atti la facoltà di essere arbitra del momento in cui il privato acquisisce la conoscenza
completa della situazione).
L'istituto è comunque oggi disciplinato espressamente dal codice. L'art. 43 c.p.a. dispone che “i ricorrenti possono introdurre
con motivi aggiunti nuove ragioni a sostegno delle domande già proposte, ovvero domande nuove purché connesse a quelle
già proposte”. La norma riconosce dunque come attraverso i motivi aggiunti si possa realizzare non solo un arricchimento
della causa petendi, ma anche una modifica del petitum. In sostanza, con il limite della connessione con la domanda già
proposta, essa consente pure l’impugnazione di atti successivi e diversi da quello inizialmente impugnato, costituenti altri
“episodi” della medesima lesione nei confronti dell’interesse della parte. Ove le parti della nuova impugnazione non
coincidano completamente con quelle del ricorso iniziale, i motivi aggiunti vanno notificati anche ai controinteressati
sopravvenuti, e nell’atto devono essere riportati le censure dedotte in quello principale.
Ai motivi aggiunti si applica la disciplina prevista per il ricorso, sicché vanno proposti notificandoli entro il termine di
decadenza e successivamente depositati. Ai sensi dell’art. 23, c.p.a., la procura rilasciata per agire e contraddire davanti al
giudice si intende conferita anche per proporre motivi aggiunti L’art. 43 attribuisce al ricorrente una mera facoltà circa
l’utilizzo dello strumento: ai sensi del c. 3, infatti, se la domanda nuova è stata proposta con ricorso separato davanti allo
stesso tribunale, il giudice provvede alla riunione dei ricorsi; esso definisce anche uno strumento che può essere utilizzato
anche dal ricorrente incidentale.
La possibilità, riconosciuta al privato dalla l. 241/1990, di utilizzare lo strumento del diritto di accesso e di acquisire così
tempestivamente la conoscenza degli elementi rilevanti per il ricorso potrebbe in linea teorica ridimensionare la necessità
dell’impiego dei motivi aggiunti.
Altri esempi di variazione della domanda iniziale, che in linea di massima dovrebbe restare fissa e immutabile, sono costituiti:
• dalla rinunzia a qualcuno tra i motivi proposti (permessa anche al difensore);
• dalla proposizione di motivi ulteriori successivamente alla notifica del ricorso, ma prima dello spirare dell’originario
termine di decadenza;
• dal ricorso incidentale;
• dall’intervento litisconsortile del cointeressato che avvenga prima della consumazione del termine per impugnare.
10. La proposizione del ricorso: motivi introduttivi
Una volta redatto il ricorso, occorre tempestivamente notificarlo. La proposizione del ricorso deve avvenire mediante
notificazione, a pena di irricevibilità, entro il termine di decadenza (di sessanta giorni nell’ipotesi di azione di
annullamento; di centoventi giorni per l’azione risarcitoria autonoma; l’azione avverso il silenzio può essere proposta fintanto
che perdura l’inadempimento e, comunque, non oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento)
ovvero entro il termine di prescrizione nei casi di azione di accertamento. La domanda volta all’accertamento delle nullità
previste dalla legge si propone entro il termine di decadenza di centottanta giorni.
La prova della tardività viene di solito data dalla parte. Termini ridotti sono previsti con riferimento ai riti speciali. Ai sensi
dell’art. 41, u.c., il termine per la notificazione del ricorso è aumentato di trenta giorni, se le parti o alcune di esse risiedono in
altro Stato d’Europa, o di novanta giorni se risiedono fuori d’Europa.
Ai sensi dell’art. 52, c.p.a. (norma applicabile a tutti i termini fissati dalla legge o dal giudice), se il giorno di scadenza è
festivo il termine fissato dalla legge o dal giudice per l’adempimento è prorogato di diritto al primo giorno seguente non
festivo (tale regola si applica anche ai termini che scadono nella giornata del sabato). Per i termini computati a ritroso, la
scadenza è anticipata al giorno antecedente non festivo. Per quanto riguarda le memorie difensive, si è deciso che (nel caso
in cui si cada in un giorno festivo), occorre considerare che l’art. 155.4, c.p.c., opera con riguardo ai termini a decorrenza
successiva e non a ritroso, con l’assegnazione di un intervallo di tempo minimo prima del quale deve essere compiuta una
determinata attività.
Ai sensi dell’art. 54, i termini sono sospesi nel periodo feriale (l° agosto - 15 settembre): la sospensione dei termini riguarda
non solo il termine per ricorrere, ma pure gli altri termini processuali, relativi, ad esempio, alla costituzione in giudizio e
all’impugnazione della sentenza. La sospensione opera anche nei confronti del termine di perenzione mentre non si applica ai
giudizi cautelari (art. 54, u.c., c.p.a.). Ove il decorso del termine per un atto processuale abbia inizio durante il periodo di
sospensione feriale, nel computo del termine processuale va incluso nella sua interezza il primo giorno successivo alla
scadenza del periodo feriale. Si può aggiungere che si deve considerare il fatto che, se il giorno iniziale non si computa mai, si
computa invece quello finale, salvo che si tratti di giorni liberi.
Tornando alla proposizione del ricorso, la perentorietà del termine trova un temperamento nell’istituto dell’errore scusabile.
Ai sensi dell’art. 37, il giudice può disporre, anche d’ufficio, la rimessione in termini per errore scusabile in presenza di
oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto o di gravi impedimenti di fatto. Si ricordi l’obbligo per l’amministrazione
di indicare in ogni provvedimento il termine e l’autorità cui è possibile proporre ricorso (art. 3.4, l. 241/1990): qualora tale
indicazione sia carente o erronea non sussisterebbe ipotesi di illegittimità ma di mera irregolarità dell’atto, determinandosi la
possibile applicazione dell’istituto dell’errore scusabile a favore del ricorrente che abbia adito l’autorità incompetente o abbia
proposto ricorso fuori termine.
10.1. La notificazione del ricorso
La proposizione del ricorso avviene attraverso la sua notificazione, effettuata dagli agenti notificatori (ufficiali giudiziari,
messi di conciliazione) all’amministrazione resistente e ad almeno un controinteressato. L’instaurazione del rapporto
processuale richiede comunque il deposito telematico del ricorso notificato. Ai sensi dell’art. 41, c.p.a., la notificazione dei
ricorsi nei confronti delle amministrazioni dello Stato è effettuata secondo le norme vigenti per la difesa in giudizio delle
stesse e, dunque, in persona del ministro competente per materia; la consegna deve essere eseguita presso l’avvocatura dello
Stato nel cui distretto ha sede il giudice adito. Per quanto riguarda gli altri enti, in forza del rinvio esterno, trovano
applicazione le norme del codice di procedura civile.
Ove sussistano organi temporanei o straordinari il ricorso va notificato sia all’amministrazione, sia all’organo, eventualmente
nella persona del presidente.
Il d.lgs. 1229/1959 disciplina in modo unitario l’attività degli ufficiali giudiziari addetti alla Corte d’Appello, ai tribunali e
alle preture (oggi le preture sono state soppresse dal d.lgs. 51/1998).
Nella notifica mediante il servizio postale la data di notifica del ricorso si identifica con quella di consegna dello stesso
all’ufficiale giudiziario: ciò è di rilievo per il ricorrente ai fini del rispetto del termine di decadenza.
L’art. 8 r.d. 642/1907, prevedeva che la notificazione del ricorso potesse eseguirsi anche per mezzo di messo comunale: la
fonte è ora abrogata dal c.p.a. La notificazione può anche essere effettuata, in sostituzione degli ufficiali giudiziari, a mezzo di
messo di conciliazione. La facoltà di effettuare la notificazione dei ricorsi a mezzo posta fuori dalla propria circoscrizione è
riservata agli ufficiali giudiziari.
Altra fattispecie di rilievo è la notifica per pubblici proclami, che può essere disposta dal presidente del tribunale o della
sezione cui è assegnato il ricorso quando la notificazione del ricorso nei modi ordinari sia particolarmente difficile per il
numero delle persone da chiamare (art. 41.2, c.p.a.). L’art. 52, c.p.a., poi, consente al presidente di autorizzare la notificazione
del ricorso o di provvedimenti anche direttamente dal difensore con qualunque mezzo idoneo, compresi quelli per via
telematica o fax, ai sensi dell’art. 151, c.p.c.
Molto importante è la possibilità per l’avvocato autorizzato dal consiglio dell’ordine di eseguire in proprio la notifica,
evitando così di ricorrere all’ufficiale giudiziario, ma procedendo direttamente (a mezzo posta e tenendo un registro
cronologico).
Alla luce della disciplina sul processo telematico, occorre comunque depositare nel fascicolo informatico la copia
informatica degli atti relativi alla notificazione con osservazione di conformità all’originale (art. 14, d.p.c.m. 40/2016).
La notifica potrà, infine, avvenire per via telematica (si tratta dunque di una facoltà) ai sensi dell’art. 3 bis, l. 53/1994,
utilizzando la Pec risultante da pubblici registri.
Il deposito di ricevute e relazione di notificazione avviene per via telematica, anche qualora la notificazione non sia eseguita
con modalità telematiche.
La nullità della notifica determina l’irricevibilità del ricorso. Ai sensi dell’art. 44, c.p.a., la comparizione dell’intimato sana la
nullità della notificazione (e l’irregolarità del ricorso), salvi i diritti acquisiti anteriormente alla comparizione. Nei casi in cui
sia nulla la notificazione e il destinatario non si costituisca in giudizio, il giudice, se ritiene che l’esito negativo della
notificazione dipenda da causa non imputabile al notificante, fissa al ricorrente un termine perentorio per rinnovarla. La
rinnovazione impedisce ogni decadenza.
11. La costituzione delle parti in giudizio: il deposito del ricorso notificato
Successivamente alla notifica del ricorso si giunge al vero contatto tra organo giudicante e parti, che avviene attraverso la
costituzione. Per quanto riguarda il ricorrente, essa ha luogo con il deposito del ricorso notificato: in tale momento il
processo amministrativo si intende instaurato e va considerato pendente. L’originale del ricorso va depositato nella segreteria
del giudice a pena di irricevibilità nel termine perentorio di trenta giorni decorrente dal momento in cui l’ultima notificazione
dell’atto si è perfezionata anche per il destinatario (art. 45, c.p.a.). Il ricorrente versa inoltre il contributo unificato per
l’iscrizione a ruolo. In caso di mancato deposito del ricorso notificato, si ritiene che le altre parti, mediante proposizione di un
autonomo ricorso, possano pretendere il pagamento delle spese processuali.
Il ricorrente deposita di norma pure copia del provvedimento. Il deposito del ricorso, della procura alle liti della relata di
notifica e dei documenti allegati avviene esclusivamente in via telematica. L'avvocato deve scaricare un apposito modulo dal
sito, compilarlo in tutte le sue parti e sottoscriverlo in forma digitale. Il formato della sigla digitale è quello PAdes e il modulo
è diverso per il ricorso introduttivo e atti successivi. La procura alle liti è autenticata dal difensore. La procura può essere
rilasciata in modo interamente digitale (questa si considera apposta in calce all'atto quando la procura è rilasciata su un
documento informatico separato depositato con modalità telematica unicamente all'atto a cui si riferisce). Nei casi in cui la
procura è invece conferita su supporto cartaceo, il difensore procede al deposito telematico della copia per immagine su
supporto informatico, compiendo l'asseverazione.
Il deposito sarà effettuato ordinariamente tramite posta elettronica certificata: l'avvocato dalla propria casella Pec, invierà
alla casella Pec dell'autorità giudiziaria la documentazione. Il deposito è tempestivo quando entro le 24 ore del giorno di
scadenza è generata la ricevuta di avvenuta accettazione, ove il deposito risulti andato a buon fine secondo quanto previsto
dalle specifiche tecniche.
Ai sensi dell’art. 45, c.p.a., la mancata produzione, da parte del ricorrente, della copia del provvedimento impugnato e della
documentazione a sostegno del ricorso non implica decadenza. La produzione dovrebbe piuttosto essere a carico
dell’amministrazione: ai sensi dell’art. 46.2, c.p.a., infatti, l’amministrazione, nel termine a essa assegnato per la costituzione,
deve produrre l’eventuale provvedimento impugnato, nonché gli atti e i documenti in base ai quali l’atto è stato emanato,
quelli in esso citati e quelli che l’amministrazione ritiene utili al giudizio.
L’art. 65 stabilisce che “ove l’amministrazione non provveda al deposito del provvedimento impugnato e degli altri atti ai
sensi dell’articolo 46, il presidente o un magistrato da lui delegato ovvero il collegio ordina, anche su istanza di parte,
l’esibizione degli atti e dei documenti nel termine e nei modi opportuni”.
In sintesi la disciplina è la seguente:
• la mancata produzione di copia del provvedimento da parte del ricorrente non implica decadenza: non si tratta dunque
più di un onere per quest’ultimo;
• Dall’art. 136, c.p.a., si ricava la possibilità per il ricorrente di produrre documentazione fino a quaranta giorni liberi
anteriori al giorno fissato per l'udienza;
• l’amministrazione è chiamata a depositare l’eventuale provvedimento impugnato, nonché gli atti e i documenti in base
ai quali l’atto è stato emanato, quelli in esso citati e quelli che l’amministrazione ritiene utili al giudizio nel termine
fissato per la costituzione in giudizio e, dunque, anche indipendentemente dall’effettiva costituzione;
• la legge non prevede alcuna sanzione in caso di inosservanza della disposizione che impone all’amministrazione di
depositare il provvedimento e gli altri atti;
• il presidente del Tar o un magistrato da lui delegato può supplire alla mancata produzione dell’atto ordinandone
all’amministrazione il deposito in giudizio.
Va aggiunto che, ai sensi dell’art. 136, le comunicazioni avvengono utilizzando la Pec risultante dai pubblici elenchi.
11.1. La costituzione delle parti diverse dal ricorrente
Il giudizio è strutturato come dialogo tra ricorrente e giudice (vocatio iudicis), in virtù del principio dell’unilateralità
dell’azione: non è dunque necessaria la presenza di altre parti. Ove tali parti intendano costituirsi in giudizio, esse debbono
rispettare il disposto dell’art. 46, c.p.a., ai cui sensi, nel termine di sessanta giorni dal perfezionamento nei propri confronti
della notificazione del ricorso, le “parti intimate” possono costituirsi, presentare memorie, fare istanze, indicare i mezzi di
prova di cui intendono valersi e produrre documenti.
L’atto di costituzione non va quindi notificato al ricorrente. Tale atto si riduce talora a una memoria di stile, contenente la
procura al difensore, con cui si chiede il rigetto del ricorso avverso, riservando le difese più approfondite a un successivo
momento. Il controinteressato al quale non sia stato notificato il ricorso può intervenire.
Il termine per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente non è perentorio, sicché esse possono costituirsi anche
successivamente al suo spirare, fino al momento della udienza di discussione. Nel giudizio di primo grado, la regola è che il
codice non prevede preclusioni o decadenze particolari in capo alla parte evocata in causa che si costituisce.
L’art. 73, c.p.a., chiarisce che le parti possono produrre documenti fino a quaranta giorni liberi prima dell’udienza, memorie
fino a trenta giorni liberi e presentare repliche fino a venti giorni liberi, sicché la costituzione in udienza consente soltanto la
difesa orale nel corso della stessa. L’amministrazione potrebbe anche decidere però di svolgere le proprie difese per iscritto
con la memoria e ciò giustifica la previsione della replica fino a venti giorni prima dell'udienza, volta a garantire un'adeguata
trattazione della causa in vista dell'udienza. Le repliche, in ossequio alla loro funzione, sono però consentite solo a fronte di
nuovi documenti e delle nuove memorie depositate in vista dell'udienza. La previsione del termine per la costituzione è di
rilievo in ordine all’attività del giudice in quanto, ai sensi dell’art. 71.3, il presidente può procedere alla fissazione
dell’udienza di discussione del ricorso, sempre che sia stata presentata la domanda di fissazione di udienza, soltanto dopo che
sia trascorso il termine stesso: si tratta dunque per il giudice di un termine dilatorio.
A prescindere dalla costituzione, l’amministrazione resistente è comunque tenuta a depositare il provvedimento impugnato e
gli atti e i documenti sui quali esso si basa, sempre nel termine di sessanta giorni dal perfezionamento nei propri confronti
della notificazione del ricorso.
Nel diritto processuale amministrativo non è disciplinato l’istituto della contumacia, che riguarda la situazione dei soggetti
regolarmente chiamati in causa non costituiti in giudizio e che assicura alle controparti la conoscenza di determinati e rilevanti
accadimenti processuali. La costituzione in giudizio delle parti diverse dal ricorrente non è di conseguenza un atto dovuto. Si
aggiunga che: l’amministrazione non costituita ha il dovere di depositare gli atti ai sensi dell’art. 46, c.p.a. e, comunque, in
ottemperanza all’ordine del giudice; le sentenze sono notificate personalmente alle parti non costituite.
11.2. Il ricorso incidentale
Un termine perentorio (sessanta giorni) è invece previsto per il ricorso incidentale che può essere proposto ai sensi dell’art.
42, c.p. a.: si tratta di un ricorso con il quale si propongono domande il cui interesse sorge in dipendenza della domanda
proposta in via principale e, cioè, si denunciano vizi dell’atto impugnato diversi da quelli denunciati dal ricorrente o si
impugnano altri atti. Esso può essere proposto dalle parti contro cui l’impugnazione originaria era diretta (resistenti e
controinteressati). Il soggetto controinteressato è favorito dal provvedimento impugnato: parrebbe strano che questi voglia a
sua volta impugnare tale atto per attenerne l’annullamento. Per comprendere l’istituto del ricorso incidentale può essere utile
un esempio. Si pensi all’impugnazione della graduatoria finale da parte di un candidato che abbia partecipato a un pubblico
concorso e sia stato collocato in essa al secondo posto: il ricorrente afferma che al vincitore è stato attribuito un punteggio più
alto di quello che gli sarebbe spettato e chiede, a seguito dell’annullamento dell’atto, di essere collocato al primo posto;
controinteressato è il candidato collocato al primo posto nella graduatoria: tale soggetto potrebbe affermare, in via
subordinata, mediante ricorso, che la graduatoria è illegittima in quanto pure la sua posizione personale non è stata
correttamente valutata. Ciò può essere accaduto perché non è stato attribuito il giusto punteggio a un suo titolo di servizio, che
gli avrebbe assicurato un punteggio complessivo in grado di porlo al riparo (nel senso che rimarrebbe pur sempre primo in
graduatoria) dalle conseguenze dell’eventuale annullamento pronunciato a seguito dell’accoglimento del ricorso principale.
Egli, dunque, non pienamente soddisfatto dall’esito del concorso, ma vincitore, non poteva impugnarlo in quanto privo di
interesse: a seguito dell’azione esperita dal soggetto collocato in posizione deteriore, si determina a censurare l’esito del
concorso, chiedendo un annullamento per motivi diversi da quelli affermati dal ricorrente principale.
La legge consente l’impugnazione incidentale anche alla parte resistente: in passato si negava la possibilità
dell'amministrazione di proporre ricorso incidentale sulla base della considerazione secondo cui, in presenza di un atto
amministrativo ritenuto illegittimo, il soggetto pubblico ben avrebbe potuto eliminarlo direttamente, utilizzando lo strumento
dell'annullamento in via di autotutela. Tuttavia, il ricorso incidentale era generalmente ammesso allorquando
l’amministrazione intendesse difendere il proprio operato censurando l’atto emanato da altra autorità (e quindi non annullabile
dalla prima in via di autotutela) che il ricorrente principale aveva invocato quale parametro di legittimità del provvedimento
impugnato. Questa possibilità è ora espressamente riconosciuta dal codice.
Legittimati passivi sono le altre parti del giudizio: il ricorso incidentale deve essere notificato a esse personalmente o, se
costituite, ai sensi dell’art. 170 c.p.c. (al procuratore costituito), e ha i medesimi contenuti del ricorso introduttivo. Il termine
per la notificazione del ricorso incidentale è di sessanta giorni decorrente dalla ricevuta notificazione del ricorso principale:
esso corrisponde a quello di proposizione del ricorso iniziale e a quello di costituzione. A differenza del termine ordinatorio di
costituzione in giudizio dell'amministrazione e dei controinteressati, quello per la proposizione del ricorso incidentale è
previsto a pena di decadenza: d'altro canto in questo caso la parte non si limita a difendersi, ma propone un'azione di
impugnazione.
Si è detto che mediante il ricorso si contesta lo stesso atto o se ne impugna uno differente. In passato, la giurisprudenza
(Cons. Stato, sez. V, n. 2468/2002) già ammetteva l’impugnazione pure di atti diversi da quello originariamente impugnato,
purché connessi. L’ammissibilità di questo ampliamento dell’oggetto del giudizio si ricava dalla disciplina di cui al c.3
dell’art. 42, ai sensi del quale la cognizione del ricorso incidentale è attribuita al giudice competente per quello principale,
salvo che la domanda introdotta con il ricorso incidentale sia devoluta alla competenza del Tar del Lazio, sede di Roma: in tal
caso la competenza a conoscere dell’intero giudizio spetta al Tar del Lazio, sede di Roma, ovvero al Tar avente competenza
funzionale. Lo spostamento di competenza per connessione ex art. 42.3 si spiega unicamente nei casi in cui il ricorso
incidentale serva ad impugnare un atto diverso (che può comportare uno spostamento di competenza.
A lungo discusso è stato l’ordine di esame delle questioni: secondo l’orientamento tradizionale, prima di scendere all’esame
del ricorso incidentale occorre la previa deliberazione di fondatezza del ricorso principale. Un caso specifico è quello del
contenzioso relativo alle gare d’appalto in cui i concorrenti siano in giudizio in qualità di ricorrenti principali e incidentali, i
quali contestano l'uno l’ammissione dell’offerta dell’altro: in questa ipotesi, il ricorso pone in dubbio la legittimazione al
ricorso principale; si consideri che la legittimazione spetta soltanto al titolare di una posizione soggettiva tutelabile. La
decisione n. 4/2011 dell’ad. plen. ha affermato che l’esame del ricorso incidentale ha carattere pregiudiziale, posto che la sua
eventuale fondatezza preclude al giudice di scendere all’esame del merito della domanda del ricorrente principale. Il dibattito
è continuato con Tar Piemonte, ord. n. 208/2012, che ha rimesso la questione dell’ordine di esame alla Corte di giustizia,
ritenendo la decisione dell’ad. plen. non in linea con il principio della libera concorrenza; per altro verso, Cass., sez. un., n.
10294/2012, pur rigettando il ricorso, ha affermato che l’omessa valutazione di una domanda è declinabile come questione di
giurisdizione e che la decisione dell’ad. plen. appare contraria al principio di parità delle parti. Corte cost., sent. 4 luglio 2013,
causa C-100/12 ha risolto la questione sollevata dal Tar Piemonte, statuendo che il ricorso incidentale dell’aggiudicatario
diretto a contestare la legittimazione del ricorrente principale non può comportare il rigetto del ricorso di un offerente,
nell’ipotesi in cui la legittimità dell’offerta di entrambi gli operatori venga contestata nell’ambito dello stesso procedimento e
per motivi identici.
L'ad. plen. è comunque tornata sulla questione confermando, al di fuori dell'ipotesi decisa dalla CGUE, il principio dell'esame
prioritario del ricorso incidentale, ma limitandone la portata, nel senso che solo quello escludente che sollevi un'eccezione di
carenza di legittimazione del ricorso non aggiudicatario deve essere esaminato prioritariamente (sent. 7/2014). Secondo l'ad.
plen. 9/2014, inoltre, sono vizi comuni quelli che attengono alla tempestività delle domande e all'integrità dei plichi.
La CGUE con sent. 5 aprile 2016, causa C-689/13, ha precisato che il principio che nega l'effetto paralizzante si applica anche
nel caso in cui le imprese partecipanti alla gara, sebbene ammesse inizialmente in numero superiore a due, siano state tutte
escluse senza che sia stato proposto ricorso da imprese diverse da quelle coinvolte nel procedimento principale.
Una volta notificato, il ricorso va depositato nei termini e secondo le modalità previste per il ricorso iniziale (art. 45 c.p.a.).
Le altre parti possono presentare memorie e produrre documenti nei termini e secondo le modalità di cui all’art. 46 (che
prevede il termine di sessanta giorni dal perfezionamento nei propri confronti della notificazione del ricorso). In tema di
ricorso incidentale si può affermare che:
− la finalità del ricorso incidentale è quella di consentire una difesa nei confronti del ricorrente in via principale: per
quanto strutturato come azione di annullamento, il ricorso incidentale introduce di norma un’eccezione o una
questione di carattere pregiudiziale, tanto è vero che al suo accoglimento segue una pronuncia di inammissibilità (e
non di annullamento); in sostanza esso mira a conservare l’atto in forza di un miglioramento della posizione di chi
propone l’azione incidentale;
− la proposizione del ricorso incidentale costituisce una delle ipotesi di modifica della domanda originaria, anche se la
dipendenza dal ricorso principale impedisce un allargamento eccessivo del thema decidendum.
L’art. 42, c.p.a. è rubricato “ricorso incidentale e domanda riconvenzionale”, all’ultimo comma, disponendo che “nelle
controversie in cui si faccia questione di diritti soggettivi le domande riconvenzionali dipendenti da titoli già dedotti in
giudizio sono proposte nei termini e con le modalità di cui al presente articolo”.
11.3. L’intervento in giudizio
La disciplina processuale dell’intervento è contenuta negli artt. 50 e 51, c.p.a.
Quanto all’intervento volontario, esso è proposto con atto diretto al giudice adito, recante l’indicazione delle generalità
dell’interveniente. L’atto deve contenere le ragioni su cui si fonda, con la produzione dei documenti giustificativi, e deve
essere sottoscritto dall’interventore se esso sta in giudizio personalmente, oppure del difensore, con indicazione della procura.
L’atto d’intervento è notificato alle altre parti. Il deposito dell’atto notificato è disciplinato rinviando all’art. 45, c.p.a., sul
deposito del ricorso introduttivo (trenta giorni). Per individuare il limite temporale entro cui il terzo può intervenire, occorre
distinguere:
• per quanto riguarda l’intervento adesivo (art. 28.2, c.p.a.) o, se nei termini, del cointeressato, il deposito è ammesso
fino a trenta giorni prima dell’udienza: la notifica, dunque, deve avvenire in tempo utile per consentire questo
deposito, ricordando che l’art. 45 permette che si depositi l’atto, anche se non ancora pervenuto al destinatario, sin dal
momento in cui la notificazione del ricorso si perfeziona per il notificante;
• il limite dei trenta giorni non opera, invece, per i casi disciplinati dal c.1 dell’art. 28, che si riferisce appunto ai casi di
intervento ad opponendum del controinteressato non intimato: in tal caso, in realtà, si tratta di costituzione in giudizio
di una parte necessaria e l’interventore non deve subire pregiudizio del diritto di difesa e, dunque, può intervenire
anche successivamente;
• l’art. 51, c.p.a., infine, disciplina l’intervento per ordine del giudice, stabilendo che questi indichi alla parte gli atti da
notificare e il termine della notificazione; la costituzione dell’interventore avviene secondo le modalità stabilite per le
parti intimate con il ricorso introduttivo (il termine è di sessanta giorni dal perfezionamento nei propri confronti della
notificazione); ove la parte non provveda alla chiamata, il giudice dichiara improcedibile il ricorso.
14.4. La domanda di fissazione di udienza e l’iscrizione a ruolo della causa
Se il rapporto processuale s’instaura con il deposito del ricorso notificato, affinché il ricorso sia discusso in udienza il codice
(art. 71) prevede però un ulteriore adempimento a carico della parte che vi abbia interesse: si tratta della presentazione al
presidente del collegio della domanda di fissazione di udienza (l’udienza viene dunque fissata dal giudice); con essa l’onere
dell’impulso processuale si sposta quindi a carico del giudice. L’istanza non è revocabile e va presentata entro il termine
massimo di un anno dal deposito del ricorso o dalla cancellazione della causa dal ruolo, pena la perenzione del ricorso.
Di rilievo è la regola (art. 56), secondo cui la domanda cautelare è improcedibile finché non è presentata l’istanza di
fissazione d’udienza per il merito: la parte deve dunque manifestare l’interesse alla decisione nel merito onde ottenere una
decisione sull’istanza cautelare. Il presidente, decorso il termine (dilatorio) per la costituzione delle altre parti e sempre che vi
sia l’istanza, fissa l’udienza per la discussione del ricorso. Se viene fissato un termine dilatorio al giudice per provvedere, non
è però indicato un termine entro il quale il presidente deve procedere.
La parte può segnalare l’urgenza del ricorso depositando istanza di prelievo, comunque non soggetta a termini, volta a
sollecitare la fissazione dell’udienza di discussione.
Il giudice deve rispettare un preciso termine dilatorio: il decreto di fissazione, infatti, è comunicato a cura dell’ufficio di
segreteria, almeno sessanta giorni prima dell’udienza fissata. Il termine è però ridotto a quarantacinque giorni, su accordo
delle parti, se l’udienza di merito è fissata a seguito di rinuncia alla definizione autonoma della domanda cautelare. L’art. 54,
d.l. 112/2008 convertito nella l. 133/2008 ha stabilito che la mancata presentazione dell’istanza di prelievo determina
l’improponibilità della domanda di equa riparazione per l’eccessiva durata del processo.
La domanda di fissazione di udienza, che viene semplicemente depositata in cancelleria senza necessità di notificazioni alle
controparti, va riproposta ogni qual volta l’udienza medesima si sia tenuta senza che la causa sia passata in decisione. I termini
possono essere abbreviati ex art. 53, c.p.a., ai sensi del quale, nei casi d’urgenza, il presidente del tribunale può, su istanza di
parte, appunto abbreviare fino alla metà i termini previsti dal codice per la fissazione di udienze o di camere di consiglio.
Tra la comunicazione del decreto di fissazione dell’udienza e l’udienza medesima si possono svolgere ulteriori attività. Ai
sensi dell’art. 73, c.p.a., le parti possono produrre documenti fino a quaranta giorni liberi prima dell’udienza, memorie fino a
trenta giorni liberi e presentare repliche fino a venti giorni liberi. Secondo quanto dispone l’art. 54, la presentazione tardiva di
memorie o documenti, su richiesta di parte, può essere eccezionalmente autorizzata dal collegio, assicurando comunque il
pieno rispetto del diritto delle controparti al contraddittorio su tali atti, quando la produzione nel termine di legge risulta
estremamente difficile (c.d. deposito tardivo). Si è molto discusso in passato dell’opportunità di introdurre un giudice
istruttore nel processo amministrativo; il codice non ha scelto questa via, prevedendo soltanto che il presidente designa il
relatore almeno trenta giorni prima della data di udienza, senza peraltro imporre che vengano svolte attività preparatorie in
vista dell’udienza di discussione e senza organizzare un momento processuale in cui ciò possa accadere.
12. I principi dell’istruzione probatoria
“Istruzione” è un termine che indica sia l’attività volta ad acquisire prove ed elementi di giudizio diretti a dimostrare la
veridicità delle affermazioni in fatto compiute dalle parti, sia una fase del processo. L’attività istruttoria è svolta tanto dal
giudice quanto dalla parte anche prima dell’instaurazione del rapporto processuale, posto che essa deve conoscere gli elementi
di fato necessari per proporre la propria azione.
La fase processuale istruttoria nel processo amministrativo potrebbe risultare molto ridotta, in quanto la causa potrebbe
presentarsi matura già al momento del deposito del ricorso notificato e, soprattutto, al momento del deposito del
provvedimento impugnato da parte dell’amministrazione, rendendo superflua l’acquisizione di elementi di giudizio ulteriori.
