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La definizione di contratto
Il contratto è l’accordo di 2 o più parti per costituire, regolare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale. Il codice
civile detta una disciplina contrattuale generale ed una specifica di singoli tipi di contratto (vendita, permuta …)
Il contratto rientra nella categoria dell’atto di autonomia privata o negozio giuridico, mediante il quale il soggetto
risponde della propria sfera giuridica. il contratto si caratterizza per la struttura bilaterale o plurilaterale. È un negozio
giuridico bilaterale o plurilaterale, in quanto si perfeziona con il consenso di 2 o più parti. Si distingue rispetto al
negozio unilaterale, il quale si perfeziona con la manifestazione di volontà dell’autore dell’atto,
senza che occorra accettazione (testamento …).
Il contratto si caratterizza anche per la sua patrimonialità in quanto ha per oggetto rapporti suscettibili di valutazione
economica. Un accordo non patrimoniale (matrimonio …) esula dalla nozione di contratto.
Elementi costitutivi del contratto sono l’accordo, l’oggetto, la causa e la forma, quando essa sia prevista a pena di
nullità.
L’accordo è il reciproco consenso delle parti.
L’oggetto è il contenuto del contratto, ciò che le parti stabiliscano. Oggetto della vendita è il trasferimento della
proprietà o altro diritto reale verso un prezzo. Oggetto è anche la realtà materiale o giuridica su cui cadono gli effetti
del contratto. Per oggetto della vendita può intendersi il bene alienato.
La causa è l’interesse che il contratto è diretto a soddisfare.
La forma è il mezzo attraverso il quale si manifesta la volontà contrattuale. Accordo, oggetto, causa e forma sono
elementi costituitivi del contratto in quanto elementi del nucleo minimo della fattispecie contrattuale.
Occorre distinguere gli elementi accidentali, le modalità accessorie. Elementi accidentali sono termine, condizione,
modo, clausola penale e caparra. Le modalità accessorie sono stabilite dalla legge o dagli usi e fanno parte della
disciplina generale o particolare del rapporto. Si pensi alla modalità relativa al luogo di esecuzione delle prestazioni.
Oltre agli elementi del contratto si distinguono i presupposti legali, che possono essere stabiliti a pena di nullità o
come condizioni di efficacia (condizioni legali).
Il negozio giuridico
Il contratto si inquadra nella categoria del negozio giuridico. La dottrina pandettistica ha tramandato la definizione di
atto di volontà diretto ad uno scopo rilevante per l’ordinamento giuridico. La categoria segna una distinzione
fondamentale tra atti di autonomia privata ed atti giuridici in senso stretto. Il negozio giuridico è esplicazione
dell’autonomia privata, potere del soggetto di decidere della propria sfera giuridica mediante atti negoziali: dispone di
propri interessi, acquista o aliena beni patrimoniali, contrae matrimonio, si obbliga ad eseguire prestazioni …
Il codice contiene una disciplina generale del contratto ma non del negozio e riconosce il principio dell’autonomia
contrattuale quale potere di autodeterminare i rapporti con i terzi mediante contratti tipici ed atipici diretti a
realizzare interessi meritevoli di tutela giuridica. Manca un riconoscimento dell’autonomia privata, onde ci si chiede se
sia possibile compiere atti negoziali non contrattuali al di fuori di quelli contemplati dalla legge.
La disciplina del contratto si presta ad essere applicata ad atti negoziali non contrattuali. Applicazione di questa
disciplina è prevista riguardo agli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale.
L’applicazione di singole norme di diritto contrattuale dovrà essere giustificata da una valutazione degli interessi e
dalla congruenza della norma contrattuale. Tale possibilità deve ammettersi anche con riguardo agli atti giuridici in
senso stretto.
Il dibattito sulla natura giuridica del contratto. Teoria della volontà. Teoria della dichiarazione. Teoria precettiva.
Il contratto è l’accordo mediante il quale le parti regolano un rapporto giuridico patrimoniale. È anche
autoregolamento di rapporti giuridici patrimoniali.
La definizione del contratto come accordo o autoregolamento varrebbe ad indicare 2 concezioni antitetiche sulla
natura giuridica, cioè la concezione soggettiva e oggettiva del contratto.
Alla concezione soggettiva si riconduce la teoria della volontà. Alla concezione oggettiva si riconducono le teorie della
dichiarazione e quella precettiva. La teoria della volontà ravvisa l’essenza del contratto nella volontà dell’individuo.
Una dichiarazione priva di volontà sarebbe inidonea a formare il
contratto. La volontà ha bisogno di manifestarsi esternamente, ma una manifestazione alla quale non corrisponda la
volontà non avrebbe valore di negozio. I casi nei quali la legge dà rilevanza alla dichiarazione non sorretta da
corrispondente volontà andrebbero spiegati come eccezioni alla regola del contratto.
A questa teoria si contrapponeva la teoria della dichiarazione. Secondo questa ciò che costituisce il contratto non è la
volontà ma la dichiarazione. È la dichiarazione che rileva, non la volontà psichica. La teoria della dichiarazione
attingeva alle esigenze della nuova esperienza dei rapporti commerciali.
Mentre la dottrina italiana ha mantenuto il riferimento al principio della volontà, una critica è stata portata avanti
dalla teoria precettiva.
La dottrina precettiva muove dal rilievo che la volontà come fatto psicologico meramente interno è inafferrabile ed
incontrollabile. La nozione di contratto non consiste nella volontà né nella dichiarazione, bensì in un fenomeno
sociale. Questo fenomeno viene indicato nella disposizione con la quale il soggetto regola da se i propri interessi,
nell’autoregolamento.
La critica secondo la teoria precettiva investirebbe anche la nozione di contratto quale accordo poiché sarebbe il
portato della concezione soggettiva che privilegia la volontà.
Il superamento del dogma della volontà nel diritto positivo. Il valore negoziale dell’atto.
Il superamento del dogma della volontà è acquisito. La disciplina del contratto non fa dipendere la rilevanza giuridica
dell’atto dalla volontà interna. Il contratto è valutato come fenomeno sociale e ciò che conta è il valore obiettivo che
assume quale atto decisionale mediante il quale le parti costituiscono, estinguono o modificano un rapporto
patrimoniale. La disciplina del contratto conferma i seguenti punti.
1. L’atto che non ha il significato di atto di volontà non vale come atto negoziale.
2. L’atto che ha il significato di un atto negoziale impegna il suo autore anche se il suo volere sia diverso da
quello manifestato. La mancata corrispondenza tra la volontà dichiarata e quella interna non priva l’atto del
valore negoziale.
3. L’atto negoziale deve essere imputabile al soggetto. È imputabile al soggetto l’atto che proviene da questo o
da chi è legittimato a rappresentarlo. L’atto è imputabile al soggetto che abbia dato causa al manifestarsi di
esso. Ad esempio chi si serve di terzi per comunicare la propria dichiarazione subisce i rischi di una
trasmissione infedele ad essa.
Ha valore negoziale l’atto imputabile al soggetto ed obiettivamente valutabile come atto di autonomia privata.
Il soggetto può restare impegnato per un atto che non ha realmente voluto. Si parla di un principio di auto
responsabilità. Chi immette o da causa all’immissione di dichiarazioni negoziali è assoggettato alle conseguenze di
esse.
Da questa nozione di auto responsabilità esula l’idea di una sanzione a carico del dichiarante per un comportamento
negligente. Il dichiarante rimane impegnato dalle sue dichiarazioni o di quelle alle quali abbia dato causa a prescindere
dalla sua condotta in termini di colpa.
Il principio dell’autoresponsabilità assegna il rischio di una dichiarazione non conforme alla volontà e di una
dichiarazione non voluta. Rimane da spiegare la ragione di tale rischio. Se per un errore del manovratore di un telex
pubblico il destinatario riceve una dichiarazione diversa da quella voluta dal mittente, occorre chiedersi perché debba
essere il mittente a subire il rischio di tale errore. La spiegazione deve essere ricercata nell’esigenza di tutela
dell’affidamento del destinatario. Chi emette una dichiarazione negoziale o un comportamento negoziale suscita nel
destinatario l’affidamento che l’atto sia serio e conforme al significato. L’esigenza della tutela di quest’affidamento
supera l’esigenza di tutela del dichiarante perché la rilevanza delle deficienze pregiudicherebbe la certezza del
commercio giuridico.
Si potrebbe pensare che il principio dell’affidamento assurga a fondamento del negozio, nel senso che l’atto ha valore
negoziale sul quale il destinatario ha fatto affidamento. Il principio non trova applicazione. Non basta che il
destinatario faccia affidamento su una realtà inesistente se questa non è riferibile alla parte. Il danno di tale evento
non può essere addossato al soggetto rimasto estraneo. In questo caso il danno deve rimanere nella sfera di colui che
lo ha subito. Nell’ipotesi di falsa rappresentanza, il terzo non può invocare il suo affidamento nei confronti
dell’apparente rappresentato che non vi abbia dato causa.
Quando l’atto è imputabile al suo autore, il principio dell’autoresponsabilità è inoperante se il destinatario ne conosce
il reale significato o dovrebbe conoscerlo (il destinatario sa che la dichiarazione è stata erroneamente trasmessa …).
Il principio dell’autonomia privata è integrato dal principio
dell’autoresponsabilità, il quale trova giustificazione e limite nella tutela dell’affidamento.
LE PARTI
Nozione di parte
Parte o contraente in senso sostanziale è il titolare del rapporto contrattuale, il soggetto cui è imputato l’insieme degli
effetti giuridici del contratto. Parte o contraente in senso formale è l’autore del contratto, chi emette le dichiarazioni
contrattuali costitutive.
Questi significati hanno riguardo ai 2 profili del contratto quale atto e rapporto. Chi è parte dell’atto è anche parte del
rapporto. È possibile che le 2
posizioni non coincidano. Ciò si riscontra nella rappresentanza diretta, dove il rappresentante è parte formale mentre
parte sostanziale è il rappresentato a cui sono imputati diritti ed obblighi scaturenti dal contratto. La distinzione rileva
nelle ipotesi in cui un terzo subentra nella titolarità del rapporto contrattuale (cessionario del contratto) diventando
parte del rapporto ma non dell’atto costitutivo.
La nozione di parte fa riferimento ai soggetti dell’atto o del rapporto. La dottrina ritiene che la nozione prescinde dai
soggetti e debba essere identificata nella posizione di interesse che si contrappone ad altra posizione di interesse. La
parte sarebbe un centro di interessi. Rimane unica se comprende più persone. Ad esempio la vendita è un contratto
con 2 parti anche se più persone possono concorrere a formare la parte.
Tale opinione si ritiene conforme alla legge che parla di parti e non di persone. Deve rilevarsi che fa riferimento ai
soggetti che costituiscono e assumono il rapporto contrattuale e non ad un centro di interessi non destinatario di
imputazioni giuridiche. I problemi della parte sostanziale attengono a coloro che assumono la titolarità del rapporto e
non al centro d’interessi.
Appare giustificato reputare che se più persone assumono la titolarità del rapporto contrattuale, ciascuna è parte
sostanziale del contratto. Ad esempio i
coniugi che vendono un bene comune sono parti del contratto.
Nel concetto di parte non entrano gli interventori esterni, che intervengono nel contratto senza assumere la titolarità
del rapporto. L’intervento può avere contenuto riconoscitivo, autorizzativo o di garanzia.
Il contratto plurilaterale
Il contratto plurilaterale è costituito da più di 2 parti in senso sostanziale. La parte deve intendersi come centro di
interessi. Il contratto plurilaterale si caratterizza per la presenza di più centri di interesse. Non devono considerarsi
contratti plurilaterali i contratti cui partecipa una pluralità di persone riconducibili a 2 centri di interessi. Tali contratti
sono chiamati a parte complessa.
La pluralità è riscontrabile nei contratti con comunione di scopo. I contratti plurilaterali con comunione di scopo sono
previsti da codice: le vicende che colpiscono uno dei vincoli non coinvolgono l’intero contratto salvo che tale vincolo
debba considerarsi essenziale.
Secondo una tesi i contratti con comunione di scopo rappresenterebbero l’unico modello di contratto plurilaterale e gli
accordi a più parti senza comunione di scopo sarebbero negozi plurilaterali. Altra tesi ritiene che possono esservi
contratti plurilaterali con comunione di scopo e senza comunione di scopo. Rimane da stabilire cosa debba intendersi
per contratto plurilaterale con comunione di scopo. La comunione di scopo è vista nella unicità del risultato giuridico o
nel vantaggio comune delle parti. Può dirsi che la comunione di scopo è identificata dall’attività o dall’organizzazione
di gruppo. Sembra giustificato includere nei contratti plurilaterali con comunione di scopo i contratti di società, di
associazione e di consorzio. Contratti plurilaterali senza comunione di scopo sono le convenzioni matrimoniali
plurilaterali, il contratto di divisione, la transazione plurilaterale …
risultati, che l’uso del nome di altra persona sia fatto per imputare ad essa il rapporto: può configurarsi un’ipotesi di
spendita del nome del rappresentato. Se il contraente ha il potere di rappresentanza, il rappresentato diviene parte
sostanziale del contratto. Analoga situazione deve ammettersi in base al principio di apparenza imputabile quando la
persona causa una situazione di apparenza per la quale il terzo è indotto a credere di contrattare con essa.
La legittimazione
La legittimazione è il potere di disposizione del soggetto.
La legittimazione contrattuale è il potere di disporre dell’oggetto del contratto. Può dirsi che la parte ha la
legittimazione contrattuale se ha il potere di determinare gli effetti giuridici previsti dal contratto. La
legittimazione può mancare. Se la parte contrae in nome altrui la legittimazione può mancare in quanto il
soggetto non ha il potere di imputare gli effetti del contratto alla parte sostanziale.
La legittimazione è un requisito soggettivo di efficacia del contratto. La mancanza non comporta l’invalidità del
contratto ma l’inefficacia rispetto all’oggetto di cui la parte non è competente a disporre.
Il soggetto è legittimato a disporre delle posizioni che ricadono nella sua sfera giuridica. La legittimazione ha titolo
quale potere riconosciuto ai consociati di disporre della propria sfera personale e patrimoniale. Il titolare di una
situazione giuridica può non essere legittimato a disporne in quanto dichiarato fallito o sussista un vincolo di
sequestro.
Il soggetto non è legittimato a disporre della sfera giuridica altrui. Nel diritto privato il soggetto decide dei propri
interessi e non altrui. Il contratto è un autoregolamento di privati interessi e non una regola eteronoma imposta da
altri. Tale principio è sancito dalla norma secondo la quale il contratto produce effetti tra le parti e non rispetto ai terzi.
Il soggetto può avere la legittimazione a disporre dell’altrui sfera giuridica. Questa legittimazione può avere titolo
negoziale. Il titolare di una posizione giuridica può legittimare altri a disporre di tale posizione. L’atto che legittima il
soggetto a disporre dell’altrui sfera giuridica rientra nella categoria dell’autorizzazione privata.
La legittimazione può avere titolo legale. La possibilità si spiega in ragione della tutela di un soggetto non in grado di
provvedere ai propri interessi. A volte l’intervento del terzo può essere giustificato dall’inerzia del titolare se questa
pregiudica un apprezzabile interesse del terzo. Si pensi al coniuge che in regime di comunione può essere autorizzato
dal giudice a compiere atti di straordinaria amministrazione in caso di rifiuto del consenso o di lontananza dell’altro
coniuge.
La legittimazione a disporre dell’altrui sfera giuridica può essere in nome proprio o in nome altrui. Quest’ultima
prende il nome di potere di rappresentanza.
LA RAPPRESENTANZA
Nozione generale di rappresentanza
La rappresentanza è il potere di un soggetto (il rappresentante) di compiere atti giuridici in nome di un altro soggetto
(il rappresentato). Questa nozione, che identifica la legittimazione ad agire in nome altrui, concerne la rappresentanza
diretta.
La rappresentanza indiretta indica la legittimazione del soggetto ad agire in nome proprio nell’interesse altrui (per
conto altrui). Nella rappresentanza diretta il rappresentato diviene parte sostanziale assumendo la titolarità del
rapporto e in quella indiretta non diviene parte del contratto. Questa differenza tende ad attenuarsi nella disciplina
legislativa poiché il contratto stipulato da un rappresentante indiretto può esplicare effetti diretti sulla sfera giuridica
dell’interessato. Anche se gli effetti non si producono immediatamente in capo al rappresentato, il risultato del
contratto deve essere riversato in capo a quest’ultimo.
Si giustifica l’intendimento di una nozione di rappresentanza quale legittimazione ad agire per conto altrui.
Questa nozione non esclude la rilevanza della distinzione tra rappresentanza diretta ed indiretta: la prima
caratterizzata dall’agire in nome del rappresentato, e dalla imputazione del rapporto a quest’ultimo; la seconda
dall’agire in nome proprio ma per conto del rappresentato, e dalla responsabilità personale del rappresentante nei
confronti del terzo contraente. L’istituto della rappresentanza è inquadrato in una nozione di sostituzione, connotata
dall’agire di un soggetto in luogo di un altro.
Di sostituzione la legge processuale parla in un significato più ristretto, riferendola all’ipotesi di chi faccia valere in
nome proprio un diritto altrui. Il concetto di sostituzione è riscontrabile in diritto privato, dove può avere fonte legale
nella legge in ipotesi circoscritte (come l’azione surrogatoria ed il contratto estimatorio …).
Il rappresentante volontario o legale può avere la rappresentanza sostanziale nel processo, il potere di agire o essere
convenuto in nome del rappresentante. Questa rappresentanza è indicata come sostanziale per distinguerla rispetto
alla rappresentanza processuale, quale potere di rappresentare la parte in difesa nel giudizio. La rappresentanza
processuale ha per oggetto il compimento o il ricevimento degli atti attraverso i quali si attua il diritto di difesa, che la
legge riserva al difensore.
La rappresentanza processuale è tecnica e può essere esercitata dall’avvocato iscritto all’albo professionale ed ha per
oggetto gli atti del processo. Questa rappresentanza non attribuisce all’avvocato il potere di compiere gli atti che
importino disposizione della pretesa controversa. A tal fine occorre l’attribuzione di un potere di rappresentanza
sostanziale.
La rappresentanza organica
La rappresentanza organica indica il potere rappresentativo che compete agli organi esterni di un ente giuridico.
L’organo è l’ufficio competente ad esercitare le funzioni di un ente giuridico.
Il potere rappresentativo spetta agli organi esterni o rappresentativi che hanno il potere di compiere atti giuridici in
nome dell’ente (ad esempio
l’amministratore di una società, …).
La rappresentanza organica si caratterizza perché l’organo rappresentativo si immedesima nella struttura dell’ente.
L’organo agisce come parte integrante. L’attività dell’organo è attività di una parte dell’ente, e viene imputata all’ente.
Il rapporto organico rileva ai fini della responsabilità extracontrattuale di cui risponde l’ente.
Per quanto attiene al negozio, l’imputazione all’ente è imputazione degli effetti: la dichiarazione di volontà è della
persona fisica. Occorre accertare se la persona fisica ha la qualifica vantata e se l’organo ha competenza
rappresentativa.
La distinzione tra persona fisica ed ente secondo lo schema parte formale parte sostanziale spiega e giustifica
l’applicazione della disciplina della rappresentanza. La possibilità che il momento deliberativo sia di competenza di
organi diversi da quello rappresentativo lascia intendere come trovi applicazione la normativa attinente ai vizi della
volontà ed agli stati oggettivi.
La rappresentanza legale trova fondamento nell’interesse per il quale l’ufficio è previsto dalla legge.
Per l’incapace legale la rappresentanza è necessaria in quanto rimarrebbe irrealizzata la disponibilità della sfera
giuridica patrimoniale con pregiudizio dell’incapace. Di qui la qualificazione di tale rappresentanza come necessaria.
Nel matrimonio e nella comunione legale il potere del coniuge di compiere atti vincolati per l’atro trova fondamento
nell’obbligo di contribuzione o nelle esigenze di gestione del rapporto di comunione.
Il potere rappresentativo
La dottrina incontra difficoltà a spiegare il fenomeno della rappresentanza poiché questo sembrerebbe contraddire un
postulato dell’autonomia privata, che il negozio è l’atto mediante il quale il soggetto decide della propria sfera
giuridica.
Questa difficoltà è avvertita dalla dottrina tedesca, che aveva elaborato la concezione del negozio quale espressione
della signoria della volontà che la persona esercita sulla sua sfera individuale.
Fra i tentativi di superare questa difficoltà può ricordarsi la teoria della volontà del rappresentato, che riconduce il
contratto alla volontà del rappresentato: il rappresentante sarebbe il portatore della volontà. Tale teoria non è
rispondente al fenomeno della rappresentanza la quale prescinde dalla volontà del rappresentato in ordine al
contratto stipulato dal rappresentante. La stessa obiezione investe la teoria del concorso delle volontà, secondo la
quale la volontà del rappresentato si integrerebbe con quella del rappresentante.
La teoria dell’autorizzazione ravvisa nella rappresentanza un’espressione di autonomia privata in quanto il
rappresentato autorizza il rappresentante. Questa teoria appare insufficiente. La procura è un atto di autonomia
privata ma si tratta di spiegare come si possa parlare di un atto di autonomia privata riguardo all’atto del
rappresentante, con riguardo ad un atto che produce i suoi effetti in capo ad un terzo (rappresentato). Il riferimento
all’autorizzazione non da questa spiegazione ed è limitato alla rappresentanza volontaria mentre per gli atti compiuti
dal rappresentante legale resta da vedere se e come tali atti si qualificano atti di autonomia privata.
Per intendere l’atto del rappresentante come esplicazione di autonomia privata occorre riconoscere che il
rappresentante si sostituisce al rappresentato ed esplica il potere di autonomia negoziale di questo. Ciò spiega perché
l’atto del rappresentante esiga la legittimazione del rappresentato e sia precluso dalle incapacità generali o speciali
che colpiscono il rappresentato. L’atto del rappresentante è atto di esplicazione dell’autonomia del rappresentato. In
quanto l’atto è compiuto in sostituzione del rappresentato, al rappresentante occorre il potere di sostituirsi
all’interessato, cioè il potere rappresentativo.
Il potere rappresentativo non deriva al rappresentante dalla capacità di agire della persona. È un potere che trova
titolo nella legge o nell’atto autorizzativo.
Il conferimento negoziale del potere rappresentativo da parte del rappresentato non è traslativo in quanto il
rappresentato attribuisce una posizione di potere in capo al rappresentante senza perdere la legittimazione a disporre
dei propri diritti. Di cessione può parlarsi relativamente all’atto mediante il quale il rappresentante sostituisce
interamente un’altra persona nella titolarità del potere rappresentativo. Rispetto alla cessione deve essere tenuta
distinta la subdelega, atto mediante il quale il rappresentante conferisce ad una terza persona l’esercizio del potere
rappresentativo conservando la titolarità di quest’ultimo.
La possibilità di una cessione del potere rappresentativo trova soluzione negativa che risponde alla negazione della
cedibilità dei poteri. Il divieto della cessione e della subdelega si fonda sul carattere personale e fiduciario del potere
rappresentativo. Il rappresentante può cedere o subdelegare il potere quando ciò sia previsto dal titolo.
La subdelega può ammettersi quando si renda necessaria. Alla possibilità di subincaricare un terzo corrisponde la
possibilità di subdelegare il potere rappresentativo.
Si ammette la possibilità della subdelega di poteri determinati da parte di organi di enti giuridici privati e di
rappresentanti generali.
La procura
La procura è il neozio unilaterale mediante il quale un soggetto conferisce il potere di rappresentarlo.
Si inquadra nell’ambito dei negozi autorizzativi, qualificandosi come l’autorizzazione ad agire in nome
dell’autorizzante.
È un negozio unilaterale poiché si perfeziona con la manifestazione di volontà dell’autore senza che occorra il
consenso del destinatario. La unilateralità si spiega in quanto attribuisce una posizione di potere in capo al
procuratore senza comportare perdita di diritti o assunzione di obblighi.
La procura è un negozio astratto nel senso che produce il suo effetto a prescindere dal rapporto sottostante tra
rappresentante e rappresentato
(principio della separazione).
È dubbio che si possa parlare di astrattezza. Al riguardo la procura esprime una ragione giustificativa dell’atto,
l’interesse del dominus a farsi sostituire nel compimento di attività giuridiche. Se in concreto la causa non esiste o è
illecita, il negozio di procura deve reputarsi nullo. Si pensi ad una procura conferita per l’attuazione di un rapporto
contrario ai terzi che abbiano fatto ragionevole affidamento su di essa. Sul principio dell’invalidità prevale quello
dell’apparenza.
La procura è un negozio recettizio, nel senso che l’efficacia sarebbe subordinata alla ricezione da parte del
rappresentante o del terzo.
Altri ritiene che la procura non sia recettizia in quanto la conoscenza non è funzionale all’effetto e non risponde ad
un’esigenza di tutela del destinatario. Questa motivazione appare valida. La non comunicazione dell’atto potrebbe
indicare che il soggetto non ha ancora deciso in ordine alla concessione del potere rappresentativo. Se la volontà è
stata manifestata l’esercizio del potere da parte del rappresentante appare legittimo senza la necessità di una
comunicazione fatta dal rappresentato al rappresentante o al terzo. La procura richiede la forma richiesta dalla legge
per l’atto da compiersi. Se gli atti non richiedono la forma scritta la procura può essere orale. La procura orale può
rendere difficile al rappresentante l’onere di provare i suoi poteri rappresentativi. Il terzo può chiedere a quest’ultimo
di giustificare i suoi poteri e dimostrare l’esistenza ed il contenuto della sua posizione rappresentativa. Se il
rappresentato ha conferito procura scritta il terzo può chiederne una copia firmata dal rappresentante.
La questione della prova è distinta rispetto a quella della forma della procura, la quale concerne la validità dell’atto.
La procura può essere generale o speciale. È generale quando conferisce il potere di compiere tutti gli atti relativi alla
gestione degli interessi patrimoniali o di una determinata attività. È speciale quando conferisce il potere di compiere
singoli atti giuridici.
La procura generale non comprende gli atti di straordinaria amministrazione non in essa indicati e non comprende gli
atti che devono essere specificamente autorizzati dal rappresentato.
Il rappresentante non può compiere donazioni senza una procura specifica a donare nella quale è designata la persona
del donatario o le persone o categorie entro le quali può fare la scelta del donatario. L’oggetto della donazione deve
essere specificato o ne deve essere indicato il valore massimo.
La procura generale non comprende la rappresentanza in giudizio, salvo che il rappresentato non abbia residenza né
domicilio nel territorio nazionale. La rappresentanza in giudizio deve essere conferita per iscritto. Il procuratore
generale e che è preposto alla cura di determinati affari si intendono legittimati a far valere le ragioni del
rappresentato per quanto attiene agli atti urgenti ed alle misure cautelari.
Rappresentanza gestoria
Il potere di rappresentanza è previsto in capo a chi ha una funzione gestoria nell’ambito di enti giuridici o imprese.
Trattandosi di un effetto del rapporto si ritiene che possa parlarsi di rappresentanza legale. Ma deve escludersi
l’accostamento con le ipotesi di rappresentanza legale in senso proprio, in cui il potere rappresentativo ha fonte nella
legge e non discende dalla volontà del rappresentato. La rappresentanza gestoria trova titolo in un rapporto negoziale.
La disciplina legale di questo rapporto comprende il potere rappresentativo come integrazione di un rapporto
negoziale in quanto scaturente da un atto di autonomia.
La disciplina legale della rappresentanza gestoria ha carattere dispositivo: i terzi possono presumere che il potere
rappresentativo sia conforme alla previsione normativa e incombe sul rappresentato l’onere di portare a conoscenza
dei terzi che il potere rappresentativo conferito ha un diverso contenuto. Nelle società la rappresentanza gestoria
spetta a ciascun socio e si estende a tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale.
Il codice prevede che lo statuto societario possa escludere o limitare il potere di rappresentanza dei soci. Queste
deroghe non sono opponibili ai terzi di buona fede. Devono essere portate a conoscenza dei terzi con mezzi idonei ed
in mancanza occorre provare che il terzo era consapevole di contrattare con un socio privo del potere rappresentativo.
Se questa prova non viene data, gli atti hanno effetto nei confronti della società.
Nella società di persone a carattere commerciale vige la regola che attribuisce il potere di amministrazione e
rappresentanza a tutti i soci. Le limitazioni del potere di rappresentanza devono essere pubblicizzate mediante
iscrizione nel registro delle imprese. In mancanza le disposizioni che escludono o limitano il potere rappresentativo
sono opponibili in quanto si dimostri che il terzo ne era a conoscenza.
Nelle società di capitali il potere rappresentativo sociale spetta agli amministratori e le limitazioni non sono opponibili
ai terzi, salvo che questi abbiano agito intenzionalmente a danno della società.
Nelle associazioni riconosciute e nelle fondazioni il potere di rappresentanza spetta agli amministratori. Le limitazioni
devono essere pubblicizzate mediante iscrizione nel registro delle persone giuridiche. In mancanza non sono
opponibili ai terzi salva la prova che questi ne erano a conoscenza al momento di contrarre con l’amministratore.
Nelle associazioni non riconosciute il potere di rappresentanza spetta agli organi che hanno il potere di
amministrazione. Non basta il ricoprire una carica sociale. In mancanza di un regime di pubblicità il terzo ha l’onere di
verificare l’esistenza e contenuto del potere di rappresentanza di chi assume di agire in nome dell’associazione.
Per institore, preposto dal titolare nell’esercizio dell’impresa o di una sede o di un ramo di essa, vale la regola
dell’amministratore di società commerciali. All’institore spetta la rappresentanza generale per gli atti pertinenti
l’esercizio dell’impresa e la legittimazione processuale. Le limitazioni devono risultare dal registro delle imprese.
Limitato potere rappresentativo è attribuito al commesso.
Per gli enti aventi personalità giuridica pubblica, le competenze stabilite dalla legge o dalle norme statutarie sono
opponibili al terzo contraente. Le limitazioni occasionali risultanti da atti di delega rientrano nella regola della
inopponibilità al terzo che le abbia ignorate senza colpa.
Esercizio del potere di rappresentanza. La spendita del nome del rappresentato Affinchè il negozio possa considerarsi
stipulato dal rappresentante occorre che esso sia compiuto in nome del rappresentato. La spendita del nome è
requisito di qualificazione dell’atto come rappresentativo.
L’esistenza del potere di rappresentanza non basta a far presumere che l’atto sia compiuto dal rappresentante nella
sua qualità.
Non è necessario che vi sia una dichiarazione di spendita del nome. Importa che l’atto appaia al terzo come compiuto
dal rappresentante nella sua qualità, come atto da riferire direttamente al rappresentato.
Spendita del nome vuol dire esternazione del potere rappresentativo.
Che il rappresentante agisca nella sua qualità può desumersi dalla natura dell’affare e dalle circostanze in cui l’atto è
compiuto. L’atto rientrante nell’attività di un’impresa può presumersi che costituisca esercizio di tale attività anche se
l’amministratore non faccia spendita del potere rappresentativo.
Se l’atto non appare compiuto nell’esercizio del potere di rappresentanza il rappresentante rimane personalmente
impegnato nei confronti del terzo. Il rappresentato può giovarsi degli effetti dell’atto secondo la regola valevo per la
rappresentanza indiretta.
La cura dell’interesse del rappresentato
Il rappresentante deve esercitare il suo potere conformemente all’interesse del
rappresentato. L’obbligo del rappresentante di esercitare il potere conformemente all’interesse del rappresentato
è espressione del principio secondo il quale il titolare di un potere conferito nell’interesse altrui deve usare il
potere conformemente all’interesse per il quale è stato conferito. Il potere di rappresentanza si accompagna ad un
ufficio o ad un rapporto contrattuale che determina gli obblighi a carico del rappresentante. L’obbligo di curare
l’interesse del rappresentato riguarda l’atto della rappresentanza a prescindere dagli obblighi di gestione che il
rappresentante può avere quale esercente la potestà genitoria, mandatario, amministratore di società, … La
rilevanza dell’interesse del rappresentato risulta dalla previsione legislativa secondo la quale il contratto ha effetto
nei confronti del rappresentato.
La cura dell’interesse del rappresentato non è elemento essenziale della rappresentanza. L’atto del rappresentante è
efficace per il rappresentato anche se il rappresentante non agisce nell’interesse del rappresentato. Affinchè
quest’ultimo possa respingere l’atto del rappresentante non basta che sia pregiudizievole ma occorre che sia
compiuto in conflitto di interessi e che il conflitto sia conosciuto o riconoscibile da parte del terzo. In quest’ipotesi
l’atto del rappresentante non è inefficace ma annullabile.
Il conflitto d’interessi è presente nell’ipotesi del contratto con se stesso, nel quale il rappresentante assume la
posizione di parte sostanziale contrapposta al rappresentato o stipula in rappresentanza delle parti contrapposte.
La legge prevede l’annullabilità del contratto concluso dal rappresentante con se stesso, salve le ipotesi in cui il
rappresentante sia autorizzato a concluderlo o in cui il contenuto del contratto sia stato predeterminato in maniera da
escludere la possibilità del conflitto d’interessi.
L’invalidità consegue alla violazione del divieto legale di agire in contrasto con l’interesse del rappresentato. Il
contratto con se stesso denunzia un conflitto di interessi che impedisce al rappresentante, portatore di un interesse
contrastante con quello del rappresentato, di salvaguardare
l’interesse di quest’ultimo. L’invalidità è ragione di tutela del rappresentato. Tale ragione viene meno quando il
rappresentato valuta come insussistente il pericolo di un pregiudizio, autorizzando il compimento dell’atto. Il pericolo
di pregiudizio viene meno nell’ipotesi in cui la predeterminazione del contenuto dell’atto esclude che il
rappresentante possa operare a danno del rappresentato. Ad escludere il pericolo di pregiudizio non basta che il
rappresentato abbia fissato il prezzo di vendita o di acquisto del bene. La fissazione del prezzo deve intendersi come
un limite minimo per la vendita e come un limite massimo
per l’acquisto, fermo restando per il rappresentante l’obbligo di cercare di ottenere il prezzo più vantaggioso possibile.
Il pericolo di pregiudizio deve escludersi quando si tratta di beni che il rappresentato vende usualmente a condizioni
standard ed a prezzi fissi o quando i beni hanno un prezzo che la volontà delle parti non può maggiorare. L’azione
per l’annullamento spetta al rappresentato o alla parte nel cui interesse l’annullamento è previsto dalla legge, e ad
essa si accompagna il rimedio del risarcimento del danno.
Il difetto di rappresentanza
Il difetto di rappresentanza riguarda il contratto stipulato da chi non ha potere rappresentativo o eccede i limiti della
procura (falso rappresentante).
In difetto il contratto non è efficace.
Rispetto al rappresentato non è efficace in quanto l’imputazione degli effetti in capo al rappresentato discende dal
potere di rappresentanza dello stipulante. Se questo non sussiste il negozio rimane estraneo alla sfera giuridica del
rappresentato.
Rispetto al rappresentante è inefficace in quanto si tratta di un atto compiuto nel nome del rappresentato. È destinato
a produrre effetti nella sfera giuridica del rappresentato e non su quella del rappresentante. Il mancato prodursi degli
effetti in capo al rappresentato non può comportare la sostituzione della parte prevista con un soggetto estraneo al
negozio. La stipulazione del contratto in difetto del potere di rappresentanza rende responsabile il rappresentante
verso il terzo per i danni che questi ha sofferto.
Nei confronti del terzo il contratto è inefficace. Non si producono effetto obbligatori o reali poiché tali effetti
presuppongono l’operatività del contratto. L’inefficacia del contratto non significa che tale contratto sia nullo o
annullabile. È privo di un requisito di efficacia che può essere integrato successivamente mediante ratifica del
rappresentato.
Il contratto concluso dal falso rappresentante è un contratto perfetto che consta di tutti gli elementi costitutivi
(accordo, oggetto, causa e forma). La ratifica lo rende efficace.
In dottrina è anche sostenuta la tesi della nullità e della incompletezza del negozio stipulato dal falso rappresentante.
L’idea che il contratto stipulato dal falso rappresentante sia imperfetto trova
riscontro nelle massime che definiscono tale contratto come negozio soggettivamente complesso a formazione
successiva suscettibile di essere perfezionato con ratifica. Il contratto concluso dal falso rappresentante è sottoposto
alla condizione legale della ratifica.
In quanto sottoposto a ratifica, il contratto è inefficace, improduttivo di effetti obbligatori o reali ma rispetto al terzo
contraente produttivo dell’effetto del vincolo contrattuale. Il terzo contraente è vincolato al contratto che ha concluso
nel senso che non può recedere unilateralmente occorrendo l’accordo con lo pseudorappresentante.
Questo effetto vincolante è conforme al principio di vincolatività dei contratti validamente perfezionati. Il terzo ha
interesse a che la situazione non si protragga a tempo indefinito e può fissare al rappresentato un termine entro il
quale deve decidesi se ratificare o meno.
La ratifica
La ratifica è il negozio unilaterale mediante il quale il soggetto rende efficace l’atto del non autorizzato.
La volontà del ratificante è diretta ad accettare l’operato del falso rappresentante e a conferirgli quella posizione di
legittimazione che avrebbe dovuto avere al momento di stipulare il negozio.
La ratifica è intesa come negozio diretto ad integrare un elemento costitutivo del contratto. Ma tale contratto deve
considerarsi perfezionato ed integro. Altri propende per la natura autonoma della ratifica, ravvisando un negozio
autonomo col quale il ratificante si appropria dell’atto del falso
rappresentante. La formula appare dubbia in quanto l’appropriazione dell’atto si realizza attraverso gli effetti del
contratto stipulato dal falso rappresentante, risultando la ratifica un sopravvenuto requisito di efficacia. Ciò che rende
efficace il contratto nei confronti del rappresentato è l’atto di autorizzazione che integra il difetto di legittimazione del
rappresentante. La ratifica esprime il potere di legittimazione dell’interessato attraverso il quale recupera l’atto nella
propria sfera giuridica attraverso una procura successiva.
La ratifica è sottoposta alla disciplina valevole per la procura e richiede la stessa forma prescritta per il contratto
stipulato.
La ratifica può essere manifestata tacitamente. Una ratifica è riscontrabile nella volontà del rappresentato di avvalersi
delle posizioni derivanti dal negozio posto in essere dal falso rappresentante.
La ratifica è atto recettizio nei confronti del terzo contraente. Questa opinione si giustifica in base al rilievo che l’atto
rende operante il rapporto contrattuale fra terzo e rappresentato.
La ratifica ha effetto retroattivo, nel senso che il contratto acquista efficacia fin dall’origine. Questo effetto non può
operare in pregiudizio dei terzi.
In attesa della ratifica il contratto è vincolante per il terzo contraente, il quale non può sciogliersi unilateralmente
occorrendo un accordo col rappresentante. Il codice non prevede un limite temporale per il potere di ratifica, ma la
situazione di pendenza non può protrarsi a tempo indefinito in pregiudizio del terzo. A questo la legge accorda un
diritto, il potere di assegnare al rappresentato un termine per l’esercizio di ratifica. La decadenza ha effetto a
prescindere dalla volontà dell’interpellato.
Suscettibili di ratifica sono gli atti giuridici diversi dal contratto, compiuti dal falso rappresentante e anche i negozi
unilaterali. Opinione ritiene ingiustificato l’assoggettamento del terzo alla decisione dell’interessato.
L’assoggettamento alla ratifica espone il terzo agli effetti dell’atto ratificato e non crea una situazione di particolare
pregiudizio, che potrebbe derivare dalla retroattività della ratifica, inoperante però ai danni dei terzi. Il terzo
contraente può subire pregiudizio dal protrarsi della situazione di pendenza, ma soccorre il rimedio della
interpellazione.
La rappresentanza indiretta
La rappresentanza indiretta, detta di interessi, indica il potere del soggetto di compiere atti giuridici in nome proprio
nell’interesse altrui. Questa posizione si accompagna ad un obbligo del gestore di agire per conto dell’interessato. Il
contratto dal quale scaturisce tale obbligo è il mandato mediante il quale una parte si obbliga a compiere atti o attività
giuridiche nell’interesse dell’altra.
Il mandato può conferire al mandatario il potere di rappresentanza. È possibile che il mandato sia conferito senza
rappresentanza. Il contratto è stipulato dal mandatario in nome proprio ed è in capo a questo che si costituisce il
rapporto contrattuale.
Il mandatario senza procura è titolare di una posizione che viene designata come di rappresentanza indiretta e che è
una posizione di potere in quanto il mandatario è autorizzato a incidere sulla sfera giuridica del mandante, che ha
l’obbligo e il diritto di recepire gli effetti dell’atto autorizzato.
Taluni effetti si producono direttamente in capo al mandante. I beni mobili ed i crediti cadono automaticamente nella
titolarità di quest’ultimo. Il mandante può rivendicarli come propri e il suo diritto cede di fronte all’acquisto fatto dai
terzi in buona fede (possesso vale titolo).
I creditori del mandatario non possono aggredire tali beni per il soddisfacimento delle loro ragioni. Il diritto del
mandante è opponibile ai creditori solo in quanto il mandato abbia data certa anteriore al pignoramento. Per quanto
riguarda l’acquisto dei beni immobili e mobili registrati la titolarità di tali beni passa al mandante a seguito di un atto di
trasferimento da parte del mandatario. Il mandatario è obbligato a tale trasferimento ed in caso di inadempimento il
mandante può chiederne l’esecuzione in forma specifica. Trattandosi di beni immobili il mandato deve avere forma
scritta a pena di nullità.
Il mandante non è ne parte formale né parte sostanziale del contratto. Il rapporto contrattuale si instaura tra
mandatario e terzo contraente. È il mandatario che rimane obbligato nei confronti del terzo, rispondendo per
inadempimento, che acquista i crediti derivanti dal contratto stesso, che è legittimato ad esercitare le impugnazioni
contrattuali.
La legge prevede il potere del mandante di agire in sostituzione del mandatario per esercitare i diritti di credito
derivanti dal mandato, in quanto ciò non pregiudichi i diritti del mandatario.