Premesso che, in ossequio al principio della domanda, solo alla parte spetta identificare la pretesa fatta valere in giudizio e le
circostanze materiali (c.d. fatti primari che sono costitutivi della pretesa) che deve dunque “allegare”, si può osservare che il
processo amministrativo, proprio perché processo di parti, è dominato dal principio dispositivo delle parti, cui spetta
circoscrivere non solo il thema decidendum, ma anche il thema probandum. A esse, cioè, spetta l’onere di affermare,
attraverso gli atti di causa, come sussistenti o insussistenti (anche) i fatti secondari che si intendono far valere nel processo
(introduzione o allegazione dei fatti). Si tratta di fatti strumentali a determinare la fattispecie perché servono per dimostrare la
sussistenza dei fatti primari quando questi ultimi non possano essere provati direttamente mediante una fonte materiale di
prova.
L’art. 64.2 stabilisce che il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti nonché i fatti non
specificatamente contestati dalle parti costituite, confermando il criterio di delimitazione del thema probandum, rimesso alle
sole parti. L’art. 64 aggiunge due importanti precisazioni.
In primo luogo, disciplina la questione della non contestazione; si introduce, infatti, un onere per le parti di contestare i fatti
affermati dalla controparte: si può discutere se ciò implichi che, ove non contestato, il fatto debba ritenersi “pacifico”, perché
si configurerebbe una sorta di ammissione implicita o una prova legale. Tenendo conto che le prove legali non hanno luogo
nel processo amministrativo, è preferibile la tesi secondo cui il fatto non contestato sarà valutato come qualsiasi altra prova
introdotta dalle parti secondo l’apprezzamento del giudice; si realizza così una limitazione del thema probandum, nel senso
che quei fatti non vanno provati in caso di non contestazione e il giudice non dovrà applicare la regola di giudizio di cui
all’art. 2697, c.c.: chi agisce in giudizio ha l’onere di fornire la prova (e cioè di dimostrare l’esistenza o l’inesistenza) dei fatti
che costituiscono il fondamento della sua pretesa, sicché, ove la parte non sia riuscita a provare la fondatezza della propria
affermazione, il giudice deve rigettare la domanda, ritenendo infondata l’affermazione.
Parte della giurisprudenza della Cassazione (sent. n. 5191/2008) stabilisce l’onere di contestare il fatto allegato nella prima
difesa utile. Nel silenzio della legge, si potrebbe suggerire di accogliere la tesi della necessità di contestare i fatti al momento
della costituzione, che è appunto la prima difesa utile. Secondo la Cassazione, il difetto di contestazione implica l’ammissione
in giudizio solo dei fatti c.d. principali, ossia costitutivi del diritto azionato, ma non anche dei fatti c.d. secondari, ossia
dedotti in esclusiva funzione probatoria; per questi ultimi, la non contestazione costituirebbe argomento di prova ai sensi
dell’art. 116.2, c.p.c.
In secondo luogo, e soprattutto l’art. 64 c.p.a., nell’affermare che il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove
proposte, aggiunge la formula “salvi i casi previsti dalla legge”. I fatti (con l’eccezione di quelli non contestati) dovranno
essere provati dalle parti mediante i mezzi istruttori al fine di verificare la fondatezza o l’infondatezza della pretesa del
ricorrente (viene richiamato all’uopo il principio tradizionale dell’onere della prova a carico delle parti: art. 63, c.p.a.); il
giudice, tuttavia, può chiedere alle parti anche d’ufficio chiarimenti o documenti e disporre altri mezzi istruttori. La
statuizione del codice è in linea con l’affermazione secondo cui nel processo amministrativo vige il sistema dispositivo con
metodo acquisitivo: se spetta solo alle parti affermare come esistenti e introdurre nel processo i fatti ritenuti rilevanti, rientra
tra i poteri del giudice disporne discrezionalmente l’acquisizione anche d’ufficio e, cioè, indipendentemente dalle istanze delle
parti; in tal modo viene esclusa una riserva assoluta dell’iniziativa istruttoria in capo alle parti.
L’art. 64, c.p.a. precisa che spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità
riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni. Per coordinare questa norma con l’affermazione del
principio dell’onere della prova, si deve osservare che possono sussistere difficoltà in capo alla parte privata di individuare e
provare i fatti affermati. In queste ipotesi, dove manca la disponibilità della prova, trova applicazione l’art. 64 e il giudice può
esercitare poteri probatori officiosi; ove, invece, la disponibilità della prova non sia riservata all’amministrazione (prova
dell’entità del danno nelle vertenze risarcitorie) può invocarsi integralmente la regola dell’onere della prova. Il giudice può
disporre mezzi istruttori non richiesti dalle parti, anche imponendo all’amministrazione la prova di un fatto introdotto dal
ricorrente; è però necessario che il ricorrente abbia posto a fondamento della propria pretesa elementi di seria consistenza (e,
cioè, una ricostruzione dei fatti attendibile), fornendo gli indizi probatori di cui dispone (onere del principio di prova dei fatti
affermati, i quali consentono di identificare l’oggetto del giudizio: Cons. Stato, sez. V, n. 2843/2003).
In sintesi, solo ove la parte abbia soddisfatto l’onere del principio di prova e non abbia la disponibilità della prova, il giudice
può esercitare i propri poteri officiosi (Cons. Stato, sez. IV, n.3135/2011).
In ordine, infine, alla valutazione delle prove e dei risultati dell’istruttoria, ai sensi dell’art. 64.4, c.p.a., il giudice deve
valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento. Si applica, dunque, il principio del libero convincimento del
giudice, il quale non tollera la presenza di prove legali in grado di vincolarlo in modo assoluto e, comunque, rese da soggetti
(dirigenti o amministratori) non direttamente titolari delle situazioni giuridiche coinvolte e che non hanno la libera
disponibilità delle medesime. L’ordinamento deve occuparsi della regola del giudizio in caso di fatto incerto.
Nel processo amministrativo l’art. 2697 c.c. trova alcuni temperamenti, legati proprio alla sussistenza del metodo acquisitivo.
Il giudice può verificare quale, tra le parti processuali, sia in grado di fornire la prova, distribuendo l’onere della prova stessa:
in particolare, può ordinare all’amministrazione di rappresentare e provare un fatto, creando la stessa situazione che
sussisterebbe ove tale fatto fosse stato da essa introdotto in giudizio.
12.1. La disciplina dell’istruzione probatoria
I mezzi istruttori (c.d. prove costituite e costituende, medianti le quali sono acquisite le “fonti materiali di prova”)
esperibili nel giudizio amministrativo sono veicolati nel giudizio sia nella fase iniziale (mediamente l’allegazione di
documenti che accompagnano il ricorso), sia prima e durante l’udienza finale, momenti in cui possono esercitarsi, d’ufficio o
su istanza, i poteri acquisitivi del presidente o del collegio.
Nel giudizio amministrativo sono consentiti: l’esibizione di documenti e di quanto altro la parte ritenga necessario, la richiesta
di chiarimenti alle parti, l’ispezione ai sensi dell’art. 118 c.p.c., la verificazione, la consulenza, la testimonianza scritta e gli
altri mezzi di prova previsti dal c.p.c., esclusi l’interrogatorio formale e il giuramento.
Va premesso che la regola è quella dell’esercizio d’ufficio dei poteri istruttori, la quale, però, soffre alcune eccezioni: a)
l’istruttoria monocratica richiede istanza di parte; a1) “anche su istanza di parte” è però adottato l’ordine di deposito del
provvedimento; b) ai sensi dell’art. 55, c.12 i provvedimenti necessari per assicurare la completezza dell’istruttoria sono
adottati in sede cautelare dal collegio “su istanza”; c) anche la prova testimoniale richiede istanza di parte.
L’esibizione di documenti può essere il frutto dell’iniziativa spontanea delle parti, ovvero essere ordinata dal giudice; tale
ultimo potere istruttorio è sempre esercitabile dal collegio anche d’ufficio. Il giudice inoltre può chiedere chiarimenti alle
parti, relativi ai fatti che già integrano il thema probandum. Si impongono ora alcune precisazioni:
- innanzitutto va ricordato che, ai sensi dell’art. 65, u.c., c.p.a., ove l’amministrazione non provveda al deposito del
provvedimento impugnato e degli altri atti ai sensi dell’art. 46, il presidente o un magistrato da lui delegato ovvero il
collegio ordina, anche su istanza di parte, l’esibizione degli atti e dei documenti nel termine e nei modi opportuni;
- l’art. 64, c.p.a. precisa che il giudice, anche d’ufficio, può ordinare anche a terzi di esibire in giudizio i documenti o
quanto altro ritenga necessario; può altresì disporre l’ispezione ai sensi dell’articolo 118, c.p.c., ordinando alle parti e
ai terzi di consentire sulla loro persona o sulle cose in loro possesso le ispezioni che appaiono indispensabili per
conoscere i fatti della causa, purché ciò possa compiersi senza grave danno per la parte o per il terzo. Se la parte
rifiuta di eseguire tale ordine senza giusto motivo, il giudice può da questo rifiuto desumere argomenti di prova; se
rifiuta il terzo, il giudice lo condanna a una pena pecuniaria;
- infine, secondo quanto dispone l’art. 64.3 c.p.a., il giudice amministrativo può disporre, anche d’ufficio,
l’acquisizione di informazioni e documenti utili ai fini del decidere che siano nella disponibilità della PA.
Qualora reputi necessario l’accertamento di fatti o l’acquisizione di valutazioni che richiedono particolari competenze
tecniche, il giudice può ordinare l’esecuzione di una verificazione ovvero, se indispensabile, può disporre una consulenza
tecnica.
La verificazione è affidata a un organismo pubblico, estraneo alle parti del giudizio e munito di specifiche competenze
tecniche ed estraneo alle parti del giudizio. Non dovrebbe trattarsi, dunque, della stessa amministrazione, come invece
accadeva nella vigenza del precedente regime. Il concetto di estraneità non esclude che il soggetto operi a favore
dell’amministrazione, riferendosi piuttosto alla necessità che esso non sia parte di quell’organizzazione.
L’incarico di consulenza, invece, può essere affidato a dipendenti pubblici, professionisti iscritti in appositi albi, o altri
soggetti aventi particolare competenza tecnica. Non possono essere nominati coloro che prestano attività in favore delle parti
del giudizio. Tradizionalmente, la consulenza non è considerata un mezzo di prova, avendo essa la finalità di aiutare il giudice
nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze. Vi è chi
distingue tra consulente “deducente” (chiamato solo a valutare i fatti già provati) e consulente “percipiente” (il quale deve
accertare i fatti).
La verificazione è disposta con ordinanza del collegio che individua l’organismo che deve provvedervi, formula i quesiti e
fissa un termine per il suo compimento e per il deposito della relazione conclusiva. Il capo dell’organismo verificatore (o il
suo delegato) è responsabile del compimento di tutte le operazioni. La verificazione è nulla qualora non siano comunicati alle
parti giorno, ora e luogo di inizio delle operazioni tecniche e ne sia derivato pregiudizio al diritto di difesa.
Con l’ordinanza con cui dispone la consulenza tecnica d’ufficio, il collegio nomina il consulente, formula i quesiti e fissa il
termine entro cui il consulente incaricato deve comparire dinanzi al magistrato a tal fine delegato per assumere l’incarico e
prestare giuramento. L’ordinanza è comunicata al consulente tecnico a cura della segreteria. La norma disciplina poi il
compenso e, soprattutto, la figura dei consulenti tecnici delle parti, i quali, oltre a poter assistere alle operazioni del
consulente del giudice e a interloquire con questo, possono partecipare all’udienza e alla camera di consiglio ogni volta che è
presente il consulente del giudice per chiarire e svolgere le loro osservazioni sui risultati delle indagini tecniche. La relazione
finale viene poi depositata in segreteria e in essa il consulente tecnico d’ufficio dà altresì conto delle osservazioni e delle
conclusioni dei consulenti di parte e prende specificamente posizione su di esse.
Ai sensi dell’art. 63, c.p.a., solo su istanza di parte, il giudice può ammettere la prova testimoniale. Secondo la
giurisprudenza, essa può vertere solo su fatti storici, mentre non ne possono costituire oggetto le valutazioni del testimone. La
prova, inoltre, è sempre assunta in forma scritta ai sensi del codice di rito.
L’assunzione degli altri mezzi istruttori previsti dal codice di procedura civile, esclusi l’interrogatorio formale e il giuramento,
può essere disposta d’ufficio: si può immaginare, ad esempio, l’accertamento tecnico preventivo (Tar Lazio, n. 3846/2016,
secondo cui il ricorrente deve fornire seri elementi di urgenza) e l’impiego dell’interrogatorio libero, mediante il quale il
giudice, ordinata la comparizione personale delle parti, le interroga liberamente sui fatti di causa in contraddittorio tra di loro.
Va precisato che l’istruttoria può essere monocratica o collegiale. Ai sensi dell’art. 65, il presidente della sezione o un
magistrato da lui delegato adotta i provvedimenti necessari per assicurare la completezza dell’istruttoria. Quando l’istruttoria è
disposta dal collegio, questo provvede con ordinanza con la quale è contestualmente fissata la data della successiva udienza di
trattazione del ricorso. Si ricordi, però, che ai sensi dell’art. 36, il giudice pronuncia sentenza non definitiva quando decide
solo su alcune delle questioni, anche se adotta provvedimenti istruttori per l’ulteriore trattazione della causa.
Per l’assunzione fuori udienza dei mezzi di prova è delegato uno dei componenti del collegio, il quale procede con l’assistenza
del segretario che redige i relativi verbali. Il segretario comunica alle parti almeno cinque giorni prima il giorno, l’ora e il
luogo delle operazioni. Una volta eseguita l’istruttoria, il segretario comunica alle parti l’avviso, indicando che i relativi atti
sono presso la segreteria a loro disposizione.
13. Considerazioni di sintesi in ordine alla disciplina della costituzione delle parti, dell’istruzione e dello svolgimento del
giudizio
Mentre il termine per la costituzione del ricorrente è perentorio, quello previsto per le altre parti è semplicemente ordinatorio;
tale diversità trova la sua spiegazione nel fatto che il punto di vista della PA dovrebbe già essere esposto nel provvedimento,
sicché la legge non fissa un termine perentorio per la proposizione delle sue difese. Il dovere gravante sull’amministrazione di
produrre il provvedimento, nonché tutti gli atti e i documenti in base ai quali il provvedimento è stato emanato non è tuttavia
assistito da sanzione. È così possibile che sia instaurato un giudizio senza che la parte abbia conosciuto il provvedimento e,
soprattutto, gli atti e i documenti sui quali questo si fonda. Va ripetuto che manca la figura del giudice istruttore, così come
non sono previste udienze istruttorie né almeno in primo grado preclusioni processuali per la difesa dell’amministrazione e per
la contestazione dei fatti.
Si osservi che il provvedimento è di norma noto ove il ricorrente sia il diretto destinatario al quale esso è stato notificato; al
fine di prendere contezza del provvedimento stesso e degli atti sui quali si basa, l’interessato può inoltre utilizzare lo
strumento del diritto di accesso anche se, nella prassi, il termine entro cui l’amministrazione può esibire i documenti può
superare quello di decadenza per la proposizione del ricorso. Il ricorrente può comunque sollecitare i poteri istruttori del
giudice presentando apposita istanza già nel ricorso iniziale, consentendo così al presidente (o al magistrato da lui delegato) di
ordinare in tempi relativamente brevi all’amministrazione e ai terzi il deposito di atti e documenti. Una volta presa visione dei
documenti e degli atti depositati, la parte ha la possibilità di proporre motivi aggiunti di ricorso. L’amministrazione, ancorché
non costituita, deve depositare il materiale istruttorio entro sessanta giorni; ove non lo faccia spontaneamente, l’organo
monocratico ne ordina l’esibizione. Il privato ha oggi a disposizione il già citato strumento dell’azione a tutela del diritto di
accesso per costringere l’amministrazione a depositare quanto meno atti e documenti. La possibilità che il giudice, accertata la
completezza del contraddittorio, definisca nel merito il giudizio nelle ipotesi di giudizio cautelare dovrebbe indurre
l’amministrazione a costituirsi tempestivamente mediante una memoria che non sia di “mero stile”. Infine, le parti possono
produrre documenti fino a quaranta giorni liberi prima dell’udienza, memorie fino a trenta giorni liberi e presentare repliche
fino a venti giorni liberi e ciò consente sicuramente una trattazione delle questioni migliore rispetto alla situazione regolata
dalla disciplina previgente rispetto al codice.
14. Le misure cautelari
L’impugnazione del provvedimento non sospende l’esecuzione dello stesso. L’ordinamento prevede all’uopo lo strumento
dell’azione volta a ottenere misure cautelari. Il giudizio cautelare instaurato a seguito dell’esercizio di tale azione è
strumentalmente collegato a quello di merito: esso si conclude con una ordinanza di carattere provvisorio. Si dice anche che
la tutela cautelare è strumentale, in quanto al servizio del giudizio principale.
L’ordinanza cautelare ha carattere interinale, in quanto è instabile e non idonea a stabilire una soluzione definitiva della
controversia. La tutela cautelare nel giudizio amministrativo è oggi compiutamente disciplinata dagli artt. 55-62 c.p.a.
L’azione può essere proposta contestualmente al ricorso e, in tal caso, è notificata unitamente ad esso. La domanda è
improcedibile finché non è presentata l’istanza di fissazione dell’udienza di merito, salvo che essa debba essere fissata
d’ufficio. La legge non prevede un termine per il deposito. L’istanza può inoltre essere proposta separatamente dal ricorso
principale (successivamente a esso, fino a che non venga meno l’interesse a ottenere la sospensiva e comunque prima della
decisione sul merito): in tale ipotesi essa deve essere notificata alle altre parti con le stesse forme stabilite per la notificazione
del ricorso principale e successivamente depositata presso la cancelleria del giudice; è pure ammessa la richiesta prima della
notifica del ricorso principale.
Anche in ragione del carattere interinale del rimedio, la competenza a decidere sull’istanza spetta inderogabilmente al
giudice presso il quale è instaurato il giudizio di merito. Il giudice adito può disporre misure cautelari solo se ritiene
sussistente la propria competenza ai sensi degli artt. 13 e 15; altrimenti deve indicare il giudice competente; quest’ultimo, se si
ritiene incompetente, richiede il regolamento, ma, nella pendenza del regolamento, è costretto a provvedere sulla domanda
cautelare dinanzi allo stesso riproposta. Le pronunce sull’istanza cautelare perdono comunque efficacia dopo trenta giorni
dalla data di pubblicazione dell’ordinanza che regola la competenza.
Con riferimento alla questione della giurisdizione, ai sensi dell’art. 10.2, ove il giudizio sia sospeso a seguito della
proposizione del regolamento di giurisdizione, possono comunque essere chieste misure cautelari, ma il giudice non può
disporle se non ritiene sussistente la propria giurisdizione.
Tornando al procedimento cautelare, sulla relativa domanda il collegio pronuncia nella prima camera di consiglio successiva
al ventesimo giorno dal perfezionamento, anche per il destinatario, dell’ultima notificazione e, altresì, al decimo giorno dal
deposito del ricorso. Se la notificazione è effettuata a mezzo del servizio postale, peraltro, il ricorrente, se non è ancora in
possesso dell’avviso di ricevimento, può provare la data di perfezionamento della notificazione producendo copia
dell’attestazione di consegna del servizio di monitoraggio della corrispondenza nel sito internet delle poste. È fatta salva la
prova contraria.
Le parti possono depositare memorie e documenti fino a due giorni liberi prima della camera di consiglio (per consentire alle
altre parti di studiare le questioni), ma il collegio, per gravi ed eccezionali ragioni, può autorizzare la produzione in camera di
consiglio di documenti, con consegna di copia alle altre parti fino all’inizio di discussione. Si consideri, inoltre, che le parti
possono costituirsi nella camera di consiglio, ovviamente senza avere più possibilità di depositare memorie e documenti. Il
tema del rispetto del contraddittorio affiora dall’art.55.12, il quale dispone che in sede di esame della domanda cautelare il
collegio adotta, su istanza di parte, i provvedimenti necessari per assicurare la completezza dell’istruttoria e l’integrità del
contraddittorio. Di rilievo è la disciplina di cui all’art. 27, c.p.a., secondo cui il giudice, nelle more dell’integrazione del
contraddittorio, può pronunciare provvedimenti cautelari interinali (da intendersi come provvisori, in attesa dell’integrazione
del contraddittorio a favore delle parti pretermesse).
Un tentativo di conciliare garanzia del contraddittorio ed esigenze di celerità è effettuato dall’art. 56 c.p.a., che presuppone
comunque la notifica e il deposito del ricorso. Prima della trattazione della domanda cautelare da parte del collegio, in caso di
estrema gravità ed urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio, il ricorrente
può, con la domanda cautelare o con distinto ricorso notificato alle controparti, chiedere al presidente di disporre misure
cautelari provvisorie (in attesa, cioè, della decisione in camera di consiglio). Il periculum è qui legato, dunque,
all’impossibilità di attendere la camera di consiglio. Il presidente (o un magistrato da lui delegato) verifica che la notificazione
del ricorso si sia perfezionata nei confronti dei destinatari o almeno della parte pubblica e di uno dei controinteressati e
provvede con decreto motivato non impugnabile. Il decreto, in caso di accoglimento, è efficace sino a detta camera di
consiglio e perde efficacia se il collegio non provvede sulla domanda cautelare nella camera di consiglio medesima. Fino a
quando conserva efficacia, il decreto è sempre revocabile o modificabile su istanza di parte notificata.
Tornando in generale alle misure cautelari collegiali in corso di causa, notiamo che la decisione viene adottata dal collegio in
camera di consiglio, ove i difensori sono sentiti ove ne facciano richiesta. La trattazione si svolge oralmente e in modo
sintetico. Il giudice pronuncia con ordinanza che “motiva in ordine alla valutazione del pregiudizio allegato e indica i profili
che, ad un sommario esame, inducono ad una ragionevole previsione sull’esito del ricorso” (art. 55 c.p.a.: sui presupposti per
la concessione della misura cautelare). L’ordinanza con cui è disposta una misura cautelare fissa la data di discussione del
ricorso nel merito. In caso di mancata fissazione dell’udienza, il Consiglio di Stato dispone che il tribunale amministrativo
regionale provveda alla fissazione della stessa con priorità.
In sede cautelare, secondo l’orientamento tradizionale, il giudice amministrativo potrebbe sollevare questione di legittimità
costituzionale purché non sia stato consumato il potere cautelare. Secondo Corte Cost. n. 200/2014, tuttavia, posto che, nel
codice, la concessione della misura comporta oramai l’instaurazione di un giudizio di merito senza ulteriori adempimenti, è
ammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata in fase cautelare, ancorché in giudice abbia adottato una misura
cautelare non interinale.
L’ordinanza ha efficacia ex nunc e, dunque, non elimina gli effetti già prodotti, mentre impedisce di porre in essere atti e
comportamenti esecutivi del provvedimento impugnato. L’ordinanza è sottoscritta e viene depositata in cancelleria. La parte
vittoriosa, inoltre, può notificare l’ordinanza alle parti soccombenti ai fini della decorrenza del termine di sessanta giorni per
appellare (c.d. termine breve) e delle eventuali responsabilità dell’amministrazione soccombente in caso di inottemperanza. Ai
sensi dell’art. 57 c.p.a., con l’ordinanza che decide sulla domanda, il giudice provvede sulle spese della fase cautelare. Dato
l’art. 96 c.p.c. (applicabile anche al giudizio amministrativo), ai sensi del quale su istanza della parte danneggiata il giudice
che accerti l’inesistenza della situazione giuridica per la quale è stata eseguita una misura cautelare, può condannare al
risarcimento dei danni il ricorrente che abbia “agito senza la normale prudenza”.
Presupposti e contenuti delle misure cautelari sono indicati dall’art. 55 c.p.a.: la cognizione del giudice amministrativo
chiamato a pronunciarsi sull’istanza volta a ottenere la misura cautelare investe i presupposti del periculum in mora e del
fumus boni iuris.
• Ai fini della sospensiva occorre cioè la sussistenza di un “pregiudizio grave e irreparabile… durante il tempo
necessario a giungere ad una decisione sul ricorso”: deve trattarsi di un pericolo particolarmente rilevante (perdita di
un bene primario e infungibile) e di impossibile riparazione (periculum in mora). L’irreparabilità è di norma esclusa
allorché si tratti di danno meramente monetario; l’irreparabilità non coincide con l’irrisarcibilità;
• Il secondo presupposto (fumus boni iuris) è da ritenersi proprio di tutte le misure cautelari: esso, secondo quanto
emerge dalla elaborazione giurisprudenziale più tradizionale, ricorre allorché il ricorso sia non manifestamente
inaccoglibile. In tal modo si esclude la concessione della misura cautelare con riferimento a provvedimento che con
tutta probabilità non sarà annullato in sede di decisione sul merito. L’art. 55, c.p.a., disponendo che l’ordinanza deve
indicare i profili che inducono ad una ragionevole previsione sull’esito del ricorso, parrebbe invece aprire la via ad un
mutamento dei caratteri del fumus, nel senso che, ai fini dell’accoglimento dell’istanza, al giudice si chiede una
valutazione sulla probabilità di accoglimento del ricorso.
L’art. 125, c.p.a., in ordine al contenzioso relativo alle infrastrutture strategiche, stabilisce che, in sede di pronuncia del
provvedimento cautelare, si tiene conto delle probabili conseguenze del provvedimento stesso per tutti gli interessi che
possono essere lesi, nonché del preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell’opera, e, ai fini
dell’accoglimento della domanda cautelare, si valuta anche la irreparabilità del pregiudizio per il ricorrente, il cui interesse va
comunque comparato con quello del soggetto aggiudicatore alla celere prosecuzione delle procedure.
Nel caso in cui dalla decisione sulla domanda cautelare anche di rigetto derivino effetti irreversibili (possibilità questa che
induce a riconsiderare il carattere strumentale e interinale della tutela cautelare), il collegio può disporre la prestazione di una
cauzione, anche mediante fideiussione, cui subordinare la concessione o il diniego della misura cautelare. Si può immaginare
che la cauzione sia addossata all’amministrazione (forse in funzione di garanzia per l’eventuale risarcimento del danno),
chiamata a prestarla per poter dare esecuzione a un provvedimento la cui illegittimità non è stata accertata o delibata da alcun
giudice. La legge tace in ordine al caso in cui la cauzione non venga prestata nei termini dall’amministrazione (è ipotizzabile
che la misura venga automaticamente concessa).
La concessione o il diniego della misura cautelare non può essere subordinata a cauzione quando la domanda cautelare attenga
a diritti fondamentali della persona o ad altri beni di primario rilievo costituzionale. A prescindere dal problema della
cauzione, è indubbio che la legge, oggi estenda notevolmente il possibile contenuto della tutela cautelare: il giudice può
disporre tutte quelle misure cautelari, compresa l’ingiunzione a pagare una somma in via provvisoria, “che appaiono, secondo
le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso”. Il codice disciplina così un
modello di tutela cautelare atipica. In passato, un problema affrontato dalla giurisprudenza amministrativa atteneva alla tutela
cautelare nei confronti degli atti negativi, che, in quanto privi di effetti innovativi, paiono insuscettibili di essere sospesi.
Occorre però distinguere tra provvedimenti a contenuto negativo ma dotati di effetti innovativi (revoca di concessione o di
autorizzazione) e provvedimenti negativi in senso proprio, mediante i quali l’amministrazione rifiuta di produrre un effetto
innovativo (diniego di concessione, di autorizzazione, di dispensa e così via: sui c.d. provvedimenti di rifiuto). I primi sono
suscettibili di essere sospesi secondo i principi generali; i secondi non modificano la situazione preesistente e non debbono
essere portati ad esecuzione, sicché ne è difficilmente configurabile la sospensione.
La tutela atipica assicurata dal codice, stante l’ampia formulazione della norma, può essere invocata anche nei confronti del
comportamento inerte dell’amministrazione. La nuova formulazione della norma fa riferimento all’ingiunzione a pagare una
somma, instaurando così su di un processo a carattere chiaramente cautelare un istituto che, nel processo civile, può essere
disposto a prescindere dalla sussistenza di un periculum.
Occorre poi osservare che il codice prevede la possibilità di “fissare il merito” in sede cautelare in luogo di decidere
sull’istanza cautelare. In questo caso il legislatore ritiene inutile la concessione di una misura cautelare che assicurerebbe un
assetto provvisorio a fronte di un meccanismo volto ad “accelerare” la decisione nel merito. Ai sensi dell’art. 55.10, il Tar
può fissare con ordinanza collegiale la data di discussione del ricorso nel merito.
Un ulteriore rito speciale accelerato che si innesta sul processo cautelare con possibile decisione immediata del giudizio nel
merito in sede di esame della domanda cautelare, è disciplinato dall’art. 60, c.p.a.: in sede di decisione della domanda
cautelare, purché siano trascorsi almeno venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso, il collegio, accertata la completezza
del contraddittorio e dell’istruttoria, sentite sul punto le parti costituite, può definire, in camera di consiglio, il giudizio con
sentenza in forma semplificata. Il giudice opera la trasformazione del rito cautelare in decisione sul merito soltanto quando
la decisione è matura; invece, la trasformazione non potrà avvenire quando una delle parti dichiari che intende proporre motivi
aggiunti, ricorso incidentale o regolamento di competenza (o di giurisdizione).
La possibilità che il giudice definisca nel merito il giudizio nelle ipotesi di giudizio cautelare dovrebbe indurre
l’amministrazione a costituirsi tempestivamente mediante una memoria che non sia di “mero stile”. Secondo quanto dispone
l’art. 62, c.p.a., le ordinanze cautelari sono appellabili dinanzi al Consiglio di Stato nel termine di trenta giorni dalla
notificazione dell’ordinanza, ovvero di sessanta giorni dalla sua pubblicazione. L’appello, depositato nel termine generale di
cui all’art. 45 (trenta giorni), è deciso in camera di consiglio con ordinanza. Al giudizio si applicano le norme sulla cauzione,
sulla conversione del rito, sulle misure monocratiche, e sulle spese. L’art. 62 dispone che, in appello, il giudice può rilevare
anche d’ufficio la violazione, in primo grado, degli articoli 10.2 (che limita la possibilità di disporre misure cautelari al solo
caso in cui il giudice ritenga di avere giurisdizione), 13, 14, 15.5 (sulla competenza inderogabile e sull’obbligo di proporre
regolamento di competenza in capo al giudice cui sia proposta un’istanza cautelare e che si ritenga incompetente), 42.4 (sulla
competenza in tema di ricorso incidentale e sulla modifica della competenza in presenza di una competenza funzionale) e
55.13 (che ribadisce il dovere in capo al giudice di disporre misure cautelari soltanto ove si ritenga competente). L’ordinanza,
al pari delle altre ordinanze, è revocabile e modificabile.
Le parti possono riproporre la domanda cautelare al collegio o chiedere la revoca o la modifica del provvedimento cautelare
collegiale in due casi:
a. se si verificano mutamenti nelle circostanze;
b. se allegano fatti anteriori di cui si è acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare. In tale caso,
aggiunge l’art. 58, c.p.a., l’istante deve fornire la prova del momento in cui ne è venuto a conoscenza.
Ai sensi dell’art. 58.2, la revoca può essere altresì richiesta nei casi di cui all’art. 395 del codice di procedura civile. Si è in
passato discusso circa l’esperibilità dell’opposizione di terzo (ammessa da Cons. Stato, Sez. VI, n. 115/2010) e del ricorso
alle sezioni unite della cassazione per difetto di giurisdizione, quest’ultimo da escludere atteso che l’ordinanza è priva dei
requisiti formali e sostanziali della pronuncia definitiva della controversia ed inidonea a passare in giudicato.
Ove la decisione non sia auto-applicativa, ma implichi la necessità di un’attività esecutiva dell’amministrazione, si pone il
problema della tutela della parte a fronte dell’inottemperanza del soggetto pubblico. L’art. 59 c.p.a. dispone che qualora i
provvedimenti cautelari non siano eseguiti, l’interessato, con istanza motivata e notificata alle altre parti, può chiedere al Tar
le opportune misure attuative. Il tribunale esercita i poteri inerenti al giudizio di ottemperanza decidendo con ordinanza (art.
114.5) e provvede sulle spese.
La domanda cautelare oltre che in corso di causa, può anche essere proposta indipendentemente dal ricorso principale; la
tutela c.d. ante causam è stata inizialmente introdotta nel settore degli appalti. Oggi l’art. 61, c.p.a. generalizza l’istituto delle
misure cautelari anteriori alla causa, disponendo che in caso di eccezionale gravità e urgenza, tale da non consentire neppure
la previa notificazione del ricorso e la domanda di misure cautelari provvisorie con decreto presidenziale, il soggetto
legittimato al ricorso può proporre istanza per l’adozione delle misure interinali e provvisorie che appaiono indispensabili
durante il tempo occorrente per la proposizione del ricorso di merito e della domanda cautelare in corso di causa. L’istanza si
propone al presidente del tribunale amministrativo regionale competente per il giudizio. Il presidente o un magistrato da lui
delegato, accertato il perfezionamento della notificazione per i destinatari, provvede sull’istanza, sentite, ove necessario, le
parti e omessa ogni altra formalità. Il decreto che rigetta l’istanza non è impugnabile; tuttavia la stessa può essere riproposta
dopo l’inizio del giudizio di merito con le forme delle domande cautelari in corso di causa. Non impugnabile è pure il
provvedimento di accoglimento, che viene notificato dal richiedente alle altre parti entro il termine perentorio fissato dal
giudice, non superiore a cinque giorni. Qualora dall’esecuzione del provvedimento cautelare emanato derivino effetti
irreversibili, il presidente può disporre la prestazione di una cauzione, cui subordinare la concessione della misura cautelare.
Per la sua attuazione si applicano le disposizioni sui provvedimenti cautelari in corso di causa. Il provvedimento di
accoglimento perde comunque effetto ove entro quindici giorni dalla sua emanazione non venga notificato il ricorso con la
domanda cautelare ed esso non sia depositato nei successivi cinque giorni corredato da istanza di fissazione di udienza. In ogni
caso la misura concesse perde effetto decorsi sessanta giorni dalla sua emissione.
Le misure cautelari costituiscono, all’interno delle tematiche processuali, una delle materie sulle quali si è prodotto il maggior
impatto dell’ordinamento dell’Unione europea. La giurisprudenza comunitaria ha affermato che le giurisdizioni nazionali
debbono accordare una sospensione dell’esecuzione di un atto amministrativo adottato sulla base di un regolamento
comunitario.
15. Le vicende e le modificazioni del rapporto processuale
Il rapporto processuale può subire una serie di vicende in grado di condizionarne il procedere verso la sua conclusione
naturale, costituita dalla pronuncia della sentenza che decide sul merito. Esse influiscono dunque sullo svolgimento normale
del processo, costituendone un “incidente”, nel senso che, in attesa della pronuncia di un altro giudice o di un atto di impulso
della parte, il processo stesso non può proseguire.
Alcuni incidenti impongono la sospensione del processo (non possono dunque essere compiute attività processuali, salvo
quelle relative all’azione cautelare) in attesa della rimozione della causa di sospensione. In caso di sospensione del giudizio,
per la sua prosecuzione è sufficiente che sia presentata istanza di fissazione di udienza entro novanta giorni dalla
comunicazione dell’atto che fa venir meno la causa della sospensione. Il termine è peraltro non perentorio (Cons. Stato, sez.
IV, n. 3985/2015). Ove non proseguito, il giudizio si estingue.
Costituiscono cause di sospensione la questione di legittimità costituzionale di una legge, la sussistenza di una questione
pregiudiziale, l’incidente di falso, la sussistenza di una questione pregiudiziale relativa allo stato o capacità delle persone la
cui soluzione sia riservata al giudice ordinario. La sospensione del giudizio può pure essere causata dalla richiesta di
ricusazione: in relazione a tale incidente processuale, la questione è però decisa dallo stesso giudice investito della cognizione
del ricorso. Il differimento del processo (e non sospensione) può essere cagionato dalla proposizione del regolamento di
competenza.
Alcuni fatti, invece, determinano l’interruzione del processo (morte e perdita della capacità di stare in giudizio delle parti,
cessazione della rappresentanza legale; morte, radiazione e sospensione dall’albo dell’avvocato costituito), mentre altri
comportano addirittura l’estinzione del giudizio (perenzione, mancata riassunzione o prosecuzione e rinunzia: art. 35.2
c.p.a.). Secondo quanto dispone l’art. 79, c.p.a., l’interruzione del processo è disciplinata dalle disposizioni del codice di
procedura civile. Il processo interrotto prosegue se la parte nei cui confronti si è verificato l’evento interruttivo presenta nuova
istanza di fissazione di udienza. Se non avviene la prosecuzione, il processo deve essere riassunto con apposito atto
notificato a tutte le altre parti, nel termine perentorio di novanta giorni dalla conoscenza legale dell’evento interruttivo,
acquisita mediante dichiarazione, notificazione o certificazione (in caso contrario, si estingue).
Il processo può poi subire ulteriori modificazioni a seguito della riunione o separazione di ricorsi, della successione nel
giudizio e del trasferimento del processo presso altro giudice.
15.1. Le cause di sospensione: il regolamento preventivo di giurisdizione
Il regolamento preventivo di giurisdizione consente alle parti di rivolgersi immediatamente alle sezioni unite della Corte di
cassazione al fine di ottenere una pronuncia risolutiva in punto giurisdizione. Esso determina la sospensione del giudizio in
attesa della soluzione della questione di giurisdizione. La materia è disciplinata dall’art. 10 c.p.a. che ammette la proponibilità
del regolamento a norma dell’art. 41 c.p.c. anche nei giudizi dinanzi al giudice amministrativo. Il ricorso può essere proposto
da ciascuna delle parti ritualmente costituite, quindi anche dal ricorrente; esso va notificato alle controparti presenti nel
giudizio nelle forme proprie del ricorso per Cassazione e depositato presso la cancelleria delle sezioni unite entro venti giorni
dall’ultima notifica.
Le controparti possono contraddire mediante controricorso da notificare al ricorrente entro venti giorni dalla scadenza del
termine stabilito per il deposito del ricorso e da depositare nella cancelleria entro venti giorni dalla notificazione. Copia del
ricorso, ai sensi dell’art. 367 c.p.c., dopo la notificazione alle altre parti, viene depositata presso la segreteria del Tar, in modo
da porre il giudice amministrativo nella condizione di venire formalmente a conoscenza del fatto della proposizione del
regolamento e, eventualmente, di disporre con ordinanza del collegio la sospensione del giudizio se non ritiene l’istanza
inammissibile o la contestazione della giurisdizione infondata.
In tal modo si è Ovviato a uno dei limiti più evidenti dello strumento in esame il quale era spesso impiegato dalle parti per
provocare una sospensione del giudizio dal momento che l’art. 367 c.p.c. imponeva la sospensione necessaria del processo.
Rimane il problema però dei rapporti tra sentenza di merito di primo grado emanata nelle more della soluzione della questione
di giurisdizione e decisione sul regolamento di giurisdizione. Con sentenza delle sez. un., n. 10094/2015, la Cassazione ha
statuito che l'intervenuta pronuncia di merito emessa nel giudizio proseguito non rende inammissibile/improcedibile il ricorso
per regolamento. Per altro verso, la sentenza emessa dal giudice di merito resta condizionata al riconoscimento della
giurisdizione e quindi ove la decisione delle sezioni unite sia di segno contrario a quello ritenuto presupposto dal giudice di
merito, la sentenza di quest'ultimo risulterà priva di effetto. Questo meccanismo introduce, tuttavia, un fattore di instabilità
del giudicato eventualmente formatosi.
Va ribadito che, ai sensi dell’art. 10 c.p.a., nel giudizio sospeso possono essere chieste misure cautelari, ma il giudice non
può disporle se non ritiene sussistente la propria giurisdizione.
Il regolamento preventivo di giurisdizione può essere proposto finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado, ma la
Cass. ha chiarito che il regolamento non è proponibile dopo qualsiasi decisione sulla causa in sede di merito. Ultimo momento
utile per la proposizione del ricorso è il passaggio della causa in decisione (ossia l’udienza di discussione del ricorso). La
Cassazione decide a sezioni unite, senza ulteriore istruzione, con ordinanza ai sensi dell’art. 375.1, n. 4, c.p.c. La statuizione
sulla giurisdizione diventa così incontestabile. Nel caso eventuale di trasmigrazione del processo, le parti devono riassumere il
processo entro il termine di tre mesi dalla pubblicazione della decisione della Cassazione.
15.2. Segue: il regolamento di competenza
Sul regolamento di competenza si ripete che solo eccezionalmente la sua proposizione può comportare (non già una
sospensione, ma) un differimento del giudizio. Si ricorda poi che l’ordinanza del Consiglio che regola la competenza vincola i
Tar e che le parti possono riassumere il giudizio dinanzi al Tar competente, se diverso da quello adito, nel termine perentorio
di trenta giorni dalla notificazione dell’ordinanza che pronuncia sul regolamento, ovvero entro sessanta giorni dalla sua
pubblicazione.
15.3. Ulteriori casi di sospensione del processo, la sospensione ex art. 295 c.p.c.
Il giudizio rimane sospeso in attesa della decisione della Corte costituzionale allorché davanti al giudice amministrativo sia
sollevata questione di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge.
Pure il deferimento della questione di interpretazione e di validità di norma comunitaria comporta la sospensione del
processo amministrativo: il giudice sospende il processo e rimette la risoluzione della questione alla Corte di giustizia delle
Comunità europee. Il rinvio è obbligatorio per il giudice di ultima istanza.
Ai sensi dell’art. 8 c.p.a. le questioni pregiudiziali circa lo stato e la capacità delle persone, salvo che si tratti della capacità
di stare in giudizio, e la risoluzione dell’incidente di falso non possono essere decise dal giudice amministrativo, neppure
incidentalmente. Al riguardo deve essere notato che: a) la capacità va intesa nel senso sia di capacità giuridica, sia di capacità
di agire; b) lo status è quello di familiare (ad esempio stato di figlio legittimo) e/o di cittadino; c) tra le questioni che
determinano la sospensione necessaria del giudizio, l’art. 8 esclude espressamente quelle concernenti la capacità di stare in
giudizio. Ove sorga l’esigenza di risolvere una delle questioni in esame, il giudice fissa alle parti un termine per la
proposizione dell’azione dinanzi al giudice ordinario e sospende il giudizio.
Un’altra ipotesi di possibile sospensione del giudizio riguarda la proposizione della querela di falso al giudice competente
(art. 77 c.p.a.). Chi deduce la falsità di un documento deve provare che sia stata già proposta la querela di falso o domandare la
fissazione di un termine entro cui possa proporla innanzi al tribunale ordinario competente. La prova dell’avvenuta
proposizione della querela di falso è depositata agli atti di causa entro trenta giorni dalla scadenza del termine fissato per la
proposizione. Proposta la querela, il collegio sospende la decisione fino alla definizione del giudizio di falso. Una volta
concluso il giudizio di falso, la parte interessata deve, entro novanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza,
depositarne copia nella segreteria, sotto pena di estinzione. Corte cost. n. 304/2011 ha rigettato la questione di legittimità
costituzionale relativa alla disciplina del processo amministrativo nella parte in cui preclude al giudice amministrativo di
accertare anche solo incidentalmente la falsità degli atti pubblici nel giudizio amministrativo in materia elettorale.
Tradizionalmente, si distingue tra sospensione propria (che ricorre quando la questione “pregiudicante” è oggetto di
accertamento autonomo) e la sospensione impropria (riguarda situazioni eterogenee: questioni di rito, o di fatto, o di diritto
che non potrebbero essere affrontate da sole).
Quanto alla disciplina positiva, l’art. 295 c.p.c. al fine di scongiurare il rischio di un contrasto tra giudicati, stabilisce che il
giudice civile disponga la sospensione necessaria del processo in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere
una controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa. L’obbligo di sospensione, secondo la giurisprudenza,
non opera in caso di giudizi pendenti in diverso grado (Cons. Stato, sez. V, n. 3711/2015).
Di sospensione per pregiudizialità nel giudizio amministrativo parla espressamente l’art. 79 c.p.a., chiarendo che le ordinanze
di sospensione emesse ai sensi dell’art. 295 c.p.c. sono appellabili. La giurisprudenza, anche per rispettare il principio della
ragionevole durata del processo, propone una lettura riduttiva dell’art. 295 c.p.c. di conseguenza estendendo il campo di
applicazione dell’art. 337 c.p.c. (norma relativa ai casi in cui un giudizio sia stato già definito con sentenza non passata in
giudicato). La sospensione di cui all’art. 295 c.p.c. è rimessa alla discrezionalità del giudice.
Ipotesi di sospensione, ritenuta facoltativa, riguarda la pendenza di un giudizio penale: in ossequio al principio, accolto dal
nuovo codice di procedura penale, della separatezza e autonomia tra giudizio penale e giudizio amministrativo, il giudice
amministrativo può risolvere incidenter tantum le pregiudiziali penali e ha, quindi, la facoltà di sospendere il processo quando
ritenga che i fatti accertati in un giudizio penale pendente possano essere rilevanti ai fini della decisione. L’efficacia del
giudicato penale (art. 654 c.p.p., che si riferisce alla sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione pronunciata a
seguito di dibattimento) è comunque limitata sotto i profili soggettivo e oggettivo: essa riguarda soltanto l’imputato e il
responsabile civile che si sia costituito o che sia intervenuto nel processo. La sentenza prevista dall’art. 444.2, c.p.c.
(applicazione della pena su richiesta delle parti), invece, non ha efficacia nel giudizio amministrativo.
La giurisprudenza ammette pure la sospensione facoltativa ex art. 377.2 c.p.c., applicabile quando sulla questione
pregiudiziale sia già intervenuta una sentenza. Se impugnata, il giudice della questione pregiudicata può appunto sospendere il
giudizio, mentre se passa in giudicato dovrà a essa adeguarvisi.
Ammissibile pare, poi, la sospensione su richiesta delle parti (concordata), regolata dal c.p.c. (art. 296).
15.4. L’interruzione del processo
L’istituto dell’interruzione del processo, che consegue a eventi che fanno venire meno l’effettività del contraddittorio, era in
passato estraneo al giudizio amministrativo: la morte della parte era al più valutata ai fini di verificare la sussistenza
dell’interesse a ricorrere in capo agli eredi. La situazione è mutata con la l. Tar (che si riferiva però alle parti private), e, ora,
con l’art. 79 c.p.a., il quale rinvia alla disciplina posta dal codice di procedura civile, senza distinguere tra parti pubbliche e
parti private. La nuova normativa conferma il carattere di processo di parti, ormai pienamente riferibile anche al giudizio
amministrativo.
Gli eventi suscettibili di determinare l’interruzione del processo possono investire le parti, il loro rappresentante o l’avvocato
costituito in giudizio. Per quanto riguarda le parti e i rappresentanti legali, la legge parla di morte e di perdita della capacità
di stare in giudizio, nonché, per quanto attiene ai rappresentanti, di cessazione della rappresentanza legale; vengono in rilievo
l’inabilitazione, l’interdizione, la dichiarazione di morte presunta e la dichiarazione di assenza, nonché l’estinzione delle
persone giuridiche e il fallimento dei soggetti sottoposti alla relativa disciplina.
Ai sensi della disciplina del codice di procedura civile, l’evento che colpisce la parte costituita deve essere portato a
conoscenza delle altre parti unicamente a cura dell’avvocato a mezzo di dichiarazione resa in udienza o di notifica alle parti
costituite. L’interruzione non è automatica e non può essere dichiarata ove il procuratore della parte costituita non abbia
effettuato la dichiarazione o la notifica di cui si è fatto cenno sopra. Dal momento della dichiarazione o della notifica il
processo è interrotto.
Sono eventi interruttivi del processo relativi all’avvocato della parte costituita la morte, la radiazione o la sospensione
dall’albo (pure la cancellazione volontaria dall’albo produce questo effetto secondo Cons. Stato, III sez, n. 925/2016). Ai fini
dell’interruzione sono invece irrilevanti la revoca della procura e la rinuncia alla stessa.
Il processo interrotto prosegue se la parte nei cui confronti si è verificato l’evento interruttivo presenta nuova istanza di
fissazione di udienza. Se non avviene la prosecuzione, il processo deve essere riassunto, a cura della parte più diligente, con
apposito atto notificato a tutte le altre parti, nel termine perentorio di novanta giorni dalla conoscenza legale dell’evento
interruttivo, acquisita mediante dichiarazione, notificazione o certificazione; in caso contrario, il giudizio si estingue.
15.5. Altre vicende del rapporto processuale
Il processo può subire ulteriori modifiche nel corso del suo svolgimento. Il collegio può, su istanza di parte o d’ufficio,
disporre la riunione di ricorsi connessi (art. 70 c.p.a.). In sostanza, il giudice, dinanzi al quale pendono più ricorsi, può
ritenere che sussista tra di essi una connessione soggettiva od oggettiva che renda opportuna la loro riunione. Un caso
particolare e importante in cui trova applicazione l’istituto è quello disciplinato dall’art. 44: ove nuove ragioni a sostegno delle
domande già proposte siano proposte non già utilizzando lo strumento dei motivi aggiunti, il giudice provvede alla riunione.
Di segno contrario rispetto alla riunione è la separazione dei ricorsi, la quale si verifica ad esempio ove il giudice, nel caso di
ricorso contenente più domande, stabilisca di decidere immediatamente soltanto una o più delle cause mature. In tal modo il
giudice estingue soltanto una parte del giudizio, che prosegue autonomamente per la restante.
15.6. La successione e l’estinzione del processo
La successione nel processo è regolata dagli artt. 110 e 111 c.p.c. Essa può essere inter vivos o mortis causa. La successione
può ad esempio realizzarsi quando la controversia riguardi diritti e rapporti patrimoniali, mentre, in ordine all’interesse
legittimo, richiede il trasferimento della situazione sostanziale rilevante sul piano dell’ordinamento generale che è alla base
dell’interesse legittimo. Non è invece possibile trasferire l’interesse legittimo in modo indipendente dal rapporto giuridico
sostanziale che si colloca alla sua base.
La conclusione naturale del processo è la sentenza che si pronuncia sul merito. Si possono però verificare alcune situazioni
direttamente disciplinate dalla legge processuale per eliminare lo stato di incertezza nei rapporti giuridici, che determinano
l’estinzione del processo: in tali ipotesi, il giudice deve dar atto dell’avvenuta estinzione pronunciando un decreto o una
sentenza, ai sensi dell’art. 85 c.p.a. Le cause di estinzione sono la perenzione, la rinunzia e la mancata riassunzione o
prosecuzione (art. 35.2, c.p.a.). Un’ulteriore causa di estinzione è disciplinata dall’art. 78.2 c.p.a., ai sensi del quale il ricorso è
dichiarato estinto se nessuna parte deposita la copia della sentenza del giudice ordinario che ha deciso l’incidente di falso nel
termine di novanta giorni dal suo passaggio in giudicato. Le cause di estinzione sono caratterizzate dall’inattività delle due
parti.
La disciplina della perenzione è contenuta negli artt. 81-83, c.p.a. La regola generale è quella secondo cui il ricorso si
considera perento se nel corso di un anno non sia compiuto alcun atto di procedura, da parte del giudice o degli altri soggetti
presenti nel processo. Deve essere presentata domanda di fissazione d’udienza entro il termine massimo di un anno dal
deposito del ricorso o dalla cancellazione della causa dal ruolo. Adempiuto l’onere di presentare l’istanza di fissazione, la
perenzione è impedita per tutto il tempo in cui l’iniziativa spetta al giudice; esauriti gli effetti della domanda di fissazione,
l’onere di impulso torna alle parti.
La norma fa salvo quanto previsto dall’art. 82, che si occupa della c.d. perenzione dei ricorsi ultraquinquennali. Dopo il
decorso di cinque anni dalla data di deposito del ricorso, la segreteria comunica alle parti costituite apposito avviso in virtù del
quale è fatto onere al ricorrente di presentare nuova istanza di fissazione di udienza entro centottanta giorni dalla data di
ricezione dell’avviso. In difetto di tale nuova istanza, il ricorso è dichiarato perento. Tale prescrizione presuppone che
l’udienza non sia stata ancora fissata. Se, invece, in assenza della sollecitazione della segreteria, trascorsi cinque anni, è
comunicato alle parti l’avviso di fissazione dell’udienza di discussione nel merito, il ricorso è deciso qualora il ricorrente
dichiari di avere interesse alla decisione, altrimenti è dichiarato perento dal presidente del collegio con decreto.
La perenzione opera di diritto e può essere rilevata anche d’ufficio. Ciascuna delle parti sopporta le proprie spese nel
giudizio.
La rinuncia al ricorso e agli atti del giudizio è disciplinata dall’art. 84, c.p.a.: in ogni stato e grado della controversia la parte
può rinunciare al ricorso mediante dichiarazione sottoscritta da essa stessa o dall’avvocato munito di mandato speciale, e
depositata presso la segreteria (rinuncia scritta), o mediante dichiarazione resa in udienza e documentata nel relativo verbale
(rinuncia orale). L’articolo prosegue affermando che se le parti che hanno interesse alla prosecuzione non si oppongono, il
processo si estingue. La rinuncia, dunque, richiede la non opposizione. Il rinunciante deve pagare le spese degli atti di
procedura compiuti, salvo che il collegio, avuto riguardo a ogni circostanza, ritenga di compensarle. La rinuncia è possibile
anche in appello: ove sia effettuata dall’appellato, essa determina l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata. La
rinuncia dell’appellante determina invece il passaggio in giudicato della decisione impugnata e l’improcedibilità dell’appello
per sopravvenuta carenza di interesse. (Cons. Stato, ad. plen., n. 25/2012).
Circa il tema della riassunzione o prosecuzione del giudizio (sospeso o interrotto), si ricorda che, in caso di mancata
riassunzione o prosecuzione, il processo si estingue. In applicazione dell’art. 307, c.p.c., questo tipo di estinzione va eccepita
dalla parte interessata prima di ogni altra difesa, ancorché operi di diritto. L’art. 85, c.p.a. stabilisce due forme di
dichiarazione dell’estinzione e dell’improcedibilità.
In primo luogo, esse possono essere pronunciate con decreto dal presidente o da un magistrato da lui delegato. Il decreto è
depositato in segreteria, che ne dà comunicazione alle parti costituite. Nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione
ciascuna delle parti costituite può proporre opposizione al collegio, con atto notificato a tutte le altre parti. Il giudizio di
opposizione si svolge in camera di consiglio, ed è deciso con ordinanza che, in caso di accoglimento dell’opposizione, fissa
d’ufficio l’udienza di merito. In caso di rigetto, le spese sono poste a carico dell’opponente e vengono liquidate dal collegio
nella stessa ordinanza. Avverso l’ordinanza che decide sull’opposizione può essere proposto appello; il giudizio di appello si
svolge in camera di consiglio.
In secondo luogo, ove si verifichino, o vengano accertate, all’udienza di discussione, l’estinzione e l’improcedibilità sono
dichiarate con sentenza.
16. La discussione sul ricorso
Il momento chiave del processo è quello della discussione del ricorso che precede la decisione. Le parti possono produrre
documenti fino a quaranta giorni liberi prima dell’udienza, memorie fino a trenta giorni liberi e presentare repliche ai nuovi
documenti e alle nuove memorie depositate in vista dell’udienza, fino a venti giorni liberi; inoltre, il decreto presidenziale che
fissa l’udienza viene comunicato alle parti con un preavviso di sessanta giorni.
L’udienza si svolge dinanzi al collegio ed è pubblica a pena di nullità, a eccezione dei casi stabiliti dalla legge. Chi assiste
all’udienza deve stare in silenzio, non può fare segni di approvazione o di disapprovazione o cagionare disturbo. Il presidente
del collegio, ove lo ritenga necessario per il regolare svolgimento dell’udienza, può chiedere l’intervento della forza pubblica.
Il ricorso viene chiamato dal presidente (che dirige l’udienza), il relatore dovrebbe esporre i termini della controversia e i
difensori presenti possono discutere sinteticamente. Terminata la discussione, il ricorso è assegnato in decisione.
In taluni casi la trattazione avviene in camera di consiglio, senza cioè la fissazione dell’udienza in cui si tenga il pubblico
dibattimento (art. 87.2, c.p.a.). La procedura si svolge in tempi più rapidi: tutti i termini processuali sono dimezzati rispetto a
quelli del processo ordinario, tranne, nei giudizi di primo grado, quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del
ricorso incidentale e dei motivi aggiunti.
La camera di consiglio è fissata d’ufficio alla prima udienza utile successiva al trentesimo giorno decorrente dalla scadenza
del termine di costituzione delle parti intimate. Nella camera di consiglio sono sentiti i difensori che ne fanno richiesta;
l’udienza non è, in ogni caso, aperta al pubblico.
L’art. 87, dispone i seguenti casi in cui la trattazione deve avvenire in camera di consiglio: i giudizi cautelari e quelli relativi
all’esecuzione delle misure cautelari collegiali; il giudizio in materia di silenzio; il giudizio in materia di accesso ai documenti
amministrativi; il giudizio di ottemperanza; i giudizi in opposizione ai decreti che pronunciano l’estinzione o
l’improcedibilità del giudizio.
Altri importanti procedimenti in camera di consiglio sono quello di correzione dei provvedimenti del giudice, quello con cui
egli decide della propria competenza su eccezione di parte (art. 15), il regolamento di competenza, nonché due giudizi in
appello: quello contro i provvedimenti dei Tar che hanno declinato la giurisdizione o la competenza (art. 105) e l’appello
contro le ordinanze di sospensione emesse ai sensi dell’art. 295 c.p.c.
16.1. La decisione del ricorso; l’ordine di esame delle questioni e le questioni pregiudiziali
Il collegio, dopo la trattazione di tutte le cause dell’udienza, decide in camera di consiglio. Il Tar decide con l’intervento di tre
magistrati, il Consiglio di Stato con l’intervento di cinque. Ai sensi dell’art. 76, c.p.a., possono essere presenti in camera di
consiglio i magistrati designati per l’udienza, anche se la decisione è assunta con il voto dei soli componenti del collegio. Il
presidente raccoglie i voti e la decisione è presa a maggioranza di voti. Il primo a votare è il relatore, poi il secondo
componente del collegio e, infine, il presidente; nei giudizi davanti al Consiglio di Stato il primo a votare è il relatore, poi il
meno anziano in ordine di ruolo, e così continuando sino al presidente. Chiusa la votazione, il presidente scrive e sottoscrive il
dispositivo.
L’art. 76, c.p.a. richiama l’art. 276.2 c.p.c. ai sensi del quale il collegio, sotto la direzione del presidente, decide gradatamente
le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d’ufficio e quindi il merito della causa.
Circa il tema della rilevabilità d’ufficio il c.p.a. dispone all’art. 73 che, se ritiene di porre a fondamento della sua decisione una
questione rilevata d’ufficio, il giudice la indica in udienza dandone atto a verbale (si intendono così scongiurare le decisioni
“della terzia via”). Non ogni considerazione che il giudice faccia di propria iniziativa è questione rilevata d’ufficio, ma
soltanto la rilevazione di fatti sostanziali o processuali ulteriori rispetto a quelli costitutivi della pretesa. Deve trattarsi, dunque,
di questioni nuove, non prima sollevate dalla difesa della parte.
Se la questione emerge dopo il passaggio in decisione, in aderenza al principio del giusto processo, il giudice riserva
quest’ultima e con ordinanza assegna alle parti un termine non superiore a trenta giorni per il deposito di memorie.
Si distingue in dottrina tra questioni che riguardano la forma del processo e, cioè, l’esistenza dei presupposti di esplicazione
della funzione giurisdizionale e questioni pregiudiziali in senso proprio, che attengono agli elementi in base ai quali la
domanda deve essere accolta o respinta nel merito; si parla anche, con riferimento alle prime ipotesi, di questioni preliminari
di rito, indicando le seconde con il termine pregiudiziali di merito: entrambe le categorie rientrerebbero nell’insieme
“questioni pregiudiziali”.
Nel processo amministrativo le questioni processuali (irricevibilità, inammissibilità, nullità, decadenza, incompetenza) sono
rilevabili d’ufficio.
Con riferimento alle questioni pregiudiziali di merito, esse si definiscono come le questioni la cui soluzione condiziona la
soluzione di un’altra questione. Va operata una distinzione tra questione pregiudiziale (che riguarda un punto contestato che
può essere deciso dal giudice incidenter tantum e con efficacia limitata al giudizio in corso) e causa pregiudiziale (la quale
attiene ad un punto logico contestato che deve essere deciso in via principale in un autonomo giudizio di cui costituisce
l’oggetto esclusivo, comportando così la sospensione del processo in cui è sorta).
La pregiudizialità civile è nel processo amministrativo disciplinata dall’art. 8 c.p.a. La norma attribuisce al giudice
amministrativo la competenza a conoscere di tutte le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti, la cui risoluzione sia
necessaria per pronunciare sulla questione principale. L’art. 8, poi, individua i casi (cause pregiudiziali civili) in cui la
decisione, data l’importanza della questione, è comunque riservata al giudice ordinario: si tratta delle questioni pregiudiziali
concernenti lo stato e la capacità delle persone (salvo che si tratti della capacità di stare in giudizio) e la risoluzione
dell’incidente di falso.
Il giudice della questione principale, dunque, è anche il giudice delle questioni pregiudiziali. Un’importante questione
pregiudiziale è quella che il giudice può conoscere ai sensi dell’art. 21-octies, l. 241/1990, che prevede la non annullabilità del
provvedimento ove ricorrano peculiari circostanze. Costituiscono cause pregiudiziali per volontà di legge l’incidente di falso e
le questioni sullo stato e la capacità delle persone.
Circa la pregiudiziale amministrativa, allorché pendano di fronte a giudici amministrativi diversi processi aventi ad oggetto
provvedimenti connessi per presupposizione, applicando l’art. 295 c.p.c. si ammette che, in attesa della decisione sull’atto
presupposto, venga sospeso il processo vertente sul provvedimento connesso. Costituiscono infine cause pregiudiziali
l’incidente di costituzionalità e l’interpretazione delle norme di trattati comunitari, decise rispettivamente dalla Corte
costituzionale e dalla Corte di giustizia delle comunità europee.
16.2. Forma e contenuto della sentenza. Pubblicazione e notificazione della sentenza. La correzione degli errori materiali
Ai sensi dell’art. 88 c.p.a., la sentenza è pronunciata in nome del popolo italiano e contiene: l’indicazione dell’autorità
giudiziaria e del collegio che l’ha pronunciata; la menzione delle parti e dei loro avvocati; le domande; la concisa esposizione
dei motivi in fatto e in diritto della decisione, anche con rinvio a precedenti cui intende conformarsi; il dispositivo, ivi
compresa la pronuncia sulle spese; l’ordine che la decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa; l’indicazione del giorno,
mese, anno e luogo in cui la decisione è pronunciata; la sottoscrizione del presidente e dell’estensore.