La nomina
La nomina ha natura negoziale. È il negozio unilaterale mediante il quale lo stipulante imputa il rapporto contrattuale
al terzo con effetto retroattivo. La nomina esplica efficacia se lo stipulante è legittimato ad imputare al terzo il
rapporto contrattuale. Lo stipulante è legittimato se al momento della nomina abbia il potere di rappresentanza del
terzo, sia volontaria che legale. La mancanza del potere rappresentativo comporta l’inefficacia della nomina, la quale
può essere accettata dal terzo. Questa accettazione viene considerata come ratifica. La ratifica deve intervenire entro
il termine stabilito per la nomina. Oltre tale termine il rapporto si consolida in capo allo stipulante. La nomina deve
essere fatta a pena di nullità nella forma usata per il contratto. Se tale contratto è stato stipulato per atto pubblico la
nomina deve essere fatta per atto pubblico.
La nomina è soggetto al regime di pubblicità del contratto cui inerisce. Se il regime è la trascrizione occorre trascrivere
l’atto di nomina. La nomina trascritta dopo la scadenza del termine è in opponibile al terzo avente causa dallo
stipulante che abbia anteriormente trascritto il proprio atto di acquisto.
La nomina è un atto recettizio. Deve essere comunicata al promittente nel termine di 3 giorni dalla stipulazione del
contratto. Le parti possono stabilire un termine più lungo ma ai fini fiscali se la nomina è fatta oltre il terzo giorno si
considera come se lo stipulante avesse acquistato in proprio e rialienato al terzo (doppio passaggio della proprietà).
Si ha gestione di affari altrui quando il soggetto assume consapevolmente e senza esservi obbligato la cura
dell’interesse di chi non è in grado di provvedervi.
La gestione di affari altrui è disciplinata dalla legge tra le fonti non contrattuali dell’obbligazione. Le obbligazioni che
nascono da tale gestione sono l’obbligazione del gestore di continuare la gestione intrapresa e dell’interessato di
adempiere le obbligazioni assunte in suo nome dal gestore e di rimborsare a quest’ultimo le spese sostenute.
La cura dell’affare altrui rileva come oggetto di un potere legale
rappresentativo in quanto il gestore è legalmente autorizzato ad agire per conto o anche nel nome dell’interessato
(alla strega di un mandatario). Come fonte legale la gestione degli affari altrui è un fatto giuridici volontario, un’attività
cui la legge riconnette effetti. Anche se la gestione si esaurisce rispetto ai terzi in un solo negozio costituisce un fare
del gestore che si esplica sia nel compimento di atti giuridici sia di atti materiali.
I soggetti
La legge richiede la capacità di agire del gestore. Questa previsione si spiega nell’interesse di tale soggetto in quanto la
gestione comporta il sorgere di obbligazioni in capo al gestore. Trova applicazione il principio secondo il quale
l’incapace può compiere atti giuridici leciti tranne quelli suscettibili di conseguenze sfavorevoli. Trattandosi di una
fonte legale di obbligazioni non vi è luogo per un’azione di annullamento: l’incapacità comporta l’inefficacia. In quanto
è posta a vantaggio dell’incapace, l’inefficacia non tocca gli effetti favorevoli al gestore incapace. Gli effetti favorevoli
non sono correlativi all’obbligo del gestore verso l’interessato bensì alla gestione svolta. Pertanto l’attività attuata a
favore dell’interessato obbliga quest’ultimo a tenere indenne il gestore senza che possa essere eccepita l’incapacità di
quest’ultimo. Il requisito della capacità di agire rileva nel senso che la gestione non è fonte di obbligazioni a carico
dell’incapace.
L’incapacità del gestore può essere eccepita dal dominus nei confronti dei terzi, i quali non possono contare sugli
effetti vincolanti di impegni assunti spontaneamente in nome altrui da parte di chi non è legalmente capace di agire.
L’interessato potrà rispondere in base all’azione di arricchimento.
La gestione può essere svolta a favore di un incapace e l’incapacità costituisce una delle cause di impedimento
dell’interessato ad occuparsi dei propri affari. Quando si tratta di un minore o di un interdetto è obbligo del
rappresentante legale curarne gli affari. L’impedimento di questo legittima l’intervento del terzo a prescindere dai
provvedimenti giudiziari che possono imporsi per assicurare all’incapace una tutela adeguata in relazione alla carenza
del rappresentante legale.
Interessato può essere un ente pubblico nell’ipotesi in cui tale ente si trovi impedito a curare un proprio affare.
Tuttavia si ritiene che esso non sia suscettibile di un obiettivo accertamento da parte dell’autorità giudiziaria. L’ente
pubblico assumerebbe gli obblighi dell’interessato a seguito della ratifica o del riconoscimento anche tacito
dell’utilità della gestione. La necessità del riconoscimento da parte dell’ente pubblico appare ingiustificata in
quanto l’utilità della gestione è un dato oggettivamente valutabile.
La morte del gestore o la sopravvenuta incapacità estinguono l’obbligo della gestione trattandosi di un obbligo
personale assimilabile a quello del mandatario. A differenza del mandato la morte dell’interessato non estingue
l’obbligo del gestore poiché discende da una fattispecie in cui rileva l’esigenza di tutelare il patrimonio dell’interessato
impedito e non da un contratto fondato sulla fiducia delle parti. L’obbligo persiste fino a quando l’erede o il curatore
dell’eredità non possa provvedere alla cura del patrimonio. Analoghi rilievi valgono per la sopravvenuta incapacità
dell’interessato.
3) La spontaneità dell’intervento
La gestione di affari altrui si caratterizza per la spontaneità dell’intervento del gestore. Questo requisito va inteso nel
senso che il gestore non deve essere obbligato alla cura dell’affare dell’interessato. L’istituto della gestione di affari
altrui diviene applicabile quando il mandatario eccede i limiti fissati dal mandato. In tal caso non è operante
l’obbligazione derivante dal contratto e l’attività del mandatario può giustificarsi in base al principio della gestione di
affari altrui se ricorrono gli altri estremi.
L’affare comune
Di gestione di affari altrui può parlarsi in quanto il gestore assuma la cura di un interesse d’altri. Ci si chiede se
l’interesse possa essere comune. La soluzione negativa si spiega con la considerazione che un interesse del gestore
non consentirebbe di giustificare l’attività in base alla causa solidale della gestione di affari altrui, salvo che l’interesse
altrui si presenti in mistura prevalente.
La prevalenza dell’interesse altrui può ravvisarsi nell’ipotesi dell’iniziativa presa dal singolo comproprietario per la cosa
comune. Qui più che l’impedimento degli altri comproprietari è riscontrabile l’inerzia di essi o
dell’amministratore e l’inerzia non varrebbe a giustificare l’intervento (salvi i casi d’urgenza).
Se i comproprietari prendono atto dell’iniziativa senza contestarla, la loro inerzia diviene tolleranza. Ciò comporta che
l’iniziativa non può essere contestata ne il gestore può interrompere l’attività iniziata senza avvisare preventivamente
gli altri interessati e consentire loro di provvedere altrimenti.
Il divieto dell’interessato
Il divieto rende illegittimo l’intervento del gestore.
La rilevanza del divieto si spiega in quanto l’interessato provvede negativamente al proprio affare. Ne consegue che il
divieto deve avere contenuto specifico e deve essere inteso in relazione alla situazione attuale dell’interessato. Non
basta che l’interessato proibisca l’intromissione altrui ne una proibizione se in un tempo successivo risulta
un’imprevista necessità di intervento e l’interessato non è in grado di provvedere.
Il divieto specifico è un negozio giuridico unilaterale recettizio mediante il quale il soggetto regola il proprio interesse
obbligando altri ad astenersi da un comportamento lecito. Esso richiede la capacità di agire e la legittimazione del
proibente.
Il divieto è nullo se contrario alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume. Devono considerarsi senza effetto i
divieti che pregiudicano i diritti della personalità (divieto di prestare alimenti, …) o che compromettono l’utilità sociale
della proprietà.
La gestione illegittima
Se non ricorrono i presupposti legali la gestione di affari è illegittima in quanto non rientra nell’ambito
dell’autorizzazione legale. L’attività del gestore deve considerarsi estranea alla sfera giuridica dell’interessato, non
destinatario degli effetti ne obbligato a rimborsare il gestore salva l’ipotesi della ratifica.
Anche se illegittima l’iniziativa del gestore potrebbe essere utile per l’interessato. In tal caso al gestore spetta l’azione
di arricchimento per ottenere un indennizzo nei limiti dell’incremento patrimoniale conseguito dall’interessato.
Presupposto è che l’iniziativa del gestore non integri un’illecita invasione della sfera giuridica dell’interessato, cioè una
lesione dei suoi diritti arrecata con dolo o colpa. In questo caso l’autore dell’illecito non ha diritto ad un indennizzo ed
è tenuto a risarcire il danno prodotto in base alla regola della responsabilità extracontrattuale. I vantaggi patrimoniali
conseguiti dal danneggiato potranno essere conteggiati nella determinazione del danno risarcibile secondo il principio
della compensazione del luco col danno.
Nei confronti dei terzi il gestore illegittimo è tenuto all’esecuzione degli impegni assunti in proprio nome. Per gli atti
stipulati in nome dell’interessato sorge la responsabilità precontrattuale del gestore che abbia indotto i terzi a
confidare sul suo potere rappresentativo, cioè sull’esistenza dei presupposti di legge valevoli a conferirgli tale potere.
L’istituto della gestione di affari altrui è stato previsto dalla legge 31 maggio 1995 n.218, disponendo che la gestione di
affari altrui è regolata dalla legge dello Stato in cui l’attività di gestione è posta in essere.
L’ACCORDO
Nozione di responsabilità precontrattuale
La responsabilità precontrattuale indica la responsabilità per lesione della libertà negoziale. Non tutela l’interesse
all’adempimento ma l’interesse del soggetto a non essere coinvolto in trattative inutili, a non stipulare contratti
invalidi o inefficaci e a non subire inganni in ordine ad atti negoziali. Si consideri un contratto stipulato a seguito del
dolo dell’altra parte o di un terzo. L’autore del dolo risponderà, a titolo di responsabilità precontrattuale, per avere
indotto con inganno la vittima a stipulare un contratto che non avrebbe stipulato o avrebbe ma a condizioni diverse. Il
danno non consisterà nella lesione dell’interesse positivo ma dell’interesse negativo, interesse a non stipulare un
contratto invalido o a contenuto alterato.
Il codice fa riferimento alla responsabilità precontrattuale nel sancire l’obbligo di comportarsi secondo buona fede
nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto. Altra norma dichiara la responsabilità della parte
che conoscendo o dovendo conoscere l’esistenza di una causa di invalidità non ne ha data notizia all’altra parte. Il
responsabile è tenuto a risarcire il danno che l’altra parte ha sofferto per aver confidato senza colpa nella validità del
contratto.
La giurisprudenza ravvisa nella prima norma l’enunciazione del principio della responsabilità precontrattuale e nella
seconda una specificazione di tale principio.
Nelle trattative le parti devono comportarsi secondo buona fede ma anche con diligenza. La responsabilità
precontrattuale si ravvisa in ipotesi di comportamento colposo del soggetto il quale ad esempio porta avanti le
trattative senza verificare le sue possibilità di impegnarsi o conclude il contratto senza accertare le cause di invalidità.
La responsabilità precontrattuale può avere fondamento oltre che nella scorrettezza anche nella colpa.
L’interesse protetto è quello della libertà negoziale. Le ipotesi di responsabilità precontrattuale sono ipotesi in cui il
soggetto è leso nell’intere alla esplicazione della sua autonomia negoziale.
Tale interesse è giuridicamente tutelato contro comportamenti dolosi o colposi. Esso è tutelato mediante
l’imposizione dell’obbligo di buona fede da intendersi come canone di lealtà: l’obbligo di buona fede è un ulteriore
mezzo di tutela della libertà negoziale.
La responsabilità precontrattuale indica la responsabilità per lesione dell’altrui libertà negoziale realizzata mediante
comportamento doloso o colposo o mediante l’inosservanza del precetto di buona fede.
1) Violazione dei doveri di buona fede nelle trattative e nella formazione del contratto
Nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto le parti devono comportarsi secondo buona fede,
regola di condotta, cioè buona fede in senso oggettivo.
La buona fede esprime il principio della solidarietà contrattuale e si specifica nei due aspetti di lealtà e salvaguardia. La
buona fede impone alla parte di comportarsi lealmente e di attivarsi per salvaguardare l’utilità dell’altra. All’uno ed
all’altro aspetto possono ricondursi gli obblighi in cui si specifica la buona fede nella fase precontrattuale.
Obblighi di buona fede nella fase precontrattuale sono, sotto il profilo della lealtà, informazione, chiarezza e segreto, e
sotto il profilo della salvaguardia l’obbligo del compimento degli atti necessari per la validità ed efficacia del contratto.
a) Informazione
Tipica espressione della buona fede è il dovere di informare l’altra parte sulle circostanze che attengono all’affare. La
violazione del dovere di informazione si qualifica come reticenza.
Del dovere di informazione non riguarda la convenienza del contratto bensì le circostanze obiettive che lo rendono
invalido, inefficace o inutile. Ciascuno ha l’onere di valutare da se la convenienza del contratto che conclude e
sopporta il rischio di una valutazione errata a meno che l’errore sia il risultato del dolo della controparte. Il silenzio
non può essere considerato come dolo e raggiro.
Il dovere di informazione concerne le cause di invalidità ed inefficacia del contratto. Il contraente è responsabile se
stipula il contratto senza avvertire l’altra parte delle cause di invalidità o inefficacia. Stipulato il contratto la reticenza
perde rilevanza in quanto la parte sarà responsabile per aver stipulato il contratto senza averne diligentemente
verificato le condizioni di validità ed efficacia.
Il dovere di informazione comprende le cause di inadempimento del contratto (il venditore ad esempio deve avvertire
che la merce è viziata, …). La stipulazione rende irrilevante il silenzio della parte, la quale dovrà rispondere per
inadempimento o inesatto adempimento del contratto.
Il contraente deve informare la controparte circa la pericolosità della prestazione o del bene e dare istruzioni. Se il
contratto è stipulato tale dovere rientra nel suo contenuto e da luogo a responsabilità contrattuale. Autonomo rilievo
conserva la responsabilità extracontrattuale per il danno arrecato alla persona o ai beni della controparte o di terzi.
Il dovere di informazione comprende le cause di inutilità del contratto o della prestazione.
L’inutilità del contratto può riscontrarsi ad esempio quando stia per verificarsi un evento che lo rende inefficace o
ineseguibile. L’inutilità della prestazione può riscontrarsi quando essa è insuscettibile di soddisfare il suo interesse
come ad esempio quando sia richiesta l’assistenza legale per esperire un’azione estinta o sia noleggiato un mezzo per
trasportare merce che il noleggiatore sa che non potrà essere caricata.
L’inutilità della prestazione può costituire un errore essenziale del contraente se cade su una qualità del bene o
servizio. Se l’interesse da realizzare rientra nel contenuto della prestazione, l’inutilità costituisce inadempimento del
contratto.
b) Chiarezza
La buona fede importa un dovere di chiarezza, nel senso che il contraente deve evitare un linguaggio suscettibile di
non essere compreso.
La difficoltà del linguaggio non impedisce l’applicazione del contratto secondo il significato obiettivo, ma il contraente
non si comporta secondo buona fede se approfitta dell’ignoranza dell’altra parte.
Nelle condizioni generali di contratto la difficoltà del linguaggio può comportare l’inefficacia della clausola rispetto
all’aderente.
c) Segreto
La buona fede esige che i contraenti non divulghino notizie riservate che abbiano appreso in quanto partecipi delle
trattative.
Al segreto è tenuto il mediatore.
Il danno risarcibile
La responsabilità precontrattuale comporta l’obbligo del risarcimento del danno nei limiti dell’interesse negativo,
dell’interesse a non essere leso nell’esercizio della libertà negoziale.
Il danno si distingue rispetto al danno per lesione dell’interesse positivo, quale interesse all’esecuzione del contratto.
In questo caso il danno è rappresentato dalla perdita che il soggetto avrebbe evitato (danno emergente) e dal
vantaggio economico che avrebbe conseguito (lucro cessante) se il contratto fosse stato eseguito. Il danno
dell’interesse negativo consiste nel pregiudizio che il soggetto subisce 1) per avere inutilmente confidato nella
conclusione o validità del contratto o 2) per aver stipulato un contratto senza che l’altrui illecita ingerenza non
avrebbe stipulato o avrebbe ma a condizioni diverse. Nei casi di rottura ingiustificata delle trattative o di stipulazione
di contratto invalido o inefficace, il soggetto avrà diritto al risarcimento consistente nelle spese inutilmente erogate e
nella perdita di favorevoli occasioni contrattuali.
Le spese comprendono i costi sostenuti per lo svolgimento delle trattative
(viaggi, redazione di progetti, …) e per la stipulazione del contratto (assistenza legale, atto pubblico, imposte, …). Le
spese comprendono i costi sostenuti per eseguire o ricevere la prestazione (acquisto di attrezzature, affitto di locali,
…), detratto quanto può recuperarsi mediante reimpiego o rivendita.
La perdita delle favorevoli occasioni contrattuali concerne le possibilità vantaggiose sfuggire a causa dell’inutile
trattativa o dell’inutile stipulazione del contratto. Il danneggiato deve dimostrare che l’inutile trattativa o stipulazione
gli hanno impedito di accettare un’offerta seria e vantaggiosa o hanno ritardato il compimento dell’affare rispetto al
momento in cui vi era un più favorevole prezzo di mercato. L’illecito precontrattuale potrebbe consistere nell’impedire
direttamente la conclusione del contratto.
In questi casi occorre tener ferma la distinzione rispetto al danno per l’inadempimento. Il danno da inadempimento è
determinato in ragione dell’utile netto che il creditore avrebbe conseguito dall’adempimento del contratto. Il danno
da impedimento alla conclusione del contratto consiste nella perdita di un’occasione favorevole e va determinato
tenendo conto delle probabilità positive e di quelle negative (mancata conclusione del contratto per altre cause,
difficoltà di esecuzione, insolvenza del debitore, …).
Se il contratto rimane valido ed efficace il danno da illecito precontrattuale consiste nelle migliori condizioni. Così, nel
caso di dolo incidente, il danno si determina in base al vantaggio che la parte avrebbe avuto se non fosse stata vittima
del dolo.
La risarcibilità del danno nei limiti dell’interesse negativo non rappresenta una limitazione della pretesa risarcitoria. Il
danneggiato ha pur sempre diritto all’integrale riconoscimento del danno sofferto. Il soggetto non lamenta la mancata
o inesatta esecuzione del contratto ma la lesione della libertà negoziale e può pretendere l’integrale risarcimento del
danno.
Il contratto definitivo
Il preliminare risponde all’intento delle parti di creare un vincolo strumentale e provvisorio in ordine alla stipulazione
del definitivo. L’attuazione di tale vincolo conduce alla stipulazione di un contratto che si pone come fonte esclusiva
del rapporto contrattuale. Il contratto definitivo è un nuovo accordo che le parti stipulano in conformità dell’impegno
al quale devono riferirsi tutti gli effetti, obbligatori e reali.
Il preliminare obbliga le parti non solo alla prestazione del consenso ma alle prestazioni che questo implica. Ciò non
esclude che il contratto definitivo si stabilisca come fonte esclusiva del rapporto contrattuale. Il definitivo è infatti
destinato a sostituire il titolo provvisorio del preliminare. In quanto il definitivo è un normale contratto richiede i
requisiti di legittimazione, liceità e possibilità dell’oggetto, di integrità del volere. Il definitivo rileva i fini dell’azione
revocatoria e della rescissione, nonché ai fini della decorrenza dei termini di prescrizione dei diritti e delle azioni
contrattuali. È il definitivo ad essere oggetto della trascrizione.
Con la stipulazione le parti adempiono l’obbligazione ma ciò non incide sulla causa del contratto, che deve essere
individuata nell’interesse pratico perseguito (causa della vendita, causa del mutuo, …).
Preliminare ed opzione
Il preliminare si distingue rispetto all’opzione in quanto obbliga le parti alla conclusione del contratto definitivo mentre
l’opzione concede il diritto di costituire il contratto.
La distinzione deve essere ribadita tra l’opzione ed il preliminare unilaterale in quanto il promittente ha l’obbligo di
stipulare il contratto definitivo mentre il concedente ha una posizione di soggezione in correlazione al diritto
potestativo dell’opzionario.
La distinzione è stata contestata sul piano della funzione in quanto l’interesse perseguito sarebbe il medesimo, cioè
creare uno strumento che assicuri per un certo tempo alla controparte il vantaggio di decidere sull’affare. Questa
identità di funzione inciderebbe sull’interpretazione delle dichiarazioni delle parti, sembrando prevalere
l’intendimento della loro volontà nei termini dell’opzione anziché nel senso di richiedere un’ulteriore manifestazione
di volontà del dichiarante.
La terminologia delle parti non è decisiva ai fini della distinzione fra opzione e preliminare e occorre valutare
l’obiettivo significato dell’affare tenendo cono dell’interesse concretamente perseguito. Deve ammettersi che il
ricorso all’uno o all’altro mezzo negoziale possa trovare rispondenza nel diverso interesse perseguito. Va rilevato che
l’impegno del promittente alla stipulazione del definitivo assicura al promissario il diritto al contratto ma consente di
rinviare la sua completa definizione e soprattutto, a differenza dell’opzione, rende attuale l’obbligo del promittente in
ordine
all’apprestamento del bene. Si pensi ad un’impresa che si obblighi a far fronte alle domande di acquisto di beni o di
utilizzazioni di servizi secondo le future necessità del cliente. L’impegno dovrà qualificarsi in termini di preliminare.
Dovrà escludersi il preliminare se risulta che il dichiarante assume un obbligo in ordine al contratto solo nel caso in cui
la controparte avrà deciso positivamente.
LA CONTRATTAZIONE
L’accordo contrattuale
L’accordo può definirsi come il reciproco consenso delle parti in ordine al contratto, in ordine alla costituzione,
modificazione o estinzione di un rapporto giuridico patrimoniale.
L’accordo è il fatto nel quale si identifica il contratto. Se per formazione o conclusione del contratto si intende la
formazione della fattispecie contrattuale, risulta l’equivalenza di significato tra formazione ed accordo: il contratto è
concluso quando si perfezionerà l’accordo.
L’accordo è disciplinato dal diritto. L’accertamento della conclusione del contratto è accertamento di un fatto e della
sua rispondenza alle regole che ne condizionano la rilevanza giuridica.
Per stabilire se le parti hanno perfezionato l’accordo occorre accertare se sono stati osservati oneri giuridici relativi
alla formazione del contratto (completezza della proposta, rispetto della forma, tempestività
dell’accettazione, …) ma occorre accertare se il comportamento delle parti (dichiarazioni, atti materiali, silenzi, …)
integri una fattispecie valutabile come accordo. Questa valutazione non prescinde dal significato sociale dell’accordo
contrattuale quale incontro di volontà.
Le critiche al dogma della volontà hanno portato a negare che l’accordo possa essere inteso come coincidenza o
fusione delle volontà dei contraenti. Ciò che rileva è il significato obiettivo o socialmente valutabile dei loro atti.
Occorre osservare che gli atti di formazione del contratto hanno il significato obiettivo di manifestazioni volontà ed è
quindi in base a tale significato che deve accertarsi se l’accordo si è perfezionato.
L’idea secondo la quale l’accordo consisterebbe nella conseguenza esteriore delle dichiarazioni non può essere
condivisa. Tale congruenza fa presumere l’accordo ma non vuol dire che l’intesa sia stata raggiunta o raggiunta
secondo il significato apparente degli atti. Una regola interpretativa impone di non fermarsi al significato delle parole
ed indagare l’intenzione delle parti. La ricerca di intenzione può portare ad accertare che l’accordo è diverso da quello
che risulta dal testo e ad escludere che l’accordo sia stato raggiunto pur in presenza di una congruenza letterale delle
dichiarazioni.
Non basta la coincidenza esteriore delle dichiarazioni ma occorre che il significato del comportamento delle parti,
obiettivamente valutato, esprima la concorde volontà di costituire, modificare o estinguere un rapporto giuridico
patrimoniale.
Lo schema principale di formazione del contratto si realizza attraverso la proposta di una parte e l’accettazione
dell’altra. Può formarsi anche attraverso altri schemi, in particolare attraverso la dichiarazione unica, comune ad
entrambe le parti; l’adesione al contratto aperto; l’esercizio del diritto di opzione; …
Natura giuridica
Secondo una prima tesi proposta ed accettazione sarebbero atti giuridici in senso stretto e prenegoziali.
Si tratterebbe di atti giuridici in senso stretto in quanto anteriormente alla conclusione del contratto non producono gli
effetti giuridici del contratto ma effetti legali. La definizione di atti prenegoziali vuole sottolineare che proposta e
accettazione non sono negozi giuridici ma atti che precedono il negozio e lo predispongono.
Questa tesi non vale a spiegare come il contratto, atto di autonomia negoziale, possa essere costituito da atti non
negoziali. Avverte difficoltà chi ipotizza che tali atti cambino la loro natura, trasformandosi in atti negoziali dopo la
conclusione del contratto.
Altra tesi riconosce a proposta ed accettazione la natura di negozi giuridici in considerazione degli effetti che ciascuna
produce anteriormente alla conclusione del contratto. In quanto produttive di propri effetti proposta ed accettazione
andrebbero qualificate come negozi giuridici unilaterali. Si tratterebbe di negozi diversi dal contratto e resta inspiegato
come il contratto possa essere la risultante di negozi giuridici di altra natura e struttura.
Il problema della natura giuridica della proposta e dell’accettazione non prescinde da un rilievo di fondo, che esse
sono le manifestazioni di consenso costitutive del contratto. Mediante la proposta e l’accettazione le parti esprimono
adesione al programma contrattuale manifestando l’intento di costituire, modificare o estinguere un rapporto
giuridico patrimoniale.
Anteriormente alla conclusione del contratto proposta o accettazione non sono atti di diversa natura, ma dichiarazioni
che integrano il contratto in formazione: sono quindi dichiarazioni contrattuali.
Separatamente prese non sono produttive degli effetti contrattuali, ma ciò risponde al fatto che sono manifestazioni di
consenso, dirette ad integrarsi e perfezionarsi nell’accordo.
Proposta ed accettazione hanno autonoma rilevanza in relazione agli effetti immediatamente prodotti. La proposta è
un atto che conferisce al destinatario il potere di perfezionare una fattispecie contrattuale e l’accettazione è l’atto di
esercizio di tale potere. In quanto attributiva del potere di accettazione la proposta è un negozio unilaterale che
produce un autonomo effetto preliminare e che ha distinta disciplina giuridica e contenuto, volti a regolare il potere di
accettazione. L’atto determina il suo destinatario e fissa le modalità di tempo, luogo e forma dell’accettazione.
L’accettazione rileva sotto il profilo delle modalità fissate dalla legge e dal proponente.
Si ritiene nella dottrina che il potere di accettazione conferito all’oblato non costituisca un diritto potestativo.
L’esclusione di tale figura non sembra dimostrata dal fatto che il proponente può fare venir meno il potere dell’oblato
revocando la proposta. La possibilità che una posizione giuridica attiva si estingua in seguito all’atto di revoca non
toglie che fino alla sua estinzione sia una posizione giuridica attiva del soggetto. Revocabilità e irrevocabilità della
proposta non incidono sul contenuto del potere dell’oblato.
Per negare che tale potere costituisca un diritto potestativo si è argomentato dalla mancanza di una autonoma
rilevanza patrimoniale o che esso
rappresenterebbe una facoltà inerente alla capacità di agire. A questa tesi può obiettarsi che il potere dell’oblato
costituisce una posizione particolare cha ha fonte nell’atto del proponente.
Contenuto di questo potere non è quello di modificare la sfera giuridica del proponente, bensì di formare una
fattispecie contrattuale. L’accettazione della proposta rappresenta esercizio di tale potere e esercizio del potere di
autonomia negoziale nonché esplicazione della capacità di agire.
Fino a quando il contratto non è concluso i contraenti non sono vincolati in ordine ai punti definiti, trattandosi di intese
provvisorie che ciascuna parte può rivedere.
Efficacia non vincolante deve riconoscersi alle intese parziali.
Nel corso delle trattative è possibile che le parti elaborino delle minute, cioè delle stesure provvisorie destinate ad
essere sostituite da un testo o documento finale.
La rilevanza giuridica delle minute dipende da ciò, se la provvisorietà concerne il contenuto dell’accordo o la
conclusione del contratto o la forma di esso. Quando la minuta contiene un testo da integrare non è vincolante poiché
esprime un accordo parziale e provvisorio. La minuta può consistere in un progetto contrattuale: le parti elaborano un
testo completo ma si riservano di deciderne l’accettazione.
La minuta può consistere in un documento provvisorio. Le parti considerano concluso l’accordo nella minuta, ma si
riservano di trascriverlo in altro documento o di ripeterlo in forma pubblica.
La revoca della proposta e dell’accettazione sono previste dalla legge come atti recettizi. Acquistano efficacia a seguito
della ricezione da parte del destinatario. La revoca non vale a impedire la conclusione del contratto se non perviene al
destinatario prima che l’accordo sia perfezionato. Se l’oblato revoca l’accettazione occorre che la revoca pervenga al
proponente prima dell’accettazione. La revoca che perviene dopo o contemporaneamente all’accettazione è tardiva in
quanto l’accordo si è già perfezionato.
Se il proponente revoca la proposta occorre che la revoca pervenga all’oblato prima che l’accettazione dell’oblato
pervenga a proponente. La revoca che perviene dopo tale momento (o contemporaneamente) è inefficace essendo il
contratto concluso.
Che la revoca della proposta abbia carattere recettizio non è pacifico. La dottrina e la giurisprudenza sono orientate
nel senso di negare tale carattere. Il proponente potrebbe impedire la conclusione del contratto con l’emissione o
spedizione della revoca, a prescindere dal momento in cui questa sia ricevuta dall’oblato.
La proposta irrevocabile
Il potere di revoca del proponente rappresenta un inconveniente per l’oblato, il quale non può contare sulla
conclusione del contratto alle condizioni indicate nell’offerta. Nell’offerta al pubblico mediante listini la possibilità
della revoca impone ai terzi di controllare se sia ancora valida la proposta originaria.
Al fine di agevolare l’accettazione il proponente può rendere ferma la sua offerta per un certo tempo. In tal caso la
proposta è irrevocabile fino allo scadere del termine.
Il carattere fermo della proposta può essere espresso in vario modo e nei termini di una dichiarazione di irrevocabilità
o di una promessa di mantenere l’offerta. Si tratta di un impegno del proponente che comporta la perdita del potere
di revoca e la conseguente inefficacia della revoca stessa.
La proposta rimane ferma per il tempo stabilito dal proponente ed è stato sostenuto che l’indicazione del termine
sarebbe un elemento essenziale della clausola di irrevocabilità. In mancanza l’atto si convertirebbe in una proposta
semplice. Questa tesi non appare fondata. Che la irrevocabilità non possa protrarsi a tempo indefinito non basta a
giustificare la nullità dell’impegno assunto da proponente perchè non ne sia indicato il termine.
Altra tesi propone l’alternativa della fissazione giudiziale del termine. Questa non appare accettabile per la mancanza
di un riferimento normativo diretto e perché l’intervento del giudice contrasta coll’interesse ad una pronta definizione
dell’affare.
Deve dirsi che se il termine non è indicato si determina in base alla regola valevole per la proposta (il termine sarà
quello necessario secondo la natura dell’affare o gli usi). La clausola di irrevocabilità non muta la natura giuridica della
proposta e ne rende direttamente applicabile la disciplina normativa, salve le regole giustificate nella specifica
funzione della clausola. La proposta irrevocabile non è soggetta a decadenza per morte o sopravventa incapacità del
proponente.
I contratti reali
Secondo la definizione sono reali quei contratti che si perfezionano con la consegna della cosa, quali il mutuo, il
comodato, il deposito, il pegno, il riporto. La consegna non è un momento esecutivo del contratto bensì un elemento
costitutivo, nel senso che senza il contratto non si intende formato.
Questa nozione risulta dal codice che definisce il mutuo come un contratto con il quale una parte consegna all’altra
una quantità di denaro o cose fungibili e l’altra si obbliga a restituire altrettante cose della stessa specie e qualità. La
nozione di contratto reale è stata criticata perché il contrasto col principio dell’autonomia contrattuale e perché in
contrasto con un dato di esperienza che vede il costituirsi di vincoli contrattuali relativi ad operazioni di mutuo,
deposito, … senza la preventiva consegna della cosa. Questa critica non vale a mutare la definizione di contratto reale,
quale che si perfeziona con la consegna della cosa. Si tratta di vedere se le operazioni dei contratti possono essere
oggetto di contratti consensuali: cioè se ad esempio accanto ad un mutuo reale possa esservi un mutuo consensuale.
La risposta deve essere positiva. Niente escludere ad esempio che la parte anziché dare una somma a mutuo si
obblighi a corrispondere le somme richieste dal mutuatario fino ad un certo importo. Niente esclude che la parte
anziché ricevere una cosa in deposito si obblighi a ricevere i beni di cui il depositante richiederà la custodia. Nelle
operazioni di mutuo, deposito, … gli effetti tipici non si producono senza la consegna. Così ad esempio il depositario
non è tenuto a custodire ciò che non ha ricevuto, il diritto di pegno non si costituisce in capo al creditore, … Pertanto
quando può parlarsi di contratto consensuale, la consegna non rappresenta una prestazione dovuta, ma emerge come
requisito necessario per la produzione degli effetti del negozio.
Un terzo inquadramento delle operazioni a consegna necessaria è quello del preliminare. Le parti possono concludere
un contratto preliminare avente ad oggetto la stipulazione di un futuro contratto reale. La stessa legge prevede la
promessa di un mutuo.
Che le parti abbiano stipulato un contratto reale (che attende per perfezionarsi la consegna del bene) o un contratto
consensuale (già perfezionato e con effetti obbligatori) o preliminare, deve essere accertato di volta in volta in sede di
interpretazione contrattuale. In mancanza di indicazioni contrarie può presumersi che l’operazione risponda al tipo
normativo del contratto reale. La consegna può essere spiegata come il requisito in cui si esprime la definitività del
consenso. La presunzione di questo valore della consegna si collega ad un modello sociale in cui l’attribuzione del bene
viene intesa come il fulcro dell’operazione e diviene pertanto segno decisivo della definitività del consenso. La
consegna può assumere un significato più intenso quale segno della giuridicità dell’accordo. Nei contratti reali a titolo
gratuito si è fatto richiamo ad un ipotetico ruolo della consegna quale formalità sostitutiva della causa. La gratuità
dell’operazione non rende questa priva di causa, posto che la causa deve essere ricercata nell’interesse concreto
dell’affare. Le promesse di prestiti o servizi gratuiti o di donazioni di modici donativi possono essere intese come
espressioni di affetto o cortesia, vincolanti sul piano morale e sociale. La consegna del bene invece vale a giuridicizzare
il rapporto rendendo tutelabili obblighi e pretese.
L’offerta al pubblico
L’offerta al pubblico è un’offerta di contratto rivolta ad una generalità di destinatari o a chiunque ne voglia
approfittare.
Deve manifestare la volontà del proponenti di concludere il contratto e deve essere completa. Il contratto si conclude
quando un soggetto accetta la proposta ed il proponente ha notizia dell’accettazione.
Un’offerta incompleta è insuscettibile di accettazione e vale come invito a trattare. Un’offerta completa può avere il
valore di invito a trattare se risulta dalle circostanze o dagli usi.
L’efficacia giuridica dell’offerta al pubblico non è subordinata alla ricezione. È sufficiente che il proponente abbia
emesso la sua offerta rendendola conoscibile.
L’accettazione non conforme vale come controproposta. Il rifiuto del singolo lascia ferma l’efficacia sull’offerta e chi
rifiuta può successivamente accettare.
La forma vincola l’offerente per quanto attiene alla revoca, la quale è efficace quando sia fatta nella stessa forma
dell’offerta o in forma equivalente. L’onere della forma comprende le modalità con le quali l’offerta è stata portata a
conoscenza del pubblico (pubblicazione dell’avviso su determinati giornali, …). L’osservanza delle modalità rende
efficace la revoca rispetto a chi non ne abbia avuto conoscenza. Trattandosi di un onere di pubblicità notizia
l’insufficiente osservanza di tale onere non toglie che la revoca sia efficace nei confronti di chi ne abbia avuta
conoscenza. L’offerente ha l’onere di provare che l’accettante aveva avuto conoscenza della revoca.
Altro problema investe la definizione tra offerta al pubblico e promessa al pubblico condizionata ad una
controprestazione. Qui la formula della promessa non verrebbe ad incidere sulla struttura contrattuale del rapporto.
Chi promette in cambio di una prestazione propone un affare oneroso che esige il consenso di entrambe le parti con la
particolarità che l’adesione dell’interessato deve manifestarsi con l’esecuzione della prestazione. Eseguita la
prestazione, l’obbligo del corrispettivo ha fonte nell’accordo ormai raggiunto. La prestazione eseguita ha nel contratto
non solo la fonte ma anche causa e disciplina.
Altra ipotesi è la promessa pubblica di contratto, quale assunzione di un obbligo di contrarre nei confronti di chi
dimostri di possedere o di realizzare determinati requisiti.
La promessa si perfeziona nelle forme previste per la promessa al pubblico e chi si trova nella condizione voluta ha
diritto alla stipulazione del contratto secondo i termini della promessa.
Una regola valevole per la formazione dei contratti degli enti pubblici è quella che richiede la forma scritta.
L’opzione
L’opzione attribuisce ad una parte (opzionario) il diritto di costituire il rapporto contrattuale finale mediante una
propria dichiarazione di volontà. La dichiarazione della parte vincolata si considera quale proposta irrevocabile pur a
seguito del decesso o della sopravvenuta incapacità del dichiarante. Questo richiamo non vuol dire che il contratto di
opzione sia una proposta irrevocabile. La differenza strutturale è netta nel senso che la proposta è un atto unilaterale
mentre l’opzione è un contratto.
La natura dell’opzione comporta che la dichiarazione rimane ferma per il principio di vincolatività del contratto. Ne
consegue una diversa disciplina del termine. La proposta irrevocabile senza indicazione del termine ha la durata di una
proposta semplice. La mancata indicazione del termine dell’opzione comporta che la determinazione è rimessa al
giudice secondo la regola valevole per i rapporti obbligatori contrattuali.
La natura contrattuale dell’opzione comporta che un’accettazione difforme non toglie la possibilità di una successiva
dichiarazione conforme. L’efficacia della dichiarazione viene meno con la scadenza del termine, l’estinzione del
contratto o la rinuncia dell’opzionario al suo diritto.
Gli effetti dell’opzione tendono ad identificarsi con quelli dell’offerta irrevocabile e ciò spiega l’orientamento di parte
della dottrina volto a svalutare la distinzione tra le due figure. La loro differenza strutturale porta a riconoscere che
l’opzione da luogo alla formazione del contratto secondo lo schema particolare contratto di opzione – esercizio del
potere di accettazione. In tale sequenza il contratto di opzione determina il contenuto del rapporto finale (che è
oggetto dell’accordo delle parti) e rimette la costituzione di tale rapporto ad un atto unilaterale di una di esse.
L’atto dell’opzionario è sufficiente a stabilire il rapporto contrattuale finale senza che occorra un ulteriore accordo. In
ciò si coglie la distinzione rispetto al contratto preliminare, dal quale scaturisce l’obbligo di stipulare il contratto
definitivo. Dall’opzione scaturisce il potere dell’opzionario di formare il contratto finale: tale potere viene qualificato
come diritto potestativo. Al diritto di opzione non fa riscontro una posizione di obbligo. La parte vincolata non è tenuta
ad emettere altre dichiarazioni di consenso. Si tratta di una posizione di soggezione rispetto al potere dell’opzionario.
La parte vincolata non è tenuta né alla prestazione contrattuale finale né all’attività strumentale di cura e
preparazione della stessa. Che il dichiarante debba tenere il comportamento di cura e preparazione della prestazione
non rientra nell’economia dell’operazione, caratterizzata dal potere riservato all’opzionario di costituire il rapporto se
e quando l’operazione gli parrà conveniente. Il comportamento del concedente che rende impossibile la prestazione
(distruggendo il bene, …)da luogo a responsabilità precontrattuale fondata sulla violazione della buona fede. Il
concedente sarà tenuto alla restituzione del premio o corrispettivo dell’opzione, e a risarcire il danno nei limiti
dell’interesse negativo.
Se il comportamento de concedente non rende possibile la prestazione, l’opzionario può esercitare il suo diritto, e la
responsabilità deriverà dall’inadempimento del contratto finale perfezionato.
In quanto destinato a formare il contratto finale, il patto di opzione deve rivestire la forma richiesta per tale contratto.
L’accettazione deve rivestire la stessa forma.
Il patto di opzione prevede un premio a favore del concedente, cioè un corrispettivo.
Il diritto all’opzione è cedibile quando vi sia il consenso del concedente e quando sia cedibile il contratto finale.
Il patto di opzione non è trascrivibile in quanto non conferisce un diritto reale né una pretesa obbligatoria assimilabile
a quella del preliminare.
Il patto di prelazione
Mediante il patto di prelazione il promittente si obbliga a dare al prelazionario la preferenza rispetto ad altri a parità di
condizioni.
È identificato o accostato al preliminare unilatera in quanto ad obbligarsi a dare la preferenza equivale ad obbligarsi a
contrarre con l’avente diritto. Ad escludere l’obbligo vale il rilievo che il promittente rimane libero di contrarre o non
contrarre e nessuna pretesa può riconoscersi al promissario in ordine alla conclusione del contratto. Ne consegue che
non può riscontrarsi inadempimento negli atti di trasformazione o distruzione del bene. Neppure l’accostamento con
l’opzione appare giustificato, dato che il promissario non ha il potere di costituire direttamente il rapporto
contrattuale finale mediante una manifestazione di volontà ne può riscontrarsi una soggezione del promittente.
Occorre riconoscere che la prelazione convenzionale ha propria funzione, la quale caratterizza il patto: l’interesse
perseguito è assicurare ad una parte il vantaggio della preferenza rispetto ad altri.
Questa funzione giustifica causalmente il patto, che può considerarsi stipulato anche senza un corrispettivo a carico
del prelazionario. L’assunzione dell’obbligo di prelazione gratuita non richiede accettazione, essendo sufficiente il
mancato rifiuto.