La sentenza dovrebbe essere redatta dall’estensore entro quarantacinque giorni da quello della decisione della cuasa. Essa non
può più essere modificata dopo la sua sottoscrizione ed è pubblicata mediante deposito nella segreteria del giudice che l’ha
pronunciata. Ai sensi dell’art. 7, d.p.c.m. 40/2016 (sul processo telematico), i provvedimenti del giudice sono redatti e
depositati sotto forma di documento informatico sottoscritto con firma digitale. I provvedimenti collegiali saranno redatti
dall’estensore, da questi sottoscritti e trasmessi telematicamente al Presidente del collegio, che li sottoscrive e li trasmette
telematicamente alla segreteria per il deposito.
Dalla pubblicazione della sentenza decorre il termine di sei mesi (c.d. termine lungo) oltre al quale va computata la
sospensione feriale dei termini per proporre le impugnazioni. Al fine di accelerare la decorrenza del termine per proporre
appello al Consiglio di Stato contro la sentenza del Tar, occorre invece la notificazione della stessa, la quale fa decorrere il
termine tanto per la parte vincitrice in primo grado che la richiede, quanto per la parte che ne è destinataria: in questo caso il
termine per impugnare sarà di sessanta giorni dalla notifica (c.d. termine breve), la quale va effettuata ai sensi dell’art. 93
c.p.a.
Secondo quanto dispone l’art. 26, c.p.a., quando emette una decisione, il giudice provvede anche sulle spese del giudizio,
secondo gli articoli 91 (dove viene espresso il principio secondo cui le spese seguono la soccombenza), 92, 93 (sulla
distrazione delle spese a favore del legale), 94 (condanna di rappresentanti o curatori), 96 e 97 (responsabilità di più
soccombenti) del c.p.c. Il giudice decide sulle spese anche d’ufficio e in difetto di esplicita richiesta della parte vittoriosa. La
norma di cui all’art. 92 dispone che il giudice, nel pronunciare la condanna, può escludere la ripetizione delle spese sostenute
dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue e può condannare una parte al rimborso delle spese che essa ha causato
all’altra parte. Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni il giudice può compensare,
parzialmente o per intero, le spese tra le parti.
L’art. 96, c.p.c., dispone che, se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con malafede o colpa grave, il
giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio,
nella sentenza. L’art. 96.3 c.p.c. afferma che, quando pronuncia sulle spese, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare
la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata. Ai sensi dell’art.
26.1 c.p.a. il giudice, anche d’ufficio può condannare la parte soccombente al pagamento di una somma equitativamente
determinata, comunque non superiore al doppio delle spese liquidate, in presenza di motivi manifestamente infondati (c.d.
sanzione per abuso del processo, anche a prescindere da un comportamento doloso o gravemente colposo).
Il giudice (art. 26.2) condanna d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non
inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio,
“quando la parte soccombente ha agito o resistito temerariamente” in giudizio.
Talora la decisione può essere una sentenza in forma semplificata. Ai sensi dell’art. 74, c.p.a., ciò accade nel caso in cui il
giudice ravvisi la manifesta fondatezza ovvero la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza
del ricorso. Si noti che la motivazione della sentenza può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto
ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, a un precedente conforme (motivazione per relationem).
Il codice individua ulteriori importanti casi in cui la decisione è assunta con sentenza in forma semplificata, tutti relativi a
procedimenti camerali: giudizi di ottemperanza, giudizi in materia di accesso, ricorsi avverso il silenzio, giudizi in materia
di operazioni elettorali, decisione immediata nel merito in caso di incidente cautelare (art. 60). Le sentenze in forma
semplificata sono soggette alle medesime forme di impugnazione previste per le sentenze ordinarie (art. 26, l. Tar).
È ammessa la correzione degli errori od omissioni materiali: ai sensi dell’art. 86, c.p.a., la relativa domanda deve essere
proposta al giudice che ha emesso il provvedimento, il quale, se vi è il consenso delle parti, dispone con decreto, in camera di
consiglio, la correzione. In caso di dissenso delle parti, sulla domanda di correzione pronuncia il collegio con ordinanza in
camera di consiglio.
16.3. I vari tipi di decisione
In linea di principio, le decisioni del giudice possono facilmente classificarsi in ragione del fatto che, con esse, il giudice non
si spogli ovvero si spogli della causa; nel secondo caso si può distinguere tra i casi in cui ciò avvenga perché il giudice
giunge all’esame del merito e quelli in cui il giudizio è definito senza decidere sul merito. Ai sensi dell’art. 33, c.p.a. il
giudice pronuncia:
• sentenza quando definisce in tutto o in parte il giudizio;
• ordinanza quando assume misure cautelari o interlocutorie, ovvero decide sulla competenza;
• decreto nei casi previsti dalla legge.
Le ordinanze e i decreti, se non pronunciati in udienza o in camera di consiglio e inseriti nel relativo verbale, sono comunicati
alle parti dalla segreteria nel termine di cinque giorni. L’ordinanza che dichiara l’incompetenza indica in ogni caso il giudice
competente.
Le pronunce non definitive sono quelle con cui il giudice non si spoglia della causa, in quanto non pongono fine al rapporto
processuale, che è destinato a proseguire: esse, dunque, risolvono soltanto uno o più punti della causa, vengono denominate
“interlocutorie” dal c.p.a. e possono essere adottate con ordinanza o con sentenza.
Ai sensi dell’art. 36, c.p.a., in linea di principio il giudice provvede con ordinanza in tutti i casi in cui non definisce nemmeno
in parte il giudizio e pronuncia sentenza non definitiva quando decide solo su alcune delle questioni (e, cioè, definisce in
parte il giudizio). Le ordinanze possono attenere al rito e avere carattere preparatorio: nel caso, non sono autonomamente
impugnabili; simili sono le ordinanze che rigettano l’istanza di ricusazione (art. 7 c.p.a.). Le sentenze non definitive possono
concernere questioni pregiudiziali o preliminari, rigettandole, ovvero attenere al merito e, cioè, ad esempio, accertare se
sussistano i vizi denunciati dalla parte ricorrente.
Le pronunce definitive sono quelle con cui il giudice si spoglia della causa. Esse si distinguono in pronunce processuali e
sentenze che pronunziano sulla domanda:
• le pronunce processuali o di rito riguardano lo svolgimento del processo e accertano la sussistenza di una causa che
impedisce al giudice di giungere all’esame del merito, senza modificare l’assetto sostanziale degli interessi. Esse
giudicano cioè soltanto sulla legittimità del processo e comprendono, secondo l’art. 35, c.p.a., le sentenze dichiarative
dell’irricevibilità o dell’inammissibilità del ricorso, quelle dichiarative della improcedibilità del ricorso e le
pronunce dichiarative dell’estinzione del giudizio. Si aggiungano poi le sentenze con cui il giudice dichiara la nullità
del ricorso ovvero il difetto di giurisdizione e l’ordinanza con cui dichiara il difetto di competenza. Le decisioni
processuali, se rese dal Tar, sono impugnabili, mentre è invece controverso se siano idonee a passare in giudicato. La
sentenza che dichiara l’avvenuta cessazione della materia del contendere, prendendo atto di una situazione che
incide sull’oggetto del giudizio, rientra tra le decisioni che attengono al merito e, come tale, è idonea a passare in
giudicato;
• le pronunce definitive rese in sede di cognizione dal giudice amministrativo che decidono sulla domanda (di
merito) sono soltanto sentenze. Esse sono emanate quando il giudice giunge all’esame del contenuto della domanda
del ricorrente e possono accogliere o rigettare la pretesa del ricorrente. Nell’ipotesi in cui il privato avesse proposto
l’azione di annullamento, il rigetto non comporta l’accertamento giudiziale della legittimità dell’atto, sicché
l’amministrazione potrebbe annullare l’atto in via di autotutela per vizi diversi da quelli dedotti.
Le sentenze di accoglimento affermano la fondatezza della domanda nei limiti della domanda stessa. Occorre distinguere le
sentenze d’accoglimento a seconda che siano costitutive, d’accertamento e di condanna.
Ai sensi dell’art. art. 34.1, lett. e, c.p.a., il giudice dispone le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle
pronunce non sospese, compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di cognizione, con
effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l’ottemperanza. La norma nella parte finale attribuisce al giudice, già in
sede di cognizione, la possibilità di assegnare un termine per l’ottemperanza e nominare il commissario per il caso
dell’inutile scadenza del termine. Questo potere può essere esercitato in ogni caso in cui dalla sentenza scaturisca un dovere di
adottare comportamenti esecutivi in capo alla parte soccombente.
Si vuole passare all’analisi delle varie tipologie di sentenze di accoglimento:
a) Le sentenze costitutive di annullamento (art. 34.1, lett. a, c.p.a.), ammissibili nella giurisdizione di legittimità, di merito
ed esclusiva, sono caratterizzate dai seguenti effetti:
- eliminatorio e, cioè, di rimozione in tutto o in parte dell’atto e dei suoi effetti. L’effetto eliminatorio, che non
richiede esecuzione, si produce con riferimento a tutti i soggetti che erano interessati dall’atto impugnato,
ancorché non parti in causa, in quanto vengono meno tutte le situazioni giuridiche che su di essi si fondavano;
- ripristinatorio: la sentenza ricostruisce automaticamente la situazione giuridica come si sarebbe realizzata se
l’atto non fosse mai stato posto in essere, sempre che i mutamenti della realtà di fatto lo consentano;
- conformativo, consistente in un condizionamento dell’attività amministrativa successiva all’annullamento
dell’atto: il soggetto pubblico dovrà rispettare i limiti nascenti dalla statuizione concreta del giudice e, cioè, la
regola di diritto affermata nella sentenza che viene ad arricchire il quadro dei criteri che l’amministrazione deve
osservare. Di rilievo è quanto deciso da Cons. Stato, sez. VI, n. 2755/2011: la sentenza, richiamando i principi del
giusto processo e di effettività della tutela giurisdizionale (e anche quelli dell’ordinamento dell’Ue), ha stabilito
che il giudice può disporre unicamente gli effetti conformativi, ordinando che gli atti illegittimi conservino i
propri effetti sino a che la parte soccombente non li modifichi o sostituisca.
b) Le sentenze di accertamento sono pacificamente ammesse solo nella giurisdizione esclusiva (e, ai sensi dell’art. 31, u.c.,
c.p.a., in relazione all’accertamento della nullità dell’atto): esse risolvono uno stato di incertezza relativa alla sussistenza
di una situazione o alla spettanza di una posizione giuridica soggettiva. Il giudice, invece, non può mai conoscere della
legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l’azione di annullamento. Ai sensi dell’art. 34, cc. 2 e
3, in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati e quando, nel
corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta
l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori.
c) Le sentenze di condanna possono avere contenuto e caratteri diversi: può trattarsi della condanna al pagamento di una
somma anche a titolo di risarcimento del danno; della condanna in forma specifica ai sensi dell’art. 2058, c.c. e della
condanna all’adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio. Con queste
sentenze il giudice obbliga l’amministrazione a corrispondere la somma di cui sia debitrice, o a tenere un determinato
comportamento. Secondo ad. plen 3/2011, a fronte di un provvedimento espresso di rigetto, il giudice può emanare una
condanna a provvedere ove non ci sia la sussistenza di profili di discrezionalità amministrativa e tecnica. In caso di
condanna pecuniaria il codice prevede un procedimento che mira a favorire una soluzione transattiva della lite a
condizione che non vi sia opposizione delle parti.
Un ordine all’amministrazione inerte può essere pronunciato in caso di ricorso avverso il silenzio: in sostanza, dunque, ricorre
un caso di condanna a provvedere; è anche possibile la condanna al pagamento dell’indennizzo per il caso ritardo.
16.4. Esecutività ed esecuzione delle decisioni
Ai sensi dell’art. 33, c.p.a., le sentenze dei Tar sono esecutive. La proposizione del ricorso in appello non ne sospende
l’esecuzione; su istanza di parte è però possibile chiedere che il giudice dell’impugnazione, con ordinanza motivata, pronunci
la sospensione qualora da essa possa derivare un danno grave e irreparabile.
L’art. 88, c.p.a., individua, tra gli elementi della decisione, l’ordine che la decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa;
l’art. 112, c.p.a., conferma che i provvedimenti del giudice amministrativo devono essere eseguiti dalla pubblica
amministrazione e dalle altre parti; in caso di accoglimento, il giudice può fissare un termine per l’ottemperanza. La parte che
abbia ottenuto una sentenza di accoglimento, sempre che questa richieda un’attività esecutiva dell’amministrazione, si rivolge
dunque in primo luogo a essa affinché si conformi alla decisione, ponendo in essere l’attività o i provvedimenti necessari per
eseguire la sentenza.
Parte della giurisprudenza intende la provvisoria esecutività della sentenza di primo grado come vincolo “negativo” per
l’amministrazione, la quale non potrebbe protrarre oltre l’esecuzione del provvedimento impugnato. Secondo la disciplina di
cui all’art. 114.4, lett. c, c.p.a., nel giudizio per l’ottemperanza di sentenze non passate in giudicato o di altri provvedimenti, il
giudice determina le modalità esecutive, considerando inefficaci gli atti emessi in violazione o elusione e provvede di
conseguenza, “tenendo conto degli effetti che ne derivano”.
La situazione alla quale l’amministrazione deve fare riferimento per l’esecuzione della sentenza è quella sussistente nel
momento in cui viene notificata la sentenza da eseguire: da quell’istante l’amministrazione è tenuta a conformarsi alla
decisione senza poter più prendere in considerazione i mutamenti sopravvenuti. Di rilievo è l’art. 34, c.p.a., che consente al
giudice, su istanza di parte, di nominare un commissario per il caso in cui l’amministrazione non adempia nel termine
assegnato dalla sentenza.
Va aggiunto che, ai sensi dell’art. 115, c.p.a., le pronunce del giudice amministrativo che costituiscono titolo esecutivo sono
spedite, su richiesta di parte, in forma esecutiva; quelli che dispongono il pagamento di somme di denaro costituiscono titolo
anche per l’esecuzione forzata nelle forme disciplinate dal libro III del c.p.c. e per l’iscrizione di ipoteca. In altri termini, al di
fuori delle sentenze che dispongono il pagamento di somme di denaro, per l’esecuzione delle decisioni del giudice
amministrativo non è possibile utilizzare l’esecuzione forzata, ma solo il giudizio di ottemperanza.
17. I mezzi di gravame: premessa e disciplina comune
Il sistema processuale amministrativo prevede un articolato sistema di impugnazioni delle sentenze, composto dall’appello,
dalla revocazione, dall’opposizione di terzo e dal ricorso per Cassazione (art. 91, c.p.a.). Non è un’impugnazione, in quanto
non è rivolto a censurare una precedente sentenza, il regolamento preventivo di giurisdizione; il regolamento preventivo di
competenza può assumere la forma di impugnazione di una precedente ordinanza.
I mezzi di impugnazione si distinguono tradizionalmente in ordinari e straordinari: i primi sono quelli che impediscono la
formulazione della cosa giudicata in senso formale (art. 324 c.p.c., regolamento di competenza, appello, ricorso per
Cassazione, revocazione per motivi di cui ai nn. 4 e 5 dell’art. 395 c.p.c.); i secondi, invece, sono esperibili pure nei confronti
di una sentenza passata in giudicato (revocazione straordinaria di cui all’art. 396 c.p.c. e opposizione di terzo); se proposti
durante la pendenza del termine per appellare, tali rimedi in linea di principio si convertono in appello.
Altra distinzione è quella tra mezzi di gravame di tipo eliminatorio (che tendono a demolire la sentenza impugnata) e mezzi
di gravame rinnovatori, i quali hanno la funzione di fornire in via immediata una nuova soluzione alla controversia. I primi
sono caratterizzati dalla codificazione normativa di “indici di ingiustizia” della sentenza, nel senso che la critica della stessa
può soltanto essere vincolata agli aspetti fissati dalla legge, mentre i secondi sono tendenzialmente a critica libera, potendosi
censurare qualsiasi vizio della sentenza impugnata.
Tra gli aspetti disciplinati in generale per tutte le impugnazioni ricordiamo il regime del luogo della notificazione (art. 93,
c.p.a.): l’impugnazione deve essere notificata nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto dalla parte nell’atto di
notificazione della sentenza o, in difetto, presso il difensore o nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio e
risultante dalla sentenza.
Quanto al tema del contraddittorio, ai sensi dell’art. 95, c.p.a., bisogna distinguere: nelle cause inscindibili o tra loro
dipendenti, l’impugnazione deve essere notificata a tutte le parti in causa; negli altri casi, va notificata soltanto alle parti che
hanno interesse a contraddire e, cioè, a coloro ai quali potrebbe derivare un pregiudizio dall’accoglimento dell’impugnazione,
e non anche a coloro che, pur parti del giudizio di primo grado, dall’accoglimento dell’appello potrebbero ricevere un
vantaggio, rivestendo la posizione di cointeressati all’impugnazione.
La norma prosegue affermando che l’impugnazione deve essere notificata a pena di inammissibilità con riferimento ai singoli
mezzi ad almeno una delle parti interessate a contraddire. Se la sentenza non è stata impugnata nei confronti di tutte le parti,
il giudice ordina l’integrazione del contraddittorio, fissando il termine entro cui la notificazione deve essere eseguita, nonché
la successiva udienza di trattazione. L’impugnazione è dichiarata improcedibile se nessuna delle parti provvede
all’integrazione del contraddittorio nel termine fissato dal giudice.
In appello si applica la norma secondo cui il giudice, se riconosce che il processo si debba concludere con una decisione in rito
o che riconosca manifestamente infondata l’impugnazione, può non ordinare l’integrazione del contraddittorio, quando
l’impugnazione di altre parti è preclusa o esclusa (art. 95.5, c.p.a.).
L’art. 96, c.p.a., si occupa dell’impugnazione avverso la stessa sentenza: il tema espresso dal codice è quello delle
impugnazioni incidentali. L’appello incidentale è una controimpugnazione con la quale una parte, con l’intento di
conservare il risultato raggiunto con la sentenza, fa valere in via subordinata censure differenti rispetto a quelle proposte
dall’appellante principale avverso la medesima sentenza. Si parla invece di appello incidentale improprio (o autonomo) per
indicare l’impugnativa che confluisce nel giudizio di appello pendente ai soli fini della concentrazione delle impugnazioni. Per
comprendere questo istituto, si consideri che, dopo la proposizione dell’appello principale, tutte le altre impugnazioni relative
alla stessa sentenza debbono essere effettuate con le forme dell’appello incidentale, a prescindere dal fatto che la parte sia
soccombente soltanto in modo formale, la cui situazione sfavorevole, cioè, si manifesti soltanto come conseguenza
dell’impugnativa altrui. L’appello incidentale, dunque, è qui proposto anche dalla parte che versi in una situazione di
soccombenza sostanziale, ossia dal soggetto la cui situazione sfavorevole deriva direttamente dalla sentenza di primo grado
che abbia rigettato il ricorso da esso proposto e, quindi, sia legittimato a un’autonoma impugnazione.
Il codice afferma in linea di principio che tutte le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza devono
essere riunite in un solo processo. L’art. 96.2, ammette espressamente la proposizione anche delle impugnazioni incidentali,
ai sensi degli articoli 333 e 334 c.p.c. (quest’ultima si riferisce all’impugnazione incidentale tardiva, proponibile, cioè,
anche quando per la parte è decorso il termine per impugnare). Si precisa inoltre che l’impugnazione incidentale di cui
all’articolo 333, c.p.c., può essere rivolta contro qualsiasi capo di sentenza. L’art. 96.2, a differenza di quanto dispone il
codice di rito, stabilisce una mera facoltà di impugnazione incidentale, lasciando immaginare che siano sempre ammesse
impugnazioni principali (autonome) e, dunque, che possa sussistere la pendenza di più impugnazioni.
L’impugnazione incidentale deve essere proposta dalla parte entro sessanta giorni dalla notificazione della sentenza o, se
anteriore, entro sessanta giorni dalla prima notificazione nei suoi confronti di altra impugnazione principale; quella tardiva,
invece, va proposta pur sempre entro sessanta giorni, ma essi vanno calcolati avendo riguardo unicamente alla data di notifica
dell’impugnazione principale, anche se la scadenza dei sessanta giorni dovesse cadere dopo la consumazione del termine
lungo di un anno dalla pubblicazione della sentenza (ad. plen. n. 24/2011). Viene chiarito che anche con l’impugnazione
incidentale tardiva possono pure essere impugnati capi autonomi della sentenza; se l’impugnazione principale è dichiarata
inammissibile, l’impugnazione incidentale perde ogni efficacia.
Circa l’intervento, l’art. 97 dispone che può intervenire nel giudizio di impugnazione, con atto notificato a tutte le parti, chi vi
ha interesse.
L’impugnazione non ha effetto sospensivo, sicché il codice si occupa in generale dei poteri cautelari: il giudice
dell’impugnazione può, su istanza di parte, valutati i motivi proposti e qualora dall’esecuzione possa derivare un danno grave
e irreparabile, disporre la sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata, nonché le altre opportune misure cautelari,
con ordinanza pronunciata in camera di consiglio.
17.1. L’appello
Ai sensi dell’art. 100, c.p.c. contro le sentenze dei tribunali amministrativi è ammesso “appello al Consiglio di Stato, ferma
restando la competenza del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana per gli appelli proposti contro le
sentenze del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia”. L’appello è un mezzo di gravame di tipo rinnovatorio, nel
senso che la censura della sentenza di primo grado in linea di principio è lo strumento per ottenere un riesame della stessa lite.
In alcune ipotesi, tuttavia, l’appello si configura come rimedio eliminatorio (o cassatorio), finalizzato all’eliminazione della
decisione di primo grado in vista di una nuova decisione. Oggi, circa la questione dell’oggetto dell’appello, prevale la tesi
secondo cui l’oggetto immediato dell’appello sia la sentenza, sicché l’appello non è mai un rimedio esclusivamente
rinnovatorio, in quando necessita di un momento eliminatorio. In linea di principio, guardando al problema dal punto di vista
delle parti, è evidente che l’appellante che sia l’originario ricorrente risultato soccombente in primo grado sostanzialmente
riproporrà in appello la stessa critica delineata dinanzi al Tar, laddove l’appellante originariamente controinteressato
(soccombente) in primo grado rivolgerà la propria critica alla decisione.
Le decisioni che possono essere appellate, stando a una interpretazione letterale della norma, sembrano solo le sentenze. Il
codice però ammette l’appellabilità dell’ordinanza con cui si decide sulla domanda cautelare; sono poi appellabili le sentenze
parziali e alcune di quelle adottate dal Tar a conclusione del giudizio di ottemperanza. L’art. 103, c.p.a., stabilisce che contro
le sentenze non definitive è proponibile l’appello immediato ovvero la riserva di appello, con atto notificato entro il termine
per l’appello e depositato nei successivi trenta giorni presso la segreteria del tribunale amministrativo regionale.
17.2. La legittimazione ad appellare e le altre parti in giudizio
Ai sensi dell’art. 102, c.p.a., possono proporre appello le parti “formali” fra le quali è stata pronunciata la sentenza di primo
grado. In passato era ammesso l’appello della parte sostanziale non presente in primo grado (controinteressato pretermesso).
Cons. Stato, sez. IV, n. 2768/2011, ha confermato che la legittimazione ad appellare spetta anche ai controinteressati che
avrebbero la possibilità di esperire il rimedio dell’opposizione di terzo. Un’altra questione attiene alla spontanea esecuzione
della sentenza: essa non è comportamento che escluda la possibilità di impugnare.
L’appello è proposto in primo luogo dalla parte privata soccombente e, cioè, dal soggetto nei cui confronti si è prodotto un
effetto sfavorevole come conseguenza della sentenza. La norma fa riferimento alle parti fra le quali è stata pronunciata la
sentenza. Soffermiamoci su due di esse. L’interveniente nel giudizio di primo grado può proporre appello soltanto se titolare
di una posizione giuridica autonoma e non di un mero interesse di fatto (art. 102.2, c.p.a); per quanto riguarda
l’amministrazione statale soccombente, va ricordato che, secondo la giurisprudenza, l’avvocatura dello Stato può proporre
appello senza necessità che l’amministrazione esprima la volontà di proseguire il giudizio.
In materia di intervento in appello, di rilievo è la disciplina in forza della quale il soggetto titolare a proporre opposizione di
terzo avverso una sentenza di primo grado deve intervenire, in qualità di litisconsorte necessario, nel giudizio di appello.
17.3. Effetto devolutivo e ius novorum
L’appello è tradizionalmente definito come un rimedio caratterizzato dall’effetto devolutivo: nel giudizio di secondo grado
riemergerebbe infatti automaticamente tutto il materiale di cognizione introdotto in primo grado, nel senso che il giudice di
appello può riesaminare pienamente domande, eccezioni, deduzioni e difese in relazione alle quali ha pronunciato il tribunale
amministrativo. Ciò beninteso, nei limiti dei capi di sentenza investiti dall’impugnativa dell’appellante con specifiche censure:
infatti, nell’appello vige pur sempre il principio dispositivo, sicché le parti possono sottrarre alla cognizione del giudice
d’appello uno o più punti della controversia. Ai fini dell’appello, in giurisprudenza prevale la tendenza a considerare capo di
sentenza ogni decisione su qualsiasi questione sollevata dalle parti o rilevata d’ufficio, così determinando un frazionamento
della sentenza (e delle potenziali impugnazioni).
Tornando all’effetto devolutivo, va aggiunto che il giudice d’appello può comunque rilevare d’ufficio il difetto di
contraddittorio: esso non può infatti astenersi dal verificare se vi è questa condizione minima in presenza della quale può
giudicare. Per le altre questioni rilevabili d’ufficio in primo grado, si ritiene esse siano rilevabili d’ufficio pure in appello solo
se non siano state espressamente affrontate dal giudice di primo grado. La questione di giurisdizione non è rilevabile d’ufficio
in appello (art. 9 c.p.a.).
Occorre tener conto che il codice impone una peculiare formalità per riproporre domande ed eccezioni. Ai sensi dell’art. 101,
c.p.a., si intendono rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo
grado, che non siano state espressamente riproposte nell’atto di appello o, per le parti diverse dall’appellante, con memoria
depositata a pena di decadenza entro il termine per la costituzione in giudizio (sessanta giorni dalla notificazione
dell’appello). Poiché la norma si riferisce solo alle eccezioni non esaminate, quelle respinte possono essere riproposte dalla
parte diversa dall’appellante soltanto con appello incidentale. In ogni caso, il materiale che riemerge automaticamente è
abbastanza ridotto.
- Per quanto riguarda l’appellante già ricorrente in primo grado, l’effetto devolutivo opera in modo ristretto: tale
soggetto deve riproporre al giudice le questioni già giudicate (e non accolte) in primo grado su cui richiede una nuova
pronunzia e può proporre ragioni di doglianza aventi ad oggetto la sentenza impugnata; egli può invece astenersi dal
riproporre le questioni rilevabili d’ufficio nei limiti sopra descritti.
- L’appellante già resistente in primo grado, mediante l’atto di appello può formulare nei confronti della decisione di
primo grado tutte le censure che ritenga utili e può proporre tutte le deduzioni e le eccezioni prospettate in primo
grado; quelle invece non riproposte con l’atto di appello si intendono rinunciate.
- L’appellato già ricorrente, vittorioso in primo grado, vede rivivere tutti i motivi di ricorso accolti in primo grado.
Per quanto riguarda i motivi rimasti assorbiti o non decisi nella sentenza di primo grado che abbia accolto il ricorso,
alla stregua dell’art. 101, c.p.a., dovrà riproporli con memoria depositata a pena di decadenza entro il termine per la
costituzione in giudizio.
- L’appellato già resistente, vittorioso in primo grado, può proporre in appello tutte le deduzioni proposte o proponibili
in primo grado: in relazione alle eccezioni proposte in primo grado e ivi respinte, è necessario l’impiego dell’appello
incidentale. Domande o eccezioni rimaste assorbite o non decise nella sentenza di primo grado dovranno essere
riproposte con memoria depositata a pena di decadenza entro il termine per la costituzione in giudizio.
L’art. 104, c.p.a. segue il modello della chiusura ai nova, disponendo che nel giudizio di appello non possono essere proposte
nuove domande, né nuove eccezioni non rilevabili d’ufficio. Una soluzione diversa, d’altro canto, frusterebbe il termine di
decadenza. Possono essere chiesti gli interessi e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento
dei danni subiti dopo la sentenza stessa; circa le questioni rilevabili d’ufficio, mentre per la parte c’è il divieto dei nova, il
giudice non incontra questo limite.
Possono poi essere proposti motivi aggiunti, allorché soltanto in appello la parte venga ad avere la conoscenza di documenti
non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado da cui emergano vizi degli atti o provvedimenti amministrativi
impugnati. La disposizione sui motivi aggiunti presuppone che la parte conosca in appello documenti non prodotti in primo
grado.
Circa il regime probatorio, l’art. 104.2 c.p.a., stabilisce che non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere
prodotti nuovi documenti. Il giudizio d’appello, cioè, si deve svolgere sulla base del materiale istruttorio formato in primo
grado. Vengono però introdotte due eccezioni per spiegare la regola della proponibilità dei motivi aggiunti suscitati dalle
nuove prove: sono ammessi nuovi documenti e mezzi ove il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della
causa, ovvero qualora la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa
non imputabile.
17.4. L’instaurazione del giudizio
Il processo di appello si introduce con la notificazione del ricorso. A tale atto si applica la stessa disciplina prevista per il
ricorso di primo grado: il petitum è però costituito dalla richiesta di annullamento della sentenza di primo grado; occorre
inoltre specificare la sentenza oggetto di appello. Il carattere impugnatorio dell’appello è confermato dalla necessità di
indicare i capi della sentenza impugnati e le specifiche censure: questa indicazione, tra l’altro, confermerebbe la tesi secondo
cui l’appello non sia tanto un riesame della stessa questione trattata dal Tar, quanto necessariamente una critica della
sentenza di primo grado. Secondo l’art. 101 il ricorso in appello deve contenere l’indicazione del ricorrente, del difensore,
delle parti nei confronti delle quali è proposta l’impugnazione, della sentenza che si impugna, nonché l’esposizione sommaria
dei fatti, le specifiche censure contro i capi della sentenza gravata, le conclusioni, la sottoscrizione del ricorrente se sta in
giudizio personalmente oppure del difensore. La procura non è richiesta per l’avvocatura dello Stato.
Il ricorso va notificato alle controparti nel termine perentorio di sessanta giorni decorrenti dalla notificazione della sentenza
(termine breve) ovvero, entro sei mesi (termine lungo). Se durante la decorrenza del termine per l’impugnazione si verifica
la morte o la perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti, il termine è interrotto e il nuovo termine decorre dal
giorno in cui la notificazione è rinnovata (art. 328 c.p.c.). Circa il luogo di notifica, s’è detto più sopra.
Il ricorso notificato deve essere depositato nella segreteria del giudice adito, a pena di decadenza, entro trenta giorni
dall’ultima notificazione, unitamente ad una copia della sentenza impugnata e alla prova delle eseguite notificazioni.