Il patto esige la stessa forma del contratto per il quale è concesso il diritto di prelazione. La prelazione immobiliare
richiede la forma scritta. Anche se il patto non ha il contenuto di un preliminare comporta l’assunzione di un impegno
negativo in ordine all’alienazione di un immobile.
L’interpretazione del patto di prelazione può deporre nel senso della cedibilità del diritto di prelazione ma la cedibilità
deve ritenersi esclusa in applicazione del principio che tutela l’interesse del contraente a non vedersi imposta come
controparte una persona diversa da quella prescelta.
LA FORMA
La forma del contratto
la forma del contratto è il mezzo attraverso il quale le parti manifestano il consenso.
Le principali forme di contratto sono l’atto pubblico, la scrittura privata, la forma orale ed il comportamento materiale.
Vige il principio della libertà di forma nel senso che il consenso può essere manifestato con qualsiasi mezzo idoneo.
Importa che il consenso sia esternato in un fatto valutabile come accordo.
I contratti che rientrano nella regola generale sono detti a forma libera e si distinguono rispetto ai contratti formali o
solenni.
I contratti formali
Vi sono contratti per i quali la legge richiede una determinata forma a pena di nullità. Questi sono detti formali o
solenni. La forma diviene elemento costitutivo del contratto e viene indicata come forma legale.
I contratti formali si dividono in contratti che devono essere stipulati per atto pubblico e per atto pubblico o scrittura
privata.
Fra i negozi che esigono l’atto pubblico si segnalano la donazione, l’atto costitutivo della società per azioni, le
convenzioni matrimoniali.
L’onere della scrittura privata è richiesto per le alienazioni immobiliari e per gli altri atti dispositivi di diritti reali
immobiliari. Il codice elenca tali diritti (proprietà, usufrutto, …) ma si tratta di un elenco diretto a coprire l’intera area
dei diritti reali immobiliari di godimento.
La forma scritta è richiesta per le locazioni immobiliari ultranovennali e per i contratti di società e di associazione che
prevedono conferimenti in godimento di beni immobili per oltre nove anni. L’indicazione di determinati tipi di
contratto (locazione, società, associazione) non esclude che la norma si applichi ai contratti misti ed innominati e ad
altri tipi di contratto e agli atti negoziali aventi il medesimo oggetto, cioè il trasferimento, la modifica o la rinuncia a
diritti reali immobiliari o la concessione ultranovennale di diritti di godimento.
Le prescrizioni di oneri formali costituiscono deroghe al principio della libertà di forma. L’applicazione ai casi non
previsti incontra il divieto dell’analogia sancito per le norme eccezionali. Questo divieto non preclude
un’interpretazione estensiva delle norme quando si tratta della medesima operazione economica o della medesima
vicenda giuridica.
In dottrina si è sostenuto che la necessità della forma sarebbe in correlazione con la natura dell’effetto e che non vi
sarebbe un onere formale per quei contratti che sono diretti a modificare, risolvere o estinguere i rapporti derivanti
dai contratti formali indicati dalla legge. Il diverso orientamento giurisprudenziale può giustificarsi in base al rilievo che
i contratti risolutivi realizzano la stessa vicenda del contratto risolto, seppure in direzione inversa.
Giustificato appare l’orientamento che richiede la forma scritta per la vendita immobiliare obbligatoria. Questo
contratto ha ad oggetto il trasferimento di un diritto immobiliare e l’effetto obbligatorio è momento strumentale
rispetto a tale risultato. Uguale conclusione deve ammettersi per i contratti obbligatori diretti ad alienare o costituire
diritti reali immobiliari.
Questi contratti costituiscono titolo per un effetto reale che può essere ottenuto in via di esecuzione in forma
specifica. Deve ritenersi necessaria la forma scritta per il mandato ad acquistare beni immobili con obbligo di
ritrasferimento in capo al mandante o terzi.
La soluzione appare coerente con quella espressa in tema di contratto preliminare, il quale deve avere la stessa forma
prescritta per il contratto definitivo.
L’onere della forma pubblica richiede che le parti dichiarino la loro volontà in una lingua ufficiale.
Per quanto attiene alla scrittura privata si discute se l’onere della forma possa dirsi assolto quando le parti ricorrono
ad un linguaggio convenzionale. La
soluzione negativa si giustifica in base al rilievo che il linguaggio convenzionale è occultamento della reale volontà
delle parti, e tale occultamento comporta che l’intento occultato deve rivestire la forma dovuta. Se non vi è
occultamento l’onere formale deve reputarsi assolto pur nel ricorso ad espressioni equivoche o erroneamente
formulate o necessarie di esplicazione. Si tratta di chiarire il senso della volontà manifestata formalmente dalle parti
anche se imperfettamente.
L’atto pubblico
Il codice civile si occupa dell’atto pubblico definendo come il documento redatto con le richieste formalità da un
notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede.
Pubblica fede vuol dire piena efficacia probatoria dell’atto. L’atto pubblico fa piena prova di ciò che è documentato,
ossia della provenienza del documento dal pubblico ufficiale, delle dichiarazioni delle parti e dei fatti che il pubblico
ufficiale attesta essere avvenuti in sua presenza.
Il pubblico ufficiale documenta la dichiarazione emessa dalla parte ma non la verità e la serietà del suo contenuto. Chi
contesta che la dichiarazione si stata fatta ha l’onere di dimostrare la falsità del documento. Chi afferma ad esempio
che la dichiarazione è stata estorta con violenza si limiterà ad esercitare l’azione di annullamento del contratto in
ragione della sua invalidità sostanziale.
Occorre ricordare che il notaio non si limita a registrare ciò che le parti dicono, ma deve indagare la loro volontà. È
tenuto a non rogare atti nulli per contrarietà alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume e deve accertare
l’insussistenza di alcune cause di invalidità. L’ambito della responsabilità del notaio si è ampliato attraverso una
tipizzazione dell’incarico del cliente quale mandato che obbliga il notaio ad agire secondo la normale diligenza per
conseguire il miglior risultato possibile. Si è giunti a ritenere che il notaio debba assicurare gli effetti utili del negozio
ed accertare che lo stipulante è dotato della legittimazione e che non sussistono trascrizioni a carico dell’alienante
aventi ad oggetto limitazioni e vincoli non dichiarati.
La regolarità dell’atto pubblico è il rispetto delle prescrizioni sull’ufficiale rogante, sul contenuto e modalità dell’atto.
Le irregolarità si distinguono in invalidanti e non invalidanti, secondo che comportino la nullità dell’atto o sanzioni a
carico dell’ufficiale rogante.
La nullità dell’atto pubblico comporta la nullità del negozio. L’atto pubblico può valere come scrittura privata. Questa
possibilità è prevista nelle ipotesi di irregolarità formali dell’atto pubblico e di incompetenza o incapacità del pubblico
ufficiale, sempreché il documento sia sottoscritto dalle parti. Si parla di conversione dell’atto ma la conversione
riguarda il valore formale dell’atto pubblico, che si riduce a quello della scrittura privata avendone tutti i requisiti.
La scrittura privata
Per scrittura privata si intende il documento firmato dall’autore o autori dell’atto. Non è necessaria l’autografia della
dichiarazione, che può essere scritta da un terzo o a macchina. Ciò che importa è che sia autografa la firma. La
sottoscrizione consiste nella firma autografa. Le questioni che si pongono in relazione alla validità della firma devono
essere risolte tenendo presente che ciò che contra è il significato obiettivo della firma quale segno autografo mediante
il quale il soggetto fa proprio il contenuto di un testo. La firma deve contenere il nome del sottoscrivente, ma non il
prenome. La sigla può ritenersi sufficiente quale espressione del nome.
La scrittura privata non costituisce piena prova salvo che la sottoscrizione sia stata autenticata o che la parte contro la
quale la scrittura è prodotta ne riconosca la sottoscrizione.
Il contratto è stipulato per scrittura privata quando il consenso è manifestato in documenti sottoscritti dalle parti. Le
dichiarazioni possono essere rese in tempi separati e con documenti diversi, come nell’ipotesi di contratto formato
mediante lo scambio epistolare delle dichiarazioni.
In quanto il contratto è un accordo, devono risultare le manifestazioni di volontà attraverso le quali l’accordo si
perfeziona. Nell’ipotesi in cui il contratto si forma attraverso proposta – accettazione sia l’una che l’altra dichiarazione
devono assolvere l’onere della forma scritta.
La giurisprudenza ammette che la mancata sottoscrizione del documento è supplita dalla sua produzione in giudizio da
parte del contraente non firmatario che intende avvalersi del documento stesso. Il perfezionamento formale
dell’accordo ha luogo nel momento della produzione giudiziale: esso è precluso quando sia intervenuto un evento che
impedisca la formazione del contratto (morte della parte non firmataria, …).
Deve ammettersi che la parte non firmataria possa esprimere il consenso mediante una manifestazione tacita di
volontà sempreché si tratti di una manifestazione scritta ed attuale (intimazione scritta ad eseguire il contratto, …). A
perfezionare il contratto non basterebbe la esecuzione del contratto ne una dichiarazione probatoria con la quale la
parte riconoscesse l’avvenuta stipulazione.
Così ad esempio non potrà parlarsi di contratto fatto per iscritto quando sia stata rilasciata una quietanza di
pagamento del prezzo mentre diversa soluzione deve ammettersi quando le parti formalizzano per iscritto il
versamento di una caparra confirmatoria specificando gli estremi del contratto.
La possibilità di una manifestazione tacita di volontà che assolva l’onere della forma scritta appare contraddetta da
una massima secondo la quel il requisito della forma scritta è soddisfatto quando il documento sia posto in essere al
fine di manifestare la volontà delle parti.
Questa massima non appare giustificata poiché conduce al risultato di aggiungere al requisito della forma scritta anche
il requisito della forma espressa, prescritto dalla legge in casi eccezionali. Occorre dire che la massima è ultronea per il
fine cui è richiamata, e cioè negare valore di atti scritti a documenti meramente probatori. Essa non risponde
all’orientamento della giurisprudenza, la quale mostra di ravvisare il consenso scritto in manifestazioni tacite di
volontà contrattuale (come nell’ipotesi del non firmatario che fa valere in giudizio il documento).
La firma in bianco
Mediante la sottoscrizione il soggetto fa propria la dichiarazione negoziale. La sottoscrizione segue e conclude il testo
scritto. Nella pratica può accadere che il soggetto firmi una dichiarazione incompleta o un foglio bianco (bianco
segno). Ci si chiede se in tali casi possa parlarsi di una dichiarazione fatta per iscritto
La questione deve essere risolta positivamente se il firmatario ha autorizzato il riempimento del foglio.
Il firmatario può aver predisposto il contenuto del testo ed incaricato il consegnatario del foglio di riprodurvi tale
contenuto o può aver attribuito al consegnatario il potere di determinare la dichiarazione per conto di esso.
Questa ipotesi ricorre in tema di arbitrato irrituale e di arbitraggio. Se il riempimento del foglio è autorizzato la
dichiarazione contenuta è imputabile al firmatario in quanto questi, apponendo la firma ha espresso la volontà
di far proprio il futuro testo. Se il firmatario non autorizzato il riempimento del foglio o chi lo ha riempito ha
ecceduto i limiti
dell’autorizzazione, non può dirsi che il firmatario abbia voluto fare propria la dichiarazione. Il firmatario potrà dover
subire gli effetti della dichiarazione come propria, in base al principio dell’apparenza imputabile. Il principio trova
applicazione quando il terzo non abbia ricevuto alcun incarico ma il firmatario abbia col proprio comportamento
(creazione di un documento firmato in bianco) concorso a creare la situazione di apparenza.
Il principio dell’apparenza è inoperante quando l’altra parte sapeva o avrebbe dovuto che il riempimento era avvenuto
all’insaputa o contro la volontà del firmatario.
Si è prospettata la tesi secondo la quale il firmatario avrebbe il potere di far proprio, ora per allora, quello che sarà il
contenuto del documento. In quanto il firmatario esprime la volontà di appropriarsi del testo non può prescindersi da
questa autorizzazione e dai limiti di essa. Occorre vedere se sia ammissibile un’autorizzazione a contenuto
indeterminato, cioè data al terzo a riempire il foglio secondo il suo arbitrio incondizionato.
Tale autorizzazione è da considerarsi nulla poiché verrebbe ad assoggettare il firmatario al potere incontrollato ed
illimitato di un terzo in violazione del principio della parità.
Altro problema è se il firmatario possa rimettere alla controparte la determinazione del contratto.
La sottoscrizione al buio
Rispetto alla firma in bianco, quale firma preventiva di un foglio in tutto o in parte da riempire, si distingue la
sottoscrizione al buio, la sottoscrizione di un testo completo che il firmatario non ha ne scritto ne letto.
Chi sottoscrive una dichiarazione negoziale la fa propria in quanto la firma ha il significato di consenso. La possibilità di
contestate questo significato deve essere verificata con riguardo a 2 ipotesi: errore o ignoranza semplice del
firmatario.
Il problema della possibilità che il firmatario disconosca il testo erroneamente sottoscritto trova soluzione negativa nel
principio della autoresponsabilità, per cui l’autore della dichiarazione è assoggettato alle conseguenze di essa. Questo
principio è in funzione dell’affidamento altrui e non ha ragione di applicarsi quando la controparte ha riconosciuto o
avrebbe dovuto l’errore ostativo del firmatario (il quale crede di emettere una dichiarazione avente diverso
contenuto).
La soluzione si conferma quando sia la controparte a trarre in inganno il firmatario. Si discute se possa ravvisarsi la
fattispecie dell’accordo.
Accanto all’ipotesi dell’errore quale divergenza tra testo sottoscritto e testo che si voleva sottoscrivere, si configura la
ignoranza del testo: il firmatario sottoscrive il documento senza curarsi della clausole contenute in esso. Questa
ipotesi si spiega in quanto al firmatario interessano i punti essenziali del contratto. Per il reso si affida a quanto
predisposto dalla controparte. Il firmatario con la sottoscrizione fa proprio l’intero testo e non potrebbe addurre di
non aver letto o compreso talune clausole. Deve rilevarsi che il principio cede quando non vi è un affidamento della
controparte da tutelare. Questa può presumere che il firmatario abbia letto per intero il testo ma può sapere che il
firmatario non ha letto il testo o che non era in grado di leggerlo o comprenderlo. In tal caso il firmatario non può
essere
incondizionatamente assoggettato al testo. Occorre vedere se il testo rispetti i limiti di una normale disciplina del
rapporto. Se questi limiti sono rispettati, l’ignoranza del firmatario è irrilevante.
Se si tratta di clausole a sorpresa, non previste, che alterano la posizione contrattuale del firmatario, si cade
nell’ipotesi di errore essenziale, che è riconosciuto o riconoscibile se il predisponente non sa che il firmatario non
conosce il testo sottoscritto.
Se una parte sa che il firmatario non conosce il testo sottoscritto (perché non può o non sa leggere o ignora la lingua in
cui il testo è redatto, …) devono ritenersi annullabili le clausole non concordate, che incidono apprezzabilmente sulla
posizione del firmatario.
Questi rilievi lasciano fuori il problema principale, che concerne la tutela del consumatore in relazione alle clausole
predisposte dal professionista.
Le forme volontarie
Le forme volontarie sono le forme previste da atti negoziali: l’onere della forma volontaria ha fonte nell’autonomia
negoziale.
L’onere di una determinata forma può essere stabilito mediante un patto di forma, mediante un patto scritto col quale
le parti convengono di adottare una forma per la futura conclusione di un contratto.
Il patto di forma rientra nella categoria dei negozi normativi. Può essere autonomo o accessorio di un altro contratto,
come di un preliminare, di un’opzione o di un altro contratto normativo.
L’interesse è quello di consentire la pubblicità del contratto. È usuale che il contratto preliminare preveda la
stipulazione del definitivo per atto notarile. Prescrizioni volontarie di forma si giustificano in ragione di un’esigenza di
certezza dell’atto. Prescrizioni di forma che rendano difficile l’accesso a beni o servizi essenziali non presentano una
causa meritevole di tutela e se ne deve escludere la validità.
Il patto può prevedere una forma come necessaria ai fini della prova o come requisito essenziale del contratto. La
legge presume che la forma volontaria sia voluta per la validità del negozio. In realtà, come è stato rilevato, non si
tratta di una presunzione in senso proprio (mezzo di prova di un fatto ignoto) quanto di una regola legale
interpretativa. Più precisamente si tratta di una regola di interpretazione oggettiva, operante quando l’interpretazione
soggettiva del patto non accerta una diversa volontà delle parti. Essa prevale sulle regole generali di interpretazione
oggettiva.
Il dettato legislativo ha inteso risolvere il problema dibattuto in dottrina, cioè se il patto sulla forma sia valido e se
stabilisca un requisito formale necessario o probatorio. La soluzione normativa (si presume che la forma sia voluta per
la validità …) ha indotto parte della dottrina a parificare la forma volontaria alla forma legale costitutiva e a reputare
nullo il contratto o il negozio che non rivesta la forma prevista.
La dottrina tende a contestare questo riferimento alla nullità assoluta. Si è argomentato in base ad un assunto teorico,
cioè che soltanto la legge può sancire l’invalidità del negozio contrastante con le sue statuizioni. A questo argomento
può replicarsi che sarebbe proprio la legge a riconoscere nella forma volontaria un requisito di validità.
Su un altro piano si obietta che il patto è diretto alla tutela di interessi particolari e che la disciplina della nullità è
inapplicabile posto che le parti potrebbero voler dare corso all’esecuzione del contratto.
Le alternative prospettate in dottrina rispetto alla figura della nullità vanno dall’ipotesi di inefficacia a quella di una
invalidità convenzionale a quella della nullità relativa, a quella dell’inesistenza del contratto per l’irrilevanza del
consenso.
Per un inquadramento della forma stabilita negozialmente occorre muovere da un rilievo di fondo, che essa
costituisce un requisito volontario, che le parti stabiliscono per il loro contratto. La rilevanza è propria della
condizione: subordinare il contratto ad un requisito volontario significa subordinarlo ad un requisito di efficacia.
Il riferimento alla validità del contratto esclude la presunzione nel senso della finalità probatorio della forma volontaria
ma non esclude che la mancanza della forma volontaria debba spiegarsi in termini di inefficacia. La distinzione
terminologica tra invalidità ed inefficacia non è rigorosa nel linguaggio legislativo. Occorre considerare che la soluzione
in termini di inefficacia consente di spiegare come le parti o la parte interessata possano rinunziarvi e recuperare al
contratto la sua efficacia.
Forme determinate possono essere previste con riguardo ad atti negoziali unilaterali, incidenti su rapporti già costituiti
e oneri formali aventi ad oggetto atti di comunicazione (la disdetta deve essere comunicata mediante lettera
raccomandata, …) o di adempimento (i pagamenti devono essere eseguiti mediante vaglia postale, …). In generale può
dirsi che se la forma non ha per oggetto un negozio è inoperante la presunzione legale della sua essenzialità.
L’incidenza della mancanza deve essere valutata in relazione alla funzione dell’atto alla stregua soprattutto del
principio di buona fede.
I CONTRATTI TELEMATICI
Nozione di contratto telematico
da tempo si parla di contratti telematici o informatici. Queste indicazioni non hanno sempre significato univoco,
volendosi a volte fare riferimento a contratti di fornitura di programmi di computer, a volte di contratti connessi
all’uso del computer.
La nozione va delimitata riguardo alla forma in cui essi sono stipulati. Precisamente sono i contratti stipulati in via
telematica, mediante l’uso di un computer. Il contratto telematico può avere ad oggetto la fornitura di software o altri
contenuti dovendosi classificare nel tipo causale corrispondente.
La novità è data dalla forma elettronica usata, ma questa non solleva problemi in relazione ad atti e contratti a forma
libera, i quali possono essere stipulati mediante computer. Una profonda innovazione è stata introdotta da una legge
del 1997, che ha sancito il principio della validità e rilevanza degli atti pubblici e privati posti in essere con strumenti
telematici o informatici conformi a legge.
È stato dato ingresso ad un documento non cartaceo che pur privo di firma autografa è equivalente alla scrittura
privata.
I contratti digitali
Requisiti del documento telematico o informatico sono specificati dal d.lgs. 7 marzo 2005 n.82 intitolato codice
dell’amministrazione digitale. Il codice dà la nozione di documento informati, come la rappresentazione informatica di
atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti.
Detto codice indica nella firma digitale il requisito che conferisce al documento informatico il valore di scrittura
privata, scrittura munita di firma autografa.
La firma digitale è una firma elettronica qualificata, basata su un sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una
privata, correlate tra loro, che consente al titolare tramite la chiave privata ed al destinatario tramite la chiave
pubblica di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità di un documento informatico o di un insieme
di documenti informatici.
L’introduzione della firma digitale fa si che nell’ambito degli atti e contratti telematico emerga la categoria degli atti e
contratti digitali, degli atti e contratti emessi o stipulati con firma digitale.
La procedura di validazione
La procedura che verifica la riferibilità soggettiva e l’integrità del documento informatico è la procedura di validazione,
basata sulla combinazione di 2 chiavi crittografiche, dette asimmetriche. La coppia inscindibile di chiavi asimmetriche
consta di una chiave privata e di una pubblica. La chiave privata è l’elemento della coppia di chiavi asimmetriche,
utilizzate dal titolare, mediante il quale si appone la firma digitale sul documento informatico; per chiave pubblica si
intende l’elemento destinato ad essere reso pubblico, con il quale si verifica la firma digitale apposta sul documento
informatico dal titolare delle chiavi asimmetriche.
Chi vuole fare una dichiarazione contrattuale in via elettronica, identifica il proprio messaggio mediante la sua chiave
privata, costituita da un algoritmo, cioè un espressione di calcolo matematico. Il destinatario si avvarrà della chiave
pubblica per leggere il messaggio.
L’esito positivo della utilizzazione della chiave pubblica consentirà di verificare la provenienza del messaggio. La chiave
pubblica identifica il soggetto che si avvale della rete telematica. Se il messaggio è inviato da un soggetto diverso da
quello contrassegnato dalla chiave pubblica, quest’ultima non varrà a decifrare la comunicazione.
Il procedimento potrà essere attivato dal destinatario che intenda rispondere al messaggio ricevuto, e se il messaggio
contiene una proposta contrattuale e la risposta contiene accettazione, l’accordo sarà perfezionato.
Il sistema delle chiavi consente di verificare che il messaggio è stato trasmesso con un segno di identificazione di cui
solo quel determinato soggetto aveva disponibilità e che il testo non è stato alterato.
L’affidabilità della chiave pubblica è garantita dal certificato qualificato rilasciato da un certificatore qualificato.
Insuscettibilità di disconoscimento della firma digitale. L’illecita utilizzazione della chiave da parte di un terzo.
Il regolamento del 1997 aveva statuito che il documento sottoscritto con firma digitale ha efficacia di scrittura privata.
Un dibattito fece seguito a questa disposizione. Da una parte venne interpretata nel senso che il documento munito di
firma digitale avesse l’efficacia probatoria della scrittura privata riconosciuta. Si ritenne che il documento attestasse la
paternità delle dichiarazioni senza la necessità del riconoscimento del firmatario, dato che la procedura di validazione
attesta la provenienza del documento.
Atra tesi reputava che il documento munito di firma digitale valesse come semplice scrittura privata, dovendosi
ritenere che facesse piena prova della provenienza delle dichiarazioni contenute solo nel caso di riconoscimento
della sottoscrizione da parte del firmatario o nei casi previsti dalla legge. Aderire a tale idea avrebbe significato
rendere inaffidabile la firma digitale privandola del valore probatorio. Si sarebbe consentito al firmatario di negale
l’autenticità della firma non riconoscendola o disconoscendola.
In tema di firma cartacea al firmatario è dato disconoscere la firma, ma la parte che intende avvalersi della scrittura
può chiederne la verificazione. Attraverso la verificazione è possibile accertare se la firma sia stata apposta dal suo
titolare.
Il disconoscimento della firma digitale non consentirebbe il procedimento di verificazione in quanto la firma digitale
non contiene segni grafici confrontabili con altre firme. Il disconoscimento imporrebbe a carico di chi intenda avvalersi
del documento telematico una prova impossibile.
Il decreto legislativo n.10 2002 aveva sanciva che il documento munito di firma digitale basata su un certificato
qualificato fa piena prova della provenienza delle dichiarazioni da chi lo ha sottoscritto.
Questa previsione garantiva l’affidabilità della firma digitale ponendo a carico del titolare che ne contestasse
l’autenticità l’onere di proporre la querela di falso: onere eccessivo in quanto si tratta di un atto che deve essere
proposto personalmente e che instaura un apposito giudizio con la partecipazione del pubblico ministero.
È andata maturando l’idea della opportunità di abbandonare le procedure legate alla natura cartacea del documento e
di adottare una disciplina che attribuisce presunzione legale di autenticità al documento digitale.
È ora sancito che il documento digitale ha efficacia, precisandosi che l’utilizzo del dispositivo di firma si presume
riconducibile al titolare, salvo che questi dia prova contraria.
Questa disposizione ha messo fuori causa l’ipotesi della disconoscibilità della firma digitale. Il disconoscimento
consentirebbe al titolare di riversare su chi intende far valere il documento firmato l’onere di provarne l’autenticità
attraverso una procedura di verificazione inapplicabile. La nuova norma sancisce la presunzione legale che la
sottoscrizione è riconducibile al titolare, ponendo a carico di quest’ultimo l’onere di provare il contratto.
La presunzione non ha ad oggetto l’autenticità della firma ma la sua riconducibilità al titolare, l’imputabilità di essa al
titolare della chiave. Per vincere la presunzione non basta dimostrare che la firma è stata apposta da un terzo, ma
occorre dimostrare che è stata apposta da un terzo al di fuori del rapporto che valga a ricondurla al titolare. Occorre
dimostrare che la chiave è stata utilizzata da un terzo contro la volontà del titolare.
Se il terzo è un consegnatario della chiave a titolo di deposito o di mandato, la firma è imputabile al titolare anche se il
consegnatario utilizzi la chiave abusivamente. Rispetto ai terzi di buona fede trova applicazione il principio
dell’apparenza imputabile.
Con l’affidare la chiave ad un terzo il titolare da causa alle situazioni di apparenza in quanto mette l’affidatario in
condizione di formare il documento sigillandolo con quella chiave. Rispetto ai terzi di buona fede l’atto vale come
proveniente dal titolare della firma digitale.
Analoga conclusione si impone quando il titolare abbia reso possibile al terzo di impadronirsi della chiave. Il titolare
potrà sottrarsi all’imputazione degli effetti derivanti dall’uso di essa da parte del terzo provando che l’abuso è
avvenuto nonostante l’impiego della dovuta diligenza nella custodia della chiave. A tal fine non basterà dimostrare che
la chiave sia stata rubata, essendo il furto evitabile con l’adozione di adeguate cautele.
Diversa tesi reputa che il titolare della chiave possa proporre querela di falso quando la firma sia stata apposta da un
terzo non autorizzato. Questa tesi trova supporto nell’orientamento che da ingresso alla querela di falso ideologico
nelle ipotesi di abuso di foglio con firma in bianco da parte di persona non autorizzata.
Orientamento condivisibile con riferimento ai casi in cui l’utilizzazione del foglio non abbia causa nel comportamento
del firmatario (sottrazione della chiave con violenza, scoperta della chiave privata da parte di un terzo mediante
ricerche tecniche, …). Se il firmatario consegna il foglio firmato in bianco a persona di sua fiducia, rende possibile
l’abuso del foglio e l’abuso costituisce un inadempimento del consegnatario sia nel caso in cui riempia il foglio senza
rispettare le istruzioni sia nel caso in cui lo riempia senza averne l’autorizzazione. In entrambi i casi i rischi
dell’apparenza devono ricadere sul firmatario.
La nuova disposizione esclude che si verta in tema di querela di falso (proponibile solo in caso di riconoscimento o di
autenticazione notarile della firma). Deve trovare applicazione il principio dell’apparenza imputabile in base al quale il
titolare della firma non può riversare sui terzi di buona fede il rischio dell’utilizzazione abusiva della chiave causato
dalla sua negligente custodia.
Contestazione del documento con firma digitale revocata, scaduta o sospesa Il documento informatico con firma
digitale revocata, scaduta o sospesa si considera non sottoscritto. Il titolare della chiave può contestare la validità del
documento eccependo la non conformità di esso ai requisiti legali di imputazione. La parte che si avvale del
documento non avrà l’onere di proporre istanza di verificazione ma dovrà dare la prova che il documento proviene
dall’originario titolare della chiave.
Chi si avvale di un documento digitale non ha l’onere di provare che è stato formato nel tempo di validità della firma
in quanto la revoca, scadenza o sospensione sono eventi impeditivi dell’efficacia del documento e vanno provati da chi
la contesti.
L’autore del documento dovrà dare la prova certa della data quando si tratti di opponibilità dell’atto rispetto ai terzi
che vantino posizioni giuridiche configgenti con la sua.
Il documento informatico munito di firma elettronica: sua efficacia formale di scrittura privata
La firma digitale integra il requisito formale della scrittura privata. Non è sufficiente a perfezionare un atto per il quale
sia richiesta a pena di nullità la forma pubblica o la scrittura autografa. Si conferma che la formula legislativa che
dichiara validi e rilevanti i contratti formati in via telematica va riferita al documento e solo di riflesso ai negozi ivi
rappresentati, i quali saranno giudicati validi se si tratti di atti a forma libera o per i quali è richiesta la scrittura privata.
Il d.lgs. 2002 aveva riconosciuto valore di scrittura privata al documento informatico munito di firma elettronica
semplice.
Questo non compare nel codice dell’amministrazione digitale, che limita tale efficacia al documento sottoscritto con
firma digitale e con altro tipo di firma elettronica qualificata.
Sul piano probatorio il documento munito di firma elettronica è liberamente valutabile in giudizio, tenuto conto delle
caratteristiche di qualità, sicurezza, integrità ed immodificabilità.
I beni futuri
Bene futuro è il bene attualmente inesistente come autonomo ma suscettibile di venire in esistenza. Beni futuri sono
le cose non ancora esistenti in natura; le
cose esistenti che non sono di proprietà di alcuno ma suscettibili di occupazione; i prodotti d’opera non ancora formati
nella loro individualità economica; i prodotti naturali non ancora staccati dalla cosa madre.
La legge prevede la possibilità che il contratto abbia ad oggetto beni futuri. Questa previsione comprende sia le cose
sia i diritti futuri intesi come diritti su cose future e diritti derivanti da fattispecie negoziali o legali non perfezionate.
L’inesistenza del bene futuro non comporta mancanza dell’oggetto del contratto.
L’oggetto del contratto è il bene previsto.
Non può essere condivisa la tesi della incompletezza del contratto e la tesi del contratto in via di formazione (con
anticipazione del consenso rispetto ad un elemento essenziale del contratto).
Inammissibile appare la tesi della sospensione di efficacia del contratto, che ravvisa nella venuta ad esistenza del bene
un elemento costitutivo della situazione contrattuale o una condizione legale del contratto. Questa tesi converte in
una qualificazione di inefficacia quello che è un momento di esecuzione del vincolo ed altera il significato di immediata
operatività del contratto, il quale esplica già i suoi effetti obbligatori in ordine al bene futuro.
Il venire ad esistenza del bene è un risultato che rientra nell’immediato impegno della parte che lo ha promesso. Il
contratto avente ad oggetto un bene futuro è un contratto obbligatorio, nel senso che impegna la parte alla sua
attribuzione e la impegna ad operarsi per la sua produzione.
Se la produzione del bene diviene impossibile il contratto si risolvere per sopravvenuta impossibilità della prestazione.
Non si tratta di costatare la nullità del contratto per mancanza dell’oggetto bensì di accertare cioè se si tratta di un
evento che avrebbe evitato con l’uso della diligenza. Si è giunti a riconoscere la responsabilità del venditore di cosa
futura (edificio da costruire) il quale stipula il contratto pur sapendo dell’impedimento che non consente la produzione
del bene.
La responsabilità della parte comporta l’obbligo del risarcimento del danno per inadempimento. Il danno risarcibile è
costituito dalla violazione dell’interesse positivo all’esecuzione del contratto (mentre la invalidità limita il danno
risarcibile alla violazione dell’interesse negativo a non stipulare un contratto invalido).
La formula legislativa in tema di vendita non aleatoria di cosa futura prevede la nullità del contratto quando la cosa
non viene ad esistenza. Tale formula si riferisce all’ipotesi in cui l’impegno dell’alienante non riguarda il prodursi del
bene: la parte assume l’impegno traslativo in ordine alla cosa o nella misura in cui questa risulterà esistente.
In quanto l’evento della produzione del bene esula dall’impegno contrattuale esso può configurarsi come condizione
sospensiva ed il suo mancato verificarsi comporta inefficacia retroattiva del contratto.
Se il promittente venditore mantiene il diritto alla sua prestazione nella ipotesi di non imputabile mancata produzione
del bene l’evento incide sulla proporzionalità delle reciproche attribuzioni e rende il contratto aleatorio.
Liceità dell’oggetto
La liceità è uno dei requisiti dell’oggetto del contratto.
Lecito è l’oggetto non contrario a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume. La illiceità non è un
requisito positivo bensì un requisito negativo. Precisamente indica che il contratto non integra la violazione di un
divieto sancito a pena di nullità.
La illiceità si distingue rispetto alla impossibilità giuridica in quanto esprime un giudizio di riprovevolezza da parte
dell’ordinamento giuridico mentre l’impossibilità giuridica indica la inidoneità dell’atto a realizzare l’effetto giuridico.
L’atto di arbitraggio rimane atto del terzo, ma la sua determinazione è operante in base al richiamo delle parti. Gli
effetti di tale determinazione hanno fonte immediata nell’atto del terzo ma la loro fonte mediata è pur sempre il
contratto.
Il contratto che deferisce a terzo la determinazione dell’oggetto è perfetto perché sono presenti tutti gli elementi
costitutivi di esso, compreso l’oggetto
anche se questo debba essere ulteriormente determinato.
L’atto di arbitraggio è una vicenda successiva all’accordo. Esso non incide sulla fattispecie dell’accordo ma sul
rapporto.
La determinazione giudiziale
La legge prevede che se manca la determinazione del terzo equo arbitratore, la determinazione è fatta dal giudice. Per
quanto attiene alla determinazione del prezzo, il giudice nomina il terzo in sostituzione della persona che le parti
hanno designato o avrebbero dovuto designare.
Questa diversa previsione si spiega in considerazione del carattere tecnico della determinazione del prezzo quale atto
di valutazione che rende opportuna la nomina di un esperto. Anche la determinazione di altri elementi del contratto
può importare una valutazione di carattere tecnico. In tal caso deve ammettersi che il giudice possa analogamente
limitarsi a designare il terzo arbitratore. La legge non disciplina le modalità procedimentali della determinazione
giudiziale. Può ritenersi analogicamente applicabile la norma riguardante la determinazione del prezzo.
La determinazione giudiziale può essere richiesta da una delle parti mediante ricorso al presidente del tribunale del
luogo. Il ricorso deve essere notificato dalle altre parti. Il presidente, sentito gli interessati, provvede con decreto non
motivato. Contro tale provvedimento è ammesso reclamo al primo presidente della corte d’appello entro 10 giorni
dalla notificazione.
La prova dell’esistenza degli usi negoziali deve essere data da chi ne chiede l’applicazione. La prova risulta dalle
raccolte pubblicate dalle camere di commercio.
Non fanno prova le raccolte curate dalle associazioni di categoria. Qui non si tratta di usi ma di condizioni generali di
contratto. Ciò deve dirsi ad esempio per i cosiddetti usi bancari.
La natura negoziale delle clausole d’uso comporta l’inoperatività in ordine a quelle determinazioni per le quali non
è imposto un onere formale. La loro interpretazione deve uniformarsi ai criteri valevoli per
l’interpretazione del contratto. L’interpretazione data dal giudice può essere oggetto di ricorso in Cassazione per
inosservanza di tali criteri o per vizio di motivazione. Inammissibile è il ricorso per violazione o falsa applicazione degli
usi negoziali.
La natura giuridica
Con riguardo alle condizioni generali di contratto si pone il problema se abbiano natura negoziale, cioè siano
riconducibili al contenuto dell’accordo contrattuale, o se abbiano natura normativa.
La tesi della natura normativa era stata prospettata in base alla considerazione che in apparenza il contratto per
adesione è il risultato di una volontà delle parti. In realtà il predisponente esprime una volontà unilaterale che detta la
legge ad una collettività indeterminata.
Questa tesi è isolata. Ad essa è facile obiettare che il contratto non richiede una trattativa sui singoli punti. La
posizione economicamente forte di una parte è una circostanza di fatto che non snatura il contratto e non lo invalida,
salvo che l’imposizione venga esercitata con dolo o violenza viziando la volontà dell’aderente.
Il problema della contrattualità delle condizioni generali si accentra sulla loro fonte. Si tratta di stabilire se la loro
efficacia discende da un atto esterno al contratto o dall’accordo delle parti.
Il codice accoglie la regola secondo la quale le condizioni generali sono efficaci nei confronti dell’aderente che le
conosceva o avrebbe dovuto conoscerle. Questa regola esclude la necessità dell’accettazione e non è mancato chi ha
negato la natura contrattuale delle condizioni generali in quanto derivanti da un atto unilaterale del proponente.
Le condizioni generali sono efficaci in quanto abbiano titolo nel contratto, in quanto accettate dall’aderente. La regola
legale valevole per le condizioni generali non esclude la necessità dell’accettazione ma riconosce come sufficiente la
accettazione di quanto predisposto dall’altra parte. Le clausole sono efficaci non perché così vuole la legge ma perché
l’aderente ha accettato il regolamento dell’altra parte.
Un’accettazione al buio delle clausole contrattuali può ammettersi secondo la disciplina comune del contratto. Il
criterio dettato si discosta in quanto impone al predisponente l’onere di far conoscere le clausole predisposte o di
renderle normalmente conoscibili all’aderente.
L’inclusione delle condizioni generali nel contratto ne giustifica l’assoggettamento alla disciplina contrattuale. Tale
disciplina trova applicazione per quanto attiene all’incapacità ed ai vizi della volontà. Considerare le condizioni
generali come clausole contrattuali vorrebbe dire prendere atto che l’imprenditore si avvale dello strumento
contrattuale per esercitare un potere di fatto nei confronti della generalità dei consumatori. Nell’esercizio di tale
potere l’imprenditore disciplina unilateralmente i rapporti dell’impresa avvalendosi di un regolamento che assume i
caratteri della generalità e dell’astrattezza.
L’esistenza di tale potere normativo non può essere disconosciuta come un dato metagiuridico poiché rileva
direttamente sul problema giuridico della tutela e dei rimedi dell’aderente.
Le clausole vessatorie. Carattere tassativo delle ipotesi normativamente previste Le clausole vessatorie sono
condizioni generali che aggravano la posizione dell’aderente. La legge prevede una serie di clausole vessatorie e ne
condiziona l’efficacia all’approvazione scritta dell’aderente. Non hanno effetto senza la sua approvazione per iscritto le
condizioni che stabiliscono a favore del predisponente 1)limitazioni di responsabilità b) facoltà di recedere dal
contratto o di sospenderne l’esecuzione; o che stabiliscano a carico dell’aderente c)decadenze d)limitazioni alla facoltà
di opporre eccezioni e) restrizioni della libertà contrattuale nei rapporti con i terzi f)proroghe tacite o rinnovazioni del
contratto g)clausole compromissorie e deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria.
L’aderente è esposto al pericolo di trovarsi assoggettato ad un regolamento che aggrava ingiustificatamente la sua
posizione contrattuale. Il requisito di forma che la legge richiede si pone in funzione di tutela dell’aderente poiché
l’approvazione per iscritto dovrebbe valere a prevenire la sorpresa di clausole gravose accettate inavvertitamente o
senza attenzione.
La soluzione che richiede l’onere formale dell’approvazione per iscritto importa l’inefficacia della clausola vessatoria
non sottoscritta a prescindere dalla circostanza che l’aderente la conoscesse o meno o si trovasse in posizione
economica inferiore o meno rispetto al predisponente.
Irrilevante è che la clausola sia bilaterale. Ciò che conta è che il predisponente abbia inserito nel testo la clausola
vessatorio utilizzabile a proprio vantaggio. Il predisponente rimane tale anche se all’aderente sia fatto assumere il
ruolo di proponente: questa circostanza non esclude che l’aderente debba approvare per iscritto le clausole vessatorie
contenute nella sua proposta ma predisposte dalla controparte.
La previsione dell’onere formale della sottoscrizione riguarda esclusivamente le clausole indicate dalla legge e non può
estendersi analogicamente ad altre egualmente gravose (tassatività delle ipotesi normativamente previste).
L’inapplicabilità dell’analogia è argomentata dalla norma che richiede l’approvazione per iscritto, trattandosi della
imposizione di un onere formale in deroga alla regola della libertà di forma. La norma non sarebbe suscettibile di
estensione analogica ma solo di interpretazione estensiva. Così non si considerano vessatorie in quanto non previste
dalla legge, la clausola penale, la clausola di interessi, la rinuncia, la clausola che attribuisce al venditore la facoltà di
aumentare il prezzo stabilito al variare della situazione di mercato.
Attraverso l’interpretazione estensiva la giurisprudenza giunge ad intendere tra le clausole vessatorie talune clausole
particolarmente gravose non indicate nel testo della norma.
Ipotesi nelle quali non è richiesta la specifica approvazione. Le clausole concordate dalle parti o dalle contrapposte
associazioni di categoria. I contratti stipulati per atto pubblico. Gli statuti
La approvazione per iscritto non si ritiene necessaria quando la clausola vessatoria sia stata negoziata dalle parti. La
giurisprudenza ha precisato che non basta una trattativa che investa il contratto nel suo complesso occorrendo che
la singola clausola vessatoria sia fatta puntuale oggetto di trattativa. La negoziazione rende superfluo il requisito
formale perché esclude la predisposizione unilaterale, un presupposto caratterizzante delle condizioni generali.
Analoga soluzione si ammette quando il testo è concordato dalle contrapposte associazioni di categoria. La
giurisprudenza osserva che il testo contrattuale non è il risultato della prevalenza di un concorrente più forte.
L’osservazione non può rilevare direttamente ai fini dell’applicazione di una norma che impone un requisito di forma.
Tale norma deve trovare applicazione quando nella fattispecie le posizioni del predisponente e dell’aderente
risultassero sostanzialmente paritarie.