Le parti intimate possono costituirsi osservando la disciplina in ordine al giudizio di primo grado. Il termine di costituzione
per la parte intimata (sessanta giorni dalla notificazione dell’appello principale) non è perentorio; tuttavia, si ricordi che a pena
di decadenza entro il termine per la costituzione in giudizio (sessanta giorni dalla notificazione dell’appello) le parti diverse
dall’appellante devono riproporre con memoria le domande e le eccezioni assorbite o non esaminate.
17.5. Lo svolgimento e la conclusione del giudizio di secondo grado
In forza del rinvio interno di cui all’art. 38, c.p.a., il giudizio d’appello, dopo la fase introduttiva, prosegue come nel giudizio
di primo grado: il giudice dispone eventualmente l’integrazione del contraddittorio; occorre la presentazione della domanda di
fissazione di udienza; possono essere presentate memorie e, nei limiti già indicati, documenti.
Nei giudizi di appello contro i provvedimenti dei tribunali amministrativi regionali che hanno declinato la giurisdizione o la
competenza si segue il procedimento in camera di consiglio (art. 105.2, c.p.a.).
In ossequio al principio devolutivo, in appello il giudice dispone degli stessi poteri di quello di primo grado, i quali vanno
definiti anche in ragione del tipo di giurisdizione (di legittimità, di merito, esclusiva). Le sentenze adottate in secondo grado
dal Consiglio di Stato, in linea di principio, possono essere classificate secondo criteri analoghi a quelli adottati per le sentenze
del Tar: decisioni definitive e non definitive, sulla domanda o processuali, d’accoglimento e di rigetto.
La regola generale è quella secondo cui la controversia è decisa in appello: tale regola corrisponde al carattere rinnovatorio
dell’appello medesimo; con la sentenza che scende al merito o che affronta una questione di rito il giudice d’appello decide la
causa, riesaminando la lite e sostituendo la decisione “ingiusta” emanata in primo grado.
L’art. 105, c. p.a. prevede poi la possibilità eccezionale di rimettere la causa al giudice di primo grado. Questa eventualità è
limitata soltanto ad alcuni casi tassativi, che derogano al principio secondo cui l’appello è un rimedio rinnovatorio, ispirandosi
invece a quello del doppio grado di giudizio. I casi sono i seguenti: mancanza del contraddittorio, lesione del diritto di difesa
di una delle parti, nullità della sentenza. A queste ipotesi, legate all’invalidità del giudizio di primo grado, il codice accosta
quella in cui il Consiglio di Stato riforma la sentenza con cui il giudice di primo grado ha declinato la giurisdizione o ha
pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l’estinzione o la perenzione del giudizio (qui, il Cons. di Stato riconosce che il
Tar avrebbe dovuto decidere e, invece, non l’ha fatto).
In caso di rinvio le parti devono assumere l’iniziativa e riassumere il processo con ricorso notificato nel termine perentorio di
novanta giorni dalla notificazione o, se anteriore, dalla comunicazione della sentenza o dell’ordinanza.
La decisione del Consiglio di Stato è soggetta a revocazione e a ricorso per Cassazione e a opposizione di terzo, entro però
alcuni limiti.
18. La revocazione
La revocazione è un’impugnativa a critica limitata volta a ottenere in via non immediata la rinnovazione del giudizio, che
avverrà solo nella fase rescissoria: in via diretta essa è infatti finalizzata all’eliminazione della sentenza. Le varie ipotesi di
revocazione sono contemplate dall’art. 395 c.p.c., ai sensi del quale le sentenze sono impugnabili per revocazione nei seguenti
casi:
1) se sono l’effetto del dolo di una delle due parti a danno dell’altra;
2) se il giudice ha giudicato in base a prove riconosciute o comunque dichiarate false dopo la sentenza, oppure che la
parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della sentenza;
3) se dopo la sentenza sono stati trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio
per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario;
4) se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti di causa. Vi è questo errore quando la
decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è
supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita; esso è configurabile anche quando cada
sull’esistenza o sul contenuto di atti processuali e determini un’omissione di pronuncia, purché sia identificabile
attraverso la motivazione della sentenza;
5) se la sentenza è contraria ad altra precedente, avente fra le parti autorità di cosa giudicata, purché non abbia
pronunciato sulla relativa eccezione (ad. plen. n. 1/2017: occorre in particolare identità di soggetti e di oggetto);
6) se la sentenza è effetto del dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato.
I casi di cui ai nn. 4 e 5 danno luogo alla c.d. revocazione ordinaria, caratterizzata dal fatto che il vizio è rilevabile
direttamente dalla sentenza (c.d. vizi palesi) e che il mezzo di impugnazione è esperibile avverso sentenze non ancora passate
in giudicato.
L’art. 396 c.p.c. si occupa della revocazione delle sentenze per le quali sia scaduto il termine per appellare, limitandola però ai
soli casi disciplinati dai nn. l, 2, 3 e 6 dell’art. 395 c.p.c. (revocazione straordinaria; il vizio revocatorio non è in tali ipotesi
rilevabile direttamente dalla sentenza: c.d. vizio occulto). Il termine per impugnare decorre dal momento in cui è stato
scoperto il fatto o la circostanza su cui si fonda il vizio revocatorio.
Nel codice del processo amministrativo l’istituto è disciplinato dall’art. 106, c.p.a: la norma afferma che le sentenze dei
tribunali amministrativi regionali e del Consiglio di Stato sono impugnabili per revocazione, nei casi e nei modi previsti dagli
articoli 395 e 396 c.p.c. In applicazione del principio della prevalenza dell’appello, il c.3 precisa che contro le sentenze dei Tar
la revocazione è ammessa solo se i motivi non possono essere dedotti con l’appello. Il codice ha usato una formula che,
letteralmente intesa, non esprime in modo chiaro quella che forse era la volontà del legislatore delegato e, cioè, l’idea secondo
cui, nei confronti delle sentenze del Tar, la revocazione è ammessa solo nei casi in cui i motivi non sono suscettibili di
confluire nell’appello perché i termini sono scaduti, sicché vi è spazio soltanto per la revocazione straordinaria; è questa,
comunque, tra le varie interpretazioni possibili della formula “non possono essere dedotti con l’appello”, quella da ritenere
corretta in aderenza allo spirito dell’art. 396 c.p.c; di conseguenza, se i vizi revocatori straordinari sono scoperti durante la
pendenza del termine per appellare, i motivi revocatori si tramutano in motivi di appello.
La norma del c.p.a. avrebbe l’ulteriore significato di stabilire che, ove i fatti e le circostanze che fondano il vizio revocatorio
ordinario si manifestino durante il corso del termine per l’appello, il vizio stesso si deve tramutare in motivo di appello. Nei
confronti delle sentenze del Consiglio di Stato, invece, può proporsi la revocazione per tutti i vizi revocatori ex art. 395 c.p.c.
Tornando alla revocazione in generale, il rimedio è proponibile con ricorso dinanzi allo stesso giudice che ha pronunciato la
sentenza impugnata. Il termine di impugnazione è di sessanta giorni (art. 92, c.p.a.), decorrenti, in caso di revocazione
ordinaria, dalla notifica della sentenza; nelle ipotesi di revocazione straordinaria, invece, il termine decorre dal giorno in
cui è stato scoperto il dolo o la falsità o è stato recuperato il documento o è passata in giudicato la sentenza di cui al numero 6
dell’art. 395, c.p.c. In difetto della notificazione della sentenza, la revocazione ordinaria deve essere notificata entro sei mesi
dalla pubblicazione della sentenza (termine lungo).
Secondo quanto dispone l’art. 94, c.p.a., il ricorso deve essere depositato nella segreteria del giudice adito, a pena di
decadenza, entro trenta giorni dall’ultima notificazione ai sensi dell’articolo 45, unitamente ad una copia della sentenza
impugnata e alla prova delle eseguite notificazioni.
Il giudice accerta la sussistenza dei presupposti di ammissibilità della revocazione e, solo se questa fase rescindente abbia
avuto esito positivo, passa al giudizio rescissorio, il quale attiene al riesame del ricorso nel merito. Il ricorso deve contenere
sia la domanda volta ad eliminare la sentenza (richiesta di revocazione), sia quella relativa alla rinnovazione del giudizio sulla
controversia.
Contro la sentenza emessa nel giudizio di revocazione sono ammessi i mezzi di impugnazione ai quali era originariamente
soggetta la sentenza impugnata per revocazione. La sentenza emessa nel giudizio di revocazione, però, non può essere
impugnata per revocazione.
19. Il ricorso per Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione
Il ricorso alle Sezioni unite della Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione avverso la decisione del Consiglio di Stato è
previsto dagli artt. 110-111, c.p.a. Può essere impugnata per Cassazione unicamente una sentenza del Consiglio di Stato che
statuisca espressamente sulla giurisdizione a seguito di specifica contestazione. Il ricorso va proposto entro sessanta giorni
dalla notificazione della sentenza impugnata ovvero entro sei mesi dalla sua pubblicazione (art. 92, c.p.a). La procedura è
disciplinata dagli artt. 365 e ss., c.p.c.
La Cassazione, ove accolga il ricorso: a) cassa la decisione impugnata se nega la sussistenza di giurisdizione; b) cassa con
rinvio se afferma la giurisdizione negata dal giudice amministrativo; a ciò segue la possibile riassunzione del processo entro
tre mesi dalla pubblicazione della decisione (art. 11 c.p.a.).
Onde impedire l’esecuzione della sentenza impugnata, la parte interessata ha a disposizione lo strumento delineato dall’art.
111, c.p.a, ai sensi del quale il Consiglio di Stato medesimo, in caso di eccezionale gravità ed urgenza, può sospendere gli
effetti della sentenza impugnata e disporre le altre opportune misure cautelari.
20. L’opposizione di terzo
L’opposizione di terzo, che era già stata introdotta nel processo amministrativo a seguito della sentenza Corte cost. n.
177/1995, è ora disciplinata dagli artt. 108-109 c.p.a. La legittimazione in quella ordinaria spetta al terzo, che può fare
opposizione contro una sentenza del Tar o del Consiglio di Stato pronunciata tra altri soggetti, ancorché passata in giudicato,
quando pregiudica i suoi diritti ovvero i suoi interessi legittimi. Il rimedio era stato invocato in passato per offrire tutela al
controinteressato pretermesso, quando l’assenza dal processo non sia dipesa da una sua decisione (Cons. Stato, sez. IV, n.
482/2012); questo soggetto è oggi sicuramente legittimato attivo alla proposizione dell’opposizione ordinaria. Terzo può
essere anche il controinteressato sostanziale, parte non formale. Legittimato potrebbe essere anche un controinteressato
sopravvenuto.
È pure ammessa l’opposizione revocatoria: ai sensi del c.2 dell’art. l08, infatti, gli aventi causa e i creditori di una delle parti
possono fare opposizione alla sentenza, quando questa sia effetto di dolo o collusione a loro danno. Decisioni opponibili con il
rimedio di cui all’art. l08, c.1, c.p.a. (opposizione ordinaria) sono le sentenze, ancorché passate in giudicato.
La competenza è disciplinata dall’art. 109, c.p.a.: l’opposizione di terzo è proposta davanti al giudice che ha pronunciato la
sentenza impugnata, ma, in applicazione del principio della prevalenza dell’appello, una regola specifica è dettata con
riferimento alle sentenze di primo grado. Qualora contro di essa sia già stato proposto appello, bisogna distinguere: se
l’opposizione di terzo non è stata ancora proposta, il terzo deve introdurre la domanda intervenendo nel giudizio di appello; se,
invece, l’opposizione di terzo è già stata proposta al giudice di primo grado, questo la dichiara improcedibile e, se l’opponente
non vi ha ancora provveduto, fissa un termine per l’intervento nel giudizio di appello. Il terzo diventa dunque interventore-
litisconsorte autonomo in appello.
Data la norma, di cui all’art. 92 c.p.a., l’opposizione ordinaria si propone con ricorso notificato entro il termine perentorio di
sessanta giorni decorrenti dalla notificazione della sentenza; il ricorso deve essere depositato nella segreteria del giudice
adito, a pena di decadenza, entro trenta giorni dall’ultima notificazione ai sensi dell’art. 45 c.p.a., unitamente ad una copia
della sentenza impugnata e alla prova delle eseguite notificazioni. Per l’opposizione revocatoria, invece, il termine di sessanta
giorni decorre dal giorno in cui è stato scoperto il dolo o la collusione. Per entrambi le figure, non è previsto il termine lungo.
21. Il giudicato amministrativo e la sua esecuzione
Il giudicato è la decisione contenuta in una sentenza divenuta immutabile. Anche le sentenze del tribunale amministrativo e
quelle del Consiglio di Stato, a seguito dell’esaurimento dei mezzi di gravame ordinari, ovvero della decadenza dagli stessi,
acquistano efficacia di cosa giudicata. La dottrina distingue tra giudicato in senso sostanziale e giudicato in senso formale:
• il giudicato in senso sostanziale indica il valore del giudicato come regolamento del rapporto sostanziale: secondo il
disposto dell’art. 2909 c.c., l’accertamento che regola il rapporto sostanziale fa stato tra le parti e i loro aventi causa;
• il giudicato in senso formale (art. 324 c.p.c.), invece, esprime il valore del giudicato consistente nella chiusura del
giudizio, implicando l’irripetibilità della controversia, ed è legato al fatto che non sono più esperibili mezzi di
impugnazione ordinari. Il giudicato sostanziale presuppone comunque quello formale.
Secondo la giurisprudenza il giudicato amministrativo è intangibile dalla legge sopravvenuta retroattiva che entri in conflitto
con il contenuto dell’accertamento.
Si distingue anche tra giudicato come effetto negativo e giudicato come effetto positivo. In particolare: in base al primo profilo
rimane precluso qualsiasi nuovo giudizio con il quale si voglia riproporre la stessa questione decisa dalla sentenza passata in
giudicato; mediante il secondo profilo, si pone in luce che, in ogni successivo giudizio avente diverso oggetto, il giudice è
vincolato al punto deciso con la sentenza che ha acquistato autorità di giudicato. La cosa giudicata è incontrovertibile, fatti
salvi i casi eccezionali in cui possono essere esperiti mezzi di impugnazione straordinari (revocazione straordinaria,
opposizione di terzo) per superare il giudicato stesso.
A seconda del tipo di accezione di giudicato cui si ritenga di aderire muta la soluzione al problema dell’individuazione del tipo
di decisioni che possono passare in giudicato. Ritenendo il giudicato caratterizzato dall’effetto preclusivo, anche le sentenze
processuali potrebbero essere considerate decisioni assistite da autorità di giudicato, proprio perché questo non
presupporrebbe l’incidenza sul rapporto sostanziale. Ponendo invece in correlazione il giudicato con la decisione su di un bene
della vita (mediante la quale il giudice fa applicazione di legge sostanziale), la conclusione potrebbe essere differente,
negando cioè che passino in giudicato sentenze prive di efficacia extraprocessuale.
In linea di massima tra le pronunce del giudice amministrativo solo le sentenze possono passare in giudicato e neppure tutte:
sono infatti suscettibili di acquistare l’autorità di cosa giudicata soltanto le sentenze di merito di accoglimento. Non coperti da
giudicato sono poi i motivi assorbiti, i quali non sono investiti dalla decisione. Si parla talora di giudicato implicito, che
esclude la possibilità di un esame d’ufficio in sede di impugnazione della questione la cui soluzione è da esso coperta: esso
investirebbe le questioni riguardanti il rito la cui soluzione non emerge esplicitamente dal dispositivo nella sentenza, sempre
che esse rappresentino il presupposto logico necessario della decisione espressa. Ad esempio, dalla pronuncia espressa sul
merito si deduce il giudicato implicito sulla giurisdizione.
Il giudicato non si estende agli obiter dicta e, cioè, alle pronunce e alle argomentazioni del giudice contenute nella sentenza,
ma estranee alla materia del contendere. Anche le sentenze processuali, le quali esauriscono il loro effetto nell’ambito del
processo, non sono suscettibili di acquistare autorità di giudicato. Non passano infine in giudicato le sentenze sulle questioni
(estranee all’oggetto del processo) preliminari di rito e sulle altre questioni pregiudiziali decise incidenter tantum.
21.1. Oggetto e limiti del giudicato amministrativo
In tema di limiti oggettivi del giudicato, va osservato che gli effetti della sentenza non possono che riguardare l’atto oggetto
di impugnativa: si tende peraltro a ritenere ammissibile che l’annullamento di un atto presupposto determini l’automatica
caducazione degli atti consequenziali (Cons. Stato, sez. V, n. 5217/2010).
Quanto ai limiti soggettivi del giudicato, la sentenza ha valore di giudicato solo per le parti (art. 2909 c.c.).
L’amministrazione ha però la facoltà di estendere il giudicato agli estranei al giudizio che si trovino in una posizione analoga a
quella del ricorrente (Cons. Stato, sez. IV, n. 2754/2004), scelta che può comportare in alcuni casi anche conseguenze
economiche assai onerose per le casse pubbliche. Si riconosce poi generalmente che la sentenza produca effetti anche nei
confronti dei destinatari dell’atto impugnato che non abbiano partecipato al processo allorché si tratti di atti indivisibili,
ovvero di atti amministrativi generali e di regolamenti. In questi casi, peraltro, non si tratta di efficacia erga omnes del
giudicato e una volta eliminato l’atto, non possono sopravvivere le situazioni che si basavano sulla sua efficacia. Le situazioni
giuridiche, infatti, non possono avere una forza superiore a quella dell’atto amministrativo che le costituisce e, quindi, non
sono in grado di sopravvivere al venir meno della sua efficacia. In altri termini, i terzi risentono certamente degli effetti della
sentenza, ma rimangono terzi, né ad essi si estende il giudicato, la cui autorità è limitata alle parti, nonché ai loro eredi e aventi
causa. Di conseguenza, il giudicato stesso non è apponibile ai terzi.
21.2. Il giudizio di ottemperanza
L’amministrazione ha l’obbligo di conformarsi al giudicato e, più in generale alle sentenze esecutive, anche quelle di primo
grado. Non tutte le sentenze necessitano di attività esecutiva dell’amministrazione: si pensi all’annullamento di un atto di
annullamento d’ufficio. In tal caso, la sentenza si dice autoapplicativa, atteso che il semplice effetto demolitorio è
immediatamente satisfattivo, in quanto in grado di reintegrare la posizione del privato originariamente lesa. In tutte le altre
ipotesi caratterizzate dalla sussistenza del dovere di agire, l’amministrazione deve conformarsi agli effetti della sentenza
divenuti incontrovertibili, mutando la realtà giuridica o quella materiale alla stregua di quanto deciso. In particolare,
nell’ipotesi di annullamento del provvedimento, il soggetto pubblico è tenuto ad osservare il vincolo conformativo scaturente
dal giudicato. In sostanza, l’amministrazione deve: osservare la regola di diritto stabilita dalla sentenza, la quale ha fissato nel
caso concreto il significato da attribuire alle norme di azione la cui violazione sia stata censurata in giudizio; porre in essere i
necessari atti di natura attuativa della sentenza (ad es. la ricostruzione della carriera dell’impiegato illegittimamente
licenziato); può anche trattarsi di attività concrete, quali la rimozione degli effetti di ordine materiale prodotti a seguito
dell’atto poi annullato.
Nelle situazioni in esame, l’attività posta in essere dall’amministrazione costituisce come detto la “conformazione” al
giudicato e, cioè, il modo di attuazione di esso. Qualora l’amministrazione non ottemperi alla statuizione, è data la possibilità
per l’interessato di esercitare l’azione per l’ottemperanza, che il codice disciplina nel libro IV, agli artt. 112 e ss. L’azione di
ottemperanza può essere proposta per conseguire l’attuazione:
1. delle sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato
2. delle sentenze esecutive (l’art. 34.1, lett. e, chiarisce che deve trattarsi di sentenze non sospese) e degli altri
provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo; tra questi ultimi, va segnalata la decisione sul ricorso
straordinario: Cass., sez. un., n.2065/2011, nonché Cons. Stato, ad. plen., n. 18/2012 e n. 9/2013; le sentenze non sospese
sono quelle non ancora impugnate, quelle per cui non sia stata chiesta o ancora decisa la sospensione e quelle la cui
sospensione sia stata negata.
3. delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti a esse equiparati del giudice ordinario, al fine di ottenere
l’adempimento dell’obbligo della PA di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato; il rimedio fu
introdotto con l’istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato per l’adempimento dell’obbligo dell’amministrazione di
conformarsi al giudicato del giudice ordinario che avesse dichiarato illegittimo un atto che non poteva rimuovere. In
seguito il rimedio è stato esteso dalla giurisprudenza anche alle sentenze di condanna. Il ricorso è particolarmente utile
quando occorra rimuovere atti amministrativi oppure ovviare a omissioni che ostacolino l’esecuzione. In ogni caso, per
quanto attiene alla sentenza del giudice ordinario si richiede il giudicato, mentre per quelle del giudice amministrativo è
ammessa l’ottemperanza anche delle sentenze esecutive di primo grado. Secondo la giurisprudenza maggioritaria, anche
nel caso dell’ottemperanza, ai sensi dell’art. 14 d.l. 669/1996, occorre rispettare il termine dilatorio di 120 giorni,
decorrenti dalla notificazione del titolo esecutivo, per la proposizione dell’azione.
4. delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti a esse equiparati per i quali non sia previsto il rimedio
dell’ottemperanza, al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della PA di conformarsi alla decisione. La
giurisprudenza, in passato, già aveva esteso il rimedio ai giudicati dei giudici amministrativi speciali (ad esempio
sentenze dei tribunali delle acque). Il giudizio per l’ottemperanza delle sentenze delle commissioni tributarie, invece, può
essere esperito soltanto dinanzi alle commissioni medesime;
5. dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della pubblica
amministrazione di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato. Vi è dunque una riserva a favore del
giudice amministrativo in ordine all’adempimento dei lodi, purché abbiano il carattere dell’inoppugnabilità.
Va ribadito che il ricorso può essere proposto qualora una sentenza necessiti di attuazione e non già a fronte di sentenze auto
applicative. Ai sensi dell’u.c. dell’art. 112, c.p.a., il ricorso può essere proposto anche al fine di ottenere chiarimenti in ordine
alle modalità di ottemperanza. In ordine alle sentenze con cui si dispone il risarcimento dei danni, infine, va ricordato che
l’art. 34, c.p.a., in caso di condanna pecuniaria, in mancanza di opposizione delle parti, consente al giudice di stabilire i criteri
in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine: se le
parti non giungono ad un accordo, possono essere chiesti la determinazione della somma dovuta ovvero l’adempimento degli
obblighi ineseguiti.
21.3. Natura e presupposti del giudizio di ottemperanza
L’obbligo di eseguire le decisioni sorge direttamente dalle medesime, secondo quanto stabilisce l’art.88, c.p.a.. nel processo
amministrativo di ottemperanza vi è l’esistenza di un momento cognitorio, diretto a verificare la sussistenza dei presupposti
per l’intervento del giudice (in particolare l’inadempimento).
Per comprendere i caratteri attuali del giudizio di ottemperanza occorre considerare tre aspetti.
In primo luogo, sussiste la possibilità di introdurre domande risarcitorie in sede di ottemperanza; ai sensi dell’art. 112.3,
“può essere proposta, anche in unico grado dinanzi al giudice dell’ottemperanza, azione di condanna al pagamento di somme a
titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza, nonché azione di risarcimento dei
danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla
sua violazione o elusione”.
In secondo luogo, il giudizio può essere attivato pure per chiedere chiarimenti sulle modalità di adempimento. Si tratta di uno
strumento che potrebbe rivelarsi assai utile per l’amministrazione chiamata a porre in essere attività esecutive, atto però ad
attenuare, nel giudizio di ottemperanza, il profilo dell’esecuzione di una statuizione già predefinita, facendo invece emergere
una funzione diversa, legata alla progressiva determinazione dei contenuti del vincolo.
In terzo luogo, è di segno completamente opposto lo sforzo, profuso dal codice, volto a operare una sorta di rilevante
anticipazione nella fase cognitoria di un momento legato all’ottemperanza: ai sensi dell’art. 34, c.p.a., in sede di cognizione il
giudice può nominare il commissario ad acta per il caso in cui la sentenza non venga attuata entro un termine stabilito dal
giudice. Questo potere, infatti, dovrebbe accentuare il carattere solo esecutivo del giudizio di ottemperanza.
Il ricorso di ottemperanza costituisce l’ipotesi più importante di giurisdizione di merito: il giudice può infatti sostituirsi
all’amministrazione nell’esercizio dei poteri amministrativi. I presupposti del giudizio di ottemperanza sono:
− sussistenza di una decisione non autoapplicativa ricompresa nell’elenco di cui all’art. 112, c.p.a.;
− necessità di dare attuazione alla pronuncia, in caso d’inadempimento o parziale adempimento a opera
dell’amministrazione o di altra parte soccombente.
Il ricorso per l’ottemperanza previsto dall’art. 34.4, c.p.a. ha quale presupposto il mancato raggiungimento dell’accordo sulla
somma dovuta dal debitore al creditore a titolo di risarcimento del danno, ovvero l’inadempimento degli obblighi derivanti
dall’accordo medesimo. Il presupposto dell’inadempimento manca ove si adisca il giudice per ottenere chiarimenti sulle
modalità di esecuzione della sentenza.
L’amministrazione non può legittimamente rifiutare di conformarsi alla pronuncia: la situazione normativa da prendere in
considerazione è quella del momento in cui la sentenza viene notificata.
Invero, guardando al momento successivo alla notifica, occorre meglio distinguere tra sopravvenienze di fatto che rendono
impossibile l’esecuzione della sentenza e l’integrale rispristino dello status quo ante e sopravvenienze di diritto. A
quest’ultimo riguardo, alcune sentenze limitano l’irrilevanza della legge sopravvenuta alle situazioni giuridiche istantanee,
ammettendo invece un’incisione su quelle durevoli nel tratto che si svolge successivamente al giudicato. In relazione alle
situazioni durevoli, la giurisprudenza dà rilievo alle sopravvenienze successive alla notificazione solo ove la statuizione
giurisdizionale non abbia pienamente vincolato la successiva attività amministrativa, lasciando spazi liberi che la normativa
sopravvenuta può integrare. Ad. plen. n. 11/2016 ha, tuttavia, statuito che il giudicato non può incidere su quei tratti di attività
lasciati impregiudicati dalla stessa statuizione.
In ogni caso, nell’ipotesi di annullamento del provvedimento che apra la via della riedizione del potere, l’amministrazione
deve: a) osservare la regola di diritto stabilita dalla sentenza; b) porre in essere i necessari atti di natura attuativa della
sentenza.
La mera esecuzione alla sentenza di primo grado comporta che il relativo atto non debba essere nuovamente impugnato dal
soccombente in primo grado che proponga appello. Di conseguenza, l’appello non è improcedibile per omessa impugnazione
dell’atto disposto in esecuzione. Ai sensi dell’art. 336 c.p.c, l’eventuale riforma in appello della sentenza (che aveva dato
ragione al ricorrente) a favore dell’appellante-originario aggiudicatario estende i propri effetti anche agli atti e ai
provvedimenti dipendenti dalla sentenza riformata e rispetto ad essa meramente esecutivi, travolgendoli (c.d. effetto
espansivo esterno della sentenza di riforma). Al di fuori dell’ambito delle statuizioni emergenti dalla sentenza, il soggetto
pubblico esercita nuovamente il potere emanando un atto che vede nella sentenza un mero antecedente. Esso, se lesivo, dee
essere autonomamente impugnato dal privato.
Con riguardo al caso in cui l’amministrazione non rispetti le statuizioni del giudice, la giurisprudenza ha ampliato il concetto
originario d’inadempimento, accostando alla semplice inerzia non solo l’adempimento parziale e incompleto, ma pure il
comportamento elusivo da cui risulti in modo inequivoco e obiettivo la volontà di sottrarsi agli obblighi scaturenti dalla
pronuncia. In questi casi, dunque, nonostante l’emanazione di un atto amministrativo, il ricorrente deve esperire il ricorso per
l’ottemperanza e non l’ordinario ricorso di legittimità.
Il criterio da seguire con riferimento agli atti successivi alla sentenza di annullamento pare il seguente: occorre proporre
l’ordinario ricorso per annullamento ove il nuovo provvedimento venga censurato per ragioni di difformità della norma; nel
caso in cui si contesti, invece, la difformità rispetto a quanto statuito nella sentenza sarà necessario esperire il ricorso per
ottemperanza.
L’art. 133, c.p.a., dispone che le questioni inerenti alla nullità dei provvedimenti amministrativi in violazione o elusione del
giudicato sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. La norma non va interpretata nel senso di
escludere la natura di giurisdizione di merito del ricorso per l’ottemperanza: ciò è confermato dall’art. 114, c.p.a. che,
disciplinando il procedimento del giudizio di ottemperanza espressamente ricomprende tra i poteri del giudice quello di
dichiarare nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del giudicato, nonché, nel caso di ottemperanza di sentenze non
passate in giudicato non sospese o di altri provvedimenti, quello di determinare le modalità esecutive. Lo stesso articolo,
introducendo il concetto di giurisdizione esclusiva, vuole completare il regime degli atti in violazione o elusione del giudicato.
Per focalizzare il discorso sul tema dell’ottemperanza, il regime sarebbe il seguente:
− l’atto in violazione di giudicato è nullo e apre la via al giudizio di ottemperanza, secondo il rito ad esso proprio;
− l’atto elusivo di giudicato è nullo; del pari, apre la via all’ottemperanza; il relativo giudizio, in questo come nel caso
precedente, si configura come giurisdizione di merito ed esclusiva;
− l’atto elusivo o in violazione di sentenze non passate in giudicato o di altri provvedimenti è inefficace e apre la via al
giudizio di ottemperanza (non ricorre invece giurisdizione esclusiva).
In tutti i casi, la contestazione può avvenire nel termine decennale di prescrizione. Rimane il problema dell’atto successivo
al giudicato illegittimo per motivi diversi dal contrasto con la statuizione giurisdizionale. L’art. 114, c.p.a. dispone che il
giudice conosce di tutte le questioni relative all’esatta ottemperanza, ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario. Per
quanto attiene agli atti assunti dal commissario, tra le parti nei cui confronti si è formato il giudicato, le relative questioni sono
conosciute dal giudice dell’ottemperanza; quando sono coinvolti terzi estranei, essi impugnano gli atti emanati dal
commissario con il rito ordinario.
La competenza (funzionale, art. 14 c.p.a.) è distribuita tra Tar e Consiglio di Stato. Per quanto riguarda l’ottemperanza delle
pronunce del giudice amministrativo è competente quello che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta; la
competenza, tuttavia, rimane del Tar anche per i suoi provvedimenti confermati in appello dal Consiglio di Stato con
motivazione che abbia lo stesso contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti di primo grado.
Il giudizio per l’adempimento dell’obbligo di conformarsi alla pronuncia si può dunque svolgere dinanzi al Consiglio di Stato
in un unico grado. Con riferimento all’ottemperanza delle sentenze del giudice ordinario, o di altri giudici, o dei lodi
arbitrali esecutivi, il codice dispone che il ricorso si propone al Tar nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha emesso
la sentenza di cui è chiesta l’ottemperanza.
21.4. Lo svolgimento del giudizio e i poteri del giudice
Il ricorso può essere proposto da coloro che furono parti nel giudizio concluso con la decisione da ottemperare. L’azione si
propone con ricorso notificato alla pubblica amministrazione e a tutte le altre parti del giudizio definito dalla sentenza o dal
lodo della cui ottemperanza si tratta: viene dunque assicurato il contraddittorio tra tutte le parti anche nella fase
dell’esecuzione. Al ricorso è allegata in copia autentica la sentenza di cui si chiede l’ottemperanza, con l’eventuale prova del
suo passaggio in giudicato. Ai sensi dell’art. 115 non è necessaria l’apposizione della formula esecutiva. Cons. Stato, ad. plen.
n. 2/2005 (o anche sez. IV, n. 5301/2008) ha statuito che il ricorso di ottemperanza può essere esperito anche nei confronti di
un soggetto privato esercente di un pubblico servizio nell’ipotesi di controversia sul diritto di accesso. L’azione si prescrive
con il decorso di dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza; la parte può agire anche senza previa diffida, sicché, nel
processo esecutivo amministrativo, la sua situazione è addirittura più favorevole rispetto a quella in cui versa il privato nel
processo civile, ove è richiesta una specifica intimazione (il precetto). In passato era invece richiesta la notifica di un atto di
messa in mora all’amministrazione (diffida ad adempiere), salvi i casi in cui l’amministrazione avesse espressamente
dichiarato di non volere eseguire la sentenza, ovvero avesse adottato l’atto dichiaratamente in esecuzione della sentenza.
Per gli aspetti della procedura non disciplinati nel titolo IV trova applicazione la normativa relativa al processo di primo
grado. Peraltro, si consideri che siamo al cospetto di un rito camerale, con termini dunque dimezzati (art. 87, c.p.a) e senza
necessità di domanda di fissazione.
Il giudice decide con sentenza in forma semplificata, ma se è chiesta l’esecuzione di un’ordinanza provvede con ordinanza;
il giudice provvede anche sulle spese ai sensi dell’art. 26, c.p.a. Ai sensi dell’art. 34.1, lett. e), c.p.a., il giudice dispone le
misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, compresa la nomina di un commissario
ad acta, con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l’ottemperanza. Più in particolare, può:
a) ordinare l’ottemperanza, prescrivendo le relative modalità, anche mediante la determinazione del contenuto del
provvedimento amministrativo o l’emanazione dello stesso in luogo dell’amministrazione;
b) dichiarare nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del giudicato;
c) nel caso di ottemperanza di sentenze non passate in giudicato o di altri provvedimenti, determinare le modalità
esecutive, considerando inefficaci gli atti emessi in violazione o elusione e provvede di conseguenza, tenendo conto
degli effetti che ne derivano;
d) nominare, ove occorra, un commissario ad acta;
e) comminare astreintes (e cioè penalità di mora) esercitando una coercizione indiretta per costringere la parte ad
adempiere, fissando, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza
successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato;
f) condannare al risarcimento del danno.
Si ricordi che il ricorso può essere anche proposto al fine di ottenere chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza; a tal
fine, il giudice provvede anche su richiesta del commissario. Il giudice conosce anche di tutte le questioni relative all’esatta
ottemperanza, nonché quelle inerenti agli atti del commissario. Da quest’ultimo punto di vista, l’art.114 prosegue chiarendo
che avverso gli atti del commissario ad acta le stesse parti, dinanzi al giudice dell’ottemperanza, possono proporre reclamo,
che è depositato, previa notifica ai controinteressati, nel termine di sessanta giorni.
La disciplina si preoccupa di non pregiudicare la posizione dei terzi, stabilendo che gli atti emanati dal giudice
dell’ottemperanza o dal suo ausiliario sono impugnabili dai terzi estranei al giudicato con l’azione di impugnazione e con rito
ordinario. La giurisprudenza (Cons. Stato, sez. VI, n. 4299/2015), con riferimento alle parti, non considera la via del reclamo
avverso tutti gli atti del commissario come facoltativa, configurandola sempre come un vero onere. In sintesi, si configura un
doppio regime di rimedi a seconda del soggetto che si dolga degli atti del commissario (reclamo per le parti, ricorso dei terzi),
con l’essenziale corollario che le parti possono unicamente utilizzare il rimedio del reclamo delle parti.
Analizziamo la figura del commissario. Intanto, è impedita la sostituzione diretta. Si ricorda, poi, che la sua nomina può essere
disposta già in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l’ottemperanza. Nell’ipotesi di
infruttuosa scadenza del termine è da ritenere che la parte debba instaurare il giudizio di ottemperanza, per la semplice
necessità di verificare in contraddittorio l’effettivo non adempimento; il vantaggio è che, una volta accertata la mancata
attuazione, il commissario può agire immediatamente, e viene evitato il passaggio della fissazione di un termine e della
nomina di un commissario in sede di ottemperanza. L’art. 21, c.p.a. qualifica espressamente tale soggetto come ausiliario: ciò
è coerente con la scelta di prevedere che il giudice dell’ottemperanza conosca anche delle questioni inerenti agli atti del
commissario, sicché la critica a tutti i suoi atti deve confluire nell’alveo del relativo giudizio.
Ai sensi dell’art. 114, c.p.a., la disciplina sul giudizio di ottemperanza trova applicazione anche nelle impugnazioni avverso i
provvedimenti giurisdizionali adottati dal giudice dell’ottemperanza, nei casi in cui si tratti di Tar. I termini per la
proposizione delle impugnazioni sono dimezzati, trattandosi di rito camerale.
Teoricamente ammissibile (ma praticamente difficile, visto che siamo in presenza di una giurisdizione di merito, dove non
sussistono limiti a protezione della sfera discrezionale dell’amministrazione, nella quale, poi, neppure rileva la
contrapposizione tra interessi e diritti) è il ricorso in Cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione; la giurisprudenza ha poi
affermato l’esperibilità dell’opposizione di terzo (Cons. Stato, sez. IV, n. 1999/2001).
22. Le peculiarità del giudizio nella giurisdizione esclusiva; in particolare: i poteri del giudice
Esaminiamo ora le peculiarità del giudizio amministrativo nei casi in cui sussiste la giurisdizione esclusiva. In questo ambito,
in primo luogo, il giudice dispone di alcuni peculiari poteri sommari, decisori e di disapplicazione, mentre i poteri istruttori
sono quelli generali analizzati a suo tempo. Si noti che Cass., sez. un., n. 4683/2015, ha affermato che nella giurisdizione
esclusiva trova applicazione l’art. 2935 c.c., sicché è esperibile l’azione di esecuzione in forma specifica. Occorre distinguere
nettamente i poteri sommari da quelli cautelari. I poteri cautelari servono a evitare che, in attesa della decisione di merito, la
situazione dell’attore venga irrimediabilmente compromessa; il loro esercizio è subordinato alla presenza del fumus boni iuris
e del periculum in mora: essi hanno dunque funzione strumentale rispetto alla decisione di merito, assicurando
provvisoriamente gli effetti attraverso una decisione destinata a essere assorbita nella pronuncia finale.
I poteri sommari, invece, sfociano nell’adozione di una pronuncia che detta una disciplina tendenzialmente definitiva della
questione. Essi mirano a ottenere in modo rapido un titolo esecutivo giusta l’idoneità del provvedimento sommario a divenire
stabile ove non sia proposta opposizione. La Corte costituzionale, con sent. n. 190/1985, ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 21, u.c., l. Tar, nella parte in cui non consentiva al giudice, nelle controversie patrimoniali in materia di
pubblico impiego, di adottare i provvedimenti di urgenza più idonei ad assicurare gli effetti della decisione sul merito, qualora
il ricorrente avesse fondato motivo di ritenere che, durante il tempo necessario per ottenere quest’ultima, il suo diritto fosse
minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile. L’art. 8.1, l. 205/2000, invece, introdusse la tutela a cognizione
sommaria.
L’art. 118, c.p.a. dispone che nelle controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, aventi ad
oggetto diritti soggettivi di natura patrimoniale, si applica il Capo I del Titolo I del Libro IV c.p.c. (sul procedimento
d’ingiunzione). Per l’ingiunzione è competente il presidente o un magistrato da egli delegato.
Le norme richiamate consentono all’interessato di attivare un procedimento alternativo rispetto a quello di cognizione piena al
fine di ottenere un’ingiunzione, se del diritto fatto valere si dà prova scritta. L’ambito di impiego del decreto ingiuntivo è
strettamente connesso alla esatta individuazione dei casi di giurisdizione esclusiva: la sent. 204/2004 della Corte Cost. pare
determinare una limitazione dell’applicazione di questi nuovi strumenti. In particolare essi sono stati previsti per la tutela di
diritti soggettivi di natura patrimoniale, in ordine ai quali oggi il giudice non ha più tendenzialmente giurisdizione.
Sotto il profilo dei poteri di decisione, il giudice può emanare sentenze di annullamento, di accertamento (in tema di diritti
soggettivi), nonché di condanna dell’amministrazione. Ai sensi dell’art. 7.5, c.p.a., nelle materie di giurisdizione esclusiva il
giudice amministrativo conosce, pure ai fini risarcitori, anche delle controversie nelle quali si faccia questione di diritti
soggettivi; l’art. 30.2 aggiunge che, nei casi di giurisdizione esclusiva, può altresì essere chiesto il risarcimento del danno da
lesione di diritti soggettivi.
Sotto il profilo del potere di disapplicazione, secondo un orientamento (Cons. Stato, sez. V, n. 154/1992 e se. VI, n.
3242/2001), il giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva può disapplicare anche d’ufficio atti amministrativi,
ancorché non impugnati. Il potere di disapplicazione è legislativamente previsto (art. 5, l. 2248/1865) soltanto a favore del
giudice ordinario. In ordine alla giurisdizione amministrativa, la limitazione del potere di disapplicazione introdotto per via
giurisprudenziale ai soli casi di giurisdizione esclusiva parrebbe il portato della trasposizione di quel modello.
Il punto di sintesi pare il seguente: la disapplicazione “provvedimentale” resta circoscritta ai casi di lesione di un diritto; la
disapplicazione degli atti normativi in contrasto con la norma primaria è poi ammessa dalla giurisprudenza maggioritaria
anche in difetto dell’impugnazione del regolamento (c.d. disapplicazione normativa).
In passato, il potere del giudice amministrativo di disapplicare d’ufficio i regolamenti nel corso del giudizio intentato contro
un provvedimento applicativo era stato negato dalla giurisprudenza al fine di evitare l’elusione dei termini perentori di
impugnazione di tali atti normativi. La questione dell’elusione dei termini è estranea alla soluzione del problema della
disapplicazione nella misura in cui essa riguardi regolamenti lesivi di diritti soggettivi, per l’impugnazione dei quali in ogni
caso non si pone un problema di decadenza. Il potere di disapplicazione potrebbe essere esteso anche ai casi di giurisdizione
di legittimità, giacché risulta indipendente dalla consistenza della situazione giuridica soggettiva fatta valere dal privato. Va
precisato che la questione non sorge se il regolamento è illegittimo perché confliggente con una normativa di rango primario
successiva: il regolamento è in tal caso da essa abrogato, sicché non si pone nessun problema di disapplicazione. Esistono due
ipotesi: quella d’impugnazione di provvedimento conforme alla legge e difforme da regolamento illegittimo e quella di
impugnazione di provvedimento conforme a regolamento illegittimo e, quindi, esso stesso illegittimo (in questo secondo caso,
anziché di disapplicazione del regolamento, si parla di invalidazione di esso.
Va infine ricordato che, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia Ce, il giudice nazionale ha riconosciuto il potere di
disapplicare provvedimenti amministrativi in contrasto con il diritto comunitario direttamente applicabile.
Una valutazione complessiva circa l’attuale riconoscimento del potere di ufficio del giudice amministrativo di disapplicare i
regolamenti illegittimi deve essere effettuata tenendo presente che nel processo può essere assente l’autorità che li ha emanati
e che la disapplicazione avviene d’ufficio, risultando così da quest’ultimo punto di vista superabile, come detto, la
delimitazione del thema decidendum operata dalla parte.
Nell’ambito della giurisdizione esclusiva, atteso che si fa questione di diritti soggettivi, è possibile la proposizione (mediante
ricorso incidentale) di un’azione riconvenzionale (art. 42, c.p.a.).
In una prospettiva di sintesi, l’attribuzione di rilevanti poteri al giudice amministrativo in relazione alle materie devolute alla
sua giurisdizione esclusiva ha caratterizzato la tendenza verso l’equiparazione del giudice amministrativo al giudice ordinario.
Oggi molti di questi poteri (ad esempio quelli di condanna o istruttori) sono stati riconosciuti al giudice amministrativo nel suo
complesso sicché la giurisdizione esclusiva più che un istituto di confine con il giudice ordinario, tende a configurarsi come un
ambito che si sovrappone tendenzialmente alla giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo. Rimane la
preoccupazione di evitare disparità di tutela tra i diritti soggettivi sindacabili dal giudice amministrativo e quelli devoluti alla
giurisdizione del giudice ordinario; l’art. 6.2, l. 205/2000, prevedeva che “le controversie concernenti diritti soggettivi
devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto”; cadeva così
una “storica” differenziazione tra tutela del diritto devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario e quella del diritto
rientrante nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. L’art. 12 c.p.a. riproduce esattamente la disposizione citata
richiamando però anche gli artt. 806 e ss. c.p.c.; è confermata l’impossibilità di conferire agli arbitri la potestà di decidere
secondo equità, e sembrerebbe escluso poi l’arbitrato irrituale, che significherebbe affidare la soluzione della controversia a
privati individuati senza il rispetto di regole decisionali pubbliche. L’art. 12 esprime la regola generale in materia di arbitrato,
ma esistono altre disposizioni che prevedono la possibilità di deferire ad arbitri la soluzione di controversie: ad es. l. 280/2003
in materia di controversie sportive, la quale ammette che statuti e regolamenti del Coni e delle Federazioni sportive possano
contenere clausole compromissorie; in tema di lavori, servizi e forniture, l’arbitrato è disciplinato dagli artt. 209 e ss. del
d.lgs. 50/2016. In ordine ai rapporti di lavoro “privatizzati” dei dipendenti pubblici è prevista la possibilità di un arbitrato
irrituale (art. 31, l. 183/2010 e art. 412, c.p.c.).
23. I riti speciali
Il legislatore ha nel passato introdotto numerosi riti speciali. La loro specialità rispetto a quello “ordinario” dipende dalla
presenza di termini processuali ridotti (o diversi), dalla previsione di percorsi procedurali differenti, dalla possibilità di
adottare decisioni peculiari o di definire il processo senza il passaggio in pubblica udienza. La disciplina è confluita nel libro
IV del codice del processo amministrativo, che ha tipizzato sei riti speciali (uno di questi è quello per l’ingiunzione). Nel libro
IV non si trovano tutti i riti speciali:
a) caratteri di specialità hanno i procedimenti camerali, quello per la dichiarazione dell’estinzione o l’improcedibilità e
quello per la correzione degli errori o delle omissioni delle sentenze;
b) due riti speciali s’innestano sul procedimento cautelare, consentendo la decisione immediata o differita nel merito;
essi, disciplinati dagli artt. 60 e 55.10, c.p.a., si applicano a tutte le tipologie di controversie;
c) fuori addirittura dal codice è disciplinata l’azione collettiva, per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari
(c.d. class action).
L’ipotesi c) è la prima che analizziamo, ricordando la regola generale di cui all’art. 32, c.p.a., norma che, riconosciuta la
possibilità di avere nello stesso giudizio il cumulo di domande connesse proposte in via principale o incidentale, stabilisce che,
se le azioni sono soggette a riti diversi, si applica quello ordinario. La normativa cui far riferimento è il d.lgs. 198/2009. Si
tratta di un’azione volta a ripristinare le condizioni organizzative necessarie per il corretto svolgimento della funzione o la
corretta erogazione di un servizio. In questa prospettiva, essa costituisce il risvolto giurisdizionale della “standardizzazione”
delle prestazioni erogate dalle amministrazioni. L’azione è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e
le questioni di competenza sono rilevabili anche d’ufficio. I presupposti per il suo esercizio sono i seguenti: violazione di
termini; mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi
obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento; violazione degli obblighi contenuti
nelle carte dei servizi; violazione degli standard qualitativi ed economici stabiliti, per i concessionari di servizi pubblici, dalle
autorità preposte alla regolazione ed al controllo del settore, e, per le pubbliche amministrazioni, definiti dalle stesse in
conformità alle disposizioni in materia di performance contenute nel d.lgs. 150/2009.
Occorre che i comportamenti siano in grado di incidere su interessi giuridicamente rilevanti e omogenei per una pluralità di
utenti e consumatori: è necessaria la lesione di un interesse “seriale” diffuso, cui si deve aggiungere il pregiudizio prodotto su
una specifica situazione giuridica; occorre, infatti, anche la lesione diretta, concreta e attuale di un interesse del ricorrente. Va
osservato che il giudice, con una valutazione che molto si avvicina al merito, tiene anche conto delle risorse strumentali,
finanziarie e umane concretamente a disposizione delle parti intimate.
La legittimazione attiva spetta ai “titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e
consumatori”, nonché alle associazioni o comitati a tutela degli interessi dei propri associati. La legittimazione passiva spetta
alle amministrazioni e ai “concessionari” di pubblici servizi. Vengono escluse dall’applicazione della normativa le autorità
amministrative indipendenti e altri soggetti quali gli organi giurisdizionali, le assemblee legislative e gli altri organi
costituzionali, nonché la Presidenza del consiglio dei ministri.
Il procedimento inizia, sul piano sostanziale, con una diffida all’amministrazione o al concessionario a effettuare, entro il
termine di novanta giorni, gli interventi utili alla soddisfazione degli interessati. La normativa configura una sorta di
procedimento amministrativo per il ripristino delle condizioni organizzative: le amministrazioni, infatti, per ciascun settore di
propria competenza, determinano il procedimento da seguire a seguito di una diffida notificata. Inutilmente decorso il termine,
ove l’amministrazione o il concessionario non abbia provveduto, o abbia provveduto in modo parziale, a eliminare la
situazione denunciata, il ricorso può essere proposto entro il termine perentorio di un anno. Il ricorso è proposto nei confronti
degli enti i cui organi sono competenti a esercitare le funzioni o a gestire i servizi cui sono riferite le violazioni e le omissioni.
L’udienza di discussione del ricorso viene fissata d’ufficio, in una data compresa tra il novantesimo ed il centoventesimo
giorno dal deposito del ricorso; i soggetti che si trovano nella medesima situazione giuridica del ricorrente possono intervenire
nel termine di venti giorni liberi prima dell’udienza. Quest’intervento pare potersi configurare anche come litisconsortile o
autonomo.
Circa il petitum, la disciplina chiarisce che non è possibile ottenere il risarcimento del danno cagionato dagli atti e dai
comportamenti dell’amministrazione o dai concessionari; a tal fine, restano fermi i rimedi ordinari: il giudice, se accoglie la
domanda, ordina alla PA o al concessionario di porre rimedio alle violazioni, alle omissioni o agli inadempimenti entro un
congruo termine.
La disciplina si preoccupa anche dei profili della trasparenza e della pubblicità; ad esempio, del ricorso è data immediatamente
notizia sul sito istituzionale dell’amministrazione o del concessionario intimati; il ricorso è altresì comunicato al ministro per
la pubblica amministrazione e l’innovazione. Per quanto riguarda i concessionari di pubblici servizi, la comunicazione è
effettuata nei confronti dell’amministrazione vigilante.
La legge delega sembrava configurare un procedimento unitario, che inglobasse anche la fase dell’ottemperanza. Il d.lgs.,
invece, spezza in due tronconi il giudizio: il primo, in sostanza di cognizione, si chiude con la sentenza; nei casi di perdurante
inottemperanza di una pubblica amministrazione, si apre il secondo troncone e, cioè, la via dell’ottemperanza, richiedendosi,
dunque, la proposizione di un nuovo ricorso con la possibilità di giungere alla nomina di un commissario. La normativa non si
occupa di altri aspetti (impugnazioni, tutela cautelare, contributo unificato, regime probatorio, efficacia soggettiva della
decisione: occorrerà in tali casi far ricorso ai principi generali) e scolpisce un procedimento poco appetibile per il cittadino: il
privato difficilmente è incentivato a iniziare un’azione che gli preclude il risarcimento e che sfocia in un’udienza fissata a
distanza di molti mesi dalle violazioni, con ripetute possibilità per le amministrazioni di intervenire e con la prospettiva di
dover iniziare un’ulteriore azione per l’ottemperanza.
Procediamo ora all’analisi dei riti speciali collocati all’interno del libro IV, seguendo l’ordine del codice. Esso, prima
disciplina alcuni riti “trasversali” alle varie materie (ricorso in tema di accesso e ricorso avverso il silenzio inadempimento) e,
successivamente, si occupa di due ulteriori riti che si caratterizzano per la tipologia di controversie cui si riferiscono; l’intero
titolo VI, infine, è destinato alle controversie in materia di operazioni elettorali.
Il rito in tema di diritto d’accesso, nonché per la tutela dell’accesso civico, è disciplinato dall’art. 116, c.p.a. Ai sensi del
codice (che all’art. 133 qualifica la giurisdizione del giudice amministrativo come esclusiva) contro le determinazioni
amministrative concernenti il diritto d’accesso e contro il silenzio serbato per trenta giorni successivi alla richiesta, “il ricorso
è proposto entro trenta giorni dalla conoscenza della determinazione impugnata o dalla formazione del silenzio, mediante
notificazione all’amministrazione e ad almeno un controinteressato”. Trattandosi di rito camerale, tutti i termini processuali
sono dimezzati, tranne quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti
espressamente fissati in trenta giorni dall’art. 116. Il giudice decide con sentenza in forma semplificata; sussistendone i
presupposti, ordina l’esibizione dei documenti richiesti, entro un termine non superiore, di norma, a trenta giorni, dettando,
ove occorra, le relative modalità. In pendenza di un giudizio cui la richiesta di accesso è connessa, il ricorso può essere
proposto con istanza depositata presso la segreteria della sezione cui è assegnato il ricorso principale; l’istanza è decisa con
ordinanza separatamente dal giudizio principale, ovvero con la sentenza che definisce il giudizio. Il rito si configura dunque
come incidentale rispetto a quello ordinario e si caratterizza per la modalità di presentazione della domanda e per la natura del
possibile provvedimento decisorio (ordinanza). Tornando al rito autonomo, siamo al cospetto di un’azione (actio ad
exhibendum) che può portare all’adozione di una sentenza con cui si ordina un facere specifico. La camera di consiglio è
fissata d’ufficio alla prima udienza utile successiva al trentesimo giorno decorrente dalla scadenza del termine di costituzione
delle parti intimate; non vi è l’obbligo per la segreteria del giudice di comunicare la data dell’udienza camerale (Cons. Stato,
sez. V, n. 3079/2012). Il ricorrente può stare in giudizio personalmente senza l’assistenza del difensore (art. 23, c.p.a.), mentre
l’amministrazione può essere rappresentata e difesa da un proprio dipendente a ciò autorizzato.
Un altro rito camerale speciale, devoluto alla giurisdizione esclusiva dal giudice amministrativo (art. 133 c.p.a.), è quello
avverso il silenzio, disciplinato dall’art. 117 c.p.a. Tale norma dispone che il ricorso avverso il silenzio è proposto, anche
senza previa diffida, con atto notificato all’amministrazione e ad almeno un controinteressato. Il termine è stabilito dall’art.
31, il quale dispone che, una volta formatosi il silenzio inadempimento, l’azione può essere proposta fintanto che perdura
l’inadempimento e, comunque, non oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento, facendo salva
la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti; questi ultimi sono quelli sostanziali,
sicché l’obbligo di decidere per l’amministrazione riguarda i soli procedimenti a istanza di parte, perché solo in questa ipotesi
è possibile riproporre l’istanza facendo sorgere l’obbligo di decidere (Cons. Stato, sez. V, n. 2337/2012). Trattandosi di rito
camerale, tutti i termini processuali sono dimezzati, tranne quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso
incidentale e dei motivi aggiunti (art. 87). Il rito si applica soltanto al silenzio inadempimento (Cons. Stato, comm. spec. n.
1242/2001 e, ora, art. 31, c.p.a., che fa riferimento all’inadempimento). Nell’ipotesi di silenzio significativo, infatti, la tutela
del ricorrente postula l’eliminazione degli effetti equipollenti a quelli del provvedimento, sicché egli deve agire per annullare i
medesimi e non già per ottenere un ordine all’amministrazione di provvedere.
Il ricorso è deciso con sentenza in forma semplificata. Le sentenze passate in giudicato che accolgono il ricorso proposto
avverso il silenzio inadempimento dell’amministrazione sono trasmesse, in via telematica, alla Corte dei conti. Circa i poteri,
l’art. 117, c.p.a. dispone che, in caso di totale o parziale accoglimento, il giudice ordina all’amministrazione di provvedere
entro un termine non superiore, di norma, a trenta giorni e l’art. 34 ribadisce che il giudice ordina all’amministrazione, rimasta
inerte, di provvedere entro un termine.
Il giudice nomina, ove occorra, un commissario ad acta con la sentenza con cui definisce il giudizio o successivamente,
sempre su istanza della parte interessata. La legge vuole dunque consentire al privato di ottenere una “risposta”, anche ove
sussista discrezionalità dell’amministrazione; poiché egli è chiamato a emanare il provvedimento, esso pare configurarsi come
sostituto dell’amministrazione. Il giudice conosce di tutte le questioni relative all’esatta adozione del provvedimento richiesto,
ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario. Il codice, sotto il profilo processuale, dispone che, in ossequio al
principio di concentrazione, se nel corso del giudizio sopravviene il provvedimento espresso, o un atto connesso con
l’oggetto della controversia, questo può essere impugnato anche con motivi aggiunti, nei termini e con il rito previsto per il
nuovo provvedimento, e l’intero giudizio prosegue con tale rito, abbandonandosi, così, il rito camerale che, in ragione
soprattutto dei termini ridotti che lo caratterizzano, assicura meno garanzie. Una scelta diversa è operata con riferimento
all’ipotesi in cui, contestualmente al ricorso avverso il silenzio, venga proposta l’azione di risarcimento del danno da ritardo:
il giudice può definire con il rito camerale e sentenza non definitiva l’azione avverso il silenzio e trattare con il rito ordinario
la domanda. La prima azione può essere proposta solo entro un anno dalla scadenza del termine per provvedere, mentre la
seconda entro centoventi giorni dall’inadempimento e, secondo il codice, questo termine non decorre finché perdura
l’inadempimento. Si deve ricordare che, ai sensi dell’art. 28, d.l. 69/2013, conv. nella l. 98/2013, relativo all’indennizzo da
ritardo, nel caso in cui il titolare del potere sostitutivo non emani il provvedimento nel termine o non liquidi l’indennizzo
mantenuto a tale data, l’istante può proporre ricorso avverso il silenzio, oppure, ricorrendone i presupposti, può chiedere un
provvedimento ingiuntivo.
Ritornando all’azione avverso il silenzio, va ribadito che il rimedio è finalizzato a “costringere” l’amministrazione a
provvedere, ovvero a sostituirsi a essa ove permanga l’inerzia, in modo da assicurare al privato la possibilità di avere “una
risposta”, purché sia. L’art. 31.3, c.p.a., delinea però un altro importante potere: il giudice, su istanza di parte, può pronunciare
sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio, anche se ciò è possibile solo quando si tratta di attività vincolata o quando
risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che
debbano essere compiuti dall’ amministrazione. La presenza di discrezionalità e l’impossibilità di sostituirsi all’istruttoria
procedimentale sono gli ostacoli individuati dal codice all’utilizzo di questo modello, che integra una forma d’azione di
adempimento (ad. plen., n. 3/2011); ciò spiega perché il giudizio deve essere esteso ai controinteressati. Le disposizioni sulla
forma della decisione, sui poteri del giudice e sui rapporti con l’azione risarcitoria si applicano anche ai giudizi
d’impugnazione (art. 117, u.c.).
L’art. 119, c.p.c. delinea un rito speciale, che, in determinati e importanti ambiti relativi a giudizi di impugnazione, si
caratterizza per la previsione di un percorso procedurale accelerato in vista di una rapida decisione. Il rito riguarda vari
giudizi, tra i quali quelli aventi ad oggetto: i provvedimenti concernenti le procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi
e forniture; i provvedimenti adottati dalle Autorità amministrative indipendenti; i provvedimenti di nomina, adottati previa
delibera del Consiglio dei ministri; i provvedimenti di scioglimento di enti locali e quelli connessi concernenti la formazione e
il funzionamento degli organi; i provvedimenti relativi alle procedure di occupazione e di espropriazione delle aree destinate
all’esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità e i provvedimenti di espropriazione delle invenzioni adottati ai sensi del
codice della proprietà industriale; i provvedimenti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive; ecc.
L’obiettivo complessivo è la celerità della decisione. Più nello specifico, il rito, che si applica anche nei giudizi di appello,
revocazione e opposizione di terzo, si caratterizza:
a) per l’abbreviazione dei termini processuali ordinari, che sono dimezzati salvo, nei giudizi di primo grado, quelli per la
proposizione delle domande (notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti) ,
nonché quelli di cui all’articolo 62.1 (l’appello contro l’ordinanza cautelare va dunque proposto nel termine di trenta
giorni dalla notificazione dell’ordinanza stessa o entro sessanta dalla sua pubblicazione);
b) per la previsione della possibile decisione differita nel merito a fronte di un’istanza cautelare. Più nel dettaglio, il c.3
prevede che, salva l’applicazione dell’art. 60 (sulla definizione immediata del giudizio in esito all’udienza
cautelare), il Tar chiamato a pronunciare sulla domanda cautelare, accertata la completezza del contraddittorio ovvero
disposta l’integrazione dello stesso, se ritiene la sussistenza di profili di fondatezza del ricorso e di un pregiudizio
grave e irreparabile, fissa con ordinanza la data di discussione del merito alla prima udienza successiva alla scadenza
del termine di trenta giorni dalla data di deposito dell’ordinanza; qui è prevista la possibilità che il giudice, con
l’ordinanza di cui all’art. 119, in caso di estrema gravità ed urgenza, disponga, le opportune misure cautelari
c) per la previsione di speciali modalità di pubblicazione del dispositivo, ma solo su richiesta di parte, e di uno specifico
meccanismo facoltativo per domandare la sospensione dell’esecutività del dispositivo. La parte può chiedere al
Consiglio di Stato la sospensione dell’esecutività del dispositivo, proponendo appello entro trenta giorni dalla
relativa pubblicazione, con riserva dei motivi da proporre entro trenta giorni dalla notificazione della sentenza ovvero
entro tre mesi dalla sua pubblicazione.
Un vero e proprio rito speciale e autonomo è previsto con riferimento a una delle materie più importanti del contenzioso,
quella dei contratti pubblici: c.d. “rito appalti/contratti pubblici”. Tale rito è dettato dal d.lgs. 53/2010 che, esercitando la
delega conferita dall’art. 44, l. 88/2009, ha dato attuazione alla direttiva 66/2007/Ce. Esso è poi confluito nel c.p.a. che ne fa
cenno all’art. 119. Ulteriori modifiche sono state introdotte dal d.lgs. 50/2016. Il rito riguarda le impugnazioni degli atti delle
procedure di affidamento, ivi comprese le procedure di affidamento di incarichi e concorsi di progettazione e di attività
tecnico-amministrative ad esse connesse relativi a lavori pubblici, servizi o forniture. Esso è speciale, in primo luogo, perché
disciplinato in via residuale dall’art. 119, sui riti speciali abbreviati e, poi, perché è retto da regole ulteriormente derogatorie
rispetto a questa tipologia di riti abbreviati.