Con riferimento alle clausole negoziate dalle contrapposte organizzazioni di categoria deve dirsi che manca il
presupposto della predisposizione unilaterale del testo.
Il requisito della approvazione per iscritto non è richiesto quando la stipulazione avvenga per atto notarile. In tal caso
manca il presupposto della predisposizione unilaterale. Pur se il testo sia preparato da una delle parti il contratto si
conclude in quanto il pubblico ufficiale accerta che è l’espressione della comune volontà di entrambe le parti.
Le clausole vessatorie sono condizioni generali e quindi la necessità dell’approvazione per iscritto viene meno quando
il testo del contratto non è destinato a regolare una serie indefinita di rapporti.
Il problema se le disposizioni contenute negli statuti dei gruppi associativi o nei regolamenti condominiali possano
ricadere nella previsione della norma sulle clausole vessatorie deve essere risolto negativamente in quanto non si
tratta di clausole contrattuali. Se in forma statutaria sia dettata una disposizione che esula dalla competenza
regolamentare la necessità della sua accettazione scritta da parte dell’aderente deve essere riconosciuta quando
ricorrono gli estremi delle condizioni generali vessatorie. La giurisprudenza è diversamente orientata.
Segue. I contratti stipulati con gli enti pubblici. Le clausole approvate da pubbliche autorità
La giurisprudenza aveva escluso la necessità della approvazione per iscritto delle condizioni generali vessatorie
predisposte dalla pubblica Amministrazione in forma di capitolati.
L’emanazione di capitolati generali mediante decreto presidenziale e la diretta applicazione ai rapporti instaurati dalle
amministrazioni statali aveva portato ad affermare che non si tratterebbe di clausole contrattuali bensì di regolamenti
pubblici sottratti alla disciplina del contratto. Questo argomento non sembra riguardare l’aderente, che è soggetto
estraneo all’Amministrazione ed è non valevole con riguardo a rapporti in cui l’applicazione del capitolato dipende dal
richiamo fatto dall’ente pubblico stipulante. La superfluità della approvazione per iscritto è stata argomentata in base
alla presunzione di imparzialità dell’Amministrazione. Rimane da dimostrare che la presunzione di imparzialità
dell’Amministrazione sia sufficiente per negare alle condizioni generali predisposte a suo favore il carattere della
vessatori età e che tale presunzione possa valere ad escludere l’applicazione di una norma che richiede un onere
formale per l’efficacia di determinate condizioni generali a prescindere da ogni valutazione di ingiustizia.
È prevalso il convincimento che non vi sono ragioni sufficienti per sottrarre la pubblica Amministrazione
all’applicazione della regola sulla approvazione scritta delle clausole vessatorie.
La giurisprudenza nega la necessità della specifica approvazione per iscritto quando le clausole siano oggetto di un
controllo di pubbliche autorità in quanto inserite in un testo approvato da tali autorità. Questo orientamento non pare
giustificato in quanto si tratta di forme di controllo che non perseguono la specifica finalità di garantire l’aderente e
che non valgono a derogare alla disciplina generale del codice a tutela dell’aderente.
Inefficacia delle clausole vessatorie non specificamente approvate per iscritto La interpretazione ritiene che la
mancanza della approvazione importi la nullità assoluta delle clausole vessatorie.
Sembra più corretto parlare di inefficacia della clausola vessatoria come estranea al contenuto del contratto. In
mancanza della approvazione per iscritto la clausola vessatoria non ha effetto, non rientra fra le condizioni generali
che sono efficaci nei confronti dell’aderente.
Secondo altra tesi la mancanza della approvazione avrebbe come conseguenza la inopponibilità della clausola
all’aderente. La clausola sarebbe inefficace nei confronti dell’aderente e solo quest’ultimo sarebbe ammesso ad
eccepirne l’inefficacia.
La tesi della inopponibilità argomenta dalla ragione della tutela della parte debole. È agevole replicare che questa
tutela è realizzata attraverso l’imposizione di un requisito formale la cui mancanza rende senza effetto la clausola.
Comporta che il giudice deve disapplicare anche d’ufficio la clausola vessatoria.
L’inefficacia della clausola vessatoria non preclude all’aderente di chiederne giudizialmente l’applicazione se la reputi
conveniente. Deve ritenersi che il predisponente non possa eccepire all’aderente l’inefficacia della clausola sulla
competenza territoriale.
L’inefficacia delle clausole vessatorie prive di approvazione scritta non si estende all’intero contratto. La possibilità di
un giudizio di nullità totale è ammessa in applicazione del principio sulla nullità parziale che dichiara nullo l’intero
contratto quando risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte che è colpita da nullità. Se si
riconosce che le clausole non sono entrate nel contenuto dell’accordo, il principio richiamato appare inapplicabile
poiché concerne una parte del contenuto del contratto e non una clausola. Si prospetta la possibile rilevanza
dell’errore.
Analoga conclusione si impone in tema di condizioni generali senza effetto in quanto non conoscibili da parte
dell’aderente.
Inadeguatezza degli ordinari rimedi contrattuali a favore dell’aderente Le condizioni generali costituiscono
regolamentazione di una generalità di rapporti e attraverso tali condizioni può manifestarsi un predominio di fatto a
danno di una generalità di contraenti.
In quanto l’abuso del predisponente è nei confronti di una generalità di contraenti si spiega come siano inadeguati i
rimedi contrattuali, i quali riguardano le particolari ipotesi di formazione patologica del consenso. Il fatto che il
predisponente abusa della sua posizione di predominio non invalida il singolo contratto perchè tale approfittamento
non si traduce in un vizio della volontà contrattuale. La circostanza che il contratto risulta gravoso per una parte e
vantaggioso per l’altra non è causa di invalidità del contratto rientrando nel giuoco della contrattazione.
La valutazione del contratto sul piano individuale rende incerta l’applicazione dei parametri desumibili dalla
Costituzione e quello della utilità sociale, specificamente richiamato per ipotizzare la illiceità della clausola vessatoria
come socialmente dannosa.
Il giudizio di dannosità sociale presuppone l’incompatibilità dell’atto con un interesse di ordine sociale ma questa
incompatibilità è difficilmente riferibile al singolo poiché l’approfittamento di un contraente a danno dell’altro rimane
un episodio individuale.
Sembrerebbe potersi dire che la possibile iniquità dei singoli contratti è il costo consapevole della libertà negoziale.
L’esigenza di un controllo sostanziale delle condizioni generali quali espressione di diseguaglianze socioeconomiche
Considerando le condizioni generali come un fenomeno collettivo quale regolamento che il predisponente impone
unilateralmente alla generalità dei clienti, può cogliersi la dannosità sociale di tale fenomeno, data
dall’approfittamento e si proietta a danno di una generalità di contraenti, assoggettati all’altrui potere regolamentare.
L’ordinamento non può rimanere indifferente di fronte al fenomeno delle condizioni generali poiché l’incontrollato
potere di manipolare i rapporti contrattuali non è casuale ed episodico ma caratterizza tutta l’attività imprenditoriale
ed esprime una situazione di diseguaglianza socioeconomica delle categorie dei consumatori che esige un intervento
dello Stato in attuazione del principio costituzionale di eguaglianza sociale.
La dottrina aveva avvertito che il problema è tutelare gli aderenti contro la regolamentazione abusiva dei rapporti
contrattuali, contro l’abusivo aggravamento della posizione del contraente debole.
Gli ordinamenti dell’Area Occidentale avevano dato risposta da tempo con riforme ispirate a tipi di soluzione
privilegiando ora il controllo legislativo ora il controllo giudiziale ora il controllo amministrativo.
L’ambito oggettivo
La normativa prescinde dal tipo contrattuale. Colpisce tutte le clausole contrattuali che presentano il carattere della
vessatorietà, siano o no predisposte dal professionista in forma di condizioni generali di contratto. È destinata ad
operare nel campo delle condizioni generali di contratto, in quanto l’erogazione imprenditoriale di beni e servizi si
esplica mediante contratti a contenuto standard e in quanto è il potere di predisposizione unilaterale del regolamento
contrattuale che da luogo al fenomeno delle clausole vessatorie.
La negoziazione del contenuto del contratto da parte dell’imprenditore è eccezionale e la disciplina non si applica alle
clausole oggetto di trattativa individuale.
La disciplina codicistica trova applicazione in presenza di tali condizioni consentendo al consumatore di invocarla
quando risultante più favorevole (una clausola vessatoria ai sensi di quella disciplina sarà non compresa nel contratto
se priva della specifica sottoscrizione)
L’ambito soggettivo
La normativa ha riguardo alle figure del professionista e del consumatore. Professionista è il produttore o distributore
di beni e servizi che pone in essere il contratto nell’esercizio dell’attività imprenditoriale o professionale.
Il consumatore è la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale svolta.
Occorre stabilire quando possa dirsi che il contraente agisce per scopi estranei alla sua attività imprenditoriale o
professionale.
Si sono delineate due ipotesi. La prima restringe la nozione di consumatore a colui che contrae per scopi personali o
domestici. L’imprenditore che acquista un televisore per usi familiari sarebbe tutelato come consumatore mentre
sarebbe privo di tale tutela se acquista il televisore per il suo ufficio.
Questa interpretazione imporrebbe di accertare le intenzioni del contraente e lascerebbe insoluto il problema degli
scopi misti, se considerare professionista o consumatore l’imprenditore che acquisti un’autovettura per scopi
personali e professionali.
L’interpretazione restrittiva porta al risultato di lasciare scoperta quella fascia di contratti in cui il professionista
contrae per scopi solo connessi alla sua attività e che viene a trovarsi assoggettato al dominante potere contrattuale
della controparte.
La seconda ipotesi privilegia la ragione della norma intesa ad introdurre un controllo sostanziale dei contratti contro gli
abusi di chi ha il potere di predisporre ed imporre il contenuto.
L’espressione normativa è intesa nel senso che consumatore è chiunque contragga per acquistare beni o servizi al di
fuori dell’esplicazione della sua specifica attività professionale. Il produttore di elettrodomestici non è consumatore se
acquista materie prime per la sua industria; è consumatore se contratta con la banca per ottenere un finanziamento.
La portata di questa interpretazione sarebbe vanificata se si attribuisse valore preclusivo all’indicazione del
consumatore quale persona fisica. Può osservarsi che la tutela in favore del consumatore non ha carattere eccezionale
ma assurge ad espressione di tutela del contraente assoggettato al potere contrattuale del produttore. La posizione
debole del contraente è la medesima, sia esso persona fisica o giuridica. Si impone l’applicazione analogica della tutela
del consumatore anche al consumatorepersona giuridica.
Altra impostazione ha prospettato l’ampliamento del quadro dei soggetti a prescindere dalla qualifica imprenditoriale,
rilevando l’irrazionalità e contrarietà a buona fede, di una limitazione, che penalizza i professionisti pur se contraenti
nelle medesime posizioni di debolezza dei consumatori.
Le clausole vessatorie
La normativa definisce vessatorie le clausole che malgrado la buona fede determinano a carico del consumatore un
significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.
La locuzione “malgrado la buona fede” corrisponde al testo italiano della Direttiva, che si discosta dagli altri testi
ufficiali. Gli altri definiscono come abusive le clausole che in contrasto con la buona fede squilibrano la posizione del
consumatore. La buona fede è assunta in senso obiettivo, come precetto di condotta. Il testo italiano assume la buona
fede in senso soggettivo, come credenza di non ledere l’altrui diritto.
Il testo italiano ha introdotto un’indicazione irrilevante, essendo ovvio che il convincimento del professionista di agire
secondo legge non potrebbe rendere lecite le clausole vietate. L’interpretazione deve attenersi al dettato normativo,
rilevando che questo non escludere l’operatività della buona fede quale precetto che regola l’esercizio di poteri
discrezionali e che specifica come precetto di non abusare del potere di regolamentazione del contratto per imporre
clausole vessatorie.
Lo squilibrio che connota la vessatorietà non attiene alle determinazioni dell’oggetto e del corrispettivo. La normativa
ha inteso rimettere tali determinazioni al giuoco del libero mercato e della concorrenza, fermo l’onere del
professionista di formularle in modo chiaro e comprensibili. Il consumatore deve essere protetto dall’abuso di potere
regolamentare del contratto.
La vessatorietà è esclusa in relazione alle clausole che sono state oggetto di trattativa individuale, cioè sono il risultato
di una negoziazione tra le parti, dovendosi intendere per trattativa lo scambio di proposte e controproposte
culminante in concessioni da parte del professionista.
È onere del professionista provare la trattativa individuale. Tale onere sussiste quando il contratto sia concluso
mediante sottoscrizione di moduli o formulari predisposti per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti
contrattuali. Sembra doversi desumere che in assenza di moduli o formulari contenenti condizioni generali di contratto
è onere del consumatore provare che non vi è stata trattativa. Si è osservato che la norma prospetta la trattativa come
un elemento impeditivo della vessatorietà e che secondo la regola la prova è a carico di chi l’opponga in via
d’eccezione.
Lecite sono le clausole che riproducono norme di legge o di trattati internazionali. Tali clausole non sono vessatorie in
quanto la conformità alle leggi o ai recepiti principi internazionali ne esclude l’abusività.
Il carattere vessatorio deve essere accertato in concreto tenendo conto della natura della prestazione e delle
circostanze del contratto e valutando il contenuto del contratto e degli altri che vi sono collegati o da cui dipende.
Valutata nel complesso una clausola gravosa per il consumatore può perdere la vessatorietà se risulta compensata da
un vantaggio offertogli.
L’accertamento della vessatorietà passa attraverso l’accertamento della gravosità della clausola in se considerata e poi
della sua valutazione nell’intero contesto contrattuale.
La lista grigia
L’accertamento della gravosità delle clausole è agevolato dalla legge, che prevede un elenco di clausole
presuntivamente vessatorie (lista grigia). Le clausole rientranti in questo elenco si presumono vessatorie fino a prova
contraria. L’onere della prova incombe sul professionista, ma la non vessatorietà nel caso concreto può essere rilevata
direttamente dal giudice.
L’elenco non è tassativo.
Clausole presuntivamente vessatorie sono quelle che:
a) Escludono o limitano la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del
consumatore, risultante da un fatto o omissione del professionista;
b) Escludono o limitano le azioni o i diritti del consumatore nei confronti del professionista o di un’altra parte in
caso d’inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista;
c) Escludono o limitano l’opponibilità da parte del consumatore della compensazione di un debito nei confronti
del professionista con un credito vantato nei confronti di quest’ultimo;
d) Prevedono un impegno definitivo del consumatore mentre l’esecuzione della prestazione del professionista è
subordinata ad una condizione in cui l’inadempimento dipende esclusivamente dalla sua volontà;
e) Consentono al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal consumatore se quest’ultimo
non conclude il contratto o ne recede, senza prevedere il diritto del consumatore di esigere dal professionista
il doppio della somma corrisposta se è quest’ultimo a non concludere il contratto o a recedere;
f) Impongono al consumatore in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento il pagamento di una
somma di denaro a titolo di risarcimento, clausola penale o altro equivalente di importo manifestamente
eccessivo.;
g) Riconoscono al solo professionista e non al consumatore la facoltà di recedere dal contratto, nonché
consentono al professionista di trattenere anche solo in parte la somma versata dal consumatore a titolo di
corrispettivo per prestazioni non ancora adempiute, quando sia il professionista a recedere dal contratto;
h) Consentono al professionista di recedere da contratti a tempo indeterminato senza un ragionevole preavviso,
tranne nel caso di giusta causa;
i) Stabiliscono un termine eccessivamente anticipato rispetto alla scadenza del contratto per comunicare la
disdetta al fine di evitare la tacita proroga o rinnovazione;
j) Prevedono l’estensione del’adesione del consumatore a clausole che non ha avuto la possibilità di conoscere
prima della conclusione del contratto
k) Consentono al professionista di modificare unilateralmente le clausole del contratto o le caratteristiche del
prodotto o del servizio da fornire senza un giustificato motivo indicato nel contratto stesso;
l) Stabiliscono che il prezzo dei beni o servizi sia determinato al momento della consegna della prestazione;
m) Consentono al professionista di aumentare il prezzo del bene o servizio senza che il consumatore possa
recedere se il prezzo finale è eccessivamente elevato rispetto a quello originariamente convenuto;
n) Riservano al professionista il potere di accertare la conformità del bene venduto o del servizio prestato a
quello previsto nel contratto o gli conferiscono il diritto esclusivo di interpretare una clausola qualsiasi del
contratto
o) Limitano la responsabilità del professionista rispetto alle obbligazioni derivanti dai contratti stipulati in suo
nome dai mandatari o subordinano l’adempimento delle suddette obbligazioni al rispetto di particolari
formalità;
p) Limitano o escludono l’opponibilità dell’eccezione di inadempimento da parte del consumatore;
q) Consentono al professionista di sostituire a se un terzo nei rapporti derivanti dal contratto, anche nel caso di
preventivo consenso del consumatore, qualora risulti diminuita la tutela dei diritti di quest’ultimo;
r) Sanciscono a carico del consumatore decadenze, limitazioni della facoltà di opporre eccezioni, deroghe alla
competenza dell’autorità giudiziaria, limitazioni all’allegazione di prove, inversioni o modificazioni dell’onere
della prova, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti con i terzi;
s) Stabiliscono come sede del foro competente sulle controversie località diversa da quella di residenza o
domicilio elettivo del consumatore;
t) Prevedono l’alienazione di un diritto o l’assunzione di un obbligo come subordinati ad una condizione
sospensiva dipendente dalla mera volontà del professionista a fronte di un’obbligazione immediatamente
efficace del consumatore.
Il principio di trasparenza
Le clausole contrattuali devono essere formulate in modo chiaro e comprensibile. Questa previsione esplicita il senso
riscontrato nella norma sulle condizioni generali, dove all’onere dell’aderente di accertarsi delle condizioni generali
con diligenza fa riscontro l’onere del predisponente di rendere tali condizioni conoscibili. La norma conferma che
l’onere del professionista non si limita a far conoscere il testo delle clausole ma richiede la utilizzazione di clausole
intellegibili.
L’inosservanza dell’onere di parlar chiaro può dar luogo a clausole incomprensibili o ambigue, di cui sia dubbio il
significato.
Le clausole ambigue vanno interpretate nel significato più favorevole al consumatore.
Quelle insuscettibili di essere comprese da un soggetto di media capacità e intelligenza devono ritenersi non incluse
ferma restando la possibilità di una loro accettazione da parte del consumatore.
Medesima regola trova applicazione con riguardo a clausole non oggetto di condizioni generali di contratto. La non
vincolatività per l’aderente discende dall’inosservanza dell’onere del parlar chiaro ed esige la medesima soluzione in
favore del consumatore che aderisca a clausole incomprensibili proposte dal professionista pur al di fuori di un
contratto standard.
Le tesi proposte in alternativa a quella della non inclusione delle clausole incomprensibili sono l’invalidità e la
vessatorietà denunciata dalla contrarietà a buona fede del difetto di trasparenza.
Quest’ultima tesi urta contro il rilievo che la clausola oscura non comporta necessariamente uno squilibrio di diritti ed
obblighi.
Peculiare effetto del difetto di trasparenza è attrarre nella valutazione della vessatorietà le clausole che determinano
l’oggetto o il corrispettivo. La valutazione di tali clausole presuppone che il giudice ne accetti il significato: che si tratti
di clausole normalmente incomprensibili da parte di persona di media capacità ed intelligenza ma aventi un senso
verificabile. Lo squilibrio a carico del consumatore dovrà essere corretto dichiarando l’invalidità della clausola oscura
(la clausola diretta a restringere irragionevolmente il rischio assicurato, …) riportando ad equità il rapporto
(sostituendo un prezzo equo al prezzo difficilmente percettibile nel suo ammontare, …).
L’azione inibitoria
Novità introdotta è rappresentata dall’azione inibitoria, intesa a rimuovere le clausole abusive dai testi delle condizioni
generali di contratto.
Questa azione si caratterizza come rimedio collettivo in quanto non tutela il consumatore quale parte di un
determinato contratto ma i destinatari delle condizioni generali di contratto, la generalità dei soggetti i cui rapporti
contrattuali sono destinati ad essere regolati dalle condizioni generali. L’azione è diretta a fare inibire dal giudice l’uso
delle condizioni generali di cui sia accertata la vessatorietà. La nozione di vessatorietà è connotata dal significativo
squilibrio dei diritti e obblighi ed in sede di tutela inibitoria trova applicazione la presunzione di vessatorietà della lista
grigia. La vessatorietà deve essere valutata nel contesto globale del regolamento contrattuale mentre non è dato
tener conto delle circostanze del contratto. La vessatorietà deve essere valutata nel contesto globale del regolamento
contrattuale mentre non è dato tener conto delle circostanze del contratto.
La vessatorietà è esclusa per le condizioni generali di contratto che riproducono norme di legge o che sono state
oggetto di trattativa, negoziate con le contrapposte associazioni di consumatori.
L’azione inibitoria è esercitabile dalle associazioni rappresentative dei consumatori e dei professionisti nonché dalle
camere di commercio.
La legittimazione attiva delle associazioni di professionisti si giustifica in quanto le condizioni generali abusive ledono i
consumatori ed i professionisti del settore, svantaggiati dalla presenza sul mercato di un concorrente che si avvale di
un regolamento contrattuale abusivamente più favorevole. La legittimazione passiva spetta al professionista o alle
associazioni di professionisti che utilizzano le contestate condizioni generali di contratto. L’utilizzazione va intesa come
impiego attuale delle clausole ma anche come loro predisposizione. Non occorre che il professionista abbia iniziato ad
avvalersi delle condizioni generali vessatorie essendo sufficiente che abbia elaborato e reso noto il testo di tali
condizioni.
Riguardo alle associazioni di categoria ciò che rileva ai fini della loro legittimazione passiva è la predisposizione delle
condizioni generali di contratto destinate ad essere utilizzate dai loro associati.
L’inibitoria può essere concessa in via cautelare secondo le norme del codice di procedura quando ricorrono giusti
motivi di urgenza.
Il requisito dei giusti motivi d’urgenza è parso problematico, e le prime decisioni lo hanno ravvisato ora
nell’importanza dell’interesse minacciato (attentato a beni essenziali della persona) e nella irreparabilità del danno,
ora nell’ampiezza di diffusione delle clausole.
Queste interpretazioni appaiono riduttive, posto che le clausole vessatorie sono suscettibili di provocare un danno
sociale e reclamano un tempestivo rimedio cautelare.
Se non si voglia aderire alla tesi che nega qualsiasi rilevanza alla menzione del requisito dei giusti motivi d’urgenza,
appare appropriata la tesi che ne ravvisa la sussistenza a fronte della utilizzazione delle condizioni vessatorie mentre
riserva la necessità dell’accertamento di tali motivi in presenza della mera predisposizione.
L’inadempimento degli obblighi stabiliti o assunti in sede di giudizio inibitorio è sanzionabile mediante una penale
giudiziale.
LA SUBFORNITURA
Nozione di subfornitura
L’orientamento che ha identificato la parte debole nella figura del consumatore ha segnato una svolta con la recente
disciplina di tutela del subfornitore, ossia di un tipico imprenditore debole.
Subfornitore è chi si impegna ad effettuare per conto di un’impresa committente lavorazioni su prodotti o materie
prime fornite dalla committente o si impegna a fornire prodotti o servizi destinati ad essere incorporati o utilizzati
nell’ambito di attività economiche della committente o nella produzione di un bene complesso.
La definizione della subfornitura comprende 2 ipotesi, l’una riferita alla lavorazione di prodotti, l’altra alla fornitura di
beni o servizi. Le due ipotesi sono percorse da un filo comune, la subordinazione imprenditoriale del subfornitore. La
subordinazione si coglie in ciò, che l’attività del subfornitore si conforma alle esigenze del committente ed è
insuscettibile di essere immessa nel mercato della concorrenza. Il subfornitore è condizionato alla domanda di
quest’ultimo nonché al rapporto instaurato, insuscettibile di essere rimpiazzato mediante la cessione delle prestazioni
a terzi. Si avverte la duplice esigenza di tutela del subfornitore, che ha trovato rispondenza nella nuova disciplina la
quale da un canto tende a garantire l’equilibrio sostanziale delle posizioni dei contraenti e dall’altro assicura
l’adempimento degli obblighi del committente.
La disciplina
La legge detta prescrizioni a) sulla forma del contratto b) sulla determinatezza del contenuto c) sui termini di
pagamento del subfornitore, e prevede d) la nullità di alcune tipiche clausole vessatorie.
a) Il contratto deve avere la forma scritta a pena di nullità;
b) Nel contratto deve essere specificato il prezzo pattuito;
c) La legge fissa i termini massimi di pagamento del prezzo (60 giorni dal momento della consegna o della
comunicazione dell’avvenuta prestazione) salvo il risarcimento del maggior danno, e una penale del 5% della
somma il cui pagamento ritardi di più di 30 giorni;
d) Colpite di nullità sono le clausole che attribuiscono al committente il potere di modificare unilateralmente le
clausole del contratto; che nella subfornitura ad esecuzione continuata o periodica attribuiscono al
committente o al subfornitore il potere di recesso dal contratto senza congruo preavviso; che attribuiscono al
committente diritti di privativa industriale o intellettuale senza congruo corrispettivo.
L’eccezionalità delle norme che disciplinano la subfornitura imponendo determinati requisiti di forma, esplicazioni di
contenuto, penalità di morosità, non consente di proporne un’applicazione analogica ad ipotesi non riconducibili alla
fattispecie legale. Deve condividersi la tesi che considera tassativi gli elementi di identificazione della subfornitura.
La subfornitura quale tipo contrattuale generale
La previsione normativa di 2 oggetti della subfornitura conferma che non è un particolare tipo di contratto.
Si tratta di un tipo contrattuale generale in cui possono rientrare vari tipi di contratto: appalto, subappalto, vendita,
somministrazione, contratto d’opera. La subfornitura si pone con carattere di trasversalità rispetto ai tipi negoziali
utilizzati nella pratica.
La ricorrenza della subfornitura implicherà l’applicazione della relativa disciplina e della disciplina del singolo tipo
contrattuale che non contrasti con quella della subfornitura.
Distinzione e compatibilità della subfornitura con gli schemi del subcontratto e del collegamento negoziale
L’intendimento della subfornitura quale tipo contrattuale generale esclude che possa identificarsi nel subappalto. Il
subappalto è uno dei tipi contrattuali in cui può riscontrarsi la fattispecie della subfornitura.
Va escluso che questa debba ascriversi alla categoria del subcontratto. È decisiva la considerazione che il subcontratto
presuppone un contratto principale (contratto base) mentre la subfornitura può esaurirsi nel rapporto col
committente senza che questo sia parte di un altro contratto.
Deve ammettersi che la subfornitura possa dare luogo ad un subcontratto.
Riscontro al riguardo è dato dalla previsione della subsubfornitura. La possibilità che la subfornitura faccia seguito ad
un contratto base ha suscitato il problema di un accostamento alla figura del collegamento contrattuale. Va ribadita
la distinzione tra subcontratto e collegamento contrattuale. Il collegamento contrattuale è connotata
dall’interdipendenza dei rapporti. Questa trova ragione nella connessione funzionale tra contratti necessari per
realizzare un programma unitario. Nel subcontratto non vi è connessione in quanto manca una causa comune.
Potrebbe sussistere un collegamento volontaria ma occorre che risulti l’intento delle parti.
L’INTERPRETAZIONE
Nozione di interpretazione
L’interpretazione accerta il significato giuridicamente rilevante dell’accordo contrattuale.
In quanto il contratto è l’atto di autonomia privata mediante il quale le parti dispongono della loro sfera giuridica,
interpretare il contratto vuol dire accertare il significato del contenuto sostanziale del contratto.
Il significato risulta da un apprezzamento obiettivo dell’atto secondo le regole interpretative. Questo significato
esprime la comune intenzione delle parti. Occorre considerare che il contratto si presenta come accordo, come un
reciproco consenso e che il significato deve rispondere a ciò che le parti hanno inteso stabilire. Questa intenzione
rileva in quanto si sia obiettivizzata e resa riconoscibile. L’interpretazione non è volta ad accertare la volontà dell’uno e
dell’altro contraente, ma quella che si sia tradotta nell’accordo e che abbia acquisito espressione socialmente
rilevante.
Compito dell’interprete è ricercare la comune intenzione delle parti. Il compito non è limitato a tale verifica. Quando
questa intenzione non è chiaramente manifestata, l’interprete deve procedere secondo criteri che non si
conformano ad una volontà delle parti ma che sono diretti ad accertare il contenuto sostanziale del contratto sulla
base di valutazioni normative. Su questi due momento della ricerca dell’unico significato del contratto è fondata la
distinzione tra interpretazione soggettiva ed oggettiva.
L’operazione interpretativa ha per oggetto anche i negozi unilaterali, dovendo accertare il significato giuridicamente
rilevante dell’atto. Le norme sull’interpretazione trovano applicazione. La struttura unilaterale non costituisce ragione
di incompatibilità.
Interpretazione e valutazione giuridica nel controllo della Cassazione La distinzione tra interpretazione e
valutazione giuridica rileva sotto il profilo della sentenza da parte della Cassazione. L’interpretazione è riservata al
giudice di merito ed è incensurabile da parte della Cassazione.
L’interpretazione erronea può essere contestata per la violazione di uno dei criteri legali che si traduce in un risultato
interpretativo errato. In tali casi la Cassazione non può sostituire la interpretazione a quella censurata ma deve
rinviare ad altro giudice di merito. L’errata qualifica del contratto rileva come errore di diritto (falsa applicazione della
legge) e la Cassazione può indicare la corretta soluzione giuridica.
b) Interpretazione letterale
Nell’indagare la comune intenzione delle parti l’interprete non può limitarsi al senso letterale delle parole ma il senso
letterale del testo costituisce il primo elemento dell’operazione interpretativa in quanto le dichiarazioni contrattuali
sono rese al fine di manifestare un significato desumibile dalle parole.
Il significato al quale occorre fare riferimento è quello usuale. Dovrà aversi riguardo al significato tecnico o dialettale
dei termini.
L’interprete dovrà tenere conto del significato convenzionale dei termini usati: ma se si tratta di contratti formali il
significato deve essere manifestato nella forma richiesta.
Deve ribadirsi l’inopponibilità a terzi di un significato occulto in contrapposto a quello apparente quale risulta dalla
interpretazione letterale.
d) Interpretazione sistematica
Secondo la regola dell’interpretazione sistematica le clausole del contratto devono essere interpretate le une per
mezzo delle altre, attribuendo il senso che risulta dal complesso dell’atto.
L’esigenza che l’interprete non si fermi all’esame della singola clausola in se si evidenzia in base al rilievo che le
clausole concorrono a formare un tutto unitario e trovano spiegazione nella regolamentazione dell’affare.
L’interpretazione sistematica ha per oggetto gli atti attraverso i quali si perfeziona l’accordo e le dichiarazioni che
rientrano nel contenuto formale del contratto. In tale contenuto rientrano i documenti tecnici (grafici, disegni, mappe
perizie, …) nei quali risultano contenuti e modalità delle prestazioni. L’interpretazione sistematica involge l’esame
delle clausole eventualmente invalide, poiché in sede di interpretazione le clausole rilevano al fine della ricostruzione
dell’intento dei contraenti che si esprime nelle disposizioni concordate.
e) Interpretazione funzionale
La legge prevede che le espressioni con più sensi devono essere intese nel senso più conveniente alla natura ed
all’oggetto del contratto. La norma costituisce espressione di un primario criterio di interpretazione soggettiva: il
criterio dell’interpretazione funzionale.
L’interpretazione di buona fede, letterale, globale e sistematica sono connesse con l’interpretazione funzionale, con
l’interpretazione diretta a ricercare il significato del contratto in coerenza con la causa concreta di esso. Il significato
non può essere accertato se non si tiene conto della ragione pratica dell’affare, ossia della causa concreta. La causa
giustifica il contratto ed il regolamento e consente di chiarire il significato delle dichiarazioni e dei comportamenti
delle parti e di superare incoerenze, ambiguità o discordanze del testo.
La ragione pratica dell’affare può essere identificata solo considerando il contenuto dell’accordo in cui si rivela il
disegno unitario del contratto. L’interpretazione si traduce in una operazione circolare nella quale le dichiarazioni e il
comportamento delle parti concorrono ad indicare la causa del contratto e questa concorre a chiarirne il significato.
La regola di conservazione non concerne le clausole di stile. Tali sono le clausole aggiunte per prassi stilistica senza
esprimere specifica volontà delle parti. Nel giudicare la clausola come di stile l’interprete non opta per la soluzione
dell’inefficacia ma esclude che la disposizione sia stata concordata dai contraenti e faccia parte del regolamento
contrattuale.
b) Gli usi interpretativi
Altra regola prevede che le clausole ambigue devono intendersi secondo ciò che si pratica nel luogo in cui il contratto
è concluso. Se una delle parti è un imprenditore le clausole ambigue devono intendersi secondo ciò che si pratica nel
luogo in cui ha sede l’impresa. Le pratiche alle quali si riferisce questa regola sono le pratiche degli affari e cioè degli
usi negoziali.
Gli usi negoziali concorrono a determinare il contenuto del contratto. Tali usi assolvono una funzione interpretativa
come criterio di chiarimento delle clausole ambigue. Si parla di usi interpretativi. L’espressione non deve essere intesa
con riferimento ad una diversa categoria di usi. Si tratta di usi negoziali in funzione di interpretazione.
La pratica degli affari è identificata da un’applicazione costante e generalizzata in un dato luogo.
Il ricorso alle pratiche degli affari trova giustificazione nel rilievo che il contratto si adegua al significato che in un dato
ambiente socioeconomico gli viene riconosciuto. Ciò spiega perché il contenuto dell’accordo si arricchisce delle
clausole d’uso e spiega perché le disposizioni ambigue devono intendersi secondo l’usuale pratica contrattuale.
Se le imprese contrattanti hanno la sede nel medesimo luogo il confitto può porsi tra settori commerciali diversi. In tal
caso prevale la pratica del settore cui appartiene l’impresa che fornisce il bene o servizio. Questa soluzione non è
indicata ma è conforme alla ragione della regola dettata. Tale ragione può essere individuata nell’esigenza di
uniformità di contenuto dei rapporti attraverso i quali l’impresa eroga beni o servizi.
Contraria esigenza è tutelare l’aderente quando le condizioni generali siano formulate in modo ambiguo. Se si ritiene
che questa esigenza prevalga, l’imprenditore ha l’onere di chiarire il testo delle condizioni generali anche quando
corrispondano ad una pratica in uso nel luogo dell’impresa.
Il ricorso agli usi interpretativi prescinde dalla prova che siano stati voluti o richiamati dalle parti. È possibile provare
che le parti ne abbiano escluso l’applicazione.
L’uso interpretativo deve essere provato da chi ne allega l’esistenza. Il giudice può applicare l’uso interpretativo di cui
abbia conoscenza.
L’interpretazione autentica
L’interpretazione autentica è quella fatta d’accordo delle parti per chiarire il significato del contratto.
Può essere contestuale al contratto o successiva. La prima fa parte del contratto trattandosi di una dichiarazione che
completa il contenuto della volontà delle parti.
L’interpretazione successiva interviene per accertare il significato di un contratto che le parti hanno stipulato e che ha
un suo significato. Il problema è quello più generale se le parti abbiano il potere di stabilire per contratto quello che p
un dato determinato, se rientri nella nozione di autonomia negoziale anche l’accertamento del rapporto giuridico.
La soluzione positiva ammette che le parti possono accertare quale fosse il significato del loro accordo. Questo
accertamento non incontra il limite dei comuni negozi di accertamento, i quali vincolano le parti sul presupposto della
corrispondenza tra accertamento e realtà.
Esse esprimono una volontà negoziale attuale che li esime dai criteri legali di interpretazione.
Superando il limite del significato l’atto può perdere la funzione interpretativa per integrare una modifica del contratto
originario.
L’alternativa tra interpretazione e modifica è priva di rilevanza, rispetto alle parti. Rispetto ai terzi trova applicazione il
principio che tutela coloro che abbiano in buona fede acquistato diritti sulla base del significato apparente del
contratto.
LA CAUSA
La nozione di causa quale ragione pratica del contratto
La causa è la ragione pratica del contratto, l’interesse che l’operazione contrattuale è diretta a soddisfare.
È alla base del riconoscimento dell’autonomia contrattuale. Le parti possono stipulare contratti al di fuori dei tipi
previsti dalla legge purchè siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.
In generale la causa deve essere sempre presente nel contratto, sia tipico che atipico. La causa è indicata tra gli
elementi essenziali del contratto e la mancanza comporta di regola la nullità dell’atto.
La causa si distingue rispetto all’oggetto del contratto. L’oggetto indica il programma ossia il contenuto dell’accordo
delle parti, mentre la causa indica l’interesse che tale programma è volto a soddisfare. Si intende allora la
considerazione che la legge riserva alla causa. Il riferimento alla causa impone di intendere l’atto di autonomia privata
nella realtà di strumento di finalità pratiche e di valutarlo tenendo conto di tale realtà.
La causa costituisce fondamento della rilevanza giuridica del contratto. Affinchè il contratto sia riconosciuto come
impegnativo non è sufficiente che sussista l’accordo ma occorre che sia giustificato da un interesse apprezzabile. In
questo senso la causa diviene elemento essenziale del contratto. Ne consegue la nullità del contratto diretto a
realizzare un interesse non meritevole di tutela.
La causa assume il ruolo di criterio di interpretazione del contratto, di qualificazione del contratto e di adeguamento
del contratto.
I problemi che nascono in relazione agli eventi sopravvenuti che incidono sullo svolgimento del rapporto contrattuale
(impossibilità, aggravio della prestazione, inadempimento, …) possono trovare soluzione solo in quanto sia abbia
presente l’interesse complessivamente perseguito dalle parti, ossia l’economia dell’affare.
La causa concreta
Venuta meno l’ideologia che aveva spinto ad elevare la causa come mezzo di controllo dell’utilità sociale del contratto,
la nozione di causa quale elemento del contratto è risultata insoddisfacente. È stato agevole osservare che se il
contratto ha causa determinata per ogni tipo di contratto, non è spiegabile come una vendita possa avere una causa
illecita. La causa tipica rimane estranea ai contratti innominati.
Il riferimento alla nozione di causa tipica porta a trascurare la realtà di ogni singolo contratto, gli interessi reali che di
volta in volta il contratto è diretto a realizzare al di la del modello.
Abbandonato il riferimento alla causa tipica occorre riconoscere nella causa la ragione concreta del contratto.
Decisivo è osservare che la nozione di causa quale funzione pratica del contratto può avere rilevanza in quanto si
accerti la funzione che il singolo contratto è diretto da attuare. Rispetto al singolo contratto ciò che importa sapere è la
funzione pratica che le parti hanno assegnato all’accordo. Ricercare la funzione pratica del contratto vuol dire
ricercare l’interesse concretamente perseguito. Non basta verificare se lo schema usato sia compatibile con uno dei
modelli contrattuali ma occorre ricercare il significato dell’operazione con riguardo alle finalità che sono entrate nel
contratto. Tenendo conto della causa concreta è possibile valutare la meritevolezza sociale dell’interesse perseguito.
Tale valutazione presuppone che si sia accertato quale interesse o complesso di interessi stanno alla base
dell’operazione negoziale.
La causa concreta rileva quale criterio di interpretazione del contratto. Alla causa concreta occorre fare
riferimento per qualificare il contratto. Il confronto con modelli e criteri di classificazione richiede che si accerti
preliminarmente quale interesse il contratto è volto a realizzare.
La causa concreta assume il ruolo di criterio di adeguamento del contratto. In relazione all’interesse concreto
perseguito deve accertarsi se ad esempio il rapporto possa sopravvivere ad una parziale nullità del contratto.
Il collegamento negoziale e la connessione della sorte di un contratto alla sorte dell’altro possono essere rilevati solo
con riferimento alla causa concreta che le operazioni erano dirette a realizzare.
Il riferimento alla causa concreta trova riscontro in giurisprudenza. Sono molteplici le indicazioni ed utilizzazioni della
causa come funzione concreta del contratto, quale sintesi degli interessi che il contratto è diretto a realizzare. Così ad
esempio è stato possibile intendere che la destinazione della somma mutuata può inerire alla causa di un contratto di
mutuo e
condizionarne le vicende.
Causa del contratto e causa della prestazione. La prestazione autonoma La nozione unitaria della causa ricerca la
ragione pratica dell’operazione e giustifica in essa sia il contratto sia le singole attribuzioni. Se l’attribuzione ha titolo
nel contratto non si pone un problema causale in quanto la causa di essa deve essere identificata nella causa del
contratto. Le prestazioni contrattuali si giustificano nella causa del contratto del quale costituiscono esecuzione.
L’idea secondo la quale la prestazione avrebbe propria causa nell’obbligazione di cui rappresenta adempimento trova
rispondenza nelle fonti romane. Tale idea non può essere tenuta ferma se si vogliono evitare duplicazioni e confusioni
circa il concetto di causa. L’obbligazione non è la causa ma il titolo della prestazione e la mancanza comporta giudizio
di indebito.
In quanto la prestazione si pone come atto esecutivo del contratto, la causa deve ricercarsi nella causa dell’operazione
di cui costituisce attuazione. La prestazione autonoma che non è un mero atto esecutivo ripropone il problema
causale nel caso in cui integra una manifestazione di volontà negoziale. Si tratterà di vedere se questo atto dispositivo
sia accettato e giustificato da una causa sufficiente. Il problema può avere soluzione diversa rispetto a quella valevole
per i contratti obbligatori. Dalla disciplina dell’obbligazione naturale sappiamo che se un soggetto effettua
spontaneamente una prestazione non dovuta ma rispondente ad un dovere morale o sociale tale prestazione non è
ripetibile. L’assunzione di un impegno ad effettuare una prestazione gratuita può non trovare causa sufficiente nella
doverosità morale o sociale della prestazione.
I motivi
I motivi sono gli interessi che la parte tende a soddisfare mediante il contratto ma che non rientrano nel contenuto di
questo.
Sono di regola irrilevanti in quanto le finalità esterne non possono incidere sui diritti ed obblighi delle parti senza
compromettere l’esigenza di certezza della regola contrattuale.