Va ricordato lo sforzo profuso dall’ordinamento per diminuire il contenzioso e per consentire che lo “sfogo” delle tensioni
innescate dalla gara avvenga prima della stipulazione del contratto. Si tratta dei seguenti istituti:
• stand-still sostanziale (il contratto non può essere stipulato prima dello scadere di un termine sospensivo di
trentacinque giorni decorrente dall’invio dell’ultima comunicazione del provvedimento di aggiudicazione; questo
termine, come ancora si dirà, è previsto per consentire alla parte di proporre il ricorso prima della stipula)
• stand-still processuale (divieto per la stazione appaltante di stipulare il contratto in caso di proposizione di un ricorso
avverso l’aggiudicazione definitiva che contenga anche la domanda cautelare: il divieto opera per venti giorni a
condizione che, entro tale termine intervenga la pronuncia del provvedimento cautelare di primo grado o la
pubblicazione del dispositivo della sentenza di primo grado).
• altro importante istituto è quello dell’informativa in ordine all’intento di proporre ricorso giurisdizionale in tema di
affidamento di lavori, forniture e servizi. Tale informativa viene era espressamente regolata dal d.lgs. 163/2006; il
d.lgs. 50/2016 non ne fa più cenno. Deve però ritenersi che l’istituto possa ancora trovare applicazione anche se non
più secondo la logica dell’onere, ma in chiave facoltativa. Anzi, la sua omissione potrebbe costituire comportamento
valutabile ai fini della decisione sulle spese di giudizio e ai sensi dell’art. 1227 c.c. (concorso di colpa del
danneggiato) in caso di condanna dell’amministrazione.
• Pure il rito superspeciale ha il significato di “sterilizzare” la procedura dalle illegittimità derivate non contestate
tempestivamente con quel ricorso. L’art. 120 c.p.a. mentre dichiara espressamente inammissibile l’impugnazione
autonoma della proposta di aggiudicazione, impone l’impugnazione immediata degli altri atti di ammissione e di
esclusione alle procedure selettive all’esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-
professionali, nel termine di 30 giorni dalla relativa pubblicazione sul profilo del committente della stazione
appaltante ai sensi dell’art. 29.1, d.lgs. 50/2016. Si delinea così un rito superspeciale, relativo soltanto
all’impugnazione delle due categorie di atti sopra citate e vengono stabilite modalità accelerate di pubblicazione
dei provvedimenti di ammissione o esclusione; ridotti i termini minimi per la comunicazione alla parti della data di
udienza e quelli per la produzione di documenti, memorie e repliche; vi è il divieto di cancellazione della causa dal
ruolo e di rinvio della trattazione se non per esigenze istruttorie o di integrazione del contraddittorio. Deve ritenersi
esclusa la disciplina dello stand still. L’azione va proposta entro 30 giorni dalla pubblicazione del provvedimento e
non già dalla relativa comunicazione. Al fine di consentire l'eventuale proposizione del ricorso superspeciale qui
esaminato sono pubblicati nella “sezione amministrazione trasparente”, nei successivi due giorni dalla data di
adozione dei relativi atti, il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura e le ammissioni all'esito della
valutazione della documentazione attestante l'assenza dei motivi di esclusione e la sussistenza dei requisiti economico-
finanziari e tecnico-professionali. Ai sensi dell'art 120 c.p.a., l'omessa impugnazione entro il termine di 30 giorni
preclude la facoltà di far valere l'illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure di affidamento, anche con
ricorso incidentale. Il giudizio è definito in una camera di consiglio da tenersi entro 30 giorni dalla scadenza del
termine per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente. Su richiesta delle parti però il ricorso è definito in udienza
pubblica. Il decreto di fissazione dell'udienza è comunicato alle parti 15 giorni prima dell'udienza. Le parti possono
produrre documenti fino a 10 giorni liberi prima dell'udienza, memorie fino a 6 giorni liberi e presentare repliche ai
nuovi documenti e alle nuove memorie fino a 3 giorni liberi prima. L'appello deve essere proposto entro trenta giorni
dalla comunicazione o, se anteriore, notificazione della sentenza e non trova applicazione il termine lungo decorrente
dalla sua pubblicazione. Il Tar deposita la sentenza entro 7 giorni dall’udienza di discussione e le parti possono
chiedere l'anticipata pubblicazione del dispositivo che avviene entro due giorni dall’udienza.
Torniamo al rito speciale in generale. Viene peraltro esclusa la possibilità del ricorso straordinario, ritenuta incompatibile
con le esigenze di celerità. Ai sensi dell'art 76.5 d.lgs. 50/2016 la stazione appaltante, immediatamente e comunque entro un
termine non superiore a 5 giorni comunica d'ufficio l'aggiudicazione all'aggiudicatario, al concorrente che segue nella
graduatoria, a tutti i candidati che hanno presentato un'offerta ammessa in gara, a coloro la cui candidatura o offerta siano state
escluse si hanno proposto impugnazione avverso l'esclusione o sono in termini per presentare impugnazione, nonché a coloro
che hanno impugnato il bando o la lettera di invito, se tali impugnazioni non siano state respinte con pronuncia giurisdizionale
definitiva. Da questo momento decorre il termine di 30 giorni per impugnare. Giova ricordare che il termine di stand still (35
giorni) decorre dall'invio dell'ultima delle comunicazioni mentre l'impugnazione va effettuata entro 30 giorni dalla ricezione
della comunicazione, sicché i termini variano per ogni concorrente. La disciplina del codice dei contratti non garantisce la
possibilità di conoscere previamente la motivazione degli atti da impugnare, posto che la comunicazione non comprende la
documentazione e la motivazione a supporto della decisione. L'art 76.2 d.lgs. 50/2016 si limita a statuire che “su richiesta
scritta dell'offerente o del candidato interessato, l'amministrazione aggiudicatrice comunica immediatamente e comunque
entro 15 giorni dalla ricezione della richiesta ad ogni offerente escluso, i motivi del rigetto della sua offerta, e ad ogni
candidato escluso i motivi del rigetto della domanda di partecipazione. Per l'impugnativa dei bandi e degli avvisi con cui si
indice una gara il termine decorre dalla relativa pubblicazione o, in ogni altro caso, dalla conoscenza dell'atto. Il termine di 30
giorni si applica altresì per la proposizione del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti. I nuovi atti attinenti la medesima
procedura di gara devono essere impugnati con ricorso per motivi aggiunti.
Circa gli altri termini processuali trova applicazione l'art 119 sicché essi sono dimezzati.
Per quanto attiene alla disciplina dell'incidente cautelare occorre far riferimento al regime generale integrato dall'art 119 e
dalla regola secondo cui il giudice decide interinalmente sulla domanda cautelare anche se ordina adempimenti istruttori, se
concede termine a difesa, o se solleva o vengono proposti incidenti processuali.
Quando dispone le misure cautelari, il collegio ne può subordinare l'efficacia alla prestazione di una cauzione di importo
commisurato al valore dell'appalto. Tali misure cautelari sono disposte per una durata non superiore a 60 giorni dalla
pubblicazione della relativa ordinanza, ferma restando la possibilità di decisione differita nel merito a fronte dell'istanza
cautelare.
Nella decisione cautelare, il giudice tiene conto di quanto previsto dagli artt 121 e ss c.p.a. e delle esigenze imperative
connesse ad un interesse generale all'esecuzione del contratto, dandone conto nella motivazione: la norma sembra consentire
l'accoglimento della domanda solo se il ricorrente ha chiesto l'inefficacia del contratto e non abbia proposto la domanda di
subingresso. Contro le ordinanze cautelari è ammesso appello al consiglio di stato, da proporre nel termine di trenta giorni
dalla notificazione dell'ordinanza, ovvero di 60 giorni dalla sua pubblicazione.
Passiamo ora al merito. Il giudizio può essere deciso con il meccanismo prima descritto di cui all'art 119, cc. 3 e 4 (dunque
con fissazione del merito a breve), oppure può venire immediatamente definito nell’udienza cautelare: il collegio cioè,
accertata la completezza del contraddittorio e dell'istruttoria, sentite le parti costituite, può definire in camera di consiglio il
giudizio con sentenza in forma semplificata. La terza possibilità, ove non trovino spazio le precedenti opzioni, è la seguente: il
giudizio deve essere definito con sentenza in forma semplificata a udienza fissata d'ufficio e da tenersi entro 45 giorni dalla
scadenza del termine per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente. Della data di udienza è dato immediato avviso alle
parti a cura della segreteria a mezzo di posta elettronica certificata. In caso di esigenze istruttorie o quando è necessario
integrare il contraddittorio o assicurare il rispetto dei termini a difesa, la definizione del merito viene rinviata ad un’udienza da
tenersi non oltre 30 giorni.
Va altresì introdotto il principio di sinteticità degli atti di parte: il decreto 40/2015 stabilisce che il ricorso non deve superare
di regola le 30 pagine.
Circa le impugnazioni, trova applicazione il regime di cui all’art. 119, integrato con la regola secondo cui la parte può
proporre appello avverso il dispositivo, al fine di attenerne la sospensione prima della pubblicazione della sentenza. Alla luce
del principio di concentrazione, la cognizione di tutte queste controversie è ricondotta alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo. Il giudice dispone di incisivi poteri in relazione al contratto già nella fase di cognizione, tanto che da taluno si
parla di giurisdizione di merito. Va osservato che i poteri del giudice sono pur sempre configurabili come applicazione di
prescrizioni normative e non come giudizi di mera opportunità al di là dei confini della legge. Vale la pena di sottolineare il
nesso tra incisione sugli effetti del contratto e concorrenza: secondo la direttiva, “la privazione di effetti è il modo più sicuro
per ripristinare la concorrenza”.
Ricordando che il giudice, dopo aver annullato l’aggiudicazione o dichiarato l’inefficacia del contratto, può condannare
l’amministrazione ad aggiudicare e disporre il subentro nel contratto (tutela in forma specifica), possiamo in generale
osservare quanto segue: a) nelle ipotesi di violazioni gravi la regola è l’inefficacia del contratto, salva la possibilità del giudice
di salvarlo; b§) nei casi di violazioni meno gravi l’inefficacia medesima non è la conseguenza ordinaria della pronuncia del
giudice, pur non essendo esclusa: spetterà al giudice valutare caso per caso; c) in ogni caso, nelle ipotesi in cui non abbia
luogo la tutela in forma specifica, la parte, su domanda, può ottenere il risarcimento dei danni per equivalente; d) la disciplina
dell’inefficacia del contratto è delineata senza tener conto del suo contenuto.
L’art. 121 individua i casi di “violazioni gravi”, in cui, a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione definitiva, il giudice
dichiara l’inefficacia del contratto, decidendone anche l’eventuale retroattività e, cioè, indicando il momento a partire dal
quale essa decorre. La disposizione contempla una deroga, stabilendo che il contratto resti efficace, pur in presenza delle gravi
violazioni, qualora venga accertato che il rispetto di esigenze imperative connesse a un interesse generale imponga che i suoi
effetti siano mantenuti. Tra le esigenze imperative rientrano, fra l’altro, quelle imprescrittibili di carattere tecnico o di altro
tipo, tali da rendere evidente che i residui obblighi contrattuali possono essere rispettati solo dall’esecutore attuale. Il d.l.
133/2014 ha specificato che costituiscono esigenze imperative quelle funzionali alla tutela dell’incolumità pubblica; per altro
verso la norma ha disposto che l’istanza cautelare può essere accolta unicamente nel caso in cui i requisiti di estrema gravità e
urgenza siano ritenuti prevalenti rispetto alle esigenze di incolumità pubblica evidenziate dalla stazione appaltante. Ciò
chiarito, aggiungiamo che una prima violazione grave attiene ai periodi di stand-still: si tratta del contratto stipulato senza
rispettare il termine dilatorio di trentacinque giorni oppure in spregio della sospensione obbligatoria del termine per la
stipulazione derivante dalla proposizione del ricorso giurisdizionale avverso l’aggiudicazione definitiva. La legge chiarisce
però che tale violazione, aggiungendosi a vizi propri dell’aggiudicazione definitiva, deve aver influito sulle possibilità del
ricorrente di ottenere l’affidamento. In sostanza, non è sufficiente la violazione del termine, ma occorre verificare, con un
giudizio prognostico, che la parte avrebbe ottenuto l’affidamento. Le ulteriori situazioni di violazione grave concernono
l’affidamento diretto. Poiché esse frustano in radice la possibilità di una competizione concorrenziale, qui non si richiedono
ulteriori condizioni: aggiudicazione avvenuta senza previa pubblicazione del bando o dell’avviso, ovvero avvenuta con
procedura negoziata senza bando o con affidamento in economia fuori dai casi consentiti.
Nei casi in cui, nonostante le violazioni, il contratto sia considerato efficace o l’inefficacia sia temporalmente limitata, si
applicano le sanzioni alternative.
L’art. 122, invece, si occupa delle violazioni meno gravi, sempre sul presupposto che sia stata annullata l’aggiudicazione
definitiva, prevedendo il potere del giudice di dichiarare inefficace il contratto. Siamo dunque al cospetto di “altri” vizi che
caratterizzano la procedura nel suo complesso.
L’art. 124, aggiunge che, se non dichiara l’inefficacia del contratto, il giudice dispone il risarcimento per equivalente del
danno subito e provato. Il danno va provato, sicché non paiono ammissibili meccanismi di determinazione forfettaria (Tar
Lombardia, n. 4552/2010). Nei casi in cui, a fronte di vizi gravi, il contratto sia conservato, oppure se il giudice dichiara il
contratto inefficace solo ex nunc, il giudice amministrativo individua sanzioni alternative da applicare alternativamente o
cumulativamente. Si tratta di sanzioni pecuniarie punitive, ovvero (reali) della riduzione della durata del contratto, ove
possibile, da un minimo del dieci per cento ad un massimo del cinquanta per cento della durata residua alla data di
pubblicazione del dispositivo. Il giudice amministrativo applica le sanzioni assicurando il rispetto del principio del
contraddittorio.
Le sanzioni alternative si applicano nelle ipotesi in cui il contratto sia stato stipulato senza rispettare il termine dilatorio
stabilito per la stipulazione del contratto, o senza rispettare la sospensione della stipulazione derivante dalla proposizione del
ricorso giurisdizionale avverso l’aggiudicazione definitiva e sempre che la violazione non abbia privato il ricorrente della
possibilità di avvalersi di mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto e non abbia influito sulle possibilità del
ricorrente di ottenere l’affidamento. L’istituto delle sanzioni alternative ha comunque scarsa applicazione nella pratica e
presenta non semplici problemi applicativi: ad esempio non è prevista una fase istruttoria per adottarle né è stabilito come si
proceda all’esecuzione della sanzione reale. Incidentalmente va notato che l’accoglimento della domanda di subentro equivale,
di fatto, all’accoglimento di un’azione di adempimento.
In conclusione, il rito sugli appalti si configura speciale non solo in ragione delle peculiarità procedurali, ma anche e
soprattutto come conseguenza degli incisivi poteri attribuiti al giudice e della logica (di derivazione comunitaria) che lo ispira.
L’incisione sul contratto è servente rispetto all’esigenza di tutelare la concorrenza.
Il contenzioso elettorale si distingue in attivo (relativo alle controversie che concernono lo status di elettore) e passivo
(attinente alle controversie che riguardano il diritto a conseguire o mantenere la carica elettiva). Le controversie legate al
primo sono devolute al giudice ordinario. Il contenzioso elettorale passivo raggruppa, a sua volta, due diversi tipi di tutela: la
prima, relativa alle questioni di eleggibilità, incompatibilità e decadenza dall’ufficio, è affidata al giudice ordinario; la tutela in
tema di regolarità delle operazioni elettorali è devoluta al giudice amministrativo, sul presupposto che in tal caso siano
coinvolti interessi legittimi. I giudizi in materia di contenzioso elettorale sono caratterizzati dalla presenza di azioni popolari
di tipo correttivo.
Il contenzioso elettorale attivo è disciplinato dagli artt. 42 e ss., l. 223/1967, la quale si occupa delle controversie che
concernono le elezioni politiche, amministrative ed europee. Giudice competente è la Corte d’appello in unico grado.
L’azione si propone con ricorso, esente da tasse, in calce al quale viene steso il decreto con cui il presidente della Corte
d’appello fissa in via d’urgenza l’udienza di trattazione della causa. Il termine è di venti giorni dalla notificazione della
commissione di non immissione o di estromissione delle liste. La pronuncia della Corte, che è ricorribile in Cassazione, decide
in ordine della titolarità dello status di elettore.
Il contenzioso elettorale passivo riguarda l’eleggibilità ed è disciplinato dagli art. 82 e ss. T.u. 570/1960, come modificato
dalla l.1147/1966 (essa si occupa dei consiglieri comunali) e, per quanto riguarda l’eleggibilità dei consiglieri provinciali e
regionali, rispettivamente dagli artt. 7, l. 1147/1966 e 19, l. 108/1968).
La legittimazione attiva nelle controversie devolute al giudice ordinario è riconosciuta a qualsiasi cittadino elettore del
comune, della provincia o della regione, a chiunque vi abbia interesse, nonché al prefetto rispettivamente competente. La
competenza spetta in primo grado al tribunale nella cui circoscrizione è compreso l’ente della cui elezione si tratta. Il giudizio
formalmente nasce dall’impugnazione delle delibere adottate dalla assemblee elettive in materia di eleggibilità. Il tribunale, la
Corte d’appello e la Cassazione, ove accolgano il ricorso, possono correggere i risultati delle elezioni e sostituire ai candidati
illegittimamente proclamati gli aventi diritto.
Giungiamo così all’analisi del contenzioso sulle operazioni elettorali devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo,
disciplinate dal titolo VI del c.p.a. Le norme che aprono tale titolo dispongono che il giudice amministrativo ha “giurisdizione
in materia di operazioni elettorali relativi al rinnovo degli organi elettivi dei comuni, delle provincie che rientrano nella
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, delle regioni e all’elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti
all’Italia (l’art. 133 c.p.a. chiarisce che si tratta di un caso di giurisdizione esclusiva, mentre l’art. 134 afferma trattarsi pure di
giurisdizione di merito). Le parti possono stare in giudizio personalmente: questa scelta, in ragione dell’elevato tecnicismo
della materia, forse non è pienamente condivisibile. Il sindacato ha ad oggetto gli atti della fase preparatoria “successivi
all’emanazione dei comizi elettorali”. In applicazione della sent. 236/2010 della Corte costituzionale, tutti i provvedimenti
immediatamente lesivi del diritto del ricorrente a partecipare al procedimento elettorale preparatorio per le elezioni comunali,
provinciali e regionali e per il rinnovo del Parlamento europeo spettante all’Italia sono impugnabili dinanzi al Tar competente
nel termine di tre giorni dalla pubblicazione, o dalla comunicazione, se prevista, degli atti impugnati. Per quanto attiene a tutti
gli altri atti della fase preparatoria, l’art. 130 c.p.a. consente il ricorso soltanto alla conclusione del procedimento elettorale,
unitamente all’impugnazione dell’atto di proclamazione degli eletti.
Circa la legittimazione attiva e le competenze si dispone quanto segue: a) quanto alle elezioni di comuni, province e regioni,
legittimato è qualsiasi candidato o elettore dell’ente della cui elezione si tratta (competente è il Tar); b) quanto alle elezioni
dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia, legittimato è qualsiasi candidato o elettore (la competenza spetta al Tar
Lazio, sede di Roma).
Il ricorso va prima depositato e poi notificato. Più in particolare, il ricorrente deve depositarlo nella relativa segreteria entro il
termine di trenta giorni dalla proclamazione degli eletti. Entro dieci giorni dall’ultima notificazione, il ricorrente deposita
nella segreteria del tribunale la copia del ricorso e del decreto presidenziale, con la prova dell’avvenuta notificazione, insieme
con gli atti e documenti del giudizio. L’amministrazione resistente e i controinteressati depositano nella segreteria le proprie
controdeduzioni nei quindici giorni successivi a quello in cui la notificazione si è perfezionata nei loro confronti. All’esito
dell’udienza, il collegio, sentite le parti se presenti, pronuncia la sentenza. Il Tar, quando accoglie il ricorso, corregge il
risultato delle elezioni e sostituisce ai candidati illegittimamente proclamati coloro che hanno diritto di esserlo. In caso di
ricorso avverso, le operazioni elettorali inerenti il Parlamento europeo, i voti delle sezioni le cui operazioni sono state
annullate non hanno effetto. L’appello al Consiglio di Stato può essere proposto entro il termine di venti giorni dalla notifica
della sentenza, per coloro nei cui confronti è obbligatoria la notifica; per gli altri candidati o elettori nel termine di venti giorni
decorrenti dall’ultimo giorno della pubblicazione della sentenza medesima.

CAPITOLO XI
LA TUTELA INNANZI AI GIUDICI AMMINISTRATIVI SPECIALI E I RICORSI AMMINISTRATIVI
SEZIONE I: I GIUDICI AMMINISTRATIVI SPECIALI
1. Premessa
Nella giustizia amministrativa sono comprese non solo la disciplina del processo che si svolge dinanzi al complesso Tar-
Consiglio di Stato e parte di quella relativa al giudizio dinanzi al giudice ordinario, ma anche la disciplina del processo che si
svolge davanti alle giurisdizioni amministrative speciali e cioè alle giurisdizioni non appartenenti all’ordine che fa capo al
Consiglio di Stato e la normativa sui ricorsi amministrativi. Tra le giurisdizioni speciali assume un posto di grande rilievo la
Corte dei Conti. Altra giurisdizione di notevole importanza è costituita dal Tribunale superiore delle acque pubbliche
nell’esercizio delle funzioni di giudice di unico grado.
2. La Corte dei Conti
La Corte dei Conti esercita la giurisdizione “nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge” (art.
103 Cost.). Essa giudica delle controversie che possono insorgere, in determinate materie, con la pubblica amministrazione,
sicché è annoverata tra i giudici amministrativi che non fanno capo al complesso Tar-Consiglio di Stato. In particolare, la
Corte dei Conti è titolare della c.d. giurisdizione contabile, nella quale sono compresi i giudizi in materia di responsabilità
amministrativa e contabile dei pubblici funzionari (contenzioso contabile), di pensioni civili e militari e di pensioni di guerra
(contenzioso pensionistico). I giudizi sono disciplinati dal d.lgs. 174/2016 (codice giustizia contabile: CGC).
Originariamente, la Corte dei conti si occupava della responsabilità dei soli dipendenti dello stato, mentre per quella degli altri
dipendenti sussisteva la giurisdizione del giudice ordinario. Tornando all’attualità, in base all’oggetto del giudizio si possono
distinguere i seguenti tipi di processo: giudizio di conto, giudizio di responsabilità amministrativa, giudizio per resa di conto,
giudizio pensionistico, giudizi aventi ad oggetto l’irrogazione di sanzioni tipizzate e giudizi ad istanza di parte. Il difetto di
giurisdizione, il regolamento preventivo e le decisioni sulle questioni di giurisdizione sono disciplinati agli artt. 15-17, CGC.
Il codice poi richiama i principi di effettività della tutela, di concentrazione, del giusto processo, del dovere di motivazione e
di sinteticità degli atti.
La giurisdizione contabile è tradizionalmente ritenuta esclusiva, nel senso che la Corte conosce sia di interessi legittimi sia di
diritti soggettivi. La Corte dei Conti, inoltre, conosce anche di tutte le questioni sollevate in via pregiudiziale e incidentale,
con l’eccezione della questione di falso e di quelle riguardanti lo stato e la capacità delle persone. iena, in quanto la Corte
conosce del fatto e del diritto (possibilità di sindacare nel merito);
Con le leggi nn. 19 e 20 del 1994, modificate con d.l. 543/1996, convertito con modificazioni nella l. 639/1996, il legislatore
ha proceduto ad attuare il decentramento della giurisdizione contabile e ad istituire il doppio grado di giurisdizione. A livello
centrale, l’attività giurisdizionale della Corte dei conti è esercitata dalle prime tre sezioni e dalle sezioni riunite. Le sezioni
centrali svolgono funzioni di giudice d’appello e giudicano con la presenza di cinque magistrati. Le sezioni riunite
giurisdizionali (giudicanti con la presenza del presidente della Corte dei conti e di sei magistrati) assicurano invece l’uniforme
interpretazione e la corretta applicazione delle norme di contabilità pubblica; esse decidono le questioni di massima deferite
dalle sezioni giurisdizionali d’appello, dal Presidente della Corte dei conti o a richiesta del procuratore generale. Le sezioni
riunite decidono altresì sui regolamenti di competenza avverso le ordinanze che si pronunciano sulla competenza senza
decidere il merito e avverso i provvedimenti che sospendono il processo.
Le funzioni di pubblico ministero presso le sezioni riunite e le sezioni centrali della Corte sono esercitate dal procuratore
generale o da un vice procuratore generale. L’esercizio dell’azione pubblica di responsabilità, d’ufficio o su domanda, è
irretrattabile.
La competenza territoriale è distribuita secondo i seguenti criteri: a) criterio della “residenza anagrafica” del ricorrente per
quanto attiene ai giudizi pensionistici; b) criterio del luogo dove si è svolta l’attività di gestione o in cui si è verificato il fatto
produttivo del danno per i giudizi di responsabilità per i dipendenti dello Stato o di enti pubblici aventi sede nella regione: c)
criterio della sede dell’amministrazione presso cui operano i responsabili dipendenti o amministratori di regioni, città
metropolitane, province, comuni e altri enti locali o regionali. I conflitti di competenza fra le varie sezioni regionali sono
risolti dalle sezioni riunite della Corte.
2.1. Il giudizio di responsabilità amministrativa
Allo scopo di perseguire l’illecito erariale, il codice traccia un percorso scandito in quattro fasi: l’iniziativa, la fase istruttoria,
quella preordinata alla deduzione e la fase decisoria.
La responsabilità amministrativa viene fatta valere dal procuratore regionale della Corte dei conti che agisce sulla base di
una specifica e concreta notizia di danno (è tale quando consiste in informazioni circostanziate e non riferibili a fatti
ipotetici; anche l’esposto anonimo può integrare gli estremi della notizia: sez. giur. Lazio, n. 128/2017) fatte salve le
fattispecie direttamente sanzionate dalla legge. Il procuratore ha notizia dell’evento produttivo di danno a seguito di autonoma
iniziativa, ovvero di denuncia. L’obbligo di denuncia immediata è posto in capo all’organo di vertice dell’amministrazione e
ai dirigenti e ai responsabili dei servizi in relazione ai settori in cui sono preposti.
Vi è l'obbligo per la PA denunciante di porre in essere tutte le iniziative necessarie a evitare l'aggravamento del danno,
intervenendo ove possibile in via di autotutela o comunque adottando gli atti amministrativi necessari a evitare la
continuazione dell'illecito e a determinarne la cessazione.
Dopo la fase di iniziativa, si svolge quella istruttoria. Al riguardo, il procuratore è titolare di notevoli poteri tipizzati dal
codice: egli può ad esempio richiedere l'esibizione di atti e documenti, avvalersi di consulenti, nonché disporre accertamenti
diretti, ispezioni, audizioni personali e sequestri documentali. Il PM contabile può delegare, in particolare alla Guardia di
Finanza e ad altre forze di polizia, le attività istruttorie che sono riservate fino alla notificazione dell'invito a dedurre. Gli atti
istruttori debbono essere motivati a pena di nullità.
Prima di procedere alla notificazione della citazione, il procuratore è obbligato ad inviare al presunto responsabile un invito a
fornire deduzioni, consentendo così a tale soggetto, entro un termine non inferiore a 45 giorni dal ricevimento dell'invito, di
poter depositare le proprie deduzioni ed eventualmente documenti. Per potersi difendere, occorre conoscere le fonti di prova
che stanno alla base dell'addebito. L'articolo 71 disciplina l'accesso al fascicolo istruttorio depositato presso la segreteria
della procura regionale e prevede uno speciale procedimento relativo al diritto di accesso agli atti detenuti delle
amministrazioni onde farli confluire nel procedimento. Nello stesso termine di 45 giorni, il presunto responsabile può chiedere
di essere sentito personalmente. L'invito a dedurre fissa anche un importante limite all'esercizio di attività istruttorie nel senso
che il PM non può più compiere siffatte attività successivamente all'invito medesimo. L'istruttoria può terminare con
l'archiviazione, quando la notizia di danno risulta infondata o non vi sono elementi sufficienti a sostenere in giudizio le
contestazioni di responsabilità. Il pubblico ministero dispone altresì di archiviazione per mancanza di colpa grave quando
l'azione amministrativa si è conformata al parere reso dalla Corte dei Conti in via consultiva. I fascicoli archiviati possono
essere riaperti con decreto motivato dal Procuratore solo se sopravvengono fatti nuovi e diversi successivi all’archiviazione
medesima.
Nel caso in cui abbia invece ritenuto non sufficienti o inattendibili le giustificazioni addotte dal presunto responsabile, il
procuratore medesimo promuove l'azione mediante atto di citazione a comparire avanti la sezione giurisdizionale competente.
La citazione deve essere depositata nella segreteria del giudice entro 120 giorni dalla scadenza del termine per la
presentazione delle deduzioni di cui sopra assegnato in sede di invito a dedurre. La citazione deve contenere anche l'istanza di
fissazione dell'udienza di discussione. Il presidente provvede con decreto in calce alla citazione, fissando un termine non
inferiore a 20 giorni prima della medesima per la costituzione di deposito di documenti e memorie. Il PM notifica l'atto di
citazione con il decreto presidenziale. Tra il giorno della notifica e quello dell'udienza devono trascorrere almeno 90 giorni
liberi. La citazione è nulla se è omessa o risulta assolutamente incerta identificazione del convenuto o la sottoscrizione del
pubblico ministero, se è omessa o risulta assolutamente incerta l’individuazione o la quantificazione del danno, ovvero ancora
se manca l'esposizione dei fatti.
Gli artt 73 e ss. CGC disciplinano le azioni a tutela delle ragioni del credito erariale. Il PM, a tali fini, può esercitare tutte le
azioni previste dalla procedura civile, ivi compresi i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale. Il procuratore può in
particolare chiedere al Presidente della sezione competente a conoscere del merito del giudizio il sequestro conservativo di
beni immobili e mobili del presunto responsabile, onde evitare che possa venir meno la garanzia del credito dell'ente pubblico.
Sulla domanda di sequestro il presidente provvede con decreto motivato, fissando l'udienza di comparizione delle parti dinanzi
al giudice designato entro un termine non superiore a 45 giorni. Questa seconda fase è a contraddittorio pieno infatti con il
medesimo decreto il presidente assegna al procuratore un termine non superiore a 30 giorni per la notificazione della domanda
e del decreto. All'udienza, il giudice designato conferma, modifica o revoca i provvedimenti emanati con decreto. Il codice
stabilisce che il procuratore generale dispone di tutte le azioni a tutela delle ragioni del creditore previste dal c.p.c.: tale
organo, dunque, può esperire l'azione revocatoria e quella surrogatoria.
Torniamo ora al normale sviluppo del processo per responsabilità amministrativa. Premesso che il patrocinio legale è
obbligatorio, una disciplina peculiare riguarda la presenza di più responsabili. In linea di principio, quando il fatto dannoso
costituisce ipotesi di litisconsorzio necessario sostanziale, tutte le parti nei cui confronti deve essere assunta la decisione
debbono essere convenute nello stesso processo. Soltanto qualora nel corso del processo emergano fatti nuovi rispetto a quelli
posti a base dell'atto introduttivo del giudizio, il giudice ordina la trasmissione degli atti al pubblico ministero per le
valutazioni di competenza, senza sospendere il processo. Dal punto di vista dell'istruttoria, dell'onere della prova e della regola
di giudizio, il principio generale è quello secondo cui le parti hanno l'onere di fornire le prove che siano nella loro
disponibilità, concernenti fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni. Il giudice pone poi a fondamento della
decisione i fatti non specificatamente contestati dalle parti costituite e valuta le prove secondo il suo prudente apprezzamento,
desumendo anche argomenti di prova dal comportamento tenuto dalle parti nel corso del processo.