L’irrilevanza dei motivi è spiegata considerando il motivo un impulso psichico. Per la teoria della causa tipica
l’irrilevanza dei motivi andrebbe ricercata nella loro estraneità alla causa. La legge si interessa della funzione tipica del
contratto e non degli scopi che possono indurre le parti a contrattare. Questo criterio di distinzione cade se si ha
riguardo alla causa concreta del contratto. Se si ha riguardo alla funzione pratica che le parti hanno assegnato al loro
accordo, devono rilevare i motivi se non siano rimasti nella sfera interna di ciascuna parte ma siano obiettivizzati nel
contratto, divenendo interessi che il contratto è diretto a realizzare.
Gli interessi che il contratto è diretto a realizzare non sono meri motivi ma concorrono ad integrare la causa del
contratto. Di semplici motivi può parlarsi con riguardo agli interessi che non rientrano nel contenuto del contratto.
L’assunto della irrilevanza dei motivi deve essere ridimensionato rispetto al suo originario significato, in quanto
l’estraneità dell’interesse alla funzione tipica del negozio non basta a relegarlo tra i motivi. Se l’interesse si inserisce
nell’economia dell’affare diviene causa del contratto ed è come tale rilevante.
I motivi propriamente detti possono avere determinata rilevanza. La legge sanziona la nullità del contratto quando le
parti si inducono a concludere il contratto esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe.
Va ricordato che l’errore sul motivo è causa di annullabilità del testamento e della donazione quando il motivo risulta
dall’atto e sia il solo a determinare il suo compimento.
Rilevanza deve essere riconosciuta al motivo in base al principio di buona fede. Se il soddisfacimento di un interesse
non rientra nel contenuto del contratto la parte deve adoperarsi per salvaguardarlo, se ciò non comporti un suo
sacrificio.
La presupposizione
La presupposizione è una circostanza esterna che senza essere prevista quale condizione del contratto ne costituisce
un presupposto oggettivo.
Presupposti oggettivi generali sono le condizioni di mercato e della vita sociale che incidono sull’economia del
contratto. Presupposti specifici sono le circostanze particolari alle quali è subordinato il vincolo contrattuale. Ad
esempio il contratto di vendita viene stipulato sul presupposto che il compratore ha ottenuto o otterrà un
determinato finanziamento pubblico senza che tale circostanza sia indicata come una condizione di contratto.
La rilevanza dei presupposti generali ha riconoscimento nell’istituto della risoluzione per eccessiva onerosità. Il
problema della presupposizione attiene ai presupposti specifici del contratto ed è un problema aperto.
La giurisprudenza ha dato ingresso al principio della presupposizione mentre parte della dottrina lo contesta in quanto
ne ravvisa una condizione non sviluppata del negozio o un motivo che non si è tradotto in clausola condizionale.
Favorevole alla soluzione positiva si è mostrata la dottrina tedesca, che ha ricondotto la presupposizione al
fondamento del contratto. La rilevanza di tale fondamento viene vista come una regola oggettiva e connaturale al
contratto. Secondo la dottrina non si tratterebbe di scegliere tra due soluzioni bensì di distinguere tra una
presupposizione di tipo oggettivo o una connessa alla volontà delle parti.
Il problema della presupposizione non può essere risolto unitariamente ma occorre procedere ad una distinzione
nell’ambito delle circostanze giuridicamente influenti sul contratto, dei presupposti oggettivi.
Va precisato che non rientrano nel concetto di presupposizione i presupposti casuali, fatti o circostanze che
condizionano la realizzazione della causa del contratto.
Se la causa non si può realizzare il contratto si risolve. Nell’esempio del balcone affittato per assistere alla sfilata di un
corteo, questo evento attiene alla causa del contratto ed il suo impedimento preclude la realizzazione di essa. La
locazione non è stipulata per consentire genericamente l’uso del balcone ma per soddisfare lo specifico interesse ad
assistere al corteo. Sono estranei al concetto di presupposizione i risultati che entrano nel contenuto dell’impegno
contrattuale, i risultati dovuti. Si verte nel tema dell’adempimento.
In questo gruppo possono inquadrarsi i precedenti nei quali si è fatto richiamo al concetto di presupposizione e che
riguardano casi di alienazione di beni acquistati per una determinata utilizzazione. Così ad esempio la parte acquista
un terreno col dichiarato proposito di edificarvi una casa di abitazione. La rilevanza data alla circostanza che il bene è
inidoneo è fondata. Ma occorre notare che si tratta di una qualità dell’oggetto e di una qualità giuridica. Occorre
accertare se tale qualità è dovuta nel qual caso l’alienante è inadempiente per inesattezza della prestazione traslativa.
Volendo definire la presupposizione può dirsi che indica quei fatti o circostanze che pur non attenendo alla causa del
contratto o al contenuto delle prestazioni assumono un’importanza ai fini della conservazione del vincolo contrattuale.
La rilevanza di tali presupposti deve essere ammessa e spiegata in base al contenuto del contratto: a determinati fatti
o circostanze deve riconoscersi il valore di presupposti oggettivi quando tale valore risulta dal contratto. Deve aversi
riguardo al significato del contratto conforme alla sua interpretazione. Affinchè una data circostanza acquisti rilevanza
come presupposizione occorre che sia comune alle parti o che una parte abbia riconosciuto l’importanza che la
circostanza assume per l’altra. La conoscenza dell’importanza non vale a subordinare a tale circostanza la sorte del
contratto. L’esigenza
dell’affidamento ne risulterebbe violata. Se una parte annette importanza ad una circostanza non può presumere di
riversarne il rischio sull’altra parte per il fatto che ne abbia avuto conoscenza.
Una circostanza esterna rileva come presupposizione quando in applicazione delle regole di interpretazione, compresa
quella di buona fede, si accerta che tale circostanza ha un valore determinante.
Così ad esempio nel caso in cui la parte si obbliga ad eseguire la prestazione quando avrà ottenuto un determinato
finanziamento pubblico si tratterà di accertare se la menzione del finanziamento valga a specificare una modalità
temporale della prestazione o se valga a subordinare l’obbligazione della parte all’ottenimento del contributo sperato.
Il venir meno della presupposizione non importa l’automatica risoluzione del contratto ma il rimedio del recesso
unilaterale.
Il recesso può essere esercitato nell’ipotesi in cui il presupposto obiettivo sia già in origine inesistente o impossibile a
verificarsi.
La regola della causa quale requisito essenziale del contratto esprime una soluzione negativa verso l’astrattezza
sostanziale. Tale soluzione si estende ai negozi unilaterali.
La regola causale non si applica sempre col medesimo rigore e cede ad altre esigenze della vita di relazione.
Il massimo rigore si coglie nei negozi traslativi di diritti reali immobiliari. Tali negozi sono assoggettati all’onere minimo
della forma scritta, la quale comprende l’elemento causale. Se la causa non risulta questo deve reputarsi nullo.
Per i contratti che prevedono l’alienazione di altri diritti o la prestazione di servizi, che non richiedono determinata
forma, la stipulazione può essere documentata senza che sia necessario indicare la causa dell’atto. Secondo la regola
la causa si presume.
La presunzione di causa non comporta che il contratto sia astratto. Se si dimostra che la causa è inesistente o illecita il
contratto è invalido. Così ad esempio le parti possono cedere il contratto senza bisogno di indicare la ragione della
cessione, non perché la cessione sia un negozio astratto, ma perché la causa si presume. Se la causa non sussiste o è
illecita ne consegue la nullità del contratto.
Nell’ambito delle ipotesi di negozi astratti non devono essere ricomprese quelle figure negoziali nelle quali
l’operazione indica già una ragione sufficiente di giustificazione dell’atto. Si pensi alle rinunce , autorizzazioni, revoche,
contratti estintivi e di accertamento, … La causa concreta potrebbe essere diversa da quella che risulta dall’atto stesso.
In mancanza di altre indicazioni, la causa risultante costituisce una sufficiente pratica dell’operazione.
Si consideri ad esempio il mutuo dissenso, dove non è luogo a ricercare una ragione giustificativa dell’atto posto che
l’interesse delle parti a revocare il contratto è sufficiente. Lo scioglimento del contratto potrebbe rientrare ad esempio
nell’attuazione di una transazione, e trovare anche in questa la sua causa concreta.
Il principio della causa non esclude che si ricorra all’espediente di far figurare una causa lecita e meritevole quando è
illecita ed insussistente. A parte le difficoltà di provare la vera causa dell’operazione, è certo che il contratto deve
reputarsi nullo e privo di efficacia. Ciò deve dirsi della donazione in quanto la forma pubblica non basta a salvare da
nullità
l’attribuzione che abbia la sua causa reale ad esempio in un atto di estorsione. Un’attribuzione con causa illecita o
inesistente potrebbe essere realizzata attraverso il ricorso ad una transazione o ad un negozio di accertamento. In tali
casi deve verificarsi quale è la causa concreta e qualificare di conseguenza il negozio. Non parleremo di transazione se
la controversia è fittizia e la concessione transattiva è un’attribuzione che ha diversa ragione giustificativa.
Il contratto tipico
Il tipo contrattuale è il modello di un’operazione economica ricorrente nella vita di relazione. Occorre considerare che
l’attività negoziale si uniforma a determinati modelli che corrispondono a bisogni della vita di relazione. Il tipo
contrattuale si distingue in legale o sociale. Il tipo contrattuale legale è un modello di operazione economica tradotto
in un modello normativo, in un modello previsto e disciplinato dalla legge. Il tipo sociale è un modello affermatosi
nella pratica ma non regolato specificamente dalla legge.
Il tipo viene riferito al primo significato. Quando si parla di contratto tipico si intende il contratto tipico legale o
nominato.
Il contratto nominato è una figura normativa che disciplina un tipo di operazione economica (vendita, mutuo, appalto,
…). Contratto nominato è il singolo, concreto contratto che si qualifica in un tipo contrattuale legale (le parti hanno
stipulato una vendita, un mutuo, un appalto, …).
I contratti nominati esprimono modelli che si caratterizzano e strutturano in base a tipici interessi della vita di
relazione. Quando il singolo contratto trova riscontro in uno di questi modelli si qualifica come tipico.
La qualificazione del contratto procede in base al confronto di tale contratto col le tipiche operazioni negoziali. Questo
confronto deve essere fatto tenendo presente le figure di contratti nominati non come complessi riassuntivi di norme
bensì come modelli normativi di tipiche operazioni economiche. L’identificazione di queste operazioni deve procedere
attraverso l’interpretazione della norma nel significato che trae dalla realtà sociali che è diretta a regolare. Occorre
tenere presente la causa concreta del contratto. Ai fini della qualificazione è essenziale ciò che le parti stabiliscono, ma
il contenuto è importante in quanto concorre a rilevare quale è l’interesse effettivamente perseguito dalle parti. Ciò
che occorre vedere è se tale interesse corrisponde ad uno degli interessi negoziali tipici.
Un criterio basato sulla coincidenza degli effetti giuridici con la disciplina di un tipo contrattuale è insufficiente a
qualificare il contratto, come è evidente quando la causa concreta risulta incompatibile col tipo legale adottato.
Si consideri ad esempio l’ipotesi in cui l’alienante attribuisce un bene ad una società di capitali per un certo prezzo con
l’intesa che il prezzo debba compensare il debito derivante dalla sua sottoscrizione del capitale sociale. L’adozione di
un criterio basato sulla coincidenza degli effetti giuridici dell’atto con la disciplina legale porterebbe a qualificare il
contratto quale compravendita. Il criterio basato sulla causa concreta porta a ravvisare nella pretesa compravendita
un conferimento in natura e ad applicarne la relativa disciplina con l’obbligo della stima del bene conferito.
Il contratto innominato
Il contratto innominato non rientra in un tipo legale, la possibilità di stipulare contratti innominati è prevista
dall’autonomia contrattuale. Nell’esercizio di tale autonomia le parti possono stipulare contratti che non rientrano nei
tipi legali purchè diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela.
La non rispondenza ad un tipo legale pone un problema di controllo della causa non diverso rispetto a quello dei
contratti nominati. La coincidenza del contratto con uno schema legale non è sufficiente a verificare la meritevolezza
dell’interesse. Si tratta di ricercare la causa concreta del contratto, la quale non deve violare i limiti imposti
dall’autonomia privata e deve essere socialmente meritevole di tutela.
Nella pratica si assiste al fenomeno della tipizzazione sociale di contratti innominati, quali modelli che rispondono a
nuove esigenze pratiche e attraverso la contrattualistica tendono ad acquisire regolamentazione uniforme (la
sponsorizzazione, …).
Il contratto misto
Di contratto misto si hanno 2 nozioni.
Secondo la nozione corrente il contratto si dice misto quando concorrono gli elementi di più negozi tipici che si
fondono in un’unica causa.
La fusione sta a significare che ciascuno di questi elementi si compenetra concorrendo a realizzare un interesse
unitario. Contratti misti sono ad esempio l’accordo mediante il quale una parte si obbliga a dare in godimento un
impianto di erogazione di carburante e l’altra si obbliga a fornire carburante in esclusiva a prezzo ridotto (qui vi
sarebbe commistione di locazione e somministrazione); l’accordo mediante il quale una società si obbliga a svolgere
un’attività promozionale per la diffusione di un prodotto ottenendo l’esclusiva della vendita del prodotto stesso (qui vi
sarebbe commistione di vendita e mandato), …
Di contratto misto si parla con riferimento all’ipotesi di una pluralità di cause concorrenti nell’unicità del rapporto
(vendita mista a donazione, …). Riguardo a questa seconda nozione in dottrina si è prospettata la tesi di un’autonoma
categoria contrattuale dei contratti misti, caratterizzati dal concorso di più cause e dalla riconducibilità del negozio a
più tipi legali. Nell’una e nell’altra ipotesi (fusione o concorrenza di cause) il contratto misto è inteso come unico,
essendo unica la causa o la prestazione. L’alternativa al contratto misto è quella dei contratti funzionalmente collegati.
Il contratto misto non costituisce autonomo tipo negoziale. Se le cause si fondono in un’unica causa è senza’altro un
contratto innominato poiché tale unica causa non trova riscontro in un tipo legale.
La commistione di più cause tipiche pone il problema di quale sia la disciplina legale tipica alla quale ricondurre il
contratto. La dottrina propone 2 criteri per risolvere tale problema, il criterio dell’assorbimento e quello della
combinazione. In base al criterio dell’assorbimento si applica la disciplina del tipo principale. In base al criterio della
combinazione ciascun elemento deve essere disciplinato dalle regole del tipo cui appartiene.
La giurisprudenza si avvale sia del criterio dell’assorbimento sia di quello della combinazione. Essa applica la
disciplina del tipo identificato dall’elemento principale o prevalente. Se il contratto presenta clausole riconducibili
ad altri tipi contrattuali applica la disciplina di quei tipi. La prevalenza deve avere riguardo alla funzione. La
prevalenza dell’elemento funzionale non sembra sufficiente ad assicurare che la disciplina legale del contratto
nominato sia quella più congrua.
Quando vi sono più interessi principali che si fondano in una causa unitaria il criterio dell’elemento tipico prevalente
risulta arbitrario. Appropriato pare il criterio dell’analogia, valevole per i contratti innominati, che richiede di applicare
alle situazioni contrattuali norme regolanti situazioni simili.
Il collegamento negoziale
Più contratti si dicono collegati quando sussiste tra essi un nesso di interdipendenza.
Il collegamento si dice volontario quando è previsto, quando risulta dall’intento delle parti di subordinare a sorte di un
contratto a quella dell’altro. Si dice funzionale quando risulta dalla unitarietà della funzione perseguita, quando i
rapporti negoziali posti in essere tendono a realizzare un fine pratico unitario. I singoli rapporti perseguono un
interesse immediato che è strumentale rispetto all’interesse finale. Questo interesse finale concorre a determinare la
causa concreta del contratto poiché è l’interesse che il contratto è diretto a realizzare.
Un esempio di contratti collegati è quello della vendita di merce che si accompagna al noleggio, da parte
dell’alienante, delle navi occorrenti per il trasporto della merce. I contratti sono funzionalmente collegati per il
soddisfacimento di un interesse economico unitario.
Il collegamento funzionale risponde al significato oggettivo dell’operazione. L’interdipendenza dei rapporti non è un
effetto legale ma un risultato conforme all’interpretazione del contratto.
La conformità del collegamento all’interpretazione del contratto prescinde da una previsione delle parti. L’idea
secondo la quale ai fini del collegamento occorrerebbe un elemento soggettivo, consistente nell’intenzione di
connettere i vari contratti, non sembra condivisibile. È sufficiente che la connessione risulti dall’unitarietà della causa
che l’operazione è diretta a realizzare. Si distingue il collegamento genetico, quel collegamento per cui un negozio
esercita un’azione (vincolativa o meno) sulla formazione di un altro o di altri negozi (contratto preliminare e contratto
definitivo, …).
L’interdipendenza dei rapporti negoziali è reciproca, nel senso che la sorte del rapporto è legata alla sorte dell’altro. È
possibile un’interdipendenza unilaterale, nel senso che la sorte di un rapporto si ripercuote sull’altro ma non
viceversa. L’interdipendenza unilaterale è riscontrabile nelle ipotesi di contratti accessori i quali seguono la sorte dei
contratti principali cui accedono (contratti di garanzia, …).
Il collegamento negoziale non presuppone la coincidenza soggettiva di tutte le parti. Presuppone la pluralità dei
contratti, dovendosi altrimenti parlare di contratto complesso.
La distinzione tra contratti collegati e contratto complesso deve procedere con riferimento alla causa. In un caso e
nell’altro vi è una pluralità di prestazioni, ma nel contratto complesso sono riconducibili ad un unico rapporto,
caratterizzato da un’unica causa. Nel collegamento negoziale le singole prestazioni sono inquadrabili in distinti schemi
causali.
Il collegamento funzionale comporta l’unitarietà dell’interesse globalmente perseguito, ma non esclude che tale
interesse sia realizzato attraverso contratti diversi, che si caratterizzano per un interesse immediato strumentale o
parziale rispetto all’interesse unitario perseguito attraverso la causa parziale dei singoli contratti e la causa
complessiva dell’operazione.
La distinzione tra contratto unico e più contratti collegati ha importanza ridotta per l’unitarietà funzionale
dell’operazione che contraddistingue il collegamento negoziale.
Ai contratti collegati si applicano le regole della nullità parziale per cui l’invalidità di un contratto può comportare
l’invalidità degli altri collegati; dell’impossibilità parziale sopravvenuta, per cui l’impossibilità di esecuzione di un
contratto può comportare la risoluzione degli altri; dell’inadempimento parziale, per cui l’inadempimento di uno può
comportare la risoluzione degli altri; dell’eccezione di inadempimento, per cui l’inadempimento di uno può legittimare
la parte a non eseguire gli altri.
Il negozio indiretto
Per negozio indiretto si intende il negozio volto al conseguimento di un risultato ulteriore non normale o tipico del
negozio. Esempi di negozi indiretti sono il matrimonio contratto per conseguire la nazionalità del coniuge, il mandato
irrevocabile a vendere al fine di attribuire il bene al mandatario, la vendita a scopo fiduciario, con l’obbligo del
compratore di ritrasferire il bene all’alienante o ad un terzo, …
Il negozio indiretto si distingue rispetto a quello simulato in quanto le parti vogliono realmente gli effetti giuridici del
negozio, strumentali rispetto al fine ulteriore. Questo fine ulteriore pur anomalo sarebbe compatibile con la causa di
esso: la causa non sarebbe alterata nella utilizzazione indiretta del contratto.
La dottrina identifica nel fine ulteriore un semplice motivo e ne deduce la inconfigurabilità di una categoria dogmatica
del negozio indiretto.
Il negozio indiretto non presenta caratteri che ne giustificano l’inquadramento in un’autonoma categoria. L’indicazione
del negozio come indiretto vale a sottolineare che è strumento per il perseguimento di un fine che va oltre quello
desumibile dal tipo legale.
È discutibile la irrilevanza del fine ulteriore perseguito. Se si ha riguardo alla causa concreta del negozio è agevole
accertare che il fine ulteriore incide. Negli esempi di negozi indiretti la causa concreta risulta incompatibile con il tipo
legale. Così il mandato irrevocabile a vendere nell’interesse esclusivo del mandatario appare estraneo alla causa del
mandato. La vendita fiduciaria con obbligo di ritrasferire il bene è estranea alla causa della vendita quale operazione di
scambio tra bene e prezzo.
Il richiamo al negozio indiretto è frequente in tema di vendita mista a donazione e di vendita a scopo di garanzia. Deve
rilevarsi come l’intento di liberalità si sostituisca alla causa della vendita e si traduca nella gratuità dell’attribuzione. La
causa della vendita risulta esclusa in quanto l’alienazione ha la funzione di garantire l’adempimento dell’obbligazione
del venditore o di garantire l’obbligo di restituzione della somma versata (apparentemente) a titolo di prezzo.
Nozione distinta rispetto al negozio indiretto è quella della donazione indiretta, atto diverso dalla donazione che porta
ad un risultato di liberalità.
La donazione indiretta non implica il perseguimento di un fine anomalo, in quanto l’effetto giuridico favorevole può
essere connaturato all’atto (remissione del debito, …).
La corrispettività
La corrispettività delle prestazioni contrattuali sta a significare che la prestazione di una parte trova remunerazione
nella prestazione dell’altra. I contratti a prestazioni corrispettive sono detti sinallagmatici. Comprendono i contratti di
scambio, di concessione in godimento e di servizi a titolo oneroso (locazione, lavoro subordinato, …) in cui la
prestazione di una parte è compensata dalla controprestazione dell’altra.
La corrispettività comporta l’interdipendenza delle prestazioni.
L’interdipendenza esprime il condizionamento di una prestazione all’altra. Si suole distinguere tra sinallagma genetico
e sinallagma funzionale. Il sinallagma genetico indica l’interdipendenza iniziale delle prestazioni, nel senso che
l’impossibilità iniziale di una rende nullo l’intero contratto e non dovuta la controprestazione.
Il sinallagma funzionale indica l’interdipendenza delle prestazione nell’attuazione del contratto, nel senso che una
parte può rifiutarsi di eseguire la prestazione se l’altra non esegue la propria (eccezione di inadempimento) e può
essere liberata se la controprestazione diviene impossibile per causa non imputabile alle parti o se vi è grave
inadempimento della controparte.
Il principio dell’interdipendenza può essere derogato dalle parti. Così ad esempio il contratto può stabilire che una
parte non può rifiutarsi di adempiere adducendo l’inadempimento dell’altra (clausola solve et repete). Una parte può
assumere il rischio dell’impossibilità della controprestazione come ad esempio nella vendita a sorte, nella vendita a
rischio e pericolo del compratore, dove il rischio è a carico del compratore, salvo che derivi da fatto proprio
dell’alienante.
L’esclusione del diritto alla risoluzione per inadempimento incontra il limite posto dal divieto delle clausole di
irresponsabilità per dolo o colpa grave. Punto ammesso in dottrina è che la corrispettività non si identifica con
l’onerosità. Non basta il dato dell’esistenza di prestazioni per identificare il nesso di corrispettività. Così ad esempio
l’obbligo che un modo può imporre al donatario non costituisce il corrispettivo dell’attribuzione donativa. Qualche
difficoltà sorge quando si viole puntualizzare il significato del nesso che intercorre tra prestazione e controprestazione.
Secondo una prima definizione vie è corrispettività quando ciascuna prestazione è causa dell’altra. Questa definizione
non appare appropriata in quanto sembrerebbe richiamare la concezione che ravvisava una causa distinta per
ciascuna obbligazione contrattuale.
Secondo altra formula la corrispettività sarebbe l’interdipendenza delle prestazioni. Deve obiettarsi che
l’interdipendenza è una regola che consegue alla corrispettività.
L’interdipendenza non è una regola esclusiva dei contratti a prestazioni corrispettive e non può servire ad identificare
il concetto di corrispettività. L’interdipendenza si riscontra in tutti i contratti in cui la prestazione di ciascuna parte
assume importanza per la realizzazione della causa del contratto. Così ad esempio nel contratto di società la
prestazione di ciascuno dei soci può essere talmente importante da condizionare l’attuazione del programma sociale e
da condizionare le prestazioni degli altri.
Altra formula intende la corrispettività come nesso di reciprocità fra le prestazioni.
Contratti aleatori
Il contratto è aleatorio quando è a carico di una parte il rischio di un evento casuale che incide sul contenuto del suo
diritto o della sua prestazione contrattuale. L’assunzione del rischio può inerire al tipo di operazione negoziale (tipico
contratto aleatorio è quello di assicurazione) o essere prevista dalle parti in deroga alla regola legale di ripartizione dei
rischi (contratti aleatori per volontà delle parti). Così ad esempio il rischio che la cosa venduta sia affetta da vizi grava
sul venditore ma può essere assunto dal compratore con apposito patto.
I contratti aleatori si contrappongono ai contratti commutativi, quali contratti in cui l’entità delle reciproche
prestazioni non dipende da fattori casuali. I contratti aleatori non si contrappongo ai contratti corrispettivi, in quanto
l’aleatorietà non esclude la corrispettività. L’alea si traduce nella incertezza totale o parziale di una delle prestazioni.
In certi casi l’interesse che il contratto è diretto a realizzare è l’assicurazione del rischio. L’interesse di una parte è
soddisfatto per il fatto che l’altra è obbligata a corrispondere un indennizzo nella eventualità di un evento dannoso
non imputabile ai contraenti.
In altri casi l’interesse è costituito dall’acquisizione di un’occasione favorevole in ragione della quale si giustifica il
corrispettivo (scommessa, …). In altri casi la parte assume a suo carico il rischio parziale o totale di un evento che
colpisce la prestazione dovutagli. Questa prestazione potrebbe mancare del tutto. Ma in tale estrema evenienza
rimane ferma la funzione di scambio del contratto. La parte si impegna a pagare il corrispettivo in ragione della
controprestazione, anche se assume a suo carico il rischio di un evento che può renderla impossibile. La causa di
scambio risulta esclusa quando è previamente certo che la prestazione non potrà essere conseguita. Il carattere
aleatorio rileva in tema di rescissione per lesione.
L’alea che caratterizza i contratti aleatori incide sul contenuto della prestazione ed è estranea all’alea delle variazioni
di costi e di valori delle prestazioni. L’alea delle variazioni di costi e valori inerisce ad ogni operazione contrattuale ed è
a carico di ciascuno dei contraenti quando non supera i limiti della normalità. L’alea delle variazioni di costi e valori che
rimane entro limiti di normalità costituisce l’alea normale del contratto. Superati i limiti dell’alea normale la
prestazione diviene eccessivamente onerosa prospettando il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità. Tale
rimedio è precluso nei contratti aleatori sempreché la sopravvenuta eccessiva onerosità rientri nel rischio assunto.
L’INTEGRAZIONE
L’integrazione del contratto
Accanto alle determinazioni convenzionali, alle disposizioni che si riconducono all’accordo e ne costituiscono il
contenuto, occorre distinguere l’integrazione del contratto, le determinazioni che hanno titolo nella legge o in fonti
esterne al contratto (fonti eteronome).
La regola dell’integrazione prevede che il contratto obbliga le parti non solo a quanto è espresso ma a tutte le
conseguenze che ne derivano secondo legge o secondo usi ed equità. Altra fonte di diritto obiettivo è la buona fede.
L’integrazione può essere cogente o suppletiva.
È cogente quando determina coattivamente il rapporto contrattuale nonostante una diversa volontà delle parti (prezzi
d’imperio, …).
Si dice suppletiva quando determina il contenuto del rapporto contrattuale in mancanza di diversa previsione delle
parti.
L’integrazione, inderogabile o suppletiva, incide su un rapporto che rimane contrattuale poiché la fonte nell’atto di
autonomia delle parti. Il contratto è un’operazione delle parti, in quanto queste lo pongono in essere e ne
determinano causa e contenuto essenziale.
Gli effetti extraconvenzionali sono sempre integrativi del rapporto contrattuale, non ne mutano la natura e rimangono
assorbiti nell’ambito della sua disciplina. L’integrazione può dar luogo ad ulteriori obblighi ma si tratta di obblighi che
ineriscono al rapporto contrattuale: la violazione costituisce inadempimento della parte e da luogo all’applicazione dei
rimedi a tutela del contratto.
La buona fede
Fonte legale di integrazione è il principio di buona fede.
È richiamata più volte nella disciplina del contratto. Le parti devono comportarsi secondo buona fede già nelle
trattative ed in pendenza della condizione. È poi richiamata come criterio di interpretazione del contratto. Il
contratto deve essere eseguito secondo buona fede. In questa previsione emerge il ruolo della buona fede quale
fonte di integrazione. In tale ruolo assume il significato di buona fede in senso oggettivo o correttezza. Si pone
quale regola di condotta.
La buona fede rileva come fonte primaria di integrazione del rapporto, prevalente sulle determinazioni contrattuali. In
tal senso depone il suo valore di ordine pubblico. Rappresenta uno dei principi dell’ordinamento sociale ed il
fondamento etico che le viene riconosciuto trova rispondenza nell’idea di una morale sociale solidale che si pone al di
la dei confini del buon costume. La tesi riduttiva secondo la quale non integrerebbe il rapporto ma varrebbe a
correggere il giudizio di conformità del comportamento alla legge non può essere condivisa. Anche se applicata
nell’attuazione del contratto è pur sempre una regola obiettiva che concorre a determinare il comportamento dovuto.
Non impone un comportamento a contenuto prestabilito. È una clausola generale che richiede comportamenti diversi
in relazione alle circostanze di attuazione del rapporto.
Nell’ordinamento tedesco il richiamo alla buona fede ha consentito di adeguare l’applicazione della legge ad esigenza
di giustizia avverti dalla coscienza sociale. Nel nostro ordinamento l’applicazione del principio di buona fede ha
incontrato difficoltà, anzitutto di intendere il significato e la portata del principio.
Le massime rispecchiano 2 orientamenti. Il primo è di svalutazione del dovere di buona fede e giunge a negare che si
tratti di un obbligo giuridico. Questo atteggiamento trae spunto dal convinci,mento che la norma sulla buona fede
sarebbe priva di un contenuto e si ridurrebbe ad un’affermazione retorica.
Opposta massima esalta nella buona fede uno dei cardini della disciplina legale delle obbligazioni. A questa esaltazione
non corrispondono chiare indicazioni su cosa debba intendersi per buona fede o correttezza.
I riferimenti alla schiettezza, alla diligente correttezza, al senso di solidarietà sociale, all’onestà, sono equivoci o
eccessivamente generici. Il tentativo di dare al precetto il contenuto dei principi generali o costituzionali non ha sortito
alcun risultato in quanto il precetto è rimasto una formula in bianco non sufficientemente determinata e scarsamente
utilizzabile come criterio di condotta e di decisione.
L’esigenza di ricercare una nozione operativa, avente un reale valore pratico, ha indotto altra dottrina a delimitare il
concetto di buona fede nel tema dei rapporti obbligatori, riportandolo ai termini della lealtà che si impone fra i
partecipi di un rapporto e che si specifica come rispetto dell’affidamento. Occorre ammettere l’esattezza del
riferimento all’esperienza del settore contrattuale per individuare indicazioni specifiche sul significato della buona
fede. Ciò non preclude la ricerca di una concretizzazione della nozione in modelli operativi al di fuori dei contratti. Il
riferimento alla lealtà appare riduttivo rispetto al tema prescelto. Il rispetto dell’affidamento non può esaurire la
propria portata di un principio che la legislazione ha voluto porre a fondamento della vicenda contrattuale e che
esprime un’esigenza superiore alla logica dello stare ai patti e del non ingannare.
Specificazione del principio di buona fede nei canoni della lealtà e della salvaguardia
La buona fede è una clausola generale che non impone un comportamento a contenuto prestabilito. Ciò non vuol dire
che non si presti ad essere determinata con riferimento a dati effetti tratti dall’esperienza. Può dirsi che la buona fede
in senso oggettivo o correttezza si riporta all’idea della solidarietà. Con riferimento alle parti del rapporto contrattuale
esprime una esigenza di solidarietà che può indicarsi come solidarietà contrattuale. Quale principio di solidarietà
contrattuale si specifica in2 canoni di condotta. Il primo, valevole nella formazione ed interpretazione del contratto,
impone la lealtà del comportamento.
Nell’esecuzione del contratto e del rapporto obbligatorio la buona fede si specifica come obbligo di salvaguardia. Qui
impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra. Questo impegno di solidarietà
trova limite nell’interesse proprio del soggetto. Il soggetto è tenuto a far salvo l’interesse altrui ma non fino al punto di
subire un sacrificio personale o patrimoniale. In mancanza di tutela giuridica dell’interesse altrui non si
giustificherebbe la prevalenza di esso sull’interesse proprio.
Quale obbligo di salvaguardia la buona fede può essere identificata come l’obbligo di ciascuna parte di salvaguardare
l’utilità dell’altra nei limiti in cui ciò non importi un apprezzabile sacrificio.
Buona fede e diligenza
L’obbligo di buona fede non deve essere confuso con l’obbligo di diligenza. La diligenza consiste nell’adeguato impiego
delle energie e dei mezzi idonei alla realizzazione di un fine. L’obbligo della diligenza impone l’adeguato sforzo volitivo
e tecnico per realizzare l’interesse del creditore e non ledere i diritti altrui. La diligenza misura l’obbligo con cui il
soggetto è tenuto per soddisfare l’interesse altrui giuridicamente tutelato. Indica l’impegno del soggetto in relazione al
diritto altrui.
L’obbligo della diligenza rileva rispetto all’interesse tutelato da un diritto relativo o assoluto: per rispettare tale
interesse il soggetto deve emettere tutto lo sforzo appropriato secondo criteri di normalità impiegando mezzi,
osservando norme, adottando cautele.
La correttezza è una norma di condotta che impone alla parte la considerazione della utilità dell’altra, la
considerazione di quell’interesse non oggetto di una tutela giuridica che il contraente deve salvaguardare in forza della
solidarietà contrattuale. L’obbligo della buona fede vieta un comportamento sleale ed impone di salvaguardare
l’utilità della controparte ma non richiede un impegno elevato fino alla soglia dello sforzo diligente.
Si conferma l’inaccettabilità della tesi che fonda sulla buona fede gli obblighi di protezione . Nell’adempimento il
debitore è tenuto ad un comportamento che non leda i beni personali e patrimoniali del creditore: ma la
responsabilità deve essere valutata non secondo il criterio della correttezza, bensì secondo quello della diligenza.
La possibilità di diversa disciplina convenzionale trova ragione nell’idea che le parti siano i migliori giudici dei loro
interessi. Questa idea si è scontrata con l’esperienza delle condizioni generali di contratto, la cui elaborazione in
deroga alla disciplina legislativa appare funzionale all’interesse del predisponente.
Norme cogenti. La sostituzione delle clausole invalide con disposizioni legali Le norme integrative possono assumere
il carattere dell’inderogabilità quando tutelano un interesse generale prevalente su quello delle parti o l’interesse di
una delle parti contro la preminente forza contrattuale dell’altra. Le disposizioni imperative si applicano al rapporto
contrattuale nonostante la diversa previsione delle parti, realizzando un’integrazione cogente.
Esempi sono offerti dai prezzi imperativi, fissati mediante atti della pubblica autorità. La determinazione legale del
prezzo prevale su quella delle parti. Una previsione generale riguardava le merci di largo consumo, che demandava ad
appositi organi (Comitato interministeriale o CIP e comitati provinciali prezzi) la determinazione imperativa dei relativi
prezzi.
La tendenza è nel senso di allargare l’area di protezione della parte debole, introducendo una ampia gamma di
determinazioni legali del contratto che possono essere derogate solo a favore della parte tutelata.
La disciplina del contratto costituisce una limitazione dell’autonomia contrattuale, che appare costituzionalmente
legittima e doverosa in quanto volta ad impedire che l’esercizio dell’attività economica si ponga in contrasto con l’utile
sociale.
Le clausole contrattuali contrarie alle determinazioni legali inderogabili sono colpite da nullità in quanto contrarie a
norme imperative. Ne consegue la nullità parziale del contratto.
La nullità parziale non involge l’invalidità dell’intero negozio.
La nullità di singole clausole importa la nullità del contratto se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza
la parte colpita da nullità. In tal caso opera la regola della sostituzione delle clausole invalide con le clausole ed i prezzi
imposti dalla legge o da altre fonti autoritarie.
La conservazione del contratto si spiega in quanto a tutela dell’interesse della parte debole o di altro preminente
interesse la legge determina imperativamente il contenuto del rapporto. Tale tutela è realizzata non colpendo di
nullità l’intero contratto bensì conformando diritti ed obblighi al contenuto legale. La norma sancisce l’inserzione
automatica nel contratto di clausole e prezzi autoritari. Questa inserzione deve intendersi riguardo al rapporto e non
all’accordo. Si tratta di regole non riconducibili al significato obiettivo del contratto. La modifica autoritaria non ne
tocca il carattere negoziale in quanto costituito da un atto di autonomia privata. Gli effetti legali concorrono a
determinare diritti ed obblighi che ineriscono a tale rapporto, e sono assoggettabili alla sua disciplina ed alle sue
vicende.
I contratti collettivi
Fonte di integrazione del contratto è costituita dai contratti collettivi, contratti normativi stipulati dalle contrapposte
associazioni sindacali per disciplinare i rapporti di lavoro della categoria. I contratti prendono il nome di accordi
economici collettivi.
La Costituzione prevede che il contratto collettivo possa assumere efficacia generale, vincolante per tutti gli
appartenenti alla categoria, iscritti o no al sindacato. Questa norma non ha avuto attuazione e i sindacati stipulano
contratti collettivi di diritto comune.
L’efficacia di tali contratti riguarderebbe gli iscritti al sindacato, secondo il principio della rappresentanza volontaria. Se
le parti del contratto individuale di lavoro sono iscritte ai sindacati delle opposte categorie, sono assoggettate al
contratto collettivo che i sindacati hanno stipulato in rappresentanza dei loro aderenti. Il potere di rappresentanza
volontaria del sindacato deriverebbe da una tacita procura da parte dei singoli iscritti, implicita nel fatto dell’iscrizione.
Tale costruzione è al di fuori della realtà in quanto i sindacati non agiscono in virtù di autorizzazioni individuali ma in
base ad una competenza connessa alla funzione istituzionale, la tutela degli interessi professionali della categoria. Il
significato dell’iscrizione non è il conferimento di un potere al sindacato, ma l’accettazione della tutela collettiva
esercitata dal sindacato. Le parti dei contratti individuali possono accettare la tutela collettiva oppure l’attività o i
singoli atti della tutela collettiva. La giurisprudenza richiede che deve essere data prova dell’iscrizione ai sindacati
stipulanti o che sia data prova dell’adesione alla contrattazione collettiva o di una implicita recezione del regolamento
collettivo evidenziata dalla sua concreta osservanza. Il contratto collettivo di diritto comune è fonte cogente di
integrazione dei contratti individuali di lavoro. I singoli rapporti sono disciplinati dalle norme collettive che prevalgono
sulle clausole contrattuali in contrasto con esse. Le clausole difformi sono sostituite da quelle del contratto collettivo,
salvo che contengano condizioni più favorevoli al prestatore di lavoro.
Il principio della prevalenza del contratto collettivo su quello individuale si trova sancito nel codice civile. La sua
applicazione al contratto collettivo di diritto comune è riconosciuta da una massima giurisprudenziale.
Si è tentato di spiegare l’inderogabilità delle norme collettive in base alla regola della irrevocabilità del mandato
collettivo. Ma questa spiegazione è inadeguata, posto che è discutibile la premessa (conferimento del mandato da
parte dei singoli interessati) e che comunque la irrevocabilità del mandato non impedirebbe al singolo di modificare il
contenuto del rapporto individuale rispetto a quanto pattuito dal mandatario. Non si spiega perché l’inderogabilità
valga a favore del lavoratore e non dell’altra parte.
L’inderogabilità delle norme collettive costituisce un principio di diritto effettivo, emergente nell’applicazione
giurisprudenziale e risponde all’esigenza di tutelare il lavoratore mediante l’indisponibilità dei diritti derivantegli dalla
contrattazione collettiva.
In quanto i contratti collettivi si presentano quali atti negoziali di diritto comune la giurisprudenza non esita ad
assoggettarli alle norme di interpretazione del contratto e ad escludere che l’errata applicazione della norma collettiva
sia censurabile in sede di legittimità.
L’equità
L’equità è un principio di integrazione del contratto. Per quegli aspetti del contratto non determinati dalle parti, dalle
leggi o dagli usi, è l’equità che assurge a criterio generale di determinazione.
Quale fonte di integrazione non è un principio di giustizia morale che si sostituisce alla regola del diritto positivo per la
soluzione della controversia. Rileva come uno dei criteri che secondo la previsione legislativa concorrono a
determinare gli effetti giuridici del contratto. Questo criterio esprime l’esigenza dell’equilibrio contrattuale, cioè che i
singoli interessi siano contemperati in relazione all’economia dell’affare.
Quale principio di integrazione l’equità è il criterio del giusto contemperamento dei diversi interessi delle parti in
relazione allo scopo ed alla natura dell’affare.
Stesso criterio equitativo opera nei contratti a titolo gratuito, dove la determinazione del contratto deve procedere
contemperando l’interesse dell’avente diritto (ad avere il massimo quantitativo e qualitativo) e quello dell’onerato (al
minore sacrificio possibile).
L’equità è un precetto di giustizia contrattuale che ha come destinatari le parti e che trova applicazione al fine di
integrare le lacune del regolamento contrattuale. Nell’esercizio dell’autonomia contrattuale le parti non sono tenute
ad attenersi al criterio dell’equità. Tale criterio subentra a contratto concluso quando rimangono da definire aspetti
non determinabile mediante le altre regole di integrazione.
Il precetto di equità è a carico del terzo al quale è affidata la determinazione dell’oggetto del contratto salvo che le
parti abbiano voluto rimettersi al suo apprezzamento (mero arbitrio). In tal caso l’arbitratore deve rispettare il criterio
equitativo in quanto non può deliberatamente alterare l’equilibrio contrattuale per favorire una parte a danno
dell’altra.
Al criterio equitativo deve attenersi il giudice che sostituisce il terzo nella determinazione del contratto. Al criterio di
equità il giudice è tenuto tutte le volte in cui occorra determinare taluni elementi del contratto perfezionato. Ciò può
accadere quando le parti si siano riservate di definire in seguito particolari aspetti del rapporto.
Il contratto può perfezionarsi nel silenzio delle parti se la legge indica i criteri di determinazione. Tra questi figura
quello equitativo. Nell’applicare questi criteri il giudice non esercita un potere di determinazione del contratto ma
accerta il contenuto del diritto spettante alla parte.
Rilevante è il ruolo del giudice nella determinazione del compenso in tutti i
contratti di prestazioni d’opera o di servizi, nei casi in cui tale compenso non sia altrimenti determinato.
Quale criterio di contemperamento degli interessi delle parti l’equità opera nell’interpretazione del contratto. Sia
nell’integrazione che
nell’interpretazione del contratto rileva la stessa nozione di equità. Come principio d’interpretazione l’equità trova
applicazione in funzione di chiarimento del significato dell’accordo mentre quale criterio d’integrazione opera per
colmare le lacune del contratto.
L’EFFICACIA
L’efficacia del contratto
L’efficacia indica la produttività degli effetti giuridici. Il contratto è efficace quando produce effetti giuridici. L’effetto
giuridico è una vicenda giuridica, il mutamento di una situazione di diritto.
Il contratto è diretto a produrre effetti giuridici: è l’accordo volto a costituire, modificare o estinguere rapporti
giuridici. L’efficacia rappresenta l’attuazione di ciò che le parti hanno voluto, che hanno disposto mediante l’atto di
autonomia negoziale.
Gli effetti poissono divergere dal contenuto del contratto. Agli effetti previsti dalle parti si aggiungono gli effetti
integrativi, i quali possono colmare lacune del contratto o modificarne il contenuto (integrazione suppletiva
e cogente). Possono esservi effetti giuridici non corrispondenti alle determinazioni convenzionali, pur se compatibili
con la causa del contratto. La divergenza tra contenuto ed effetti può rappresentare un inadempimento del contratto,
la mancata o difettosa attuazione dell’impegno in ordine al risultato programmato. Il contratto è efficace perché
obbliga la parte a realizzare quel risultato, ma produce un effetto obbligatorio in luogo del previsto effetto reale.
All’efficacia si contrappone l’inefficacia. L’inefficacia può indicare l’improduttività di effetti del contratto ma è
usualmente intesa nella nozione di inefficacia provvisoria.
L’inefficacia provvisoria indica la temporanea improduttività giuridica dipendente da una condizione volontaria o
legale. Il contratto è
provvisoriamente inefficace quando 1) le parti non hanno subordinato l’efficacia ad un evento futuro ed incerto
(condizione volontaria) o 2) quando manca un requisito legale esterno al contratto, non facente parte dei sui elementi
costitutivi, al quale la legge subordina l’efficacia del contratto (condizione legale). Si parla di inefficacia provvisoria in
quanto è destinata a venire meno col subentrare del requisito di efficacia o a divenire definitiva quando è certo che
tale requisito non potrà subentrare.
L’inefficacia provvisoria sospende gli effetti del contratto ma non esclude la vincolatività, l’irrevocabile soggezione
delle parti al rapporto contrattuale. In attesa che diventi efficace le parti al sono vincolate dall’accordo e possono
svincolarsi nei modi di scioglimento del contratto.
La vincolatività non implica la impegnatività del contratto, ossia l’obbligo delle parti di realizzare il programma
contrattuale. Se il contratto è inefficace la parte deve conservare integre le ragioni dell’altra ma non è tenuta ad
eseguire il contratto.
Le parti non devono impedire l’efficacia del contratto anzi secondo buona fede devono attivarsi affinchè il contratto
acquisti efficacia.
L’inefficacia definitiva non comporta vincolatività ne obbligo di conservazione secondo buona fede.
Efficacia e validità
L’efficacia è una nozione distinta rispetto a quella di validità. La validità indica la regolarità del contratto. Il contratto
valido risponde alle prescrizioni legali. L’efficacia attiene invece alla produzione dei suoi effetti.
Da questa diversità consegue che l’invalidità non comporta sempre inefficacia del contratto. Occorre distinguere tra
nullità ed annullabilità. Il contratto nullo è definitivamente inefficace. Il contratto annullabile è efficace fino a
quando non intervenga un’eventuale sentenza di annullamento. La validità non comporta necessariamente
l’efficacia del contratto.
Il contratto valido è efficace: è normale che il contratto legalmente regolare sia idoneo a produrre effetti. Pur essendo
valido il contratto può essere provvisoriamente inefficace quando è sottoposto ad esempio ad una condizione
volontaria sospensiva.
Contratti obbligatori, contratti ad effetti reali, contratti d’accertamento Gli effetti contrattuali possono
distinguersi in costitutivi, estintivi e accertativi.
Nell’ambito degli effetti costitutivi possiamo distinguere effetti obbligatori, reali ed autorizzativi.
L’effetto obbligatorio consiste nella costituzione, alienazione o modificazione di un diritto di credito. L’effetto reale
consiste nella costituzione, alienazione o modificazione di un diritto reale. L’effetto autorizzativo consiste
nell’attribuzione di un potere o rimozione di un limite all’esercizio di un diritto.
Il contratto può qualificarsi in relazione agli effetti che produce e si presta a qualificazioni diverse in relazione ai diversi
effetti prodotti.
Il contratto si dice obbligatorio in quanto produttivo di effetti obbligatori. Occorre notare che il rapporto obbligatorio è
un momento strumentale necessario di larga parte dei contratti in quanto la realizzazione dei risultati programmati
richiede un’attività materiale o giuridica. L’impegno della parte in ordine al raggiungimento di tali risultati si traduce in
un’obbligazione. Si dice ad effetti reali il contratto che produce un effetto reale immediato. L’immediatezza è
espressione del principio consensualistico, che trova applicazione nell’ambito dei contratti di alienazione, sia che
abbiano ad oggetto diritti reali sia altri diritti. Non sempre i contratti di alienazione producono l’immediato acquisto
del diritto in capo all’alienatario.
Altro significato assume l’espressione contratti reali, con la quale si sono designati taluni contratti che si perfezionano
con la consegna del bene (mutuo, pegno, …).
Il contratto può avere effetto accertativo. L’accertamento identifica la funzione pratica del contratto e lo caratterizza
quale autonoma figura tipica. Tale figura non è prevista dalla legge ma è riconosciuta dalla dottrina e dalla
giurisprudenza.
Il contratto di accertamento può essere definito come il contratto mediante il quale le parti riconoscono l’esistenza o il
contenuto di un loro rapporto giuridico.
L’accertamento non ha efficacia costitutiva. È diretto alla verifica di un rapporto preesistente ed è inidoneo a creare un
titolo. Le parti possono provare che il loro rapporto è diverso rispetto a quello accertato.
Funzione propria dell’accertamento è quella del riconoscimento. Mediante l’accertamento le parti riconoscono
obblighi e diritti inerenti al rapporto e danno luogo alla presunzione di esistenza del rapporto come accertato.
L’effetto accertativo rileva sul piano probatorio, in quanto il negozio dispensa ciascuna parte dall’onere di provare il
rapporto mentre pone a suo carico l’onere della prova contraria.
Il principio consensualistico
I contratti di alienazione possono essere traslativi o obbligatori, cioè immediatamente produttivi dell’effetto
dell’acquisto del diritto o possono obbligare l’alienante a tale risultato.
Di regola è traslativo quando ha per oggetto 1) il trasferimento della proprietà di un bene determinato, 2) il
trasferimento o la costituzione di un diritto reale, 3) il trasferimento o la costituzione derivativa di altri diritti. In tali
casi l’acquisto del diritto si determina per effetto del consenso delle parti manifestato.
Il principio consensualistico o del consenso traslativo risale alla regola del codice napoleonico.
Rispetto all’alienazione di cose generiche deve tenersi distinta l’alienazione di massa, di un gruppo identificato di cose
mobili. Nell’alienazione di massa il diritto si trasferisce immediatamente per consenso, anche se per determinati effetti
le cose debbano essere numerate, pesate o misurate.
L’alienazione di massa non si caratterizza per una particolare natura delle cose e può ricomprendere beni fungibili e
beni infungibili. Se il gruppo dei beni svolge una funzione unitaria esso costituisce una universalità.
La individuazione
Nell’alienazione di cose generiche il diritto si trasmette a seguito della individuazione.
L’individuazione è l’atto di assegnazione di cose concrete in esecuzione di un’obbligazione traslativa generica.
L’individuazione costituisce un atto giuridico. Questa qualificazione non è pacifica in dottrina, la quale definisce
l’individuazione ora come fatto ora come atto materiale ora come negozio giuridico.
La individuazione come atto materiale sembra trarre argomento dal rilievo che l’assegnazione importa una
separazione dei beni individuati. L’individuazione non consiste nella separazione materiale dei beni ne la separazione
è necessaria ai fini dell’individuazione. Ciò che importa è che l’individuazione valga ad identificare i beni che
costituiscono oggetto del trasferimento.
L’individuazione è fatta d’accordo tra le parti o nei modi da esse stabiliti.
Questa indicazione ravvisa nella individuazione un negozio bilaterale. L’alienazione di cose generiche si realizzerebbe
attraverso un duplice contratto, quello obbligatorio e quello traslativo.
Anche se l’individuazione può strutturarsi come un accordo non rappresenta un nuovo contratto di alienazione in
quanto l’effetto traslativo è prodotto dal precedente contratto obbligatorio. Rientriamo nell’ambito degli accordi
esecutivi, la cui disciplina è l’adempimento dell’obbligazione.
L’individuazione è un atto dovuto dell’alienante, che richiede l’accettazione dell’altra parte.
Ne consegue che l’accettazione può essere espressa da chiunque sia legittimato a ricevere la prestazione. Ne consegue
che non rilevano le regole di capacità del contratto ma quelle valevoli per l’adempimento dell’obbligazione.
L’inquadramento nel tema dell’adempimento dell’obbligazione risolve il problema del rifiuto ingiustificato
dell’alienatario di accettare l’individuazione fatta dall’alienante. Trova applicazione la disciplina della mora del
creditore. Il rifiuti illegittimo dell’offerta solenne fatta dall’alienante addossa all’alienatario il rischio del perimento dei
beni. Con la convalida giudiziale dell’offerta l’alienante è liberato dalla sua obbligazione.
L’individuazione può non richiedere l’accettazione dell’alienatario. Quando si tratta di cose che devono essere
trasportate da un luogo ad un altro, l’individuazione si perfeziona mediante la consegna al vettore o allo spedizioniere.
Requisiti dell’individuazione
L’individuazione si perfeziona con la destinazione di beni a favore dell’alienatario a soddisfacimento della sua pretesa
traslativa generica. Secondo dottrina requisiti dell’individuazione sarebbero la certezza e la definitività.
L’individuazione dovrebbe essere eseguita in maniera tale da rendere impossibile la sostituzione del bene e la sua
confusione con altri del medesimo genere.
La legge non esige tali requisiti, i quali non trovano giustificazione nei principi generali, essendo estranea al sistema
l’idea secondo la quale la possibilità della violazione del diritto ne impedirebbe l’acquisto. Basti pensare che
nell’alienazione di cose specifiche il diritto si trasferisce immediatamente all’alienatario anche se l’alienante rimanga
nella possibilità di manomettere i beni alienati.
In luogo della impossibilità della sottrazione del bene si è creduto di dover richiedere che la individuazione sia eseguita
in maniera tale che l’alienante non possa sostituire il bene senza compiere illecito. Deve osservarsi che la illiceità
dipende da ciò, che i beni sono usciti dalla sua sfera patrimoniale a seguito dell’individuazione. La illiceità della
sottrazione non vale a condizionare i requisiti dell’individuazione ma è una valutazione del comportamento
dell’alienante che non ha come presupposto l’avvenuta individuazione dei beni.
L’unico requisito della individuazione è quello richiesto dalla sua funzione, cioè che il bene individuato sia
identificabile. Compita ed accettata l’individuazione il diritto si trasferisce indipendentemente dal fatto che i beni siano
ritirati dall’acquirente o custoditi.
Se l’individuazione si è perfezionata con l’accettazione l’alienante non può disporre dei beni perché questi sono
definitivamente usciti dalla sua sfera giuridica patrimoniale. Al problema se l’alienante possa revocare l’individuazione
accettate deve darsi risposta negativa. Può ammettersi la liceità di un atto di sostituzione dei beni individuati e
trasferiti se non arrechi pregiudizio all’altra parte o sia compiuto in vista del suo interesse. Si pensi ad esempio
all’alienante che sostituisce i beni individuati perché si accorge che si tratta di merce viziata.
LA CONDIZIONE
Nozione
La condizione una disposizione che fa dipendere l’efficacia o la risoluzione del contratto dal verificarsi di un evento
futuro ed incerto. La condizione che sospende è detta sospensiva. La condizione che prevede l’eventuale risoluzione è
detta risolutiva.
La condizione si distingue in volontaria o legale secondo che sia posta dalle parti o dalla legge.
La condizione volontaria è una clausola che fa parte del contenuto dell’accordo. È indicata come elemento accidentale
in quanto non rientra fra gli elementi costitutivi del contratto. Il contratto sottoposto a condizione è perfetto,
completo nei suoi elementi costitutivi, mentre la condizione incide sulla sua efficacia. Dall’avverarsi o no della
condizione può conseguire l’inefficacia definitiva del contratto, ma questa vicenda estingue un rapporto contrattuale
validamente costituito.
La condizione volontaria assolve la funzione di dare rilevanza ad un motivo della parte o delle parti senza inserirlo nel
contenuto dell’impegno contrattuale. La condizione è una riserva che consente alla parte di stipulare il contratto ma di
sottrarsi ai suoi effetti se non si realizzano o vengono meno i presupposti che giustificano il compimento dell’affare.
Le parti sono libere di sottoporre il contratto a condizione, sia ad effetti obbligatori che reali. Anche gli atti negoziali
non contrattuali possono essere condizionati, salvo che l’apponibilità di condizioni sia esclusa dalla legge (girata,
accettazione di eredità) o sia incompatibile con la natura del rapporto. Non tollerano le condizioni ad esempio i negozi
familiari.
La condizione è identificata con l’evento futuro e incerto dal quale dipende l’efficacia o la risoluzione del contratto.
Occorre distinguere tra l’accadimento esterno che viene dedotto in condizione e la condizione quale disposizione delle
parti o della legge che attribuisce all’evento l’efficacia sospensiva o risolutiva.
La condizione si distingue rispetto al modo, quale clausola dei negozi a titolo gratuito che obbliga il beneficiario
dell’attribuzione a devolverla per una data finalità. L’accostamento della condizione al modo si giustifica in quanto la
disposizione modale può portare alla risoluzione del contratto. Nel modo la risoluzione è una conseguenza che deve
essere prevista o desunta dal titolo e che rientra nel rimedio della risoluzione per inadempimento. Nella condizione
l’effetto risolutivo consegue all’obiettivo verificarsi dell’evento.
La condizione potestativa
La condizione si dice potestativa quando l’evento è il fatto volontario di una delle parti.
La previsione del fatto volontario significa che la parte è libera di compierlo o no. La condizione potestativa viene a
tutelare l’interesse di una parte a decidere una azione e subordinare a tale scelta la sorte del contratto. La condizione
potestativa non contrasta con l’obbligo di non impedire il suo avverarsi poichè secondo la previsione del contratto la
libertà di scelta esprime un interesse preminente rispetto all’interesse della controparte. Occorre rilevare che la
condizione potestativa tutela l’interesse della parte a decidere una propria azione e non l’interesse a decidere in
ordine al contratto. Se la parte può decidere in ordine al contratto deve parlarsi di condizione meramente potestativa.
La distinzione tra condizione potestativa e meramente potestativa viene incentrata sulla indifferenza per il soggetto
tra compiere o
omettere l’atto o sulla serietà dei motivi che possono giustificare la scelta della parte. Si tratta di criteri che non
spiegano il perché della distinzione onde credito ottiene l’idea secondo la quale dovrebbe aversi riguardo alla presenza
di un interesse meritevole di tutela giuridica alla parte da cui dipende l’avveramento della condizione.
La necessità di tale elemento importa un controllo sulle ragioni della condizione che appare riduttivo della sfera di
autonomia del soggetto ed estraneo alla previsione legislativa la quale indica che la nozione di condizione meramente
potestativa è quella il cui avverarsi dipende dalla semplice volontà della parte. Se tale avveramento dipende da
un’azione siamo al di fuori dell’ipotesi normativa e la giustificazione della distinzione è data da ciò, che la parte si
riserva una libertà di scelta in ordine alla sua azione che è preminente rispetto all’interesse della controparte.
Condizione meramente potestativa è dunque quella che fa dipendere l’efficacia o la risoluzione del contratto dalla
semplice manifestazione di volontà della parte. Ciò che caratterizza la condizione meramente potestativa è che
attribuisce alla parte un potere decisionale sulla efficacia o sulla inefficacia del contratto.
L’esercizio di questo potere può essere previsto in forma di dichiarazione di volontà. Detta condizione si riscontra
quando la decisione debba esprimersi attraverso il compimento di un atto esecutivo del contratto o conseguente alla
sua risoluzione (restituzione del bene che è oggetto del contratto, …). La parte non si riserva la decisione in ordine ad
un’azione ma il potere sulla sorte del contratto manifestato attraverso un comportamento concludente.
La condizione risolutiva meramente potestativa non è una condizione ma un potere di revoca o recesso e deve
ritenersi apposta nei limiti in cui è possibile accordare ad una parte tale potere.
Il problema della validità della condizione si pone con riguardo alla condizione sospensiva meramente potestativa, in
quanto la legge sancisce la nullità dell’alienazione di un diritto o dell’assunzione di un obbligo sospensivamente
condizionate alla mera volontà dell’alienante o del debitore. La ragione è ravvisata nella incompatibilità tra condizione
e volontà di alienare o di assumere l’obbligazione. Appare ammissibile che l’alienante a titolo oneroso si riservi il
diritto di accettare il contratto, essendo l’alienatario vincolato dalla sua dichiarazione, che cioè si riservi un diritto di
opzione. Ciò che la norma sanziona è l’assunzione non seria dell’impegno.
In base all’interpretazione del contratto occorre accertare se è stato concluso e se la parte si è riservata un diritto di
opzione o se la condizione attesta semplicemente che la parte non è intenzionata ad assumere un serio impegno.
Questa seconda alternativa si impone nei contratti a titolo gratuito.
Comportamento delle parti in pendenza della condizione. L’obbligo della buona fede
In pendenza della condizione l’obbligato e l’alienante sotto condizione sospensiva e l’acquirente sotto condizione
risolutiva devono comportarsi secondo buona fede per conservare le ragioni dell’altra parte.
L’obbligo grava sulle parti del contratto. Il richiamo ribadisce al tempo stesso la delimitazione dell’impegno della parte.
Si puntualizza che la parte non è obbligata ad adoperarsi con la normale diligenza per favorire l’avverarsi di una
condizione disposta anche o esclusivamente a favore dell’altra parte. Ciò si giustifica in base al rilievo che ciascuna
parte assume il rischio in ordine al realizzarsi o meno dell’evento.
La parte che ha disponibilità del bene deve attivarsi al fine di preservare il bene in vista dell’aspettativa dell’altra parte.
Tale obbligo deve intendersi operante entro i limiti di un apprezzabile sacrificio, e non impone la diligenza dovuta dal
debitore. Non può esigersi l’adozione di cautele particolari oltre quelle minime adottate dai proprietari ne ad esempio
l’esercizio di azioni giudiziarie verso terzi (si pensi alla denuncia di nuova opera).
Occorre considerare che l’avverarsi della condizione sospensiva può rendere efficace l’impegno traslativo
dell’alienante e che il perimento o deterioramento del bene si traduce in violazione di tale impegno.
Nessuna pretesa risarcitoria può essere fatta valere se il bene non sia definitivamente acquisito dalla parte lesa.
Per quanto riguarda la possibilità di ottenere la risoluzione del contratto è ammessa in giurisprudenza e spiegata con
riferimento alle ipotesi in cui la violazione dell’obbligo giustifica l’interesse dell’altra parte a non essere vincolata al
contratto. In pendenza della condizione questo rimedio non legittima la pretesa al risarcimento del danno positivo
(rapportato cioè all’interesse all’esecuzione del contratto).
Tra i rimedi contro le violazioni dell’obbligo di buona fede si prospettano anche le misure cautelari.
L’onere della prova dell’avveramento o del non avveramento della condizione è a carico della parte che assume
l’avveramento o il non avveramento a presupposto della sua pretesa.
La condizione legale
La condizione legale o condicio iuris è una risoluzione posta dalle legge. Può essere sospensiva o risolutiva.
La condizione legale sospensiva rientra nella categoria dei requisiti legali di efficacia del contratto che possono essere
futuri (condizioni) o presenti (presupposti). Anche i presupposti possono subentrare in un momento successivo al
perfezionamento del contratto.
Condizioni legali sono ad esempio l’approvazione dei contratti degli enti pubblici e la licenza di importazione ed
esportazione.
Si differenzia da quella volontaria in quanto dipende dalla legge. La condizione legale è un requisito necessario di
efficacia mentre la condizione volontaria ha il carattere dell’accidentalità. Ciò non giustifica la tesi secondo la quale la
condizione legale sarebbe estranea alla nozione di condizione. In realtà sia la condizione volontaria che quella legale
rispondono ad un’idea di una disposizione che subordina l’efficacia o la risoluzione del contratto ad una circostanza
che non attiene al contenuto dell’impegno contrattuale o agli elementi costitutivi dell’atto.
Il contratto è perfezionato mentre la condizione legale attiene ad un elemento esterno al quale è subordinata
l’efficacia ma non la vincolatività del contratto. Si tratta di un elemento legalmente necessario e la sua mancanza
comporta la risoluzione del contratto.
La disciplina dettata per la condizione volontaria risulta applicabile alla condizione legale salve le deroghe appropriate
alla funzione dei requisiti normativi di efficacia. In pendenza della condizione legale la parte è vincolata al contratto e
deve comportarsi secondo buona fede. Deve ritenersi che il contratto possa essere reso opponibile ai terzi aventi
causa ed ai creditori e che dia luogo ad aspettative giuridicamente tutelate.
Per quanto attiene alla retroattività può considerarsi superata l’opinione secondo la quale la condizione legale
dovrebbe avere efficacia non retroattiva. Tale opinione non appare giustificata, dovendosi accertare se la funzione
della condizione legale sia incompatibile con l’effetto retroattivo. In mancanza deve applicarsi la regola che connette la
decorrenza dell’efficacia alla perfezione del contratto.
Se la parte controinteressata impedisce l’avverarsi della condizione, il contratti diviene efficace e la mancanza del
requisito legale si converte in impossibilità dell’adempimento imputabile alla parte con applicabilità del rimedio della
risoluzione giudiziale e del risarcimento del danno.
I TERZI
EFFICACIA DIRETTA VERSO I TERZI
Il principio della relatività del contratto
Il contratto ha forza di legge tra le parti. Non produce effetto rispetto ai terzi che nei casi previsti dalla legge. Questa
regola esprime il principio della relatività del contratto. La regola costituisce l’assunto della intangibilità della sfera
giuridica individuale, che non può essere modificata da atti negoziali altrui, siano vantaggiosi o svantaggiosi.
Nell’ordinamento il fondamento di tale regole deve essere ricercato nella funzione dell’autonomia contrattuale.
Occorre osservare che il contratto è autoregolamento di privati interessi attraverso il quale i soggetti dispongono della
propria sfera personale e patrimoniale. Si intende come debba esplicare la sua efficacia rispetto alle parti e non ai
terzi. Il principio secondo il quale il contratto non produce effetto rispetto ai terzi, salvi i casi previsti dalla legge,
risponde all’idea del contratto come espressione di autonomia privata e di libertà in contrapposizione all’idea di
autorità.
La regola della relatività è posta a tutela della sfera di libertà dei soggetti. Se il contratto è volto a realizzare un effetto
favorevole al terzo appare eccessivo precludere tale effetto in ragione della libertà del soggetto con il risultato di
pregiudicare la posizione del beneficiario. Riportata sul piano degli interessi, la questione ha soluzione che
contempera insieme l’interesse all’acquisizione degli effetti favorevoli dell’atto altrui e l’esigenza della libertà del
soggetto: si riconosce l’efficacia del contratto anche rispetto ai terzi ma con riguardo agli effetti favorevoli e salva la
facoltà di rifiuto del destinatario.
Questa soluzione si riscontra nell’istituto del contratto a favore di terzi e nel riconoscimento di operatività della
promessa gratuita. Appare giustificato desumere che la regola della relatività si integra nel principio secondo il quale i
terzi possono essere destinatari degli effetti favorevoli dell’altrui atto negoziale salva facoltà di rifiuto.
EFFICACIA RIFLESSA
Rilevanza esterna ed opponibilità del contratto
La regola della relatività del contratto riguarda l’efficacia diretta del contratto: essa è intesa a stabilire chi sono i
destinatari degli effetti prodotti dal contratto e tali sono le parti e possono essere i terzi quando si tratta di effetti
favorevoli e salva la facoltà di rifiuto. Tale regola non riguarda l’efficacia riflessa del contratto.
Il significato dell’efficacia riflessa si specifica nella rilevanza esterna del contratto quale presupposto di posizioni
giuridiche riguardante i terzi e nella opponibilità del contratto in conflitto con i terzi.
La rilevanza esterna
La rilevanza esterna del contratto si manifesta nella tutela dei diritti contrattuali nei confronti della generalità di
consociati (erga omnes). Occorre considerare che il contratto tende a creare, modificare o estinguere posizioni
giuridiche che devono essere rispettate dalla generalità dei consociati secondo il principio del rispetto del diritto
altrui.
Questa efficacia è stata ravvisata nei contratti di alienazione della proprietà de di altri diritti reali quali che
trasferiscono diritti assoluti esperibili verso tutti e oggetto di rispetto da parte della comunità. In questi contratti la
tutela dell’acquirente nei confronti dei terzi assume una importanza primaria. Chi acquista la proprietà di un bene
vuole conseguire una posizione giuridica valevole verso la generalità dei consociati (al di la dello stretto rapporto con
l’alienante). L’acquirente farà valere il suo diritto di proprietà e ad esempio pretenderà il risarcimento del danno da
parte del terzo danneggiante.
Anche i diritti relativi sono suscettibili di tutela nei confronti dei terzi ed il loro acquisto può essere rilevante sotto
questo aspetto.
La rilevanza esterna del contratto si manifesta nel senso che le posizioni giuridiche contrattuali possono essere assunte
a presupposto di pretese ed obblighi, poteri e soggezioni all’infuori del rapporto contrattuale. Ad esempio nell’ipotesi
di vendita di un fondo agricolo, il vicino titolare di un diritto di prelazione può esercitare il suo diritto di riscatto sul
presupposto di un contratto al quale è rimasto estraneo.
Tra le posizioni di soggezione nei confronti dei terzi è importante la responsabilità patrimoniale relativamente al bene
entrato nel patrimonio dell’acquirente.
Il problema della opponibilità del contratto. L’esigenza di sicurezza della circolazione giuridica
L’opponibilità del contratto esprime la tutela dell’acquirente e risponde all’esigenza di sicurezza della circolazione
giuridica. Chi acquista un bene senza frode deve contare su ciò, che altri non abbia sul bene un diritto di fronte al
quale il suo acquisto debba cedere.
L’incertezza sull’opponibilità dell’acquisto si traduce in incertezza sull’acquisto stesso, e ciò rende difficoltosa
l’alienazione. Tanto maggiore è il rischio che il bene possa essere rivendicato da terzi o sottoposto a procedure
esecutive per debiti dell’alienate, tanto maggiore è la garanzia che l’alienante deve offrire se vuole vendere il bene.
Altrimenti l’alternativa è il deprezzamento.
All’esigenza di certezza della circolazione giuridica fanno riscontro altre esigenze. Anzitutto l’esigenza di tutela del
titolare, che il titolare possa conservare il suo diritto senza essere espropriato da un abusivo atto di disposizione
compiuto da un soggetto privo di legittimazione.
Nel conflitto con i terzi aventi causa l’esigenza di tutela dell’acquisto si scontra con l’eguale esigenza di cui sono
portatori gli altri acquirenti.
Nel conflitto con i creditori dell’alienante, l’esigenza di tutela dell’acquirente si contrappone ad altra esigenza, che la
garanzia patrimoniale del debitore non risulti svuotata dagli atti di alienazione.
Una forma di trascrizione accessoria è costituita dall’annotazione dell’atto, registrazione eseguita a margine di altra
trascrizione. La legge prevede l’annotazione delle sentenze di nullità, annullamento, risoluzione, rescissione e
revocazione del contratto nonché l’annotazione dell’avveramento della condizione risolutiva.
La mancata annotazione non consente le trascrizioni a carico di chi ha ottenuto la sentenza o beneficia della
condizione risolutiva.
Oltre ai contratti la legge menziona gli atti divisionali, l’accettazione di eredità e gli acquisti di legati.
Sono soggette a trascrizione se hanno per oggetto beni immobili le convenzioni matrimoniali che contengono la
costituzione del fondo patrimoniale o l’esclusione di beni dalla comunione nonché gli atti ed i provvedimenti di
scioglimento della comunione. Per le convenzioni matrimoniali è prevista l’annotazione a margine.
La trascrizione è prevista per gli atti di acquisto esclusivo da parte di uno dei coniugi in regime di comunione legale
(eccettuati gli acquisti per donazione e successione). Tale onere si spiega in relazione alla regola dell’automatico e
opponibile acquisto in comunione quando l’acquisto risulti intestato ad uno solo dei coniugi.
Sono soggetti a trascrizione il pignoramento immobiliare ed il sequestro conservativo immobiliare nonché la cessione
dei beni ai creditori.
I diritti di ipoteca si costituiscono attraverso la formalità dell’iscrizione.
Il conflitto tra iscrizione e trascrizione si risolve con la prevalenza dell’atto anteriormente iscritto o trascritto.
Son soggette a trascrizione le domande giudiziali ed arbitrali che si riferiscono ai diritti derivanti da atti soggetti a
trascrizione. Qui ha la funzione di assicurare all’attore gli effetti favorevoli della sentenza. La sentenza è soggetta a
trascrizione ma gli effetti decorrono dalla trascrizione della domanda (effetto conservativo o prenotativo).
Un primo gruppo comprende le domande di risoluzione e rescissione dei contratti,
di risoluzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni per inadempimento del modo, di revocazione delle
donazioni, di impugnazione della rinuncia all’eredità proposta dai creditori del rinunciante; le domande dirette alla
dichiarazione di nullità, all’annullamento, all’accertamento della simulazione, alla revoca dei contratti nonché le
domande di revocazione delle sentenze e di opposizione al terzo e quelle dirette all’esecuzione in forma specifica dei
contratti preliminari e all’accertamento di sottoscrizioni di scritture private.
L’acquirente che trascrive il titolo di acquisto dopo la trascrizione della domanda giudiziale del terzo che agisce contro
l’alienante non può opporre l’acquisto nel caso in cui sia risolto o annullato il titolo di acquisto del suo dante causa.
Questo effetto si accompagna all’effetto processuale dell’assoggettamento dell’acquirente alla sentenza pronunziata
fra l’alienante ed il terzo.
Un secondo gruppo comprende le domande di rivendicazione e di accertamento della proprietà ed altri diritti reali, di
devoluzione del fondo enfiteutico, di riscatto nella vendita immobiliare, di interruzione dell’usucapione di beni
immobili, di scioglimento della comunione legale.
La trascrizione delle domande di rivendicazione, di accertamento e di devoluzione non risolve un problema di
conflitto con i terzi in quanto il titolare prevale su coloro che abbiano acquistato diritti dal convenuto pur se
l’acquisto sia stato anteriormente trascritto. Si tratta di acquisti che hanno titolo in atti dispositivi del non
legittimato. La trascrizione ha funzione di pubblicitànotizia.
Analogamente dicasi per la domanda di riscatto, salvo che la trascrizione abbia luogo dopo 60 giorni dalla scadenza del
termine di riscatto.
Le sentenze che accertano l’acquisto o l’estinzione di un diritto reale immobiliare per usucapione o prescrizione
estintiva devono essere trascritte. La trascrizione ha funzione di pubblicitànotizia e da essa prescinde l’opponibilità dei
titoli originari di acquisto. È necessaria per assicurare la continuità delle successive trascrizioni.
Deve escludersi che la trascrizione abbia effetto sanante quando concorre assieme al decorso del tempo a
salvaguardare l’acquirente di buona fede contro azioni di nullità o annullamento del titolo dell’alienante o dei suoi
danti causa. Le sentenze di nullità o di annullamento per causa diversa dall’incapacità legale non sono opponibili al
terzo acquirente di buona fede (che abbia trascritto il suo titolo) se le domande giudiziali sono trascritte dopo 5 anni
dalla trascrizione dell’atto impugnato.
La trascrizione non sana l’atto impugnato ma concorre a creare un titolo di acquisto in quanto si accompagna alla
buona fede dell’acquirente. La tutela dell’acquirente trova fondamento nella sua buona fede e nell’affidamento creato
dall’assenza, per oltre 5 anni dalla trascrizione, di domande di invalidità contro l’alienante ed i suoi danti causa.
La responsabilità del trascrivente e di coloro che sono tenuti a chiedere o ad eseguire tale formalità
Gli effetti della trascrizione non dipendono dalla buona o mala fede del trascrivente: chi trascrive per primo rende
prevalente il suo atto.
La trascrizione non è fonte di responsabilità per il pregiudizio sofferto dai terzi che non hanno tempestivamente
trascritto il loro titolo. La prevalenza rispetto agli atti trascritti è l’effetto dell’istituto della trascrizione e non può
parlarsi di danno ingiusto. La responsabilità aquiliana si profila in relazione alla trascrizione di atti nulli o non compresi
tra quelli trascrivibili (nel qual caso concorre la responsabilità del conservatore). Tenendo ferma la prevalente dell’atto
anteriormente trascritto la giurisprudenza è giunta ad ammettere una responsabilità extracontrattuale a carico del
secondo acquirente il quale stipula il contratto sapendo che il bene è già stato alienato.
L’illecito del trascrivente si ravvisa nella cooperazione all’inadempimento dell’alienante, il quale rialiena il bene. Il
secondo acquirente è responsabile in quanto rende possibile tale inadempimento agendo dolosamente a danno del
primo.
La responsabilità del secondo acquirente sembrerebbe trovare fondamento estraneo alla regola della responsabilità
aquiliana. In realtà quella del secondo acquirente è la comune responsabilità extracontrattuale, che si restringe al
dolo in quanto non appare ipotizzabile una colpa non essendo ipotizzabile a carico di chi acquista l’obbligo di indagare
diligentemente sull’esistenza di precedenti acquisti non trascritti.
Ne la responsabilità dell’alienante ne del secondo acquirente possono essere diminuite assumendo un concorso di
colpa del primo acquirente per non aver proceduto tempestivamente alla trascrizione. Non sussistendo l’obbligo di
trascrivere non è configurabile una colpa preesistente di tale soggetto. Il principio del dovere del danneggiato di
evitare il danno esige un intervento diretto a diminuire il danno sofferto. Tale principio non impone al soggetto di
attivarsi in vista di un illecito contrattuale.
Può notarsi che anche rispetto ai creditori dell’alienante la prevalenza del contratto dipende dalla priorità della
trascrizione. La mala fede del
trascrivente può concorrere ad integrare la fattispecie dell’azione revocatoria. Se si tratta di contratto a titolo oneroso
rileva la consapevolezza dell’acquirente che l’atto pregiudica le ragioni dei creditori.
Oltre alla responsabilità del secondo acquirente si prospetta quella del notaio o di altro pubblico ufficiale che abbia
rogato o autenticato l’atto. A carico di tali soggetti la legge pone l’obbligo di curare che la trascrizione venga eseguita
nel breve tempo dovendo rispondere altrimenti del danno subito dall’interessato a causa della ritardata trascrizione,
salve le sanzioni pecuniarie di natura fiscale.
L’illegittimo rifiuto del conservatore di ricevere la richiesta di trascrizione trova rimedio in un ordine giudiziale di
trascrizione dell’atto rifiutato. Il richiedente può avvalersi del procedimento stabilito che prevede il ricorso al
presidente del tribunale il quale, sentito il conservatore provvede con decreto non imputabile dalle parti. Altro
procedimento è previsto per le ipotesi in cui il conservatore, sussistendo dubbi sulla trascrivibilità dell’atto, provvede a
trascriverlo con riserva.
Il sistema tavolare
Nel FriuliVenezia Giulia e TrentinoAlto Adige è conservato il sistema di pubblicità tavolare vigente nell’ordinamento
austriaco. Questo sistema si distingue rispetto a quello della trascrizione in quanto è a base reale, ha per oggetto il
diritto ed ha efficacia costitutiva.
Il sistema tavolare è a base reale in quanto la pubblicità è attuata su libri fondiari ordinati con riferimento alle unità
immobiliari. A differenza del sistema della trascrizione consente di accertare la situazione giuridica relativa ad ogni
singolo bene immobile.
L’iscrizione nei libri fondiari ha per oggetto il diritto immobiliare dell’iscrivente. La posizione giuridica acquisita
dall’iscrivente in relazione al bene viene intavolata nei libri fondiari.
L’iscrizione nei libri fondiari ha efficacia costitutiva nel senso che l’iscrivente consegue la titolarità del diritto reale a
seguito della intavolazione di esso. Questo principio deroga non solo al sistema della pubblicità dichiarativa della
trascrizione ma anche al principio consensualistico. Il contratto che ha per oggetto beni immobili sottoposti a regime
tavolare ha efficacia obbligatoria in quanto obbliga l’alienante a far conseguire il diritto alienato, ma non produce
l’immediato effetto traslativo.
Il conseguimento di tale effetto dipende dalla formalità dell’iscrizione. Il sistema tavolare vale a conferire maggiore
certezza a chi acquista da chi risulta titolare in base ad un titolo scritto, in quanto l’invalidità del titolo non preclude
l’effetto reale risultante dalla intavolazione.
Può dedursi che l’effetto traslativo ha la fattispecie costitutiva nel contratto, quale risulta dalla certificazione pubblica
e dalla formalità della intavolazione. Anteriormente al compimento di questa formalità il contratto ha effetto
meramente obbligatorio ma è titolo per l’intavolazione e sostanziale dell’acquisto. Nullità o annullamento del
contratto legittimano la cancellazione dell’iscrizione e determinano il venir meno dell’effetto reale.
La trascrizione mobiliare
Per i contratti relativi a talune categorie di beni mobili la legge prevede un regime di trascrizione. Si tratta dei beni
mobili registrati, delle navi e galleggianti, aeromobili ed autoveicoli iscritti negli appositi registri. I registri dei beni
mobili registrati sono a base reale, sono ordinati con riferimento ai beni iscritti.
Il sistema di modella su quello della trascrizione immobiliare sia per gli atti soggetti alla pubblicità sia per gli effetti,
fermo restando il principio del consenso traslativo.
Rileva l’obbligo dell’alienante di concorrere a formare i documenti necessari per rendere l’acquisto opponibile a terzi
mediante la trascrizione.
L’alienazione di azienda
L’azienda può costituire oggetto di un unico contratto di alienazione.
L’unitarietà del contratto non importa l’applicazione di un’unica disciplina di alienazione. Trovano applicazione le
diverse discipline di alienazione secondo il bene che ne è oggetto. Ciò deve dirsi per quanto riguarda l’opponibilità del
contratto. In particolare, relativamente all’acquisto dei diritti immobiliari che compongono il complesso aziendale
deve procedersi alla trascrizione. Ciò deve dirsi anche per quanto attiene ai beni mobili registrati.
Relativamente alle cose mobili riconducibili alla nozione di universalità non è possibile giovarsi della regola possesso
vale titolo. L’acquisto non è opponibile a chi risulti avere un titolo di data anteriore.
Per quanto attiene ai crediti relativi all’azienda ceduta, la previsione della iscrizione del trasferimento dell’azienda nel
registro delle imprese si accompagna al riferimento alla notificazione del debitore o alla sua accettazione. Trova
giustificazione il regime di opponibilità della cessione in alternativa alla forma di pubblicità del registro delle imprese.
L’alienazione di eredità
L’eredità si presta a costituire oggetto di un unico contratto di alienazione. Questa possibilità trova riscontro nell’idea
dell’eredità quale universalità di diritto, complesso patrimoniale unificato in vista di una destinazione. La disciplina
unitaria dell’alienazione dell’eredità non comporta un unico regime di opponibilità del contratto, dovendosi
applicare i regimi valevoli in relazione ai diritti ereditari trasferiti.
Questa soluzione trova conferma nella norma che impone all’alienante di prestarsi a compiere gli atti necessari per
parte sua a rendere efficace rispetto ai terzi la trasmissione dei singoli diritti ereditari.
Questa funzione del documento è riconosciuta anche ai titoli impropri, la cui consegna sostituisce la notificazione e
l’accettazione del ceduto quali requisiti di opponibilità dell’acquisto. Ai titoli impropri possono ricondursi gli stabiliti e
gli altri documenti con clausole all’ordine o equivalenti che servono alla circolazione del rapporto contrattuale senza le
formalità della cessione.
L’INVALIDITA’
Nozione di invalidità
L’invalidità è la irregolarità giuridica del contratto che comporta la sanzione dell’inefficacia definitiva. Tale sanzione
può essere automatica o giudiziale. L’invalidità comprende la nullità, l’annullabilità e la rescindibilità del contratto.
In tutte le forme presenta un’irregolarità più o meno grave, una inosservanza di norme giuridiche che si sostanzia in
una qualifica negativa del contratto. L’invalidità deve essere distinta rispetto all’inefficacia. L’invalidità è una qualifica
di irregolarità mentre l’inefficacia riguarda il momento attuale, indicando la non produttiva degli effetti giuridici.
L’inefficacia si intende come provvisoria, designando una situazione di incertezza che può portare all’efficacia del
contratto. L’inefficacia definitiva indica una situazione definita nel senso dell’improduttività degli effetti. Questa non si
identifica con l’invalidità ma può essere la conseguenza di quest’ultima, può essere sanzione della irregolarità del
contratto.