Ampi poteri istruttori sono riconosciuti al collegio nel corso del giudizio: anche d'ufficio può disporre consulenze tecniche,
ordinare alle parti di produrre gli altri documenti che ritiene necessari alla decisione, richiedere d'ufficio alla PA le
informazioni scritte relative ad atti e documenti che siano nella disponibilità dell'amministrazione stessa e anche procedere in
qualunque stato e grado del processo ad interrogatorio non formale del convenuto, assistito dal difensore se costituito. Non è
previsto l'intervento ad opponendum, ma solo quello a sostegno delle ragioni della procura. All'udienza pubblica, il magistrato
relatore riferisce sulla causa; successivamente il convenuto può svolgere le proprie tesi difensive e il procuratore illustrare
l'accusa. La sezione decide in camera di consiglio. Il collegio, quando non disponga con apposita ordinanza istruttoria
l'acquisizione di nuovi elementi probatori, pronuncia la sentenza (che può essere interlocutoria o definitiva; in tale ultimo caso
di condanna o di assoluzione). Il codice disciplina poi un rito abbreviato (per la definizione alternativa del processo mediante
il pagamento di una somma) e un rito sommario (per fatti di lieve entità patrimoniale).
La sezione, valutate le circostanze, può porre a carico del funzionario responsabile solo una parte del danno accertato o del
valore perduto (c.d. potere riduttivo che trova la propria giustificazione nell'esigenza di limitare le conseguenze risarcitorie in
capo ai dipendenti pubblici chiamati ad agire in un contesto che in parte è sottratto al loro controllo).
Ai sensi dell'art. 3, l. 639/1996, la Corte deve tenere conto dei “vantaggi comunque conseguiti dall'amministrazione o dalla
comunità amministrata in relazione al comportamento degli amministratori o dipendenti pubblici soggetti al giudizio di
responsabilità”. Circa le spese legali, esse seguono la soccombenza.
Il codice disciplina poi un rito speciale applicabile nei casi di responsabilità tipizzata e cioè quando la legge prevede che la
corte di conti commini ai responsabili della violazione di specifiche disposizioni normative una sanzione pecuniaria.
2.2. Il giudizio di conto e l’esecuzione delle sentenze di condanna
Ai sensi dell’art. 135, CGC, la presentazione del conto giudiziale “costituisce l’agente in giudizio”. Il giudizio di conto,
avente a oggetto l’accertamento della responsabilità contabile e della regolarità delle partite del conto, costituisce un esempio
di processo avente il carattere della necessarietà, atteso che il giudizio si instaura a prescindere dalla sussistenza di una
controversia, per effetto della sola trasmissione del conto.
Nel caso in cui il contabile non adempia all’obbligo del rendiconto, il procuratore che abbia notizia del fatto può promuovere
un autonomo giudizio (giudizio per la resa del conto) che in senso proprio tende a consentire l’instaurazione del diverso
giudizio di conto. Dopo che il conto è stato depositato spontaneamente, ovvero a conclusione del giudizio per la resa del
conto, prende avvio il giudizio di conto in senso proprio. Se il relatore designato dal presidente della competente sezione
accerta la regolarità del conto e non sussiste l’opposizione del procuratore, al quale il presidente ordina sia trasmessa la
relazione stesa dal magistrato relatore, il conto viene approvato dal presidente della sezione competente con decreto di
discarico.
Nell’ipotesi in cui, invece, la relazione concluda per la condanna, viene fissata l’udienza di discussione dal presidente della
sezione con decreto notificato all’agente contabile e al procuratore. La sezione può emettere una decisione di discarico o di
condanna dell’agente, previa liquidazione del debito. In tale ipotesi, il giudizio di conto assume dunque caratteri propriamente
contenziosi.
Gli artt. 221 e ss. CGC contengono le norme relative al giudizio di interpretazione del titolo giudiziale e per l’esecuzione delle
decisioni definitive di condanna pronunciate dalla Corte a carico di responsabili per danno erariale.
Alla riscossione dei crediti liquidati dalla Corte con sentenza o ordinanza esecutiva provvede l’amministrazione titolare del
credito attraverso uffici designati: si noti dunque che l’esecuzione è rimessa all’amministrazione danneggiata.. Il recupero può
avvenire secondo tre modalità: trattenuta alla fonte sulle somme eventualmente dovute ai responsabili, esecuzione forzata
dinnanzi al giudice ordinario o iscrizione a ruolo ai sensi della normativa concernente la riscossione dei crediti dello Stato,
degli enti locali e territoriale.
2.3. I giudizi ad istanza di parte
La legge prevede in alcuni casi che il giudizio dinanzi alla Corte dei conti abbia inizio ad istanza di parte. Il processo è dunque
instaurato con ricorso depositato in segreteria. Il presidente fissa l’udienza con decreto che viene comunicato al ricorrente
dalla segreteria: il ricorrente ha l’onere di notificare il ricorso e il decreto all’amministrazione entro dieci giorni dalla
comunicazione del decreto. Le ipotesi più importanti, otre ai giudizi pensionistici, sono: ricorso proposto contro i
provvedimenti in materia di rimborso delle quote inesigibili di imposta e cioè delle partite dei ruoli che il concessionario non è
riuscito a riscuotere; ricorsi contro ritenute su stipendi di funzionari ed agenti statali. L’amministrazione può assoggettare a
tale ritenuta i pubblici impiegati qualora il danno sia stato accertato in via amministrativa; ricorsi relativi ai giudizi di
interpretazione del titolo giudiziale.
2.4. Il giudizio pensionistico
La Corte dei conti ha giurisdizione in materia di pensioni civili, di pensioni militari e di pensioni di guerra: si tratta del
giudizio pensionistico. Tradizionalmente la Corte conti esercitava funzioni amministrative in tema di liquidazione delle
pensioni, sicché ad essa erano devolute le relative controversie. Le funzioni amministrative sono poi state eliminate, mentre è
rimasta inalterata la giurisdizione. La materia previdenziale è oggi disciplinata in maniera analoga nei settori pubblico e
privato (l. 335/1995). Differenti sono invece gli istituti previdenziali (Inpdap, Inps) e il riparto di giurisdizione. Soltanto
nell’ambito privato, infatti, il contenzioso è devoluto alla cognizione del giudice ordinario.
In primo grado la Corte dei conti giudica in composizione monocratica, in funzione di giudice unico. Il processo si instaura su
ricorso dell’interessato depositato presso la segreteria del giudice: pur essendo disciplinato come giudizio impugnatorio, esso
ha ad oggetto la titolarità del diritto al trattamento di quiescenza o l’entità della pensione e non è dunque soggetto a termini di
decadenza. Il presidente fissa l’udienza con decreto che viene comunicato al ricorrente dalla segreteria: il ricorrente ha l’onere
di notificare il ricorso e il decreto al convenuto entro dieci giorni dalla comunicazione del decreto.
L’amministrazione, ove decida di non avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, può farsi rappresentare in giudizio
da un proprio dirigente o da un funzionario appositamente delegato. Il ricorso del privato può essere proposto anche senza
patrocinio di un avvocato. L’istruttoria è svolta dal giudice monocratico e non già dal procuratore generale: nell’udienza il
giudice interroga liberamente le parti presenti e tenta la conciliazione della lite; il verbale di conciliazione ha efficacia di
titolo esecutivo.
Dopo la trattazione orale della causa, il giudice unico pronuncia sentenza, che è provvisoriamente esecutiva nei casi in cui sia
di condanna a favore del pensionato, dando lettura del dispositivo; la sentenza va depositata in cancelleria entro quindici
giorni dalla pronuncia e il cancelliere ne dà immediata comunicazione alle parti.
Ove l’amministrazione non provveda al pagamento delle somme cui è tenuta, per l’ottemperanza alla decisione si può
esperire il giudizio di esecuzione dinanzi al medesimo giudice contabile.
2.5. I mezzi di impugnazione contro le decisioni della Corte dei conti
Avverso le decisioni della Corte dei conti sono ammessi i seguenti gravami: l’appello, la revocazione, l’opposizione di terzo e
il ricorso per Cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione.
L’appello si proponealle prime tre sezioni centrali entro sessanta giorni dalla notificazione della decisione o, nel caso di
mancata notificazione, entro sei mesi dalla pubblicazione. Nei giudizi in materia di pensioni, l’appello è consentito solo per
motivi di diritto, mentre sono escluse le questioni di fatto. La difesa in appello deve essere affidata ad avvocati iscritti nello
speciale albo dei cassazionisti. Il gravame ha effetto sospensivo automatico dell’esecutività della sentenza di primo grado.
Nel giudizio pensionistico, la sospensione dell’esecuzione della sentenza di primo grado non è automatica, ma deve essere
concessa dal giudice d’appello.
Il ricorso per revocazione contro le decisioni definitive rese dalla Corte dei conti può essere proposto dalle parti e dal
pubblico ministero: esso è rivolto al medesimo giudice che ha emesso la decisione. Le decisioni della Corte dei conti sono poi
ricorribili alle sezioni unite della Corte di cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione dalle parti e dal pubblico ministero
entro 60 giorni dalla notifica della sentenza impugnata.
Pure è prevista l'opposizione di terzo. Il ricorso per Cassazione, l’opposizione di terzo e il ricorso per revocazione non
sospendono l’esecuzione della sentenza impugnata. Tuttavia, nel caso di revocazione e di opposizione, su istanza di parte e
qualora dall’esecuzione possa derivare un grade ed irreparabile danno, il collegio può disporre in camera di consiglio, con
ordinanza, che l’esecuzione sia sospesa o che sia prestata congrua cauzione.
3. Le giurisdizioni amministrative speciali: il Tribunale superiore delle acque pubbliche
La legge prevede numerose ipotesi di organi aventi poteri giurisdizionali nelle materie amministrative. Il Tribunale superiore
delle acque pubbliche ha sede in Roma ed è composto da un presidente, il quale è un magistrato ordinario avente qualifica
corrispondente a procuratore generale della cassazione, quattro consiglieri di cassazione, quattro consiglieri di Stato e tre
tecnici membri effettivi del Consiglio superiore dei lavori pubblici, tutti nominati per cinque anni.
Il Tribunale superiore delle acque pubbliche giudica in unico grado con l'intervento di sette votanti: il presidente, due
consiglieri di Cassazione, tre consiglieri di Stato e un tecnico.
In ordine alla procedura che deve essere seguita nel giudizio, l’art. 208 t.u. acque, r.d. 1775/1933, per quanto non previsto
nello stesso testo unico fa rinvio al c.p.c. e alle norme che regolano il processo innanzi al Consiglio di Stato.
Il processo si instaura con ricorso, il quale deve contenere la citazione a comparire ad una udienza a data fissa innanzi al
giudice delegato. Il termine per proporre il ricorso è di 60 giorni dalla comunicazione del provvedimento impugnato: il ricorso
deve essere notificato all'autorità amministrativa e ad almeno uno dei controinteressati. Almeno cinque giorni prima della
scadenza del termine assegnato nel ricorso per la comparizione delle parti, esso deve essere depositato dal ricorrente presso la
cancelleria del giudice.
Le controversie che rientrano nelle materie devolute al Tribunale superiore delle acque pubbliche attengono in linea di
massima agli interessi legittimi, anche se il criterio d’individuazione della sua giurisdizione è quello della materia. Il Tribunale
superiore pronuncia di conseguenza sentenze di annullamento, ma Cass., sez. un., ord. n. 9534/2013 ha ammesso anche
sentenze dichiarative e risarcitorie.
La disciplina dell’esecuzione della decisione si fa in via amministrativa, ad eccezione della parte relativa alla condanna alle
spese. In caso di mancata esecuzione, si può utilizzare il rimedio del giudizio di ottemperanza.
La sentenza è soggetta ad impugnazione, attraverso i mezzi del ricorso per revocazione e del ricorso alle sezioni unite della
Corte di cassazione.
Il tribunale superiore delle acque pubbliche ha una duplice natura: di organo specializzato della giurisdizione ordinaria quando
giudica in appello e di giudice speciale quando giudica in unico grado. Nel caso in cui operi come sezione specializzata, il
criterio per individuare l’ambito di giurisdizione dei Tribunali stessi non è costituito dalla natura della situazione giuridica
lesa, ma dalla materia espressamente indicata dalla legge.
3.1. Le altre giurisdizioni amministrative speciali
Riguardo ad altre giurisdizioni amministrative speciali, in particolare vanno ricordate le commissioni per i ricorsi in materia
di brevetti, che decidono i ricorsi avverso i provvedimenti con i quali l'ufficio centrale dei brevetti abbia respinto le domande
volte a ottenere la concessione del brevetto, e i commissari regionali per la liquidazione degli usi civici, che sono
competenti a decidere le controversie circa l'esistenza, la natura e l'estensione dei diritti di godimento spettanti alle collettività
su beni demaniali e privati che possono sorgere nel corso delle procedure di accertamento, valutazione e liquidazione degli usi
civici, nonché delle procedure di scioglimento delle promiscuità. L’art. 53.1, lett. e), d.lgs. 112/1998 ha soppresso le funzioni
giurisdizionali delle commissioni di vigilanza per l’edilizia popolare ed economica.
Taluni ordini professionali esercitano una funzione giurisdizionale attraverso l’organismo nazionale (consigli nazionali degli
ordini professionali). Il Consiglio nazionale decide in ultima istanza circa le questioni relative all’iscrizione all’ordine o alla
materia disciplinare: contro tale pronuncia, proprio perché essa ha carattere giurisdizionale, è ammesso il ricorso per
cassazione. Trattasi di un caso di autodichia (cap. III, par. 3).
Le commissioni tributarie, costituite durante il secolo scorso, acquistarono con il tempo carattere giurisdizionale, onde
avrebbero dovuto essere assoggettate a revisione legislativa. Il legislatore, però, non intervenne immediatamente, ma sono con
d.p.r. 636/1972. La giurisdizione tributaria è esercitata dalle commissioni tributarie provinciali e regionali e si riferisce alle
controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie, compresi quelli regionali, provinciali e comunali e il contributo
per il Servizio sanitario nazionale, nonché le sovraimposte e le addizionali, le sanzioni amministrative, comunque irrogate da
uffici finanziari, gli interessi e ogni altro accessorio.
SEZIONE II: I RICORSI AMMINISTRATIVI
4. I ricorsi amministrativi (nozioni generali)
I ricorsi amministrativi sono istanze rivolte dai soggetti interessati ad una pubblica amministrazione per ottenere la tutela di
una situazione giuridica soggettiva che si assume essere lesa da un provvedimento o da un comportamento amministrativo. Si
tratta in altri termini di rimedi giuridici offerti per la soluzione di una controversia che può sorgere dall'emanazione di un atto
(ricorsi impugnatori), ovvero, in via eccezionale, indipendentemente da esso (ricorsi non impugnatori, relativi a diritti
soggettivi). I ricorsi amministrativi non hanno natura giurisdizionale: essi non sono infatti rivolti a un giudice, ma ad un
soggetto, l’amministrazione, che non si trova in posizione di estraneità rispetto alle parti in causa ed agli interessi coinvolti; il
procedimento che si instaura al seguito del ricorso, ha carattere amministrativo, così come l’atto con cui l’autorità si pronuncia
è un atto amministrativo espressione di autotutela, che la dottrina definisce tradizionalmente come “decisione
amministrativa”, insuscettibile di passare in giudicato e soggetto a regime degli atti amministrativi. I ricorsi amministrativi
hanno carattere “giustiziale”: essi traggono origine da una controversia, sono strumenti di tutela di situazioni giuridiche, sono
instaurati su istanze di parte, sono retti dal principio della domanda e si svolgono in contraddittorio tra le parti.
La disciplina generale dei ricorsi amministrativi è contenuta nel d.p.r. 1199/1971: esso regola il procedimento per la decisione
del ricorso e l’istituto del silenzio-rigetto. Alcune disposizioni sui ricorsi sono contenute nell’art. 20 della l. 1034/1971 (l.
Tar), nella l. 241/90.
Strettamente collegato al tema dei ricorsi è il concetto di atto definitivo. La definitività si acquisisce con la decisione su
ricorso gerarchico o su ricorso gerarchico improprio, ovvero, in caso di mancata decisione dell’autorità adita entro il termine
di 90 giorni dalla proposizione del ricorso. Sono definitivi anche gli atti espressamente dichiarati tali dalla legge (definitività
esplicita). La definitività è altresì riferibile agli atti emanati dalle autorità di vertice dell’amministrazione (definitività
soggettiva). Oggi i ricorsi amministrativi costituiscono di norma un rimedio facoltativo e aggiuntivo rispetto ai ricorsi
giurisdizionali. I ricorsi amministrativi offrono alla parte la possibilità di ottenere un’ulteriore pronuncia da parte
dell’amministrazione in tempi rapidi e con una spesa inferiore rispetto a quella che il ricorrente dovrebbe sopportare in caso di
ricorso giurisdizionale. Il ricorso amministrativo a pena di nullità deve essere redatto in forma scritta. Esso deve contenere
l’indicazione dell’autorità adita, le generalità del ricorrente, gli estremi del provvedimento impegnato, i motivi di
impugnazione, la data, la sottoscrizione del ricorrente. Non è necessario il patrocinio di un avvocato, sicché la parte può
redigere e presentare il ricorso personalmente. La disciplina contenuta nel capo primo d.p.r. 1099/71 relativo al ricorso
gerarchico, si considera applicabile anche agli altri ricorsi amministrativi ordinari. Le decisioni sui ricorsi possono
configurarsi come pronunce di accoglimento o di rigetto della domanda proposta dal ricorrente.
4.1. La classificazione dei ricorsi amministrativi
I ricorsi si distinguono come segue:
- ricorsi di carattere generale, che possono essere esperiti anche in assenza di una specifica norma che li ammetta;
- ricorsi di carattere eccezionale, ammissibili solo se espressamente previsti dalla legge;
- ricorsi impugnatori, che traggono origine dall’impugnazione di un atto e ricorsi non impugnatori i quali non
comportano l’impugnazione di in provvedimento amministrativo e mirano ad ottenere ad ottenere non già la eliminazione
dell’atto bensì la soluzione della controversia;
- ricorsi ordinari: esperibili nei confronti degli atti non definitivi (ricorso gerarchico, gerarchico improprio e in
opposizione);
- ricorsi straordinari: ammessi nei confronti dei provvedimenti definitivi (ricorso straordinario al P.d.R.);
- ricorsi eliminatori, con cui l’amministrazione annulla l’atto senza poter riesaminare la questione;
- ricorsi rinnovatori: con cui l’autorità adita, oltre a valutare la legittimità e/o l’opportunità dell’atto , di riesaminare la
questione al fine di modificare o sostituire l’atto.
Analizziamo ora i ricorsi amministrativi previsti dal nostro ordinamento.
5. Il ricorso gerarchico, il ricorso gerarchico improprio e il ricorso in opposizione
Il ricorso gerarchico è un ricorso ordinario, a carattere rinnovatorio e generale, proponibile all’autorità gerarchicamente
superiore a quella che ha emanato l’atto impugnato. Esso consente di far valere vizi sia di legittimità, sia di merito e di tutelare
diritti soggettivi e interessi legittimi. Il carattere di rimedio generale del ricorso gerarchico significa che esso è sempre
ammesso ove ne esistano i presupposti, salvo il caso in cui la legge dichiari definitivo l’atto.
Il ricorso gerarchico è ammesso in unico grado. Il rapporto di gerarchia che qui rileva è quella esterna e cioè tra organi aventi
rilevanza esterna. La tendenziale riduzione dei livelli di gerarchia del nostro ordinamento determina un decisivo
ridimensionamento della rilevanza del ricorso gerarchico.
Quest’ultimo è un rimedio facoltativo: pertanto nei confronti dello stesso atto potrebbero essere proposti due ricorsi, uno
giurisdizionale e l’altro gerarchico. Vale in proposito il principio della prevalenza del primo sul secondo. Nell’ipotesi in cui
il ricorso giurisdizionale sia stato proposto dallo stesso soggetto in via gerarchica, il ricorso gerarchico si intende
implicitamente rinunciato; ove il ricorso giurisdizionale sia stato proposto da altro cointeressato, il ricorso gerarchico diventa
improcedibile e il ricorrente in via gerarchica ha l’onere di riproporre le proprie doglianze in sede giurisdizionale entro 30
giorni dalla comunicazione che l’amministrazione è tenuta ad effettuare al fine di informare gli interessati dell’avvenuta
presentazione del ricorso giurisdizionale.
Il termine per la presentazione del ricorso gerarchico è di 30 giorni a pena di decadenza e decorre dal giorno in cui
l’interessato ha avuto notificazione o comunicazione in via amministrativa dell’atto impugnato o ha acquisito piena
conoscenza del medesimo.
Il ricorso deve contenere il nome e cognome del ricorrente, l’indicazione dell’autorità competente ad esaminare il ricorso, del
provvedimento impugnato, dei motivi e deve essere sottoscritto dalla parte. Esso può essere proposto all’autorità competente a
deciderlo ovvero all’organo che emanato l’atto impugnato, mediante consegna, mediante notificazione o a mezzo di lettera di
raccomandata con avviso di ricevimento. La legge esclude poi che il ricorso possa essere dichiarato irricevibile allorché sia
rivolto ad un organo incompetente: tale organo, infatti, ha il dovere di trasmettere d’ufficio il ricorso pervenutogli all’autorità
competente a deciderlo.
Entro 20 giorni dalla pubblicazione del ricorso, gli interessati possono presentare all’autorità decidente deduzioni e documenti.
Gli atti difensivi presentati dai controinteressati non sono comunicati al ricorrente però a quest’ultimo va riconosciuta la
possibilità di esercitare il diritto di accesso sulle controdeduzioni, sui documenti e sugli altri atti istruttori, anche ai fini di una
eventuale replica. La p.a. può disporre tutti gli adempimenti utili ai fini della decisione. La proposizione del ricorso non
comporta l’automatica sospensione degli effetti dell’atto impugnato, che tuttavia può essere disposta per gravi motivi,
d’ufficio o su domanda delle parti.
Il procedimento si conclude con decisione motivata che deve rivestire la forma scritta. In particolare, può trattarsi di: a)
decisione di rito, con cui si dichiara di non potere scendere nel merito del ricorso; b) decisione di merito, con cui la pubblica
amministrazione o accoglie o respinge il ricorso. La decisione di accoglimento che riformi anche l’atto assorbe e sostituisce
l’atto stesso.
L’autorità adita ha il dovere giuridico di pronunciarsi ai sensi dell’art. 6 d.p.r. 1199/71. Peraltro, il ricorso si intende respinto a
tutti gli effetti se la decisione non sia stata comunicata entro 90 gg dalla sua presentazione: contro il provvedimento
originariamente impugnato è esperibile il ricorso giurisdizionale o quello straordinario al presidente della repubblica. Lo
spirare del termine di 90 giorni dalla presentazione del ricorso non fa venire meno il potere di decisione dell’autorità adita col
ricorso amministrativo ordinario.
La decisione tardiva è dunque legittima: il ricorrente ha tuttavia la possibilità di scegliere se avvalersi del silenzio-rigetto per
proporre tempestivamente la propria azione dinnanzi al giudice amministrativo, ovvero se attendere la decisione sul ricorso
gerarchico.
La decisione del ricorso, secondo l’opinione tradizionale, non è revocabile da parte dell’autorità che l’ha emessa; è invece
consentita la revocazione della stessa.
Il ricorso gerarchico improprio è un rimedio ordinario, ammesso nei casi tassativamente previsti dalla legge, proponibile ad
un’autorità che, pur non essendo quella gerarchicamente superiore rispetto all’autorità che ha emanato l’atto, è investita di un
potere di generica vigilanza; di norma la parte può far valere solo vizi di legittimità. In assenza di norme specifiche dettate
dalla legge che contempla il singolo ricorso, si applicano le disposizioni generali in tema di ricorso gerarchico.
Il ricorso in opposizione è un ricorso ordinario e a carattere rinnovatorio, proponibile, nei casi tassativamente previsti dalla
legge, alla stessa autorità che ha emanato il provvedimento impugnato, la quale agisce esercitando un potere diverso da quello
utilizzato al momento dell’emanazione dell’atto, allorché aveva operato come amministrazione attiva. Il ricorrente può far
valere vizi sia di legittimità sia di merito. Al ricorso in opposizione si applicano, per tutti i profili che non siano disciplinati
dalla legge che li prevede, le norme dettate per il ricorso gerarchico.
6. Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica
Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica è un rimedio di carattere generale, esperibile contro i provvedimenti
amministrativi definitivi di qualsiasi autorità, ancorché si tratti di autorità amministrativa indipendente, per la tutela sia di
diritti soggettivi sia di interessi legittimi. Ai sensi dell’art. 7 c.p.a., il ricorso straordinario è ammesso unicamente per le
controversie devolute alla giurisdizione amministrativa.
Il ricorrente, a differenza di quanto accade nei ricorsi gerarchici, può far valere soltanto vizi di legittimità dell'atto. Il ricorso è
denominato straordinario non perché si tratti di rimedio eccezionale, bensì in quanto può proporsi avverso atti definitivi.
Il ricorso al Capo dello Stato si caratterizza per l’alternatività nei confronti del ricorso giurisdizionale amministrativo, per le
maggiori garanzie del principio del contraddittorio rispetto a quanto accade negli altri ricorsi amministrativi, per
l’obbligatorietà del parere del Consiglio di stato, per la presenza di un termine di impugnazione più ampio superiore a quello
stabilito per il ricorso giurisdizionale amministrativo.
Il principio di alternatività risponde all'esigenza di evitare il rischio di due decisioni discordanti sullo stesso oggetto, nonché di
impedire una doppia pronuncia del Consiglio di Stato nel merito della stessa questione; esso comporta dunque che il ricorso
straordinario non sia più ammesso quando lo stesso provvedimento amministrativo definitivo sia stato impugnato con ricorso
giurisdizionale, mentre non è più ammesso il ricorso giurisdizionale amministrativo quando sia stato proposto ricorso
straordinario da parte del medesimo ricorrente.
Il problema della lesione del diritto di difesa sussiste nei confronti dei soggetti controinteressati, i quali, in caso di
proposizione del ricorso straordinario, si vedrebbero privati in forza di una scelta altrui del diritto di ottenere una pronuncia
giurisdizionale in ordine ad una controversia che incide sulle loro posizioni giuridiche. Si attribuisce quindi ai
controinteressati, ai quali sia stato notificato il ricorso straordinario, il potere di chiedere che questo sia trasferito alla sede
giurisdizionale (opposizione dei controinteressati). In questo modo la disciplina del ricorso straordinario può dirsi
compatibile con il dettato costituzionale, assicurando la libera scelta tra le due forme di tutela sia al ricorrente, sia alle altre
parti che potrebbero essere pregiudicate dalla scelta del ricorrente di utilizzare il rimedio del ricorso straordinario.
L'opposizione si propone con un atto da notificarsi alle altre parti entro 60 giorni dalla data in cui la parte che la promuove ha
ricevuto la notificazione del ricorso straordinario. L’opposizione rende improcedibile il ricorso stesso. Il giudizio viene
trasposto in sede giurisdizionale e prosegue dinanzi al TAR se il ricorrente, entro il termine perentorio di sessanta giorni dal
ricevimento dell'atto di opposizione, “insiste” nel ricorso depositando nella relativa segreteria l'atto di costituzione in giudizio
e dandone avviso mediante notificazione alle altre parti. Entro il termine di 120 giorni il ricorso non solo deve essere
notificato nei modi e con le forme prescritte per i ricorsi giurisdizionali ad almeno uno dei controinteressati, ma a differenza di
quanto accade per i ricorsi giurisdizionali, anche “presentato”, con la prova dell’eseguita notificazione. Tale presentazione può
avvenire secondo tre modalità: mediante consegna diretta, mediante notificazione o mediante lettera raccomandata con avviso
di ricevimento.
La legge non richiede la notifica del ricorso nei confronti dell’autorità che ha emanato l’atto. I controinteressati, entro 60
giorni dalla notificazione del ricorso, possono presentare memorie e documenti al Ministero che istruisce la pratica, nonché
proporre ricorso incidentale. Il ricorrente può prendere visione di tali atti esercitando il diritto di accesso previsto dalla l.
241/90.
L'art 3, l. 205/2000 consente, a richiesta del ricorrente, ove siano allegati danni gravi e irreparabili derivanti dall'esecuzione
dell'atto impugnato, la sospensione del medesimo, attribuendo la competenza al Ministero competente che decide con atto
motivato su parere del consiglio di stato definito dalla legge “conforme e non suscettibile di essere disatteso”.
Trascorso il termine di 60 giorni, inizia a decorrerne un altro di 120 giorni entro il quale il ministero competente deve
effettuare l’istruttoria e trasmettere il ricorso istruito, insieme con gli atti e i documenti che vi si riferiscono, al Consiglio di
stato per il parere previsto dalla legge. Può accadere che il termine non sia rispettato dal ministro: in questo caso, il ricorrente,
allorché siano trascorsi 120 giorni, può notificare al ministro un atto col quale chiede se il ricorso sia stato trasmesso al
consiglio di stato. In caso di risposta negativa o di mancata risposta entro 30 giorni, egli può depositare direttamente una copia
del ricorso presso il Consiglio di Stato consentendo così che questo organo rende il parere. Conclusa l’istruttoria, il ministero
competente deve trasmettere gli atti e i documenti, unitamente alla propria relazione, al Consiglio di stato affinché emetta il
suo parere, salva la possibilità per il Consiglio di stato di chiedere un supplemento di istruttoria o l’integrazione del
contraddittorio.
Il ricorso straordinario viene deciso con d.p.r., su proposta del ministro competente in base al parere del Consiglio di stato. Il
parere del Consiglio di stato è obbligatorio e non può essere disatteso, sicché il ministero è in sostanza priva di potetà
decisoria, perché la paternità sostanziale della decisione è del Consiglio di Stato. Pure il decreto presidenziale con cui viene
deciso il ricorso, di norma motivato richiamando il parere del Consiglio di stato, si configura come atto che si limita a
esternare la decisione del Consiglio.
La decisione del ricorso straordinario è formalmente un atto amministrativo ed è assoggettabile all’istituto della
disapplicazione da parte dell’autorità giurisdizionale ordinaria ed è impugnabile dinnanzi al giudice amministrativo, ma per
soli vizi di forma e di procedimento propri della decisione.
L’art. 15.1, d.p.r. 1199/1971, prevede inoltre il rimedio della revocazione nei casi previsti ex art. 395 c p.c. Il ricorso, diretto
allo stesso Presidente della Repubblica, deve essere presentato nell’osservanza delle forme previste per il ricorso straordinario.
L’amministrazione è tenuta a dare esecuzione alla decisione: invocandone il carattere non giurisdizionale, si negava
l'esperibilità del ricorso per l'ottemperanza, riconoscendo all'interessato al più la facoltà di mettere in mora l'amministrazione.
Il riconoscimento espressamente operato dalla l. 69/2009 della possibilità che il Consiglio di Stato svolge funzione di giudice
a quo nel processo costituzionale, presupponendo la qualificazione della sua attività come attività giurisdizionale, ha avviato
un mutamento di orientamento anche in ordine al tema dell'ottemperanza che è sfociato nella sent. 2065/2011 favorevole alle
esperibilità del rimedio. Come conseguenza del riconoscimento dell'indole giurisdizionale si è stabilito che il decreto che
decide il ricorso è altresì sottoposto al sindacato della Corte di Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione.

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