Non tutti i contratti invalidi sono inefficaci. Mentre il contratto nullo è inefficace di diritto, il contratto annullabile e
rescindibile sono efficaci, salvo a perdere l’efficacia in seguito all’annullamento o rescissione. L’inefficacia definitiva
non è conseguenza esclusiva dell’invalidità. Può derivare oltre che da una irregolarità anche da altre cause, come il
mancamento di una condizione di efficacia volontaria o la revoca consensuale del contratto. Se è certo ad esempio che
la condizione sospensiva non potrà più verificarsi, il contratto diventa definitivamente inefficace ma siamo al di fuori
del tema dell’invalidità in quanto l’inefficacia non deriva da una irregolarità legale del contratto ma dalla volontà delle
parti.
Il giudizio di validità del contratto deve essere formulato in relazione alla situazione di fatto ed alle norme vigenti. Le
vicende successive non toccano tale giudizio.
Non può escludersi che il contratto inizialmente valido divenga successivamente invalido in quanto oggetto di una
valutazione di illiceità o per efficacia retroattiva della legge o perché l’attuazione del rapporto si pone in contrasto con
la nuova norma (si pensi alla legge sulle locazioni che aveva reso invalide le clausole di recesso arbitrario del locatore,
anche se stipulate anteriormente all’entrata in vigore della legge, …).
Occorre tenere presente che l’inefficacia derivante da invalidità successiva è una vicenda risolutiva, poiché trae titolo
da un fatto successivo al perfezionamento del contratto.
LA NULLITA’
Nozione di nullità
La nullità è la più grave forma di invalidità. Essa esprime una valutazione negativa del contratto 1) per la sua definitiva
deficienza strutturale, mancanza o impossibilità originaria di un elemento costitutivo o 2) per la sua dannosità sociale,
per la sua illiceità.
La nullità comporta la inidoneità dell’atto a produrre gli effetti propri. Il contratto nullo è inefficace o senza effetto
dall’origine. La nullità opera di
diritto e può essere accertata in ogni tempo. Il contratto nullo è insuscettibile di convalida ma è soggetto a conversione
in altro contratto valido, idoneo a realizzare uno scopo equivalente.
La nullità si distingue in totale o parziale. Totale investe l’intero contratto. Parziale in senso oggettivo investe una parte
del suo contenuto mentre parziale in senso soggettivo colpisce singoli rapporti di partecipazione al contratto.
Essa è configurabile per i contratti plurilaterali.
Si distingue in assoluta e relativa. Assoluta può essere fatta valere da tutte le parti e da tutti i terzi interessato. Relativa
designa la nullità che può essere fatta valere da determinati legittimati. La nullità assoluta costituisce la regola ma la
nullità relativa trova riscontro nel diritto positivo.
La figura della nullità è incentrata sulla mancanza di un elemento costitutivo onde si è definita la nullità come
deficienza strutturale dell’atto contrapponendo all’annullabilità quale invalidità connessa al vizio di un elemento
costitutivo.
Si assiste al prevalere di un’esigenza di controllo esterno che accentui l’importanza della nullità come strumento di
tutela di interessi generali dell’ordinamento. Fra questi si ricomprendono gli interessi delle categorie più deboli
sacrificati nella libera contrattazione. Si conferma la fondatezza del criterio che ravvisa nella nullità una forma di
sanzione per la tutela di un interesse generale e nell’annullabilità e rescindibilità forme di invalidità a tutela di interessi
particolari.
La tutela del contraente per incapacità o vizio del consenso risponde ad un interesse generale e le norme sono
inderogabili. Nel caso di annullabilità come di rescindibilità la irregolarità attiene ad una situazione del contraente che
potrebbe non escludere la sua convenienza a tenere fermo il contratto.
L’interesse generale viene soddisfatto concedendo al soggetto tutelato un’azione per rimuovere gli effetti del
contratto rimettendo ad esso la decisione se lasciare in vita il rapporto.
La sanzione di nullità tiene conto di una situazione generalizzata di abuso e colpisce il contratto o singole clausole in
considerazione della loro dannosità sociale.
Nullità ed inesistenza
La nullità esprime una valutazione negativa dell’ordinamento, la quale non esclude che il contratto nullo possa avere
efficacia nei confronti dei terzi o delle parti. Gli effetti che la legge ricollega al contratto nullo e la disciplina della nullità
presuppongono che sussista un’operazione qualificabile come contratto alla quale sia riferibile la qualifica della nullità,
presuppongono l’esistenza del contratto.
La nullità deve essere tenuta distinta rispetto all’inesistenza quale mancanza di un fatto o atto rispondente alla
nozione di contratto
Contrario all’ordine pubblico è il contratto a danno di terzi se e in quanto impegna ad un comportamento lesivo di un
interesse giuridicamente protetto.
Nullità speciali
Il contratto è nullo negli altri casi stabiliti dalla legge.
Varie norme de codice colpiscono di nullità contratti o clausole conformemente ad antiche tradizioni. Può parlarsi di
ipotesi classiche di nullità (comminate per i patti successori, per il patto leonino, per il patto commissorio, …). Si assiste
al fenomeno di un intervento di leggi speciali che utilizzano la sanzione della nullità in funzione di tutela di contraenti
deboli: il T.U. delle leggi bancarie prevede la nullità dei contratti bancari non redatti per iscritto e delle clausole di
rinvio agli usi per la determinazione di tassi di interesse, prezzi e condizioni e quelle che prevendono interessi, prezzi e
condizioni più sfavorevoli per i clienti di quelli pubblicizzati; il T.U. dell’intermediazione bancaria, che sancisce nullità
dei contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento; la legge sulla subfornitura che sancisce la nullità dei
patti che conferiscono al committente il potere di modificare il contratto o di recederne senza congruo preavviso; la
disciplina dei contratti del consumatore, che sancisce la nullità di protezione delle clausole vessatorie.
Queste nullità non possono essere fatte valere dalla parte destinataria dei divieti e ciò ha contribuito a rimettere in
discussione la figura della nullità quale sanzione comminata a diretta tutela di un interesse generale.
Sul punto va ribadito che le nuove nullità sono intese a colpire situazioni generalizzate di dannosità sociale in
attuazione del principio costituzionale della parità. L’interesse tutelato è generale pur se la nullità è sancita a
vantaggio dei singoli contraenti.
La relatività altera un connotato della nullità ma questa non cancella i tratti della figura, cioè la rilevabilità d’ufficio, la
imprescrittibilità dell’azione e la definitività dell’inefficacia. Questo punto non è smentito dalla relatività della nullità,
perché questa consente alla parte debole di avvalersi del contratto o della clausola nulla, ma non di convalidarla.
La facoltà della parte di profittare della clausola invalida concorre a delineare la figura della nullità come è recepita nel
diritto positivo, attestandone le flessibilità.
La frode alla legge deve essere tenuta distinta rispetto alla frode ai creditori, operazione volta a sottrarre ai creditori la
garanzia patrimoniale. In tal caso è offerto il rimedio dell’azione revocatoria, che rende il contratto inefficace nei
confronti del revocante.
La legge non prevede l’ipotesi della frode ai terzi, volta ad impedire ai terzi l’esercizio di un diritto. Esempi sono le
varie operazioni tendenti a precludere l’esercizio della prelazione nella vendita di fondi agricoli.
L’orientamento è nel senso di considerare valido il contratto, lasciando ai terzi l’esercizio dei rimedi loro concessi a
tutela dei diritti, se ne ricorrono i presupposti. Rimane il problema se non costituisca risultato vietato precludere al
terzo l’esercizio di un diritto conferitogli dalla legge. Il contratto in frode alla legge deve essere tenuto distinto rispetto
al contratto simulato. La simulazione può essere il mezzo per evitare l’applicazione di una norma imperativa, ma il
mezzo non è costituito da un contratto che indirettamente persegue il fine vietato, bensì dall’occultamento del
contratto illecito.
L’azione di nullità
L’azione di nullità tende all’accertamento della nullità del contratto. Il provvedimento che accoglie la domanda è una
sentenza dichiarativa in quanto la causa di nullità opera di diritto. La sentenza si rende necessaria per far valere la
nullità se la fattispecie contrattuale si presenta come titolo presuntivamente valido.
Legittimato ad esercitare l’azione è chiunque vi abbia interesse.
Legittimata è anzitutto la parte interessata a far valere la nullità in via autonoma o per contestare l’azione della
controparte fondata sul contratto. La parte non ha l’onere di sollevare l’eccezione perché la nullità deve essere
rilevata d’ufficio dal giudice se risulta dagli atti. Il giudice deve disapplicare il contratto nullo quando sono esercitate
pretese che hanno titolo in tale contratto.
Si restringe la rilevabilità d’ufficio della nullità all’ipotesi in cui sia richiesta l’esecuzione del contratto, la si esclude
quando sia proposta azione di risoluzione. Questa limitazione è discutibile poiché nel caso di risoluzione per
inadempimento la pretesa ha titolo nel contratto, in quanto la parte lamenta il mancato o inesatto adempimento del
contratto, con la pretesa al risarcimento dell’interesse positivo.
Giustificato appare il recente orientamento che ha riconosciuto la rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto
quando ne sia chiesta la risoluzione o rescissione.
Altro problema concerne la rilevabilità d’ufficio di una causa di nullità diversa da quella denunciata in sede di azione di
nullità. La soluzione negativa argomenta in base al principio secondo il quale il giudice deve attenersi al fondamento
della domanda fatto valere dalla parte (causa petendi).
Interessati sono i terzi pregiudicati dal contratto, ai quali sarebbe opponibile il contratto nullo.
Legittimati passivi sono coloro nei cui confronti rileva l’interesse dell’atto ad agire per la dichiarazione di nullità. Tali
sono le parti, i terzi che vantano diritti derivanti o presupponenti il contratto nullo, il debitore e la
parte ceduta quando si tratta della nullità di cessione. Fra le parti del contratto sussiste
litisconsorzio necessario.
L’azione di nullità è imprescrittibile.
Il diritto alla ripetizione ed ai rimborsi è soggetto alla prescrizione ordinaria mentre l’azione di rivendica è
imprescrittibile come l’azione di nullità. Essa incontra il limite dell’acquisto della proprietà per usucapione o il principio
possesso vale titolo.
La conversione
La conversione è una modifica legale del contratto che ne evita la nullità nel rispetto dello scopo delle parti.
Il contratto nullo può produrre gli effetti di un diverso contratto del quale abbia i requisiti di sostanza e forma se
riguardo allo scopo delle parti deve ritenersi che esse lo avrebbero voluto se ne avessero conosciuto la nullità. Si fa
l’esempio della costituzione di un usufrutto immobiliare verso un corrispettivo periodico, che si converte in un
contratto di locazione. Presupposti della conversione sono 1) la nullità del contratto; 2) l’idoneità degli effetti giuridici
modificati a soddisfare gli interessi delle parti; 3) la presenza nel contratto di requisiti necessari per produrre i diversi
effetti giuridici; 4) l’ignoranza delle parti circa l’invalidità del contratto.
La modifica opera per legge ma non in contrasto con l’atto di autonomia privata,
bensì nel rispetto del programma voluto dalle parti. Fondamento della conversione è il principio di conservazione del
contratto. Recente dottrina è dissenziente, ravvisandone il fondamento nel principio di buona fede. La formula fa
dipendere la conversione da una volontà delle parti (ciò che avrebbero voluto). In realtà la conversione opera a
prescindere dalla volontà delle parti. Suo presupposto è che le parti non abbiano previsto e regolato le conseguenze
della nullità del contratto. La formula legislativa richiama un giudizio di obiettiva congruenza tra gli effetti giuridici
modificati e lo scopo delle parti. Questo deve verificare se gli effetti giuridici modificati sono idonei a soddisfare gli
interessi delle parti. Al medesimo giudizio è affidata la conservazione del contratto affetto da nullità parziale.
La conversione è inapplicabile al contratto inesistente. Non vi è luogo per la conversione se il contratto non si è
concluso.
Si ritiene che la conversione sia inapplicabile al contratto illecito in quanto lo scopo sarebbe irrealizzabile.
Si discute se la conversione si applichi al contratto annullabile. La soluzione positiva incontra questa difficoltà, che il
contratto annullabile è produttivo dei suoi effetti. La conversione verrebbe a modificare un contratto che la parte
potrebbe voler tener fermo. La modifica del contratto potrebbe evitare l’annullamento. Di ciò tiene conto la legge in
tema di errore adottando non la soluzione della conversione di diritto ma dell’offerta di modifica del contratto da
parte del destinatario dell’azione di annullamento.
Distinta figura di conversione è la conversione formale, conversione del contratto in un altro tipo formale avente i
medesimi effetti giuridici. Così l’atto pubblico nullo per difetto di forma o incompetenza o incapacità del pubblico
ufficiale vale come scrittura privata. Tra le ipotesi di conversione formale si segnala quella del testamento segreto che
invalido, ha tutti i requisiti per il testamento olografo.
La conversione formale non viene considerata conversione in senso proprio in quanto non vi è modifica del contratto
ma diversa qualifica formale del negozio, il quale ha i requisiti sufficienti per produrre gli effetti voluti.
Altra figura di conversione è quella legale, specificamente prevista dalla legge. I casi sono quelli della girata tardiva
della cambiale che produce gli effetti della cessione ordinaria del credito e della concessione di servitù da parte del
singolo comproprietario. In mancanza del consenso degli altri comproprietari la concessione non è costitutiva del
diritto reale di servitù ma nei confronti del concedente vale a creare un diritto personale di godimento corrispondente
all’esercizio della servitù.
La conversione legale si ritiene estranea alla figura della conversione ordinaria in quanto opera a prescindere dalla
volontà delle parti. Neppure la conversione ordinaria è fondata sulla volontà delle parti. La differenza deve cogliersi in
ciò, che la conversione legale prescinde da un giudizio di comparazione tra lo scopo originario e lo scopo realizzabile.
La sanatoria
La sanatoria è la rimozione legale o volontaria dell’invalidità.
Il contratto annullabile è suscettibile di sanatoria volontaria mediante la convalida. L’ordinamento non conosce una
figura di sanatoria del contratto nullo. La regola è l’opposta in quanto solo eccezionalmente è ammessa una convalida
del contratto nullo.
Deve escludersi che al di fuori dei casi previsti il contratto affetto da nullità possa essere convalidato. Ciò non appare
possibile neppure mediante la rinuncia all’azione di nullità poichè tale rinuncia avrebbe il significato di conferma
dell’atto.
In qualche caso la legge ammette la sanatoria del negozio nullo mediante conferma. La conferma comporta la relativa
efficacia dell’atto rispetto al confermante.
La conferma è prevista con riguardo alla donazione nel senso che la nullità non può esser fatta valere dagli eredi o
aventi causa del donante i quali, conoscendo la causa di nullità, hanno dato conferma o volontaria esecuzione alla
donazione. Analoga convalida è prevista per il testamento.
Con riguardo alla società per azioni la nullità non può essere dichiarata quando la causa sia eliminata per effetto di una
modificazione dell’atto costitutivo iscritta nel registro delle imprese.
Una particolare disciplina normativa delle conseguenze della nullità è riscontrabile relativamente a figure negoziali
quali il contratto di lavoro ed il matrimonio.
La nullità parziale
La nullità parziale si distingue in parziale in senso oggettivo ed in senso soggettivo.
In senso oggettivo colpisce una parte del contenuto del contratto che rende parzialmente irrealizzabile il programma.
Può consistere in una parziale impossibilità di esecuzione delle prestazioni contrattuali o nella invalidità di singole
clausole.
In senso soggettivo nei contratti plurilaterali investe il vincolo di una delle parti.
La nullità parziale non importa la nullità totale. Trova applicazione il principio di conservazione del contratto. Questo è
richiamato dalla legge con formule diverse. Con riguardo alla nullità parziale in senso oggettivo è sancito che importa
la nullità dell’intero contratto solo se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte. Riguardo
alla nullità parziale in senso oggettivo non importa nullità del contratto salvo che la partecipazione della parte il cui
vincolo è colpito da nullità debba considerarsi essenziale. Il criterio normativo è lo stesso. Il riferimento a ciò che le
parti avrebbero voluto è una congettura dalla quale non può dipendere la validità o invalidità del contratto.
Il senso della norma nulla nullità parziale oggettiva si spiega in
considerazione della ragione che è conservare il contratto salvo che la modifica del contenuto sia tale da non
giustificare obiettivamente il mantenimento. Ciò che si richiede è una valutazione di compatibilità della modifica con la
causa concreta, dovendosi accertare se la modifica abbia importanza determinante tenuto conto dell’interesse delle
parti. Il criterio coincide con quello previsto per la nullità parziale in senso soggettivo.
La valutazione dell’importanza è esclusa quando la clausola nulla è sostituita di diritto da norme imperative e nei casi
in cui la legge dichiara la clausola come non apposta.
Il problema della relazione tra la norma che disciplina le conseguenze della nullità parziale e quella della conservazione
del contratto legalmente integrato da norme imperative deve essere risolto riconoscendo che la seconda presuppone
una disciplina positiva del rapporto. La legge determina imperativamente il contenuto del rapporto e le disposizioni
convenzionali contrarie sono invalide ed inidonee a precludere l’applicazione di essa. La prima norma presuppone solo
una regola negativa (cioè un divieto) che comporta l’invalidità della clausola contraria e una parziale inoperatività del
regolamento convenzionale.
L’ANNULLABILITA’
Nozione di annullabilità
L’annullabilità è la forma di invalidità che assoggetta il contratto alla sanzione dell’inefficacia.
Il contratto annullabile è provvisoriamente produttivo di effetti ma è suscettibile di essere reso inefficace mediante
sentenza (annullamento). L’annullamento è pronunziato su domanda della parte legittima nel cui interesse è prevista
l’invalidità del contratto. L’annullabilità è un rimedio giudiziale a tutela della parte che per incapacità o vizio del volere
non esprime un integro e consapevole consenso.
L’annullabilità è una forma di invalidità che tutela un interesse particolare della parte che si trova in posizione
menomata. L’interesse general si realizza concedento al soggetto tutelato un rimedio personale e rimettendogli la
decisione circa il mantenimento o meno dell’affare.
Il contratto diviene efficace a seguito della prescrizione dell’azione di annullamento o a seguito della convalida.
Le cause di annullabilità
La normativa del contratto indica come cause di annullabilità l’incapacità legale o naturale ed i vizi del consenso
(errore, violenza, dolo). Cause di annullabilità sono situazioni di abuso a damnno di una delle arti. In questa
prospettiva vanno intese le ipotesi di annullabilità del contratto concluso dal rappresentante in conflitto di interessi col
rappresentato o dal coniuge senza il cnsenso dell’altro in regime di comunione legale.
Altre cause di annullabilità possono riguardare la inosservanza di oneri formali o prescrizioni imperative. La sanzione
dell’annullabilità indica una valutazione di minore gravità della nullità che rende opportuno lasciare dipendere la sorte
del contratto da un apprezzamento del portatore dell’interesse leso.
Essenzialità dell’errore
Essenziale è l’errore che assume importanza determinante secondo una valutazione oggettiva.
La disciplina definisce come essenziale l’errore che cade sulla natura o sull’oggetto del contratto; sull’identità
dell’oggetto della prestazione o su una qualità del medesimo che deve ritenersi determinante del consenso;
sull’identità o sulle qualità dell’altro contraente sempreché siano determinanti del consenso. Essenziale è qualificato
l’errore di diritto quando abbia costituito la ragione unica o principale del contratto. La definizione non è tassativa e
non esclude che l’errore su presupposti oggettivi possa essere essenziale se risulta determinante del consenso.
L’errore ostativo è rilevante in quanto possa ritenersi essenziale, in qiuanto assuma un’importanza decisiva secondo
un criterio oggettivo.
L’errore quale vizio della volontà va distinto rispetto alla falsa descrizione (falsa demonstratio) la quale consiste
nell’erronea menzione di attributi e indicazioni in relazione a persone o cose identificate. La falsa descrizione si ritiene
irrilevante in quanto non rende certa l’identificazione dell’oggetto. Essa può attestare un errore del dichiarante in
ordine a qualità determinanti del consenso o indurre in errore la controparte. Al riguardo occorre tenere presente che
le qualità menzionate dal venditore sono qualità promesse.
L’errore non essenziale non invalida il contratto ma può rilevare in termini di responsabilità precontrattuale.
Riconoscibilità dell’errore
L’errore deve essere anche riconoscibile da parte dell’altro contraente. La riconoscibilità sussiste quando una persona
avrebbe dovuto rilevare l’errore, avrebbe dobuto riconoscere la falsa rappresentazione della controparte.
L’indicazione identifica la riconoscibilità secondo un criterio di normalità che non richiede uno sforzo valutativo da
parte dei contraenti e induce a ritenere l’errore riconoscibile come errore palese. La rilevanza della riconoscibilità
dell’errore comporta l’onere di verificare l’errore manifesto dell’altra parte e l’obbligo di darne comuinicazione.
L’errore riconoscibile è causa di invalidità del contratto anche se inescusabile. Ciò si spiega in quanto l’errore
riconoscibile è inidoneo a suscitare l’affidamento in ordine alla serietà e consapevolezza della dichiarazione
contrattuale.
La non scusabilità dell’errore incide sul tema della responsabilità precontrattuale.
La ragione della rilevanza della ricnoscibilità dell’errore lascia intendere come tale requisito debba sussistere nei
negozi unilaterali se e in quanto diretti ad un determinato destinatario (fa eccezione il testamento).
Si ritiene che la riconoscibilità non sia un requisito necessario nel caso di errore comune o bilaterale.
L’argomento principale è che non vi è un affidamento da tutelare. L’argomento è criticato perché l’affidamento
avrebbe ad oggetto il significato obiettivo dell’accordo. La soluzione fatta appare corretta in quanto conoscenza
dell’errore vuol dire conoscenza della falsa rappresentazione che ha indotto la controparte alla stipulazione.
Nell’errore comune la parte èp a conoscenza della rappresentazione falsa dell’altra. In tal caso la ragione
dell’affidamento viene meno perché ciascuna parte sa che l’altra ha stipulato sulla base di quella rappresentazione.
L’errore comune si riscontra in relazione ad elementi o circostanze che attengono all’esecuzione del contratto e che
rilevano sul piano dell’impossibilità o dell’inadempimento.
In quanto il requisito della riconoscibilità dell’errore è posto a tutela dell’affidamento ne consegue che deve rilevare la
conoscenza della controparte in ordine all’errore del dichiarante.
Trattandosi di errore ostativo si pone il problema se il contratto possa dirsi concluso secondo il testo della
dichiarazione quando la controparte è a conoscenza che la dichiarazione è stata erroneamente formulata o trasmessa
e non esprime la reale volontà della parte. La soluzione negativa potrebbe giustificarsi in base al rilievo che la
dichiarazione non è percepita dalla controparte quale manifestazione della volontà. Su tale contenuto non potrebbe
dirsi che si sia raggiunto l’accordo. A diversa conclusione deve pervenirsi se nella disciplina dell’errore ostativo si
ravvisa l’espressione del principio secondo il quale l’accordo è da intendersi perfezionato sulla base del normale
significato delle dichiarazioni, mentre l’eccezionale non corrispondenza con la volontà decisionale può essere fatta
valere solo sul piano delle impugnative.
L’errore di diritto
Errore di diritto è l’errore che cade su norme giuridiche. È causa di annullamento quando abbia costituito la ragione
unica o principale del consenso.
Si sostiene che avrebbe rilevanza anche se si tratta di errore sui motivi. Questa tesi ne spiega perché l’errore su finalità
della parte estranee al contratto dovrebbe essere causa di annullamento del contratto secondo che cada su aspetti
giuridici o materiali.
Deve dirsi che l’errore di diritto deve vertere su presupposti oggettivi o gli effetti giuridici del contratto o della
prestazione, dovendosi negare la rilevanza di finalità mediante che la parte pul prefiggersi di realizzare. Rilevante
errore di diritto è il convincimento della parte di essere obbligata a stipulare mentre in realtà tale obbligazione non
sussite. Non rilevante è ad esempio l’erroneo convincimento della parte di potere dedurre il costo del contratto
dall’imponibile fiscale.
L’errore di calcolo
L’errore di calcolo non da luogo all’annullamento ma alla rettifica del contratto salvo che abbia assunto importanza
determinante.
L’errore di calcolo è l’errore nell’elaborazione aritmetica dei dati esattamente assunti in contratto. Così ad esempio vi
è l’errore di calcolo se le parti, dopo aver fissata la quantità della merce venduta ed il presso di questa, computano
inesattamente il prezzo globale.
L’errore di calcolo assume rilievo quale erronea determinazione del contenuto del contratto e dell’oggetto
dell’attribuzione.
Può dirsi che l’errore di calcolo è una particolare figura di errore vizio non essenziale consistente nell’erronea
indicazione della quantita della prestazione
(prezzo, merce, …). A tale errore si applica il rimedio della rettifica. Se il contratto indica erroneamente la
quantità della merce e l’errore non è essenziale si procede alla rettifica del prezzo.
L’errore deve essere riconoscibile e deve cadere sugli elementi dedotti in contratto. Ad esempio vendo il grano del mio
magazzino per un prezzo globale dichiarando che la quantità è di 1000 quintali mentre in realtà si tratta di
1050 quintali. In tal caso avrò diritto ad un supplemento di prezzo. Se il contratto non fa menzione degli elementi di
calcolo, la parte non può invocare gli errori compiuti. Ad esempio vendo a corpo il grano del mio magazzino per un
certo prezzo senza indicarne la quantità. Se ho male calcolato il prezzo il mio errore di calcolo è irrilevante. È possibile
che rilevi come essenziale e riconoscibile il mio errore sulla quantità del grano (nel magazzino vi sono 10000 quintiali
di grano). In tal caso potrò chiedere l’annullamento del contratto per errore sulla quantità.
L’istituto della rettifica è previsto riguardo al contratto annullabile per errore dove si configura quale facoltà della
parte non in errore di prevenire l’annullametno mentre se si tratta di errore di calcolo non essenziale si configura
come l’unico rimedio legale a favore della parte in errore.
B) la violenza
La violenza è la minaccia che costringe la persona a stipulare un contratto non voluto o a subirne un contenuto. È
causa di annullabilità quando consiste nella minaccia seria di un male ingiusto e notevole alla persona o ai beni del
contraente o di terzi o nella minaccia di esercitare un diritto per conseguire un vantaggio ingiusto.
È la forma di lesione della libertà negoziale più grave e più riprovata. Rileva come causa di invalidità pur quando sia
esercitata da un terzo ad insaputa della controparte: l’esigenza di tutela del soggetto contro la violenza prevale
sull’esigenza dell’affidamento.
Si distingue tra violenza fisica e morale. La prima si estrinsecherebbe in una coazione materiale che esclude la volontà
del soggetto in ordine al contratto. La seconda agirebbe sulla volontà della vittima, inducendola a stipulare il contratto
per sottrarsi al male minacciato (anche se spinto dalla minaccia il soggetto presta comunque il proprio consenso).
La distinzione deve essere superata. La violenza fisica agisce anche essa sulla volontà del soggetto il quale si induce a
compiere l’atto per sottrarsi ad un male fisico. Se l’autore della violenza giungesse a giudare materialmente la mano
della vittima in segno di consenso, il contratto dovrebbe ritenersi inesistente per mancanza di un atto impoutabile al
soggetto.
Il timore reverenziale
Il timore è una perturbazione psicologica del soggetto. Può consistere nel timore in senso proprio, nel timore di
pericolo, o nel timore reverenziale. Il timore reverenziale è la soggezione psicologica che ilk soggetto ha verso altri
per l’importanza della loro posizione.
La disciplina si occupa del timore reverenziale escludendo che renda annullabile il contratto. La norma si spiega in
considerazione della insufficienza della semplice soggezione psicologica a determinare il consenso.
Il timore reverenziale deve essere distinto rispetto alla intimidazione morale, rispetto alla minaccia tacita del soggetto
di avvalersi della sua posizione o dei suoi mezzi per pregiudicare la vittima in caso di rifiuto di contrattare (l’esponente
di un’organizzazione ciminale dichiara di volere acquistare per un certo prezzo il terreno dell’oblato facendo
velatamente intendere di non tollerare un rifiuto, …). La rilevanza riconosciuta all’intimidazione morale si giustifica in
quanto costituisce una forma di violenza.
Accanto all’intimidazione morale va considerata l’ipotesi dell’approfittamento del timore reverenziale. In questa
ipotesi una dottrina reputa riscontrabili gli estremi della rescissione per stato di bisogno.
Il timore di pericolo
Il timore in senso proprio è l’impulso psicologico che la percezione di un pericolo esercita sulla persona
Può essere il risultato dell’altrui minaccia ed in tal cas la violenza viene assunta come causa di invaldità. Il problema è
se il timore che non deriva dalla violenza costituisca un vizio del consenso.
Il timore ha rilevanza autonoma quale vizio del consenso matrimoniale. Questa trova spiegazione nella tuitela che la
legge accorda alla libertà matrimoniale. Se passiamo alla disciplina del contratto deve escludersi che il timore di un
pericolo possa essere parificato alle ipotesi di vizio del consenso quale causa di annullamento. Può rilevarsi che
l’evitare un pregiudizio rtientra fra i motivi che sollecitano la volontà contrattuale. Chi ad esempiuo vende un terreno
per il timore di subire un’espropriazione ha un valido motivo per decidersi all’atto di disposizione del bene. Quando si
tratta del pericolo attuale di un danno grave il timore supera la soglia delle comuni motivazioni, privando il soggetto
della normale libertà di decisione.
Se la situazione di pericolo è nota alla controparte e questa ne trae indebito vantaggio si impone l’esigenza di tutelare
il contraente che è vittima. A questa esigenza risponde il rimedio della rescissione.
C) Il dolo
Il dolo è qualsiasi forma di raggiro che alteri la volontà contrattuale della vittima. È causa di annullabilità quando è
determinante, quando il raggiro induce il soggetto a stipulòare un cotnratto che non avrebbe stipulato. Si parla di dolo
vizio (causam dans). Il dolo vizio si distingue rispetto al dolo incidente (incidens) quale raggiro che non è determinante
del consenso ma incide sul contenuto del contratto (il contraente avrebbe egualmente concluso il contratto ma a
condizioni diverse).
Il dolo costituisce un illecito in qanto lesivo della libertà negoziale. Il risultato dell’azione dolosa è quello di far cadere
il soggetto il errore ma il dolo rileva come vizio del consenso a prescindere dalla ricorrenza dell’errore. Ai fini
dell’annullamento ciò che conta è che abbia indotto il soggetto a stipulòare un contratto che non avrebbe stipulato.
L’azione dolosa può riguarda i presupposti, gli elementi o gli effetti del contratto inducendo il soggetto a credere ad
esempio che in base al contratto gli spettino diritti diversi da quelli realmente spettantegli.
L’azione dolosa pul riguardare i motivi della vittima, facendogli credere ad esempio di poter trarre dalla prestazione un
utile non corrispondente alla realtà (come nel caso di raggiro sul valore del bene) o facendogli credere di avere
bisogno della prestaizone.
Il dolo può concernere l’esecuzione del contratto, creando un affidamento ingiustificato sulla realizzazione del
rapporto contrattuale.
Il raggiro può essere consumato con tutti i mezzi utili, quindi anche con la menzoglia la quale integra la fattispecie
dolosa se risulta idonea a influire sul consenso. il silenziose e la reticenza possono integrare il dolo (dolo omissivo).
L’atteggiamento inerte è inidoneo a trarre in inganno ma il silenzio tenuto in una data circostanza può inserirsi in un
comportamento preordinato al fine dell’inganno.
La nozione di raggiro implica l’intenzionalità dell’agire e il proposito di influire sul consenso mediante un
comportamento ingannevole.
Questo carattere ne spiega la riprovazione sociale e la rilevanza che assume quale causa di invalidità rispetto al
semplice errore. La disciplina del dolo quale causa di invalidità trova fondamento nella riprovazione sociale del raggiro
ed esprime il principio secondo il quale non merita tutela giuridica l’interesse dell’autore del raggiro. Eguale giudizio di
riprovevolezza colpisce chi consapevolmente rende possibile l’attuazione dell’altrui raggiro e ne trae vantaggio.
Il dolo incidente
Il dolo incidente è il dolo non determinante del consenso ma che incide sul contenuto del contratto. L’accertamento se
si tratti di dolo vizio o dolo incidente ha riguardo alle concrete circostanze del contratto.
Il dolo incidente (a differenza dell’errore non essenziale) rileva come vizio della volontà ma il rimedio è il risarimento
del danno.
Il diritto al risarcimento del danno ha fonte nel dolo quale atto illecito, lesivo della libertà negoziale. Nel caso di
annullamento del contratto la vittima può pretendere di essere risarcita ma il danno risarcibile si determina nella
misura dell’interesse negativo. Nel caso di dolo incidente il danno risarcibile deve rapportarsi al pregiudizio costituito
dalla minore convenienza dell’affare. Tale danno è dato dal minore vantaggio o dal maggior aggravio economico
conseguente alla diversa determinazione del contratto per effetto dell’intervento doloso.
Nell’ipotesi di dolo incidente il risarcimento si adegua ad un criterio analogo a quello valevole per l’inadempimento.
Ciò si spiega tenendo presente che il contratto rimane concoluso e che la vittima nn lamenta il pregiudizio per
l’invalidità del contratto ma la mancanza di quel risultato economico positivo che avrebbe raggiunto se la controparte
avesse agito lealmente.
Dolo ed inadempimento
Nei casi in cui il dolo determina un errore avente gli estremi della essenzialità la vittima può giuvarsi dell’azione di
annullamento per errore. Il ricors a questo rimedio consente di ottenere l’annullamento del contratto anche se non
risulta provato il dolo della controparte, essendo sufficiente che l’errore sia riconoscibile.
Questa figura deve escludersi quando il contratto sia nullo per impossibilità giuridica o materiale. Se l’autore del dolo
ha assunto un impegno contrattuale possibile il contratto è produttivo dei suoi effetti. In tal caso la vittima anziché
chiedere l’annullamento può agire per fa valere l’inadempimento del contratto.
Alla vittima del dolo deve riconoscersi la possiblità di ricorrere all’azione di annullamento o ai rimedi contro
l’inadempimento quando coesistano i presupposti dell’una e dell’altra ipotesi.
Questa coesistenza implica che l’autore del dolo non abbia eseguito la prestazione dovuta e che si sia ingannata non
su ciò che in base al contratto le spetta ma su altri fatti determinanti del consenso.
L’azione di annullamento
L’annullamento del contratto è riservato all’iniziativa di parte:
l’annullabilità non può essere rilevata d’ufficio. È onere della parte legittima proporre l’azione e chiedere
l’annullamento del contratto in via di eccezione o riconvenzionale.
La domanda di annullamento tende alla rimozione giudiziale del contratto. La sentenza è una sentenza costitutiva in
quanto modifica la posizione giuridica delle parti privando il contratto dell’efficacia.
Legittimata attiva all’azione di annullamento è la parte nel cui interesse è sancita l’invalidità, cioè che ha contrattato in
stato di incapacità o il cui consenso è stato viziato da errore, dolo o violenza. Nei casi di inacapacità legale il contratto
può essere impugnato dal rappresentante egale o dall’incapace. Analogo principio trova applicazione relativamente ai
contratti stipulati dal rappresentante legale senza l’autorizzazione giudiziale.
La legittimazione spetta all’erede della parte e anche all’avente causa, cioè al terzo che abbia acquistato un diritto in
conflitto con quello attribuito in base al contatto annullabile.
Relativamente ai contratti plurilaterali in cui si riscontri una pluralità di parti, ciascuna di queste è legittimata ad
impugnare il contratto per gli effetti che la riguardano.
Ne consegue un’ipotesi assimilabile a quella della nullità parziale in senso soggettivo. Ammissibile è l’ipotesi di un
annullamento parziale in senso oggettivo.
La regola che riserva la legittimazione ad agire alla parte interessata risponde all’idea dell’annullamento quale rimedio
posto nell’interesse di una parte che non ha espresso un consenso integro e consapevole a causa dello stato di
incapacità o di un vizio del volere. Alla parte interessata è rimessa la decisione se avvalersi del rimedio concessole.
Eccezionalmente la legge prevede che l’azione di annullamento possa essere proposta da parte di qualsiasi
interessato. Si parla di annullabilità assoluta. Questa deroga accosta l’annullabilità assoluta alla nullità e pone il
problema se sia giustificato affermarne una netta distinzione.
La distinzione deve essere ribadita poiché la regola della legittimazione processuale estesa ai terzi è posta per una più
intensa tutela dell’interesse della parte, fermo restando che il negozio è produttivo di effetti e suscettibile di convalida.
La prescrizione dell’azione
L’azione di annullamento è soggetta alla prescrizione quinquennale. Si tratta di una prescrizione breve che rende
inapplicabile l’ordinario termine decennale di prescrizione.
Nei casi di vizi del consenso e di incapacità legale la prescrizione decorre dal momento in cui la parte ha superato
l’impedimento del vizio o lo stato di incapacità, dal momento in cui ha scoperto l’errore o il dolo o è cessata la
violenza; dal momento in cui è divenuta maggiorenne o è stata revocata l’interdizione o l’inabilitazione.
Al di fuori di questi casi decorre dal giorno della conclusione del contratto.
Si ha riguardo al momento del suo perfezionamento e non della sua efficacia. Dopo il decorso del termine di
prescrizione l’annullabilità può essere fatta valere dalla parte convenuta per l’esecuzione del contratto. Ciò significa
che la parte può far valere l’invalidità del contratto in via d’eccezione quando la controparte esercit un diritto
derivante dal contratto invalido.
Alla prescrizione dell’azione di annullamento si applicano le regole generali sulla sospensione. Per quanto attiene
all’interruzione, si verifica a seguito dell’esercizio dell’azione. In tal senso si trae argomento dal rilievo che la
prescrizione ha per oggetto un potere processuale non suscettibile di essere esercitato al di fuori del suo esperimento
in giudizio.
La convalida
Il contratto annullabile può essere sanato mediante la convalida, negozio unilaterale non recettizio mediante il quale la
parte legittimata all’azione di annullamento conferma il contratto invalido. A seguito della convalida il contratto non è
più annullabile.
La convalida può essere espressa o tacità. È espressa quando la parte manifesta la volontà di confermare il contratto
mediante dichiarazione. La dichiarazione deve contenere la menzione del contratto e della causa di invalidità. La
volontà può essere manifesta con formule diverse e anche con la rinuncia all’azione di annullamento. Parte della
dottrina intende la convalida come una rinuncia all’azione o rinuncia al diritto di annullamento.
La spiegazione della convalida in termini di rinuncia non appare soddisfacente perché non ne cosglie il significato quale
atto volto a conferare il contratto. Questo contenuto positivo trova riconoscimento nella tesi tradizionale che intende
la convalida come atto volto a rendere valido il negozio annullabile. La dottrina ha orecusato che l’effetto diretto della
convalida è quello di fissare il valore giuiridico del negozio.
La convalida non si sostituisce al contratto convalidato ne integra un elemento di questo, posto che ilk contratto è
strutturalmente perfetto. Equivoca appare l’indicazione della convalida quale negozio integrativo. Può dirsi che la
convalida è un negozio accessorio o di secondo grado che rimuove la precarietà legale del contratto annullabile. Fonte
del rapporto rimane il contratto che non è più suscettibile di annullamento.
La convalida non ha effetto se persiste il vizio del consenso o lo stato di incapacità. Il convalidante deve essere in
condizione di concludere validamente il contratto. Occorre che abbia scoperto l’errore o il dolo o che sia cessata la
violenza, che abbia raggiunto la maggiore età o che sia stata revocata la sentenza di interdizione o inabilitazione.
Altrimenti la convalida è nulla. La norma richiede come requisito che la volontà del convalidante sia integra e
consapevole. La convalida è nulla anche quando sia viziata la volontà di convalida.
Per quanto attiene alla forma della convalida prevale la tesi secondo la quale il negozio è a forma libera.
La convalida ha effetto per il convalidante. Non preclude l’azione di altri legittimati, salvo che siano portatori
dell’interesse del convalidante.
La convalida tacita
La convalida è tacita quando la parte conferma il contratto mediante la volontaria esecuzione di esso.
L’effeto convalidate è collegato alla esecuzione volontaria del contratto da parte del titolare dell’azione di
annullamento che sia a conoscenza della causa di invalidità. La dottrina ha ravvisato nella volontaria esecuzione
un’ipotesi di fattispecie di atto giuridico in senso stretto ad effetto legale. Ne consegue la irrilevanza della circostanza
che la parte abbia o no consapevolezza del significato convalidante del comportamento.
Altra tesi riconduce l’esecuzione volontaria ad un comportamento concludente, manifestazione tacita di volotnà, in
quanto tale esecuzuine esprime l’intento di tenere fermo il contratto.
Deve negarsi rilevanza alla consapevolezza del significato convalidante dell’atto. Secondo la regola ciò che conta è il
significato socialmente valutabile dell’atto. L’effetto della convalida non viene meno perché il soggetto non avverta il
significato di conferma del suo atto occorrendo una sua diversa volontà manifestata mediante una dichiarazione di
riserva.
La convalida tacita esige che il convalidante sia in condizione di stipulare valdiamento il contratto. È altrimenti senza
effetto.
L’esecuzione volontaria consiste nell’adempimento dell’obbligazione e nell’accettazione della prestazione.
L’esecuzione parziale può essere valutata come volontà di conferma dell’intero contratto.
Oltre che nell’esecuzione del contratto la convalida tacita può essere riscontrata in altri comportamenti come
l’utilizzazione della prestazione contrattuale.
La rettifica
La rettifica estingue il diritto della controparte all’annullamento del contratto.
È un atto negoziale. Può definirsi come il negozio unilaterale e recettizio mediante il quale la parte non in errore rende
efficace il contratto modificandone il contenuto conformemente all’intento effetivo della controparte. Fondamento
della rettifica sono il principio di conservazione del contratto e di buona fede. Quiest’ultimo esclude che l’interesse di
una parte sia sacrificato se non trova rispondenza nell’interesse dell’altra. La buona fede esige che ciascuna parte
salvaguardi l’utilità dell’altra.
La contrarietà alla buona fede del rifiuto ingiustificato di accettare la rettifica è sanzionata in termini di irrilevanza di
tale rifiuto. È certo che la rettifica si perfeziona con la manifestazione della volontà della parte non in errore. L’offferta
indica la ricettizietà della dichiarazione che deve essere portata a conoscenza dell’altra parte.
La rettifica non può essere esercitata quando importa un pregiudizio alla controparte, quando per il tempo trascorso o
per circostanze o fatti sopravvenuti debba presumersi che la parte non abbia più interesse all’esecuzione del
contratto.
L’esercizio della facoltà di rettifica ha l’effetto immediato di rendere il contratto definitivamente efficace, precludendo
il diritto di annullamento della controparte. Questa non può rifiutare la rettifica ma può contestanre la regolarità. Il
giudizio sull’efficacia della rettifica è un giudizio di accertamento nel quale il giudice deve limitarsi a verificare se la
facoltà di rettifica è stata esercitata nel rispetto della legge.
La rettifica non estingue il diritto della controparte al risarcimento del danno se la causa di invalidità ne abbia ritardato
l’esecuzione.
La facoltà di rettifica può essere esercitata senza limiti di tempo.
LA RESCINDIBILITA’
Il rimedio della rescissione
La rescindibilità è una forma di invalidità del contratto posta a tutela di chi contrae a condizioni inique per il suo stato
di bisogno o di pericolo. Lo stato di bisogno caratterizza l’azione di rescissione, che richiede l’approfittamento della
controparte e la lesione ultra dimidium, sproporzione tra prestazione e controprestazione tale che il valore dell’una
sia inferiore alla metà del valore dell’altra.
L’ipotesi del contratto concluso in stato di pericolo è caratterizza da ciò, che la parte stipula il contratto per la
necessità, nota alla controparte, di salvare se o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona. Non è
richiesto il presupposto di una lesione, essendo sufficiente che la necessità di evitare il pericolo abbia spinto il
contraente a stipulare a condizioni inque. La rescindibilità è una forma di invalidità analoga all’annullabilità, pur se
caratterizza da propria disciplina (che prevede la riduzione ad equità, un più breve termine di prescrizione, la non
convalidabilità del contratto, …). Il contratto rescindibile è provvisoriamente efficace ma soggetto alla rimozione
giudiziale a causa dell’irregolarità.
L’irregolarià non è data dall’iniquità considerata ma dall’iniquità risultante dall’approfittamento di una situazione di
anomala alterazione della libertà negoziale.
Le cause di tale alterazione possono essere i vizi del cosnenso poiché la pressione esercitata dal perciolo e dal bisogno
esula dalle motivazioni di contrarre fino a privare il soggetto della libertà decisionale.
L’inquadramento tra le forme dell’invalidità del contratto non è pacifico. La tesi contraria argomenta dalla diversa
esigenza che sta a fondamento dell’istituto, che non sarebbe diretto a tutelare la volontà del soggetto ma ad
accordargli un rimedio contro l’iniquità delle condizioni accettate in stato di pericolo o bisogno. Occorre osservare che
la legge dà rilevanza alla manifesta iniquità che deriva da cause di turbamento della libetrtà di decisione del soggetto.
Può dirsi che l’istituto della rescione sanziona l’abusivo approfittamento di chi si trova in una situazione di
pregiudizievole alterazione della libertà negoziale. La rescindibilità espreime una valutazione socialmente negativa in
ordine a tale approfittamento.
La rescissione rappresenta una forma di invalidità anche quando il rimedio prescinda da una causa di alterazione della
libertà contrattuale. In tal caso l’irregolarità è data dalla violazione di una norma sul contenuto del rapporto che
impone alle parti di adeguarsi ad un criterio equitativo.
Rescissione ed usura
La fattispecie del contratto rescindibile per lesione può integrare gli estermi del reato di usura. Vi è usura quando il
soggetto si fa dare o pomettere per se o per altri interessi o altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di
denaro o di altra utilità.
La fattispecie dell’usura si distingue rispetto a quella della lesione poiché non richiede il requisito dell’approfittamento
dello stato di bisogno. I casi di usura e lesione tendono a coincidere. Questa coincidenza pone il problema
dell’incidenza del reato sulla validità del contratto.
Secondo la tesi prevalente la ricorrenza del reato non muterebbe la disciplina privatistica. Sul piano civilistico la vittima
avrebbe diritto solo al rimedio della rescissione. La tesi è conforme alla soluzione secondo la quale la consumazione
del reato a danno di un soggetto lascia ferma la disciplina privatistica prevista a tutela della parte.
Va tenuto presente che per quanto riguarda gli interessi usurari il reato di usura scatta a seguito della pattuizione in
misura superiore a quella legale
(annualmente fissata con provvedimento ministeriale).
Il codice sancisce la nullità della clausola di interesse usurari e la perdita del credito alla corresponsione di interessi.
Trattandosi di nullità sancita in favore del debitore non risponde ai principi civilistici. Il debitore ne trae un consistente
lucro economico estraneo all’idea di un risarcimento. Viene abbandonata la funzione di normalizzazione dell’affare
perseguita dalla norma che conservava il diritto alla corresponsione degli interessi legali. Ad essa sembra sostituita
una concezione penalistica della sanzione civile che si aggiunge alle sanzioni penali in senso proprio.
L’azione di rescissione
La rescissione è un rimedio riservato all’iniziativa di parte. Come per l’annullamento è onere della parte legittimata
chiedere giudizialmente che il contratto venga rescisso. In mancanza dell’iniziativa della parte la rescindibilità non può
essere rilevata d’ufficio.
La sentenza che accoglie la domanda di rescissione ha natura costitutiva in quanto priva il contratto della sua
originaria efficacia.
Legittimato attivo è il contraente che ha stipulato in stato di pèericolo o di bisogno. Legittimato è anche l’erede ma
non l’avente causa a titolo particolare. Nell’ipotesi di contratto plurilaterale ciascun contraente può proporre
separatamente la domanda per la parte che lo riguarda.
La prescrizione dell’azione
L’azione di rescissione si prescrive in 1 anno dalla stipulaizone del contratto. Oltre che per la brevità del termine di
prescrizione la rescissione si distingue rispetto all’annullamento per il fatto che, decorso tale termine nn può essere
fatto valere neppure in via di eccezione. In queste regole restrittive si avverte la resistenza del sistema verso forme di
rimedi equitativi che mettono in discussione l’assunto dell’accordo come intangibile criterio di composizione degli
interessi delle parti.
La stipuylaizone del contratto rescindibile può integrare gli estermi del reato e del reato di usura. Quando ricorrono gli
estremi del reato il termine di prescrizione coincide con il più lungo termine di prescrizione del reato. È fatto rinvio alla
regola valevole per l’azione di risarcimento del danno derivante da reato. Quando si verifica il passaggio in giudicato
della sentenza penale o l’estinzione del reato per causa diversa dalla prescrizione, torna ad applicarsi il termine
annuale di prescrizione.
La sussistenza del reato o dell’estinzione devono risultare da sentenza o provvedimento del giudice penale. Se il
giudice civile ravvisa nella fattispecie gli estremi del reato deve trasmettere gli atti al pubblico ministero affinchè sia
iniziata l’azione penale. Quando l’azione penale è improponibile il giudice civile può procedere all’accertamento del
reato ai fini di accertare il più lungo termine di prescrizione dell’azione di rescissione.
Anche la prescrizione dell’azione di rescissione può essere interrotta dalla proposizione della domanda giudiziale e non
dlla richiesta fatta alla controparte. In tal senso si trae argomento dal rilievo che la rescissione è un rimedio giudiziale,
in quanto solo il giudice può realizzare il risultato voluto (rescissione del contratto) e il diritto del contraente non può
esercitarsi che mediante l’azione.
Si ammette l’efficacia interruttiva del riconoscimento del diritto da parte del destinatario dell’azione.
A differenza dell’annullamento la rescissione non pregiudica i diritti dei terzi. Chi acquista dalla controparte può
opporre il suo acquisto oneroso o gratuito a chi agisce in rescissione. L’acquisto rimane fermo anche se l’acquirente
era a conoscenza della rescindibilità del titolo del suo dante causa. Rimangono fermi gli atti cautelari ed esecutivi
dei creditori della controparte sul bene da questa acquisito mediante il contratto rescindibile. La prevalenza del
titolo del terzo presuppone l’osservanza dei requisiti di opponibilità. Quando si tratta di atti soggetti alla
trascrizione l’atto del terzo prevale se è stato trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda di
rescissione. Altrimenti la rescissione può essere opposta al terzo. Trova applicaizone il principio secondo il quale la
sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effeto fra le parti, i loro eredi o aventi causa.
La riduzione ad equità
La parte destinataria dell’azione di rescissione ha il potere di offrire una modifica del contratto sufficiente a ricondurlo
ad equità. L’esercizio di questo potere estingue il diritto del contraente leso alla rescissione del contratto. Il potere di
riduzione ad equità è un potere di rettifica che trova riscontro nel potere di rettifica previsto in tema di contratto
annullabile per errore. L’atto di riduzione ad equità può essere definito come negozio unilaterale e recettizio mediante
il quale la parte legittimata rende definitivamente efficace il contratto modificandone il contenuto secondo un giusto
criterio di scambio. Il potere rivela a suo fondamento i principio di conservazione del contratto e della buona fede. La
rettifica del contratto rescindibile si distingue in ciò, che essa non è volta a confermare il contratto ad un intento
negozial ma lo adegua al criterio dell’equo contemperamento dei contrapposti interessi.
La riduzione ad equità non esige una equivalenza di valori ma richiede che il contratto sia riportato ad un giusto
rapporto di scambio. Il corrispettivo deve essere uniformato in quanto possibile ai valori del mercato, ai prezzi
praticati per beni e servizi simili.
La determinazione del giusto corrispettivo deve essere fatta con riferimento ai valori attuali. Il rimedio della
rescissione presuppone il peristere della lesione. Occorre che la riduzione ad equità aumenti o diminuisca l’entità del
corrispettivo in modo da eliminare la lesione e rendere giusto il corrispettivo con riferimento agli attuali valori delle
prestazioni.
La riduzione ad equità costituisce un potere della parte destinataria dell’azione di rescissione. Senbbene la formula del
codice parli di una offerta di modificazione del contratto può escludersi che l’esercizio della risoluzione ad equità abbia
il valore di una proposta contrattuale. Analogamente alla rettifica del contratto annullabile si tratta di un potere
riconosciuto alla parte di evitare la rescissione rimuovendo la lesione offerta dal contraente. L’esercizio di tale potere
non richiede accettazione da parte dell’altro contraente. Se questo contesta la congruità della modifica, è il giudice
che deve decidere sulla fondatezza della contestazione e si limita ad accertare la sufficienza della modifica.
La riduzione ad equità evita la rescissione ma non presuppone che la azione sia già stata proposta. Il potere di rettifica
può essere esercitato anche in mancanza di un processo. Se la causa è in corso il potere di rettifica può essere fatto
valere in via processuale senza perdere il suo significato di atto negoziale. Il potere è esercitato dalla parte e non dal
giudice.
La determinazione della modifica del contratto può essere rimessa al giudice. In questo caso non è il giudice che evita
la rescissione ma la parte che ha esercitato il potere di rettifica.
LA SIMULAZIONE
Nozione di simulazione
La simulazione è il fenomeno dell’apparenza contrattuale creata
intenzionalmente. Si ha quando le parti stipulano un contratto con l’intesa che non corrisponda alla realtà del loro
rapporto.
Si distingue in assoluta e relativa. Nella simulazione assoluta le parti fingono di stipulare un contratto mentre non
intendono costituire alcun rapporto; nella simulaizone relativa le parti fanno apparire un contratto diverso da quello
concluso. La simulaizone relativa può cadere sul contenuto del contratto o sui soggetti (interposizione fittizia).
Elementi della simulazione sono l’apparenza contrattuale e l’accordo simulatorio, l’intesa sul significato apparente
del contratto. La legge dichiara il contratto simulato senza effeto tra le parti. La simulaizone costituirebbe un’ipotesi
di nullità. È più appropriato parlare di inefficacia in quanto la simulazione non integra una irregolarità del contrtto
(violazione di norme imperative, impossibilità dell’oggetto, …). La mancanza di efficacia dipende dalla volontà delle
parti: sono le parti a stabilire che il contratto non deve avere effetti o deve avere effetti diversi da quelli apparenti. Si
spiega come il contratto simulato possa acquistare efficacia mediante la revoca dell’accordo simulatorio.
Le parti creano un’apparenza negoziale non corrispondente al reale col proposito di eludere diritti o aspettative di
terzi. L’intento fraudolento non è elemento necessario della simulazione.
Anche se non è elemento necessario il problema che pone è quello della tutela dei terzi, sia pregiudicati dal contratto
simulato sia che confidano sulla serietà di tale contratto. La disciplina privilegia tale tutela rispetto alle parti. I principi
fondamentali possono riassumersi:
1) Ciò che è simulato non ha effetto tra le parti, ha effeto la situazione realmente voluta (salvi i limiti della prova
della simulazione).
2) I terzi pregiudicati possono far valere la situazione reale.
3) I terzi che hanno confidato in buona fede nel cntratto simulato possono far valere la situaizone apparente.
Regole sono dettate per regolare il conflitto tra i terzi che hanno confidato nella seriteà del contratto e terzi
pregiudicati dalla simulazione.
L’accordo simulatorio
La simulazione è caratterizzata dall’accordo simulatorio, reciproca intesa delle parti sulla divergenza tra il contatto
stipulato e il loro effettivo rapporto. L’accordo simulatorio vale a distinguere la simulazione rispetto all’errore ostativo,
quale ipotesi di divergenza inconsapevole. L’accordo simulatorio vale a distinguere la simulazone rispetto alla riserva
mentale. Se una parte dichiara il proprio consenso con la riserva di una diversa volontà vale la volontà dichiarata
anbche se la controparte era a conoscenza della riserva. Questa soluzione si giustifica in base al rilievo che il
contraente vuole manifestare alla controparte la volontà dichiarata. Se la controparte ha conoscenza della riserva è
irrilevante poiché tale riserva rimane superata dalla decisione del soggetto di dichiarare diversa volontà.
Nella simulazione vi è l’intesa delle parti nel senso che ciò che dichiarano non cirrisponde alla realtà del rapporto.
Si discute se l’accordo simulatorio abbia natura negoziale o di dichiarazione di scienza. In quasto ultimo senso
deporrebbe il rilievo che ciò che conta è la consapevolezza del carattere simulato. L’accordo simulatorio si limiterebbe
ad esprimere questa consapevolezza non essendo diretto a creare, modificare o estinguere effetti giuridici.
Occorre considerare che l’operazione simulatoria implica la creazione di uno strumento negoziale idoneo. L’accordo
simulatorio assume carattere negoziale in quanto determina il contenuto del contratto stipulato o il diverso contenuto
che il contratto deve avere per le parti.
Il riconoscimento del carattere negoziale dell’accordo simulatorio conferma l’applicabilità della disciplina contrattuale
e la possibilie invalidità dell’accordo per vizio del consenso. anche l’accordo simulatorio si presta ad essere simulato.
L’accordo simulatorio non richiede una determinata forma. Le parti provvedono a fare risultare l’accordo mediante
apposita contro scrittura. La contro scrittura è il documento mediante il quale le parti manifestano o attestano il loro
accordo simulatorio. Non è elemento essenziale del fenomeno simulatorio ma è importante dati i limiti che incontrano
le parti nella prova della simulazione. In quanto l’accordo simulatorio determina il reale significato della dichiarazione
simulata esso deve essere anteriore o contemporaneo a tale dichiarazione (mentre la contro scrittura può essere
redatta in un tempo successivo).
La rilevanza in generale della simulazione rispetto ai terzi. A) i terzi pregiudicati dal contratto simulato
Il problema della rilevanza esterna della simulazione concerne le seguenti fasce di terzi: a) quelli che sono pregiudicati
dal contratto simulato; b) gli aventi causa dal simulato acquirente; c) i creditori. La tutela dei terzi prevale su quella
delle parti mentre il conflitto tra le categorie di terzi trova vari criteri di soluzione.
Riguardo ai terzi pregiudicati dal contratto simulato vale la regola: quando la simulazione pregiudica i diritti dei terzi,
questi possono dimostrare che il contratto è simulato e fare valere la simulazione reale.
Terzi pregiudicati dal contratto simulato sono gli aventi causa dal simulato acquirente e coloro che in base alla
situazione reale vantano un diritto che risulta escluso,. In opponibile o ridotto innbase all’atto simulato. Fra i terzi
pregiudicati la giurisprudenza annovera la parte sostanziale se risulta danneggiata da un’intesa simulatoria
intervenuta tra il rappresentante diretto o indiretto ed il terzo.
Gli aventi causa di buona fede a titolo particolare dal simulato acquirente trovano la massima tutela. Sono tutelati sia
rispetto alle parti ed ai loro successori universali sia rispetto agli aventi causa ed ai creditori del simulato alienante. La
preferenza rispetto agli aventi causa e creditori del simulato alienante si spiega per l’esigenza di evitare che la
simulazione possa pregiudicare la certezza della circolazione dei diritti.
La buona fede che rileva è in senso soggettivo, cioè l’ignoranza di ledere l’altrui diritto. Chi acquista dal simulato
titolare è in buona fede se ignora che il suo acquisto lede il diritto del titolare effettivo. La buona fede si presume in
base al principio enunciato in tema di possesso.
Il principio della tutela del terzo acquirente di buona fede deve essere coordinato con la trascrizione e gli altri regimi di
opponibilità del contratto. Quando il contratto simulato è soggetto a trascrizione il terzo acquirente di buona fede non
può opporre il suo acquisto se il suo titolo è trascritto dopo la trascrizione della domanda di accertamento della
simulazione.
La tutela dell’avente causa dal simulato acquirente cede di fronte all’avente causa dal simulato alienante quando si
tratta di alienatario di cosa mobile che ne abbia in buona fede conseguito il possesso.
C) I creditori
La simulaizone pone un problema di rilevazna nei confronti dei creditori delle parti. Occorre distinguere fra creditori
del simulato alienante e del simulato acquirente.
I creditori del simulato alienante conservano la loro garanzia patrimoniale sul bene apparentemente alienato. Possono
agire per fare accertare che l’alienazione stipulata dal debitore era simulata. Non possono far valere la garanzia
patrimoniale in pregiudzio dei terzi acquirenti di buona fede.
I creditori del simulato acquirente possono fare valere la garanzia patrimoniale sul bene acquisito al patrimonio del
debitore in base al contratto simulato. La simulazione non può essere opposta ai creditori del simulato acquirente che
in buona fede hanno compiuto atti di esecuzione sul suo patrimonio.
La simulaizone non può essere loro opoposta dalle parti ne dagli aventi causa del simulato alienante. Occorre tenere
conto delle regole della trascrizione e dei regimi di opponibilità dell’atto. Se il contratto simulato è soggetto a
trascrizione il diritto di chi agisce in simulazione prevale sugli atti esecutivi successivi alla trascrizione della domanda
giudiziale.
Per quanto attiene al conflitto tra le 2 categorie di creditori, i creditori del simulato alienante sono preferiti a quelli del
simulato acquirente se il credito dei primi sia sorto in un tempo anteriore alla stipulazione del cotnratto simulato.
La prefernza dei creditori anterior è sancita rispetto ai creditori chirografari , non assisiti da diritti reali di garanzia o
privilegio. Se i creditori del simulato acquirente sono titolari di garanzia reali o privilegi il conflitto si risolve secondo le
regole sull’ordine delle garanzie.
L’azione di simulazione
L’azione di simulazione è di accertamento. È diretta a fare accertare giudizialmente l’inefficacia del contratto ed il reale
rapporto intercorrente fra le parti.
La legittimazione attiva spetta alle parti ed ai terzi interessati, attualmente o potenzialmente pregiudicati dalla
situazione apparente (principalmente i creditori e gli aventi causa dall’alienante). Se la simulazione risulta dagli atti
deve essere rilevata d’ufficio quando la pretesa fatta valere in giudizio sia fondata sul contratto simulato.
Legittimati passivi sono i partecipi dell’accordo simulatorio. In presenza di pluralità di parti del contratto simulato la
giurisprudenza ritiene che sussista litisconsorzio necessario. L’azione deve essere proprosta nei confronti di tutte le
parti salvo che la simulazione sia fatta valere in via d’eccezione o l’accertamento debba essere compiuto in via
incidentale.
La prova è regolata diversamente secondo che siano i terzi a far valere la simulazione o le parti. I terzi pregiudicati
dalla simulazione possono dare la prova con qualsiasi mezzo, anche mediante testimoni e presunzioni.
Le parti incontrano i limiti posti dalla disciplina delle prove. Esse hanno l’onere di provare la simulazione mediante la
contro scrittura, essendo preclusa la prova per testi e presunzioni. Valgono le eccezioni previste per il divieto della
prova testimoniale.
La simulazione può essere liberamente provata dalle parti quando l’azione è diretta ad accertare l’illiceità del contratto
dissimulato.
Ai limiti della prova sottostanno gli eredi delle parti. La giurisprudenza ammette che l’erede possa provare liberamente
la simulazione quando assuma che vi sia stata lesione del suo diritto di legittima.
Posizione del terzo assume il curatore fallimentare, il quale può provare senza limiti la simulazione che pregiudica la
massa dei creditori.
La prescrizione
L’azione di simulazione è imprescrittibile.
La giurisprudenza distingue tra azione di simulazione assoluta, imprescrittibile, e relativa, assoggettata a prescrizione
decennale.
La distinzione è difficilmente giustificabile posto che si tratta di accertare la simulazione del contratto. Ciò che cade in
prescrizione è l’azione diretta ad esercitare il rapporto contrattuale dissimulato, trattandosi di una normale azione
contrattuale.
Il negozio fiduciario
Il negozio fiduciario è il neghozio mediante il quale un soggetto (fiduciante) aliena un diritto per uno scopo ulteriore
che l’alienatario (fiduciario) si obbliga a realizzare ritrasferendo il diritto al fiduciante o ad un terzo.
Elementi della fiducia sono il trasferimento del diritto dal fiduciante al fiduciario e la possibilità di abuso del fiduciario.
Divenuto titolare del diritto il fiduciario potrebbe disporre di esso in vuolazione dell’obbligo assunto, non opponibile ai
terzi acquirenti.
La possibilità di abuso nasce dal fatto che il fiduciario riceve una posizione più ampia rispetto ai limiti che lo vincolano
alla realizzazione di undeterminato scopo. Riguardo ai negozi fiduciari si parla in termini di eccedenza o di
sproporzione tra negozio giuridico e scopo pratico.
La causa del negozio fiduciario è ravvisata nel mandato relativamente alle alienazioni volte a realizzare particolari
scopi nell’interesse dell’alienante o di altri (fiducia cum amico) e nella causa della garanzia relativamente alle azioni a
scopo di garanzia (fiducia cum creditore). Altri ravvisano nella fiducia una causa del negozio. Una tipizzazione è
arbitraria dovendosi avere riguardo agli interessi che l’operazione è diretta a realizzare.
I dubbi se la causa basti a giustificare il trasferimento del diritto in capo al fiduciario sono superati da un orientamento
che riconosce l’operatività del trasferimento fiduciario.
L’alienazione fiduciaria non deve essere confusa con quella simulata. Questa trasferisce il diritto in apparenza.
L’alienante rimane in realtà titolare del diritto. L’alienanzione fiduciaria trasferisce il diritto al fiduciario, il quale
diviene il titolare di esso con l’obbligo di disporne secondo lo scopo della fiducia.
Occorre osservare che sul piano della discipl8ina le diversità delle figure si attenuano. La simulaizone non può
pregiudicare i terzi di buona fede, chi acquista in buona fede può opporre il suo acquisto all’alienante. Anche il
simulato acquirente si trova nella possibilità di abusare della titolarità apparente a danno del vero titolare.
Rimane il problema della rilevanza della causa fiduciaria rispetto ai terzi. Mentre è certo che non può essere opposta ai
terzi acquirenti, consapevoli o no del vincolo fiduciario, deve ammettersi che il fiduciante possa far valere il suo diritto
nei confronti dei creditori del fiduciario quando tale diritto risulti da un atto avente data certa anteriore al
trasferimento o trattndosi di immobili o beni mobili registrati, quando la domanda giudiziale di trasferimenti risulti da
atto trascritto anteriormente al pignoramento. In tal senso trova applicazione analogica la regola valevole in tema di
mandato senza rappresentanza.
LA CESSIONE
La cessione negoziale del contratto
La cessione del contratto è il negozio mediante il quale il titolare di un rapporto contrattuale a prestazioni corrispettive
non ancora eseguite (cedente) sostituisce a se un terzo (cessionario) col consenso dell’altra parte (ceduto). La cessione
può essere intesa come vicenda soggettiva del contratto quale sussccssione a titolo particolare nel rapporto
contrattuale. La cessione può essere oggetto di un negozio (cessione negoziale) o avere titolo nella legge
(cessione legale).
La cessione non deve essere confusa con la novazione, la quale comporta l’estinzione del rapporto contrattuale e la
costituzione di un nuovo rapporto con diverso soggetto o contenuto. La cessione presuppone la permanenza del
rapporto che si trasferisce.
La permanenza del rapporto non esclude che il rapporto possa essere modificato nel contenuto. Le modifiche sono
compatibili con l’intento dei contraenti di tenere fermo il rapporto originario fatta eccezione per le parti modificate. Si
tratta di un problema di interpretazione della volontà contrattuale.
Pur in mancanza di previsione normativa deve ammettersi la possibilitàò di una cessione parziale del contratto. La
cessione parziale non estingue il rapporto ma si limita ad un suo parziale trasferimento ferma restando la titolarità del
cedente per la quota non trasferita.
La cessione deve essere distinta anche rispetto alla nomina del terzo nel contratto per persona da nominare. La
persona nominata acquista la posizione scaturente dal contratto mentre la cessione comporta un acquisto derivativo
della posizione costituitasi in capo al cedente.
Analogo rilievo può essere fatto riguardo alla cessione dell’opzione e della proposta, quando siano consentite
dall’offerente. L’accettaizone dell’opzione o dell’offerta determina la costituzione del rapporto contrattuale
direttamente in capo al cessionario.
La cessione è una vicenda unitaria nel senso che si trasferisce il rapporto contrattuale, la posizione contrattuale quale
complesso di diritti ed obblighi scaturenti dal contratto.
I soggetti
La giurisprudenza e la dottrina ravvisano nel contratto di cessione un contratto plurilaterale che si perfeziona con la
partecipazione di 3 soggetti, cedente, cessionario e ceduto. Il consenso del ceduto è un elemento costitutivo della
cessione.
Non si manca di avvertire che la nozione di contratto plurilaterale si diffenzia rispetto alla nozione di contratto con
comunione di scopo, suscettibile di un numero indefinito di parti. Questa differenza viene sottolineata precisando che
si tratterebbe di un contratto trilatero.
La cessione non richiede determinata forma, la quale può essere necessaria in dipendenza della natura dei diritti
trasferiti (diritto al trasferimento di beni immobili, …) o della causa della cessione (donazione, …).
Il rapporto cedentecessionario
Il rapporto tra cedente e cessionario è il rapporto alienantealienatario scaturente dal contratto di cessione quale che
trasferisce una posizione contrattuale dal primo al secondo.
La posizione del cedente si trasferisce al cessionario per effetto del consenso. È necessario il consenso del contraente
ceduto, il quale può limitarsi ad approvare la cessione senza assumere gli impegni scaturenti dal contratto. Se
l’adesione del contraente ceduto è data preventivamente il contratto acquista efficacia al perfezionarsi dell’accordo
tra cedente e cessionario e la posizione contrattuale deve intendersi immediatamente trasferita. Le parti hanno
l’onere di portare a conoscenza del contraente ceduto la cessione per renderla opponibile a quest’ultimo.
La legge prevede a carico del cedente la garanzia sulla validità del cotnratto trasferito. Occorre rilevare che se la
cessione è a titolo oneroso l’impegno del cedente è di portata più ampia. Mediante la cessione il cedente si impegna
verso il cessionario all’attribuzione della posizione contrattuale ceduta. Il cedente è inadempiente tutte le volte inh cui
il cessionario non acquisisce la posizione contrattuale o acquisisce una posizione contrattuale che non corrisponde in
tutto o in parte a quella promessa.
In relazione all’impegno traslativo del cedente la garanzia della validità del contratto assume il significato di garanzia
contro tutte le cause giuridiche che precludono o compromettono l’operatività del vincolo. Il cedente risponde se il
contratto ceduto è nullo, inesistente o annullabile. Risponde anche se il contratto risulta inefficace tra le parti.
Se la cessione è a titolo gratuito la garanzia del cedente può ritenersi limitata alle ipotesi di evizione a carico del
donante.
Il cedente garantisce la validità del contratto ceduto ma non assume la garanzia dell’adempimento di esso.
La disciplina della cessione prevede la possibilità che il cedente assuma la garanzia dell’ademprimento. In tal caso la
responsabilità è regolata dalle norme sulla fideiussione.
L’accettazione è l’atto mediante il quale il contraente ceduto riconosce nel cessionario il nuovo titolare del rapporto
contrattuale. L’accettazione è un atto giuridico ricognitivo. Deve essere tenuta distinta rispetto al cosnenso costitutivo
del negozio di cessione. Essendo la cessione autorizzata, una nuova manifestaizone di consenso è irrilevante al fine di
produrre l’effetto traslativo.
Non sembra che l’accettazione possa essere ridotta ad una dichiarazione di scienza. Può osservarsi che l’accettazione
del contraente ceduto significa riconoscimento del vincolo nei confronti del nuovo titolare.
L’accettaizone non comporta l’assunzione del vincolo contrattuale nei confronti del cessionario quando tale vincolo sia
inesistente ne preclude al ceduto di opporre le eccezioni di invalidità e di estinzione del contratto. In tali casi la
resonsabvilità del ceduto che accetta la cessione può essere ravvisata come responsabilità per avere indotto il
cessionario a confidare nella validità del contratto acquisito.
I contratti all’ordine
Il contratto all’ordine è destinato alla circolazione mediante un documento con la clausola all’ordine o altra
equivalente. Il documento deve contenere gli elementi di identificazione del contratto.
Il cotnratto all’ordine si trasferisce mendiante la consegna del documento accompagnata dalla girata. Occorre tenere
presente che queste non sono formalità necessarie per il trasferimento che si realizza in base al principio del consenso
traslativo.
I contratti all’ordine non sono titoli di credito ma titoli impropri, documenti che servono a trasferire il diritto senza
l’osservanza delle forme della cessione. Mediante tali documenti diventa superflua la notificazione. Ciò si spiega in
quanto la predisposizione del documento quale strumento di circolazione del contratto fa cadere la presunzione di
titolarità del rapporto in capo all’originario contraente. La presunzione opera a favore del portatore del documento
legittimato dalla girata.
Il possesso del docimento accompagnato dalla girata è sufficiente a far presumere che il portatore sia il nuovo titolare
del diritto. Il ceduto deve attenersi a tale presunzione e non può pretendere altre prove.
Il subcontratto
Il subcontratto può essere definito come il contratto mediante il quale una parte reimpiega nei confronti di un terzo la
posizione che gli deriva da un contratto in corso, detto contratto base. Il subcontratto riproduce lo stesso tipo di
operazione ma la parte assume col terzo il ruolo inverso a quello che ha in tale contratto: il locatario che subloca
l’immobile diviene locatore, l’appaltatore che subappalta diviene committente, il depositario che subdeposita diviene
depositante, …
Altre ipotesi menzionate dalla legge (sublocazione, subenfiteusi, subappalto, …) si aggiungono alle altre ipotesi
desumibili dalla disciplina normativa e dalla pratica (submandato, subdeposito, subrasporto, …).
Si dubita se tali ipotesi si prestino ad essere riportate ad una figura unitaria. Elemento comune deve essere ravvisato
nel mantenimento del rapporto contrattuale di base tra le parti originaria. Così ad esempio il sublocatore continua ad
essere il conduttore del contratto di locazione. Il subcontratto non estingue il contratto base.
Il subcontratto rimane distinto rispetto alla cessione in quanto non opera il trasferimento della posizione
contrattuale. Al contratto base si aggiunge un uovo contratto che ha per oggetto posizioni giuridiche derivanti dal
primo. Il problema concerne i rapporti tra i due contratti e la possibilità di fissare regole valevoli per ikl subcontratto.
Le indicazioni in tema di sublocazione e submandato attribuiscono al locatore ed al mandante un’azione diretta verso
il suboconduttore ed il sub mandatario per l’adempimento delle obbligazioni derivanti dal subcontratto.
La ragione di questa azione può ravvisarsi in ciò, che l’operazione economica si realizza fra il contraente principale ed il
terzo subcontraente. Quest’ultimo esegue l’obbligazione nell’interesse del mandante ed il sub conduttore si
sostituisce nel godimento del bene al locatore. Medesima ragione può riscontrarsi in altre ipotesi di subcontratto a
giustificare la regola. Tale ragione potrebbe riguardare i contratti di rialienazione posto che il sub acquirente riceve un
bene che è fornito dal primo venditore, al quale potrebbe riconoscersi un preminente interesse ad esigere il prezzo da
parte del sub acquirente, nei limiti in cui il primo compratore sia inadempiente. A questa soluzione si oppone una
tradizione che intende il trasferimento del diritto reale come vicenda compiuta, e che vede nella rivendita un atto
dispositivo del diritto. Conferma la tradizione il principio della libera disponibilità della proprietà e dei diritti reali di
godimento mentre il subcontratto dipende dal contratto base. La tendenza normativa è restrittiva.
Così la facoltà di sublocazione è stata limitata alla sublocazione parziale; per gli immobili destinati ad uso non abitativo
la facoltà di sublocazione spetta al conduttore solo nei casi di cessione o locazione di azienda; il comodatario non può
concedere ad altri il godimento della cosa senza il consenso del comodante. Il divieto del subcontratto nei rapporti di
lavoro subordinato trova espressione nel divieto di ogni forma di interposizione.
I tentativi di spiegare la natura giuridica del subcontratto riducendolo ad altre figure negoziali non appaiono
convincenti. Si è voluto ravvisare nel subcontratto un collegamento negoziale. Il collegamento negoziale viene inteso
come un fenomeno di interdipendenza tra più contratti necessari per realizzare un programma unitario. Il riferimento
ad un’ampia nozione di collegamento negoziale non varrebbe a dare sufficiente connotazione al subcontratto.
Medesima osservazione può essere fatta qualora si volesse qualificare il subcontratto come un contratto accessorio
rispetto al contratto base.
Si è tentato di qualificare il subcontratto come contratto a favore di terzo.
Deve osservarsi che il richiamo alla figura del contratto a favore di terzo non risponde alla disciplina del subcontratto,
dove non vi è acquisto del diritto nei confronti del contraente principale.
Può dirsi che il subcontratto costituisce un’autonoma figura di dipendenza di un cotnratto rispetto ad un altro (sub
derivazione) caratterizzata dal reimpiego della posizione contrattuale derivante da un rapporto in corso di esecuzione.
L’ESTINZIONE
Nozione generale di estinzione del contratto
L’estinzione indica la definitiva perdita di efficacia del contratto. Le 2 figure di estinzione sono l’annullamento e la
risoluzione. L’annullamento estingue il contratto per causa di invalidità mentre la risoluzione estingue il contratto per
un evento impeditivo del rapporto. L’annullamento colpisce il contratto giuridicamente irregolare, la risoluzione
scioglie il rapporto contrattuale per un evento incompatibile con l’attuazione (recesso, inadempimento, impossibilità
sopravvenuta, …).
L’estinzione del contratto non deve essere confusa con l’estinzione dei singoli effetti del contratto. La perdita definitiva
di efficacia del contratto sta a significare che l’atto negoziale diviene improduttivo di effetti giuridici. L’idea di
estinzione del contratto viene espressa dicendo che il contratto viene cancellato o rimosso. Tali espressivo non devono
fare dimenticare che il contratto come fatto storico rimane, nella sua realtà di accordo stipulato dalle parti. La
risoluzione non nega questa realtà ma priva il contratto del valore dispositivo, dell’efficacia giuridica.
L’estinzione di singoli effetti è una vicenda distinta rispetto alla perdita di efficacia del cotnratto. Se ad esempio il
venditore rimette al compratore il debito relativo al prezzo ciò non tocca l’efficacia della vendita. Nei contratti a
prestazioni corrispettive l’estinzione di una delle obbligazioni per impossilbità sopravvenuta può portare alla
risoluzione del cotnratto, ma questa costituisce un risultato ulteriore ed eventuale rispetto alla vicenda concernente la
singola obbligazione.
Il mutuo dissenso
L’accordo delle parti che estingue un contratto con efficacia retroattiva prende il nome di mutuo dissenso. Può
definirsi come lo scioglimento consensuale del contratto.
È espressione dell’autonomia contrattuale, in quanto comporta il potere di dissolvere talli atti nel rispetto dei diritti
altrui.
La possibilità che l’accordo delle parti abbia ad oggetto l’estinzione di un rapporto contrattuale rientra nella
definizione del contratto (accordo per costituire, regolare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale). La legge
ribadisce che il contratto può essere sciolto per mutuo consenso delle parti. Il mutuo dissenso rimane distinto rispetto
ai contratti restitutori, mediante i quali le parti senza risolvere il contratto tendono a realizzare una vicenda
contrattuale inversa (patto di rivendita, …).
Col mutuo dissenso ciascuna delle parti perde il vantaggio derivante dal contratto e ciò spiega la necessità che l’atto
sia autorizzato alla stregua del contratto originario quando sussistono le condizioni che impongono tale controllo
(contratto stipulato nel nome del minore, …).
Il mutuo dissenso richiede la forma del contratto revocato, in quanto ha per oggetto una vicenda di eguale natura e
importanza.
Lo scioglimento per mutuo dissenso non pregiudica i diritti dei terzi aventi causa e dei creditori che abbiano compito
atti di esecuzione sui beni che per effetto dello scioglimento del contratto tornano nella sfera giuridica dell’altra parte.
Il mutuo dissenso è assoggettato lal regime di opponibilità del contratto originario.
Il recesso
Il negozio giuridico unilaterale può essere revocato dal suo autore salvo che sia sorto in capo al terzo un diritto
incompatibile con la revoca. Fino a quando il contratto non si è perfezionato ciascuna delle parti ha il potere di
revocare il proprio atto di consenso.
Il contratto non può essere sciolto unilateralmente dalla parte. Successivamente alla conclusione la revoca del
consenso è infatti preclusa dal principio della vincolatività del contratto (il contratto ha forza di legge tra le parti).
Los tesso contratto può accordare ad una delle parti o ad entrambe il potere di sciogliersi unilateralmente. La
disciplina indica tale facoltà come potere di recesso.
Il recesso è un atto negoziale unilaterale e recettizio che richiede la forma prescritta per il contratto revocato. Prevale
sui diritti dei terzi quando la clausola attributiva del potere sia resa opponibile conformemente al regime di
opponibilità valeìvole per il contratto principale.
Il potere negoziale atribuito alla parte di sciogliersi unilateralmente dal contratto può essere esercitato finchè il
contratto non abbia avuto esecuzione. La preclusione opera anche se non sia scaduto il termine fissato dal contratto
per l’esercizio del recesso.
Si ha principio di esecuzione quando l’effetto reale si è in tutto o in parte realizzato o quando la prestazione
obbligatoria è stata in tutto o in parte adempiuta. Nei contratti di alienazione la facoltà di recesso deve essere
esercitata prima che si produca l’effetto traslativo, salva diversa volontà delle parti. In deroga alla disciplina le parti
possono disporre che il potere di recesso sia esercitabile anche dopo che il contratto sia stato in tutto o in parte
eseguito.
La giurisprudenza è ferma nella soluzione negativa, ribadita quando si sia realizzato l’effetto reale, pur ammettendo il
ricorso alla condizione risolutiva potestativa.
Il rispetto del principio di buona fede esige che il potere di recesso unilaterale sia esercitato in maniera da
salvaguardare l’interesse dell’altra parte. L’importanza che il rapporto può avere per la parte e la difficoltà di trovare
immediato rimpiazzo possono richiedere che l’atto di recesso sia comunicato con congruo preavviso. In determinati
contratti tipici la legge fissa il termine minimo di preavviso del recesso (il conduttore di casa di abitazione che esercita
il recesso negoziale deve dare un preavviso di 6 mesi, …). La previsione normativa o convenzionale di un termine
minimo di preavviso deve intendersi nel senso che il recesso produce il suo effetto estintivo alla scandenza di tale
termine.
Ci si chiede se in mancanza di una previsione legale spetti alla parte il diritto di recedere dal contratto ad esecuzione
continuiata o periodica. La soluzione deve essere negativa se il contratto ha un termnine di durata stabilito. Se non ha
durata minima o se il termnine minimo è superato si ritiene che ciascuna delle parti sia libera di recedere salvo il
rispetto del principio di buona fede
L’inerzia successivamente alla scadenza del termine può importare il rinnovo del termine (disciplina della locazione,
…).
La multa penitenziale
Per l’esercizio del potere di recesso o di revoca può essere prevista una prestazione, a carico del recedente, detta
multa penitenziale. La revoca ha effetto a seguito dell’esecuzione della prestazione prevista.
La multa penitenziale non rappresenta una penale in quanto l’atto di recesso non costituisce ne presuppone un
inadempimento del recedente, il quale esercita un diritto. La multa penitenziale è il prezzo del recesso.
La prestazione può essere staiblità in forma di caparra penitenziale.
La caparra penitenziale
La caparra penitenziale è la somma versata al momento della conclusione del contratto da valere come corrispettivo
del recesso o della revoca.
A differnza della caparra confirmatoria quella penitenziale implica il diritto di recesso dal contratto. Tale diritto può
essere previsto a favore di entrambe le parti. Il contranete che esercita il recesso perde la caparra data o deve
restituire il doppio di quella ricevuta.
Che la caparra sia penitenziale anziché confirmatoria deve risultare dall’interpretazione della clausola. Se il contratto
attribuisce ad entrambe le parti il diritto di sciogliere il contratto, la caparra si intende come penitenziale.
A differenza della multa penitenziale la caparra penitenziale si accompagna alla
preventiva dazione della somma relativa. Per chi la riceve la caparra costituisce la garanzia di u soddisfacimento del
diritto a ricevere il corrispettivo del recesso.
In quanto integra un patto attributivo del diritto di recesso o di revoca trovano applicazione le norme valevoli per tali
figure. Trova applicazione la regola che consente alla parte di esercitare il potere di recesso fino a quando il contratto
non abbia avuto un principio di esecuzione.
Se il potere di recesso o di revoca non viene esercitato la caparra deve essere restituita salvo che abbia a contenuto
beni dello stesso genere della prestazione principale. In tal caso può essere imputata alla prestazione dovuta.